ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il processo amministrativo “emergenziale” alla prova della giurisprudenza amministrativa.
di Veronica Sordi
L’emergenza epidemiologica da COVID-19 impone di derogare – ancora – allo svolgimento ordinario del processo amministrativo, oggi regolato dall’art. 25 d.l. n. 137/2020, convertito nella l. 18.12.2020 n. 176 recante “Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19”.
Tale disciplina “eccezionale” ha trovato un’applicazione non sempre uniforme da parte dei giudici amministrativi, i quali, come evidenziato nel precedente scritto sul tema[1], sembrano mostrare sensibilità diverse nell’interpretazione delle norme regolative del giudizio amministrativo emergenziale.
L’esame della giurisprudenza sull’applicazione dell’art. 25 cit. impone di operare un distinguo tra le pronunce che:
- danno un’applicazione rigorosa della disposizione de qua, evidenziando la perentorietà dei termini ivi previsti per la proposizione della richiesta di discussione orale da remoto della controversia, considerando tardiva e dunque non accoglibile l’istanza presentata oltre i suddetti termini;
- respingono l’opposizione alla richiesta di discussione da remoto motivata sulla necessità che la trattazione della causa avvenga in presenza;
- accolgono la richiesta di trattazione da remoto seppure tardiva, in quanto ritengono la discussione “necessaria”;
- rimettono in termini la parte che abbia tardivamente proposto l’istanza di discussione, riconoscendo a essa l’errore scusabile;
- respingono l’istanza di discussione, in quanto non formulata in uno specifico atto;
- rigettano la richiesta di discussione, in quanto ritengono sufficiente il deposito delle note di udienza;
- evidenziano l’alternatività tra la richiesta di discussione orale e il deposito di note d’udienza;
- si pronunciano sul termine di deposito delle note di udienza;
- applicano il principio di sinteticità anche alle note d’udienza;
- rigettano l’opposizione alla richiesta di discussione formulata assieme alla dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse, stante la necessità di garantire il contraddittorio della parte che abbia presentato richiesta di discussione orale su tale dichiarazione di carenza di interesse;
- individuano la trattazione mediante modalità telematica una “risorsa tecnologica scarsa” da impiegare nei soli casi in cui la discussione sia imposta dalla legge o sia indispensabile ai fini della decisione della controversia.
Procedendo con ordine nella trattazione, occorre rilevare che in numerose fattispecie[2] , il g.a. ha rigettato l’istanza di discussione in quanto la medesima era stata depositata tardivamente rispetto al temine “perentorio” di venti (o nei riti abbreviati, dieci[3]) giorni liberi antecedenti l’udienza pubblica di discussione (ergo nel termine di deposito delle memorie di replica) ovvero oltre quello di cinque giorni prima dell’udienza fissata per la trattazione cautelare della controversia (come previsto dall’ art. 4, comma 1, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito in legge 25 giugno 2020, n. 70, richiamato dall’art. 25 del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137).
In particolare, il giudice, nel respingere la suddetta richiesta, ha evidenziato:
- “il chiaro tenore testuale della norma (.. alla luce del paragrafo 4 delle linee guida del Presidente del Consiglio di Stato in data 25 maggio 2020, nonché del § 1 del protocollo d’intesa in data 26 maggio 2020)”;
- che “la previsione di tale termine risponde sia ad esigenze organizzative dell’organo giurisdizionale – al fine di poter conoscere preventivamente il numero di cause per le quali è chiesta la discussione da remoto e di conseguentemente programmare le fasce orarie di chiamata da comunicare ai difensori – sia, e principalmente, ad esigenze di tutela del diritto di difesa delle controparti, le quali devono essere poste in grado di conoscere per tempo le modalità di svolgimento della trattazione della causa al fine di calibrare adeguatamente i propri comportamenti processuali e le relative scelte, altrimenti alterandosi la garanzia del pieno e paritario contraddittorio”;
- nonché la circostanza che non fossero state “allegate dalla parte istante pertinenti, eccezionali e comprovate ragioni idonee a consentire la deroga del termine”[4].
Dalla lettura dei provvedimenti esaminati, emerge, quindi, che, in presenza di una richiesta di discussione presentata tardivamente, il giudice valuta se la parte abbia rappresentato “impedimenti eccezionali” (che abbiano reso impossibile la rituale presentazione dell’istanza), o esigenze relative a “vicende sopravvenute alla scadenza del termine per la formulazione” della medesima[5], tali da giustificare il ritardo nella presentazione della suddetta istanza e da consentire comunque la discussione orale della controversia. In assenza di simili circostanze, il giudice non ha accolto la richiesta di discussione orale, motivando nel senso che “le medesime ragioni di tutela dell’integrità del contraddittorio processuale e del diritto di difesa di tutte le parti non consentono di superare la tardività dell’istanza attraverso l’adozione di un decreto che disponga comunque e d’ufficio la discussione da remoto della causa, stante la mancanza di un congruo termine di preavviso per le controparti”[6].
Interessante è poi il provvedimento[7] con il quale il g.a. ha rigettato l’opposizione alla discussione da remoto, motivata sulla necessità che la trattazione della causa avvenisse in presenza. In particolare, il giudice, dopo aver dato atto del fatto che (i) “ratione temporis, l’unica possibilità di discussione contemplata e ammessa dall’ordinamento è quella con collegamento da remoto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, d.l. n.28 del 2020 e 25, comma 1, d.l. n.137 del 2020” e che (ii) “a fronte di una disciplina positiva che contempla, in via straordinaria e temporanea, il collegamento da remoto come unica modalità di svolgimento della discussione orale, resta preclusa all’interprete ogni opzione interpretativa che, invece, ammetta la discussione in presenza, da intendersi quale possibilità esclusa, implicitamente, ma chiaramente, dalla citata normativa di riferimento (in ragione del suo carattere completo ed esauriente)”, ha ritenuto che neppure l’affermata delicatezza della questione da discutere potesse in alcun modo autorizzare la (sostanziale) disapplicazione della disciplina che prevede la sola discussione da remoto, stante la “dichiarata e sperimentata idoneità ad assicurare l’integrità del contraddittorio”.
