ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La verifica di legittimità costituzionale delle leggi elettorali parlamentari. Come tutelare il diritto del cittadino a votare in conformità alla Costituzione
di Felice Besostri
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 177/2020 abbiamo una legge elettorale applicabile alla riduzione del numero dei parlamentari conseguente alla legge cost. n. 1/2020, con 400 deputati, di cui 8 della Circoscrizione estero e 200 senatori, di cui 4 della Circoscrizione estero da eleggere con un sistema elettorale misto maggioritario e proporzionale, con prevalenza di quest’ultimo. Non sono venuti meno i dubbi di costituzionalità della legge n. 165/2017, con la quale è stato rinnovato il Parlamento nel 2018, la cui scadenza naturale è prevista nel 2023. I dubbi sono aumentati con le modifiche apportate dalla legge n. 51/2019 e dalla riduzione del numero per le modalità con cui è stata attuata la riduzione specialmente al Senato, che comportano uno squilibrio non giustificato nella rappresentanza. Per la prima volta si pone il problema di una possibile incostituzionalità di una norma di rango incostituzionale, come prospettato dalla Consulta con la sentenza n. 1146/1988. Esiste il rischio concreto che si possano tenere elezioni anticipate addirittura prima del semestre che precede l’elezione del Presidente della Repubblica a partire dal gennaio 2022. Sarebbe la quinta elezione con una legge di sospetta costituzionalità dopo quelle del 2006, 2008 e 2013 con il Porcellum (legge n. 270/2005) e quella del 2018 con il Rosatellum (legge n. 165/2017). Per poterlo evitare occorre portare la legge in Corte Costituzionale. con un’ordinanza di rimessione ex art. 23 legge n. 87/1953 e che la stessa si possa pronunciare prima della convocazione delle elezioni, per evitare che si insedi un Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale visto il precedente della sentenza n. 1/2014, che ha fatti salvi i parlamentari proclamati eletti, malgrado l’incostituzionalità della legge elettorale. Una lotta contro il tempo, la lunghezza dei processi e il ridotto numero dei tribunali competenti solo quelli dove ha sede l’Avvocatura dello Stato, mentre si dovrebbe poter contare sui tutti i Tribunali civili, come giusto per la tutela di un diritto costituzionale fondamentale, che si esercita nel Comune di residenza. Una scelta che spetterebbe al Governo favorire o ostacolare tramite l’Avvocatura della Stato e ai giudici applicare su impulso degli avvocati degli elettori. La legge elettorale vigente formalmente non attribuisce un premio di maggioranza, annullato nelle versioni precedenti di un premio attribuiti senza una soglia minima (sent. n. 1/2014) o in seguito a ballottaggio tra le prime due liste (sent. 35/2017), ma sempre senza garanzia di rappresentatività effettiva del corpo elettorale. Si pongono tuttavia problemi di rispetto dell’art. 48 Cost. in ordine ai parametri costituzionali dell’uguaglianza, della libertà e della personalità del voto, che si applicano anche ai sistemi misti, con prevalenza del voto proporzionale, 5/8 dei seggi, rispetto a 3/8 maggioritari e apparentemente senza premi di maggioranza. I dubbi di costituzionalità sulla legge elettorale vigente sono amplificati dall’entrata dei nuovi collegi e circoscrizioni elettorali in applicazione del taglio del Parlamento. Le incostituzionalità della legge elettorale sono amplificate dalla legge cost. n. 1/2020 di taglio lineare del Parlamento del 36,50%, va eccepita la sua incostituzionalità, come atto presupposto, argomentando ex sent. n.1146/1988 della Corte costituzionale?
Sommario: 1. Antecedenti e presupposti - 2. La revisione costituzionale di riduzione dei parlamentari – 3. Le parti processuali e il privilegio del foro erariale – 4. I dubbi di costituzionalità della legge elettorale vigente – 5. La violazione dell’art. 48 Cost. sotto diversi profili – 6. Esclusione della questione della legittimità costituzionale della legge costituzionale n. 1/2020 dalle azioni giudiziarie per l’accertamento del diritto dei cittadini di votare in conformità della Costituzione.
1. Antecedenti e presupposti
Con la pubblicazione del d.lgs. 23 dicembre 2020 n. 177 “Determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, a norma dell'articolo 3 della legge 27 maggio 2019, n. 51.” nella G.U. Serie Generale n. 321 del 29-12-2020 - Suppl. Ordinario n. 45 si conclude l’iter della legge elettorale 27 maggio 2019, n. 51 “Disposizioni per assicurare l'applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari” in conseguenza dell’entrata in vigore il 5 novembre 2020 della legge costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1 ”Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari. (G.U. Serie Generale n.261 del 21-10-2020). La legge costituzionale è stata promulgata dal Presidente della Repubblica con la formula “La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato; Il referendum indetto in data 17 luglio 2020 ha dato risultato favorevole;” prevista dall’art. 25 della legge n. 352/1970, qualora sia stato chiesto, entro 3 mesi dalla pubblicazione in G.U. n. 240 del 12 ottobre 2020 del testo della legge costituzionale approvata a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi delle Camere, il referendum costituzionale previsto dall’art. 138 Cost. e lo stesso dichiarato ammissibile con ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione[1]. Nel caso di specie l’iter, già complesso è stato vieppiù complicato dalla pandemia COVID-19, perché il referendum costituzionale, indetto con d.p.r. del 28 gennaio 2020 per il giorno di domenica 29 marzo 2020, si è invece tenuto nei giorni di domenica 20 settembre e di lunedì 21 settembre 2020 in seguito al d.p.r. del 17 luglio 2020 in G.U. Serie Generale n.180 del 18-07-2020, senza che il termine previsto dall’art. 15 c.2 legge n. 352/1970, fosse formalmente modificato, a differenza di quello del primo comma, cui si era provveduto con l'articolo 81 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, portato da 60 a 240 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza di ammissione dell’UCR del 23 gennaio 2020.
In applicazione dei principi affermati con le sentenze della Corte Cost. n. 1/2014 di annullamento parziale della legge elettorale n. 270/2005 e n. 35/2017 di annullamento parziale della legge elettorale n. 52/2015 è aperto per i cittadini elettori il ricorso per l’accertamento del loro diritto di votare in conformità alla Costituzione nel caso che la normativa elettorale vigente ingeneri un dubbio in proposito dell’estensione del loro diritto. Le sentenze n. 1/2014 e n. 35/2017 hanno avuto come antecedenti presupposti le sentenze n. 15 e n. 16 del 2008 in materia di ammissibilità di referendum abrogativo di leggi elettorali, dichiarato ammissibile, ma con avvertimento proprio sulla legittimità di un premio di maggioranza svincolato da una soglia minima in voti o seggi. I limiti al referendum abrogativo in materia elettorale sono stati precisati da due decisioni di inammissibilità la n. 13/2012 sulla legge n. 270/2005 di merito e più recentemente la n. 10/2020 in procedura sul referendum promosso da 8 consigli regionali per sostituire il sistema misto maggioritario/proporzionale con integralmente maggioritario di collegi uninominali da assegnare al candidato più votato. Le leggi elettorali sono considerate leggi “costituzionalmente necessarie” dovendosi intendere in particolare la cosiddetta auto-applicatività della normativa di risulta alla stregua di «una disciplina in grado di far svolgere correttamente una consultazione elettorale in tutte le sue fasi, dalla presentazione delle candidature all'assegnazione dei seggi» (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008). La medesima esigenza si è posta anche nel caso di parziale illegittimità costituzionale delle leggi elettorali della Camera e del Senato (sentenze n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014). Gli annullamenti parziali sono stati possibili perché l’impianto della legge era proporzionale, corretto da un premio di maggioranza predeterminato in un numero minimo di seggi da attribuire in più alla lista o coalizione vincitrice, annullato il quale, si aveva una legge applicabile. Le discrepanze derivavano dalle differenze inevitabili della base elettorale nazionale per la Camera dei deputati in proporzione alla popolazione delle circoscrizioni e regionale per il Senato, con la previsione di un numero minimo di senatori a prescindere dalla popolazione per un gruppo di regioni, più che dalla diversa composizione del corpo elettorale.
2. La revisione costituzionale di riduzione dei parlamentari
Tuttavia, rispetto al passato i ricorsi non possono evitare di misurarsi con la legge costituzionale n. 1/2020 di riduzione del numero dei parlamentari specialmente per quanto riguarda il Senato della Repubblica. A causa dell’equiparazione delle Province autonome di Trento e Bolzano (non espressamente nominate) alle Regioni, non prevista da nessun testo di legge costituzionale a cominciare da quello assunto quale testo base (ddl cost. A.S.n.515 Calderoli-Perilli), ma introdotto come emendamento del relatore. La conseguenza è che il Trentino-Alto Adige/Südtirol con 6 senatori, 3 per ogni Provincia autonoma, si trova ad essere sovra rappresentato nel Senato rispetto a Regioni più popolose, comprese Regioni a statuto speciale (Sardegna e Friuli-Venezia Giulia) caratterizzate da lingue minoritarie riconosciute e tutelate dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” in G.U. Serie Generale n.297 del 20-12-1999, che costituisce ritardata attuazione dell’art. 6 Cost. e della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali di Strasburgo 1995, STE n. 157 del Consiglio d’Europa, autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione in Italia dati con legge n. 302 del 28 agosto 1997, (Gazzetta Ufficiale n. 215 S.O. del 15 settembre 1997).
Il Trentino- Alto Adige/Südtirol, che aveva 7 senatori come Abruzzo, Friuli-Venezia Giulia, Umbria e Basilicata, ora avrà 2 senatori in più di Abruzzo e Friuli-Venezia Giulia, ma anche 1 senatore in più di Liguria, Marche e Sardegna e lo stesso numero della Calabria, pur avendo al censimento 2011 una popolazione di 1.029.475 abitanti, la minore tra quelle delle regioni sopra nominate, tra le quali si distaccano la Sardegna con 1.639.362 e la Calabria con 1.959.050. In teoria vi possono essere norme di rango costituzionale incostituzionali in caso di violazione di principi supremi dell’ordinamento costituzionale (sent. n. 1146/1988 della Corte Cost.), ma come sottoporre il quesito alla Corte Cost. attraverso una questione di legittimità costituzionale in via incidentale prima dell’applicazione della legge in caso di elezioni parlamentari è un problema, non semplice.
3. Le parti processuali e il privilegio del foro erariale
Il Presidente della Repubblica è irresponsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, salvo che per alto tradimento e attentato alla Costituzione (art.90 Cost.) e nessun suo atto è valido se non controfirmato dai ministri proponenti, che se ne assumono la responsabilità (art. 89 c.1 Cost.) e gli atti aventi valore legislativo, decreti-legislativi (art. 76 Cost.) e decreti-legge (art. 77 c. 2 Cost.), sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 89 c. 2 Cost.). Il d.lgs. n. 177/2020 è contro-firmato dal Presidente del Consiglio, dal Ministro dei Rapporti col Parlamento e dal Ministro dell’Interno che pertanto vanno evocati in giudizio, con notifica del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. o dell’atto di citazione presso l’Avvocatura Generale o le Avvocature Distrettuali della Stato, che assicurano la difesa ex lege del Governo senza necessità di delega e facendo scattare il privilegio del Foro erariale, con spostamento del giudice naturale, che non è più il tribunale ordinario competente in base alla residenza del cittadino elettore, bensì il tribunale del Comune capoluogo del distretto di Corte d’Appello, dove ha sede l’Avvocatura Distrettuale dello Stato (art. 25 c.p.c. Foro della pubblica amministrazione), che come primo effetto ha quello di incidere sul diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. e proprio in materia di tutela di un diritto costituzionale fondamentale, il diritto di voto in una Repubblica democratica nella quale la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1 Cost.) precipuamente come corpo elettorale partecipando a elezioni e referendum. Questo è pur sempre un vantaggio rispetto al tentativo iniziale dell’Avvocatura dello Stato di concentrare le azioni sulle leggi elettorali presso il Tribunale Civile di Roma applicando l’art. 19 c.p.c., cioè il Foro generale delle persone giuridiche e delle associazioni non riconosciute, respinto dalla Cassazione con l’argomentata ordinanza della Sesta Sezione Civile n. 3395/18, che dichiara la competenza, su parere conforme della P.G. presso la Corte suprema, del Tribunale del Comune di residenza dei cittadini elettori ricorrenti, cioè dove il diritto viene esercitato.
Si riporta il passo pertinente dell’Ordinanza: “Ne consegue che la posizione soggettiva fatta valere deve essere valutata non nella sua astrattezza, ma necessariamente correlata all'esercizio, e l'effettività della tutela richiama necessariamente profili della tempestività e dell'accessibilità, nel rispetto dell'art.25 Cost. e dell'art.6 CEDU”[2] . La controversia, siccome appunto avente ad oggetto l'esercizio del diritto di voto, deve ritenersi radicata nel luogo ove si esercita il diritto, ovvero nel comune di residenza, nelle cui liste elettorali sono iscritti i ricorrenti, spostandosi se del caso la competenza ai sensi del primo comma dell'art. 25 c.p.c.”[ns. evidenziazione in grassetto].
Non essendo previsto l’accesso diretto alla Corte Costituzionale il numero di ricorsi in Tribunali diversi aumenta la probabilità di trovare un giudice sensibile alle questioni incidentali di costituzionalità e pertanto è pregiudiziale accertare se il Foro della Pubblica Amministrazione, se applicabile, costituisca una competenza territoriale inderogabile (ex art. 28 c.p.c.), quindi accertabile anche d’ufficio, derogabile, quindi eccezione soggetta a decadenza se non tempestivamente posta nel primo atto difensivo dell’Avvocatura dello Stato (art. 38 cpc).
Per poter tranquillamente promuovere il maggior numero di giudizi, senza dover affrontare pregiudizialmente la questione della competenza territoriale, rispetto all’invio in Corte Costituzionale, è necessario, non tanto che la competenza dell’art. 25 c.p.c., sia derogabile[3], quanto che non sia applicabile al caso di specie, come si potrebbe evincere a contrario proprio dall’eccezione di competenza territoriale ex art. 19 c.p.c. del Tribunale di Roma, sollevata dall’Avvocatura dello Stato.
L’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.), il diritto di difesa in ogni stato e grado per la tutela dei diritti (e degli interessi legittimi) (art. 24 Cost.), di non essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), fanno parte dei principi supremi, altrettanto essenziali e fondamentali sono il diritto di voto personale ed uguale, libero e segreto (art. 48 Cost.), di candidarsi in condizioni di uguaglianza (art. 51 Cost.) e che il processo si svolga in contraddittorio tra le parti in condizioni di parità (art. 111 c. 2 Cost.) la Corte Costituzionale deve poter essere posta in grado di esercitare il controllo di costituzionalità ex art. 134 Cost., malgrado l’art. 66 Cost. e l’art. 25 c.p.c..
Resta il fatto, che si concentra di fatto il controllo eventuale di costituzionalità sulle leggi elettorali in non più di 26 Tribunali, quanti sono i distretti di Corte d’Appello di norma uno per regione salvo Lombardia, Campania, Puglia e Calabria con due e la Sicilia con quattro si limita la possibilità dell’esercizio di questo controllo. Il minimo sarebbe di poter investire tutti i circondari di Tribunale per comprendere almeno i Tribunali dei capoluoghi di Provincia.
Il Presidente del Consiglio e i ministri per entrare in carica devono prestare giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica (art. 93 Cost.) e la formula dell'art. 1, comma 3, della legge n. 400/88 è di chiarezza esemplare: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione". “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” è un obbligo per tutti i cittadini posto dall’art. 54 c. 1 Cost., che è completato dal secondo comma, per il quale tutti i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche le devono adempiere con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Il rispetto della Costituzione è compito comune, eppure l’accesso alla Corte Costituzionale non è favorito, ma ostacolato: non si comprende quale sia l’interesse, tanto più dopo l’introduzione del processo telematico e la conseguente libertà di domiciliazione, che dovrebbe superare il privilegio del foro erariale, nato se non sbaglio nel 1863 quando la capitale era ancora Torino.
Il privilegio è stato mantenuto ed è regolato dal R.D. n. 1161/1933, un’epoca di Stato forte, autoritario, anzi totalitario dopo le leggi del 1939, con cui non va dimenticato mai, che ai cittadini italiani di ascendenza ebraica fu vietato di essere iscritto ad albi e ordini professionali, avvocatura compresa. Ora siamo cittadini di una REPUBBLICA DEMOCRATICA (art. 1 Cost.), membro della U.E., che si fonda sui valori della democrazia (art. 2 TUE), quindi non più sudditi e pertanto i diritti costituzionali fondamentali non possono essere violati da norme di leggi ordinarie e, tra di loro, quelli, che sono principi supremi, neppure da norme di rango costituzionale (Corte Cost. sent. n. 1146/1988).
Appare quindi meritevole di attenzione una massima tratta dalla recente sentenza Cass. civ., Sez. Unite, Sent., 18/12/2020, n. 29106: “La portata letterale della riportata disposizione normativa è inequivoca nell'escludere che l'esperimento dell'azione debba comportare il conseguimento di uno specifico beneficio in favore di colui (o di coloro) che la propone (o la propongono) e, quindi, implica l'ammissibilità di un rimedio impugnatorio (con lo strumento del reclamo) sotto forma di azione collettiva, che si inquadra nel più ampio "genus" dell'azione popolare (peraltro già ritenuta proponibile dallo stesso CNF in precedenti sentenze, come la n. 40/2011 e la n. 84/2018; tale ammissibilità è stata ammessa, in materia di contenzioso elettorale, anche dalla sentenza di questa Corte n. 11893/2006).
L'azione popolare, secondo l'inquadramento teorico assolutamente predominante, rappresenta una ipotesi di azione eccezionalmente concessa dal legislatore, allo scopo di tutelare un interesse pubblico, attraverso l'attribuzione di una legittimazione diffusa, che, perciò, prescinde dalla specifica titolarità di una situazione giuridica soggettiva qualificata in capo all'attore (o agli attori). La rilevanza di tale interesse, e quindi la sua tutelabilità in funzione del soddisfacimento di un fine dotato di una connotazione pubblicistica (di ripristino della legalità), è riconosciuta "ex ante" dal legislatore e non richiede, pertanto, un accertamento da parte del giudice, nel senso che l'interesse ad agire deve presumersi sussistente, una volta verificata la pertinenza al soggetto dell'interesse di cui si lamenta la lesione.”[4]
4. I dubbi di costituzionalità della legge elettorale vigente
La legge elettorale vigente è costituita dalla legge n. 165/2015 (Rosatellum), come modificato ed integrato dalla legge n. 51/2019, completata dal d.lgs. n. 177/2020, a differenza delle leggi n. 270/2005 (Porcellum) e
n. 52/2015 (Italicum), esaminate dalla Corte Costituzionale e dalla stessa dichiarate parzialmente, ma in aspetti essenziali, incostituzionali configura un sistema elettorale misto con i 3/8 dei seggi attribuito in collegi uninominali maggioritari al candidato più votato[5] e i 5/8 dei seggi a liste bloccate plurinominali in proporzione ai voti ricevuti e apparentemente senza premio di maggioranza.
Il premio di maggioranza nazionale o regionale, nei due casi precedenti, veniva attribuito alla lista o alla coalizione proporzionalmente più votata in un unico turno nel Porcellum, invece, nell’Italicum alla lista più votata alla sola Camera dei deputati, se superava il 40% dei voti validi al primo turno ovvero al secondo turno previo ballottaggio tra le due liste (non erano più consentite le coalizioni) immodificabili più votate nel primo turno e il blocco delle liste non era totale, ma riguardava il solo capolista, pluricandidabile fino a 10 volte.
Tuttavia, i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1/2014 si applicano, non in via di logica interpretativa, ma espressamente alla nuova legge. Bisogna avere presente un passo della sentenza, che è fondamentale per la motivazione della sentenza, perché nell’opinione del giudice delle leggi il nostro ordinamento non avrebbe costituzionalizzato il sistema elettorale, al pari dell’ordinamento tedesco, alla cui giurisprudenza costituzionale del Tribunale Costituzionale Federale (Bundesverfassungsgericht)[6] è costretta a far riferimento, in assenza di propri precedenti per l’interpretazione consolidata dell’art. 66 Cost. data dalla magistratura amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, n. 1053/2008) e dalla Suprema Corte (Cass. SS.UU., 16 maggio 2006, n. 11623).
La Corte Cost., dopo aver affermato il principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.), che pur non vincolando il legislatore alla scelta di un determinato sistema elettorale, ritiene che tale principio “esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sentenza n. 43 del 1961) ed assume sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto) e formula la motivazione principale dell’annullamento[7] in termini applicabili anche a un sistema elettorale misto.
