ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Due interrogativi sulla relazione tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari
di Luigi Salvato
Sommario: 1. Premessa. - 2. Caratteri del nesso tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare. - 2.1. Responsabilità civile e responsabilità disciplinare. - 2.2. Responsabilità disciplinare e professionalità. - 3. Discrasie tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare: eventuali lacune e possibili rimedi.
1. Premessa
La responsabilità disciplinare del magistrato costituisce un tema controverso, al quale è particolarmente sensibile l’opinione pubblica, divenuto centrale nel dibattitto politico soprattutto a partire dagli anni ’80, allorché è definitivamente tramontato il mito del giudice quale bouche de la loi e si è avuta, per ragioni note e non tipiche ed esclusive del nostro Paese, un’espansione del potere giudiziario. E’ così accaduto che «mentre “tradizionalmente l’immunità dei giudici non ha costituito l’oggetto frequente di liti”, in tempi più recenti “siccome i giudici hanno assunto poteri che li portano a decisioni concernenti interessi vitali”, è aumentato l’incentivo per le parti ad invocare la responsabilità personale dei giudici, un fenomeno che “è divenuto particolarmente evidente in casi concernenti le libertà civili (civil rights)»[1]. Restano dunque attuali le pur non recenti considerazioni con cui il C.s.m. ha ricordato[2] che «la società civile ed i cittadini tutti esprimono con crescente vigore una più che legittima esigenza di controllo dei pubblici poteri e di garanzia che coloro cui sono affidate pubbliche funzioni le adempiano con correttezza e nell’interesse generale», evidenziando le ragioni della complessità della questione. Ragioni identificabili, tra l’altro, nel fatto che la responsabilità del magistrato (non solo quella disciplinare) non definisce soltanto il sistema sanzionatorio delle regole di condotta del magistrato, ma costituisce anche una di tecnica di composizione dell’equilibrio tra poteri dello Stato[3] e che nella sua disciplina, come sottolineato nel 1990 dal Presidente della Repubblica, è «fortemente coinvolto il valore dell’indipendenza, strumento primo della garanzia di imparzialità e di indipendenza del giudice»[4], essendo peraltro molteplici le forme di responsabilità prefigurabili (sociale, politica, civile, amministrativa, disciplinare, oltre che penale), le quali si dipanano su piani e con effetti diversi e coinvolgono l’essenza stessa della funzione giurisdizionale[5].
Si tratta di questioni complesse, la cui soluzione richiede il bilanciamento di molteplici valori costituzionali e che, tuttavia, già nella loro prospettazione rischiano oggi di essere distorte dall’esplosione della diffusione di opinioni e/o informazioni a mezzo dei social media, che ha contribuito ad esaltare ambiguità ed equivoci che pure connotano il tema della responsabilità del magistrato. E’ infatti rimasta inascoltata «la sollecitazione a non confondere l’opinione pubblica di derivazione illuministica da questo indistinto aggregato, prodotto dall’insieme di acritici e passivi utenti di televisione e di rete, pronti ad accettare per vera un’opinione per il solo fatto che viene ripetuta e diffusa»[6], non avendosi altresì consapevolezza del rischio, insito nei social media, della «relativa facilità con cui le emozioni negative possono essere usate per creare dipendenza e manipolare [che] produce risultati aberranti», e delle cause e degli effetti di una «sfortunata combinazione di biologia e matematica»[7]. Anche per tale fenomeno si assiste al radicarsi di convincimenti in ordine alla finalità di determinati istituti giuridici ed all’applicazione che ne viene data le quali alimentano aspettative, conflitti e tensioni non di rado ingiustificati e che, tuttavia, non possono essere liquidati come irrilevanti per la considerazione – altrimenti, almeno in passato, dirimente – che in larga misura muovono da concezioni tecnicamente erronee, tenuto conto appunto del peso assunto da quell’aggregato indistinto e tumultuoso di ‘opinioni’ alle quali si è fatto cenno.
Non è dunque inopportuno svolgere qualche breve considerazione, articolata in due interrogativi, non per offrire risposte, ma per richiamare l’attenzione in ordine a possibili malintesi concernenti la responsabilità disciplinare del magistrato e la relazione tra questa, l’etica e la deontologia professionale.
2. Caratteri del nesso tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare
Il primo interrogativo induce a chiedersi se sussista una relazione inscindibile tra etica, deontologia professionale e responsabilità (in particolare, disciplinare) del magistrato.
Le tre nozioni, in linea generale, con riguardo agli appartenenti ad ordini professionali, ovvero ad un data organizzazione e/o apparato, sono tendenzialmente avvinte da un tale nesso. In sintesi, con l’improprietà insita in ogni semplificazione, il sostantivo ‘etica’, riferito alle condotte degli appartenenti a dette categorie, identifica infatti le regole di comportamento che si impongono nello svolgimento di un ruolo professionale socialmente identificato, che hanno radice nella morale, ma che assumono rilevanza giuridica in quanto recepite in specifici precetti di tale natura e che, conseguentemente, finiscono con coincidere con quelle, di identico contenuto, riconducibili alla deontologia professionale[8]. Tali precetti fissano regole ‘di ruolo’, preordinate cioè a stabilire le modalità da osservare nello svolgimento di date professioni ed attività, garantiti dalla previsione della responsabilità disciplinare nel caso in cui siano violati. La responsabilità disciplinare si caratterizza infatti all’interno del più ampio genus della responsabilità, in quanto dà luogo all’irrogazione di sanzioni che incidono sull’an e sul quomodo dello svolgimento di una data professione e/o attività e non è preordinata alla diretta ed immediata tutela di quanti siano stati lesi dalla violazione della regola di ruolo. La dimensione interna ad un ordine professionale e/o ad un apparato di detti precetti e la loro stessa finalità, in quanto strumentali esclusivamente a stabilire e garantire le regole di svolgimento di una data attività, giustificano che la loro enunciazione e l’irrogazione delle sanzioni, nel caso di violazione, siano riservate agli stessi. In tali ambiti sussiste, inoltre, una sostanziale coincidenza delle regole di etica (almeno di quelle direttamente rilevanti sul piano giuridico) e di deontologia professionale ed un inscindibile nesso tra queste e la responsabilità disciplinare, dipanandosi la complessiva vicenda in una dimensione tendenzialmente interna all’ordinamento di settore, il solo eminentemente ed immediatamente interessato dalla stessa.
Si tratta di caratteri che, all’evidenza, non sono predicabili con riguardo alla magistratura (in particolare, a quella ordinaria), non tanto in considerazione dei limiti di compatibilità della nozione di “disciplina” (in quanto sottintende un’organizzazione gerarchica, di tipo verticistico) con il particolare status del magistrato, bensì per la specificità delle ragioni e finalità delle regole di condotta che a questo si impongono, quale pubblico impiegato che svolge una peculiare funzione, di rilevanza costituzionale. Tali regole, prescrittive del ‘saper essere’ e del ‘saper fare’ il magistrato, diversamente da quanto accade in tutti gli altri ambiti, non sono infatti strumentali a garantire la coerenza del corpo cui egli appartiene, non mirano alla tutela dei valori propri di quest’ultimo e neppure esprimono un interesse autocorrettivo, ma sono preordinate alla tutela dell’ordinamento giuridico generale. La loro violazione lede direttamente l’interesse della generalità dei consociati e ciò spiega e giustifica perché dei provvedimenti disciplinari si occupino ben due norme della Costituzione (artt. 105, 107, primo comma) e perché l’identificazione degli illeciti competa in via primaria al Parlamento, costituendo la stessa, come anche il relativo procedimento sanzionatorio, uno strumento di responsabilizzazione della magistratura dinanzi alla sovranità popolare e di rottura della separatezza dell’ordine giudiziario.
L’individuazione dei valori tutelati e delle condotte che li vulnerano è dunque costituzionalmente riservata a chi può esprimere tali valori: il legislatore e, nel precedente sistema, il giudice disciplinare, e cioè la Sezione disciplinare in quanto articolazione del C.s.m., tenuto conto della sua collocazione costituzionale e delle modalità della composizione. Al riguardo, va ricordato che la Corte costituzionale ha infatti escluso «che il Consiglio superiore rappresenti, in senso tecnico, l'ordine giudiziario», ovvero che realizzi «il cosiddetto autogoverno»[9], negando che il C.s.m. eserciti funzioni di rappresentatività dell’ordine giudiziario, tenuto altresì conto della sua composizione, volta ad evitare che «l'ordine giudiziario abbia a porsi come un corpo separato»[10]. Nella logica del disegno costituzionale, è stato sottolineato, il Consiglio deve essere «garantito nella propria indipendenza» anche «nei rapporti con l'ordine giudiziario», con il quale dunque non si identifica[11]. Efficacemente il C.s.m., nel richiamato parere del 1984, sottolineò la diversità della responsabilità disciplinare dei magistrati rispetto a quella degli appartenenti agli ordini professionali e degli altri pubblici dipendenti, osservando che l’identificazione degli illeciti compete appunto in via primaria al Parlamento e la disciplina dei magistrati è sottoposta a riserva di legge (art.105 Cost.), costituendo «uno strumento di responsabilizzazione della magistratura dinanzi alla sovranità popolare, di rottura della separatezza dell’ordine e di costruzione di una deontologia non corporativa». La responsabilità disciplinare ed il relativo procedimento – ha ancora puntualizzato il giudice delle leggi – consiste «nell’assicurazione del regolare e corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, vale a dire una funzione che gode in Costituzione di una speciale garanzia di indipendenza e di autonomia» ed è questa la ragione che giustifica la strutturazione del procedimento secondo un modulo giurisdizionale, allo scopo della più rigorosa tutela dei beni costituzionalmente protetti[12] e con una regolamentazione particolare che riflette il proprium dell’ordine giudiziario[13]. Per tali ragioni, l’enunciazione delle regole etiche (nell’accezione rilevante nella dimensione giuridica) e deontologiche (che, come detto, ai fini qui di interesse coincidono) la cui violazione è sanzionata con la responsabilità disciplinare è dunque sottratta all’ordine cui appartiene il magistrato.
Nel sistema dell’illecito atipico, la genericità della formulazione della norma prescrittiva della regola di condotta e della sanzione[14], riservando al giudice disciplinare un potere assai ampio di identificare i valori tutelati, determinava una sostanziale coincidenza dei precetti etico/deontologici – intesi quali regole di comportamento che si impongono nell’esercizio della funzione – con quelli suscettibili di dare luogo a responsabilità disciplinare, stabiliti dallo stesso giudice nell’attività di integrazione del contenuto dell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946. Nell’ordinamento si è tuttavia prodotta una frattura tra regola deontologica e regola disciplinarmente sanzionabile allorché è stato previsto il codice etico dei magistrati, attribuendone l’approvazione all’A.N.M. (con l’art. 58-bis del d.lgs. n. 29 del 1993, poi trasfuso nell’art. 54 d.lgs. n. 165 del 2001). Le perplessità ed i dubbi, anche di legittimità costituzionale, in ordine ad una tale previsione[15] sono in parte mitigati dalla considerazione che, secondo la Magna Carta dei giudici, i principi della deontologia «devono emanare, quanto a redazione, dagli stessi giudici» (art. 18), benchè sia invece più sfumata sul punto la Raccomandazione CM / Rec (2010) n. 12 del Comitato dei Ministri agli stati membri sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità, in quanto prevede che i principi deontologici «devono essere sanciti in codici di etica giudiziaria», ed «i giudici devono assumere il ruolo principale nella preparazione di tali codici» (cap. VIII, § 73), esigendo dunque soltanto che sia garantita la maturazione e condivisione con i giudici degli improrogabili principi che si impongono nello svolgimento della funzione. In disparte detti dubbi, è qui sufficiente ricordare che deve ritenersi pacifica la riconduzione del codice etico nell’ambito della soft law e l’impossibilità, anche per le ragioni di ordine costituzionale sopra richiamate, di sanzionare disciplinarmente la violazione dei precetti nello stesso contenuti. Nondimeno, nella vigenza del sistema dell’illecito disciplinare non tipizzato l’ampiezza del potere attribuito al giudice disciplinare gli consentiva di riempire la generica previsione del richiamato art. 18 anche avendo riguardo ai precetti del codice etico, che finivano in tal modo per essere indirettamente presidiati dalla responsabilità disciplinare.
E’ quindi con la riforma realizzata dal d.lgs. n. 109 del 2006 e con la tipizzazione dell’illecito disciplinare che è maturato il definitivo distacco della regola deontologica contenuta nel codice etico da quella prescrittiva del comportamento ‘di ruolo’ che si impone al magistrato la cui inosservanza può dare luogo a responsabilità disciplinare. La tipizzazione ha infatti comportato che le condotte disciplinarmente sanzionabili sono soltanto ed esclusivamente quelle previste come tali dal legislatore, e cioè dal ‘codice disciplinare’ (contenuto nel d.lgs. n. 109 del 2006), non anche dal ‘codice etico’. Conseguentemente, agli organi della giurisdizione disciplinare è rimasto attribuito l’unico ed esclusivo compito di accertare e stabilire se una determinata condotta ascrivibile ad un magistrato integri gli elementi costitutivi di una delle fattispecie tipizzate. L’ambito di detta giurisdizione è stato precisamente perimetrato dalle Sezioni Unite civili, affermando che le disposizioni del d.lgs. n. 109 del 2006, «[a]gli artt. 2, 3 e 4 elencano minuziosamente gli illeciti disciplinari» e, quindi, «è la stessa legge che individua le condotte disciplinarmente rilevanti in contrasto con i doveri del magistrato. Ne consegue […] che la violazione delle regole deontologiche non sempre è sanzionata disciplinarmente». L’elencazione generale dei doveri contenuta nell’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006 ha una «funzione prevalentemente simbolica (o se si vuole "pedagogica") e deontologica (…) che può assumere rilievo solo nell'ambito delle valutazioni rimesse al giudice in presenza di clausole generali quali quelle della scarsa rilevanza del fatto, della giustificabilità o della scusabilità della condotta», con la conseguenza che, «al di fuori di tali ipotesi, il sillogismo giuridico richiesto per affermare o escludere la responsabilità disciplinare comporta soltanto il confronto tra la fattispecie astratta e la condotta del magistrato».
Nel vigente sistema dell’illecito tipizzato – in virtù dei principi di legalità e tassatività della fattispecie, tenendo altresì conto dell’ammissibilità dell’interpretazione estensiva, ma non di quella analogica – i precetti del codice etico costituiscono dunque meri punti di riferimento utilizzabili da parte del giudice disciplinare esclusivamente nell’attività di riempimento delle residue clausole generali contenute nelle fattispecie contemplate dal d.lgs. n. 109 del 2006. Resta in ogni caso escluso, come convincentemente sottolineato da Gabriella Luccioli, che questo profilo di connessione possa far diventare le regole del codice etico «parametri per incolpazioni disciplinari» e far individuare quali illeciti disciplinari «fatti di diretta violazione di norme deontologiche, con un chiaro stravolgimento della loro natura e della loro funzione e con una non consentita assunzione della giurisdizione disciplinare quale strumento di applicazione del codice etico, la cui violazione si colloca al di sotto della soglia dell’illecito disciplinare»[16].
L’introduzione del sistema dell’illecito disciplinare tipizzato e l’attribuzione della locuzione di ‘codice etico’ a quello approvato dall’A.N.M. comportano, in primo luogo, che i precetti etici e di deontologia professionale (nella coincidenza che, come detto, esiste tra dette regole nella dimensione giuridicamente rilevante) non hanno (e non possono avere) rilevanza ex se dal punto di vista disciplinare; in secondo luogo, fanno sì che le regole di etica e di deontologia professionale del magistrato si articolano su due differenti piani, che procedono parallelamente, con la conseguenza che soltanto la violazione di quelle recate dal ‘codice disciplinare’ è presidiata dalle sanzioni previste dal d.lgs. n. 109 del 2006. Tale distinzione non di rado è, purtroppo, del tutto pretermessa e si dimentica che vi sono casi in cui esiste un divario tra la regola fissata dal codice etico e da quello disciplinare e, quindi, accade che una condotta, benché lesiva dei precetti posti dal primo, non è sanzionabile ai sensi del secondo. Emblematica in tal senso è, tra le altre, la discrasia concernente il dovere di riserbo. La declinazione disciplinare di tale dovere si articola esclusivamente nei tre distinti illeciti funzionali previsti dalle lettere v), u) e aa) dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006[17] – sostanzialmente coincidenti con quelli oggetto dell’art. 6, primo e secondo comma, del codice etico –, oltre che in quelli dell’art. 2, comma 1, lettera d) (nel caso in cui la condotta integri un comportamento abitualmente o gravemente scorretto nei confronti dei soggetti contemplati da detta previsione) e dell’art. 4 (se l’esternazione integri un reato). Le disposizioni previste dal terzo e quarto comma dell’art. 6 del codice etico[18] prevedono invece ulteriori condotte, eticamente più impegnative, che tuttavia non sono state tradotte in disposizioni normative per i profili disciplinari e, quindi, la loro violazione giammai può costituire oggetto di un’incolpazione e, a fortiori, di una sanzione disciplinare.
In definitiva, sussistono due divergenti nozioni di deontologia professionale: una è quella declinata dal codice etico; un’altra è quella fissata dal codice disciplinare ed è solo la violazione delle regole poste da quest’ultimo che può dare luogo a responsabilità disciplinare. Tra dette nozioni esiste una relazione che è solo di tendenziale contiguità e, appunto per questo, sono ipotizzabili casi in cui si verifica una discrasia delle regole deontologiche, evidentemente rilevante ai fini dell’identificazione della sanzione che ne presidia l’osservanza[19]. Si tratta di una distinzione che ineluttabilmente si impone ai fini della corretta applicazione delle norme e che, tuttavia, non di rado sembra del tutto dimenticata. In non infrequenti casi è infatti malamente invocata l’applicazione di una sanzione disciplinare (stigmatizzando una presunta inerzia al riguardo) in relazione a condotte che violano le regole del codice etico, senza considerare che queste non risultano contenute nel codice disciplinare, con evidenti, intuitive, ricadute negative, soprattutto di carattere mediatico, ad onta della palese inesattezza ed insostenibilità di una siffatta prospettazione.
2.1. Responsabilità civile e responsabilità disciplinare
Se è netta ed incontrovertibile la distinzione tra regole del codice etico e del codice disciplinare, altrettanto certa e chiara è quella tra responsabilità disciplinare e responsabilità civile.
La responsabilità civile concerne i rapporti del magistrato con le parti processuali o con altri soggetti ed è caratterizzata da una funzione e da una ratio sua propria, in quanto è preordinata a garantire il diritto al risarcimento del danno subito dal cittadino per effetto dell’esercizio non corretto della funzione statuale di giurisdizione.
La responsabilità disciplinare invece non è anzitutto uno strumento di garanzia della esattezza delle decisioni, ma non è inoltre neanche un rimedio approntato per assicurare la tutela dei diritti eventualmente lesi da condotte e/o provvedimenti del magistrato. Essa è infatti preordinata esclusivamente a sanzionare la violazione dei doveri del magistrato normativamente tipizzati nelle fattispecie di illecito disciplinare, che può comportare l’irrogazione di sanzioni le quali incidono soltanto ed esclusivamente sul rapporto di impiego, in una vicenda alla quale resta dunque estraneo il soggetto che pur ne abbia eventualmente patito le conseguenze. Peraltro, ciò neppure determina un vuoto di tutela, in quanto colui che sia stato leso da condotte e/o provvedimenti scorretti del magistrato può (e deve, se e quando lo ritenga) agire facendo valere la responsabilità civile, qualora ne sussistano i presupposti. I due tipi di responsabilità possono, ma certo non necessariamente devono, concorrere; i relativi procedimenti sono improntati al principio della reciproca autonomia, non sussistendo né un vincolo decisionale derivante dall’esito del giudizio civile in quello disciplinare (art. 20, comma 1, d.lgs. n. 109 del 2006) e viceversa, né un rapporto di pregiudizialità, con la conseguenza che le due azioni sono contemporaneamente esperibili, in ambiti ed a fini diversi[20].