In altre ipotesi[8], invece, dinanzi a richieste presentate tardivamente, il giudice ha comunque ritenuto “necessario” disporre la discussione da remoto della controversia, senza null’altro aggiungere, salvo il caso in cui ha espressamente affermato che “la delicatezza della materia consent[e] al Presidente di ammettere le parti alla discussione da remoto, avvalendosi dei poteri riconosciutigli dalla legge”[9].
Diversamente, in altri casi, il giudice ha accolto l’istanza di rimessione in termini della parte ai fini della discussione della controversia, affermando che “le ragioni addotte a sostegno della richiesta”[10] così come “la denunciata difficoltà tecnica di perfezionamento dell’istanza di discussione da remoto, tempestivamente formulata”[11] integrano gli estremi dell’errore scusabile, ai sensi dell’art. 37 c.p.a., e impongono la rimessione in termini dell’appellante ai fini della richiesta di discussione da remoto, alla luce del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, d.l. n.28 del 2020 e 25, comma 1, d.l. n. 137 del 2020.
Preme, ora, segnalare quelle pronunce che hanno respinto la richiesta di discussione da remoto in ragione delle modalità in cui la medesima istanza era stata proposta.
In particolare, il TAR Emilia-Romagna, Bologna, ha respinto la richiesta di discussione formulata tramite la mera allegazione nel modulo telematico di deposito del documento, rilevando che essa fosse “genericamente delineata, senza specifica indicazione dei profili di fatto o di diritto” e che nella specie “il ricorso [fosse] ampiamente argomentato e si dipana[sse] nell’arco di 39 pagine, con numerosi documenti allegati”, di talché la causa potesse passare in decisione senza discussione orale[12].
Il Tar Sicilia, Catania,[13] ha respinto la richiesta di trattazione da remoto inserita dalla parte ricorrente nella memoria di replica, in quanto non formulata “con specifico atto separato e perché non … proposta congiuntamente da tutte le parti costituite”. Rispetto a tale ultima affermazione occorre tuttavia precisare che vero è che l’art. 4 d.l. 28/2020 (richiamato dall’art. 25 d.l. 137/2020) dispone che “L'istanza [di discussione] è accolta dal presidente del collegio se presentata congiuntamente da tutte le parti costituite”, ma la medesima disposizione prevede altresì che “negli altri casi, il presidente del collegio valuta l'istanza, anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto. Se il presidente ritiene necessaria, anche in assenza di istanza di parte, la discussione della causa con modalità da remoto, la dispone con decreto”. Pertanto, è chiaro che il giudice ben possa disporre la trattazione orale da remoto della controversia, oltre che in assenza di richiesta in tal senso di tutte le parti costituite, anche nel caso in cui la medesima istanza – come visto[14] – sia presentata oltre i termini di legge[15].
Per quanto concerne la questione della proposizione di siffatta richiesta tramite specifico atto separato, merita segnalare il fatto che il regime delle relative modalità di proposizione è mutato nel corso del periodo emergenziale.
Invero, originariamente, ai sensi dell’art. 5 dell’Allegato 3 al Decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 maggio 2020 n. 134[16], la richiesta di trattazione orale da remoto poteva essere presentata, in ossequio al principio delle libertà delle forme[17], anche nel corpo del testo del ricorso introduttivo (o in altro scritto difensivo).
In un secondo momento, mediante un’apposita Comunicazione del Segretariato Generale della Giustizia amministrativa dell’11novembre 2020[18] (pubblicata in GU n. 289 del 20.11.2020) agli avvocati delle Amministrazioni e del libero Foro, è stato invece precisato che simile istanza doveva essere proposta con “atto separato – e non in seno al ricorso o ad altro scritto difensivo”.
Tale impostazione è stata – finalmente – “cristallizzata” in un “ufficiale” provvedimento del Segretariato Generale della Giustizia amministrativa del 28.12.2020, recante “Regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, nonché per la sperimentazione e la graduale applicazione dei relativi aggiornamenti” (pubblicato in GU. n. 7 dell’11.1.2021 e sul sito web della Giustizia Amministrativa – soltanto – dal 21.1.2021), il quale ha definitivamente espunto dal testo dell’art. 5, co. 1[19], del citato Allegato 3 del decreto de quo (versione aggiornata) il riferimento all’eventualità in cui la richiesta di discussione orale venga proposta con “atto separato e non in senso al ricorso o ad altro scritto difensivo”, imponendo, quindi, che la richiesta di trattazione da remoto venga fatta (solo) mediante apposito atto separato.
Sotto altro profilo, occorre segnalare il decreto[20] con il quale lo stesso TAR Catania ha respinto l’istanza di discussione da remoto proposta dal ricorrente, ritenendo che le note d’udienza fossero “parimenti, se non più efficaci, rispetto alla trattazione orale”. In particolare, ha evidenziato che “la trattazione scritta della controversia mediante note d’udienza, invero, a dispetto di quanto talora ritenuto, non costituisce affatto una “deminutio” del contraddittorio rispetto alla discussione orale, sia perché essa consente non di rado una più meditata ed incisiva esposizione dei propri argomenti difensivi, sia perché “verba volant, scripta manent”, sia perché l’organo giudicante ha il preciso dovere di esaminare con il massimo scrupolo ogni scritto o documento versato in atti dalle parti”. Infine, il giudice, condividendo le argomentazioni formulate dall’Amministrazione resistente nella relativa opposizione alla richiesta di discussione da remoto, ha concluso affermando che la controversia (già ampiamente dibattuta) potesse essere utilmente e ulteriormente trattata tramite scritti difensivi “apparendo l’udienza da remoto, nel caso di specie, una inutile complicazione del lavoro processuale delle stesse parti e dell’organo giudicante, anche tenuto conto della difficoltà nel rispettare gli orari di discussione prefissati e del conseguente dispendio di tempo, in attesa della chiamata, per i difensori impegnati nel giudizio”.