5.La violazione dell’art. 48 Cost. sotto diversi profili
a) La mancanza dello “scorporo” dei seggi maggioritari uninominali e il trasferimento del voto tra candidati uninominali e liste plurinominali viola il principio di uguaglianza del voto (artt. 3 e 48 Cost.).
La legge n. 165/2017, come già detto, prevede un sistema elettorale misto con una parte uninominale maggioritaria (3/8) e “altri seggi” che “sono assegnati nei collegi plurinominali” e che “sono attribuiti, con metodo proporzionale,…”(5/8). Tale meccanismo è assolutamente estraneo alla volontà dell’elettore ed il suo voto cessa di essere “personale e libero” come prescritto dagli artt. 48, comma 2, 56 comma 1 e 58, comma 1 Costituzione, e “diretto e libero”, come enfaticamente stabilisce l’incipit della nuova normativa.
Gli effetti di questo meccanismo assumono contenuti paradossali nel caso in cui il Candidato uninominale sia (come consentito) collegato con una pluralità di liste;
b) questo meccanismo produce ingiusti vantaggi per la coalizione di liste e le liste che la compongono.
La coalizione di liste e le liste coalizzate sono ulteriormente e -come vedremo- irragionevolmente avvantaggiate in violazione dell’art. 48 Cost., perché le liste coalizzate, anche se sotto la soglia nazionale del 3% dei voti validi, portano in dote alla coalizione i loro voti, purché pari almeno al 1%, mentre le liste non coalizzate devono raggiungere il 3% (art. 83 c. 1 lettere c) e e) d.p.r. n.361/1957 come modificato dall’art.1 c. 26 l.n. 165/2017.
La legge elettorale n. 165/2017 (art.1 c. 7) ha modificato l‘art. 14 bis e si possono fare coalizioni tra liste di partiti senza avere né un capo, né un programma in comune.
In caso di coalizione di liste regolate dall’art. 14 bis dpr n. 361/1957, come modificato dalla legge elettorale n. 270/2005, poteva essere legittima la presunzione che il voto per il candidato uninominale si conteggiasse per la coalizione e viceversa, perché la coalizione doveva avere un programma comune e un capo politico unico. Non essendoci più questo obbligo è irragionevole questa disparità di trattamento, che viola l’art. 3 Cost. oltre che l’art. 48;
c) il voto congiunto obbligatorio a pena di nullità è la base del voto di scambio politico, perché i capi dei listini possono essere candidati nei collegi uninominali, rafforzati dal voto congiunto obbligatorio a pena di nullità (art. 59 bis c. 3 dpr n 361/1957, come modificato dall’art. 1 c. 21 legge cit.) di punizione di quegli elettori, che vogliono esercitare il loro diritto costituzionale di voto diretto, libero e personale;
d) la contrarietà alla Costituzione del meccanismo delle liste bloccate è palese ed è stata statuita dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n. 1-2014 ove afferma la possibilità di “liste bloccate solo per una parte” e comunque “in circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)” (Cfr. Corte Cost. N. 1/2014, considerato in diritto, sub. par. 5.1.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati);
e) con il trasferimento del voto a favore di candidati in collegi e circoscrizioni diverse da quelli di espressione dei voti si nega la conoscibilità dei candidati, un principio che la Corte Costituzionale ha affermato essere un requisito essenziale per una legge elettorale aderente ai principii costituzionali. La ragione è quella di utilizzare in un sistema proporzionale tutti i voti validi, ma non può essere creata artificialmente con l’introduzione di soglie d’accesso e altre limitazioni al numero dei candidati, perché in siffatto sistema elettorale - che prevede lo slittamento dei seggi “eccedentari” o non assegnati verso altri Collegi o addirittura Circoscrizioni interprovinciali o regionali – la conoscibilità è impossibile e si altera il rapporto tra popolazione e seggi assegnati, in base alla popolazione dei collegi e circoscrizioni, sempre per la Camera dei deputati fino al taglio dei Parlamentari e nella maggior parte delle Regioni nel Senato della Repubblica, cioè con esclusione delle Regioni con un numero fisso o minimo di Senatori ex art. 57 c. 3 Cost., stravolto dalla legge cost. n. 1/2020.[8]
La causa di ciò risiede nella circostanza che il legislatore ha introdotto con la L. 165/2017 l’irragionevole prescrizione secondo la quale il numero dei candidati di ciascuna lista in ogni collegio plurinominale “non può essere inferiore alla metà, con arrotondamento all’unità superiore dei seggi assegnati al collegio”, e, “in ogni caso …non può essere inferiore a due né superiore a quattro” ( art. 18 bis c. 3 dpr n. 361/1957,come modificato dall’art. 1 c.10 lett. d) legge cit.), ciò anche nel caso in cui il numero di candidati eleggibili in ciascun collegio plurinominale sia maggiore, fino a 8, il doppio del numero massimo di candidati, che si possono candidare 5 volte, un uninominale e 4 plurinominali.
Massima della BVerG: “nessun candidato può essere danneggiato o favorito da comportamento elettori di altra circoscrizione”;
f) l’art. 51 c. 1 e 2 Cost. dispone che “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. La previsione di liste bloccate, voto congiunto obbligatorio e pluri/multi-candidature, esclude che ci si possa candidarsi in condizione d’uguaglianza;
g) L’art. 18 bis del dpr n. 361/1957 e l’art. 9 del d.lgs. 533/1993, come modificati, rispettivamente, dagli artt. 1 e 2 l. n. 165/2017 prevedono esenzioni dalla raccolta di firme per la presentazione di liste che favoriscono soltanto le formazioni già presenti nelle Camere uscenti a svantaggio di nuove formazioni violando principi ex sent. CGCE 23 aprile 1986 nella causa 294/83, Parti écologiste «Les Verts» vs Parlamento Europeo, per i quali le formazioni che fanno parte del Parlamento europeo non possono attribuirsi vantaggi in vista di elezioni, che impediscano o, comunque, ostacolino la partecipazione competitiva di nuovi soggetti;
h) le minoranze linguistiche e le minoranze politiche hanno un trattamento differenziato, benché l’art. 3 c. 1 Cost. stabilisca che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
Non solo, ci sono differenziazioni anche tra le minoranze linguistiche riconosciute dalla legge n. 482/999, in attuazione molto tardiva dell’art. 6 Cost.[9], non giustificate dalla loro consistenza numerica, ma unicamente dalla collocazione geografica delle minoranze stesse e quindi dei collegi o circoscrizioni di presentazione di liste rappresentative delle minoranze. Infatti, norme speciali elettorali sono previste unicamente per le liste rappresentative di minoranze linguistiche riconosciute, “presenti in circoscrizioni comprese in regioni ad autonomia speciale il cui statuto o le relative norme di attuazione prevedano una particolare tutela di tali minoranze linguistiche” (art. 14 bis c. 2 dpr n. 361/1957, come sostituito dall’art. 1 c. 7 l.n. 165/2017)[10].
La normativa di tutela di minoranze linguistiche non è di per sé violazione dell’art. 3 Cost. e di essa non si sentiva alcun bisogno, quando si votava con una legge elettorale proporzionale. Con legge elettorale con soglie di accesso nazionali, 4% con la n. 270/2005 e 3% con la n. 165/2017 le liste rappresentative di minoranze linguistiche sarebbero state escluse a priori, anche con la soglia del 2% per le liste coalizzate del Porcellum, contraddicendo i principi affermati con la sent. della Corte Cost. n. 356/1998[11], considerato che il partito rappresentativo della minoranza germanofona, la SVP, presente da sempre nel Parlamento italiano, ha una percentuale nazionale media nel periodo 1996-2018 intorno allo 0,40%, che nel 2006 fu decisiva per attribuire il premio di maggioranza all’Ulivo e a Prodi[12]. Un trattamento differenziato per ragioni linguistiche viola l’art. 3 Cost., quando è discrezionale, al limite arbitrario, come è evidente per l’elezione dei membri spettanti all’Italia nel Parlamento europeo ex legge n. 18/1979, dopo l’introduzione della soglia di accesso nazionale del 4% con la legge n. 10/2009, perché le norme speciali per le liste rappresentative di minoranze linguistiche si applicavano a tre lingue e tre territori, cioè alle minoranze francese della Valle d’Aosta, tedesca della provincia di Bolzano e slovena del Friuli-Venezia Giulia (artt.12 c. 8; 20 c. 1 n. 1) e 2); 21 c. 1 nn. 1), 2) e 22 c. 2 e 3 legge n. 18/1979 e s.m.i.) ignorando le altre minoranze tutelate dalla legge n. 482/1999, in vigore da circa 10 anni tra cui la lingua sarda, la più consistente tra le lingue minoritarie e la lingua friulana, seconda minoranza linguistica collocata nella stessa Regione autonoma della lingua slovena e nella stessa circoscrizione elettorale europea, Italia Nord-orientale delle lingue slovena e tedesca e nella circoscrizione Italia Nord-occidentale, la stessa della Val d’Aosta, l’occitano e il franco-provenzale delle valli piemontesi.[13]
Nella legge europea e nel Rosatellum la violazione dell’art. 3 c. 1 Cost. emerge per tabulas (cfr. nota 13);
h) dopo due annullamenti consecutivi del premio di maggioranza il “legislatore incostituzionale” si è fatto accorto, pertanto ha preferito rinunciare apparentemente al premio di maggioranza piuttosto che alle liste bloccate, ma sono corte (massimo 4 candidati) e poi ci sono 3/8 di seggi uninominali, che tecnicamente non sono liste e la conoscibilità del candidato è massima: tutto vero, almeno apparentemente, ma si tratta di una mezza verità e, come insegna il Talmud una mezza verità è una bugia intera: col voto congiunto obbligatorio
a pena di nullità tutte le candidature sono bloccate. Il voto non è più diretto, libero e personale e, quindi si realizza un’alterazione del rapporto tra i voti “in entrata” e i seggi “in uscita”, censurato al par. 3. 1, cpv. XI della sent. n. 1/2014.
Questa disproporzionalità si è verificata nelle elezioni del 2018 e come vedremo sarà amplificata con la riduzione del numero dei seggi, perché a parità di popolazione la riduzione del numero dei seggi, aumenta la popolazione di ogni singolo collegio e/o circoscrizione, con l’effetto, pertanto nei collegi uninominali, che aumenta il valore assoluto dei voti delle liste concorrenti privo di effetti, che collegato alle incostituzionalità denunciate nelle precedenti lettere b) e c) rende la fattispecie censurabile sotto il profilo della violazione degli artt. 3 e 48 Cost. sull’uguaglianza potenziale degli effetti del voto in un sistema misto, garantita nel complesso nel Mattarellum, dalla doppia scheda e dal voto disgiunto, anche in presenza da una netta prevalenza dei seggi assegnati col maggioritario, 3/4, cioè il doppio del Rosatellum.
Le elezioni del 2018 confermano l’effetto distorsivo attraverso il solo esame della Tabella 3 dell’articolo della prof. Lara Trucco dell’Università di Genova[14], per la rivista Costituzionalismo, di fascia A, nella quale è evidenziata la disproporzionalità tra i seggi assegnati e quelli spettanti in base alla percentuale complessiva. La coalizione di CDX alla Camera di 630 seggi con il 37,1% ottiene 265 seggi, 31 seggi in più dei 234, che le spetterebbero in un sistema proporzionale, cioè il 13,2% di seggi in più. Al Senato di 315 membri elettivi con il 37,5% (+ 0,4% rispetto alla Camera) conquista 137 seggi, invece di 118 con un incremento del 16,1% (+2,9% rispetto alla Camera) a dimostrazione dell’effetto della riduzione dei seggi. L’effetto viene Confermato daI risultati della seconda lista beneficiaria, il M5S, che alla Camera con il 32,7% prende il 10,2% di seggi in più mentre al Senato con una percentuale inferiore (- 0,5%), ottiene il 10,9% dei seggi in più (+ 0,7%).
Le liste perdenti amplificano le perdite, come dimostra la coalizione di CSX alla Camera, che con il 22,8% ha 112 seggi invece di 144, cioè il 14,6% di seggi in meno. Al Senato, con una percentuale, leggermente superiore, 22,9%, i seggi assegnati sono 60, in luogo di 72, ma la perdita percentuale in seggi è ben il 16,7%, quindi -2,1%, rispetto alla Camera. Con la riduzione a 400 dei deputati e 200 dei senatori la disproporzionalità viene artificialmente aumentata, anche grazie al metodo di calcolo della percentuale dei seggi alla Camera dove l’arrotondamento a danno del maggioritario si fa all’unità inferiore ( art. 1 c. 1, lett. a) n.1), l.n. 51/2019) e al Senato a favore all’unità più prossima (art. 2 c. 1, lett. a) n.1), l.n. 51/2019) e nella circoscrizione regionale Trentino-Alto Adige/Südtirol i 6 seggi sono tutti assegnati in collegi uninominali maggioritari, mentre con il criterio generale Senato avrebbero dovuto essere 2 su 6.
Il trattamento delle liste minoritarie politiche rispetto alle liste rappresentative di minoranze linguistiche è ancora più deteriore. LeU con 991.159 voti, il 3,3%, al Senato ha avuto 4 seggi invece di 10, cioè – 60%, mentre la SVP 128.282 voti, 0,4%, 3 seggi, in luogo di 1, +200% [15].
Il premio di maggioranza nel Rosatellum è nascosto e implicito nel sistema di voto (coalizioni, soglia di accesso nazionale, applicata anche al Senato in violazione dell’art. 57 c. 1 Cost.[16], voto congiunto obbligatorio a pena di nullità), per scattare occorre che la coalizione o lista di maggioranza relativa abbia una distribuzione media omogenea sul territorio, perché in tal caso alla Camera può dare la maggioranza assoluta anche con il 30% dei voti e al Senato col 35%, tutte percentuali inferiori al 40% dell’Italicum, previsto per l’assegnazione del premio in un turno unico.
Il vincitore delle future elezioni con la legge elettorale e numero di parlamentari vigente sarebbe padrone, pur non avendo la maggioranza assoluta dei voti validi e, comunque, dei votanti, della revisione costituzionale ex art. 138 Cost. in assenza di verifica del rispetto dell’art. 139 Cost. e dei principi costituzionali enunciati nella sentenza n. 1146/1988[17].
6. Esclusione della questione della legittimità costituzionale della legge costituzionale n. 1/2020 dalle azioni giudiziarie per l’accertamento del diritto dei cittadini di votare in conformità della Costituzione.
Le ragioni sono molteplici procedurali e di opportunità. Con il gruppo di avvocati anti-Italikum, circa un centinaio in 22 distretti di Corte d’appello, abbiamo maturato un’esperienza particolare, spesso un giudice si trova a dover affrontare, per la prima volta materie totalmente estranee a quelle affidate di norma alla sezione di appartenenza, sovraccaricarlo della questione di legittimità costituzionale di un atto presupposto potrebbe dilatare i tempi, tanto più, che le questioni non sono solo della legge costituzionale, ma di atti presupposti quali l’indizione del referendum in connessione con elezioni regionali, che coinvolgevano più di un terzo del corpo elettorale su due giorni, quando nella concitazione ci si è dimenticati, persino, di modificare formalmente il secondo comma dell’art. 15 della legge n. 352/1970, che prevede che “La data del referendum è fissata in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all'emanazione del decreto di indizione”.
Non c’è dubbio, che la riduzione del numero dei parlamentari abbia accentuato aspetti già costituzionalmente problematici della legge elettorale vigente, accennati nel paragrafo 2) e passim negli altri, ma le questioni svolte, in particolare nel paragrafo 5), ne prescindono e riguardano essenzialmente le leggi n. 165/2015 e n. 51/2019 e di riflesso il d.lgs. n.177/2020 e sarebbero stati prospettabili negli stessi termini, anche con un diverso esito referendario. Si aggiunga che nell’unico ricorso presentato da una Regione, la Basilicata particolarmente colpita dal taglio al Senato, essendo passata come l’Umbria da 7 a 3 senatori, non si sono messi in discussione il nuovo numero dei deputati, 400, né dei senatori elettivi, 200, ma di quest’ultimi solo la distribuzione tra le Regioni dei senatori. In sintesi, l’equiparazione delle Province autonome alle Regioni ai soli fini del numero minimo di senatori ex art. 57 c. 3 Cost., avrebbe presupposto una contestuale modifica dell’art. 57 c. 1 Cost. e una diversa e non contradditoria formulazione del quarto comma dell’articolo stesso. In ogni caso non risulta giustificata la violazione di un principio supremo, come quello dell’uguaglianza dei cittadini e dei loro diritti costituzionali fondamentali, se non nei termini già consentiti e per le finalità dei costituenti, per la rappresentanza nel Senato della Repubblica delle Regioni minori.
Le Province autonome di Trento e Bolzano non sono, a differenza delle Regioni, parti costitutive della Repubblica ex art. 114 Costituzione.
Ultima, ma non meno importante ragione, il popolo si è pronunciato e i costituzionalisti si sono pronunciati in modo variegato, mentre è necessario che vi sia partecipazione vasta e nell’opposizione alla legge elettorale vigente comprendere il maggior numero di soggetti senza escludere nessuno a priori, quindi chi abbia votato SI’, NO o si sia astenuto.
[1] La verifica di legittimità della richiesta referendaria è per l’art. 12 c. 2 della legge n. 352/1970 limitata: “L'Ufficio centrale per il referendum verifica che la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell'articolo 138 della Costituzione e della legge”, inspiegabilmente senza alcun riferimento all’art. 139 Cost., che costituisce un limite insuperabile alla revisione costituzionale, mentre per il referendum abrogativo ex art 75 Cost. è demandata alla Corte Cost., ex combinato disposto degli artt. 32 c. 2 e 33 della legge n. 352/1970 il rispetto del secondo comma dell’art. 75, che stabilisce le materie sottratte al referendum abrogativo, ampliate dalla giurisprudenza costituzionale al di là della lettera della legge (sent. n. 16/1978).
[2] Un riferimento importante al giudice naturale precostituito per legge e alla C.E.D.U., cioè al suo art. 6.
[3] Perché anche in assenza di eccezione dell’Avvocatura dello Stato, il giudice ordinario potrebbe essere di diverso e rilevarla d’ufficio. Se competente fosse l’AGA si applicherebbe l’art. 13 c.p.a., che non lascia dubbi in materia di inderogabilità della competenza territoriale, ma in materia di diritti elettorali dei cittadini la competenza è del giudice ordinario, anche nel caso che le operazioni elettorali, compresa la proclamazione degli eletti siano impugnabili ex art. 126 e ss. c.p.a. (Cass. SS.UU. Civili, ord. n. 21262/16).
[4] Non a caso le azioni per l’accertamento del diritto di votare secondo costituzione non sono soggette al Contributo Unificato, e ciò ai sensi del combinato disposto dell'art. 10 del DPR n. 115-2002 (Esenzioni: "Non è soggetto al contributo unificato il processo già esente, secondo previsione legislativa e senza limiti di competenza o di valore, dall'imposta di bollo o da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura, .... ), e dell'art. 1 del DPR 642-1972, Allegato B (atti, documenti e registri esenti dall'imposta di bollo in modo assoluto: "Petizioni agli organi legislativi; atti e documenti riguardanti la formazione delle liste elettorali, atti e documenti relativi all'esercizio dei diritti elettorali e dalla loro tutela sia in sede amministrativa che giurisdizionale").[ns. evidenziazione in grassetto].
[5] Cosiddetto maggioritario a turno unico “all’inglese”o “first-past-the-post” od anche “plurality” per distinguerlo da quello “alla francese” o “majority” ove il candidato deve conquistare la maggioranza assoluta dei votanti al primo o al secondo turno previo ballottaggio.
[6] Non a caso citata più volte negli scritti difensivi degli attori, in quanto il nostro art. 48 era sovrapponibile all’art. 38 GG (Grundgesetz), la legge Fondamentale tedesca, che tiene luogo della Costituzione della Germania.
[7] “In ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano, nei quali pure è contemplato detto principio e non è costituzionalizzata la formula elettorale, il giudice costituzionale ha espressamente riconosciuto, da tempo, che, qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare (BVerfGE, sentenza 3/11 del 25 luglio 2012; ma v. già la sentenza n. 197 del 22 maggio 1979 e la sentenza n. 1 del 5 aprile 1952).” (sent. 1/2014, par. 3.1.– La questione è fondata, cpv.XI).