2.2. Responsabilità disciplinare e professionalità
La tipizzazione dell’illecito disciplinare rende altresì certa la distinzione tra responsabilità disciplinare e professionalità. La professionalità condensa l’insieme delle regole che costituiscono patrimonio comune della funzione magistratuale, comprensive del complesso novero di strumenti preordinati a garantire il ‘saper fare’ il magistrato che, per la specificità della funzione e per i valori dalla stessa coinvolti, finiscono con coincidere con quelle concernenti il ‘saper essere’ magistrato, avvinte da un nesso inestricabile. Le regole relative alla professionalità sono stabilite, in larga misura, dagli atti consiliari e, in virtù del principio della tipizzazione dell’illecito, la loro violazione è sanzionabile disciplinarmente soltanto se e quando integrino una delle fattispecie contemplate dal d.lgs. n. 109 del 2006. Può così accadere che vi siano casi nei quali si riscontra l’inosservanza delle regole della professionalità, senza che risultino tuttavia integrati tutti gli elementi costitutivi di una delle fattispecie di illecito tipizzate e che, quindi, restano sottratti alla responsabilità disciplinare[21].
La diversità dei due ambiti comporta che tra valutazioni di professionalità e giudizio disciplinare vi è una reciproca autonomia, che peraltro neppure vuol dire completa irrilevanza e/o indifferenza, vertendosi in «una ipotesi di pluriqualificazione giuridica della fattispecie, a fini disciplinari ed a fini di progressione di carriera»[22].
3. Discrasie tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare: eventuali lacune e possibili rimedi.
Le rilevate discrasie danno corpo al secondo interrogativo, poiché inducono a chiedersi se possano profilarsi carenze di sistema, in considerazione della ipotizzabilità di condotte eticamente e deontologicamente riprovevoli secondo il codice etico fissato dall’A.N.M. (alla quale per precisa scelta del legislatore ne è stata attribuita l’approvazione, con l’efficacia sopra descritta), ovvero comunque in contrasto con i precetti della professionalità fissati negli atti consiliari, che restano tuttavia disciplinarmente irrilevanti, in quanto non riconducibili alle fattispecie contemplate dal codice disciplinare.
L’interrogativo sottintende un problema reale e che può destare preoccupazione, ma che, per essere apprezzato al giusto, richiede anzitutto di identificare esattamente contenuto e finalità dei differenti istituti approntati per garantire l’osservanza dei doveri che si impongono al magistrato, perché soltanto l’esatta enunciazione di tale premessa consente di accertare se vi siano, e quali siano, le criticità del sistema della responsabilità disciplinare definito dal d.lgs. n. 109 del 2006. Le perplessità prospettate al riguardo, per vagliarne la fondatezza, esigerebbero peraltro di prestare attenzione ai dati statistici (e non solo)[23], apprezzandoli non soltanto in valore assoluto, ma anche in comparazione (in termini percentuali) con quelli di altri ambiti (professionali e della P.A.). Per saggiare la validità della risalente considerazione in ordine ad una sorta di immunità mantenuta dal sistema, in quanto «sanzioni come l’ammonimento e la censura non hanno più alcuna influenza pratica»[24], occorrerebbe poi verificare se le sanzioni più ‘lievi’ restino davvero prive di rilevanza nel successivo percorso professionale, tenendo altresì conto della possibile incidenza su di esso anche dei fatti accertati e non riconducibili ad un illecito tipizzato e delle conseguenze (sul piano professionale) pur solo della pendenza del procedimento.
La corretta formulazione dell’interrogativo richiede altresì di avere ben chiaro che la responsabilità disciplinare, tenuto conto della descritta finalità che la connota, non costituisce e non può costituire il presidio (almeno, non in modo diretto ed immediato) dei diritti dei cittadini oggetto di un determinato processo (civile o penale), la cui tutela può e deve essere assicurata all’interno di questo, attraverso i rimedi contemplati dalla legge processuale, e mediante tutti quelli previsti dall’ordinamento per garantire il ristoro dei danni “da’ e ‘nel’ processo[25]. Sicuramente, inoltre, non è neanche uno strumento preordinato a garantire correttezza ed esattezza delle decisioni, ovvero a garantire, in modo diretto ed immediato, la professionalità dei magistrati. Il vigente sistema, improntato al principio della tipizzazione degli illeciti, costituisce dunque conseguenza della scelta legislativa di non ricondurre qualsiasi patologia delle condotte dei magistrati nell’alveo sanzionatorio della giustizia disciplinare, in sé non aprioristicamente censurabile. Richiamando una riflessione svolta in ordine al diritto penale[26], ma reiterabile in relazione al diritto punitivo latamente inteso, appare infatti scarsamente convincente l’idea di spostare in tale ambito l’orientamento valoriale di determinate condotte, snaturandone la funzione propria, con il rischio di non cogliere la complessità del fenomeno e di non affrontare in modo corretto i problemi che lo stesso pone, qualora l’attenzione venga appunto limitata ai soli risvolti punitivi. D’altronde, la distinzione dei precetti deontologici, a seconda che siano o meno sanzionabili disciplinarmente, neppure è tipica ed esclusiva del nostro ordinamento. E’ stabilita infatti anche dalla Magna Carta dei giudici, secondo cui «l’azione dei giudici deve essere guidata da principi di deontologia, distinti dalle norme disciplinari» (art. 18). La richiamata Raccomandazione CM / Rec (2010) n. 12, disponendo che «nella loro attività i giudici devono essere guidati da principi deontologici di condotta professionale» e precisando che «tali principi non solo ricomprendono doveri suscettibili di sanzione disciplinare, ma forniscono anche indicazioni ai giudici sul come comportarsi» (cap. 8, § 72), neppure sembra prefigurare l’inscindibilità del nesso tra regola della deontologia professionale e responsabilità disciplinare.
Nondimeno, è certo che occorre garantire in modo congruo l’osservanza delle regole concernenti il ‘saper essere’ ed il ‘saper fare’ il magistrato, finalità da perseguire anzitutto, e soprattutto, rinvigorendo la formazione, rendendola davvero in grado di costruire una casa comune. Occorre infatti garantire la maturazione del convincimento che il codice etico costituisce «non solo o non tanto un insieme di regole da osservare, ma un abito mentale, la cifra della nostra condotta quotidiana, quella che fa essere rigorosi e sobri nel comportamento e riflette la piena consapevolezza della fisionomia costituzionale della funzione esercitata»[27]. Ed è altresì improrogabile rendere congrui e più efficaci gli strumenti del sistema ordinamentale che possono prevenire, prima ancora di reprimere, le cadute di professionalità e che, quindi, meglio garantiscono i cittadini. L’effettivo controllo dell’osservanza dei doveri in occasione sia delle valutazioni di professionalità periodiche sia delle altre previste dall’ordinamento (all’atto del conferimento e/o della conferma degli uffici semidirettivi e/o direttivi), sia da parte dei capi degli uffici, qualora emergano anomalie, in tesi disciplinarmente irrilevanti eppure sintomatiche della violazione dei doveri imposti dalla deontologia professionale, resta la strada da privilegiare in vista del rafforzamento della credibilità e dell’efficienza della funzione giudiziaria. Gli organi disciplinari intervengono infatti quando tutti gli altri presìdi sono stati superati ed il danno è stato già fatto; comunque, ad essi non può essere chiesto qualcosa di diverso dalla punizione della condotta patologica. Sono dunque le regole della professionalità che costituiscono il reale, efficace, strumento di garanzia e presidio dei valori costituzionali e dell’ordinamento, comuni all’intera generalità dei cittadini e non propri del solo ordine giudiziario. Significativamente, nella Magna Carta dei giudici è rimarcato che «la formazione iniziale e permanente è, per il giudice, un diritto ed un dovere» e costituisce «un importante elemento di garanzia dell’indipendenza dei giudici, nonché della qualità e dell’efficacia del sistema giudiziario» (art. 8). Facendo cadere l’accento tonico sulla professionalità si evita inoltre il rischio di indulgere in formulazioni etiche astratte, che rischiano di smarrire la peculiarità della funzione e rendere incerto lo stesso contenuto delle condotte disciplinarmente censurabili.
Con tali precisazioni, resta comunque il dubbio in ordine alla completezza e congruità del catalogo degli illeciti tipizzati. Il precedente sistema, incentrato sulla clausola generale dell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, aveva costituito oggetto di un ampio dibattito, caratterizzato dalla prevalenza delle critiche, formulate anche muovendo da premesse differenti e che, tuttavia, convergevano nello stigmatizzare l’eccesiva ampiezza ed indeterminatezza del potere attribuito al giudice disciplinare. La Corte costituzionale aveva peraltro ritenuto sostanzialmente impossibile la tipizzazione, in considerazione della necessità di fare riferimento a principi deontologici insuscettibili di compressione in schemi preordinati, reputando quindi compatibile la clausola generale con il principio di legalità, tenuto conto dello «uso di espressioni sufficienti ad individuare con certezza il precetto»[28], riferentesi a valori chiaramente individuati secondo la comune opinione ed in quanto il «prestigio dell’ordine giudiziario» non è un valore formale ed esteriore, se inteso, come necessario, quale «credibilità della funzione», e cioè come «considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione», «fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria». Di diverso avviso erano stati invece il Presidente della Repubblica[29] ed il C.s.m.[30], mentre un’autorevole dottrina aveva icasticamente sottolineato che il richiamato art. 18 faceva sì che l’organo disciplinare, all’atto della valutazione della condotta, poneva un divieto “ora per allora”, sostanzialmente affermando: «ti punisco perché hai violato il precetto che ora io pongo»[31].
Il difficile bilanciamento delle esigenze di garanzia (sottesa alla tipizzazione) e di completezza della disciplina (messa in crisi dalla previsione di un catalogo chiuso di illeciti) era stato realizzato prevedendo nel d.lgs. n. 109 del 2006 due clausole di chiusura per gli illeciti funzionali[32] e per quelli extrafunzionali[33], sostanzialmente recependo un’indicazione fornita dalla cd. Commissione Paladin[34]. Tali disposizioni furono però abrogate dalla legge n. 269 del 2006 e ciò ha reso concreto il rischio della tenuta e della congruità del complessivo sistema sul piano applicativo, «laddove una serie di condotte, non perfettamente rientranti nelle fattispecie tassativamente descritte, pur rivestendo ugualmente un carattere lesivo del bene protetto, potrebbero sfuggire alla sanzione disciplinare»[35]. Si tratta di una preoccupazione meritevole di attenzione, anche in quanto, come detto, la scelta della tipizzazione rigida non è costituzionalmente obbligata. Resta dunque aperta la possibilità di operarne una diversa, riservata alla discrezionalità del legislatore ordinario all’esito di una riflessione e di un dibattito che involge il bilanciamento di fondamentali valori costituzionali e che comunque non può consistere in quello ospitato dai social media, in quanto risolventesi, in buona sostanza, nelle apodittiche ed immotivate affermazioni contenute nei tweet e/o nei post.
[1] M. Cappelletti, Giudici irresponsabili ?, Milano, 1988, 13, richiamando la dottrina straniera.
[2] Nella premessa del parere reso nel settembre del 1984 su un disegno di legge sulla responsabilità del magistrato presentato nel corso della IX Legislatura.
[3] A. Giuliani-N. Picardi, La responsabilità del giudice, Milano, 1987, 183.
[4] Messaggio alle Camere (a norma dell’art. 87, secondo comma, della Costituzione), del 26 luglio 1990.
[5] M. Cappelletti, Giudici irresponsabili ?, cit., 13.
[6] F. Ippolito, Recuperare la fiducia e non rincorrere il consenso, Questione Giustizia, 2018, 4, 235, richiamando R. Parascandolo, Internet: opinione di massa ed economia del gratis, relazione al convegno “Quarto potere” del 23 gennaio 2019, organizzato dalla Fondazione Basso e da Filosofia in movimento, in www.fondazionebasso.it.
[7] La considerazione è di Jason Lanier (Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Milano 2018, 26), uno dei guru della Silicon Valley, che, grazie alla sua esperienza ‘dal di dentro’ e muovendo da dati di ordine tecnico (concernenti la modalità di funzionamento della nuova tecnologia, di cui la gran parte di noi, meri utenti, non ha consapevolezza), ha efficacemente richiamato l’attenzione sul problema della «modificazione del comportamento implacabile, robotica e fondamentalmente insensata messa al servizio di manipolatori invisibili e algoritmi indifferenti» e sui rischi insiti per il modo in cui possono orientarlo, determinando la formazione del consenso e finanche il radicarsi di convinzioni cospirative, come è emerso a seguito dell’esplodere dello scandalo di Cambridge-Analytica e del White Supremacism statunitense.
[8] Nella vasta letteratura sul tema, per riferimenti sui concetti di etica e deontologia con riguardo alla magistratura, gli atti di un convegno dell’A.N.M. tenuto nel 2005 a Napoli, nel volume Deontologia giudiziaria-Il codice etico alla prova dei primi dieci anni, a cura di Aschettino-Bifulco-Epineuse, Sabato, Napoli, 2006.
[9] Corte cost. n. 142 del 1973.
[10] Corte cost. n. 142 del 1973.
[11] Corte cost. n. 143 del 1983.
[12] Corte cost. n. 289 del 1992, n. 145 del 1976.
[13] Corte cost. n. 119 del 1995.
[14] L’art. 18 r.d.lgs. n. 511 del 1946 recitava: «Il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari».
[15] Tra le tante perplessità accennate nel testo vanno ricordate quelle volte ad evidenziare che è stato imposto con un atto avente forza di legge ad una associazione privata, quale è l’ANM, che, per la sua composizione “chiusa” (all’interno, come all’esterno), è solo parzialmente esponenziale solo dell’ordine giudiziario; su tali profili, ex plurimis, A. Cerri, La bozza di “codice etico” del magistrato, Critica del diritto, 1994, 43; L. De Ruggiero-G. Ichino, Il codice etico dei magistrati. Una prima riflessione in tema di deontologia, Questione giustizia, 1994, 17; A. Rossi, Prime riflessioni sul codice etico della magistratura, ivi, 1993, 805.
[16] G. Luccioli, I principi deontologici nella professione del magistrato, wwwgiudicedonna.it, 1, 2018.
[17] Che riguardano, rispettivamente, i limiti alle pubbliche dichiarazioni o interviste (lettera v), l’illecita divulgazione di atti e le violazioni dei doveri di riservatezza (lettera u) e, infine, il divieto di sollecitare la pubblicità di notizie attinenti il proprio ufficio e di utilizzazione di canali informativi personali (lettera aa).
[18] I quali prevedono: «Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione.
Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica».
[19] L. Salvato, L’attività nel settore disciplinare, https://www.procuracassazione.it/procuragenerale-resources/resources/cms/documents/Bilancio_sociale_2018_allegati.pdf, 5.
[20] Per ragioni di sintesi, mi sia concesso rinviare ad Ambiguità ed equivoci in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, Cass. pen, 2019, 1, 32, essendo qui sufficiente ricordare che: l’acquisizione della notizia della proposizione di un giudizio civile di danno ex lege n. 117 del 1988 non impone, da sola, l’esercizio dell’azione disciplinare per i fatti che vi hanno dato causa; il procedimento non è, di regola, soggetto a sospensione per pregiudizialità (art. 15, comma 8, lettera d-bis, d.lgs. n. 109 del 2006) rispetto alla causa civile di danno verso lo Stato, vi sia o non vi sia in quest’ultima l’intervento volontario del magistrato, o rispetto al giudizio di rivalsa; l’azione disciplinare deve essere esercitata se e quando i fatti che hanno dato causa all’azione civile di danno e che sono stati comunicati all’Ufficio integrino gli estremi di una ipotesi disciplinare tipizzata a norma dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006, indipendentemente dalla valutazione che sia data ai fatti in ambito civile; la definizione, con pronuncia passata in giudicato, della causa civile di danno o del giudizio di rivalsa non ha efficacia nel processo disciplinare
[21] Esemplificativamente, è sufficiente ricordare che, secondo il d.lgs. n. 109 del 2006, «si presume non grave, salvo che non sia diversamente dimostrato, il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto» (art. 2, comma 1, lettera q), sicchè può darsi il caso di ritardo nel deposito di sentenze non disciplinarmente sanzionabile e che, tuttavia, bene può (e dovrebbe) assumere rilevanza in relazione ai parametri di valutazione della diligenza e laboriosità del magistrato.
[22] Cons. Stato, Sez. IV 26 febbraio 2019, n. 1339, per un recente approfondimento delle relazioni tra procedimento di valutazione della professionalità e giudizio disciplinare, P. Serrao d’Aquino, Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Parte seconda. I nodi problematici: le fonti di conoscenza, il rapporto con il disciplinare, gli sfasamenti temporali, le modalità espressive, www.giustiziainsieme.it.
[23] Contenuti nelle Relazioni del Procuratore Generale della Corte di cassazione redatte in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, riportate (quelle degli ultimi anni) nel sito web della Procura Generale.
[24] G. Rebuffa, La funzione giudiziaria, Torino, 1993, 105.
[25] Il riferimento è oltre che alla responsabilità civile - che, come detto supra nel testo, colui che si ritenga leso da un atto o da un comportamento del magistrato può far valere, a prescindere (ed indipendentemente) dalla responsabilità disciplinare, dalla quale è del tutto svincolata - all’equa riparazione per irragionevole durata del processo (legge 24 marzo 2001, n. 89), all’equa riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 c.p.p.) ed alla riparazione dell’errore giudiziario (artt. 643-647 c.p.p.).
[26] Il riferimento è al Discorso del P.G. della Corte di cassazione, Giovanni Salvi, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, https://www.procuracassazione.it/procuragenerale-resources/resources/cms/documents/Intervento_Procuratore_generale.pdf.
[27] G. Luccioli, I principi deontologici nella professione del magistrato, cit.
[28] Corte cost. n. 100 del 1981.
[29] Rimarcando nel Messaggio alle Camere del 26 luglio 1990 che la tipizzazione è la «unica scelta aderente e forse l’unica coerente con il principio di legalità».
[30] Esprimendosi, nel richiamato parere del 1984, favorevolmente alla tipizzazione, pur riconoscendone la difficoltà, suggerendo che fossero «inequivocabilmente espressi i valori deontologici che si intendono tutelare» e venissero configurate «fattispecie tipizzate riconducibili, quasi indicazioni paradigmatiche, ad un idea generale del complesso dei doveri imposti dalla funzione».
[31] G. Zagrebelsky, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Considerazioni su alcuni aspetti generali, in Scritti in onore di C. Mortati, IV, Milano, 1977, 857.
[32] Art. 2, lettera i), che sanzionava «il perseguimento di fini estranei ai suoi doveri ed alla funzione giudiziaria».
[33] Art. 3, lettera l): «ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza».
[34] Che nella relazione conclusiva trasmessa al Presidente della Repubblica il 10 gennaio 1992 aveva sottolineato che il rispetto della riserva assoluta di legge «non porta ad escludere la legittimità – o addirittura l’indispensabilità – dell’inserzione di una o più norme di chiusura, in calce all’elenco degli illeciti disciplinari “tipizzati”», aventi «un valore interpretativo delle norme stesse», in modo da delimitare l’ambito della discrezionalità del giudice.
[35] S. Erbani, Gli illeciti disciplinari dei magistrati, in Ordinamento giudiziario. Organizzazione e profili processuali, a cura di D. Carcano, Milano, 2009, 439.
Stranieri dei Paesi terzi e assegno per il nucleo familiare: parità di trattamento e integrazione nel dialogo tra le Corti(*)
di Chiara Colosimo(**)
Abstract: I rinvii pregiudiziali sulla compatibilità con la Direttiva 2003/109/CE e la Direttiva 2011/98/UE delle previsioni di cui all’art. 2 Legge 153/1988 – che consentono al solo cittadino italiano di computare nel proprio nucleo familiare anche familiari residenti all’estero, mentre agli stranieri dei Paesi terzi di considerare i soli familiari residenti in Italia – sono l’occasione, per la Corte di Giustizia, di soffermarsi sulla rilevanza del processo di integrazione e sulla necessità di salvaguardare le finalità della legislazione europea, garantendo ai cittadini dei Paesi terzi, che risiedano legalmente nel territorio di uno Stato membro, equità e parità di trattamento: strumento imprescindibile nel consolidamento del legame con lo Stato ospitante e nella realizzazione di una società complessivamente più coesa.
Sommario: 1. Premessa, la fisionomia di un istituto complesso - 2. Lo stato dell’arte sul trattamento riconosciuto agli stranieri dei Paesi terzi - 3. La questione al vaglio delle Corti - 3.1. I dubbi interpretativi del Giudice di Legittimità nazionale - 3.2. L’intervento del Giudice Europeo – 4. L’effettività dell’integrazione nella parità di trattamento.