Sempre sul rapporto tra trattazione orale da remoto e note d’udienza[21], si segnala il provvedimento con il quale il giudice amministrativo ha chiarito che nel caso in cui le parti, per il tramite dei relativi difensori partecipino alla discussione telematica, le note d’udienza dalle medesime depositate devono essere oggetto di una declaratoria di “inutilizzabilità”, in quanto trattasi di “strumento che è configurato dall’art. 4 d.l. n. 28/2020 (richiamato dall’art. 25 d.l. n. 137/2020) come facoltà difensiva alternativa a quella della discussione orale”.
Pure l’utilizzo delle note d’udienza, in alternativa alla trattazione orale della causa, ha destato perplessità applicative, soprattutto per quanto concerne l’individuazione del termine entro cui le stesse debbano essere depositate dalle parti. Tale questione è stata oggetto di una recente ordinanza del CGARS[22], che ha precisato che (i) secondo quanto prescritto dall’art. 4, comma 1, penultimo periodo, d.l. 28/2020, le note d’udienza depositate oltre le ore 12 del giorno antecedente l’udienza sono tardive; (ii) “il momento ultimo delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza deve essere inteso come mezzogiorno (ossia 21 ore prima dell’udienza) e non come mezzanotte, perché questa seconda interpretazione non consentirebbe al Collegio di prendere visione dei depositi in tempo utile per l’udienza)” e infine che (iii) “il termine delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza riguarda sia le note di udienza che le istanze di passaggio in decisione menzionate nell’art 4, d.l. n. 28/2020, al fine della fictio iuris della presenza in udienza”[23].
Merita altresì di essere attenzionata l’ordinanza[24] che ha dichiarato l’inammissibilità e la conseguente inutilizzabilità delle note d’udienza di 42 pagine. Il giudice ha evidenziato che siffatta “facoltà difensiva”, intervenendo a ridosso dell’udienza (entro le ore 12 del giorno anteriore alla stessa) e aggiungendosi all’atto introduttivo e alle memorie, quale ultimo presidio del diritto di difesa prima dell’udienza, deve “rispettare il canone di sinteticità (e ragionevolmente non [può] eccedere le tre-quattro pagine) e non [può] assolvere alla funzione sostanziale della “memoria” con una elusione del termine di deposito di quest’ultima (che nella specie, scadeva il giorno 11.1.2021 alle ore 12 antimeridiane), pena la violazione del contraddittorio e un vulnus quanto all’approfondimento collegiale della causa”. Nella specie, quindi, il g.a. ha ritenuto le note d’udienza così formulate “utili solo come istanza di passaggio in decisione al fine della fictio iuris della presenza del difensore in udienza”.
Si segnala ancora il decreto[25] con cui il giudice ha rigettato l’opposizione della parte ricorrente alla richiesta di discussone da remoto del controinteressato, poiché, trattandosi di un’opposizione presentata insieme alla dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse (e quindi successivamente all’istanza di trattazione da remoto della controparte), era necessario assicurare il contraddittorio del controinteressato sulla suddetta dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse.
Occorre infine richiamare il decreto[26] che, nell’ambito di un giudizio d’appello nel quale era stata richiesta in via cautelare la sospensione degli effetti della sentenza impugnata, ha respinto l’istanza di discussione orale formulata dalla parte intimata, essendo intervenuta nel giorno successivo alla presentazione di essa la rinuncia dell’appellante alla domanda cautelare. In particolare, il g.a. ha evidenziato che, essendo venute meno le ragioni per la discussione della causa, “è preferibile riservare l’impiego di una risorsa tecnologica scarsa (indispensabile per la realizzazione della discussione da remoto) ai soli casi in cui tale adempimento è previsto come obbligatorio ope legis ovvero indispensabile ai fini della decisione (cfr. sul punto il § 4 delle linee guida del Presidente del Consiglio di Stato in data 25 maggio 2020, nonché e il § 5 del protocollo d’intesa in data 26 maggio 2020)”.
I provvedimenti esaminati, che sotto diversi profili mostrano le complessità applicative dell’attuale disciplina del processo amministrativo, impongono una riflessione: se da un lato, come visto già in altre occasioni[27], il principio dell’oralità – originariamente frustrato dalla regolamentazione emergenziale[28] – , sembra oggi trovare la sua espressione nella (sia pure circoscritta) trattazione orale da remoto, dall’altro lato, è evidente che il principio di pubblicità del processo, quale “forma di garanzia non comprimibile nei riguardi degli effettivi titolari degli interessi in giuoco … e dell’intera collettività”[29] sia, invece, totalmente derogato[30].
Senza entrare nel merito delle conseguenze di siffatta scelta legislativa, in questa sede preme solo ricordare che il valore della pubblicità del processo, sebbene abbia un’indubbia e innegabile centralità, anche alla luce delle disposizioni e della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, non è stato tuttavia mai esplicitamente costituzionalizzato (né ab origine, né tramite la riforma costituzionale di cui alla legge costituzionale n. 2 del 1999[31]), proprio in quanto ritenuto, anche dalla migliore dottrina processualcivilistica, privo di precettività assoluta[32].