[8] Con un emendamento del relatore nel corso della prima approvazione al Senato della Repubblica, senza una discussione adeguata alla rilevanza dell’argomento sono state equiparate le Province Autonome, che sono solo quelle di Trento e Bolzano, non nominate, alle Regioni, che hanno diritto al numero minimo di senatori, peraltro ridotto da 7 a 3, senza modificare l’elezione “a base regionale” prevista dall’art. 57 c. 1 Cost., né l’art. 114 Cost., che non prevede le Province autonome tra le parti costitutive della Repubblica, ma solo che costituiscono ex art. 116 c. 2 Cost. la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
[9] L’Italia non ha ancora ratificato la “Carta europea delle lingue regionali o minoritarie” (STE n. 148), fatta a Strasburgo il 05/11/1992, entrata in vigore il 01/03/1998 e firmata dall’Italia il 27/06/2000. Ha ratificato, invece, con la legge n. 302/1997 la “Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali” (STE n. 157), fatta a Strasburgo il 01/02/1995, entrata in vigore il 01/02/1998 e firmata dall’Italia il 03/11/1997.
[10] Con questa norma il Rosatellum ha posto fine a un’anomalia, che non consentiva alla maggiore minoranza linguistica riconosciuta dalla l.n. 482/1999, quella sarda, di beneficiare della normativa speciale, perché lo Statuto speciale della Sardegna, approvato con legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, non prevedeva norme di tutela linguistica.
[11] Frutto di una norma speciale di tutela delle minoranze linguistiche consiliari di accesso diretto alla Corte Cost., l’art. 56 del dpr n. 670/1972 T.U. leggi costituzionali Statuto Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
[12] Camera dei deputati, Italia (Valle d’Aosta esclusa); Romano Prodi, totale coalizione voti 19.002.598, 49,81% con 340 seggi, di cui SVP (Südtiroler Volkspartei-Partito Popolare Sudtirolese) voti 182.704, 0,48 , con 4 seggi; Silvio Berlusconi, totale coalizione voti 18.977.843, 49,74% con 277 seggi. Differenza voti 19.002.598 - 18.977.843=24.755 < 182.704, differenza percentuale 49,81% - 49,74%= 0, 07% < 0, 48%.
[13] Nelle elezioni europee 2009 di prima applicazione della soglia la SVP con 143.509 voti, 0,47%, ebbe 1 seggio, restarono escluse le liste di Sinistra Europea e Sinistra e Libertà rispettivamente con 1.037.862 voti, 3,39% e 957.822 voti, 3,13%, che avevano superato la soglia del 4% la prima in 2 Circoscrizioni e la seconda in una. Nelle elezioni 2014 la SVP 138.037 voti, 0,50% e 1 seggio, mentre Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale nessun seggio con 1.006.513 voti e 3,67%, con supero della soglia in 2 circoscrizioni. Infine, nelle elezioni 2019 la solita SVP ebbe 1 seggio con 142.185 voti e lo 0,53%, mentre non conseguì alcun seggio +Europa con 833.443 voti e il 3,11%. Questa volta nessuna lista esclusa aveva superato la soglia in almeno una circoscrizione perché gli elettori di liste sotto-soglia hanno progressivamente smesso di andare a votare: nel 2009 i votanti furono 34.359.339 pari al 69,73 %, 10 anni dopo i votanti erano scesi a 27.780.855, il 54,50 % con 997.123 schede non valide, 3,58%. In cifre assolute: 1) elettori (2019) 50.974.994 – elettori (2009) 50.342.153=+ 632.841; 2) votanti (2019) 27.780.855 - votanti (2009) 34.359.339= - 6.578.484; 3) voti validi senza rappresentanza di liste con voti maggiori di SVP: 2.320.690, che senza soglia avrebbero eletto almeno un parlamentare europeo.
[14] Trucco L., Rosatellum-bis e la forma di governo “leadercratica” sul far del nascere della XVIII legislatura, Fascicolo 3/2018-Rotture e Continuità nell’Avvio della XVIII Legislatura, https://www.costituzionalismo.it/rosatellum-bis-e-la-forma-di-governo-leadercratica-sul-far-del-nascere-della-xviii-legislatura/
[15] I 3 seggi SVP sono tutti concentrati nella Provincia autonoma di Bolzano, 504.643 abitanti (cens. 2011), quindi un senatore ogni 168.214 abitanti, quando la media nazionale è di 297.169, calcolando i seggi fissi di Val d’Aosta, 1, e Molise, 2, che abbassano la media. La concentrazione territoriale del voto è in vantaggio che spiega il vantaggio in seggi della coalizione di CDX prevalente nel Settentrione e della lista M5S nel Meridione e Isole.
[16] Perché si aggiunge per le liste minoritarie politiche alla soglie implicite delle Regioni, tutte superiori al 3%, eccetto che in Lombardia con 315 senatori elettivi e che non riguarda le minoranze linguistiche.
[17] Secondo il prof. Pasquale Costanzo alla revisione costituzionale recentemente approvata, cfr. Costanzo P., QUANDO I NUMERI MANIFESTANO PRINCIPI OVVERO DELLA PROBABILE INCOSTITUZIONALITÀ DELLA RIDUZIONE DEI PARLAMENTARI, Consulta ON LINE,
Ragionando sulla (recte, sulle) sovranità.
Intervista di Roberto Conti a Enzo Cannizzaro.
Una conversazione aperta quella con il Prof.Enzo Cannizzaro, soprattutto serena, non gridata nei toni ma forte e appassionata nei contenuti e nelle prospettive, molte delle quali difficilmente definibili, che si agitano attorno al tema della sovranità al quale l'accademico internazionalista ha dedicato tempo e sapienza e che sempre di più ritorna, a volte in modo ossessivo e martellante, nelle discussioni universitarie e sui titoli di giornali come nei talk show quando esso si aggancia, in modo più o meno consapevole, a quelli del sovranismo e del populismo ai quali si affibbiano nella vulgata corrente connotati negativi.
Un incedere, quello di Cannizzaro, che calamita il lettore per la semplicità con la quale affronta temi di complessità pur evidente in modo limpido, conducendolo all'interno di territori impervi, nei quali i tradizionali poteri assumono veste e significato nuovi sui quali l'internazionalista offre la sua lettura, incastonandoli in un ordine in continuo movimento, nel quale i fattori dinamici interni alle singole comunità statuali che hanno progressivamente mutato il volto della sovranità nazionale si legano ai non meno prorompenti mutamenti della "sovranità esterna", al cui interno si avvertono segnali sempre più orientati verso nuove forme di organizzazione politica extra-statuali, portatrici di interessi riferibili alla comunità universale quali l'ambiente, le risorse vitali, la lotta alla povertà, con i quali gli stati tradizionalmente intesi saranno chiamati a confrontarsi, spesso in posizione diseguale e recessiva proprio a causa del minor peso della sovranità.
In questo sistema "in movimento" Cannizzaro riflette sugli assetti interni, sul ruolo di alcuni dei poteri espressivi della sovranità e, fra questi, delle giurisdizioni - costituzionale e comune - che hanno contributo alla metamorfosi della sovranità.
Una sovranità assoluta, popolare ed ora sempre più "costituzionale", che Cannizzaro risagoma delineandone funzioni e ruoli in quella prospettiva di un nuovo governo del mondo che, se non immediata, Egli sembra cogliere come affatto utopica ed anzi, quasi ineluttabile.
1. Professore Cannizzaro, se dovessi recensire il Tuo saggio "La sovranità oltre lo stato" in 1000 caratteri, cosa scriveresti?
Non potrei recensire il mio (piccolo) libro. Invero, non avrei neanche dovuto scriverlo. Come sai, io sono uno studioso, modesto, dei fenomeni giuridici. Sulla scienza giuridica, e in particolare sui processi di integrazione internazionali e sovranazionali, ho indugiato per la più gran parte della mia vita. Or bene, questo libro tratta di temi sui quali non ho alcuna formazione scientifica: la filosofia politica, innanzi tutto, ma anche la teoria dell’organizzazione sociale e la dottrina della Costituzione. Per decenni ho fatto il proponimento di scrivere e parlare solo attraverso argomenti di carattere scientifico: un proponimento al quale, ora, sono venuto meno. Come faccio a recensire un libro che non avrei dovuto scrivere?
Se non posso recensirlo, posso dirti, però, perché lo ho scritto. Ho molto esitato, invero, sia prima che durante la sua stesura. Diciamo che l’ho fatto sulla base di un imperativo etico. In queste pagine ho trasfuso le riflessioni di una vita sul potere politico, sulle sue molteplici forme, sulla sua intolleranza ad ogni limite, e sulla sua sostanziale amoralità. Ma si è sempre trattato di riflessioni prive di rigore e di sistematicità: due requisiti imprescindibili della riflessione scientifica. In ciascuna pagina di questo libro ho, piuttosto, riversato la mia dimensione etica della politica attingendo, quasi spigolando, dai sistemi concettuali elaborati dai grandi teorici del pensiero politico e giuridico.
Se dovessi darne una definizione, lo qualificherei, allora, come un roman philosophique; che tocca, fugacemente invero, il pensiero scientifico ma senza pretesa di scientificità; che cammina su un impervio crinale, fra la dura lezione del realismo storico e il dolce richiamo dell’utopia.
2. Esiste una relazione fra sovranità, populismo e sovranismo?
Nella logica che fonda il mio libro, il populismo è la più piena realizzazione del principio della sovranità popolare. Se la sovranità spetta al popolo, senza altra qualificazione, il popolo diventa la fonte unica di legittimazione del potere politico: un potere che potrà travolgere ogni forma di garanzia proprio in quanto esso realizza la volontà del popolo.
Il populismo è insito già nel sistema costruito da un pensatore oggi di gran moda: Rousseau; il fondatore della sovranità democratica. Rousseau ha costruito intorno al popolo, il corpo collettivo, un nuovo assetto di poteri dello Stato, nel quale, però, la volontà popolare, espressa nel principio maggioritario, non tollera alcun limite. In particolare, essa non trova limiti nell’attività giudiziaria, concepita non come un contropotere rispetto alla volontà popolare, in nome, magari, di una superiore legittimazione costituzionale, ma come la meccanica trasposizione di tale volontà dal piano della legge astratta a quello della decisione concreta.
Se il populismo costituisce una degenerazione possibile della dottrina della sovranità popolare diretta, esso appare addirittura inevitabile nei sistemi democratici privi di forme di intermediazione fra il popolo e i suoi governanti. In tali sistemi, la politica diventa pressoché esclusivamente gestione del consenso, ed è naturalmente tesa ad abbattere ogni garanzia costituzionale che si frapponga alla presunta volontà del popolo, magari sapientemente manipolata da sistemi informativi deboli o addirittura corrotti. Non abbiamo assistito a questo spettacolo negli ultimi decenni, una volta spariti i grandi sistemi di valori che animavano, almeno in parte, i partiti storici?
3. Nella Tua analisi hai affrontato distintamente il tema della sovranità interna e quello della sovranità esterna. Secondo te qual è la relazione fra le due sovranità: contrapposizione, cooperazione o reciproca limitazione?
A torto, nella letteratura sulla sovranità, si trascura la sovranità esterna. Essa non è un semplice complemento della sovranità dello Stato; essa ne costituisce una autonoma dimensione. Del resto, storicamente la dottrina della sovranità è nata proprio sul versante esterno; allorché i nascenti stati nazionali hanno avuto bisogno di una teoria politica nuova per sbarazzarsi dell’ormai nominale sottomissione all’impero universale.
La dimensione autonoma della sovranità esterna emerge con chiarezza se si pensa che non di rado gli Stati, anche se democratici, esternalizzano le tensioni interne scaricandole su politiche nazionaliste e xenofobe, contro il nemico interno. Si crea quindi uno evidente contraddizione fra la dinamica interna della sovranità, fondata su valori democratici, e quella esterna, caratterizzata da una considerazione esclusiva dell’interesse nazionale (la ragion di stato) che produce, a propria volta, politiche spregiudicate e talvolta aggressive. Tale dissociazione non appare in contrasto con la dottrina della sovranità. Essa, anzi, ne costituisce il suo più coerente sviluppo. Se la sovranità rappresenta la volontà di autodeterminazione di una comunità, essa si realizza proprio nei confronti con le altre comunità. Ne consegue che uno Stato ha un naturale interesse a competere e prevalere con gli altri Stati al fine di realizzare al massimo grado gli interessi che percepisce come propri, senza avvedersi della esistenza di altri interessi, di natura collettiva.
Questa circostanza dovrebbe far capire quanto sia illusoria una dottrina della sovranità fondata sulla priorità dei valori e interessi della comunità nazionale rispetto a quelli esterni. Questa dottrina isolerebbe la comunità nazionale e la condurrebbe verso una autoreferenzialità, se non anche verso derive nazionaliste e autoritarie.
4. Appare quasi naturale pensare, a questo punto, al tema delle “limitazioni di sovranità” a cui si dedica specificamente l’art.11 Cost. ed alle sorti dei rapporti fra ordinamento interno e ordinamento comunitario – ora dell’Unione europea –. Quanto il diritto-dovere di disapplicazione del diritto interno contrastante con quello UE immediatamente efficace ha, a tuo avviso, messo alle corde il concetto di sovranità nazionale ovvero, tutto al contrario ne ha esaltato il senso ultimo, mirando l'art.11 al perseguimento di un ordine esterno che assicuri valori universali di pace e giustizia?
Credo fermamente che l’apertura del sistema costituzionale rappresentato all’art. 11 sia la vera valvola di sicurezza che i Padri costituenti hanno creato per prevenire il ritorno dei nazionalismi. L’idea dello Stato costituzionale aperto (der offene Verfassungsstaat, secondo la felice formula tedesca) costituisce una vera rivoluzione nella dottrina del costituzionalismo contemporaneo. Essa eleva l’apertura dell’ordinamento agli influssi esterni a un vero e proprio principio fondamentale della Costituzione, che prevale sulle regole costituzionali “ordinarie” ed entra in rapporti di bilanciamento con ogni altro principio di eguale valore. Il valore normativo di questo principio è a volte trascurato, anche dalla Corte costituzionale nei suoi itinerari “sovranisti” che hanno caratterizzato alcune recenti espressioni davvero molto controverse della sua giurisprudenza.
In questo senso, la disapplicazione delle leggi confliggenti con il diritto europeo ha senz’altro un alto valore simbolico. Essa sancisce il primato dell’apertura del sistema costituzionale anche nei confronti della fonte che più di ogni altra rappresenta la volontà generale, vale a dire la legge.
5. Quanto allora la posizione della Corte costituzionale rispetto ai diritti fondamentali protetti da Carte dei diritti fondamentali diverse dalla Costituzione italiana può dirsi un'opzione tesa a proteggere la sovranità costituzionale?
Credo che lo sia stata a lungo. Come sai, tale posizione si è espressa in una frase che non avrei mai creduto di poter leggere in una sentenza costituzionale: quella, celebre, della sentenza 49 del 2015, la quale parla di un “predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU”: una frase inutile nel contesto di quella sentenza e intrisa di una ideologia giuridica che non esito a definire perversa.
6. Antonio Ruggeri evoca nei suoi scritti ripetutamente i concetti di intercostituzioni, di internazionalizzazione delle Carte costituzionali e di costituzionalizzazione delle Carte sovranazionali in una prospettiva che, riducendola all’osso, intende guardare non soltanto al ruolo centrale e osmotico dei diritti fondamentali ed al loro formarsi e rigenerarsi continuo attraverso l’interazione delle Carte dei diritti e dei giudici che le applicano, ma probabilmente anche una concezione universale dei diritti fondamentali. Questa posizione, che alcuni definiscono minoritaria nel panorama dei costituzionalisti, ti convince? Quanto essa potrebbe costituire la base per un nuovo paradigma della sovranità e con quali concrete possibilità di successo?
Ammiro molto l’opera giuridica di Antonio Ruggeri e la sua visione teorica e sistematica. Io non saprei dire se siamo entrati in una fase di osmosi costituzionale. Temo che per realizzare questo obiettivo la strada sia lunga e irta di difficoltà. Quel che rilevo, nel mio lavoro di studioso dei fenomeni giuridici transnazionali, è la progressiva formazione di interessi comuni che trascendono la dimensione statale e che esigono una propria forma di governo. Questi interessi premono su quelli propri delle varie comunità nazionali e sulla loro regolamentazione giuridica.
Solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile che un Paese africano, il Gambia, avesse adito di fronte alla Corte internazionale di giustizia il Myanmar per le condotte genocidiarie perpetrate da tale Stato nei confronti della minoranza Rohinga. È probabile che nessun Rohinga abbia mai varcato la frontiera del Gambia e che pochi fra essi sappiano dove si trovi questo Stato (anche molti italiani forse lo ignorano). E tuttavia, il Gambia è intervenuto dichiarando di farlo a tutela di interessi propri della intera umanità. Questo è solo un esempio, se pure simbolicamente importante, della avanzata degli interessi collettivi dell’umanità. Ma sarebbe semplicista prevedere una loro marcia trionfale tesa ad abbattere le strutture statali fondate sulla sovranità e a istituire il super stato mondiale, fondato su diritti universali. Questa sì che sarebbe una prospettiva utopica. Verosimilmente essa non sarebbe neanche auspicabile. La parabola della sovranità ci ha insegnato come il potere politico vada circoscritto, sminuzzato, posto sotto costante controllo, nei suoi obiettivi e nei suoi mezzi di azione. In luogo del sovrano globale, pur se illuminato, sembra preferibile una galassia di poteri, su base globale, nazionale o infranazionale, che concorrano al governo delle varie comunità che esistono su questa terra. In questo senso, una idea “osmotica” di costituzione, che metta in collegamento i principi fondamentali di ciascun ordinamento, quelli nazionali e i vari ordinamenti costruiti per la gestione di interessi collettivi, ben potrebbe costituire la nuoa dottrina giuridica del mondo futuro. Ma si tratta, temo, di una prospettiva assai remota nel tempo.
7. La giurisdizione e la sovranità. Tu sostieni che la frammentazione dei poteri e la loro distribuzione su base verticale od orizzontale segnano un declino dell’idea di sovranità tradizionale. Ma i giudici – costituzionali e comuni –, che pure costituiscono un elemento costitutivo della sovranità (Corte cost.n.175/1973) sono l’anima buona o cattiva dello stato moderno?
Rousseau configurava i giudici, lo si è detto, come una sorta di strumento automatico di produzione del diritto nel caso concreto. Questa idea, di chiaro stampo illuminista, è diventata una delle idee portanti della rivoluzione francese, spazzando via la vecchia classe dei giuristi romanisti che costituiva un importante puntello per la struttura della società francese del tempo. Ma di lì a pochi anni, e nonostante l’impetuoso avanzamento del fenomeno della codificazione, il ruolo dei giudici è tornato ad essere quello di protagonisti dell’ordinamento giuridico e così è ancora oggi.
In termini parzialmente analoghi, l’avvento della Costituzione repubblicana ha comportato il problema del rinnovo della vecchia classe di giudici, i quali consideravano il diritto costituzionale come un insieme di principi sprovvisti di normatività. La sentenza 1/1956 e l’affermazione della Costituzione come norma giuridica cogente inauguravano un nuovo ruolo per i giudici, chiamati a diffondere il nuovo verbo costituzionale. Esempi analoghi potrebbero essere proposti in relazione al ruolo dei giudici italiani nell’applicazione del diritto europeo, che sembra superare addirittura l’idea stessa della Costituzione come la sola norma fondamentale.
È difficile, insomma, separare il grano dal loglio. A volte, la giurisprudenza anticipa e promuove il mutamento sociale; altre volte, essa tende ad ostacolarlo irrigidendo il costume in modelli obsoleti. I giudici costituzionali sono i guardiani della Costituzione. Se il potere politico è fondato sulla legittimazione popolare, essi ne rappresentano il contropotere, su una fonte di legittimazione superiore, che si impone dall’alto alla volontà del popolo. Ciò spiega la grande tensione, che si svolge quotidianamente sotto i nostri occhi, fra i detentori del potere politico e i custodi dei valori costituzionali che lo limitano.
8. Quanto i giudici si sono appropriati di poteri sovrani e quanto gli altri organi dello Stato glieli hanno più o meno apertamente delegati?
I giudici esercitano poteri sovrani sia allorché promuovono i valori costituzionali nei confronti dei detentori del potere politico, sia, di converso, allorché impediscono la realizzazione della volontà popolare in nome di principi superiori. Vi è quindi una latente frizione fra le due dimensioni della sovranità, quella popolare e quella costituzionale, alla quale se ne può aggiungere un’altra, più rarefatta e impalpabile, data dalla sfera di valori transnazionali, assicurati da giudici esterni all’ordinamento dello Stato.