1. Premessa, la fisionomia di un istituto complesso
L’assegno per il nucleo familiare[1] è una prestazione economica erogata dall’INPS ai nuclei familiari di alcune categorie di lavoratori, pensionati o beneficiari di prestazioni previdenziali che partecipa, come si evince dall’eredità giurisprudenziale che lo accompagna, di una composita natura previdenziale e assistenziale[2].
Sulla sua natura previdenziale si sono soffermate, tanto la Corte Costituzionale con sentenza 22 dicembre 1995, n. 516, quanto le Sezioni Unite del Supremo Collegio con sentenza 7 marzo 2008, n. 6179; la giurisprudenza di legittimità ha valorizzato la natura previdenziale dell’istituto in ragione del fatto che lo stesso non è correlato alla retribuzione, ma al reddito complessivo del nucleo familiare di riferimento, garantendone la sufficienza alle famiglie che ne siano prive[3].
In questa prospettiva, esso è precipitato del disposto di cui agli artt. 36 e 38 Costituzione[4].
La sua inclinazione assistenziale emerge valorizzando la rilevanza che la disciplina riconosce, oltre che al reddito complessivamente prodotto, al numero e alla condizione psico-fisica dei componenti del nucleo familiare: il reddito considerato ai fini dell’erogazione dell’assegno, difatti, viene elevato a fronte di nuclei familiari bisognevoli di una tutela più incisiva in ragione della presenza di soggetti – maggiorenni o minori – colpiti da patologie fisiche o mentali che incidono significativamente sulla possibilità oggettiva di svolgere un’attività lavorativa ovvero di attendere alle funzioni e ai compiti propri dell’età[5].
Ecco, quindi, che l’assegno per il nucleo familiare “realizza una compenetrazione tra strumenti previdenziali ed assistenziali e precisamente tra quelli posti a tutela per il carico di famiglia, con quelli apprestati a tutela di malattie…”[6].
In quanto tale, la prestazione in parola rientra senza dubbio nell’ambito di applicazione del Regolamento (CE) 29 aprile 2004, n. 883, in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, posto che l’art. 1, lett. z), dispone che “ai fini del presente regolamento si intende per:… z) «prestazione familiare», tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I”.
E, d’altronde, la Corte di Giustizia ha ricordato: “20.… che, come ripetutamente giudicato dalla Corte con riferimento al regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità (GU 1971, L 149, pag. 2), la distinzione fra prestazioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 e prestazioni che vi rientrano è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua attribuzione, e non sul fatto che essa sia o no qualificata come prestazione di sicurezza sociale da una normativa nazionale... Una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita per legge, e si riferisca a uno dei rischi espressamente elencati nell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004… 21. La Corte ha già dichiarato che le modalità di finanziamento di una prestazione e, in particolare, il fatto che la sua attribuzione non sia subordinata ad alcun presupposto contributivo sono irrilevanti per la sua qualificazione come prestazione di sicurezza sociale… 24. Per quanto concerne la prestazione oggetto del procedimento principale, risulta dagli atti che, da un lato, l’ANF [n.d.e. la pronunzia concerne l’istituto di cui all’art. 65 Legge 448/1998] è versato ai beneficiari che ne facciano richiesta e che soddisfino le condizioni relative al numero di figli minori e ai redditi previste dall’articolo 65 della legge n. 448/1998. Tale prestazione, pertanto, viene concessa prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, in base a una situazione definita per legge. Dall’altro lato, l’ANF consiste in una somma di denaro versata ogni anno ai suddetti beneficiari e destinata a compensare i carichi familiari. Si tratta dunque proprio di una prestazione in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli. 25. Dall’insieme delle suesposte considerazioni risulta che una prestazione quale l’ANF costituisce una prestazione di sicurezza sociale, rientrante nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004”[7].
2. Lo stato dell’arte sul trattamento riconosciuto agli stranieri dei Paesi terzi
Con l’art. 11, par. 1, lett. d), della Direttiva 2003/109/CE del 25 novembre 2003 – relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo – si è stabilito che “il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda:… d) le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale” e, al successivo paragrafo 4, che “gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale e protezione sociale alle prestazioni essenziali”; disposizione di analogo tenore si rinviene nella successiva Direttiva 2011/98/UE del 13 dicembre 2011 – relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro – che ha previsto, all’art. 12, par. 1, lett. e), che “i lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c)[[8]], beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne:… i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004” e, al seguente paragrafo 2, che “gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento:… b) limitando i diritti conferiti ai lavoratori di paesi terzi ai sensi del paragrafo 1, lettera e), senza restringerli per i lavoratori di paesi terzi che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati. Inoltre, gli Stati membri possono decidere che il paragrafo 1, lettera e), per quanto concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi a scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è consentito lavorare in forza di un visto…”.
A dispetto di quanto previsto dalle richiamate Direttive, la disciplina dell’assegno per il nucleo familiare è rimasta immutata, confermata quindi anche nel suo comma 6bis dell’art. 2 Legge 153/1988 che prevede, ancor oggi, che “non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia…”: una norma, inequivoca nel suo tenore, che cristallizza una differenza nel trattamento riservato allo straniero, cui risulta preclusa la possibilità di considerare il familiare eventualmente residente nel Paese terzo in assenza di condizioni di reciprocità.
La disparità di trattamento non è stata ritenuta conforme al diritto dell’Unione Europea dalla giurisprudenza di merito che, nell’ultimo lustro, è giunta a disapplicare il disposto di cui all’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 in ossequio ai principi delineati dalla Corte di Giustizia, facendo applicazione diretta del diritto dell’Unione[9].
L’orientamento poggia, in primo luogo, sull’imperativo dell’applicazione uniforme del diritto comunitario e sul principio di uguaglianza, dai quali discende che i termini di una disposizione di diritto comunitario – che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri ai fini della definizione del suo senso e della sua portata – devono essere oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme, da compiersi tenuto conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita dalla normativa medesima[10], così da garantirne l’efficacia[11]. Ne consegue che il giudice nazionale, chiamato ad applicare nell’ambito della propria competenza le norme del diritto dell’Unione, ha l’obbligo di assicurarne la piena efficacia disapplicando, ove occorra, la disposizione nazionale contrastante senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimento costituzionale[12].
Nel caso di specie, nessun dubbio può esservi circa il fatto che le disposizioni in materia di parità di trattamento della Direttiva 2003/109/CE e della Direttiva 2011/98/UE siano dotate di effetto diretto e potessero, pertanto, comportare – come ritenuto dai giudici di merito – la disapplicazione del diritto interno contrastante[13].
Le pronunzie in commento muovono, altresì, da un’ulteriore fondamentale considerazione.
La Direttiva 2003/109/CE è stata recepita con il Decreto Legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, il cui art. 1 ha modificato l’art. 9 D. Lgs. 286/1998 prevedendo, tra l’altro, al comma 12, lett. c), che “oltre a quanto previsto per lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può:… c) usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale… salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale”; la Direttiva 2011/98/UE ha trovato attuazione con il Decreto Legislativo 4 marzo 2014, n. 40.
Si è opportunamente evidenziato che il Legislatore nazionale non si è avvalso della facoltà di deroga (deroga, peraltro, che deve essere necessariamente oggetto di interpretazione restrittiva[14]), che avrebbe richiesto una scelta espressa – successiva all’entrata in vigore delle Direttive e del relativo recepimento – e che non può pertanto desumersi dalla mancata modifica della disciplina di cui all’art. 2 Legge 153/1988.
Rileva, in questo senso, il principio sancito dalla Corte di Giustizia con sentenza 24 aprile 2012[15]: “al riguardo occorre rilevare che un’autorità pubblica, sia essa di livello nazionale, regionale o locale, può invocare la deroga prevista all’articolo 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109 unicamente qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi della deroga suddetta”. Rileva, ugualmente, quanto affermato circa il fatto che “…disposizioni adottate del resto prima del recepimento nel diritto interno della suddetta direttiva, come risulta dai punti 10 e 11 della presente sentenza, non possono essere considerate come istitutive delle limitazioni al diritto alla parità di trattamento che gli Stati membri hanno la facoltà di introdurre ai sensi della medesima direttiva”[16].
Si è parimenti osservato che il Tredicesimo Considerando della Direttiva 2003/109/CE definisce prestazioni “essenziali” – ossia, prestazioni in ordine alle quali la parità di trattamento non può essere derogata – quelle che comprendono “almeno un sostegno di reddito minimo, l’assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l’assistenza parentale e l’assistenza a lungo termine”, e tra le quali deve essere ricompreso anche l’assegno per il nucleo familiare proprio in quanto sostegno a un reddito minimo e all’assistenza parentale[17].
Si è così ritenuto che la norma interna, che ai soli stranieri dei Paesi terzi concede l’assegno per il nucleo familiare unicamente per i familiari residenti sul territorio nazionale, si porrebbe in contrasto con il principio di parità di trattamento di cui all’art. 11 Direttiva 2003/109/CE e all’art. 12 Direttiva 2011/98/UE: clausola di parità di trattamento direttamente applicabile nell’ordinamento nazionale, che impone di considerare nel nucleo familiare degli stranieri anche i familiari residenti all’estero.
3. La questione al vaglio delle Corti
A dispetto dell’interpretazione ossequiosa del principio di parità di trattamento progressivamente consolidatasi nella giurisprudenza di merito, con le ordinanze dell’1 aprile 2019, n. 9021[18] e n. 9022[19], la Corte di Cassazione ha ritenuto di demandare alla Corte di Giustizia la verifica circa la conformità della previsione di cui all’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 rispetto alla Direttiva 2003/109/CE e alla Direttiva 2011/98/UE.
3.1. I dubbi interpretativi del Giudice di Legittimità nazionale
La prima questione sollevata dal Supremo Collegio attiene all’interpretazione dell’art. 11, par. 1, lett. d), Direttiva 2003/109/CE ed è volta a verificare se il principio – secondo cui al soggiornante di lungo periodo deve essere assicurato lo stesso trattamento dei cittadini nazionali avuto riguardo alle prestazioni sociali, all’assistenza sociale e alla protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale – comporti che i familiari dello stesso, ove residenti fuori dal territorio dello Stato membro, debbano considerarsi inclusi nel novero dei destinatari del trattamento di cui all’art. 2 Legge 153/1988.
L’interrogativo muove da un duplice rilievo.
Da un lato, dal fatto che il Quarto Considerando valorizza “l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri” quale “elemento cardine per la promozione della coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità enunciato nel trattato” e che la stessa Direttiva 2003/109/CE definisce familiari “i cittadini di paesi terzi che soggiornano nello Stato membro interessato…” (art. 2, par. 1, lett. e), in un contesto in cui si è affermato che l’obiettivo principale della direttiva è l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri[20]. Dall’altro, dal fatto che, ai sensi dell’art. 2 Legge 153/1988, il nucleo familiare non costituisce solo la base di calcolo dell’importo del trattamento medesimo, ma ne è anche beneficiario: “per il diritto nazionale i componenti del nucleo familiare assumono un rilievo essenziale nella struttura del trattamento dell’assegno e sono considerati i sostanziali beneficiari dello stesso trattamento”[21].
Poiché, in mancanza di condizioni di reciprocità, l’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 dispone che i soli familiari del cittadino straniero[22] debbono essere esclusi dal nucleo familiare qualora la loro residenza effettiva non sia in Italia, deve allora verificarsi se tale previsione sia compatibile con il principio sancito dalla Direttiva 2003/109/CE, art. 1, par. 1, lett. d): questione non risolvibile in forza della giurisprudenza della Corte di Giustizia già formatasi, in quanto relativa a familiari che risiedono stabilmente nel territorio del medesimo o di un differente Stato membro.
Richiamato il principio di cui all’art. 12, par. 1, lett. e), il Supremo Collegio solleva analoga questione avuto particolare riguardo alla Direttiva 2011/98/UE e ai familiari dei cittadini di Stati terzi che si trovino nel territorio di uno Stato membro per periodi più brevi dei cinque anni utili al conseguimento di un permesso di soggiorno per lungo periodo.
Per quel che attiene alla disciplina interna, il Giudice di Legittimità evidenzia una volta ancora il rilievo attribuito dalla norma al nucleo familiare che è, al tempo stesso, base di calcolo e destinatario dei benefici di cui all’art. 2 Legge 153/1988.
Il dubbio interpretativo rispetto alla portata del principio sovranazionale viene delineato avuto particolare riferimento al Ventesimo e al Ventiquattresimo Considerando nella parte in cui, da un lato, si afferma il diritto alla parità di trattamento anche dei “familiari di un lavoratore di un paese terzo che sono ammessi nello Stato membro”, dall’altro, si precisa che la “…direttiva non dovrebbe neppure conferire diritti in relazione a situazioni che esulano dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, ad esempio in relazione a familiari soggiornanti in un paese terzo. La presente direttiva dovrebbe conferire diritti soltanto in relazione ai familiari che raggiungono lavoratori di un paese terzo per soggiornare in uno Stato membro sulla base del ricongiungimento familiare ovvero ai familiari che già soggiornano regolarmente in tale Stato membro”.
3.2. L’intervento del Giudice Europeo
Nelle pronunzie scaturite dal duplice rinvio pregiudiziale[23], la Corte di Giustizia conferma principi già acquisiti al patrimonio giurisprudenziale interno quali l’obbligo per lo Stato membro di conformarsi al diritto dell’Unione nell’organizzazione dei regimi di sicurezza sociale e nella disciplina delle relative prestazioni[24], l’obbligo di garantire – tanto ai soggiornanti di lungo periodo, ai sensi dell’art. 11, par. 1, lett. d), 2003/109/CE, quanto ai cittadini di Paesi terzi ammessi nello Stato membro a fini lavorativi e titolari di un permesso unico, ai sensi dell’art. 12, par. 1, lett. e), Direttiva 2011/98/UE – la parità di trattamento in quanto regola generale, la possibilità di limitare la parità di trattamento in funzione di deroghe da interpretarsi restrittivamente e la cui applicazione deve essere chiaramente espressa dallo Stato membro[25].
Ciò posto, avuto particolare riguardo alla definizione di “familiare” di cui all’art. 2, lett. e), Direttiva 2003/109/CE, la Corte chiarisce che la stessa è funzionale all’impiego della nozione ai fini dell’interpretazione delle disposizioni della direttiva medesima e non alla limitazione del diritto alla parità di trattamento previsto per i soggiornanti di lungo periodo dall’art. 11, par. 1, lett. d); evidenzia peraltro che, se quest’ultima fosse la funzione dell’art. 2, la disposizione derogatoria di cui all’art. 11, par. 2, non avrebbe ragion d’essere[26]. Nel rammentare, poi, che il preambolo di un atto dell’Unione non ha valore giuridico vincolante né può essere impiegato per derogarvi ovvero interpretarlo in senso contrario al tenore letterale che gli è proprio[27], il Giudice Europeo osserva che non vi è modo di trarre dal Quarto Considerando l’esclusione del diritto alla parità di trattamento per il soggiornante di lungo periodo i cui familiari non risiedano nel territorio di uno Stato membro, bensì in un Paese terzo: esclusione, d’altronde, che non si rinviene in nessuna disposizione della direttiva.
Nemmeno una simile esclusione ricorre nella Direttiva 2011/98/UE, avuto specifico riguardo alla parità di trattamento da riservarsi al titolare di un permesso unico, posto che la chiara formulazione dell’art. 12, par. 1, lett. e), depone in senso contrario, e che l’art. 12, par. 2, lett. c), consente una limitazione alla parità di trattamento in materia di agevolazioni fiscali qualora i familiari del lavoratore di un Paese terzo non abbiano domicilio o residenza abituale nel territorio dello Stato membro, mentre analoga deroga non risulta prevista nel paragrafo 2, lett. b, in materia di prestazioni di sicurezza sociale: i casi in cui la parità di trattamento riconosciuta al titolare di un permesso unico può esser limitata, pertanto, risultano chiaramente esplicitati dalla disciplina dell’Unione e non attengono all’ipotesi in esame.
Ne consegue che l’esclusione non può certo farsi derivare né dal Ventesimo Considerando, nella parte in cui enuncia che il diritto alla parità di trattamento dovrebbe essere riconosciuto anche a coloro che sono stati ammessi nello Stato membro per fini non lavorativi e vi sono stati poi autorizzati a lavorare, né dal Ventiquattresimo Considerando, a mezzo del quale si precisa che la direttiva non impone ai Paesi membri di corrispondere prestazioni di sicurezza sociale ai familiari che non risiedono nello Stato membro ospitante.
Avuto particolare riguardo all’applicazione della Direttiva 2011/98/UE, la Corte di Giustizia è stata sollecitata a pronunziarsi sulla legittimità dell’esclusione del titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedono nello Stato membro anche in relazione alla previsione di cui all’art. 1 del Regolamento (UE) 24 novembre 2010, n. 1231, a mente del quale “il regolamento (CE) n. 883/2004 e il regolamento (CE) n. 987/2009 si applicano ai cittadini di paesi terzi cui tali regolamenti non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità, nonché ai loro familiari e superstiti, purché risiedano legalmente nel territorio di uno Stato membro e si trovino in una situazione che non sia confinata, in tutti i suoi aspetti, all’interno di un solo Stato membro”.
Sul punto, la Corte di Giustizia osserva che, se il Regolamento (UE) 24 novembre 2010, n. 1231, ha lo scopo di creare un diritto alla parità di trattamento in favore dei familiari di un cittadino di un Paese terzo che risiedano nel territorio di uno Stato membro (e che si trovino in una delle situazioni ivi considerate), ciò non significa che il Legislatore dell’Unione abbia inteso escludere dal diritto alla parità di trattamento di cui alla Direttiva 2011/98/UE il titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedano nel territorio dello Stato membro interessato. Precisa, altresì, che siffatta esclusione nemmeno può trarsi dalla previsione di cui all’art. 11, par. 2, Direttiva 2003/109/CE (“…lo Stato membro interessato può limitare la parità di trattamento ai casi in cui il soggiornante di lungo periodo, o il familiare per cui questi chiede la prestazione, ha eletto dimora o risiede abitualmente nel suo territorio”), da un lato, in quanto norma soggetta a interpretazione restrittiva, dall’altro, in quanto nella Direttiva 2011/98/UE non si rinviene disposizione analoga: “…non può ammettersi che le deroghe elencate nella direttiva 2011/98 siano interpretate in maniera da includerne una supplementare per il solo motivo che tale ulteriore deroga figura in un altro atto diritto derivato”[28].
Passaggio oltremodo rilevante delle pronunzie in esame è quello che concerne la definizione e la portata della finalità di “integrazione” perseguita da entrambe le direttive – che, secondo l’Ente Previdenziale e il Governo italiano presupporrebbe la presenza nel territorio dello Stato membro dei familiari del soggiornante di lungo periodo e del titolare di un permesso unico – integrazione che, così afferma il Giudice Europeo, si fonda sull’“avvicinare i diritti di tali cittadini a quelli di cui godono i cittadini dell’Unione, in particolare assicurando la parità di trattamento con questi ultimi in una vasta gamma di settori economici e sociali”[29], e sul “garantire loro un trattamento equo grazie alla previsione di un insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante. La direttiva mira altresì a creare condizioni uniformi minime nell’Unione, a riconoscere che i cittadini di paesi terzi contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte e a fungere da garanzia per ridurre la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi derivante dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi”[30], così che escludere la parità di trattamento qualora i familiari non risiedano nello Stato membro – per un periodo che potrebbe, peraltro, essere temporaneo – “non può essere conforme a tali obiettivi”.
Quindi, “fatta salva la deroga consentita dall’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109, uno Stato membro non può rifiutare o ridurre il beneficio di una prestazione di sicurezza sociale al soggiornante di lungo periodo per il motivo che i suoi familiari o taluni di essi risiedono non sul suo territorio, bensì in un paese terzo, quando invece accorda tale beneficio ai propri cittadini indipendentemente dal luogo in cui i loro familiari risiedano”[31], e “fatte salve le deroghe consentite dall’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98, uno Stato membro non può rifiutare o ridurre il beneficio di una prestazione di sicurezza sociale al titolare di un permesso unico per il fatto che i suoi familiari o taluni di essi risiedono non nel suo territorio, bensì in un paese terzo, quando invece accorda tale beneficio ai propri cittadini indipendentemente dal luogo in cui i loro familiari risiedano”[32].