Non risultano, quindi, contrarie allo spirito e alla lettera costituzionale limitazioni all’operatività di siffatto principio, soprattutto nel caso in cui la relativa compressione sia giustificata dall’esigenza, come quella attuale, di salvaguardare preminenti valori costituzionali[33], primo fra tutti quello alla salute.
***
[1] V. Sordi, “Ancora dubbi applicativi sulla (nuova) disciplina della discussione orale da remoto dettata dall’art. 25 d.l. n. 137/2020”, 2 dicembre 2020, in questa Rivista.
[2] Cons. St., IV, 15.12.2020, n. 7195; Id., 23.11.2020, nn. 1881, 1880, 1879; Cons. St., III, 10.11.2020, n. 1788; Id., 7.12.2020, n. 2153; TAR Sicilia, Catania, II, 14.12.2020, n. 5406; Id., 10.12.2020, n. 5378; Id., 30.11.2020, n. 5264; Id., 16.11.2020, nn. 5020, 5019; Id., 13.11.2020, n. 4993; Id., 22.1.2021, nn. 57, 58; TAR Catania, III, 11.12.2020, n. 5380; TAR Lazio, Roma, I, 11.12.2020, nn. 4366, 4365; Id., 30.11.2020, n. 3920; Id., 27.11.2020 nn. 3846, 3854, 3844, 3843; Id., 15.12.2020, 4512; Id., 11.12.2020, n. 4367; TAR Lazio, Roma, II-bis, 19.11.2020, n. 3498; Id., 17.11.2020, nn. 3440, 3439, 3438; Id., 16.11.2020, n. 3437; Id., 10.11.2020, n. 3414; TAR Lazio, Roma, II, 9.12.2020, n. 4338, TAR Emilia Romagna, Bologna, 25.1.2021, nn. 30, 31; Id., 11.1.2021, n. 12.
[3] A tal proposito si segnala il CGARS, 8.1.2021, n. 6, il quale ha respinto l’opposizione alla richiesta di trattazione da remoto motivato sull’asserita tardività di siffatta istanza, in quanto formulata nei 10 giorni liberi antecedenti all’udienza di merito (invece che nei 20 giorni liberi prima previsti per il deposito delle memorie di replica). Nella specie, il giudice, dopo aver rilevato che alla controversia dovessero essere applicati i termini del rito di cui all’art. 120 c.p.a. e che conseguentemente il termine per il deposito delle memorie di replica fosse di 10 giorni liberi prima dell’udienza di merito, ha accolto la richiesta di discussione in quanto ritenuta tempestivamente formulata.
[4] In questi termini, si rinvia a TAR Lazio, Roma, II, 9.12.2020, n. 4338, Id., II-bis, 19.11.2020, n. 3498; Id., 17.11.2020, nn. 3440, 3439, 3438; Id., 16.11.2020, n. 3437.
[5] Cons. St., III, 10.11.2020, n. 1788.
[6] TAR Lazio, Roma, II-bis, 11.1.2021, n. 16.
[7] Cons. St., II, 15.1.2021, n. 24, il quale precisa peraltro che “non si ravvisano ragioni (di ordine giuridico o tecnico) per smentire l’assunto dell’equivalenza della discussione orale da remoto, rispetto a quella in presenza, quanto alla sua capacità di salvaguardare in maniera adeguata l’esercizio dei diritti di difesa e la pienezza della dialettica processuale”.
[8] Cons. St., III, 7.12.2020, n. 2148; TAR Lazio, Roma, I, 7.1.2021, n. 14; Id., 21.1.2021, nn. 150, 151.
[9] In questi termini Cons. St., 2148/2020 cit.
[10] Cons. St., II, 10.11.2020, n. 1778.
[11] Cons. St. II, 9.11.2020, n. 6444.
[12] TAR Emilia Romagna, Bologna, II, 8.1.2021, n. 2. Si segnala peraltro che lo stesso TAR (Sez. I, decr. 31.12.2020, n. 503) ha invece ritenuto di dover valutare (salvo rigettarla nel merito per mancanza dei presupposti!) un’istanza di tutela cautelare monocratica mai presentata per il solo fatto che la parte ricorrente avesse “flaggato” nel modulo la relativa voce. Sul tema M.A. Sandulli, “TAR EMILIA ROMAGNA, Decreto n. 503/2020, Giurisprudenza creativa e digitalizzazione
Giurisprudenza creativa e digitalizzazione: una pericolosa interazione che accresce i rischi di incertezza sulle regole processuali”, in federalismi, 13 gennaio 2021.
[13] TAR Sicilia, Catania, II, 11.12.2020, n. 5391.
[14] Cfr. nota 8.
[15] Occorre richiamare a tal proposito le 3° Linee Guida del Presidente del Consiglio di Stato, che all’art. 4 relativo alla “Richiesta di discussione”, ha precisato che “La disposizione [art. 4, d.l. 28/2020], nel fissare un termine per la richiesta di discussione, in deroga al processo ordinario che, com’è noto, non prevede termini, cerca un contemperamento fra il diritto al contraddittorio orale e le esigenze organizzative e gestionali dell’udienza connesse al carattere virtuale della stessa e alla limitazioni derivanti dalla “interposizione” del mezzo tecnologico. I termini, more solito, devono intendersi perentori, tuttavia, proprio la ratio che ha indotto il Legislatore a prevederli, e a prevederli come tali (ratio che, come cennato, non risiede nel corretto svolgersi del contraddittorio, quanto nell’esigenze di concreta gestione dell’udienza), è alla base dell’attribuzione di un residuale e generale potere del presidente di disporre, ove necessario, con proprio decreto la discussione della causa con modalità da remoto anche in assenza di istanza di parte. Siffatto potere presidenziale ufficioso tempera l’effetto delle preclusioni legate al decorso del termine, consentendo al presidente del collegio, avuto riguardo alla peculiarità e complessità del caso concreto, di disporre con propria insindacabile valutazione, la discussione, non solo - come previsto dalla norma – ove manchi l’istanza di parte, ma anche, e a fortiori, ove quest’ultima sia stata formulata oltre i termini di legge”.