Questo è il mondo giuridico che abbiamo davanti: un mondo giuridico complesso, rispetto al quale ogni semplificazione appare inopportuna. Questo mondo tende ad attenuare la relazione fra i giudici e il popolo in nome del quale si pronunciano le sentenze. A chi sacralizzi una visione puramente maggioritaria della democrazia, l’istituzione di giudici che applichino valori costituzionali contro la volontà popolare potrebbe una deriva autoritaria. A chi sacralizzi una visione puramente nazionale dei valori costituzionali, l’istituzione di giudici sovranazionali che applichino valori propri di una più ampia comunità potrebbe una deriva elitista e un tradimento della sovranità del popolo vero, sovente identificato con la nazione.
In ambedue i casi, si tratta di posizioni puramente ideologiche, le quali possono essere valutate esclusivamente sul metro fattuale della storia.
Il rapporto fra poteri sovrani dei giudici e quelli degli organi politici è un rapporto storicamente determinato. Esso è insorto al momento in cui il sovrano ha “delegato” il potere di fare giustizia a organi diversi (King in Court); ma poi, la delega gli è, come dire, sfuggita di mano ed è iniziata la parabola della sovranità, formalmente unitaria ma sostanzialmente frammentata, che ha condotto ai nostri complessi sistemi giuridici che tendono a smembrare la sovranità nell’ambito di poteri e prerogative assegnate a singoli organi ed enti dello Stato. Questa distribuzione di poteri è fatta da norme giuridiche, ma essa si modella rispetto alla prassi e alla rispettiva forza o debolezza politica dei rispettivi titolari.
9. E dunque, i giudici interni e quelli sovranazionali, custodi delle istituzioni UE e della CEDU e di altri trattati internazionali, che ruolo svolgono rispetto al tema della sovranità interna ed esterna? Quanto hanno limitato i poteri sovrani degli Stati e quanto si fanno motore per un nuovo ordine sovranazionale?
I giudici sovranazionali e, di concerto, quelli interni, hanno contribuito in maniera decisiva allo sviluppo del nuovo ordine sovranazionale. Se valutassimo Van Gend en Loos alla luce della legalità costituzionale degli Stati membri, occorrerebbe qualificarlo come una sorta di “colpo di Stato”.
Più in generale, i giudici, anche quelli nazionali, hanno contribuito a individuare i nuovi interessi e valori della nuova comunità transnazionale creata dal diritto europeo e a trovare forme giuridiche adeguate alla loro tutela. Insomma, i giudici interni sono parte di questo processo sociale di individuazione di una “nuova comunità di diritto”, la quale esige una nuova forma di governo e che non si riassume nelle usuali categorie della sovranità.
10. In occasione della scelta di non proseguire l’iter parlamentare del progetto di ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, del quale pure tu ti sei occupato su questa Rivista. Nel corso dei lavori parlamentari a più riprese è stato rappresentato il pericolo che la ratifica del Protocollo, ma addirittura la stessa ratifica del Protocollo n.15 potesse significare porre una pietra tombale sulla sovranità giuridica italiana, rappresentando tali strumenti il tentativo della Corte EDU di erodere spazi di sovranità nazionale. Che ne pensi?
Hai richiamato il mio breve scritto su questa Rivista- La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n. 16- nel quale ho prospettato che la mancata ratifica del Protocollo 16 non sia stata sorretta da argomenti logico-giuridici, quanto piuttosto da una ideologia che identifica il diritto con l’ordinamento nazionale. Di conseguenza, non tornerò su questo punto.
Mi limito, invece, a considerare la nuova questione che mi poni. L’idea che la ratifica del Protocollo 16 comporti una erosione di spazi di sovranità nazionale non è solo ispirata da tale ideologia. Essa è anche tecnicamente errata. Al fine di verificare questa affermazione, occorre considerare che il Protocollo 16 si inserisce in un sistema - quello della Convenzione - il quale ha certamente eroso e continua a erodere la sovranità nazionale. Non riesco proprio a capire quale ulteriore erosione si produrrebbe attraverso l’introduzione in tale sistema di uno strumento nuovo, quello dei pareri consultivi, teso a prevenire la violazione della Convenzione da parte dell’Italia e una corrispondente condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Gli oppositori della ratifica del Protocollo 16 non sono proprio riusciti a dimostrarlo.
È invece facile dimostrare che una ulteriore erosione della sovranità nazionale sarà prodotta proprio dalla mancata ratifica italiana del Protocollo 16. Difatti, il Protocollo 16 non ha bisogno della ratifica dell’Italia per entrare in vigore. Esso è già in vigore per dieci Stati parte e sono già stati adottati due pareri consultivi.
A tal fine, occorre ricordare, sinteticamente, alcune regole del Protocollo. Ai sensi dell’art. 3, lo Stato del giudice che ha chiesto il parere ha il potere di intervenire nel procedimento, di produrre memorie e di partecipare alle udienze. Inoltre, il giudice eletto su proposta di tale Stato siederà di diritto nel collegio giudicante. Si tratta di accorgimenti tesi a contestualizzare gli effetti del parere nell’ordinamento dello Stato parte dal quale la richiesta proviene. Infine, una volta adottato, il parere entrerà a far parte della giurisprudenza della Corte europea e produrrà l’effetto di precedente autorevole al fine di definire ricorsi individuali relativi alla medesima questione giuridica.
Proviamo, quindi a individuare, alla luce di tali regole, le conseguenze della mancata ratifica del Protocollo.
I giudici italiani non potranno chiedere un parere su un problema di interpretazione della Convenzione rilevante alla luce dell’ordinamento italiano. Essi, quindi, non potranno contestualizzare la questione di interpretazione della Convenzione nell’ordinamento italiano e non potranno, di conseguenza, portare a conoscenza della Corte gli elementi di diritto italiano atti a contribuire alla soluzione di una questione di interpretazione della Convenzione. Qualora la medesima questione interpretativa risulti anche per l’ordinamento di un altro Stato, e i giudici di tale Stato chiedessero un parere, esso sarebbe reso da un collegio che non comprenderà il giudice italiano e attraverso un procedimento nel quale lo Stato italiano non sarà parte e non potrà produrre documenti e memorie né partecipare all’udienza.
Ma tutto ciò non avrà certamente l’effetto di impedire che tale parere spieghi i propri effetti di precedente autorevole per la definizione di ricorsi individuali. Di conseguenza, ricorsi proposto da un individuo contro lo Stato italiano potranno essere definiti sulla base di un parere adottato in seguito a un procedimento promosso da giudici di un altro Stato e nei quali lo Stato italiano non avrà avuto la possibilità di partecipare.
Non mi sembra un buon risultato per coloro che ritengano che la mancata ratifica dell’Italia abbia evitato il rischio di una ulteriore erosione della sovranità dello Stato.
11. Le Nazioni Unite ed il Consiglio di sicurezza, organismi espressivi di un nuovo ordine mondiale che supera la sovranità degli Stati o semplicemente occasioni mancate, incapaci di operare al di sopra degli Stati rispetto alle sfide del futuro?
Le Nazioni Unite non sono il governo del mondo. Esse sono nate per un obiettivo specifico, ancorché ambizioso: quello di abolire l’uso unilaterale della forza e di conferirlo in via esclusiva ad una amministrazione centralizzata. Tale obiettivo è stato parzialmente raggiunto, anche se con tutti i limiti rappresentati da un meccanismo decisionale fondato su logiche intergovernative.
Ma il più grande merito delle Nazioni Unite è quello di aver contribuito silenziosamente a mutare il panorama degli interessi e dei valori collettivi della Comunità internazionale, pur senza possedere i poteri necessari per la loro tutela e la loro promozione. La Carta delle Nazioni Unite parla già il linguaggio di un costituzionalismo internazionale che ancora non esiste, se non in potenza. Essa ha contribuito alla formazione di una comunità nuova, che crede in tali valori e nella necessità di realizzarli, pur senza, e a volte contro, la volontà degli Stati: un costituzionalismo senza una forma di governo. Personalmente, credo che le Nazioni Unite non siano all’altezza delle sfide del futuro. Ma esse hanno contribuito a creare tali sfide e i presupposti per poterle affrontare.
12. Si fa un gran parlare, in questi giorni, di libertà individuali compresse da poteri privati operanti su scala globale. Che ruolo dovrebbero giocare secondo te la sovranità interna e quella esterna?
Il controllo dei poteri privati è la grande sfida del nostro tempo. Con molta difficoltà, gli Stati assicurano tale controllo entro i propri confini. Ma la rivoluzione globale proietta sullo scenario mondiale lo spettro di poteri esercitati sul piano mondiale, i quali si sottraggono al controllo degli Stati. Essi sono tanto più insidiosi in quanto si avvalgono delle nuove tecnologie di comunicazione che li rendono quasi invisibili.
La loro esistenza ha già sollevato il problema della definizione territoriale di applicazione delle discipline degli Stati e dell’Unione europea. Si pensi alla sentenza Schrems II della Corte di giustizia, del 2020, relativa alla applicazione extraterritoriale della disciplina europea sulla protezione dei dati.
Il futuro prossimo sarà verosimilmente caratterizzato da conflitti fra regolamentazioni statali, rispetto ai quali le regole internazionali di composizione su base territoriale sembrano obsolete. Peraltro, tali conflitti incrementeranno inevitabilmente le diseguaglianze sul piano globale, dato che gran parte della popolazione mondiale, il Sud della terra, non potrà godere di una efficiente protezione contro le grandi imprese tecnologiche che operano sul piano globale. Il futuro “remoto” potrebbe recare con sé una forma collettiva di governo dei poteri privati. Ma questo presuppone, a propria volta, una eclissi, totale o parziale, della sovranità statale e il sorgere di strutture di governo che dispongano di competenze settoriali per la gestione di interessi collettivi dell’umanità. Proprio quel che appare al confine dell’utopia …
Postilla a Bruno Capponi, Addio 2020
di David Cerri
Letto l’ultimo dei sempre interessanti – ed arguti – interventi del Prof.Capponi si questa Rivista Addio 2020 di Bruno Capponi, poiché talvolta “anche alle pulci gli vien la tosse”, come diciamo in Toscana (e in diversa forma anche altrove: celebre la versione napoletana), vien voglia a questa pulce di avvocato di provincia di apporre qualche noterella…
Prima di tutto: come non manifestare assoluta condivisione alle critiche sulla tecnica legislativa del governo della pandemia (critica certamente estensibile a tutti gli esecutivi precedenti, peraltro); a quelle sulla mancata/inadeguata informatizzazione della Cassazione o degli uffici dei giudice di pace (critica anzi da rimarcare a proposito dei secondi e da allargare agli onorari, partendo in particolare dalle considerazioni dell’Autore sulle "sperequazioni esistenti coi togati”, quando questi giudici sopportano una parte rilevantissima del contenzioso, tra l’altro con un enorme risparmio di risorse per lo Stato, non giustificato, però, almeno sotto il profilo delle indennità)?
Dove manifesto invece qualche perplessità è sulla definizione di “solito gioco della supplenza” con la quale si riferisce alla emanazione da parte dei Tribunali di quelli che giustamente sono denominati “provvedimenti di organizzazione”, meglio che “decreti”; mi pare cioè che la critica esplicita – ma, con maggior efficacia retorica, condotta anche implicitamente con il riferirvisi come a grida, editti – alle conseguenze degli interventi dei magistrati “della trincea” sia almeno in parte ingenerosa. Visti dal solito punto di osservazione – la trincea – ma dalla parte dell’avvocato, quei provvedimenti hanno consentito di evitare il blocco totale delle attività; questo è il primo punto di merito, che ora, dopo le relazioni per le inaugurazioni dell’anno giudiziario, si apprezza ancor meglio (non sarebbe stata assai peggiore la percentuale in diminuzione dei servizi resi alla collettività senza questi tentativi di soluzione locali?).
La diversità delle situazioni – e forse il legislatore non ha errato nel lasciare questa relativa ampiezza dei poteri ai dirigenti degli uffici – ha portato giocoforza a iniziative diverse tra di loro; in linea di massima, mi sentirei di dire che laddove le “grida” sono state condivise (formalmente o meno) con l’avvocatura, e dove gli interventi sono stati condotti nel senso del chiarimento e della semplificazione, i risultati sono stati migliori. Certamente da sanzionare (almeno culturalmente se non vi fossero altri rimedi: ma forse ci sono) è il giudice che detta le regole, compito esclusivo del legislatore; ma da encomiare il giudice che cerca il dialogo con gli altri operatori del diritto del suo foro per cercare di andare avanti in tempi estremamente difficili. E la certezza del diritto (qui processuale) dove va a finire, si dirà? Probabilmente nel solito posto dove (se non da sempre, quasi…) viene collocata da diverse interpretazioni talora anche all’interno della stessa sezione del medesimo Tribunale, giusto anche di norme processuali. Per un esempio banale: i termini di cui al 6° comma dell’art.183 c.p.c. da quando decorrono? inevitabilmente dall’udienza (o comunque dal provvedimento con il quale vengono concessi), o la decorrenza può essere fissata ad nutum dal Giudice (spesso nel lodabile intento di indicare termini congrui con la data della udienza successiva)? Credo che molti colleghi e magistrati possano testimoniare di diverse prassi interpretative all’interno del medesimo ufficio. Sempre dal punto di vista dell’avvocato, del resto, la conoscenza di diverse prassi applicate in questo o quel foro costituisce un elemento della sua competenza professionale, e ciò sempre sulla base del consolidato canone, proprio della vecchia e della nuova retorica, della considerazione dell’uditorio di destinazione.
Sottostante a questa mia critica alla critica, e lo si sarà già compreso, c’è la convinzione ed anzi l’auspicio che almeno alcune delle novità introdotte per l’emergenza entrino a far parte stabile dell’ordinamento processuale (magari scritte meglio…). Non comprendo come ci si possa strappare i capelli se il momento dell’oralità (la “presenza”) sia limitato a particolari adempimenti, davvero essenziali, come ad esempio alla raccolta delle deposizioni testimoniali (e certamente non soltanto: tra l’altro è ovviamente rilevante anche la materia oggetto di causa). Sennonchè mi si lasci (in cauda venenum) questa nota per concludere: ma parliamo delle testimonianze rese di fronte ad un giudice onorario che non ha conosciuto prima, né conoscerà dopo, della causa? Beh, allora videoregistriamole!
Un racconto approssimativo.
di Alberto Santacatterina
Ho acquistato e letto il libro di Palamara. Quello che colpisce, in un testo che sta monopolizzando il dibattito pubblico sulla magistratura, è la sciatteria e l’approssimazione del suo racconto.
Non parlo degli episodi dei quali si discute da giorni, che solo gli interlocutori da lui citati possono confermare o smentire, ma proprio della esattezza delle notizie che vengono date e che è possibile controllare.
Il primo racconto è quello dell’elezione dell’attuale vicepresidente del CSM. Dice Palamara: “Siamo consci della sua debolezza di curriculum, ma ci organizziamo per portarlo al traguardo della vicepresidenza” (p.28). Tanto si organizza che la votazione, a suo dire, finisce “Tredici a tredici, ma essendo Ermini più anziano di Benedetti, il nuovo vicepresidente del Csm è lui. […] Questa è storia, nessuno può smentire una virgola di questa ricostruzione” (p.32). Uno va a controllare e scopre che, in realtà, la votazione si concluse tredici a undici. Certo, si può sempre ricordare male. Se però si considera che in quella votazione si astennero i due consiglieri di Forza Italia (che in teoria avrebbero dovuto votare a favore del candidato che si opponeva a Benedetti, votato invece dal “blocco che si era formato tra Davigo e la corrente di sinistra di Area” (p.30), qualcosa non quadra.
Il succo del racconto di Palamara è la denuncia dell’esistenza di un «Sistema» “monopolizzato dall’asse tra la mia Unità per la Costituzione e la sinistra di Magistratura democratica” (p.13) dove invece Magistratura Indipendente era stata tenuta “ai margini”. Chiunque abbia seguito negli anni le vicende del CSM sa che la realtà è ben più complessa, fatta di tante decisioni e votazioni nelle quali le maggioranze si sono composte, scomposte e ricomposte. Del resto, e questo è un argomento che nel libro si salta a piè pari, il CSM è composto per due terzi di magistrati eletti dai colleghi e per un terzo da avvocati e professori eletti dal Parlamento. La sua composizione ed il suo funzionamento sono tali per cui è naturale e fisiologico votare, quindi creare (e spesso disfare) maggioranze e minoranze.
Dice Palamara che “se sfidi il «Sistema» sei fuori, indipendentemente dal fatto che tu abbia ragione o torto”. Tra i magistrati che sarebbero fuori, oltre ai soliti Ingroia e De Magistris, ci sarebbe a suo dire anche “Antonio Sangermano” (p.47). Lungi dall’essere emarginato, il dott. Sangermano è stato nominato a 51 anni Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Firenze a Firenze.
Appena entrato in magistratura, dopo aver notato che “la maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura”, Palamara capisce “che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica” (p.36). Quando poi si trasferisce da Reggio Calabria a Roma, esce da Magistratura Democratica “corrente ideologica e non scalabile da uno con la mia storia” per entrare “in una corrente meno strutturata e più pragmatica”: “partecipo a un’operazione politica” attraverso la quale “Unicost acquisirà un ruolo e un peso decisivo all’interno della magistratura” (p.38). “Unità per la Costituzione” (Unicost) è in realtà da decenni la corrente di maggioranza relativa della magistratura associata. Dire quel che dice Palamara è un po’ come dire che nel 1988 con De Mita la Democrazia Cristiana “acquisirà un peso decisivo” all’interno della politica italiana.
Il lettore inesperto potrebbe cercare nel libro anche il racconto della vita di un magistrato vista dall’interno. Verrebbe informato che il giovane uditore Palamara inizia il 15 dicembre 1997 la sua “avventura in magistratura” e “A differenza di tanti miei colleghi che oggi si battono il petto, non chiedo una raccomandazione al politico di turno per svernare a Roma in qualche commissione parlamentare, ma scelgo come prima destinazione la procura di Reggio Calabria, allora classificata come sede disagiata” (p.34). Per chi non lo sapesse, tutti i magistrati di prima nomina sono destinati agli uffici giudiziari, spesso i più scomodi. La “scelta” di cui si vanta l’intervistato non fu, come sembra, un atto di eroismo, ma la regola per tutti i magistrati all’atto della assunzione delle funzioni, che scelgono, pubblicamente e nell’ordine della graduatoria definitiva del concorso, tra le sedi (giudiziarie) pubblicate dal CSM.
Vogliamo invece sapere come nascono i procedimenti penali? “Ci sono inchieste che partono in flagranza di reato, altre su denuncia di una delle parti, altre da verifiche fiscali o da tronconi ditribuna indagini precedenti. Ma molte partono dalla cosiddetta «velina», cioè una soffiata, una segnalazione anonima più o meno verosimile, spesso confezionata dai servizi segreti o da faccendieri interessati a una certa partita. Quando arriva sul tavolo di un magistrato, la velina può essere cestinata o passata alla polizia giudiziaria per fare delle verifiche, le quali danno origine a un documento chiamato «informativa», che il magistrato può cestinare, tenere nel cassetto o trasformare in un fascicolo giudiziario: ovvero, aprire un’indagine vera e propria” (p.68). Questa, detto senza possibilità di smentita, non è la descrizione del funzionamento di una Procura, ma la sceneggiatura di un pessimo telefilm, per intenderci uno di quelli dove l’indagato a quattr’occhi confessa il delitto al pubblico ministero, senza l’ombra di un difensore o di un verbale. Fantascienza, insomma.
Se non si sapesse il contrario verrebbe da pensare che il libro sia scritto da chi non ha mai frequentato un ufficio di procura, o che ha una conoscenza approssimativa dell’ordinamento giudiziario: si legge che con la riforma del 2006 “il procuratore capo assegna le inchieste in modo arbitrario” (p.156). Proprio la riforma (il D.L.vo 106/2006) prevede invece all’art.1 che il procuratore della Repubblica preveda “criteri di assegnazione” e “meccanismi di assegnazione di natura automatica” dei procedimenti penali ai sostituti dell’ufficio.
Pazienza. Uno che all’inizio della sua carriera voleva “contrastare l’egemonia culturale della sinistra giudiziaria” (p.48) e lo fa iscrivendosi a MD (cosa che perfino Sallusti gli fa notare) ha sempre il diritto di correggere i suoi errori e non gliene vorremo per questo. E infatti “a fine 2003 uscii da Magistratura democratica. Accadde dopo un congresso in cui era ospite il segretario della Cgil Cofferati, che tra l’entusiasmo dei magistrati presenti sparò a palle incatenate contro Berlusconi e il suo governo in quel momento in carica” (p.49). Peccato che Cofferati rimanga segretario della CGIL fino al 20 settembre 2002.