Ne consegue che l’omesso versamento dell’assegno e la riduzione dell’importo dello stesso, in ragione del fatto che i familiari non risiedano in tutto o in parte nel territorio dello Stato membro, sono contrari al diritto alla parità di trattamento per come qui considerata non potendosi attribuire rilevanza ai rispettivi legami con lo Stato membro. Né rileva il fatto anche i familiari siano beneficiari sostanziali del trattamento in questione, in quanto l’assegno viene versato in favore di quel componente del nucleo familiare (soggiornante di lungo periodo o titolare di un permesso unico) che è destinatario diretto della tutela riconosciuta dalla disciplina sovranazionale.
Sicché, qualora lo Stato membro non abbia espresso l’intenzione di avvalersi delle deroghe tipizzate, l’art. 11, par. 1, lett. d), Direttiva 2003/109/CE e l’art. 12, par. 1, lett. e), Direttiva 2011/98/UE debbono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa di uno Stato membro in forza della quale, ai fini della determinazione dei diritti a una prestazione di sicurezza sociale, non vengono presi in considerazione i familiari – tanto del soggiornante di lungo periodo (art. 2, lett. b), Direttiva 2003/109/CE), quanto del titolare di permesso unico (art. 2, lett. c), Direttiva 2011/98/UE) – che risiedano, non già nel territorio di tale Stato membro, bensì in un Paese terzo, mentre vengono presi in considerazione i familiari del cittadino del medesimo Stato membro residenti in un Paese terzo.
4. L’effettività dell’integrazione nella parità di trattamento
All’integrazione, l’Unione Europea guarda come a un potenziale “motore di sviluppo economico e della coesione sociale” e si propone, pertanto, di “definire un quadro normativo che garantisca la parità di trattamento e assicurare a tutti gli immigrati un livello di diritti adeguato”[33].
A tal fine, si è impegnata a dare solide garanzie in tema di diritti fondamentali e parità di trattamento[34], e la partecipazione e la cittadinanza attiva degli stranieri provenienti dai Paesi terzi costituisce uno dei principi fondanti dell’Unione che “pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”[35].
In materia di sicurezza sociale e assistenza sociale, l’art. 34, par. 2 e 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce che “ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”, e che “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali”: questi principi sono parte necessaria di un processo di integrazione che, nel fondarsi sull’affermazione dell’equo trattamento e della parità nel riconoscimento dei diritti fondamentali[36], non può muovere da una prospettiva di parcellizzazione o recessività delle tutele che si basi su differenziazioni ed esclusioni di diritti che, oltre a non trovare fondamento nell’ordinamento positivo europeo, ne costituiscono di fatto una negazione ostacolando il perseguimento delle finalità che gli son proprie[37].
Sotto questo specifico profilo, le due pronunzie della Corte di Giustizia assumono peculiare rilievo nella parte in cui evidenziano come il soggiornante di lungo periodo e il titolare di un permesso unico al centro (cittadini di Paesi terzi legalmente stabilitisi nei territori degli Stati dell’Unione) siano i destinatari primi delle tutele di cui alle due direttive, titolari del diritto alla parità di trattamento e – per il suo tramite – alla compiuta integrazione nello Stato membro, così ponendo l’accento sull’incompatibilità della disuguaglianza cristallizzata nella Legge 153/1988 tra cittadini italiani e cittadini dei Paesi terzi laddove, in tutto o in parte, i familiari risiedano al di fuori dell’Unione.
D’altronde, il Giudice Europeo opportunamente sottolinea che gli effetti della suddetta disparità non si producono in capo ai soli familiari che non risiedono nel territorio dello Stato membro, bensì colpiscono in primis il soggiornante di lungo periodo o il titolare di un permesso unico che – lavoratore o pensionato – è destinatario del versamento dell’assegno[38] e componente inscindibile di quel nucleo familiare che la normativa nazionale, proprio per il tramite del beneficiario diretto, intende sostenere: la disuguaglianza incide, pertanto, sul diritto stesso che le direttive mirano a salvaguardare.
Emerge, netta, la contraddizione di una disparità di trattamento fondata su una pretesa diversità del legame con il territorio dello Stato che, inevitabilmente, produce l’effetto di ostacolare il radicarsi di quello stesso legame, intralciando un processo di integrazione che necessita della garanzia di parità di trattamento anche in materia di sicurezza sociale[39].
Tuttavia, ciò non può essere, in quanto “gli Stati membri non possono pregiudicare l’effetto utile della direttiva stessa e devono tenere conto dell’obiettivo di integrazione perseguito da tale direttiva, nonché della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») e segnatamente dell’articolo 34 della stessa in materia di previdenza sociale e assistenza sociale, allorché stabiliscono le misure soggiacenti al principio della parità di trattamento sancito da detta disposizione”[40].
In questa prospettiva, si dispiega il senso e l’effetto del dialogo tra le due Corti.
(*) Riflessioni a margine delle sentenze della Corte di Giustizia, 25 novembre 2020, causa C-302/19, Istituto nazionale della previdenza sociale c. WS, e 25 novembre 2020, causa C-303/19, Istituto nazionale della previdenza sociale v. VR.
(**) Giudice del Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Lavoro.
[1] L’art. 2, co. 1 e 2, D.L. 69/1988, convertito con modificazioni dalla Legge 153/1988, prevede che, “per i lavoratori dipendenti, i titolari delle pensioni e delle prestazioni economiche previdenziali derivanti da lavoro dipendente, i lavoratori assistiti dall’assicurazione contro la tubercolosi, il personale statale in attività di servizio ed in quiescenza, i dipendenti e pensionati degli enti pubblici anche non territoriali, a decorrere dal periodo di paga in corso al 1° gennaio 1988, gli assegni familiari, le quote di aggiunta di famiglia, ogni altro trattamento di famiglia comunque denominato e la maggiorazione di cui all’art. 5 del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79, cessano di essere corrisposti e sono sostituiti, ove ricorrano le condizioni previste dalle disposizioni del presente articolo, dall’assegno per il nucleo familiare. L’assegno compete in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, secondo la tabella allegata al presente decreto. I livelli di reddito della predetta tabella sono aumentati di lire dieci milioni per i nuclei familiari che comprendono soggetti che si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, ovvero, se minorenni, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età. I medesimi livelli di reddito sono aumentati di lire due milioni se i soggetti di cui al comma 1 si trovano in condizioni di vedovo o vedova, divorziato o divorziata, separato o separata legalmente, celibe o nubile. Con effetto dal 1° luglio 1994, qualora del nucleo familiare di cui al comma 6 facciano parte due o più figli, l’importo mensile dell’assegno spettante è aumentato di lire 20.000 per ogni figlio, con esclusione del primo”. Il successivo comma sesto dispone che “il nucleo familiare è composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, ai sensi dell’art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1957, n. 818, di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro. Del nucleo familiare possono far parte, alle stesse condizioni previste per i figli ed equiparati, anche i fratelli, le sorelle ed i nipoti di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero senza limiti di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, nel caso in cui essi siano orfani di entrambi i genitori e non abbiano conseguito il diritto a pensione ai superstiti”.
[2] In questo senso, ex multis, Cass. Civ., Sez. Lav., 30 marzo 2015, n. 6351; Cass. Civ., Sez. Lav., 29 settembre 2008, n. 24278; Cass. Civ., Sez. Lav., 4 luglio 2008, n. 18490; Cass. Civ., Sez. Lav., 27 marzo 2004, n. 6155; Cass. Civ., Sez. Lav., 9 settembre 2003, n. 13200.
[3] Art. 2, co. 9, Legge 153/1988.
[4] Cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 27 marzo 2004, n. 6155, e Cass. Civ., Sez. Lav., 12 novembre 2003, n. 17048.
[5] Art. 2, co. 2, Legge 153/1988. Vedi Cass. Civ., Sez. Lav., 30 marzo 2015, n. 6351, e Cass. Civ., Sez. Lav., 9 settembre 2003, n. 13200; sulla natura assistenziale, vedi anche App. Brescia, 16 luglio 2018, n. 296; Trib. Milano, 28 aprile 2017.
[6] Cass. Civ., Sez. Lav., 1 aprile 2019, n. 9021.
[7] Corte di Giustizia, 21 giugno 2017, C-449/16, Kerly Del Rosario Martinez Silva c. Istituto nazionale della previdenza sociale e altro.
[8] Il riferimento è “b) ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002; e c) ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale”.
[9] App. Brescia, Sez. Lav., 16 luglio 2018, n. 296; Trib. Pavia, Sez. Lav., 6 giugno 2018; App. Brescia, Sez. Lav., 5 dicembre 2017, n. 556; App. Torino, Sez. Lav., 6 novembre 2017, n. 772; Trib. Milano, Sez. Lav., 6 novembre 2017; App. Trento, Sez. Lav., 26 ottobre 2017, n. 72; Trib. Alessandria, 22 settembre 2017; Trib. Milano, 28 aprile 2017; App. Brescia, Sez. Lav., 22 giugno 2016, n. 233; Trib. Brescia, Sez. Lav., 14 maggio 2015.
[10] Cfr. Corte di Giustizia, 20 ottobre 2011, causa C-396/09, Interedil Srl, in liquidazione c. Fallimento Interedil Srl e altro; Corte di Giustizia, 29 ottobre 2009, causa C‑174/08, NCC Construction Danmark A/S c. Skatteministeriet; Corte di Giustizia, 18 ottobre 2007, causa C‑195/06, KommAustria c. Österreichischer Rundfunk; Corte di Giustizia, 15 luglio 2004, causa C‑321/02, Finanzamt Rendsburg c. Detlev Haibs.
[11] Vedi, ex multis, Corte di Giustizia, 5 dicembre 2004, cause riunite C-397/01-C-403/01, Pfeiffer c. Deutsches Rotes Kreuz.
[12] Scontato, sul punto, il riferimento a Corte di Giustizia, 9 marzo 1978, causa C-106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato c. Simmenthal Spa; si vedano anche Corte di Giustizia, 26 febbraio 2013, C-617/10, Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson; Corte di Giustizia, 22 giugno 2010, cause riunite C-188/10 e C-189/10, Aziz Melki e Sélim Abdeli; Corte di Giustizia, 19 novembre 2009, C-314/08, Krzysztof Filipiak c. Dyrektor Izby Skarbowej w Poznaniu; Corte di Giustizia, 27 ottobre 2009, C‑ 115/08, Land Oberösterreich c. ČEZ as.
[13] Sono, d’altronde, norme espressive del divieto di discriminazione cui il Giudice Europeo ha sempre riconosciuto effetto diretto. Si vedano, sul punto, le note pronunzie Corte di Giustizia, 19 aprile 2016, causa C-441/14, Dansk Industri c. Successione Karsten Eigil Rasmussen; Corte di Giustizia, 19 gennaio 2010, causa C-555/07, Seda Kücükdeveci c. Swedex GmbH & Co. KG; Corte di Giustizia, 22 novembre 2005, causa C-144/04, Werner Mangold c. Rüdiger Helm.
[14] Corte di Giustizia, 24 aprile 2012, causa C-571/10, Servet Kamberaj c. Istituto per l’Edilizia sociale della Provincia autonoma di Bolzano e altri, pt. 86: “…occorre rilevare che, dal momento che l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri ed il diritto di tali cittadini al beneficio della parità di trattamento nei settori elencati all’articolo 11, paragrafo 1, della direttiva 2003/109 costituiscono la regola generale, la deroga prevista dal paragrafo 4 di tale articolo deve essere interpretata restrittivamente (v., per analogia, sentenza del 4 marzo 2010, Chakroun, C‑578/08, Racc. pag. I‑1839, punto 43)”.
[15] Corte di Giustizia, Kamberaj, cit., pt. 87.
[16] Corte di Giustizia, Martinez Silva, cit., pt. 30.
[17] Così, App. Brescia, 16 luglio 2018, cit.; si veda anche Corte di Giustizia, Kamberaj, cit., pt. 92: “al riguardo occorre rammentare che, conformemente all’articolo 34 della Carta, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti. Ne consegue che, nei limiti in cui il sussidio di cui trattasi nel procedimento principale risponde alla finalità enunciata nel citato articolo della Carta, esso non può essere considerato, nell’ambito del diritto dell’Unione, come non compreso tra le prestazioni essenziali ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109”.
[18] Si è chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla seguente questione: “se l’art. 11, paragrafo 1 lett. d) della direttiva 2003/109/ del Consiglio, del 25 novembre 2003, nonché il principio di parità di trattamento tra soggiornanti di lungo periodo e cittadini nazionali, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una legislazione nazionale in base alla quale, al contrario di quanto previsto per i cittadini dello Stato membro, nel computo degli appartenenti al nucleo familiare, al fine del calcolo dell’assegno per il nucleo familiare, vanno esclusi i familiari del lavoratore soggiornante di lungo periodo ed appartenente a Stato terzo, qualora gli stessi risiedano presso il paese terzo d’origine”.
[19] Si è chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla seguente questione: “se l’art. 12, paragrafo 1 lett. e) della direttiva 2011/98/ del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, nonché il principio di parità di trattamento tra titolari del permesso unico di soggiorno e di lavoro e cittadini nazionali, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una legislazione nazionale in base alla quale, al contrario di quanto previsto per i cittadini dello Stato membro, nel computo degli appartenenti al nucleo familiare, al fine del calcolo dell’assegno per il nucleo familiare, vanno esclusi i familiari del lavoratore titolare del permesso unico ed appartenente a Stato terzo, qualora gli stessi risiedano presso il paese terzo d’origine”.
[20] Il richiamo è, altresì, al Dodicesimo e Sedicesimo Considerando, e alla pronunzia della Corte di Giustizia, 26 aprile 2012, causa C-508/10, Commissione Europea c. Regno dei Paesi Bassi e altro, pt. 66.
[21] Cass. Civ., Sez. Lav., 1 aprile 2019, n. 9021.
[22] Cittadino non appartenente all’Unione Europea, ai sensi del Decreto Legislativo 286/1998.
[23] Corte di Giustizia, 25 novembre 2020, causa C-302/19, Istituto nazionale della previdenza sociale c. WS, quanto alla Direttiva 2011/98/UE; Corte di Giustizia, 25 novembre 2020, causa C-303/19, Istituto nazionale della previdenza sociale v. VR, quanto alla Direttiva 2003/109/CE.
[24] Il richiamo è, in entrambi i casi, alla decisione della Corte di Giustizia, 5 ottobre 2010, causa C-173/09, Georgi Ivanov Elchinov c. Natsionalna zdravnoosiguritelna kasa, pt. 40, con la precisazione che il diritto dell’Unione non limita la facoltà degli Stati membri di organizzare i loro regimi di sicurezza sociale, e che spetta a ciascuno Stato membro stabilire le condizioni per la concessione delle prestazioni di sicurezza sociale, il relativo importo e il periodo per il quale sono concesse.
[25] Art. 11, par. 2, Direttiva 2003/109/CE e art. 12, par. 2, lett. b), co. 1, Direttiva 2011/98/UE; cfr. Corte di Giustizia, INPS, pt. 23 (C-303/19) e pt. 26 (C-302/19), cit.
[26] Deroga della quale il Governo Italiano non ha ritenuto di avvalersi, come evidenziato dall’Avvocato Generale nelle proprie conclusioni (pt. 65-66) e dalla Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 38. Posto che l’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 è precedente alla Direttiva 2003/109/CE e all’art. 9, co. 12, lett. c), D. Lgs. 286/1998 per come modificato dall’art. 1 D. Lgs. 3/2007, il Legislatore nazionale ha previsto quale unica condizione l’effettiva residenza dello straniero – non dei suoi familiari – sul territorio nazionale.
[27] Così, già Corte di Giustizia, 19 novembre 1998, causa C-162/97, Gunnar Nilsson e altri c. Governo Svedese e altri, pt. 54: “a tal riguardo occorre rilevare che il preambolo di un atto comunitario non ha valore giuridico vincolante e non può essere fatto valere per derogare alle disposizioni stesse dell’atto di cui trattasi”.
[28] Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 38.
[29] Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 28.
[30] Corte di Giustizia, INPS (C-302/19), cit., pt. 34.
[31] Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 30.
[32] Corte di Giustizia, INPS (C-302/19), cit., pt. 39.
[33] In questo senso, l’Agenda europea per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi, COM(2011)455; in questo senso anche il Quarto Considerando della Direttiva 2003/109/CE e il Diciannovesimo Considerando della Direttiva 2011/98/UE.
[34] Secondo il Piano d’azione sull’integrazione dei cittadini di paesi terzi, COM(2016)377, “garantire che tutti coloro che risiedono legittimamente e regolarmente nell’UE, indipendentemente dalla durata del loro soggiorno, possano partecipare e apportare il loro contributo è essenziale per il benessere, la prosperità e la coesione futura delle società europee. In un periodo in cui discriminazione, pregiudizi, razzismo e xenofobia sono in aumento, vi sono imperativi giuridici, morali ed economici che impongono di sostenere i diritti fondamentali, i valori e le libertà dell’UE e di continuare ad adoperarsi per una società complessivamente più coesa. Un’integrazione efficace dei cittadini di paesi terzi è nell’interesse comune di tutti gli Stati membri”.
[35] Così, il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
[36] Questo, d’altronde, il senso del Secondo Considerando tanto della Direttiva 2003/109/CE, quanto della Direttiva 2011/98/UE che richiamano la riunione straordinaria di Tampere del 15-16 ottobre 1999 all’esito della quale – in punto di equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi – si è affermato che “l’Unione europea deve garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati membri. Una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’UE. Essa dovrebbe inoltre rafforzare la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale e prevedere l’elaborazione di misure contro il razzismo e la xenofobia… Occorre ravvicinare lo status giuridico dei cittadini dei paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri. Alle persone che hanno soggiornato legalmente in uno Stato membro per un periodo di tempo da definire e che sono in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata dovrebbe essere garantita in tale Stato membro una serie di diritti uniformi il più possibile simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell’UE, ad esempio il diritto a ottenere la residenza, ricevere un’istruzione, esercitare un’attività in qualità di lavoratore dipendente o autonomo; va inoltre riconosciuto il principio della non discriminazione rispetto ai cittadini dello Stato di soggiorno. Il Consiglio europeo approva l’obiettivo di offrire ai cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente in maniera prolungata l’opportunità di ottenere la cittadinanza dello Stato membro in cui risiedono” (pt. 18 e 21). Sull’equo trattamento che deve essere assicurato ai cittadini dei Paesi terzi, così l’art. 79 TFUE: “L’Unione sviluppa una politica comune dell’immigrazione intesa ad assicurare, in ogni fase, la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto rafforzato dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani”.
[37] Rammenta l’Avvocato Generale che “l’obiettivo principale della direttiva 2003/109, come emerge dai considerando 4, 6 e 12 di quest’ultima, è l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri” (Conclusioni, causa C-303/19, pt. 36).
[38] Oltremodo puntuale, sotto questo profilo, il rilievo dell’Avvocato Generale (Conclusioni, causa C-303/19, pt. 53, e causa C-302/19, pt. 51).
[39] D’altronde, “per costituire un autentico strumento di integrazione sociale, lo status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe valere al suo titolare la parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro in una vasta gamma di settori economici e sociali sulle pertinenti condizioni definite dalla presente direttiva” (Dodicesimo Considerando della Direttiva 2003/109/CE).
[40] Conclusioni dell’Avvocato Generale, causa C-303/19, pt. 39, che richiama Corte di Giustizia, Kamberaj, cit., pt. 79-81.
Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta.
di Andreina Scognamiglio
Sommario: 1. Il caso di specie e i quesiti sollevati dalla ordinanza di rimessione. – 2. Il metodo seguito e le conclusioni raggiunte dalla IV Sezione. -3. Esame critico della tesi favorevole a rinvenire nelle disposizioni del codice la soluzione del problema del rapporto tra commissario ad acta ed amministrazione commissariata. – 4. La soluzione accolta dalla giurisprudenza con riferimento al caso del commissario ad acta nominato nell’ambito del giudizio di ottemperanza ed applicabilità di questa giurisprudenza al caso del commissario nominato ex art. 117 c.p.a.. -5. Accordo sul metodo seguito dalla IV Sezione e perplessità sulle conclusioni raggiunte. – 6. Annullabilità o nullità del provvedimento emesso dalla amministrazione oltre i termini di decadenza. – 7. In sintesi.