[16] L’art. 5 “Deposito degli atti ai sensi dell’art. 4 del decreto-legge n. 28/2020” dell’Allegato 3 (al DPCS n. 134/2020 recante “Regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico, nonché per la sperimentazione e la graduale applicazione dei relativi aggiornamenti”) recita “1. Il deposito dell’istanza di discussione, dell’atto di opposizione, delle note di udienza e della richiesta di passaggio in decisione di cui all’articolo 4, comma 1, del decreto-legge n. 28 del 2020, è effettuato con le modalità telematiche di cui all’Allegato 2 utilizzando il “Modulo Deposito Atto” disponibile sul sito web della Giustizia amministrativa, selezionando, tra la tipologia di atti da trasmettere le apposite voci. Se l’istanza di discussione è formulata nel corpo del testo del ricorso introduttivo, in questo caso il suo deposito è effettuato con le modalità telematiche di cui all’Allegato 2, utilizzando il “Modulo Deposito Ricorso” disponibile sul sito web della Giustizia amministrativa”.
[17] Per una puntuale analisi delle fonti che regolano l’attuale svolgimento del processo amministrativo si veda C. Volpe, “Pronti, partenza, via! Il nuovo processo amministrativo da remoto ai nastri di partenza”, 1 giugno 2020, in www.giustia-amministrativa.it.
[18] Comunicazione del Segretario della Giustizia amministrativa 11.11.2020 prot. n. 0022186, laddove si afferma che “a) la discussione orale da remoto va chiesta con specifico atto separato – e non in seno al ricorso o ad altro scritto difensivo – nel quale sia chiaramente e inequivocabilmente espressa la volontà di discutere la causa”.
[19] L’art. 5 dell’Allegato 3, nel testo recentemente aggiornato, prevede al suo primo comma che “1. Il deposito dell'istanza di discussione, dell'atto di opposizione, delle note di udienza e della richiesta di passaggio in decisione di cui all'art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 28 del 2020 convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, è effettuato con le modalità telematiche di cui all'allegato 2 utilizzando il «Modulo deposito atto» disponibile sul sito web della Giustizia amministrativa, selezionando, tra la tipologia di atti da trasmettere le apposite voci”.
[20] TAR Sicilia, Catania, III, 29.12.2020, n. 5496.
[21] CGARS, 21.12.2020, n. 1151. In termini si veda CGARS, 20.1.2021, n. 37.
[22] CGARS, 18.11.2020, n. 816.
[23] Rispetto al termine di deposito delle note d’udienza, sia consentito il richiamo alle riflessioni contenute in V. Sordi, “Ancora dubbi applicativi”, cit., laddove viene evidenziato che la disciplina contenuta nell’art. 4, d.l n. 28/2020 (cui l’art. 25 d.l. n. 137/2020 rinvia) mantiene vivo il problema dell’eventuale esigenza di replicare alle note di udienza e, quindi, di garantire adeguatamente il principio del contraddittorio. Sul punto, per un maggiore approfondimento, si vedano M.A. Sandulli, “Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo”, lamministrativista.it, 1° maggio 2020; Id., “Covid-19, fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo”, in questa Rivista, 4 maggio 2020; Id., “L’emergenza non sacrifichi il diritto di difesa, neppure nel processo amministrativo”, in Il Dubbio, 6 maggio 2020; Id., “Cognita causa”, in questa Rivista, 6 luglio 2020; C.E. Gallo, “La discussione scritta della causa nel processo amministrativo”, 16 luglio 2020, ivi.
[24] CGARS, 15.1.2021, n. 36. Sul tema, si veda P. Provenzano, “Note di udienza e sinteticità”, news in lamministrativista.it, 19 gennaio 2021.
[25] TAR Campania, Napoli, IV, 4.1.2021, n. 3.
[26] Cons. St., IV, 18.1.2021, n. 29.
[27] M.A. Sandulli, “Un brutto risveglio?”, cit; Id., “Pregi e difetti del diritto dell’emergenza”, cit; F. Francario, “Il non - processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid 19”, ivi, 14 aprile 2020; F. Saitta, “Da Palazzo Spada un ragionevole no al «contraddittorio cartolare coatto» in sede cautelare. Ma il successivo intervento legislativo sembra configurare un’oralità…a discrezione del presidente del collegio”, in federalismi; S. Tarullo, “Contraddittorio orale e bilanciamento presidenziale. Prime osservazioni sull’art. 4 del D.L. 28 del 2020”, ivi, 13 maggio 2020; G. Veltri, “Il processo amministrativo. L’oralità e le sue modalità in fase emergenziale: “tutto andrà bene””, in www.giustizia-amministrativa.it, 2 maggio 2020; N. Durante, “Il lockdown del processo amministrativo”, in www.giustizia-amministrativa.it, 28 aprile 2020; A. D’Urbano – R. Santi, “L’abolizione (temporanea?) della fase orale nel processo amministrativo per l’emergenza sanitaria. Il Consiglio di Stato (ordinanze nn. 2538 e2539 del 2020) riapre alla possibilità di discussione”, in federalismi, 29 aprile 2020; C. Volpe, “Pandemia, processo amministrativo e affinità elettive”, in www.giustizia-amministrativa.it, 27 aprile 2020; V. Sordi, “Il principio dell’oralità secondo la giurisprudenza amministrativa nel periodo dell’emergenza Covid19”, in questa Rivista, 27 maggio 2020.