La crisi di coscienza si risolve entro un decennio, quando “sto pensando alla politica. Inizio a parlarne […] sia con Franco Marini sia con Maurizio Migliavacca, l’uomo delle liste nel Pd di Bersani, seguendo l’esempio di miei illustri predecessori dell’Anm, tra cui Elena Paciotti, che subito dopo quell’esperienza erano transitati in politica nelle file del Partito democratico” (p.87).
Ci si aspetterebbe poi che un libro destinato a passare alla storia e scritto da un ex componente del Consiglio Superiore fosse almeno preciso quando parla di ordinamento giudiziario, e invece si legge che De Magistris “dal 1998 al 2002 era stato anche procuratore a Napoli” (p.53), che Woodcock è “il famoso procuratore di Napoli” (p.126) e che Robledo può rimanere a Torino “come procuratore” (p.158). Il povero Vittorio Teresi, procuratore aggiunto a Palermo, invece, chissà perché, viene declassato a sostituto (p.107). L’emendamento del 2017 che eliminava il termine di un anno entro il quale gli ex consiglieri del CSM non potevano concorrere ad incarichi direttivi diventa un emendamento “che consente agli ex consiglieri del Csm di poter concorrere immediatamente per incarichi direttivi senza passare attraverso le graduatorie”.
Anche le vicende più clamorose della storia della magistratura italiana sono riferite nel libro con un’approssimazione che sfiora la diffamazione. A detta di Palamara “un grande magistrato di sinistra, Francesco Misiani” fu “ingiustamente messo sotto processo nel 1996 e poi completamente prosciolto dall’accusa di aver ricevuto una somma di denaro da Renato Squillante e passato informazioni sensibili agli imputati del processo SME”. Misiani non fu mai “messo sotto processo” né indagato per “avere ricevuto una somma di denaro da Renato Squillante”; fu imputato del reato di favoreggiamento per avere informato il collega dell’esistenza di indagini a suo carico per corruzione ed assolto “perché il fatto non sussiste”.
Se questa è la accuratezza della narrazione storica, figurarsi se ci si può fidare delle date riportate nel libro. Neanche quando Palamara parla di quello che definisce “il colpo della vita”: “conquistare il vertice della magistratura italiana” (p.14) nominando “i nuovi procuratore generale e primo presidente della Cassazione”, senza che alla corrente di Area “venga assegnata almeno una delle due cariche”; “Non è mai accaduto, mi dicono” (p.16). La “doppietta” (parola di Sallusti) riesce e “Fuzio è il nuovo procuratore generale della Cassazione, Mammone il primo presidente”. Ti aspetteresti che raccontando “il colpo della vita” uno si ricordi almeno la data, specie se non lo racconta al bar ma in un libro. Per Palamara “È il 14 dicembre 2017” (p.17). No, basta cercare su internet, Fuzio e Mammone vengono eletti il 22 dicembre 2017.
Sbagliata la data del “colpo della vita”, figurarsi le altre. “Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento nominato nel 2017 in quota Magistratura democratica” (p.148) in realtà si insedia come procuratore il 18 ottobre 2016; forse lo strapotere della sinistra gli aveva consentito di insediarsi ancora prima della nomina.
“Nel 2015 bisognava nominare il nuovo presidente del tribunale di Catania e Sarpietro presentò al Csm la sua candidatura. Non passò; con il mio contributo decisivo gli fu preferito un altro magistrato, Bruno De Marco, esponente della mia corrente” (p.153). Bruno DI Marco (e non DE Marco), viene nominato presidente del Tribunale di Catania il 6 luglio 2011. L’errore è clamoroso perché Palamara racconta di avere dato un “contributo decisivo” ad una nomina fatta da un Consiglio del quale non faceva parte.
Sono tutti dettagli, e l’elenco può sembrare pignolo. Ma, per dirla con Paul Auster “La verità della storia è nei dettagli”.
Non ho mai avuto rapporti con Palamara e quindi non sono in grado di decifrare (lo considero un privilegio) i messaggi che si ha talvolta l’impressione di percepire: per esempio quando l’intervistato avverte “A ogni cambio di telefono inevitabilmente si perde qualche cosa del contenuto, su quello sequestrato si parte da marzo 2017 ma, e non lo dico per creare nuove apprensioni, spero di recuperare quello precedente, che al momento non trovo” (p.173). L’impressione che se ne ricava è spiacevole e non depone a favore dell’autenticità della narrazione.
Il racconto di Palamara, per chi è del mestiere, fa quindi un’impressione straniante: parla di cose che si sa sono diverse e che funzionano diversamente, di un mondo che, visto dall’interno, non è quello raccontato nel libro. Per capirci, è come se un calciatore della nazionale si pentisse e svelasse di avere comperato nel 1982 la finale dei Mondiali con la Germania: non posso sapere se è vero o no, ma se parlandone dice che il gol segnato con un tiro da fuori area vale tre punti e che la finale si è giocata nel 1978, è logico che qualche dubbio lo suggerisca.
La superficialità del libro di Palamara rischia di avere un duplice effetto dannoso. Da una parte illude la politica e i cittadini che esistano soluzioni semplici ad un problema complesso, quello della scelta dei dirigenti degli uffici ed in generale del (cattivo) funzionamento della giustizia. Se si pretende di avere individuato una sola causa, consistente nello strapotere della sinistra e nell’esistenza del “Sistema”, basta toglierli di mezzo e tutto come d’incanto funzionerà alla perfezione. Tiriamo a sorte, tanto per dire, il prossimo procuratore di Roma, il Sistema sarà disarmato, la Procura di Roma e tutte le altre funzioneranno come un orologio, tutto il mondo ci invidierà. Come abbiamo fatto a non pensarci prima? Magari facciamo lo stesso anche per il prossimo questore, per il prossimo comandante dei Carabinieri, per il prossimo Dirigente dell’Azienda Sanitaria e così via. Poi, se la soluzione non funziona, sarà colpa della sorte che ha scelto male.
Dall’altra parte il grave errore della magistratura sarebbe quello di prendere a pretesto il tenore evidentemente parziale delle dichiarazioni di Palamara, che viene esibito nelle trasmissioni televisive come portatore di una verità di fronte alla quale non vi è concreta possibilità di contraddittorio, per pensare che la crisi di credibilità che comunque ne è derivata si risolverà aspettando che passi la tempesta. Siamo probabilmente ad un punto di non ritorno e possiamo risalire la china solo con uno sforzo davvero audace e spregiudicato, capace di mettere in discussione anche privilegi o abitudini che siamo abituati a dare per scontati.
Per esempio, dobbiamo prendere atto della totale insufficienza degli attuali meccanismi di valutazione del lavoro dei magistrati e della loro professionalità: gli attuali meccanismi, in base ai quali la stragrande maggioranza delle valutazioni di professionalità giudica “superiore alla media” la produttività del magistrato sono, oltre che falsi dal punto di vista aritmetico, insufficienti per giudicarne la caratura professionale.
L’attuale meccanismo di rilevazione statistica, e parlo degli uffici di procura che sono quelli nei quali ho sempre operato, rileva con precisione la quantità dei procedimenti definiti. Difficile, se non impossibile, accertare invece l’esito processuale di quei procedimenti, con la conseguenza che chi ha mandato a giudizio 200 procedimenti ottenendo 100 condanne (e quindi 100 assoluzioni) è comunque giudicato “più produttivo” di chi ne ha definiti 150 ottenendo 130 condanne. La magistratura è l’unica attività professionale nella quale non esistono sostanzialmente meccanismi di controllo della qualità di quello che si produce. Mutatis mutandis è come se in un reparto di chirurgia si rilevasse il numero delle operazioni effettuate senza curarsi del loro esito.
In questa prospettiva si possono cominciare a comprendere i meccanismi che hanno portato alle degenerazioni correntizie, che non derivano certo dal “cattivo” Palamara o dalle oscure trame della destra o della sinistra. Uno studioso non sospettabile di condiscendenza verso la magistratura italiana, il professor Giuseppe Di Federico, ha osservato tra l’altro che “l’assenza di valutazioni di professionalità attendibili […] fa molto spesso dipendere il successo dei candidati dall’efficacia con cui vengono appoggiati dai rappresentanti della propria corrente che siedono in Consiglio”[1]. Tanto più attendibili saranno le valutazioni di professionalità, tanto più difficile sarà scavalcarle per meriti associativi. Questo implica che la magistratura si accolli con coraggio il compito di dire che ci sono magistrati migliori di altri, cioè magistrati competenti e magistrati meno competenti, magistrati che lavorano e magistrati che lavorano meno o che non lavorano affatto, magistrati equilibrati e magistrati che equilibrati non sono. È un compito che spaventa, mi rendo conto, ma deve spaventarci di più la china discendente della nostra credibilità e della nostra reputazione.
Dobbiamo avere poi il coraggio di farci giudicare dai nostri interlocutori quotidiani, vale a dire dalla classe forense, rappresentata dall’ordine degli Avvocati. Rimango stupito che anche di recente si sia messo in discussione addirittura il c.d. “diritto di tribuna”, e cioè la possibilità degli avvocati presenti nel Consiglio Giudiziario di partecipare (senza diritto di voto) alle deliberazioni concernenti le valutazioni di professionalità dei magistrati. Al contrario, i rappresentanti dell’avvocatura dovrebbero partecipare con diritto di voto a quelle deliberazioni. La professionalità di un magistrato è fatta, oltre che di competenza e laboriosità, anche di disponibilità, di correttezza, financo di cortesia nei rapporti personali, qualità tutte indispensabili a chi svolge un lavoro così importante, e tutte possono essere giudicate da chi quotidianamente si confronta con noi. Il coinvolgimento dell’avvocatura in quelle valutazioni rappresenterebbe per la magistratura un gesto di coraggio e di apertura all’esterno davvero epocale, e nello stesso tempo un’assunzione di responsabilità nel funzionamento della giustizia per tutta l’avvocatura.
Abbiamo infine un problema di verità, perché non si possono difendere tutti i comportamenti di tutti i magistrati, recenti e meno recenti, temendo che dissociarsi dai comportamenti di uno indebolisca l’autorevolezza di tutti gli altri. Decidiamo, almeno come magistratura associata, una moratoria delle pubbliche dichiarazioni di magistrati che, oggi come in passato, propongono una narrazione troppo spesso leggendaria, narcisistica e falsa della loro attività. Dissociamoci con decisione dalle apparizioni mediatiche, talora francamente inquietanti ed inaudite da un punto di vista istituzionale ed ordinamentale, di alcuni colleghi. Diciamo a voce alta che i magistrati parlano solo con il loro lavoro: i pubblici ministeri con i risultati processuali delle loro indagini, i giudici con le sentenze. Questo contribuisce alla credibilità della magistratura, non le comparsate televisive, se pur fatte (e non è sempre così) con le migliori intenzioni.
Per concludere, il libro di Palamara non può essere il libro di testo sul quale riscrivere la storia della magistratura italiana, una storia ben più complessa e contraddittoria, né tantomeno la bussola per risolvere la grave crisi della giustizia italiana. Non lo può essere per come è scritto, con superficialità e sciatteria, con una rappresentazione macchiettistica di un CSM e di una politica dove, in sostanza, decideva tutto Palamara, in rapporto diretto con il Presidente della Repubblica per il tramite di Loris D’Ambrosio che, come sappiamo, non può più smentire. Un delirio di onnipotenza che si trasforma oggi nel suo riposizionamento quale testimone privilegiato di un preteso schieramento a sinistra della magistratura come neppure nelle peggiori caricature. Il che non vuol dire che non vadano affrontati, se necessario anche con durezza e anche con sofferenza, molti dei problemi che pure nel libro sono posti, ed ai quali viene data una risposta semplicistica e stereotipata.
Dice Palamara, in esordio, con una solennità un po’ pelosa: “Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano”. Io sono uno dei magistrati che, iscritto da anni ad una corrente, con queste storie nulla c’entra. Non mi sono mai autopromosso, faccio con orgoglio il sostituto da trent’anni e non mi spaventa l’idea di farlo fino alla pensione. Lui ha tutto il diritto, adesso, di riposizionarsi, di diventare la bandiera di chi pensa di buttare nel cestino il lavoro, la storia ed i sacrifici di tanti colleghi. Ma la storia della magistratura italiana, magari, facciamola fare ad altri.
[1] Il Riformista, 11 giugno 202, p.6.
Cedu e cultura giuridica italiana 13) Conversando con i penalisti su CEDU e dintorni
Intervista di V. Militello e R. Conti a Raffaello Magi, Vittorio Manes e Francesco Viganò
Sommario: 1. La scelta del tema - 2. Le domande - 3. Le risposte - Le repliche.
1. La scelta del tema
Giustizia insieme riannoda i fili degli approfondimenti dedicati, a partire dal novembre 2019, agli effetti prodotti nell’ordinamento interno dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Dopo avere toccato i temi cari all’avvocatura civile e penale, ai comunitaristi ed internazionalisti, ai civilisti e lavoristi, processualcivilisti e processualpenalisti, tributaristi ed amministrativisti passando per il ruolo dei giudici che hanno lavorato alla Corte EDU – di seguito i link ai dodici precedenti approfondimenti: 1. La parola agli Avvocati penalisti sul ruolo della CEDU; 2.La parola agli Avvocati civilisti sul ruolo della CEDU; 3. Carta costituzionale e CEDU. Tutto risolto? 4. La Corte edu vista dai suoi giudici; 5. La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e i civilisti; 6. La CEDU e l’Accademia europeista-internazionalista; 7. La CEDU e i processualcivilisti; 8. CEDU e diritto tributario; 9. La CEDU e il diritto amministrativo; 10. La CEDU ed i processualpenalisti; 11. CEDU e diritto del lavoro; 12. Carta dei diritti fondamentali UE e CEDU – il percorso verso l’ultimo miglio non poteva che condurre all’area penalistica.
Un approdo che, al di là dei fattori contingenti che hanno giocato, sembra far trasparire una sorta di razionalità immanente ed al contempo rappresentare l’ennesimo frutto di un antico fardello: la prima è insita nella natura di ultima ratio del diritto penale, nella tutela di quei diritti che la CEDU ha saputo prima affermare e poi corredare di un formidabile strumento di tutela, quale il ricorso individuale; il secondo si annida nel risalente collegamento del diritto penale alla dimensione nazionale e al suo tradizionale radicamento nei valori considerati espressione di un particolare ordinamento, che hanno a lungo opposto resistenza ad una apertura verso livelli di tutela ulteriori.
Per fare il punto di quanto anche in questo settore giuridico, peraltro fortemente popolato dalle norme più svariate per fare fronte all’incessante pulsione di nuove esigenze di tutela, l’intreccio fra vari dimensioni ordinamentali e le corrispondenti giurisdizioni abbia ormai prodotto trasformazioni significative e per larghi tratti irreversibili, si è ricorso alla consueta formula dell’intervista con domande incrociate su aspetti chiave del vasto tema, con un filo rosso comune rappresentato dalle influenze reciproche dei diversi livelli di tutela dei diritti umani e delle relative corti che ne declinano l’effettività. Ad esse hanno accettato di rispondere tre giuristi di alto valore umano e professionale, a coronamento di un progetto "fatto in casa" che, pur con tutti i limiti e proprio per le professionalità che hanno alimentato i singoli contributi, ha offerto l'opportunità di mettere a fuoco e sottoporre ad un più ampio dibattito punti di vista plurali, riflessioni, suggestioni e, perché no, anche provocazioni.
Avere dunque avuto, anche in questa occasione, l'opportunità di tenere insieme, pur nelle diversità, un giudice costituzionale di formazione accademica, un giudice di legittimità ed un professore-avvocato penalista ha consentito un incrocio di letture e di visioni di particolare interesse nel delineare non solo l’incedere delle carte dei diritti di matrice sovranazionale, ma anche le conseguenti trasformazioni di un sistema penale, che rispetto ai suoi canoni classici si deve confrontare con nuove declinazioni dei principi di garanzia pur da coniugare con ulteriori compiti di intervento. Una vicenda nella quale assume un significato particolare la possibile, se non frequente, pluralità dei pronunciamenti delle varie corti: certo, ineliminabile risvolto dell’impossibilità di instaurare fra i rispettivi ordinamenti gerarchie piramidali in grado da risolvere ogni eventuale antinomia, ma anche problematica di speciale rilevanza in un settore in cui l’esigenza alla massima formalizzazione dei precetti è imposta non da astratte aspirazioni di coerenza dell’ordinamento, ma dalla stessa realizzazione della funzione di circoscrivere la materia del penalmente rilevante e al contempo consentire la funzione di orientamento delle scelte di condotta individuali.
I tre interlocutori qui intervenuti, con le loro risposte ariose e ricche di ulteriori spunti di approfondimento, hanno così arricchito la catena di approfondimenti precedenti con un ulteriore anello che non intende affatto chiudere il cerchio o rappresentare un punto di arrivo ma, tutto al contrario, aprirsi a nuove sollecitazioni da tutti gli operatori del diritto. Questo rimane, infatti, il senso ultimo di tutti gli interventi che si sono susseguiti sul tema CEDU, animati da quasi quaranta fra giuriste e giuristi di varia estrazione culturale e professionale, essi davvero straordinari interpreti - e costruttori- di quel bisogno di confronto e dialogo del quale il diritto, in tutte le sue componenti, si alimenta.
2. Le domande
1) Diritto penale, CEDU e Costituzione: impossibile coabitazione fra le Carte, progressiva contaminazione o loro mutua alimentazione?
2) Quale peso gioca il giudice nazionale(costituzionale e non) nell'attuazione dei diritti fondamentali in materia penale per effetto del concentrico uso delle Carte dei diritti fondamentali? E quale il ruolo dell'Avvocato?
3) Quale ruolo sono destinati a giocare la Carta UE dei diritti fondamentali in materia penale rispetto alle Costituzione e alla CEDU e, con essa i giudici nazionali e quelli sovranazionali?
3. Le risposte
1) Diritto penale, CEDU e Costituzione: impossibile coabitazione fra le Carte, progressiva contaminazione o loro mutua alimentazione?
R. Magi
A mio parere va in primis sottolineata, sul piano storico, la – innegabile - progressiva contaminazione, nel sistema integrato di tutela dei diritti fondamentali.
Resta auspicabile la mutua alimentazione, in un quadro di costante e rispettoso dialogo operativo tra le giurisdizioni chiamate a concretizzare i principi espressi nel testo delle Carte.
Quando leggiamo il testo delle disposizioni che le due Carte dedicano al diritto ed al processo penale (specie dopo la novellazione dell’art.111 Cost. operata con legge costituzionale n.2 del 2001) non veniamo certo assaliti da dubbi di compatibilità, fermo restando il necessario apprezzamento dell’ opera di concretizzazione del contenuto dei principi attraverso la mediazione interpretativa e il differente approccio alla ‘fonte giurisprudenziale’ come possibile ingrediente performativo della previsione incriminatrice (art.7 Conv.), che tanto preoccupa i cultori interni della legalità formale.
Ciò che tuttavia ha reso possibile – nel corso degli anni – l’avvicinamento dei contenuti concreti delle previsioni astratte di tutela dei diritti fondamentali, in un quadro di costruttiva interazione, è l’esistenza – a mio avviso - del particolare strumento operativo rappresentato, per la Corte di Strasburgo, dal ricorso individuale di cui all’art.34 della Convenzione, così come previsto dal Protocollo n.11 del 11 maggio 1994.
E’ il particolare canale di accesso a segnare la dimensione del giudizio reso a Strasburgo ed il suo particolare valore.
L’analisi del caso concreto – definito dalla giurisdizione nazionale senza apertura di una questione incidentale di legittimità costituzionale delle disposizioni applicate – svela, potenzialmente, lo scarto esistente tra il contenuto del principio (astrattamente applicabile) e le prassi operative dei Tribunali interni, mettendo a nudo il vuoto di tutela e la conseguente violazione della Convenzione e dei sottostanti valori.
Se guardiamo agli interventi di Strasburgo di maggior rilievo succedutisi negli anni (specie sul fronte del giusto processo, ma non solo) ci rendiamo conto facilmente del ruolo propulsivo che la Corte Edu ha avuto grazie allo strumento del ricorso individuale, in casi in cui la decisione interna era «formalmente legale», ossia adottata sulla base di previsioni di legge vigenti ed interpretate – anche dall’organo della nomofilachia – proprio nel modo che ‘dava luogo’ alla violazione del principio convenzionale.