1. Il caso di specie e i quesiti sollevati dalla ordinanza di rimessione
Nel 2012 una società immobiliare presenta al Comune di Termoli un progetto di recupero di interventi edilizi abusivi ai sensi della l. reg. Molise 14 maggio 1985 n. 17 per una area della quale la stessa società si era resa promissaria acquirente.
A fronte dell’inerzia del Comune, nel 2014 la società propone ricorso ex art. 117 c.p.a.. Il Tar Molise, accertato l’inadempimento dell’obbligo di provvedere, ordina al Comune di determinarsi sull’istanza e nomina un commissario ad acta, che si sarebbe insediato, nel caso in cui l’inerzia si fosse protratta oltre il termine assegnato dal giudice.
Scaduto il termine, il Commissario ad acta inizia la sua attività convocando una conferenza di servizi per l’esame della domanda.
A distanza di qualche mese, il Consiglio comunale dell’ente delibera di non potersi procedere all’intervento di recupero dell’insediamento edilizio abusivo per assenza dei presupposti e, con successivo atto, respinge l’istanza della società.
Su questa vicenda sostanziale si innestano tre sentenze del Tar Molise. Con la prima (n. 104/2017), il giudice di primo grado, adito con ricorso ex art. 29 c.p.a., dichiara nulli gli atti adottati dal Consiglio comunale oltre i termini assegnati alla amministrazione per provvedere e addirittura dopo l’insediamento del Commissario. La seconda (n. 469/2017) rigetta il reclamo proposto dal Comune avverso la determinazione con la quale il Commissario aveva individuato l’area della quale la società era divenuta promissaria acquirente tra quelle suscettibili di interventi edilizi di recupero, semmai annullabile dall’amministrazione comunale in autotutela. La terza (n. 287/2019) rigetta il ricorso contro la delibera comunale di annullamento della determina del Commissario ad acta trattandosi di atto amministrativo posto in essere da organo della p.a. che agisce quale sostituto dell’amministrazione competente e dunque rimovibile in autotutela.
Riuniti gli appelli rispettivamente proposti dal Comune e dalla società immobiliare avverso le sentenze n. 104/2017 e 287/2019, la Sezione IV del Consiglio di stato, con ordinanza n. 6925/2020, rimette all’Adunanza plenaria il quesito se, nel giudizio proposto avverso il silenzio serbato dall’Amministrazione su una istanza del privato, la nomina del commissario ad acta, disposta ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a., o il suo insediamento, comportino per l’amministrazione soccombente nel giudizio proposto avverso il silenzio la perdita del potere di provvedere sull’originaria istanza ed il quesito, rispetto al primo conseguenziale, del regime giuridico dell’atto emanato tardivamente dall’amministrazione.
L’ordinanza richiama, con dovizia di precedenti, le tre letture proposte dalla giurisprudenza teorica e pratica: a) la nomina del commissario ad acta segnerebbe il limite oltre il quale verrebbe meno il potere-dovere di provvedere dell’amministrazione; b) il c.d. esautoramento dell’organo inottemperante (o inadempiente, ove si verta nell’ambito di un ricorso avverso il silenzio) si verificherebbe solo con l’operatività dell’investitura commissariale o dopo il suo insediamento; c) infine la competenza commissariale sarebbe in ogni caso concorrente con quella dell’amministrazione la quale resterebbe titolare del potere di provvedere anche dopo la scadenza del termine fissato dal giudice e dopo la nomina/insediamento del commissario.
Quanto al regime giuridico dell’atto tardivamente adottato dall’amministrazione istituzionalmente competente, la Sezione afferma di non poter in ogni caso condividere la tesi della nullità del provvedimento posto in essere dall’amministrazione dopo la nomina o l’insediamento del commissario. A tale conclusione osterebbe la lettera dell’art. 21septies della l. 241 del 1990 che è chiara nel comminare la nullità nel solo caso del “difetto assoluto di attribuzione”. Nel caso dell’atto tardivo, il potere-dovere dell’amministrazione di concludere il procedimento sussiste invece senz’altro ed è anzi ribadito dall’ordine del giudice. Dunque pure a voler ammettere la natura perentoria del termine impartito da giudice e l’effettiva sostituzione dell’organo inadempiente da parte del commissario, il provvedimento adottato oltre il termine non sarebbe nullo ma semmai annullabile nella ordinaria sede di giurisdizione di legittimità, a seguito del relativo tempestivo ricorso ex art. 29 c.p.a..
La tesi della competenza concorrente dell’amministrazione e del commissario solleva, invece, l’interrogativo circa il regime degli atti del commissario ad acta successivi alle determinazioni infine assunte dall’amministrazione e con queste non coerenti. Ad avviso della Sezione, il problema non è definitivamente risolto dall’art. 117 comma 4, il quale, rimettendo al giudice del silenzio “tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario ad acta”, lascia supporre che, al di fuori del caso in cui si contesti “l’esatto adempimento”, gli atti del commissario incaricato di portare a termine il procedimento sono soggetti alla giurisdizione generale di legittimità oppure al potere di autotutela dell’amministrazione istituzionalmente competente.
2. Il metodo seguito e le conclusioni raggiunte dalla IV Sezione
Esposti i termini della questione, la quarta Sezione prende motivatamente posizione a favore della tesi della competenza concorrente dell’amministrazione e del commissario.
La tesi troverebbe conferma in una serie di principi, anche di rilievo costituzionale. Convergerebbero in questa direzione il principio di legalità, in connessione all’art. 97 Cost., per il quale l’ambito delle competenze dell’autorità amministrativa può essere inciso solo da una disposizione di legge; il principio di certezza dei rapporti giuridici, per il quale il carattere perentorio del termine assegnato all’amministrazione per provvedere deve risultare quanto meno da una espressa statuizione del giudice e dunque dal dispositivo della sentenza; il principio di responsabilità dei titolari degli uffici pubblici il quale sarebbe eluso se la perdurante inerzia del funzionario pubblico, comportando definitiva perdita del potere, fosse addirittura “premiata” con una sostanziale deresponsabilizzazione del funzionario. Infine – secondo la Sezione – congiura in questo senso anche un principio, se non di riserva, di preferenza per l’amministrazione il quale si dispiegherebbe al massimo grado quando l’attuazione della statuizione giudiziale di condanna ad agire investe l’attività di un organo collegiale di un ente esponenziale (quale appunto un consiglio comunale) essendo le valutazioni di spettanza di questo difficilmente sostituibili dal commissario ad acta.
L’ordinanza di rimessione dà atto di non essere quella della competenza concorrente la posizione espressa dalla Adunanza Plenaria n. 7 del 9 maggio 2019 che si è espressa a favore della posizione per la quale “l’insediamento del commissario ad acta… nella sua duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell'amministrazione inadempiente surrogata, priva quest'ultima della potestà di provvedere integrando una ipotesi di impossibilità soggettiva sopravvenuta ”[1].
Tuttavia per la Sezione il precedente non è decisivo poiché la Plenaria, chiamata in quell’occasione a decidere sul valore delle astreinte e comunque in relazione al giudizio di ottemperanza, non ha affrontato espressamente il problema del rapporto tra competenza commissariale e della autorità amministrativa istituzionalmente competente lasciando così non risolto il contrasto ermeneutico tra le varie tesi proposte che sarebbe perciò ancora aperto.
3. Esame critico della tesi favorevole a rinvenire nelle disposizioni del codice la soluzione del problema del rapporto tra commissario ad acta ed amministrazione commissariata
L’iter motivazionale della pronuncia lascia in ombra alcuni dati di diritto positivo che meritano una lettura più attenta se non altro perché su di essi fa leva la dottrina che forse più approfonditamente si è occupata del tema per argomentare proprio le conclusioni predilette dalla IV Sezione.
Il primo dato è offerto dall’art. 117 c.p.a. che, nel dettare la disciplina del rito speciale avverso il silenzio, non ripropone una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 21 bis della l. 1034 del 1971. La norma da ultimo citata prevedeva che “all’atto dell’insediamento, il commissario, preliminarmente all’adozione del provvedimento da adottare in via sostitutiva, accerta se anteriormente alla data dell’insediamento medesimo, l’amministrazione abbia provveduto” ed era stata univocamente letta nel senso che l’insediamento del commissario segnasse il momento della decadenza dell’amministrazione dal potere-dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso[2]. Nella sua soppressione nel testo vigente dell’art. 117 c.p.a. viene dunque da alcuni ravvisato un chiaro indizio della volontà del legislatore di inaugurare un percorso diverso, conservando sine die in capo alla amministrazione il potere di decidere[3].
Per l’ordinanza in commento, quello della diversa formulazione della normativa sopravvenuta è elemento troppo labile per poter fondare su di esso la soluzione del quesito e, piuttosto, è tale da “rendere attuale e di preminente rilievo il dubbio esposto” poiché “il legislatore neppure ha introdotto la regola opposta”.
L’osservazione è condivisibile e non sembra che la mancata riproposizione di una disposizione, che invero era espressa in termini un po’ ingenui, equivalga ad un indice univoco di una consapevole e diversa scelta del legislatore.
Una consapevole scelta del legislatore emergerebbe invece, nella lettura da alcuni proposta, dal comma 5, dell’art. 117 c.p.a. per il quale “Se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l'oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l'intero giudizio prosegue con tale rito”.
La possibilità del provvedimento sopravvenuto espresso e la sua efficacia sarebbero dunque ammesse dalla norma che ne prevede l’impugnabilità con motivi aggiunti e che offrirebbe così una valida sponda alla tesi della concorrenza tra potere dell’amministrazione e del commissario[4].
Il dato non è affatto preso in considerazione dall’ordinanza che dunque mostra di ritenerlo poco significativo.
La posizione è senz’altro condivisibile.
L’art. 117, comma 5, non fornisce una risposta esplicita o, quanto meno, non equivoca al quesito sollevato dalla IV Sezione. A ben vedere il contenuto della norma consiste nel mero rilievo dell’impugnabilità del provvedimento sopravvenuto in corso di giudizio con motivi aggiunti[5], essendo la relativa facoltà riconosciuta al ricorrente, e non si può ad essa attribuire una portata più ampia di quella meramente processuale sua propria. Inoltre la facoltà di impugnare i provvedimenti sopravvenuti con motivi aggiunti, anziché con ricorso autonomo, è accordata al ricorrente “nel corso del giudizio” e questo, ai sensi dell’art. 117, comma 2, si conclude con la sentenza che “in caso di totale o parziale accoglimento (….) ordina all’amministrazione di provvedere”. Dunque la disposizione potrebbe al più essere letta nel senso di riconoscere la permanenza del potere di provvedere dell’amministrazione inadempiente fino al momento finale del giudizio stesso e cioè fino al momento dell’adozione della sentenza di condanna ad adempiere.
In definitiva, nemmeno l’argomento fondato sula lettera dell’art. 117 comma 5 è risolutivo e fondatamente la IV Sezione esclude che nelle disposizioni del c.p.a. sia rintracciabile una risposta univoca al quesito proposto.
4. La soluzione accolta dalla giurisprudenza con riferimento al caso del commissario ad acta nominato nell’ambito del giudizio di ottemperanza ed applicabilità di questa giurisprudenza al caso del commissario nominato ex art. 117 c.p.a.
Una seconda verifica che si impone è se non sia possibile attingere alla più numerosa giurisprudenza che ha affrontato l’analogo problema con riferimento al giudizio di ottemperanza per estendere al commissario ad acta nominato ex art. 117 c.p.a. le soluzioni già raggiunte n quella sede.
La giurisprudenza degli ultimissimi anni sembra in effetti aver in parte risolto le divergenze interpretative puntualmente illustrate dalla ordinanza di rimessione ed avere maturato un orientamento abbastanza condiviso nel senso che l'insediamento del commissario ad acta ovvero la redazione del verbale d'immissione del commissario nelle funzioni amministrative e la sua presa di contatto con l'amministrazione segnano il definitivo trasferimento dei poteri in favore del primo, rimanendo precluso da quel momento all'amministrazione ogni margine di ulteriore intervento[6]. L’indirizzo è confermato dalla Plenaria n. 7 del 2019 che, invero, è abbastanza esplicita sul punto.
L’elaborazione giurisprudenziale in materia di ottemperanza potrebbe quindi fornire risposta al quesito che ugualmente si pone quando il commissario ad acta assume i suoi poteri nell’ambito di un ricorso avverso il silenzio configurandosi così quale parametro per quella soluzione unitaria del problema del rapporto tra potere commissariale e potere dell’amministrazione commissariata che pure l’ordinanza di rimessione auspica.
Contro l’utilizzo estensivo della giurisprudenza in tema di ottemperanza, si potrebbe invero osservare che l’art. 117 c.p.a. nel dettare la disciplina, alquanto sommaria, della c.d. seconda fase del rito speciale avverso il silenzio (che consiste appunto nella nomina del commissario ad acta) non fa rinvio all’art. 112 e seguenti del c.p.a.. Il dato potrebbe essere considerato ancor più significativo se si tiene conto che, diversamente, per l’art. 59 c.p.a., quando al giudice sono richieste misure attuative dei provvedimenti cautelari non spontaneamente eseguiti, “il tribunale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza di cui al Titolo I del Libro IV e provvede sulle spese”. Nel mancato rinvio alle norme che disciplinano il ricorso per l’ottemperanza potrebbe leggersi la consapevole volontà del legislatore di marcare la distanza tra i due giudizi [7] ognuno dei quali resterebbe quindi regolato dalla sua disciplina e relativa elaborazione giurisprudenziale.
Si tratta di un’opzione interpretativa sulla quale l’ordinanza in commento non si pronuncia e che comunque non è a mio avviso praticabile.
In primo luogo, la distanza tra il giudizio di ottemperanza e quello per la esecuzione della condanna a provvedere non sono poi così netta se si tiene conto che, nella prassi, non è infrequente l’utilizzo del ricorso ex art. 112 c.p.a. per far fronte alla perdurante inerzia dell’amministrazione, incurante della condanna a provvedere inflitta dal giudice ex art. 34, comma 1, lett. b)[8].
Ma il punto decisivo è un altro. Anche nel caso del giudizio di ottemperanza la soluzione più accreditata, che è poi “cristallizzata” dalla sentenza 7/2019, viene argomentata dalla giurisprudenza non tanto dalla disciplina positiva, che sul punto è carente anche nel giudizio di ottemperanza, quanto dai principi. E non c’è dubbio che i principi cui far riferimento sono i medesimi che si tratti di giudizio di ottemperanza, della fase di esecuzione di una sentenza resa all’esito del rito speciale ex art. 117 c.p.a. o di una ordinanza cautelare ex art. 59 c.p.a..
5. Accordo sul metodo seguito dalla IV Sezione e perplessità sulle conclusioni raggiunte
In definitiva il metodo seguito dalla ordinanza di rimessione che, come sopra sottolineato, attinge la soluzione dai principi è pienamente condivisibile.
Il dubbio è semmai se i principi richiamati dall’ordinanza conducano univocamente alle conclusioni che la Sezione mostra di prediligere.
In effetti sembra di poter osservare che i principi di legalità e di certezza dei rapporti giuridici non valgono qui tanto per la riserva alla legge che essi sanciscono riguardo alla individuazione delle competenze istituzionali delle singole amministrazioni. Questo aspetto è, a mio avviso, recessivo rispetto all’esigenza, che i medesimi principi sicuramente pongono, che l’organo titolare del potere sia uno ed uno soltanto in modo che il privato abbia un solo e certo interlocutore.
Per questa ragione proprio i principi richiamati implicano che, a partire da un certo momento (convenzionalmente individuabile nella redazione del verbale di immissione del commissario), il commissario ad acta non si aggiunge né si pone in concorrenza o, ancor meno, in subordine rispetto agli organi ordinari dell'amministrazione inadempiente, ma assume i poteri di questa e ne diviene titolare esclusivo, come organo straordinario, in via eccezionale e per tutto il tempo in cui il mandato gli è conferito.
Il principio di legalità può essere, quindi, a buona ragione richiamato proprio a sostegno della tesi opposta della consumazione del potere della p.a., competente a decidere secondo le regole ordinarie, in conseguenza e per effetto della nomina o dell’insediamento del commissario.
Il principio di responsabilità ha poi portata ambivalente.
Da un lato non sembra del tutto implausibile la tesi di chi imputa proprio all’indulgenza e alla cautela che spesso sono prevalse nella soluzione del problema del rapporto tra scadenza del termine e conservazione/esercitabilità del potere[9] di avere favorito la scelta dell’inazione da parte dell’organo pubblico[10]. Si tratta di un angolo di visuale opposto al quale non può negarsi un fondamento di verità.
Dall’altro il nostro ordinamento prevede severe sanzioni a carico del funzionario che non agisce. La mancata o tardiva conclusione del procedimento entro i termini prescritti comporta conseguenze gravi proprio sul piano della responsabilità. Il ritardo è elemento di valutazione della performance individuale nonché fonte di responsabilità disciplinare, amministrativo-contabile e civile del funzionario inadempiente. Astrattamente, e lasciando da parte lo scarso tasso di effettività delle misure disciplinari e sanzionatorie previste in caso di ritardo/inerzia, il funzionario che non agisce rischia altrettanto e forse di più rispetto a quello che, quanto meno, assume una decisione.
Il problema posto in luce dall’ordinanza di rimessione è tuttavia serissimo. L’attivazione di una competenza pienamente sostitutiva (almeno a partire da un certo momento) potrebbe essere vista di buon occhio dal funzionario che così si troverebbe esonerato dal peso e dalla responsabilità di decidere.
Qui si innesta l’altro argomento prospettato dalla IV Sezione a sostegno della tesi della competenza concorrente e che è quello della difficile sostituibilità della competenza e della discrezionalità di un organo collegiale di un ente esponenziale da parte di un organo tecnico quale il commissario ad acta.
Le possibili soluzioni si saldano.
L’esigenza di limitare il pericolo di atteggiamenti di comodo (o difensivi) da parte dell’amministrazione così come quella di salvaguardarne la sfera di discrezionalità potrebbero essere soddisfatte entrambe dall’impiego di strumenti di coazione indiretti in luogo di quello di coazione diretta consistente nella nomina del commissario ad acta. In altre parole i rilievi correttamente formulati dall’ordinanza di rimessione potrebbero trovare una composizione soddisfacente ove le parti fossero incoraggiate a chiedere[11] ed il giudice ad utilizzare con maggiore larghezza il rimedio dell’astreinte per indurre l’amministrazione recalcitrante ad agire. Della penalità di mora, che è espressamente prevista come misura di coercizione indiretta a disposizione del giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’art. 114, lett. e) c.p.a., la giurisprudenza[12] ha definitivamente riconosciuto l’applicabilità generale e dunque l’utilizzabilità anche in sede di giudizio di cognizione[13]. Sicché nulla osta – sembra - al suo impiego anche nel rito avverso il silenzio e ad opera della sentenza che ordina all’amministrazione rimasta inerte di provvedere entro un termine.
6. Annullabilità o nullità del provvedimento emesso dalla amministrazione oltre i termini di decadenza
La soluzione che sembra di poter argomentare dai principi circa il rapporto tra potere commissariale e quello dell’amministrazione istituzionalmente competente apre il problema del regime dell’atto adottato dall’amministrazione oltre il termine segnato, appunto, dall’insediamento del commissario ad acta.
L’ordinanza di rimessione dubita fortemente che l’atto tardivo possa considerarsi nullo per la ragione che – essendo comunque l’amministrazione competente in astratto – non ricorre l’ipotesi di difetto assoluto di attribuzione cui l’art. 21 septies della l. 241 del 1990 collega la nullità dell’atto. La violazione del termine impartito dal giudice, pure a volerne ammettere il carattere perentorio, comporterebbe pertanto l’annullabilità e non già la nullità del provvedimento.
A mio avviso, la categoria dell’annullabilità non è qui proficuamente utilizzabile.
A voler ricorrere ad essa si dovrebbe peraltro pure ammettere che l’inosservanza del termine concreti al più un vizio formale il cui effetto invalidante sarebbe eventuale e comunque sottoposto alla prova di resistenza di cui all’art. 21 octies. Gli effetti pratici della predicata annullabilità del provvedimento tardivo sarebbero, dunque, limitatissimi.