[28] Il riferimento è all’originaria previsione contenuta nell’art. 84 d.l. 18/2020, recante “Disposizioni in Materia di Giustizia amministrativa”, che al co. 5 prevedeva che “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Il giudice, su istanza proposta entro lo stesso termine dalla parte che non si sia avvalsa della facoltà di presentare le note, dispone la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo. In tal caso, i termini di cui all’articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario”.
[29] V. Denti, “Valori costituzionali e cultura processuale”, in L'influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, (a cura di) A. Pizzorusso e V. Varano, II, Milano, 1985, 813.
[30] Per un approfondimento P. Di Cesare, “ll processo amministrativo nell’emergenza. Oralità, pubblicità e processo telematico”, in www.giustizia-amministrativa.it, 7 ottobre 2020.
[31] Così S. Tarullo, “Giusto processo (dir. proc. amm.)”, in Annali II-1, 2008, in particolare il pt. 8 dedicato a “La pubblica udienza”.
[32] In questi termini, SL.P. Comoglio, “Il "giusto processo" civile nella dimensione comparatistica”, in Riv. dir. proc., 2002, 702 ss.; V. Vignera, “Le garanzie costituzionali del processo civile alla luce del “nuovo” art. 111 Cost.”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 1187.
[33] In tal senso Corte cost., 14 dicembre 1989 n. 543, in Foro it., 1990, I, 366; Corte cost. 29 dicembre 1989, n. 587, in Giur. cost., 1989, I, 2705; Corte cost., 10 febbraio 1981, n. 17, ivi, 1981, I, 601; Corte cost., 23 aprile 1998, n. 141, in Foro it., 1999, I, 767.
Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 31 dicembre 2020, n. 8543) di Ippolito Piazza
Sommario: 1. La vicenda e le ragioni di interesse della pronuncia. – 2. La strumentalità dell’accesso difensivo e il relativo sindacato giurisdizionale. – 3. I limiti all’accesso nell’attuale contesto normativo. – 4. Osservazioni conclusive.
1. La vicenda e le ragioni di interesse della pronuncia
La sentenza in commento consente di tornare a riflettere sui limiti del diritto di accesso, in particolare di quello c.d. difensivo[1], alla luce dell’attuale quadro normativo sulla trasparenza amministrativa. Il Consiglio di Stato riafferma, infatti, la natura strumentale del diritto d’accesso ex artt. 22 e ss., l. n. 241/1990, che spetta soltanto a coloro che se ne possano «avvalere per tutelare una posizione giuridicamente rilevante». Tuttavia, nella pronuncia, il giudice amministrativo si spinge a sindacare le esigenze difensive che hanno mosso il privato a richiedere l’accesso ai documenti detenuti dall’amministrazione. Si tratta di un orientamento che sembra consolidarsi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato[2] e che desta, però, alcune perplessità. Occorre infatti domandarsi se tale sindacato sia ammesso dalla legge, ed eventualmente entro quali limiti.
Per farlo, sarà utile tener conto non solo della disciplina dell’accesso documentale, ma anche di quella sull’accesso civico (artt. 5 e 5-bis, d.lgs. n. 33/2013): attraverso il diritto di accesso civico generalizzato si realizza, infatti, il principio della «accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni», con il solo limite della tutela di interessi pubblici o privati indicati dal legislatore[3], circostanza che può influire, come si dirà, sull’intera materia dell’accesso.
Prima di tutto è, però, necessario ripercorrere brevemente la vicenda oggetto della controversia, per metterne a fuoco gli elementi rilevanti.
La controversia nasce da una richiesta di accesso presentata, in base agli artt. 22 e ss. l. n. 241/1990, da una società che chiedeva all’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) di ottenere gli atti di un procedimento che si era concluso con la stipula di accordi negoziali tra la stessa AIFA e altre imprese farmaceutiche. Tra la società istante e l’AIFA era già in corso un giudizio, pendente innanzi al Tar Lazio, avente per oggetto la legittimità del diniego di AIFA di attribuire ad alcuni medicinali importati la classe di rimborsabilità “A” (che comporta il rimborso a carico del SSN) e lo stesso prezzo al pubblico determinato per il farmaco originator corrispondente (cioè il farmaco originale equivalente e già in commercio nel nostro paese). In particolare, AIFA aveva ritenuto che l’ingresso dei medicinali nella classe “A” dovesse essere necessariamente subordinato alla conclusione di un accordo negoziale con l’impresa interessata, come avvenuto per le altre imprese importatrici.
A seguito del diniego opposto da AIFA alla istanza di accesso, la società interessata ha proposto ricorso ex art. 116 c.p.a. per veder accertato il proprio diritto ad accedere sia agli atti procedimentali prodromici che agli accordi negoziali stipulati tra AIFA e le altre imprese importatrici. In primo grado, il Tar Lazio ha accolto in parte il ricorso, limitando il diritto di accesso agli atti procedimentali ed escludendo, di conseguenza, gli accordi negoziali.
AIFA ha quindi proposto ricorso in appello, ritenendo che tutta la documentazione richiesta debba essere esclusa dall’accesso, sia perché la richiedente difetterebbe di un interesse diretto, concreto e attuale rispetto a documenti che non sarebbero di alcuna utilità rispetto al giudizio pendente; sia perché tali documenti conterrebbero informazioni commerciali riservate di imprese concorrenti, informazioni peraltro coperte dalle clausole di riservatezza inserite negli accordi negoziali stipulati con la stessa AIFA.
Due sono i punti principali sui quali concentrare l’analisi della pronuncia: in primo luogo, la strumentalità dell’accesso documentale rispetto alla difesa di interessi giuridici e il rispettivo sindacato giurisdizionale; in secondo luogo, i limiti al diritto d’accesso e la valenza delle clausole di riservatezza.