Vi sono stati, pertanto, casi in cui la Corte Edu ha operato – per certi versi – quale vera e propria ‘sentinella’ dello scostamento tra l’applicazione concreta del diritto e il contenuto di quei medesimi valori solennemente declinati dalla Costituzione ma rimasti inattuati o, peggio, calpestati da un legislatore spesso incline ad assecondare bisogni emotivi di rassicurazione o derive giustizialiste (citando Calamandrei va ricordato che nello stampo della legalità può calarsi tanto l’oro che il piombo...).
In altre parole, l’accertamento di una violazione della Convenzione, lì dove il vizio individuato a Strasburgo sia dipeso non già da un errore di ‘applicazione’ del diritto interno (o comunque da un cattivo giudizio) ma da una obiettiva inadeguatezza delle disposizioni applicate (all’esito del giudizio complessivo di compatibilità con i principi convenzionali) ha aperto la strada all’intervento riformatore di tipo legislativo e/o all’intervento (sia pur tardivamente innescato) del giudice delle leggi.
Ciò testimonia quanto la Corte Edu – primo interprete della Convenzione – non possa ritenersi un corpo estraneo alla dinamica di attuazione, nel sistema interno, dei diritti fondamentali dell’individuo.
Vale la pena ricordare alcune di queste occasioni, che tracciano essenzialmente un profilo di contribuzione effettiva della giurisdizione ‘europea’ alla promozione di assetti legislativi e prasseologici maggiormente rispettosi delle garanzie fondamentali dell’individuo e degli stessi principi costituzionali.
In campo processuale, senza le reiterate condanne dell’Italia emesse a Strasburgo in tema di violazione del contraddittorio nel giudizio contumaciale (v. il caso Sejdovic) non vi sarebbe stata la riforma delle modalità di instaurazione del processo adottata con la legge numero 67 del 2014 in tema di assenza, né – in precedenza – l’adeguamento normativo di strumenti riparatori (restituzione in termini per l’impugnazione) tesi alla riapertura del processo, con possibile invalidazione del giudicato.
Si tratta di temi ricadenti nell’ambito applicativo dell’articolo 24 della Costituzione in tema di effettività del diritto di difesa, dato che la conoscenza dei termini fattuali dell’addebito e la convocazione effettiva dell’incolpato al giudizio ne rappresentano una precondizione, ed in questo le violazioni della Convenzione hanno rappresentato adeguato stimolo all’attuazione del principio costituzionale nel sistema interno.
Analogamente, l’intera rielaborazione delle modalità di formazione della prova dichiarativa in giudizio – alfine adottata con legge costituzionale, date le reminiscenze inquisitorie espresse dalla stessa Corte costituzionale negli anni novanta del secolo scorso- è stata di certo stimolata dalle accertate violazioni dell’articolo 6 della Convenzione in casi portati a Strasburgo (emblematico il caso Dorigo), caratterizzati dalla impossibilità del confronto antagonista tra l’incolpato e la fonte di prova .
Più di recente, l’influenza delle decisioni della Corte Edu – anche quelle emesse nei confronti di altri paesi – ha determinato l’approdo ad una diversa fisionomia del giudizio di secondo grado in caso di potenziale ribaltamento dell’esito assolutorio (con anticipazione dell’intervento legislativo operata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) valorizzando il principio di immediatezza e la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale dimensione probatoria del giudizio di responsabilità.
Ed ancora, la tutela dell’affidamento nella dimensione legale della pena - derivante da disposizioni processuali vigenti al momento della adozione di una forma speciale di giudizio – ha determinato la censura di disposizioni interne contrarie al principio (il caso Scoppola del 2009), con conseguente apertura di incidente di legittimità costituzionale teso alla estensione erga omnes degli effetti della decisione emessa a Strasburgo, tramite la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione interna contrastante.
Così come la complessiva riforma – addottata nel 2014 – del sistema di tutela delle posizioni giuridiche soggettive dei soggetti in espiazione di pena è essenzialmente il portato della decisione emessa nel 2013 dalla Corte Edu nel caso Torreggiani ed altri, con brutale presa d’atto della siderale distanza tra il ‘dover essere’ e la realtà carceraria italiana. Ne è seguito l’inserimento di previsioni di legge tese ad estrarre dai contenuti delle decisioni emesse dalla Corte di Strasburgo le ‘dimensioni concrete’ dei doveri imposti all’amministrazione penitenziaria al fine di evitare lo sconfinamento in trattamenti inumani o degradanti, in perfetta aderenza ai contenuti dell’art.27 co.3 della Costituzione (rimasto sulla carta, nonostante gli allarmi in precedenza lanciati dalla stessa Corte costituzionale).
A fronte di tali complesse interrelazioni - cui va aggiunto il campo delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, cantiere aperto da interventi giurisprudenziali antecedenti e successivi alla decisione De Tommaso contro Italia emessa dalla Corte Edu nel 2017 ed approdato ad una importante decisione della Corte costituzionale nel 2019 con attuazione di principi speculari tra Costituzione e Convenzione – non soltanto può dirsi che i contenuti della Convenzione, al di là del formale riconoscimento di validità formale (con le sentenze gemelle del 2007) con rango subcostituzionale, innervano costantemente l’ordinamento interno, ma si pongono – nel quotidiano - come necessario metro di paragone della ‘tenuta’ delle singole scelte applicative delle disposizioni vigenti, in chiave di confronto con il quadro di valori espresso in entrambe le Carte.
In simile contesto, anche l’emersione di punti di vista in parte diversi – in ambito giurisdizionale – su singole questioni (è il caso della ricognizione dei caratteri concreti della prevedibilità operata dalla Corte Edu nel noto caso Contrada del 2015 in tema di concorso esterno in associazione mafiosa e, per certi versi, della confisca urbanistica) non appare frutto di volontà ‘oppositive’ alla importazione di principi convenzionali, ferma restando la necessaria dialettica interpretativa, quanto espressione di una ineliminabile autonomia di ragionamento e ricostruzione di profili fattuali e giuridici rilevanti per il ‘riconoscimento’ della regola iuris da applicare nel caso concreto.
In tal senso, è auspicabile che – in un momento storico caratterizzato da estrema precarietà degli assetti politici generali - prosegua, attraverso la sensibilità delle giurisdizioni, il percorso di reciproca integrazione e di mutua alimentazione tra le Carte.
V.Manes
Credo che la risposta a questa domanda sia già stata data dalla giurisprudenza comune e dalle decisioni della Corte costituzionale, negli ultimi tre lustri, non solo in materia penale: anche se questo campo di materia offre un osservatorio privilegiato, essendo un contesto altamente rights-sensitive, e a buon diritto è stato scelto come ambito elettivo per tracciare un bilancio sul “dialogo tra Corti”.
Il saldo di questo bilancio – mi pare di poter dire – è certamente positivo, e va nella direzione di una costante contaminazione e di una mutua alimentazione, nel segno di un complessivo accrescimento dei livelli di tutela (salvo alcune zone d’ombra, come dirò); contaminazione forse maggiormente percepibile nei tracciati della giurisprudenza costituzionale, ma non priva di testimonianza ed echi anche nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo (ad es., Viola c. Italia), che del resto – credo sia un dato da sottolineare – anche e proprio in decisioni relative al nostro paese (solo per citarne alcune, Scoppola, Grande Stevens, Sud Fondi, Varvara, Contrada, ma anche Dorigo, Sejdovic, o Torreggiani, sino alle sentenze di Grande Camera G.I.E.M. e De Tommaso, etc.), e dunque su ricorsi proposti da avvocati italiani, ha avuto modo di affermare principi di notevole rilievo, se non apertamente innovativi nella propria, costante interpretazione “evolutiva”.
Sarebbe superfluo, credo, elencare le decisioni della Corte costituzionale che hanno costruito le proprie rationes decidendi anche e soprattutto “dialogando” con la giurisprudenza della Corte EDU, ma può senza dubbio dirsi che questo è diventato un registro argomentativo costante, uno “stile” composto di forma e sostanza, e ormai un legal reasoning consolidato che peraltro negli ultimi anni tende a non servirsi più – o a servirsi solo in via residuale – della dottrina del “parametro interposto” (costruita sull’art. 117, primo comma, Cost.) preferendo una ermeneutica convenzionalmente orientata degli stessi principi costituzionali (ne è un esempio emblematico, inter alia, la sentenza n. 32 del 2020, che ha “reinterpretato” in senso evolutivo l’art. 25, secondo comma, Cost., e segnatamente il principio di irretroattività, ricomprendendovi le norme dell’ordinamento penitenziario a carattere “afflittivo”, come del resto già in precedenza con riguardo alle sanzioni amministrative “punitive”, a partire dalla sentenza n. 196 del 2010, poi confermata dalle sentenze n. 104 del 2014, n. 276 del 2016, ma anche n. 43 del 2017, etc.).
Segno, questo, di una “contaminazione” e di una “mutua alimentazione” giunta a piena maturazione, che vede nella “intrinseca capacità generatrice” e nella “perenne eccedenza assiologica” dei principi costituzionali una porosità e potenzialità ermeneutica tale da consentire di far filtrare opportune evoluzioni e costanti avanzamenti, nel segno di quella Costituzione – secondo la lezione di Peter Häberle – come “öffentlicher Prozess”, dominata dal “pensiero delle possibilità” (Möglichleitsdenken), ed architrave di una “società aperta degli interpreti della Costituzione” (offene Gesellschaft der Verfassungsinterpreten).
Non deve stupire il fatto che gli esiti siano stati spesso, come si sa, dirompenti, anche e soprattutto in materia penale.
La carica innovativa si spiega, anzitutto, dal diverso punto di osservazione che la Convenzione EDU – con la propria impostazione rights-based – impone, sollecitando la “rilettura” di istituti, concetti, categorie, ed interi universi di problemi: i punti di osservazione sono infatti degli “ordinatori di realtà”, non solo nel mondo della fisica, cosicché mutando il punto di osservazione si modifica anche la realtà osservata.
Bastino due esempi.
L’adesione del “codice Rocco” e del tecnicismo giuridico al concetto formale di reato (art. 17 c.p.) – e ad una nozione di “antigiuridicità formale” – è stata letteralmente rovesciata dall’approccio sostanzialistico e dalla nozione antiformalistica di “matière pénale” accolta nella giurisprudenza di Strasburgo, una nozione autonoma volta appunto ad assicurare alle garanzie penalistiche (diritto ad un equo processo, principio di legalità, ma anche ne bis in idem, etc.) una tutela “non illusoria e astratta, ma effettiva e concreta”, come recita un costante refrain della Corte EDU. Su queste basi, si è reinterpretata in chiave rights-oriented l’intera costellazione delle garanzie penalistiche, secondo una direzione che – superando le dicotomie care al tecnicismo giuridico pena/misura di sicurezza, diritto sostanziale/diritto processuale, disciplina penale sostanziale/disciplina dell’esecuzione penale – ha consentito di smascherare, sul piano domestico, diverse e variegate ipotesi di “truffa delle etichette” (v. ad es. Corte cost. sentenza n. 196 del 2010, cit.), di bonificare in senso garantistico le più diverse ipotesi speciali di confisca “punitiva” (la confisca per equivalente, la confisca urbanistica, etc.), di assoggettare al nullum crimen come alla garanzie del ne bis in idem le “pene nascoste” (ossia le sanzioni sostanzialmente punitive, amministrative, tributarie, disciplinari, etc.) e che, di recente, ha fatto breccia anche nei sobborghi rimossi dell’esecuzione penale (appunto assoggettando al principio di irretroattività disposizioni penitenziarie a contenuto afflittivo: sentenza n. 32 del 2020, cit.): e promette di poter raggiungere ulteriori risultati in diversi contesti ancora largamente inesplorati (si pensi alle norme processuali afflittive).
Una seconda testimonianza della carica rivoluzionaria del rights-based discourse si è avuta sul terreno delle misure di prevenzione, dove la verifica costituzionale – forse limitata dall’angolatura in certa parte angusta offerta dall’impostazione tradizionale – era ferma, come noto, alla sentenza n. 177 del 1980: con la celebre pronuncia della Grande Camera De Tommaso c. Italia, muovendo appunto dalla considerazione per cui ogni misura di ingerenza statale nei fundamental rights deve essere assoggettata alle garanzie della legalità – ed ai “qualitative requirements” della “accessibilità e prevedibilità” – ed al principio di proporzione, si è emancipata la discussione dal giogo del (problema di) inquadramento delle misure di prevenzione, mettendo da canto il problema della loro discussa natura penale, ed evidenziando comunque la loro invasività nella sfera dei diritti (libertà di circolazione, per le misure di prevenzione personali; diritto di proprietà, quanto alle misure di prevenzione patrimoniali). Si è così smascherato – da questa diversa inquadratura – un evidente vulnus di legalità e di “proporzionalità”, con le conseguenze, ben note, coerentemente tratte dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 24 e 25 del 2019.
Certo sarebbe riduttivo intravedere solo luci, e frutto di una visione irenica, e forse ingenua, di questo processo di costante contaminazione.
Alcune ricadute della “distruttività creativa” della giurisprudenza europea, infatti, hanno determinato ripercussioni strutturali sulla fisionomia del sistema che rischiano di innescare – ed in taluni casi hanno già innescato – autentiche “crisi di rigetto”. Così, in particolare, la nozione autonoma di “legge” aperta a ricomprendere – pur solo in una prospettiva di ampliamento delle garanzie - tanto il diritto legislativo quanto il diritto giurisprudenziale (judge-made law) ha posto le premesse per intaccare anche postulati fondanti della legalità costituzionale: e su questo versante ha determinato reazioni decise da parte della Consulta, specie con la sentenza n. 230 del 2012 (ma anche con la sentenza n. 115 del 2018, pur resa sul versante dei rapporti tra diritto nazionale e diritto UE, in re Taricco), reazioni che hanno dunque evidenziato ambiti e profili dove le contaminazioni – vere o presunte che siano le responsabilità della Corte EDU - si mostrano decisamente problematiche, se non (costituzionalmente) impossibili.
Parallelamente, devono ancora essere esplorati a fondo autentici “buchi neri giuridici” che minacciano altrettanti problemi di innesto: in questa prospettiva, ad esempio, non va dimenticato che nella Convenzione EDU, e soprattutto nella giurisprudenza della Corte, affiorano sempre più spesso “obbligazioni positive” (positive obligations) in capo ai singoli Stati che talvolta si traducono in precipui “obblighi di tutela penale”, con tutto il carico di problematicità che questi generano quando vengono ad innestarsi in un contesto costituzionale, dove la tesi degli obblighi di tutela penale (Pönalisierungsgebote) e della loro “giustiziabilità” ha sempre visto la strada sbarrata - condivisibilmente – da precisi argini costituzionali.
F. Viganò
Direi senz’altro progressiva contaminazione, e assieme mutua alimentazione.
I rapporti profondi tra diritto penale e Costituzione sono stati messi in luce dalla nostra dottrina a partire dagli anni Settanta. E ciò grazie, in particolare, alla fondamentale opera di Franco Bricola, che ha gettato le fondamenta di quel “volto costituzionale del diritto penale” che costituisce – come ci rammenta Donini – il principale contributo della dottrina italiana alla dogmatica penalistica internazionale.
Qualsiasi manuale di diritto penale si apre oggi con l’illustrazione dei fondamentali principi che la Costituzione pone in materia: legalità (nei suoi quattro corollari della riserva di legge, della sufficiente precisione della norma, del divieto di analogia e del divieto di applicazione retroattiva in peius), offensività, personalità-colpevolezza, principio di umanità e funzione rieducativa della pena, divieto della pena di morte (e relativi corollari in materia di estradizione).
Ma i manuali più attenti sottolineano, altresì, come dal complesso dei principi costituzionali si evincano tutta una serie di ulteriori limiti alla potestà legislativa in materia penale, e all’esercizio concreto dello ius puniendi: dal generale vincolo di eguaglianza-ragionevolezza ex art. 3 Cost. (a partire dal quale si è, ad esempio, dotato di fondamento costituzionale il principio della retroattività della lex mitior), al rispetto dei diritti fondamentali della persona nelle scelte di incriminazione, alla stessa conformazione delle sanzioni penali al metro del principio di proporzionalità della pena.
Sul versante giurisprudenziale, poi, tanto la Corte costituzionale quanto i giudici comuni da tempo valorizzano il ruolo dei principi costituzionali sul diritto penale, sul diritto processuale penale e sul diritto penitenziario. Credo che la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia non abbia eguali, anche solo dal punto di vista quantitativo, rispetto al panorama del diritto comparato: basta sfogliare qualsiasi codice per rendersi conto immediatamente del numero elevatissimo di pronunce che, nel corso dei sessantacinque anni di vita della Corte, hanno dichiarato illegittime norme penali, processuali e penitenziarie. Negli ultimi anni, anzi, la Corte ha dato mostra di voler superare anche l’accentuato self-restraint che circondava tradizionalmente le scelte legislative in materia di selezione delle condotte penalmente rilevanti e di scelta delle pene, dichiarando parzialmente illegittima una fattispecie di grande rilievo nel sistema come l’istigazione e aiuto al suicidio, nonché varie cornici edittali ritenute sproporzionate alla gravità del reato, tra cui quella – di enorme importanza prasseologica – prevista per il traffico di droghe c.d. “pesanti”.
A partire grosso modo dall’inizio del nuovo secolo, su questa risalente attenzione ai principi costituzionali si è sovrapposto un interesse crescente dei penalisti per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e per la giurisprudenza di Strasburgo.
Se non vedo male, un importante momento di svolta – dopo l’entrata in vigore della legge Pinto, nel 2001 – si è avuta nel 2005-2006, quando la Cassazione penale cominciò a dichiarare “non (più) eseguibili” sentenze di condanna da tempo passate in giudicato e già in parte eseguite, nell’ipotesi in cui il processo sfociato in tali condanne fosse stato celebrato in violazione del diritto al “giusto processo” di cui all’art. 6 CEDU, secondo quanto stabilito da una sentenza della Corte EDU resa nel caso specifico. La Cassazione non poteva qui adottare il rimedio principe, suggerito dalla stessa Corte EDU, di riaprire il processo revocando la sentenza di condanna, dal momento che tale rimedio non era ancora previsto dal codice di procedura penale; ma si rese conto – in buona sostanza – che continuare ad eseguire sentenze condanna rese in esito a processi “iniqui” dal punto di vista convenzionale si sarebbe tradotto in una ulteriore violazione dei diritti convenzionali del condannato, e in particolare del suo diritto alla libertà personale, compressa da una pena detentiva divenuta illegittima proprio perché scaturita da un processo non conforme alla Convenzione. E dunque, di fatto, paralizzò l’applicazione della pena, in attesa di indicazioni da parte del legislatore.
Nel 2007 si colloca poi la svolta storica rappresentata dalle sentenze gemelle, che conferiscono alla CEDU – e alla sua interpretazione da parte della Corte di Strasburgo – il rango “paracostituzionale” di norme interposte nel giudizio di costituzionalità, fatta salva la verifica della loro compatibilità con la stessa Costituzione.
A partire da questo momento, si susseguono sentenze di accoglimento che accertano la contrarietà di discipline legislative, o di loro letture giurisprudenziali, contrarie alla Convenzione. E ciò tanto in materia processuale penale (come nel caso della sentenza n. 113 del 2011, che introduce proprio l’ipotesi di revisione del processo in seguito a una specifica condanna della Corte EDU per violazione dell’art. 6 CEDU), quanto in materia penale (come nel caso recente della sentenza n. 25 del 2019, che dichiara illegittime talune sottofattispecie riconducibili alla norma che incrimina la violazione delle prescrizioni contenute in una misura di prevenzione personale, in ragione della loro eccessiva indeterminatezza, già ritenuta incompatibile con l’art. 7 CEDU dalla Corte EDU).
Anche la giurisprudenza comune ha, d’altra parte, proseguito con decisione sulla strada della progressiva integrazione delle garanzie convenzionali nell’ordinamento interno, grazie al duttile strumento dell’interpretazione conforme, che conduce – tra più interpretazioni possibili del testo normativo – a preferire quello compatibile con la Convenzione.
Questo recente e tumultuoso processo di progressiva integrazione della CEDU nell’orizzonte del giudice italiano (comune e costituzionale) ha condotto molti studiosi a interrogarsi sugli effetti di tale integrazione sull’ormai consolidato “volto costituzionale” del sistema penale. Molti autori – e forse anche una parte non trascurabile della magistratura – temono che essa provochi un complessivo scadimento delle garanzie costituzionali, così faticosamente conquistate. E ciò anche perché, si sente spesso polemicamente affermare, il diritto di Strasburgo sarebbe frutto di una giustizia di taglio casuistico e aliena dal pensiero sistematico, prodotta da giudici lontani dalle realtà sociali, politiche, istituzionali di ciascuno Stato.