In definitiva delle due una: o l’amministrazione non decade mai dal potere di provvedere e il termine per l’esercizio del potere conserva la natura ordinatoria o meramente sollecitatoria che aveva prima della instaurazione del ricorso e della definizione del medesimo con sentenza di condanna[14] e allora l’inosservanza non comporta alcuna conseguenza in termini di validità/invalidità del provvedimento[15]; oppure il termine, almeno a partire dal momento che si è identificato con l’insediamento del commissario ad acta, assume carattere perentorio e di decadenza e allora è gioco forza concludere che la sua inosservanza comporta la sanzione più grave della nullità/inefficacia.
E’ chiaro, peraltro, che – come correttamente rileva l’ordinanza in commento – la “figura” di nullità cui fare riferimento non è quella del difetto di attribuzione perché l’amministrazione istituzionalmente competente è, in astratto, titolare del potere.
La categoria cui appellarsi sarebbe semmai quella - forse superata - della carenza di potere in concreto, nella quale un tempo si comprendevano proprio le ipotesi di esercizio del potere - pure conferito all’amministrazione - oltre i limiti temporali e spaziali per il suo valido esercizio[16] .
Si può supporre che la riluttanza della IV Sezione a ragionare in termini di nullità per carenza di potere in concreto trovi la sua giustificazione nel precipitato in punto di giurisdizione (ordinaria) che tale qualificazione tradizionalmente comporta e che sembra confermato dalla disciplina vigente. Difatti le “nullità” il cui accertamento è demandato al giudice amministrativo ex art. 31 c.p.a. sono solo quelle previste dalla legge e cioè, appunto, dall’art. 21 septies il quale però non contempla la figura della carenza di potere in concreto.
Tuttavia, da un lato, il silenzio di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 è materia di giurisdizione esclusiva, ai sensi dell’art. 133, lett. a) n.3, sicché la eventuale qualificazione del vizio in termini di carenza di potere in concreto può essere considerata comunque neutrale in termini di giurisdizione, dall’altro la disciplina dell’art. 21 septies, integrata sul punto dall’art. 114, comma 4, lett. c), offre spazio sufficiente per accogliere nell’alveo delle fattispecie di nullità/inefficacia da far valere in sede di giurisdizione amministrativa lo stato viziato del provvedimento tardivo.
L’atto adottato dall’amministrazione una volta scaduto il termine per provvedere impartito dal giudice e addirittura oltre i “tempi supplementari” accordati da una interpretazione benevola che le concede di agire fino all’insediamento del commissario di nomina giudiziale è posto in essere in violazione o elusione di sentenza esecutiva e, per questa ragione, incorre nella nullità/inefficacia sancita dall’ art. 114, comma 4, lett. b) e c), c.p.a.[17]
7. In sintesi
In conclusione, è pienamente condivisibile l’assunto, fatto proprio dall’ordinanza, per il quale la soluzione del problema del rapporto tra potere del commissario ad acta e potere dell’amministrazione commissariata deve essere rintracciata nei principi. L’indicazione che possiamo trarre dal principio di legalità, il quale non consente che il medesimo potere possa far capo a due soggetti diversi, è nel senso che, a partire da un certo momento identificabile con quello dell’insediamento del commissario ad acta,l’amministrazione commissariata decade dal potere di provvedere. L’atto adottato oltre detto termine non è nullo per difetto assoluto di attribuzione. Si può invece fondatamente ipotizzare che si tratti della nullità/inefficacia in cui incorrono, ai sensi degli artt. 21 septies l. 241 del 1990 e 114, comma 4, lett. b) e c), gli atti emessi in violazione o elusione del giudicato o di sentenza comunque esecutiva.
Quanto ai pericoli di deresponsabilizzazione dell’amministrazione competente e/o di eccessiva compressione della sfera della discrezionalità amministrativa che la definitiva sostituzione della p.a. da parte del commissario ad acta potrebbe comportare, l’uno e l’altro potrebbero essere evitati da un più liberale utilizzo di strumenti di coazione indiretti. L’esecuzione della sentenza di condanna ad adottare il provvedimento, specie se priva di un contenuto di accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale, ben si presta ad essere assistita dalla penalità di mora a carico della stessa amministrazione la quale sarebbe costretta a adempiere assumendo la piena responsabilità delle conseguenze della propria azione e di quelle di una ulteriore inerzia.
[1] Vedi punto n. 5.6. della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 7 del 9 maggio 2019
[2] m. andreis, Commissario ad acta, regime dei suoi atti e nuovo codice del processo amministrativo, in Urbanistica e appalti, 2012, p. 573 ss, per il quale la cautela imposta dalla norma che prescrive al commissario giudiziale di verificare se, anche tardivamente e sia pure all’ultimo momento, l’amministrazione ha comunque provveduto, esprime un atteggiamento di particolare deferenza che si giustifica in considerazione dell’ampiezza della discrezionalità che residua in capo all’amministrazione a seguito di sentenza che accerta l’obbligo di provvedere.
[3] l. bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, in Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo a cura di b. sassani e r. villata, Torino, 2012, a p. 929 nt. 68 osserva che l’art. 117, diversamente da quanto si era soliti ritenere in base all’art. 21bis della l. 1034 del 1971, non prevede “la decadenza dell’amministrazione dal potere-dovere di provvedere all’atto dell’insediamento del commissario ad acta, realizzandosi così una concorrenza di poteri dell’una e dell’altro, emancipati dai termini finali”.
[4] Così l. bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, cit. p. 911 per il quale “l’art. 117 comma 5, nell’abilitare il ricorrente avverso il silenzio ad impugnare con motivi aggiunti il provvedimento espresso sopravvenuto, presuppone che oggetto del ricorso introduttivo sia il silenzio inadempimento che lascia residuare in capo all’amministrazione il potere-dovere di provvedere, ancorché tardivamente”.
[5] La possibilità di impugnare il provvedimento sopravvenuto in corso di giudizio con motivi aggiunti aveva trovato in effetti resistenza nella giurisprudenza anteriore alla entrata in vigore del codice con il conseguente rischio per il ricorrente di incorrere in declaratoria di inammissibilità della domanda di annullamento del provvedimento sopravvenuto ove introdotta nelle forme previste per il rito camerale speciale. Sul punto, cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 27 ottobre 2006, n. 6439.
[6] Consiglio di Stato sez. V, 05/06/2018, n.3378; Consiglio di Stato sez. IV, 22/03/2017, n.1300; Consiglio di stato, sez. IV, 3 novembre 2015 n. 5014; Consiglio di Stato, sez. IV, 1 dicembre 2014, n. 5912; TA.R. Catania, (Sicilia) sez. IV, 10/07/2019, n.1746; T.A.R. Catania, (Sicilia) sez. III, 18/04/2018, n.772; T.A.R. Catanzaro, (Calabria) sez. I, 18/10/2017, n.1529; T.A.R. Napoli, (Campania) sez. VIII, 21/06/2018, n.4170
[7] Consiglio di Stato sez. VI, 28/01/2016, n.338
[8] Contra, però, T.A.R. Napoli, (Campania) sez. VII, 25/11/2019, n.5558. La sentenza, invero alquanto isolata, sostiene che il giudizio di ottemperanza non è esperibile per dare esecuzione ad una sentenza amministrativa in tema di silenzio in quanto il rito speciale già contiene la possibilità di richiedere al giudice che ha adottato la sentenza di accoglimento (statuendo la sussistenza dell'obbligo di provvedere dell'Amministrazione) di nominare (nella stessa sentenza o a seguito di successiva istanza dell'interessato) un commissario ad acta che dia compiuta attuazione, in sostituzione dell'Amministrazione inadempiente, al decisum sicché, a configurare una diversa via processuale (cioè che il giudizio di ottemperanza possa avere applicazione anche per l'esecuzione delle sentenze rese a seguito dello speciale procedimento previsto avverso il silenzio), si verrebbe a determinare un inutile quanto defatigante aggravamento dei rimedi processuali e addirittura a configurare un possibile profilo, per il ricorrente in ottemperanza, di abuso del processo.
[9] Cautela che sembra invero superata dal legislatore che, con l’art. 12, co. 1, lett. a) del d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni, convertito in l. n. 120/2020), divenuto comma 8-bis dell’art. 2 della l. n. 241/1990, ha sancito l’inefficacia delle determinazioni relative a fattispecie in cui opera il regime del silenzio assenso e i provvedimenti inibitori relativi alle ipotesi di s.c.i.a. “adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti”. Almeno nelle fattispecie di silenzio assenso, il termine per provvedere assume oggi chiaramente natura perentoria. Su questi aspetti m. calabrò, Il silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni) (note a margine di Cons. Stato, Sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5034 e T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 1 luglio 2020, n. 7476) in www.giustiziainsieme.it 26 novembre 2020
[10] b. sassani, Il regime del silenzio e l’esecuzione della sentenza in Il processo amministrativo davanti al giudice amministrativo, Le nuove leggi amministrative a cura di r. villata, Torino 2004, p. 406.
[11] Sulla necessità dell’istanza di parte perché il giudice adotti la misura della penalità di mora, correttamente, Tar Trento, sez. I, 13/04/2018, n.85;
[12] Vedi A.p. 9 maggio 2019, n. 7.
[13] L’art. 34, comma 1, lett. e) anticipa al giudizio di cognizione la possibile adozione delle misure idonee ad assicurare l’attuazione della sentenza, compresa la nomina del commissario ad acta. La norma non esclude espressamente l’adozione di altre misure, come la penalità di mora. Il riferimento alla nomina del commissario ad acta non vale ad escludere la possibilità di adottare altre misure di coercizione indiretta, quale la comminatoria di penalità di mora e trova invece la sua spiegazione nel carattere maggiormente invasivo della misura sostitutiva. Sul punto sia consentito rinviare a a. scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti della sentenza di condanna, in Dir. Proc. Amm,, 2017, p. 465.
[14] Nessun dubita, in effetti, che l’amministrazione conserva il potere-dovere di provvedere anche dopo la scadenza dei termini fissati dall’art. 2, l. 241 del 1990, salve le ipotesi nelle quali la legge espressamente sancisce il carattere perentorio, e a pena di decadenza, del termine, per tutti m.clarich, Manuale di diritto amministrativo, IV ed., Bologna, 2021, p. 251. La conclusione trova del resto conferma proprio nella disciplina in tema di ricorso avverso il silenzio. L’apparato rimediale approntato dal legislatore non avrebbe addirittura ragion d’essere se fosse preordinato all’adozione di provvedimenti espressivi di poteri da cui l’amministrazione è decaduta e per ciò solo illegittimi, così l. bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, cit., p. 929, nt. 68..
[15] Altrettanto ferma la posizione favorevole ad escludere che la tardività del provvedimento ne determini l’annullabilità. Peraltro al più si potrebbe ipotizzare un vizio formale da sottoporsi alla prova di resistenza di cui all’art. 21 octies comma 2...
[16] E tuttavia sulla vitalità della categoria vedi alb. romano, Nullità del provvedimento, in L’azione amministrativa a cura di alb. romano, Torino, 2016, p. 816 ss.
[17] Anche in questo caso, si verte peraltro in materia di giurisdizione esclusiva che è sancita dall’art. 133, lett. a, n. 5.
Memoria
di David Cerri
E io concederò nella mia casa e dentro le mie mura
un monumento e un nome (Yad Vashem),
un nome eterno che non sarà mai cancellato.
(Isaia 56:5)
Quando Bàal-shem doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene delle creature, andava allora in un posto nei boschi, accendeva un fuoco, e diceva preghiere, assolto nella meditazione: e tutto si realizzava secondo il suo proposito.
Quando, una generazione dopo, il Maggìd di Meseritz si ritrovava di fronte allo stesso compito, riandava in quel posto nel bosco, e diceva: “Non possiamo più fare il fuoco, ma possiamo dire le preghiere” – e tutto andava secondo il suo desiderio.
Ancora una generazione dopo, Rabbì Moshè Leib di Sassow doveva assolvere lo stesso compito. Anch’egli andava nel bosco e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto nel bosco, dove tutto ciò accadeva, e questo deve bastare”. E infatti ciò era sufficiente.
Ma quando di nuovo, un’altra generazione dopo, Rabbì Yisrael di Rischin doveva anch’egli affrontare lo stesso compito, se ne stava seduto in una sedia d’oro, nel suo castello, e diceva: “non possiamo fare il fuoco,non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il luogo nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia.”
E – così prosegue il narratore – il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle azioni degli altri tre.[1]
[1]La storia di Yisrael ben Eliezer, detto Bàal Shem Tov(Maestro del nome di Dio), rabbino polacco del ‘700, guaritore itinerante considerato il fondatore del chassidismo, è narrata da Gershom Scholem in Le grandi correnti della mistica ebraica(Torino, Einaudi, 1993, 353) come appresa dalla viva voce del grande scrittore israeliano Schemuel Y. Agnon.
A più di ottanta anni dall’emanazione delle prime leggi razziali italiane, date a San Rossore[1], ed in un momento storico nel quale l’Europa vede riaffacciarsi timori che credeva da tempo scomparsi, qualche riflessione sui “perché” dello scrivere non è forse inutile.
Brava gente, non dimenticate, brava gente, raccontate, brava gente, scrivete ![2]
In linea generale, uno di essi è costituito proprio dal dovere di tramandare la memoria di fatti e persone. Dirò di più: per chi si trova a scrivere per quel motivo al dovere si aggiunge spesso lo spontaneo desideriodi farlo; in ogni caso una spinta etica è difficile da negare, e se c’è un argomento sul quale la discussione sulla memoria e sulla necessità di preservarla si è fatta via via più approfondita è sicuramente quello della Shoah (ed in particolare, per noi italiani, la vicenda delle leggi razziali), che intendo usare come riferimento di base per un tentativo di verifica sul perché si sia scritto, e si continui a scrivere, di avvenimenti simili. Non solo da un punto di vista storiografico, naturalmente, ma anche quando l’impulso del ricordare crea nuova arte. Ma la memoria non è solo questo.
Non è mia ambizione anche solo tratteggiare le discussioni sul tema della memoria, tanto variegate e complesse esse sono. Si può però tentare di ricordarne alcuni tratti essenziali; mi soffermo allora soltanto su alcune questioni: la prima concerne la scelta fondamentale: ricordare o dimenticare?
La seconda è legata all’epoca nella quale viviamo, che vede cioè il passaggio dalla testimonianza alla storia ed insieme nuovi tentativi (che si approfittano giusto di tale passaggio) per rivederee correggereacquisizioni storiografiche indubitabili e documentate, forti solo degli effetti devastanti di una “discussione” pubblica tanto superficiale quanto pericolosa, grazie anche ai nuovi mediacapaci di ogni manipolazione.
Memoria e arte, arte e letteratura, poi, in un rapporto fecondo ma complesso per le diverse forme usate (ed i diversi obiettivi perseguiti) dagli scrittori; l’ultima infine verte su un piano duplice e più teorico: quello, da un lato, dell’ “etica della memoria”, e, dall’altro, quello della distinzione, rilevante anche ai fini del lavoro storiografico, tra pratiche di “oblio controllato” (talune forme di amnistia politica) e vera e propria cancellazione della memoria.
Su tutto, e me ne rendo conto, incombe l’ombra di una banalizzazione della Shoah dovuta all’enorme interesse mediatico degli ultimi decenni [3].
Ricordare o dimenticare ?
scrivere per non dimenticare.
Solo questo è negato anche a Dio: cancellare il passato [4]
La prima sembrerebbe avere una risposta scontata; non vi sarebbe motivo neppure per questo intervento se si scegliesse di dimenticare. Non è così, però. Vi sono motivazioni differenti che giustificano lo sforzo della memoria, e addirittura opzioni radicalmente diverse.
Partendo da queste ultime, un grande esponente della psicanalisi italiana - di origini ebraiche - come Cesare Musatti ha scritto che “determinate cose si dimenticano; altrimenti non si potrebbe continuare a vivere” [5]. Un silenzio terapeutico, si direbbe[6].
Un altro invito al silenzio ha invece diversa origine; Giacomo De Benedetti scrive che dopo il rastrellamento dell’ottobre 1943 a Fara Sabina, od Orte, una ragazza scorse alla grata di un vagone piombato del convoglio dei deportati il viso di una bambina che conosceva, e la chiamò.
Un altro viso si affacciò, e le accennò di tacere. “Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro” [7].
Un silenzio, questo, che immagino dovuto al pudore della disperazione.
Motivazioni entrambe nobili e comprensibili, ma che non possiamo accettare perché in realtà la memoria è uno strumento cui non possiamo rinunciare.
Quali invece le ragioni “pratiche” del ricordo, ed in particolare del conservarlo in forma trasmissibile (lo scriverne) ?
Conosciamo molti esempi di memorialistica privata degli anni della persecuzione razziale: si differenziano da altri per la costanza, l’oggettività ed il lungo periodo coperto (dal 1933 al 1945) quello del filologo Viktor Klemperer [8], e la cronaca degli ebrei di Plock fortunosamente redatta da Simha Guterman su strisce di carta, ed ancor più fortunosamente ritrovata in bottiglia 36 anni dopo [9]. In generale le memorie private hanno però un tono diverso, come due tra tutte celebri, quelle degli anni di guerra in Olanda di un’adolescente e di una giovane donna ebree olandesi, Anna Frank e Etty Hillesum [10]; o come quelle di Janina Bauman, moglie del sociologo Zygmunt, e figlia di un ufficiale polacco assassinato dagli stalinisti a Katyn, che ci ha lasciato le pagine del suo diario nel ghetto di Varsavia [11]; o come le lettere di Louise Jacobson, ragazzina francese deportata ad Auschwitz nel febbraio del 1943[12]. Ed è ancora una donna, Edith Bruck, a porre in epigrafe al racconto della sua lotta tra il dovere di non dimenticare e la condanna a ricordare una frase del Bàal Shem Tov: “L’oblio porta all’esilio, nella memoria è il segreto della redenzione” [13]. Forse la diversità del tratto è dovuta anche alla condizione femminile delle protagoniste [14], come si ricava a contrarioda altre testimonianze maschili, quale quella di Emanuel Ringelblum sempre da Varsavia, che non rinunciano neppure in quelle condizioni a qualche autoironico witz [15].
Scrivere, allora, per non dimenticare.
Scrivere per far giustizia
Mai dimenticherò tutto ciò,
anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso.
Mai[16]
Oppure scrivere per vendicarsi.
I tedeschi hanno uno speciale inferno tutto per loro [17]
Si ha spesso l’impressione che la classe media tedesca abbia il diavolo in corpo[18]
“Se noi ci mettiamo a indagare la nostra colpa risalendo fino alla sua fonte originaria, veniamo a trovarci di fronte all'umanità che nella forma tedesca ha assunto un modo caratteristico e terribile di diventare colpevole, ma che è una possibilità dell'uomo in quanto uomo” scriveva Jaspers nella sua opera più nota in questo ambito [19], frutto delle prime “libere” lezioni tenute ad Heidelberg nel 1946. Delle analitiche distinzioni operate dal filosofo tedesco – tra colpa criminale, colpa politica, colpa morale e colpa metafisica – ci può interessare qui la terza categoria, quella morale: “uno ha la responsabilità morale per quelle azioni che compie come individuo. E questo vale per tutte le sue azioni, anche per le azioni di ordine politico e militare che egli compie. In nessun caso vale la scusa che "gli ordini sono ordini".Quest’ultima affermazione, com’è noto, è il paravento dietro al quale si sono nascosti gli assassini: lo stesso Eichmann. Don Milani nella sua Lettera ai giudici ricordava che “A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito”[20], ma già Dietrich Bonhöffer aveva ammonito che “L’uomo del dovere alla fine dovrà compiere il proprio dovere anche nei confronti del diavolo”[21]
Responsabilità morale dell’individuo, dunque, che non contraddice il riconoscimento della “possibilità dell’uomo in quanto uomo” di compiere il male (e molto ci sarebbe da aggiungere sulla effettiva consistenza del libero arbitrio, secondo quanto di cui continuano ad informarci i neuroscienziati…).
Se allora il popolo tedesco ha un “inferno tutto per sé”, sarebbe errato ignorare quanto hanno compiuto altri popoli,: a cominciare, naturalmente, dagli italiani.
Italiani, brava gente ?