2. La strumentalità dell’accesso difensivo e il relativo sindacato giurisdizionale
L’evoluzione normativa ha visto accentuare nel tempo le caratteristiche di strumentalità dell’accesso documentale, introdotto con la l. n. 241/1990[4]. La versione originaria della legge stabiliva infatti che il diritto d’accesso fosse riconosciuto a «chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti». In seguito alle modifiche apportate dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15, l’art. 22 della l. n. 241/1990 oggi stabilisce che il diritto d’accesso spetti a coloro che abbiano un interesse «diretto concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso». In aggiunta, sempre con la novella del 2005, il legislatore ha escluso che l’accesso documentale possa servire a un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni (art. 24,c. 3).
Così facendo, il legislatore ha chiarito che il diritto d’accesso della l. n. 241/1990 è uno strumento di difesa per i titolari di situazioni giuridiche soggettive collegate al documento richiesto, non invece un mezzo utilizzabile da ogni cittadino per soddisfare un generico bisogno di conoscenza legato all’attività della pubblica amministrazione.
Il ‘vuoto’ così determinato è stato colmato, come noto, dall’introduzione delle forme di accesso civico, prima quello c.d. semplice[5], relativo ai documenti per i quali la legge prevede un obbligo di pubblicazione, e poi quello c.d. generalizzato, che consente a chiunque (senza particolari requisiti di legittimazione) di richiedere all’amministrazione – in via di principio – ogni dato o documento da essa detenuto[6].
La coesistenza di tre forme generali di diritto d’accesso[7] ha comportato, in sede interpretativa, la necessità di coglierne le rispettive differenze. Ciò è valso soprattutto per il diritto d’accesso documentale e quello civico generalizzato, poiché essi condividono, in larga misura[8], lo stesso oggetto. La giurisprudenza amministrativa si è, quindi, orientata nel senso di ritenere che l’accesso documentale sia meno esteso ma più profondo di quello civico generalizzato[9]. Pur nella difficoltà di individuare l’esatto contenuto di questa differenza[10], l’idea di base è che l’accesso della l. n. 241/1990 garantisca maggiormente la pretesa conoscitiva del ricorrente, poiché non è sufficiente, al fine di escludere l’accesso, che l’ostensione del documento generi un pregiudizio a uno degli interessi tutelati dalla legge.
L’art. 24 prevede, infatti, una serie di casi nei quali l’accesso debba essere negato (sia a tutela di interessi pubblici come la sicurezza e l’ordine pubblico, sia a tutela di interessi privati come la vita o la riservatezza delle persone): tuttavia, il comma 7 dello stesso articolo stabilisce che l’accesso debba «comunque essere garantito ai richiedenti», quando la conoscenza del documento sia «necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici». Al contrario, la normativa sull’accesso civico non prevede un simile criterio di prevalenza del diritto a conoscere, ma rimette all’amministrazione la valutazione dell’esistenza di un pregiudizio concreto agli interessi pubblici e privati individuati dall’art. 5-bis, di per sé sufficiente a escludere l’accesso[11].
Ebbene, di fronte a questo quadro normativo e sulle orme di un indirizzo costante, la sentenza in esame ribadisce che l’accesso ex art. 22, l. n. 241/1990 ha carattere strumentale ed è, pertanto, consentito solo a chi possa «dimostrare che gli atti oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, anche indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica». Si tratta di una strumentalità da intendere in senso ampio: la legittimazione all’accesso non va riconosciuta solo a coloro che vogliano servirsi dei documenti per la difesa in giudizio della situazione giuridica sottostante, ma è «sufficiente la dimostrazione del grado di protezione al bene della vita dal quale deriva l’interesse ostensivo»; non sono, invece, ammesse istanze vòlte alla cura di un interesse meramente emulativo o potenziale[12].
Nell’esaminare l’interesse della ricorrente rispetto ai documenti richiesti, il Consiglio di Stato compie però, nel caso di specie, una valutazione che appare eccessivamente sommaria. Il massimo giudice amministrativo si limita, infatti, a sostenere che la ricorrente difetta di un interesse concreto e attuale, dal momento che la stessa, «secondo la prospettazione sostenuta in giudizio, ha ritenuto non necessaria la negoziazione dei prezzi dei farmaci di importazione parallela e, dunque, non si comprende come possa rilevare, a fini di difesa, la conoscenza degli accordi conclusi da AIFA con le altre società farmaceutiche e la conoscenza degli atti del relativo procedimento».
Non v’è dubbio che la ricorrente stia difendendo i propri interessi giuridici, avendo già instaurato – al momento della istanza di accesso – un giudizio di fronte al Tar Lazio, riguardante la legittimità di alcuni provvedimenti emanati da AIFA. La fattispecie ricade, quindi, certamente nell’ambito applicativo dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990, che anzi parla genericamente di ‘cura’, oltre che di difesa, dei propri interessi[13]. Per negare il nesso di strumentalità dell’accesso, il Consiglio di Stato si spinge allora a sindacare l’utilità dei documenti richiesti rispetto alla strategia difensiva della ricorrente, ravvedendo una contraddizione tra il contenuto dei documenti e la condotta processuale. È facile intuire che si tratti di un terreno scivoloso, nel quale potrebbe finanche rilevare l’art. 24 Cost.: l’affermazione del Consiglio di Stato non sembra infatti capace di esaurire tutto lo spettro dei possibili utilizzi difensivi dei documenti richiesti[14]. Senza considerare che è «irragionevole pretendere di anteporre il momento della costruzione della strategia difensiva a quello della conoscenza degli elementi necessari per la sua elaborazione»[15].