Il che condurrebbe, in tesi, a quello scenario alternativo di impossibile coabitazione, cui alludeva la domanda.
Devo dire che non ho mai condiviso questi timori, sia per ragioni di principio, sia per considerazioni di carattere pratico.
Quanto alle ragioni di principio, la regola aurea del rapporto tra garanzie convenzionali e garanzie costituzionali è quella espressa dall’art. 53 CEDU sul versante “europeo”, e dalla sentenza n. 317 del 2009 della Corte costituzionale sul versante “interno”: quella cioè secondo cui la Convenzione non osta in alcun caso a che le costituzioni degli Stati parte possano riconoscere ai singoli diritti una tutela giuridica maggiore di quella assicurata in sede convenzionale, la quale costituisce soltanto uno standard minimo che tutti gli Stati si obbligano ad osservare. So bene che si tratta di una regola che non risolve tutti i problemi, specie nelle situazioni in cui si confrontano due distinti diritti, il cui bilanciamento potrebbe essere stabilito con criteri differenti dalla giurisprudenza costituzionale e da quella convenzionale; ma questi profili di problematicità non possono condurre a svalutare l’importanza della regola base, che ha una indubbia capacità di rendimento in una grande quantità di casi.
In materia penale, ad esempio, la Costituzione stabilisce – a differenza della Convenzione – una riserva di legge per la definizione dei reati e delle pene, che osta alla creazione di nuovi reati per via giurisprudenziale. Questa garanzia evidentemente resta ferma anche allorché l’ordinamento si apra alla penetrazione del diritto convenzionale. L’art. 7 CEDU pone l’accento su altri aspetti del principio di legalità, con i quali il giudice nazionale sarà chiamato a confrontarsi; ma non obbliga affatto ad abbandonare la garanzia politico-istituzionale della riserva di legge stabilita dall’art. 25, secondo comma, Cost.
Ancora, la consolidata interpretazione dell’art. 25, secondo comma, Cost. afferma la natura sostanziale della disciplina della prescrizione del reato, e dunque la sua riconducibilità a tutti i corollari della legalità penale (riserva di legge, sufficiente precisione, divieto di analogia, divieto di applicazione retroattiva in peius). La circostanza che la giurisprudenza di Strasburgo non obblighi gli Stati ad applicare le garanzie dell’art. 7 CEDU alla disciplina della prescrizione, non esclude certo che lo Stato italiano possa continuare a riconoscere, anche in tale materia, le garanzie della legalità “nazionale”, come chiarito dalla sentenza n. 115 del 2018.
Analogo discorso vale per la pena: la CEDU non afferma la sua necessaria funzione rieducativa; ma dal momento che questo principio è espresso a chiare lettere dalla Costituzione italiana, ad esso il giudice italiano (comune e costituzionale) resterà certamente vincolato.
Inoltre – e vengo alle considerazioni di carattere pratico – è facile constatare come l’integrazione tra orizzonte costituzionale e convenzionale nella prospettiva del sistema penale abbia prodotto, di fatto, effetti virtuosi nel senso del complessivo innalzamento delle garanzie: ciò che spesso, purtroppo, sfugge a quella parte della dottrina, penalistica e processualpenalistica, che continua a temere che dalla contaminazione tra le due ottiche derivi a conti fatti un abbassamento degli standard di tutela dei diritti fondamentali della persona.
Il diritto convenzionale costringe l’interprete a pensare ai principi non solo come “valori” oggettivi, ma anche – e soprattutto – in funzione delle esigenze di tutela dei diritti delle persone sulle cui esistenze le norme vanno a incidere. Non già – attenzione – in una prospettiva individualistica, o atomistica; ma nella prospettiva, tipica delle tradizioni costituzionali europee, di una persona pensata come inserita in una determinata società, e titolare di una fitta serie di diritti e assieme di doveri di solidarietà nei confronti del prossimo. Una prospettiva, ancora, che mette sempre in conto la possibilità che i suoi interessi possano essere ritenuti recessivi nei confronti di quelli dei terzi o della collettività nel suo complesso, al metro del (e nei limiti consentiti dal) super-principio di proporzionalità.
Pensare al diritto dal punto di vista della persona coinvolta è, mi pare, un approccio prezioso, e in larga parte nuovo per la sensibilità del penalista. Il diritto penale, si insegna tradizionalmente, non tutela “diritti”, ma “beni giuridici”: interessi della società nel suo complesso, anche quando si tratti di beni individuali come la vita, il patrimonio, la libertà; la tutela dei diritti soggettivi sarebbe, in quest’ottica, compito esclusivo del diritto civile. E i limiti costituzionali allo ius puniendi, così come quelli applicabili al processo penale, sono sempre stati intesi primariamente come “principi ordinamentali” più che come “diritti fondamentali” delle persone coinvolte dal processo e dalla pena.
Il diritto convenzionale interviene a spostare lo sguardo sulla prospettiva della persona: sul destinatario della norma penale, sulla vittima del reato, sull’imputato, sul condannato. Con effetti rimarchevoli, per l’interprete.
Pensiamo al principio di legalità: il diritto convenzionale orienta alla prospettiva della prevedibilità, da parte del destinatario della norma, dell’applicazione della sanzione penale. Non basta che la norma penale sia espressa da una legge; né che il risultato dell’interpretazione – la conclusione cioè che la norma penale è applicabile anche a casi come quello di specie – sia raggiunto dal giudice in esito a itinerari argomentativi giuridicamente sostenibili; ma occorre, altresì, che questo risultato interpretativo potesse essere ragionevolmente previsto dall’interessato al momento della commissione della condotta. Il che non sarebbe stato affatto scontato, muovendo dalla tradizionale prospettiva costituzionale, fondata sugli artt. 25 e 27 Cost.
Ancora, le garanzie del nullum crimen sono state estese dalla Corte EDU anche a sanzioni formalmente qualificate come amministrative, civili, disciplinari, etc., ma dalla natura sostanzialmente “punitiva”. Tale estensione è stata giustificata sulla base dell’esigenza di tutelare la persona contro misure che incidono sui suoi diritti in maniera egualmente, o a volte ancora più afflittiva rispetto alle sanzioni anche formalmente qualificate come penali; e la giurisprudenza italiana, costituzionale e comune, ha ormai con decisione adottato questa stessa ottica, estendendo correlativamente le stesse garanzie costituzionali a sanzioni di carattere “punitivo”.
Forse la più spettacolare conseguenza del mutamento di prospettiva determinato dall’impatto del diritto convenzionale – e dell’approccio right-oriented ad esso sotteso – è però rappresentato dal progressivo sgretolamento del “mito” del giudicato in materia penale. In esito a quello che è stato felicemente definito (Lamarque) come un “gioco di squadra” tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, è stata progressivamente superata l’idea della non modificabilità della statuizione sulla pena consacrata nella sentenza definitiva di condanna, tradizionalmente giustificata in nome del principio ordinamentale “oggettivo” della certezza dei rapporti giuridici: principio che la giurisprudenza ha preso a considerare recessivo, a fronte dell’esigenza di restaurare la legalità convenzionale e costituzionale, che non può tollerare la perdurante esecuzione di pene irrogate sulla base di norme contrarie alla CEDU, o alla stessa Costituzione italiana. E ciò in quanto tale esecuzione si tradurrebbe – esattamente come nei casi del 2005-2006 poc’anzi menzionate – in una illegittima compressione dei diritti dei condannati.
Sconvolgimenti tellurici, tutti quelli evidenziati, che sarebbero stati impensabili senza l’influsso del diritto convenzionale, ma che al tempo stesso si riverberano sulla interpretazione e applicazione delle stesse garanzie costituzionali, divenute ormai sempre più attente alla loro dimensione di tutela degli interessi di persone in carne ed ossa, e non più solo di principi oggettivi.
2) Quale peso gioca il giudice nazionale(costituzionale e non) nell'attuazione dei diritti fondamentali in materia penale per effetto del concentrico uso delle Carte dei diritti fondamentali? E quale il ruolo dell'Avvocato?
R. Magi
La sensibilità degli operatori – in chiave culturale – è il vero tema che abbiamo di fronte in questi anni.
Il rischio concreto è quello di uno strumento molto potente ma sostanzialmente inattuato.
Al di là degli aspetti dogmatici, correlati al dovere di interpretazione convenzionalmente conforme (salva la proposizione di incidente di legittimità costituzionale in caso di contrasto non sanabile in via interpretativa), ciò che rileva è la adozione di paradigmi operativi che, adottando un ambito dubitativo del ‘già detto’, siano in grado di ‘riconoscere’ il potenziale contrasto interpretativo tra le disposizioni tese a regolamentare il caso concreto e il contenuto dei principi estraibili dalle Carte.
Molte volte un simile approccio manca ed i profili ricostruttivi in diritto – ferma restando la ovvia esistenza di casi tali da ridimensionare questa affermazione – vengono scarsamente coltivati in sede di prima applicazione e restano appannaggio del giudice di legittimità e/o della Corte costituzionale, ove evocata.
Ciò perché nelle concrete vicende processuali penali domina, in prima battuta, l’ansia della ricostruzione dei fatti – aspetto peraltro più che comprensibile – e la verifica delle opzioni interpretative in diritto resta affidata, sovente, ad una veloce consultazione di massime giurisprudenziali.
Incidono sul complessivo quadro testè descritto problematiche strutturali della organizzazione giudiziaria, tese a valutare la produttività dei magistrati in termini strettamente quantitativi ed a promuovere approcci di malintesa efficienza .
Salve le ipotesi di diretta incidenza di regole normative elaborate in sede UE (ad esempio nel controllo della immigrazione o in discipline di settore come il trattamento dei rifiuti o nei casi di cooperazione imposta da strumenti come il MAE) il primo approccio della giurisdizione tende a restare sul crinale dell’ossequio al precedente massimato (di pronta reperibilità) e non a caratterizzarsi in termini di elaborazione critica, circa il rapporto tra disposizione interna e variabili di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata.
Una costante richiesta di ‘certezze sedimentate’ mossa – come in altri ambiti sociali – dal rifiuto della complessità e dall’ansia della risposta .
Ciò carica di responsabilità tanto l’Avvocatura - tenuta alla elevazione della caratura professionale dei singoli ed alla diffusione di strumenti di consultazione adeguati-, che l’intero sistema di reclutamento e formazione dei magistrati, che a mio parere non può evitare di prendere atto della necessità di promuovere un diverso approccio, maggiormente consapevole della pluralità di fonti e del compito – del giudice comune - di armonizzarne i contenuti.
In altre parole, in troppi casi tende a riscontrarsi una carente diffusione e conoscenza concreta degli orientamenti giurisprudenziali elaborati – in chiave di attuazione dei diritti fondamentali – tanto dal giudice interno che dalle giurisdizioni sovranazionali e ciò determina ‘distanza’ dei singoli operatori giuridici da temi che, se ben dominati, consentirebbero un esercizio della giurisdizione più aderente ai principi .
In un simile quadro, di necessaria ‘affermazione’ di uno strumentario operativo e concettuale che dovrebbe essere largamente diffuso (anche allo scopo di prevenire scostamenti tra esiti dei singoli giudizi e successive variazioni dei medesimi) si inserisce – come ulteriore fattore problematico – l’emersione di resistenze idelogiche, anche in sede parlamentare, alla attuazione di strumenti di dialogo ‘preventivo’ tra le alte giurisdizioni come la vicenda della mancata ratifica del Protocollo n.16 alla Convenzione sta a dimostrare.
Come si è cercato di dire in precedenza il rispetto dei diritti fondamentali non è strumento di ingiustificata ‘riduzione’ della portata punitiva – come si è a volte propagandato - quanto esigenza primaria tesa alla stabilizzazione della dimensione cognitiva del processo, alla proporzionalità delle sanzioni, al rispetto della dignità umana.
V. Manes
Come accennato, il giudice nazionale – comune e costituzionale – ha svolto, svolge ed è destinato a esercitare un ruolo senza dubbio decisivo e, direi, non surrogabile.
Anche qui, per una ragione molto semplice: e la ragione è che l’attuazione dei diritti fondamentali, la soddisfazione delle loro aspettative di tutela, il grado di protezione agli stessi effettivamente riconosciuto, si misurano in vivo, non in vitro, e nelle frizioni e lacerazioni che gli stessi subiscono nell’attrito con i casi concreti.
I diritti fondamentali – come recita il fortunato titolo di un saggio di Alan Dershowitz, Rights from wrongs – nascono dall’esperienza dell’ingiustizia, e questa esperienza è sempre accadimento concreto, particolare, contingente e mai “acronico”, originale e talvolta unico per i contrassegni che lo caratterizzano. In altri termini, è di fronte al caso concreto – ed al cospetto della infinita varietà prismatica dei casi – che si pone il problema della loro tutela, e di prospettive di protezione sempre nuove e diverse (il che spiega anche il successo della Corte europea dei diritti dell’uomo, al cui cospetto giunge una infinita varietà di casi per il tramite di quello strumento prodigioso che è il “ricorso individuale”).
Se è così, il primo custode di queste frizioni è il giudice comune, che è anche il primo garante dell’effettività delle misure di tutela in astratto affermate e promesse con riguardo ai diversi diritti fondamentali: punto cruciale, giacché – come amava ricordare il giudice francese Pettiti – “En matière de droits de l’homme il y a un seul critère de application sérieux, c’est l’effectivité des mesures de protection”.
Solo se questo primo, nevralgico momento di controllo non opera o “fallisce”, del resto, può intervenire la protezione della Corte europea, in quel sistema di tutela dei diritti che attribuisce alla Convenzione solo un livello di protezione minimo e comune a tutti gli Stati membri (sempre da questi derogabile prevedendo più elevati standard di tutela: art. 53 CEDU); e che, soprattutto, ha nel principio di sussidiarietà un canone fondamentale (ora espressamente evocato in un Considerando finale introdotto nel Preambolo, per effetto di una modifica introdotta con il Protocollo 15, in attesa che entri in vigore per effetto della legge di ratifica ancora non pubblicata), in forza del quale si visualizza una precipua divisione di compiti tra la Corte e le Alte Parti contraenti (gli Stati) secondo il modello della shared responsiability. Una “responsabilità condivisa”, dunque, dove Stati, anche e soprattutto in sede giurisdizionale, hanno dunque un primo, fondamentale compito di tutela, rispetto al quale alla Corte EDU spetta un compito di supervisione, piuttosto che di revisione, operando come una sorta di “conscience qui sonne l’alarme” – come ebbe a definirla Pierre-Henri Teitgen – quando, appunto, a livello nazionale è stata perpetrata una violazione degli human rights, alla quale non è stato posto riparo.
Il giudice nazionale, dunque, è il primo giudice dei diritti umani, di cui è custode e garante.
In questo compito di tutela, peraltro, un ruolo altrettanto importante è svolto – è appena il caso di evidenziarlo – dall’avvocato, che non è spettatore o corifèo, ma autentico deuteragonista del giudice: può e deve stimolare in ogni momento – ponendo il problema, suggerendo i percorsi di una interpretazione conforme, sollecitando la prospettazione della questione di costituzionalità – “l’effettività della tutela dei diritti” ampliando l’orizzonte problematico e la platea delle possibili soluzioni con il “punto di vista” originale generato dal ruolo di imparziale parzialità che gli è caratteristico.
Credo che questo compito sia altrettanto decisivo, e mi sentirei di dire che di fronte a questa sfida culturale la magistratura e l’avvocatura italiana hanno dato, sino ad ora, una risposta sollecita, attenta, a tratti straordinaria, se misurata con le esperienze di altri contesti europei, di tradizione pur giuridicamente avanzata come quella italiana.
F. Viganò
Il ruolo dei giudici, comuni e costituzionali, è stato ed è davvero cruciale nel nostro paese; e parallelamente lo è il ruolo degli avvocati, che hanno la prima responsabilità di richiamare l’attenzione dei giudici alla necessità di tenere sempre in considerazione, nell’interpretazione a applicazione del diritto, le esigenze di conformità alla Costituzione e alla Convenzione.
Le strade per assicurare questa conformità sono, come è noto, almeno tre; e tutte passano per il giudice comune, autentico gatekeeper della penetrazione del diritto convenzionale nel nostro ordinamento.
La prima strada, ben nota, è quella dell’interpretazione conforme: tra più letture possibili del dato normativo, il giudice è tenuto a privilegiare quella che meglio armonizzi tanto con la Convenzione, quanto con la Convenzione.
E qui vorrei sottolineare un profilo forse non del tutto banale. La CEDU deve, certo, essere assunte dal giudice nel significato attribuitole dal “suo” giudice, la Corte di Strasburgo nella propria giurisprudenza (intendendosi con tale espressione l’insieme dei principi che si possono evincere dalle sentenze della Corte che interpretano e applicano i diritti convenzionali: tanto da quelle che concernono il nostro paese, quanto quelle che riguardano altri Stati parte). Ma, nella ricerca di una interpretazione conforme, il giudice italiano non può arrestarsi alla constatazione che la specifica questione sottoposta al suo esame non sia ancora stata decisa dalla Corte EDU, ovvero che non sussista ancora una “interpretazione consolidata” da parte di quella Corte ai sensi della sentenza n. 49 del 2015. In effetti, anche in assenza di precedenti in termini, il giudice italiano – comune e costituzionale – dovrà egli stesso interpretare la Convenzione, come giustamente sottolineato dalla sentenza n. 68 del 2017, sviluppando – se necessario in maniera originale – i principi generali enunciati dalla Corte EDU.
Qualsiasi giudice italiano deve insomma essere realmente il “primo giudice” della Convenzione: nel senso pregnante di giudice che “interpreta” e “applica” il diritto convenzionale con riferimento al caso sottoposto alla sua attenzione, contribuendo così a sviluppare lo stesso diritto convenzionale all’interno dell’ordinamento; e magari anche coltivando in cuor suo la prospettiva di innescare un dialogo fruttuoso con la stessa Corte di Strasburgo, in un processo “bottom-up” che serva a rappresentare a quella stessa Corte il punto di vista e i problemi dell’ordinamento dello Stato membro, affinché di essi tengano conto i giudici europei nella successiva elaborazione della loro giurisprudenza, poi destinata a vincolare gli Stati secondo una logica troppo spesso pensata come unicamente “top-down” (e per questo vista a volte con insofferenza da molti giuristi nostrani). Un dialogo, quello cui sto pensando, che certo potrebbe essere perseguito con maggiore effettività qualora fosse in futuro ratificato il Protocollo XVI, che prevede la possibilità di una diretta interlocuzione tra le corti supreme (comuni e costituzionali) nazionali e la Corte di Strasburgo.
La seconda strada, spesso dimenticata dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana, è quella della diretta applicazione della CEDU e dei suoi protocolli. Una strada che – come ho scritto in numerose occasioni in passato – continua a essere praticabile (e doverosa) anche dopo le sentenze gemelle del 2007, che si sono limitate a escludere la possibilità, per il giudice comune, di disapplicare una norma nazionale contrastante con la Convenzione; ma non hanno certo inteso rimettere in discussione la possibilità, affermata dalla Cassazione sin dalla fine degli anni Ottanta con il caso Polo Castro e poi con il caso Medrano, di applicare direttamente le norme della Convenzione, incorporate nell’ordinamento interno in forza della clausola di piena e intera esecuzione contenuta nella legge n. 848 del 1955, quanto meno allorché esse vadano a inserirsi in uno spazio giuridicamente vuoto, ossia non regolato in modo antinomico dalla legge italiana. Un buon esempio, su cui varie volte ho già richiamato l’attenzione, è rappresentato a mio avviso dalla “regola Drassich”, ossia dalla regola – fissata dalla giurisprudenza della Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 6 CEDU – che impone al giudice penale di sollecitare una interlocuzione della difesa sulla possibile riqualificazione giuridica del fatto contestato dal p.m.: una regola la cui applicazione non richiede di disapplicare alcuna disposizione contrastante del c.p.p., e che può invece direttamente essere applicata dal giudice semplicemente ad integrazione della disciplina codicistica.
Infine, qualora non siano possibili né l’interpretazione conforme (per l’insuperabile resistenza offerta dal testo della disposizione di legge nazionale), né la diretta applicazione del diritto convenzionale (per la presenza, nell’ordinamento interno, di una legge antinomica), al giudice residuerà soltanto la terza strada: quella cioè della sollevazione di una questione di legittimità costituzionale della legge interna incompatibile con la CEDU o i suoi protocolli. Responsabile della risoluzione dell’antinomia diverrà a quel punto – ma soltanto a quel punto – la Corte costituzionale, secondo il meccanismo inaugurato dalle sentenze gemelle.