Angelo Del Boca nel suo celebre volume[22]ha giustamente apposto nel titolo il punto interrogativo all’affermazione che altrimenti è sempre scorsa sulla bocca di molti, anche tra di noi. E la domanda sarebbe giustificata non solo per il periodo qui in esame, ma anche per quello del colonialismo italiano, specialmente in Africa Orientale durante il fascismo, che non a caso è stata indicata come il laboratorio delle leggi razziali. Lecito quindi chiedersi: per tanti italiani che hanno soccorso gli ebrei perseguitati, quanti altri facevano parte delle schiere di aguzzini che, anche senza una direzione nazista – spesso comodo paravento per le giustificazioni post-belliche – cacciavano per ogni dove i loro concittadini di “razza” diversa ? Per tanti (pochi, pochissimi) professori universitari che rifiutarono nel 1931 il giuramento di fedeltà al regime, quanti (tutti gli altri) lo prestarono, magari con una “riserva interiore” come alcuni cattolici, o per meglio servire la causa dell’antifascismo all’interno delle istituzioni, come altri ispirati da Togliatti, o per non peggiorare le cose, come altri ancora…? [23]
Anche l’Università di Pisa ha conosciuto quel dramma [24], il cui lato peggiore è stato forse il momento del ritorno in cattedra dopo la caduta del fascismo: ritorno da taluni dei docenti espulsi tentato ma negato, da altri orgogliosamente rifiutato.
E per tanti (pochi) che nascosero i colleghi cui era impedito l’esercizio della professione consentendo loro una residua attività, a rischio e pericolo anche personale, quanti professionisti (la maggior parte degli avvocati, dei medici, ecc.) aderirono al fascismo e elessero per le cariche istituzionali i suoi corifei anche prima del ’26 ?
Se il termine “vendetta” può sembrare brutale e non appropriato, lo si abbandoni, una volta che abbia sortito il desiderato effetto di scuotere le coscienze, in favore di quello di “far giustizia”; ma è l’impostazione del dibattito storico nella categoria che va mutata, semplicemente indagando e riportando i “fatti”, senza accontentarsi delle agiografiche ricostruzioni del dopoguerra.
Così è successo per la categoria professionale che conosco meglio, facendone parte, quella degli avvocati. Una visione in parte autoconsolatoria, fondata su testimonianze autorevoli, quali quella di Piero Calamandrei, ha definito quella degli avvocati come la professione che più di ogni altra aveva sofferto della tirannia, per la necessità di lavorare quotidianamente in un quadro normativo nel quale trovare quotidianamente “la conferma esasperante della nostra vergogna”.E’, sempre con le parole del giurista fiorentino, il “lungo, logorante periodo” della “resistenza allusiva” fatta di lotta al fascismo “vivendoci in mezzo” (così lo ricorda Francesca Tacchi [25]); ed è ancora Calamandrei il testimone di un’interpretazione delle leggi razziali come tragico portato della “brutale amicizia” italo-tedesca [26]: “abbiamo sentito con orrore scendere dalla Germania e introdursi a poco a poco nella nostra legislazione la peste totalitaria annientatrice d’ogni forma di legalità”[27].
Il problema è che probabilmente non era andata proprio così.
Certamente l’occupazione tedesca mutò il quadro delle condizioni di vita degli ebrei italiani, ma le premesse teoriche delle leggi razziali avevano autonome fondamenta anche in Italia. E’ una considerazione che era già presente a chi – come Guido Alpa – si era dedicato agli studi sulla capacità, ricordando l’adesione o l’indifferenza di molti giuristi alla nuova tematica razziale [28], e che ora emerge con chiarezza dalle ricerche più recenti, che ne rintracciano l’origine nelle vicende delle guerre coloniali degli anni trenta, che avevano procurato all’Italia il suo “impero” [29]. Chi, nel 1939, comunicava a Stefano M.Cutelli (qualificatosi in copertina “squadrista” e direttore) di accettare “di buon grado” di far parte del Comitato scientifico del nuovo periodico Diritto razzista “…rivista di dottrina, diritto e giurisprudenza della razza, da voi così autorevolmente diretta” se non Santi Romano, allora Presidente del Consiglio di Stato? Santi Romano!
Joachim Fest, il grande storico del nazismo, ha narrato in un libro autobiografico–“Io no” [30]– in quale modo il padre, funzionario prussiano, avesse risposto alla madre che lo pregava di aderire al partito di Hitler,di fronte ad una carriera spezzata. La donna gli aveva ricordato che la “piccola gente” si era sempre difesa col mentire di fronte ai potenti; ma Johannes Fest, preside di una scuola cattolica licenziato a 42 anni per “attività antistatali”, le rispose: «Noi non siamo piccola gente! Non su questo argomento!». Il richiamo evangelico al «anche se tutti, io no» ci riporta al bivio apertosi di fronte a molti in quegli anni terribili. Non a tutti: “solo” a molti, perché tanti non avevano alcuna possibilità di scelta, come i docenti ed i professionisti che furono cacciati solo perché di razza ebraica. Sono gli “altri” che potevano scegliere: scegliere se tacere; se approfittare; se aiutare nell’ombra: se ribellarsi.
Del resto, la presunta “mitezza” delle leggi italiane è smentita dalla comparazione con le leggi tedesche, come ha dimostrato tra gli altri Valerio Di Porto [31], mentre la pratica della delazione – dai veri e propri cacciatori di taglie ai “volontari”, cittadini comuni – non è stata certo sconosciuta [32].
E sarebbe stato strano, del resto, che solo l’Italia avesse fatto eccezione ad un quadro europeo nel quale il nazismo incise su una realtà antisemita già profondamente radicata, come numerosi studi hanno indicato: dall’ampia ricostruzione di Mosse [33], alle ricerche di Browning e Gross [34], alla polemica opera di Goldhagen [35].
Salvaguardare la memoria di quegli anni significa quindi aprire gli archivi e scrivere di quanto vi si reperisca, per quanto sconvolgente possa essere: mai come in questi casi – ed in questi tempi – quest’opera non si esaurirà in una mera ricerca storica, ma ci dirà come reagire al totalitarismo e prevenire ogni tentativo di limitazione dei diritti fondamentali.
Dalla testimonianza alla storia
Chi dimentica o non è abituato a ricordare,
è sempre pronto a dar ragione all’ultima persona con cui parla[36]
La seconda questione ha al centro una domanda di intuitiva importanza: che accadrà dopo che anche l’ “ultimo testimone” diretto dello sterminio se ne sarà andato ? Non pochi di noi hanno infatti potuto conoscere personalmente persone scampate ai Vernichtungslager,e molti hanno almeno potuto apprenderne le testimonianze attraverso i mezzi di comunicazione: una per tutte, l’esperienza della monumentale ricerca di Claude Lanzmann sullaShoah [37]. Le due modalità peraltro non sono identificabili in tutto, lo dico pensando anche al ricorrente negazionismo, che come un fiume carsico di tanto in tanto si riaffaccia, inteso come movimento storiografico che in nome di uno scetticismo spinto all’estremo giunge a negare, o fortemente ridimensionare, alcuni fenomeni storici, in primis– quantomeno mediaticamente - la stessa Shoah.
Ha scritto David Bidussa che la Giornata della Memoria non è il “giorno dei morti”, ma quello della memoria per i vivi: “se la memoria è elaborata nel presente e si propone per il futuro significa che noi non ricordiamo ‘quello che è avvenuto’ come se fosse un dato, ma che lo ricordiamo attivamente, ossia insieme ne produciamo e riproduciamo la memoria”[38], compito che sarà allora – dopo l’ultimo testimone – esclusivamente nostro, e quindi inevitabilmente, come dire, di seconda mano.Un indirizzo operativo, dunque, tanto più consono all’angolazione che ho proposto poco sopra. Non ha torto, peraltro, neppure Marcello Pezzetti [39]quando ricorda che gli unici che hanno conosciuto davvero la Shoah sono quelli che non sono sopravvissuti, quelli che selezionati alla discesa dal treno venivano immediatamente avviati alle camere a gas, o rastrellati venivano subito fucilati e gettati nelle fosse comuni: la vera memoria è forse quella impossibiledello sterminio, non quella della vita nei lager. Impossibile, come scriveva Maurice Blanchot : “Noi leggiamo i libri su Auschwitz. Il voto di tutti, laggiù, l’ultimo voto: sappiate ciò che è accaduto, non dimenticate, e allo stesso tempo voi non lo saprete mai”[40].
Memoria e letteratura
Ho ricordato in epigrafe come l’atto del ricordare trovi espressione non solo nella memorialistica, nella ricerca storiografica vera e propria, ma anche nell’arte.
Il rapporto tra il genocidio e l’arte è complesso, e non possiedo certamente le competenze per discuterne. Mi limito a ricordare come il comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, accettò nel 1941 la proposta di un deportato polacco (Franciszek Targosz, un artista) di creare un museo all’interno del lager; per il primo, un elemento di pompa per i caporioni nazisti in visita; per il secondo, che fu posto alla guida del museo, e per altri internati che vi furono addetti, un viatico per la sopravvivenza. Al di là delle opere esposte (ispirate forzosamente, per lo più, al realismo di regime) l’arte forse aveva poco a che fare con l’iniziativa, ciò nonostante il Museo del lager rimane una testimonianza dell’irriducibilità dell’essere umano ai suoi bisogni fisiologici essenziali.. L’arte entra davvero nei campi con la loro liberazione, e da allora non li dimentica più. Il 16 aprile 1945 un giovane Corrado Cagli, volontario nell’esercito degli Stati Uniti, dove si era rifugiato dopo gli attacchi razziali alle sue opere, entra tra i primi a Buchenwald. Cagli dall’esperienza del campo ricaverà un album di disegni, da leggersi – scrive lui stesso – “non come i disegni di un pittore, ma come le testimonianze di un soldato di ventura” [41]. Da allora e fino ad oggi la Shoah costituisce un tema ricorrente della ricerca artistica; basterebbe ricordare le opere di Joseph Beuys, che aveva fatto l’esperienza della guerra nella Luftwaffe sul fronte orientale (come l’installazione “Dimostrazione Auschwitz”, 1956/1964 [42]); di Anselm Kiefer e Gerhard Richter, o più recentemente, quelle di Miroslaw Balka (come “How it is”, alla Tate Modern nel 2009 [43]).
Credo, tuttavia, che per il discorso che facciamo l’ambito nel contempo più ampio e più congruo col valore della testimonianza sia quello della letteratura.
Efficacemente Carlo de Matteis ha titolato “Dire l’indicibile” la sua ricerca sulla memoria letteraria dello sterminio degli ebrei [44].
Paul Celan, per tutti, ha dimostrato l’astrattezza della sia pur celebre e suggestiva affermazione di Adorno secondo la quale “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro” [45], ma è assai più ampio il riflesso delle tragedie del ‘900 in letteratura.
Mentre la riflessione di intellettuali come Levi e Amery è al confine tra filosofia e letteratura, e le testimonianze di Wiesel e Antelme [46]presidiano quello con la storia, altri hanno scelto la via del romanzo o del racconto per tramandare la memoria di quei giorni; memoria che in alcuni casi è in realtà frutto almeno parziale di invenzione, ma non meno efficace, e soprattutto non meno “veritiera”.
E’ il caso di alcune pagine di Jorge Semprùn, come quelle - atroci - sulle uccisioni dei bambini ebrei di Il grande viaggio[47], dove peraltro anziché di finzione si deve parlare di rielaborazione letteraria di una esperienza personale (lo “stile” aiuta la percezione, la ricostruzione di un avvenimento realmente accaduto); mentre in Cynthia Ozick la ri-creazione integrale di una vicenda assai più che verosimile si scolpisce nel lettore in modo incancellabile, come ne Lo scialle [48].
Diverso l’approccio di altri, come Andrė Schwartz-Bart, che ne L’ultimo dei giusti [49](Premio Goncourt del 1959 e tra i primi a risvegliare un interesse di massa per la Shoah) tratteggia la saga di una famiglia ebrea dal medioevo fino agli esiti novecenteschi; o Peter Weiss, che trasforma il materiale cronachistico di un processo reale contro un gruppo di SS di Auschwitz (i verbali, le deposizioni) nell’“oratorio in 11 canti” de L’istruttoria[50]con uno stile oggettivo che si presta ad un incalzante crescendo. In tempi più recenti, una lettura chocè stata quella di Le benevoledi Jonathan Littell [51], il cui protagonista – brillante ufficiale delle SS, omosessuale, le cui memorie si immaginano scritte dopo la guerra nel suobuen retirofrancese - incontra fittiziamente i protagonisti della Shoah (Hitler, Himmler, Eichmann e tanti altri personaggi storici, tra i quali anche intellettuali come Junger e Brasillach) sullo sfondo di torbide storie familiari; al di là del valore dell’opera – sul quale il giudizio non è uniforme – la sorta di autobiografia che non arretra di fronte alla descrizione delle più atroci infamie ha avuto un successo mondiale, e possono far riflettere le circostanze dell’origine ebrea dello scrittore, e del suo voler scrivere in francese, benchè statunitense: una doppia dissociazione, verrebbe fatto di dire, non nuova agli esperimenti letterari sul genocidio. Infine, un recentissimo contributo fuori dal comune viene da una giovane scrittrice italiana, Annick Emdin, che in Io sono del mio amato[52]gioca proprio sul filo di una memoria-confronto tra gli anni della Shoah ed il 1995, tra il mondo degli shtetl polacchi e l’ Israele moderno, mossa da un principio affermato da uno dei suoi personaggi: “Il mondo è tutto pieno di altri mondi…Si potrebbe quasi dire che ogni persona è un mondo a sé e anzi, forse in una sola persona possono esserci infiniti mondi”.
L’etica della memoria
Mi piacerebbe che qualcuno si ricordasse
che qui una volta viveva una persona di nome David Berger [53]
Al filosofo israeliano Avishai Margalit (che è tra l’altro tra i fondatori del movimento pacifista Peace Now) dobbiamo l'idea della "società decente", che non coincide con la "società giusta" di John Rawls, perché mentre quest’ultima si occupa soprattutto dei criteri distributivi, Margalit con il concetto di “decenza” evidenzia il valore della dignità umana, che intesa essenzialmente come assenza di umiliazione precede quello stesso di giustizia [54].
La sua interpretazione si basa su una distinzione tra etica e morale, fondata sul tipo di relazione interpersonale considerata: l’etica si interessa delle relazioni che definisce “spesse” (i rapporti che si intrattengono con le persone vicine e verso cui si nutre un interesse diretto), mentre la morale di quelle “sottili” (che cioè riguardano ogni essere umano).
La conclusione dello studioso è quindi che “esiste un’etica della memoria, ma nella memoria c’è ben poca moralità”; Margalit ricorre al concetto di “cura”, volto al passato ed in relazione con la memoria: il prendermi cura di qualcuno – una relazione “spessa” – comporta il ricordo. Per questo motivo (l’intrecciarsi con la cura, essendo al centro della relazioni “spesse”) la memoria appartiene allora all’etica, mentre la morale ne è appunto estranea perché le relazioni “sottili” di cui si occupa non implicano il dovere della “cura”. L’etica della memoria si colloca quindi su un piano collettivo generale, che giustifica il dovere del ricordo, per evitare nuove manifestazioni di “male radicale”, che puntano a contestare la stessa idea a base delle relazioni “sottili”, che cioè si abbiano dei doveri verso gli altri solo perché anch’essi esseri umani. Non è stato Hitler ad affermare ai suoi generali, poco prima dell’invasione della Polonia, “Dopotutto, chi parla oggi dello sterminio degli armeni ?” [55].
La fonte di molte riflessioni di Margalit è la Bibbia ebraica, in particolare per quella sull’importanza di ricordare il nome; l’espressione biblica “cancellare il nome” riveste il duplice significato di uccidere l’uomo e distruggerne la memoria; lo ha ben presente Jacques Derrida quando commentando il Paul Celan diAschenglorierileva l’intraducibilità per così dire “ontologica”, l’intrasportabilità al di fuori della lingua dello sterminio – il tedesco – di un simile doppio termine (in italiano “gloria delle ceneri” ? “cenere ‘aureolata’ di gloria” ? oppure semplicemente ”c’è la cenere” ?): “cenere, questo è anche il nome di ciò che annienta o minaccia di distruggere persino la possibilità di portare testimonianza allo sterminio” ; e proprio Celan così concludeva quei versi: “nessuno testimonia per il testimone”[56].
La frase di Isaia citata all’inizio di questo contributo si riferisce al pio eunuco, al “legno secco” che non lascerà discendenza, cui tuttavia Dio garantisce un posto nella memoria; come scrive Margalit “Chiamare Yad Vashem il memoriale per le vittime dell’olocausto esprime l’idea che le vittime ebree in Europa sono come gli eunuchi che non lasciano tracce, e che ci sarà un luogo di raccolta nazionale per i loro nomi, sul modello di cui parla Isaia” [57].
Amnistia o amnesia [58]?
Grazie al lavoro della memoria, completato da quello del lutto, ognuno di noi ha il dovere di non dimenticare, ma di ricordare il passato, per quanto penoso possa essere, sotto la guida di una memoria pacificata [59]
Paul Ricoeur, dopo aver riflettuto sui significati del ricordare e del dimenticare, si pone la questione dei ricorrenti tentativi, propri delle democrazie moderne, di “sopire” conflitti, o meglio i loro lasciti, ricorrendo ad una sorta di “oblio controllato” (commanded forgetting). Ricoeur ricorda il giuramento imposto dai vincitori del partito democratico dopo la fine dell’oligarchia dei trenta Tiranni (Atene, 403 a.C.), con il quale ci si impegnava a mè mnesikakein,a“non ricordare i mali” nei confronti degli avversari, ma oggi vengono in mente, per esempio, due iniziative senza dubbio entrambe volute per fini di pacificazione dopo eventi estremi (l’apartheid; la guerra), ma molto diverse tra loro: la Commissione per la verità e la riconciliazione voluta da Mandela per il Sud Africa, e l’ amnistia c.d. “di Togliatti” del 1946, Le ragioni in casi del genere possono essere più che onorevoli, come riconosce lo stesso Ricoeur, ma anche il dubbio che le amnistie violino verità e giustizia ha buoni motivi di rimanere. Abbiamo ricordato questi due episodi proprio per sottolinearne le diversità; solo nel primo caso, quello del Sud Africa, il compito principale è quello di acquisire testimonianze (e, particolare non da poco, sui comportamenti di entrambe le parti), mentre il percorso per l’amnistia vera e propria richiede “una confessione piena e totale. Bisogna dichiarare tutto quello che si è fatto, assumersi responsabilità definite e precise. L’amnistia infatti è molto specifica ed è applicata per ogni atto. Non si può chiedere amnistia dicendo «ero nella polizia addetto alla sicurezza, chiedo l'amnistia per avere ammazzato delle persone oppure per avere torturato». No, bisogna riferire in modo specifico di ogni persona uccisa, di ogni persona torturata e ogni azione viene giudicata in base agli stessi criteri. La stessa persona può ottenere l’amnistia per un'azione, ma non per un'altra. Le famiglie delle vittime o la vittima, se è ancora in vita, hanno il diritto di opporsi alla concessione dell'amnistia e hanno anche il diritto di essere rappresentate da un legale. Possono opporsi alla concessione dell’amnistia dicendo che non è stata detta tutta la verità oppure che non c'era nessuna motivazione politica per quel determinato crimine” [60]. Ecco allora l’indicazione posta in epigrafe di questo paragrafo: un dovere di ricordare, proprio dell’individuo e non dello Stato, che non mira alla vendetta ma proprio a consentire la più ampia ripresa della convivenza. Ma vi è di più.