Anche qui nell’ottica di un “gioco di squadra”, in cui ciascun attore giurisdizionale – nell’ambito delle proprie attribuzioni – è chiamato ad assicurare l’attuazione dei diritti fondamentali riconosciuti assieme dalla Costituzione e dalla CEDU nell’ordinamento nazionale.
E ciò senza dimenticare – non è forse inopportuno rammentarlo – il ruolo che dovrebbe essere svolto “a monte” da un legislatore cosciente dei propri obblighi internazionali, oltre che costituzionali. Un legislatore che è in effetti più volte intervenuto, specie negli ultimi due decenni, per adeguare il sistema penale ad alcuni almeno degli obblighi convenzionali rispetto ai quali la Corte EDU aveva registrato le violazioni più significative (dalla questione dei rimedi risarcitori per l’irragionevole durata dei processi, al superamento del processo in contumacia, al contrasto al sovraffollamento carcerario, all’introduzione del delitto di tortura, etc.).
3) Quale ruolo sono destinati a giocare la Carta UE dei diritti fondamentali in materia penale rispetto alla Costituzione e alla CEDU e, con essa i giudici nazionali e quelli sovranazionali?
R. Magi
Strumento di fondamentale importanza, la Carta UE dei diritti fondamentali, tende a porsi quale primario canone interpretativo del diritto dell’Unione e a ricadere, pur con le note cautele (art.52), nella complessiva ricognizione del diritto vivente.
Di particolare interesse il riferimento espresso – in ambito penale – al principio di necessaria proporzione tra reato e sanzione (art.47 co.3), aspetto non contemplato in modo espresso nelle altre carte fondamentali, tale da rappresentare un connotato peculiare dello strumento in parola, già adoperato in talune decisioni dei giudici comuni e della stessa Corte Costituzionale.
E’ evidente che la applicazione concreta delle disposizioni richiede (art.51) l’esistenza di un atto normativo dell’Unione (ad es. la Direttiva 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio sul rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali ne rende applicabili i contenuti sui temi trattati) e pone il tema della compatibilità della legge interna con i contenuti della Carta, di espressa vocazione costituzionale, con tutto ciò che ne deriva tanto in termini di possibile disapplicazione delle norme interne (contrastanti con il diritto UE immediatamente applicabile, come accaduto in ambito penale in tema di disciplina della immigrazione) che di doppia pregiudizialità (Corte di Giustizia e Corte Costituzionale, secondo le indicazioni fornite nella nota decisione n.269 del 2017 di quest’ultima).
Ciò che rileva, sul piano delle opzioni concrete, è la consapevolezza del necessario orizzonte armonico delle iniziative giurisdizionali di tutela dei diritti fondamentali, nel senso che l’interprete deve porsi alla ricerca di soluzioni che, partendo dall’esame del caso, mirino alla individuazione della ‘massima espansione possibile’ della tutela (riconoscibile nell’ambito dei diversi strumenti) così come previsto dalle stesse Carte. Il controllo delle opzioni legislative e l’esame dei potenziali contrasti tra il contenuto di una legge ordinaria, esteso al modus applicativo della medesima, ed i principi espressi nelle Carte, deve inoltre porsi il problema degli effetti erga omnes della decisione, indubbiamente garantiti soltanto da interventi della Corte Costituzionale, tesi alla conformazione e all’adattamento del diritto interno.
Al contempo, non vi è dubbio che i contenuti di fondo della Carta Ue – tendenzialmente ricognitivi di principi e valori comuni con le altre Carte – fungono da strumento di limitazione e controllo dei contenuti delle norme espresse dalla istituzione europea e tendono – indubbiamente - a ricadere nelle opzioni interpretative delle disposizioni interne anche in ambiti non espressamente regolati dal diritto dell’unione, in virtù di quella sensibilità ai valori di fondo che guida la ricostruzione sistematica del ‘diritto’ applicabile.
Anche in questo caso, pertanto, la questione resta, come si è detto in precedenza, di orientamento culturale, con tutti i limiti già evidenziati.
Le indicazioni in tema di proporzionalità e funzionalità delle limitazioni ai diritti fondamentali della persona – legittime in quanto utili alla tutela dei valori della convivenza democratica – dovrebbero guidare costantemente l’operato dei giudici e non dovrebbero essere estranee alle iniziative degli organi dell’accusa pubblica.
V. Manes
Anche in questo caso mi pare che la risposta sia in gran parte anticipata dalla law in action, e da orientamenti giurisprudenziali che – a tutti i livelli, della giurisprudenza comune, di legittimità, costituzionale – ha riconosciuto e via via riconosce sempre più uno spazio importante alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE), che del resto si è vista attribuire lo stesso valore giuridico dei Trattati ed è stata dunque trasformata in written primary law, con tutto il suo consistente elenco di diritti e di libertà (ed anche di garanzie precipuamente penalistiche: artt. 47-50), che quindi possono operare non solo come strumento interpretativo, ma anche come nuova leva per il meccanismo della disapplicazione.
Due considerazioni, al riguardo.
La prima è che – non diversamente da quanto accaduto con la Convenzione EDU, per molti anni apparsa un semplice deja vu al cospetto della Costituzione democratica del 1948, sostanzialmente coeva –, l’apporto di originalità, già indubbiamente significativo, dipenderà ovviamente dalla interpretazione evolutiva che – anche grazie al “dialogo” con i giudici nazionali ed allo strumento offerto dal “rinvio pregiudiziale” – la Corte di Giustizia vorrà e saprà offrire con riguardo ai singoli diritti, concretizzandone volta a volta la portata precettiva e specificando le implicazioni assiologiche, ed “e-nucleando” i sotto-principi e i corollari che dalla singola disposizione volta a volta considerata potranno essere desunti. Volendo fare un paragone, è appena il caso di ricordare che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, come si sa, è stata estremamente prolifica e “creativa” in questa opera di continua ricognizione, giungendo spesso a promuovere interpretazioni molto distanti dal testo della Convenzione, sino a ricavare – ed è solo un esempio – dall’art. 7 CEDU il canone della lex mitior (Scoppola) o l’esigenza che tra autore e fatto vi sia un “lien de nature intellectuel” (Sud Fondi), in linea del resto con la sua natura di “living instrument”, “strumento vivente” proprio perché aperta ed aggiornata attraverso l’“interpretazione evolutiva” che la Corte stessa offre, facendo peraltro ormai ampio uso della stessa CDFUE.
La seconda considerazione è che il “campo gravitazionale” della Carta tenderà, verosimilmnete, ad ampliarsi sempre più, anche in materia penale: non solo e non tanto in forza di “generose” interpretazioni – specie da parte della Corte di Lussemburgo – del principio secondo il quale le disposizioni della stessa “[…] si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” (art. 51 CDFUE); quanto in ragione della natura trasversale ed ubiquitaria dei diritti fondamentali che sono naturaliter messi a repentaglio al cospetto della sanzione criminale e/o nel processo penale – contesti come si diceva estremamente rights-sensitive –, ed in ragione, soprattutto, di atti di armonizzazione che ormai hanno ad oggetto garanzie fondamentali che a fatica si lasciano ridurre e circoscrivere all’ambito del diritto UE (l’esempio è proprio la Direttiva 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio sul rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali); senza contare l’effetto di “traino” che la prossima operatività della Procura europea (EPPO) potrebbe implicare, alimentando un sempre maggior ricorso alla Carta ed alle interpretazioni dei giudici del Kirschberg.
In questa cornice, il problema sarà dunque quello della c.d. sovrapposizione di tutele (c.d. overlapping protection) e della concorrenza tra le diverse Carte dei diritti (Costituzione, CEDU, CDFUE) e le diverse interpretazioni, che non sempre sono convergenti o armoniche (come testimoniano le oscillazioni in tema di ne bis in idem) e che dunque possono preludere ad applicazioni diseguali, specie in sede diffusa, dove al giudice comune può offrirsi – come si è visto – una platea di opzioni diverse davvero notevole: e questa è anche la ragione per la quale, credo, la Corte costituzionale ha cercato di avocare a sé un compito preliminare di controllo (a partire dal celebre e molto discusso obiter dictum della sentenza n. 269 del 2017) che però non è certo “escludente” nei confronti del giudice comune e che peraltro la stessa Corte – credo vada riconosciuto – non stenta a condividere con la Corte di giustizia, ove necessario (ne sono prova i rinvii pregiudiziali disposti con l’ordinanza n. 24 del 2017, nel caso Taricco, così come con l’ordinanza n. 117 del 2019, in tema di nemo tenetur se detegere).
Anche di fronte a questa ulteriore sfida aperta dal “sistema integrato di tutele” in materia di diritti fondamentali, alcuni strumenti di gestione e soluzione dei possibili conflitti sembrano offerti da alcune clausole sistematiche, che riconoscono sempre preminenza al maggior standard di tutela eventualmente riconosciuto in sede domestica (in forza del “principio di vantaggiosità” o Günstigkeitsprinzip: art. 53 CEDU e art. 53 CFDUE), e soprattutto – sul piano del metodo – sono rappresentati da una direttrice di marcia già da tempo indicata dalla Corte costituzionale quando ebbe ad affermare – in un caso che, al cospetto con la Convenzione EDU, prospettava delicati bilanciamenti tra diritti e valori fondamentali apparentemente confliggenti – che “[…] il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti” (sentenza n. 317 del 2009).
F. Viganò
Ho sin qui parlato solo della CEDU, ma è vero che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è ormai divenuta anch’essa un punto di riferimento obbligato per il giudice italiano, nella definizione degli standard di tutela dei diritti fondamentali.
E ciò almeno da un duplice punto di vista.
Anzitutto, i diritti riconosciuti dalla Carta sono vincolanti per tutte le autorità dello Stato membro – e dunque, in primis, per i suoi giudici, comuni e costituzionali (e salva naturalmente la possibilità di opporre ad essi i controlimiti) – all’interno dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 51 della Carta.
Ma anche al di fuori di tale ambito di applicazione, i diritti della Carta – e la loro interpretazione ad opera del “loro” giudice, la Corte di giustizia – sono naturalmente destinati ad assumere la funzione di strumenti che ispirano l’interpretazione delle parallele garanzie costituzionali, arricchendone e illuminandone il significato; e ciò anche a evitare il risultato di una applicazione “a macchia di leopardo” di diversi standard di tutela dei diritti fondamentali tra le (sempre più numerose) materie armonizzate dal diritto dell’UE e tutte le altre – una situazione, questa, che non potrebbe che sollevare gravi interrogativi, al metro del generalissimo principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.
Anche rispetto all’integrazione della Carta nell’ordinamento nazionale, d’altra parte, il ruolo cruciale è stato sinora svolto – e sarà verosimilmente svolto in futuro – proprio dai giudici, a ciò sollecitati da una classe forense che mi auguro sarà sempre più attenta anche a questa nuova dimensione di tutela.
Ancora una volta un ruolo da protagonista spetta, in questo ambito, al giudice comune, chiamato ad interpretare e applicare la Carta nei casi sottoposti al suo esame e a interpretare le norme nazionali in maniera conforme alla Carta stessa. E va in proposito rammentato che le stesse disposizioni della Carta debbono essere intese, ai sensi dell’art. 52(3) CDFUE, come incorporanti le corrispondenti garanzie riconosciute dalle norme della Convenzione europea, secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo; garanzie, queste ultime, che costituiscono dunque lo standard minimo di tutela dei diritti della Carta, senza pregiudizio per la possibilità di quest’ultima di stabilire un livello di tutela più elevato (art. 53 CDFUE). L’acquis convenzionale entra dunque nella Carta, e di qui “passa” nell’ordinamento degli Stati membri, con il rango caratteristico – e la forza giuridica – del diritto primario dell’Unione.
Ma un ruolo importante può essere ora giocato, in questo processo di integrazione delle garanzie della Carta nell’ordinamento interno, anche dalla Corte costituzionale, che nella sentenza n. 269 del 2017 ha affermato la propria competenza a esaminare – sotto il duplice profilo degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – le questioni di compatibilità tra norme di legge nazionali e i diritti riconosciuti dalla Carta; competenza poi di fatto esercitata in numerose occasioni successive, ben note ai lettori di questa rivista.
Proprio l’esperienza recente della Corte costituzionale mostra come questa integrazione possa svolgersi anche attraverso un dialogo diretto con la Corte di giustizia, attraverso il duttile strumento del rinvio pregiudiziale, attivato recentemente con le ordinanze n. 117 del 2019 e n. 182 del 2020, entrambe aventi a oggetto disposizioni della Carta, dalla cui interpretazione la Corte costituzionale ha ritenuto dipendesse la risoluzione della questione di legittimità costituzionale a lei sottoposta.
Il tutto nell’ottica di ricerca di standard minimi comuni, a livello europeo, di tutela dei diritti fondamentali. Standard comuni che, conviene ripeterlo a evitare fraintendimenti, sono non già funzionali a un abbassamento delle tutele già riconosciuti a livello nazionale dalle singole costituzioni, ma anzi a un innalzamento di tali tutele, ogniqualvolta lo standard nazionale non sia adeguato a quello minimo europeo.
4.Le repliche
Francesco Viganò
Le risposte di Vittorio Manes e Raffaele Magi sono in pressoché totale consonanza con lo spirito che anima anche le mie osservazioni: sicché non ho molto da aggiungere o da chiosare rispetto ai loro interventi, come sempre acutissimi.
Mi limito, allora, a segnalare come la sentenza Consob della Corte di giustizia, pubblicata lo scorso martedì 2 febbraio in risposta al rinvio pregiudiziale formulato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 117 del 2019, si inserisca benissimo nel quadro che tutti e tre abbiamo cercato di delineare.
Il nostro rinvio pregiudiziale – che a sua volta aveva tratto spunti decisivi dalla pregevole ordinanza della Corte di cassazione che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale, oltre che dai contributi di rimarchevole spessore offerti in giudizio dalle parti – poneva alla Corte di giustizia il tema della possibile applicazione del ‘diritto al silenzio’, o privilege against self-incrimination, all’ambito dei procedimenti amministrativi sanzionatori di natura ‘punitiva’, come quello oggetto del giudizio a quo.
E lo faceva a fronte di norme di diritto derivato, fedelmente trasposte dal legislatore italiano, che sembravano imporre di sanzionare ogni condotta di mancata cooperazione con le indagini della Consob, inclusa quella del rifiuto di rispondere a domande dalle quali sarebbe potuta emergere una responsabilità del soggetto per un illecito sanzionabile dalla stessa Consob. Un tale obbligo era apparso alla Corte di cassazione, e poi alla stessa Corte costituzionale, di problematica compatibilità con il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., così come ai principi del “giusto processo” e della presunzione di innocenza posti dall’art. 6 CEDU e dagli artt. 47 e 48 della Carta; e su questa base la Corte costituzionale aveva tra l’altro chiesto alla Corte di giustizia se quelle norme di diritto derivato fossero interpretabili in maniera conforme ai diritti in questione, sì da escludere l’obbligo di sanzionare chi si sia rifiutato di rispondere a domande dalle quali sarebbe potuta emergere la propria responsabilità.
In tal modo, la Corte italiana non si era limitata a opporre alle norme UE un diritto fondamentale riconosciuto dalla propria tradizione costituzionale nazionale – il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., peraltro sinora mai applicato nella declinazione qui in discussione a procedimenti sanzionatori amministrativi –; ma aveva sollecitato la Corte di giustizia a riconoscere essa stessa tale diritto fondamentale, sulla base di una lettura della Carta conforme, assieme, alla Convenzione europea e alle tradizioni costituzionali comuni. E la Corte, come abbiamo potuto constatare martedì scorso, ha raccolto questa sollecitazione, riconoscendo anzitutto come proprio – con valenza nell’intero spazio giuridico dei 27 Stati membri – questo diritto fondamentale.
Un proficuo esempio, direi, di dialogo tra le Corti: secondo un modello assai distante, mi pare, dalla prospettiva di una passiva ricezione di responsi oracolari di Strasburgo o di Lussemburgo ad opera delle Corti nazionali, e orientato piuttosto a far sentire la voce dei giudici nazionali nell’opera collettiva di graduale costruzione e rafforzamento di un diritto comune dei diritti fondamentali in Europa.
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V. Manes
Condivido pienamente la valutazione che di questa importante sentenza ha dato Francesco Viganò, perché mi pare che essa testimoni come e quanto la “fertilizzazione incrociata” tra i vari sistemi di tutela possa alimentare i livelli di protezione, avvicinandosi al maximum standard, ma ancor prima di quanto le cross constitutional influences possano attivare la potenzialità assiologica di principi che - pur vantando ascendenze antiche - sono per qualche ragione rimasti in ombra, o sedati in una sorta di “letargo giuridico” nel singolo ordinamento, e che il contatto con nuove prospettive di inquadramento e con l’originalità del caso concreo conduce ad una rinascita, talvolta quasi una sorta di “epifania” o di “sudden revelation”.
E’ stato così, del resto, per il ne bis in idem, canone tralatizio che ha visto erompere le proprie potenzialità assiologiche al contatto con una concatenazione di nuove prospettive ermeneutiche: a partire dalla grande sentenza armonizzatrice della Corte EDU Zolothoukin c. Russia (Corte EDU, Grande Camera, 10 febbraio 2009) la polarizzazione del divieto di duplicazione della sofferenza legale sul concetto di idem factum, sollecitata appunto dall’esigenza di assicurare alla garanzia in rilievo una tutela “non virtuale e astratta ma effettiva e concreta”, ha condotto ad emancipare il principio – per usare le parole della nostra Corte costituzionale (sent. n. 200 del 2016) – dal “giogo dell’inquadramento giuridico”, liberando le sue potenzialità di tutela oltre gli steccati asfittici del rapporto formale tra norme; su queste basi, poi, il contatto con il concetto antiformalistico di “materia penale” ha permesso di smascherare “ingorghi punitivi” soprattutto nei contesti dove si registravano – e si registrano – indebite sovrapposizioni tra diritto penale e diritto amministrativo punitivo (c.d. double track), puntualmente registrate da celebri decisioni concernenti anche l’Italia (Grande Stevens). Questi approdi, non senza qualche oscillazione, hanno condotto il ne bis in idem a rivendicare una pretesa di affermazione non solo nella dimensione processuale di “divieto di doppio procedimento” ma nella dimensione tutta sostanziale di divieto di “doppia punizione” per un medesimo fatto storico, ancorché all’interno di un medesimo procedimento: strada aperta anche da recenti studi ed ancora largamente da percorrere, che promette di raggiungere nuovi traguardi garantistici contro indebite eccedenze sanzionatorie incompatibili con il principio di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio.
E così pure sembra essere accaduto con il principio del nemo tenetur se detegere, giustamente ravvisato come proiezione essenziale del diritto di difesa e del “processo equo”, su cui convergono ormai – ora espressamente, ora implicitamente - le diverse Carte dei diritti e la giurisprudenza della rispettive “vestali”: alla preziosa sollecitazione della Corte costituzionale con l’ordinanza n. 117 del 2019, che con ricche argomentazioni ne prospettava la sua estensione all’universo dei procedimenti “punitivi” amministrativi, la Grande Sezione della Corte di giustizia sembra aver dato una risposta all’altezza delle aspettative, superandole persino, forse, visto che si giunge anche ad affermare che “Il diritto al silenzio non può ragionevolmente essere limitato alle confessioni di illeciti o alle osservazioni che chiamino direttamente in causa la persona interrogata, bensì comprende anche le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona” (§ 40).
In definitiva, il raggio di azione della garanzia - all’esito di questa preziosa interlocuzione e di questa autentica cross-fertilization “tra Carte e Corti” - risulta evidentemente ampliarsi, non diversamente di quanto accaduto per il ne bis in idem, e dovrebbe dunque consentire di assoggettare alla tutela del nemo tenetur ogni ipotesi di infrazione che sia generata - tanto nel contesto formalmente penale quanto nel policromo universo “para-penale” - dall’impellente esigenza di non autoincriminarsi e dalla inesigibilità di una self-incrimination, non solo “schermandolo” da eventuali sanzioni per aver esercitato il proprio “diritto al silenzio” e/o per aver rifiutato di fornire informazioni, ma anche in relazione ad eventuali omissioni informative che seguano ad una prima, originaria infrazione che l’autore abbia commesso, a cui appunto seguano – come pendant di quelle successive omissioni informative - ulteriori infrazioni della legge penale in qualche modo “necessitate”, ma non “rimproverabili” se non a pena di non svilire, appunto, il diritto di difesa.
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