Il dovere di ricordare non può non presupporre il “lavoro” della memoria, che secondo Ricoeur si svolge su due fronti: oltre a combattere l’oblio (non quello naturalederivante dalla nostra biologia e dalle nostre abitudini, anche pubbliche, ma quello) “consistant en un art habile d'éluder l'évocation des souvenirs pénibles ou honteux, en une volonté sournoise de ne pas vouloir savoir, ni de chercher à savoir”[61](l’amnistia del ‘46 ? gli “armadi della vergogna” ?), deve anche evitare i “pericoli della ripetizione”, quel ridurre la memoria ad una raccolta di fatti che da un lato impedisce una reale comprensione di comee perchèciò che è accaduto è accaduto, e, dall’altro, coltiva l’odio e la vendetta. E tra il lavoro della memoria ed il dovere della memoria c’è, ci deve essere, uno spazio per il futuro, o, come la definisce Ricoeur, per la “promessa”, questa volontà “de tenir la parole qui nous engage en avant de nous-mêmes et ainsi nous maintient à la hauteur de nos meilleurs projets de vie personnelle et collective”[62]: questa una possibile chiave interpretativa delle diverse Commissioni per la verità e la riconciliazione che negli ultimi decenni hanno fatto seguito a traumatiche “cesure” storiche, come dittature e guerre. Abbiamo già ricordato quella sudafricana, ma un’altra importante esperienza è la ricostruzione operata dallaCommissione Nazionale sulla Scomparsa delle Persone (CONADEP) argentina, presieduta dallo scrittore Ernesto Sabato, dei tragici avvenimenti di quella nazione nel periodo della dittatura militare (1976/1983). Il rapporto Nunca Más(Mai più) del 1984 [63], che non era diretto all’incriminazione dei responsabili (compito lasciato all’autorità giudiziaria ordinaria, e proseguito nonostante le successive traversie ed alternanze tra amnistie e processi), si apre col ricordo delle parole del Generale Dalla Chiesa che, durante il sequestro Moro, avrebbe risposto a chi suggeriva di torturare i brigatisti rossi: “L' Italia può permettersi di perdere Aldo Moro, ma non può permettersi di introdurre latortura”.
“Dire l’indicibile” quindi si può, e si deve; perché, ancora con Celan [64]
dice il vero, chi parla di ombre
[1]Interesse rinnovato dalle iniziative di “San Rossore 1938” svolte a Pisa nell’autunno 2018, sulle quali per tutti v. l’introduzione di Michele Battini, San Rossore 1938-2018, leggibile nel sito www.academia.edu(consultato il 29.11.2020).
[2]“Yidn, shraybt un farshraybt”in yddish, Simon Dubnov citato da P. Vidal-Naquet, Simon Doubnov: l'homme memoire, prefazione a S.Doubnov, Histoire moderne du peuple juif, Paris, Cerf, 1994 (ns. trad.). Dubnov fu storico ed intellettuale di nativa lingua yddish, nato nell’attuale Bielorussia, morto nel 1941 nei trasferimenti dal ghetto di Riga alla foresta di Rumbula dove si consumò il massacro di 25.000 ebrei ad opera dell’Einsatzgruppe A.
[3]Per tutti v. la satira di T.Reich, Il mio Olocausto, con prefazione di Cynthia Ozick - la scrittrice di Lo scialle, v.nota 42 - Torino, Einaudi, 2008, recensita da E. Löwenthal su La Stampa del 15.2.2008; v. anche M.Gerstenberg, The Abuse of Holocaust memory, Jerusalem, JCPA, 2009, spec.116 ss.
[4]Agatone (sec.V a.C) cit. da Aristotele nell’ Etica Nicomachea, II, 6.
[5]C.Musatti, Ebraismo e psicoanalisi, Pordenone, EST, 1994, 64.
[6]Oggi le scoperte delle neuroscienze sembrano consentire un controllo medico della memoria, questione eticamente quanto mai discutibile: v. ad es., A.J. Kolber, Therapetutic Forgetting: The Legal and Ethical Implications of Memory Dampening, Vanderbilt Law Review, Vo.59, 1561, 2006. SSRN: http://ssrn.com/abstract=887061(consultato il 29.11.2020).
[7]G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Palermo, Sellerio, 1993, 63.
[8]V.Klemperer, Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945, Milano, Mondadori, 2000.
[9]S.Guterman, Il libro ritrovato, Torino, Einaudi, 1991.
[10]A.Frank, Diario, Torino, Einaudi, 1966; E.Hillesum, Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 2000 (v.anche Parole con Ettydi L.Breggia, Torino, Claudiana, 2019.
[11]J.Bauman, Inverno nel mattino. Una ragazza nel ghetto di Varsavia, Bologna, Il Mulino, 1994.
[12]Dal liceo ad Auschwitz. Lettere di Louise Jacobson,Roma, L’Arca,1996, con prefazione di E.Toaff e introduzione di F.Sanvitale.
[13]E.Bruck, Signora Auschwitz,Venezia, Marsilio, 1999.Un’ ampia scelta di brevi narrazioni sulla figura del Baal Shem Tovin M.Buber, I racconti dei Chassidim, Milano, Garzanti, 1979.
[14]E la loro cultura: si paragonino le testimonianze dai campi di due deportate italiane - Albina Moinas di Monfalcone e Rosa Cantoni di Udine - nella Rivista telematica Deportati, Esuli, Profughe (DEP)dell’Università di Venezia Cà Foscari. Vero è che il generedelle memorie dei sopravvissuti dai campi è totalmente diverso, ed ancora diversa la posizione degli intellettuali: ricordo la polemica postuma tra Primo Levi – in I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986 – e Jean Amery, Intellettuale ad Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
[15]In A.Nirenstein, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, Torino, Einaudi, 1958. Un esempio di storiella ebraica di Ringelblum: “Un tale arriva all’altro mondo ed incontra Cristo in paradiso. – Ehi ! – grida – cosa fa qui un ebreo senza il bracciale ? …- Lascia perdere, - gli risponde San Pietro, - è il figlio del padrone”.
[16]E.Wiesel, La Notte, Firenze, Giuntina, 1980, 40.
[17]Dalla trascrizione (ns. trad.) del processo tenuto nell’aprile del 1691 dalla Corte di Venden (oggi Cesis, in Lettonia): è la testimonianza del lupo mannaroOld Thiess, raccolta in Old Thiess, a Livonian Werewolf, a cura di C.Ginzburg e B.Lincoln, Chicago/London, University of Chicago Press, 2020.
[18]Ernst Junger citato da H.Arendt in Ritorno in Germania, Roma, Donzelli, 1996.
[19]K.Jaspers, La questione della colpa, Milano, Raffello Cortina, 1966.
[20]Don L. Milani, Lettera ai giudici(1965), che tra l’altro scrive anche delle imprese italiane in Africa; si legge in https://www.ildialogo.org/donmilani/letteragiudici.htm(consul. il 6.12.2020).
[21]D. Bonhöffer, Resistenza e resa, (a cura di E.Bethge), Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,1988, p.61
[22]A. Del Boca, Italiani, brava gente ?,Vicenza, Neri Pozza editore, 2010-12 ed.e.book.
[23]A.Capristo,L'espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, Torino, Zamorani,2002; G.Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Torino, Einaudi, 2001. Tra tutti spicca la figura di Piero Martinetti, filosofo, la cui straordinaria lettera al Ministro Giuliano si legge a http://www.fondazionepieromartinetti.org/piero-martinetti/lettera-al-ministro-giuliano.html(consult. 29.11.2020) .
[24]T.Fanfani, Shoah e cultura della pace - Pagine di storia del Novecento all'Università di Pisa, Pisa, Edizioni Plus - Pisa University Press, 2001; F.Demi-B.Manfellotto, Diario di un’infamia (Le leggi, le vite violate, il ricordo), Pisa, Pisa University Press, 2018.F.Pelini-I.Pavan, La doppia epurazione.L’Università di Pisa e le leggi razziali, Bologna, Il Mulino, 2009; A.Peretti-S.Sodi, Fuori da scuola.1938 - Studenti e docenti ebrei espulsi dalle aule pisane, Pisa, Pisa University Press, 2018; M.Emdin-B.Henry-I-Pavan (a cura di), Vite Sospese-1938. Università ed ebrei a Pisa,Pisa University Press, 2019
[25]F.Tacchi, Gli avvocati italiani dall’Unità alla repubblica, Bologna, Il Mulino, 2002, 431; v. anche di A.Meniconi, La maschia avvocatura, Bologna, Il Mulino, 2006, spec. 239 e ss.; Id.,Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche, in Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano,a cura di G.Speciale, Bologna, Patron ed., 2013,177 ss., ed ancora – a cure sue e di M.Pezzetti – Razza e inGiustizia (Gli avvocati ed i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche), Roma, Poligrafico e Zecca dello Stato, 2018, raccolta di studi patrocinata dal Consiglio Superiore della magistratura e dal Consiglio Nazionale Forense, dal Senato e dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
[26]L’espressione è di F.W.Deakin, La brutale amicizia. Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano, Torino, Einaudi, 1963.
[27]Intervento al primo Congresso nazionale giuridico forense, Firenze 1947, in Atti del primo congresso nazionale giuridico forense del secondo dopoguerra, G.Alpa-S.Borsacchi-R.Russo (a cura di), Bologna, Il Mulino, 2008.
[28]G.Alpa, Status e capacità, Bari, Laterza, 1993, 130 ss.
[29]Per tutti v. E. De Cristofaro, Il codice della persecuzione, Torino, Giappichelli, 2008, 261 ss.; M.Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, Bologna, Il Mulino, 2008, in particolare sull’ “autosufficienza” dell’antisemitismo fascista; G.Alpa, 1938.i giuristi italiani, il codice civile e le leggi razziali, in Rass.Forense, 2014,159 ss.; I.Pavan, Prime note su razzismo e diritto in Italia. L’esperienza della rivista “Il Diritto Razzista” (1939–1942), in D. Menozzi, R. Pertici, M. Moretti (a cura di), Culture e libertà. Studi di storia in onore di Roberto Vivarelli, Pisa, ediz. della Normale, 2006, 371 ss.
[30]J.Fest, Io no. Memorie d’infanzia e gioventù, Milano, Garzanti, 2007. V. anche H.Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Pagine di storia della shoah, a cura di A.Chiappano e F.-Minazzi, Milano, Kaos ed., 2005, 191 ss.
[31]V. Di Porto, Le leggi della vergogna, Firenze, Le Monnier, 2000; Id., Il 1938 in Italia e in Germania, Spunti per una comparazione, in La Rassegna mensile di Israel, numero speciale n.2/2007, 225 ss. Per una rassegna della legislazione tedesca (con traduzione in lingua inglese) v. A.Tschentscher, Footprints of the Evil. Techniques of Nazi Lawmaking(March 27, 2010). SSRN: http://ssrn.com/abstract=1579414(consultato il 29.11.2020).
[32]R.Canosa, A caccia di ebrei, Milano, Mondadori, 2006; M.Franzinelli, Collaborazione e delazione, in Storia della Shoah in Italia, Torino, UTET, 2010, vol.I.V; S.Levis Sullam, I carnefici italiani, Milano, Feltrinelli, 2015; T.Schlemmer, Invasori, non vittime, Bari-Roma, Laterza, ed dig. 2019.
[33]G.L.Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 1991. A cura di M.Battini e M.A.Matard Bonucci v. Antisemitismi a confronto: Francia e Italia, Pisa, Edizioni Plus - Pisa University Press, 2010.
[34]C.R.Browning, Uomini comuni, Torino, Einaudi, 1995; J.T.Gross, I carnefici della porta accanto, Milano, Mondatori, 2003.
[35]D.J.Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler, Milano, Mondatori, 1998.
[36]R.Franchini, 99 aforismi, Napoli, Giannini, 1976 (af.29).
[37]C. Lanzmann, Shoah, DVD con testi allegati, introduzione di F.Sessi e prefazione di S. de Beauvoir, Torino, Einaudi, 2007. Sulla nuova edizione dell’opera a 25 anni dalla prima uscita v. il commento di D.Denby in The New Yorkerdel 10.1.2011, “Look again”.
[38]D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Torino, Einaudi, 2009. Utili anche gli articoli di Giulio Busi raccolti in La Pietra nera del ricordo, Milano, IlSole24Ore, 2020.
[39]Di Pezzetti v. Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto, Torino, Einaudi 2009.
[40]M. Blanchot, L'écriture du désastre, Paris, Gallimard, 1980, spec. p.130 ss. (ns. trad.)
[41]T.L.Cicciarella, La parabola di Corrado Cagli. Dagli attacchi razziali alla liberazione del campo di Buchevwald (1937-1945), che si legge in www.archiviocagli.com(consultato il 3.1.2021).
[42]G.Ray, Joseph Beuys and the after-Auscwitz sublime, in Terror and Sublime in Art and Critical Theory,New York, Palgrave MacMillan, 2005 (si legge in faculty.winthrop.edu, cons. il 3.1.2021).
[43]Esperienza straordinaria per chi ha potuto farla, l’ingresso attraverso una rampa nel buio totale nella grande camera di acciaio (profonda trenta metri ed alta tredici) inquieta e segna il visitatore. V. su YouTube HOW IT IS: Miroslaw Balka (G.Gheblawi) (consultato il 3.1.2021).
[44]C.De Matteis, Dire l’indicibile. La memoria letteraria della Shoah, Palermo, Sellerio, 2009.
[45]T.W.Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Torino, Einaudi, 1981.
[46]R.Antelme, La specie umana, Torino, Einaudi, 1969.
[47]J. Semprùn, Il grande viaggio, Torino, Einaudi, 1990.
[48]C.Ozick, Lo scialle, Milano, Feltrinelli, 2003.
[49]A.Schwartz-Bart, L’ultimo dei giusti, Milano, Feltrinelli, 1961.
[50]P.Weiss, L’istruttoria, Torino, Einaudi, 1966.
[51]J. Littell, Le benevole, Torino, Einaudi, 2008. Le “benevole” sono le Eumenidi, che perseguitano il protagonista nella figura di due poliziotti nazisti che indagano sull’omicidio della madre, effettivamente da lui assassinata insieme al compagno.
[52]A.Emdin, Io sono del mio amato, Milano, Ugo Guanda Editore, 2020
[53]David Berger, ebreo polacco, cercò di sfuggire all’invasione tedesca rifugiandosi a Vilnius in Lituania; lì fu fucilato nel luglio del 1941, a 19 anni. La frase è tratta dalla sua ultima lettera all’amica Elsa.
[54]A.Margalit, La società decente, Milano, Guerini e associati, 1998; fondamentale di quest’Autore per ciò che ci interessa L’etica della memoria, Bologna, Il Mulino, 2006; J.Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 2008. Sulle teorie della giustizia utile a parere di chi scrive il riferimento a M.Sendel, Giustizia. Il nostro bene comune, Milano, Feltrinelli, 2010.
[55]Per la sintesi delle posizioni di Margalit sono debitore ai commenti di K.A.Appiah, You must remember this, in La Rivista dei Libri, maggio 2007, e di M.Bozzer, nella cit. Rivista telematica Deportati, Esuli, Profughe (DEP)dell’Università di Venezia, la cui lettura raccomando caldamente.
[56]Niemand / zeugt für den / Zeugen(ns.trad.).J.Derrida,Poetics and Politics of Witnessing(2004) inSovereignities in Question. The Poetics of Paul Celan,a cura di T.Dutoit e O. Pasanen, New York, Fordham University Press, 2005; Aschenglorieè nella raccolta di Celan del 1967 Atemwende.
[57]A.Margalit, L’etica della memoriacit., p.26. Importante il progetto dello Yad Vashem per assicurare, prima che sia troppo tardi, l’identificazione di tutte le vittime dello sterminio: www1.yadvas hem.org.
[58]R.Bodei, Libro della memoria e della speranza,Bologna, Il Mulino, 1995.
[59]P.Ricoeur, lecturetenuta a Budapest nel marzo 2003, Memory, history, oblivion,che si legge sul sito http://www.fondsricoeur.fr (consult. 29.11.2020); il testo consultato è Memory, history, forgetting,Chicago/London, University of Chicago Press, 2004.
[60]A.Russel, Signor nemico crudele: lei è stato perdonato, in Diario della settimana, III, n.10, 11.3.1998.
[61]P.Ricoeur, Le bon usage des blessures de la mémoire in Les résistances sur le Plateau Vivarais-Lignon (1938-1945), http://www.fondsricoeur.fr/uploads/medias/articles_pr/temoin-4.pdf(consultato il 29.11.2020); Id.,Témoins, témoignages et lieux de mémoires. Lesoubliés de l’histoire parlent, Polignac, Editions du Roure 2005. Il riferimento più generale è a P.Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato,Bologna, Il Mulino, 2004, i cui concetti principali sono sintetizzati nella lecturericordata in nota 62. Su Margalit e Ricoeur v. V.Bradford,On the Language of Forgetting, in Quarterly Journal of Speech 95.1 (2009), 89-104.
[62]P.Ricoeur, Le bon usage cit.
[63]http://www.desaparecidos.org/nuncamas/web/english/library/nevagain/nevagain_000.htm(consultato il 29.11.2020) la cui versione stampata in lingua inglese contiene una introduzione di Ronald D.Dworkin: NUNCA MAS: The Report of the Argentine National Commission on the Disappeared, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1986.
[64]“Wahr spricht, wer Schatten spricht”: P.Celan, Sprich auch du(Parla anche tu), in Von Schwelle zu Schwelle(1955) (trad. it. Di soglia in soglia,Torino, Einaudi, 1996).
La nuova proroga delle disposizioni emergenziali per i processi civili (d.l. 14 gennaio 2021, n.2). Una scheda di Franco Caroleo
Per il processo dell’emergenza, la stagione delle proroghe (a differenza di quella dell’amore cantata da Battiato) non conosce tregua. Lo scorso 14 gennaio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 2/2021 che, nel prorogare lo stato di emergenza epidemiologica, interviene indirettamente anche sul comparto giustizia.
La breve scheda che segue analizza le disposizioni del nuovo d.l. che riguardano il processo civile.
Titolo
Decreto-legge 14 gennaio 2021, n. 2, “Ulteriori disposizioni urgenti in materia di contenimento e prevenzione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 e di svolgimento delle elezioni per l’anno 2021”. (21G00002) (GU Serie Generale n. 10 del 14 gennaio 2021).
Le norme (indirettamente) riguardanti il processo civile
- art. 1, co.1.
La proroga delle disposizioni processuali di cui agli artt. 23 d.l. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020
L’art. 1, co. 1, del d.l. n. 2/2021 recita: “All’articolo 1, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, le parole «31 gennaio 2021» sono sostituite dalle seguenti: «30 aprile 2021»”.
Il termine dello stato di emergenza (originariamente fissato al 31 gennaio 2021) è dunque prorogato al 30 aprile 2021.
Detto termine era stato individuato dall’art. 23, co. 1, d.l. n. 137/2020, così come modificato dalla legge di conversione n. 176/2020, quale termine ultimo per l’applicazione dei commi da 2 a 9 ter del medesimo art. 23 nonché delle disposizioni di cui all’art. 221 d.l. n. 34/2020 (questo il testo dell’art. 23, co. 1: “Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla scadenza del termine di cui all'articolo 1 del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35 si applicano le disposizioni di cui ai commi da 2 a 9-ter. Resta ferma fino alla scadenza del medesimo termine l’applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 221 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 ove non espressamente derogate dalle disposizioni del presente articolo”).
Conseguentemente, dalla proroga del termine fissato dall’art. 1, co. 1, d.l. n. 19/2020 deriva la proroga dell’operatività delle disposizioni emergenziali di cui agli artt. 23 d.l. n. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020.
Devono quindi ritenersi prorogati al 30 aprile 2021:
- l’obbligo del deposito telematico di tutti gli atti (anche quelli introduttivi) e documenti, per come previsto dall’art. 221, co. 3, d.l. n. 34/2020;
- la celebrazione a porte chiuse che il giudice può disporre per le udienze pubbliche, per come previsto dall’art. 23, co. 3, d.l. n. 137/2020;
- la trattazione scritta che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, per come previsto dall’art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020; tale modalità di trattazione può essere adottata anche per le udienze in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente, come ammesso dall’art. 23, co. 6, d.l. n. 137/2020;
- la celebrazione con collegamento da remoto che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, per come previsto dall’art. 221, co. 7, d.l. n. 34/2020; in questi casi, il giudice può essere collegato anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario (art. 23, co. 7, d.l. n. 137/2020);
- il giuramento telematico del c.t.u., con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico (in luogo dell’udienza all’uopo fissata), per come previsto dall’art. 221, co. 8, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità per gli organi collegiali di assumere le deliberazioni in camera di consiglio mediante collegamenti da remoto, per come previsto dall’art. 23, co. 9, d.l. n. 137/2020;
- la possibilità di deposito telematico degli atti e dei documenti da parte degli avvocati nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione, per come previsto dall’art. 221, co. 5, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità del cancelliere di rilasciare in forma di documento informatico la copia esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 475 c.p.c., previa istanza telematica dell’interessato, per come previsto dall’art. 23, co. 9 bis, d.l. n. 137/2020.
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