Soltanto in subordine, il Consiglio di Stato valuta invece se il contenuto dei documenti richiesti (atti procedimentali propedeutici e accordi negoziali stipulati da AIFA con altre imprese) sia lesivo degli interessi delle imprese concorrenti. Di questo profilo si tratterà nel prossimo paragrafo.
Qui è importante sottolineare come, a fronte del chiaro disposto del comma 7 dell’art. 24 («Deve comunque essere garantito…»)[16], che fa prevalere l’esigenza conoscitiva di chi debba tutelare propri interessi giuridici rispetto agli eventuali pregiudizi ad altri interessi tutelati, la giurisprudenza, per negare l’accesso, faccia leva sulla assenza di legittimazione del richiedente[17] e arrivi, per questa strada, a sindacarne le esigenze difensive. La ragione che muove i giudici amministrativi sembra chiara: intendendo la legittimazione dell’accesso documentale in senso ampio e tenendo conto della clausola di prevalenza dell’art. 24, c. 7, vi è il rischio che l’accesso debba sempre essere permesso a chi sia titolare di un interesse giuridicamente rilevante, con un conseguente arretramento nella tutela degli interessi contrapposti (dalla riservatezza agli interessi commerciali, fino all’ordine pubblico). Di conseguenza, i giudici sono spinti a sindacare la strumentalità dell’accesso rispetto alle esigenze difensive dei richiedenti[18].
Il ragionamento è indubbiamente fondato sull’interpretazione della l. n. 241/1990 ma, nel quadro attuale, non si può ignorare l’esistenza di una forma di accesso che prescinde da qualsivoglia requisito legittimante in capo al richiedente. Viene cioè naturale domandarsi che cosa sarebbe successo se l’istanza d’accesso fosse stata presentata ai sensi dell’art. 5, c. 2, d.lgs. n. 33/2013. In tal caso, l’amministrazione e il giudice avrebbero potuto unicamente valutare se i documenti richiesti (o anche solo parti di essi) potessero causare un pregiudizio concreto agli interessi commerciali delle imprese coinvolte.
È vero che la giurisprudenza formatasi dopo l’introduzione dell’accesso generalizzato ha sostenuto che i diversi diritti d’accesso non siano sovrapponibili e non corrispondano a un «unico diritto soggettivo globale di accesso»[19], bensì costituiscano un insieme di garanzie differenziate per finalità, metodi di approccio alla conoscenza e livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza[20]. Si deve però tener conto della recente pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato[21], che ha sostenuto una tesi almeno in parte diversa: quella cioè per cui «il rapporto tra le due discipline generali dell’accesso documentale e dell’accesso civico generalizzato (…) non può essere letto unicamente e astrattamente, secondo un criterio di specialità e, dunque, di esclusione reciproca, ma secondo un canone ermeneutico di completamento/inclusione».
Insomma, nell’attuale regime di trasparenza, che consente a chiunque di conoscere ogni dato o documento detenuto dalla pubblica amministrazione, con le uniche eccezioni dovute alla tutela di interessi rilevanti individuati dal legislatore, è su queste ultime che occorrerebbe concentrare l’attenzione.
3. I limiti all’accesso nell’attuale contesto normativo
Solo dopo aver escluso che la ricorrente sia titolare di un interesse concreto alla conoscenza dei documenti richiesti, il Consiglio di Stato si occupa dei possibili limiti alla loro conoscibilità. Gli accordi negoziali dei quali era richiesta la visione[22] includevano infatti una clausola di riservatezza. Ad avviso dei giudici, la clausola è «valida e vincolante in relazione agli interessi commerciali dell’impresa controinteressata» e può essere opposta alla richiedente, che potrebbe altrimenti avvalersi dei dati contenuti nell’accordo a fini concorrenziali. Inoltre, secondo la sentenza, tale pattuizione consente legittimamente all’amministrazione di sottrarre all’accesso anche gli atti procedimentali propedeutici all’accordo, perché la conoscenza dei primi rivelerebbe il contenuto del secondo, vanificando l’impegno alla riservatezza.
La clausola di riservatezza non viene, però, espressamente ricondotta a una delle ipotesi di esclusione dell’accesso previste dall’art. 24, l. n. 241/1990, così da indurre a pensare che, in sede negoziale, l’amministrazione pubblica possa sottrarre alcuni atti all’accesso (sia documentale, come nel caso di specie, che civico). Una conclusione così netta non sembra ammissibile: da un lato, non esiste una norma che vieti l’apposizione di una simile clausola; dall’altro, però, i limiti all’accesso sono stabiliti da norme di legge. Secondo un condivisibile orientamento del Consiglio di Stato, la clausola di riservatezza non può porsi in contrasto con norme imperative[23]: ciò significa che la clausola è valida se compatibile con le esclusioni previste dall’art. 24, l. n. 241/1990, che contempla, tra i casi di sottrazione all’accesso, anche quelli relativi alla salvaguardia degli interessi finanziari, industriali e commerciali delle imprese (art. 24, c. 6, lett. d); inoltre, la validità della clausola di riservatezza «non esime (…) il collegio da un controllo di meritevolezza della stessa, avuto riguardo all’interesse al buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione»[24].
Si può pertanto affermare che l’esistenza di una clausola di riservatezza non escluda, di per sé, l’accesso ai documenti ma occorra invece valutare quali parti dell’accordo (e, ancor più, degli atti procedimentali prodromici) siano lesivi degli interessi dei contraenti e quali, invece, possano essere rese pubbliche. Non bisogna infatti dimenticare che la legge consente una ostensione parziale dei documenti: ai sensi dell’art. 24, c. 5, i documenti possono essere sottratti all’accesso «solo nell’ambito e nei limiti» della connessione con gli interessi protetti dalle esclusioni del comma 1 (parallelamente, l’art. 5-bis, c. 4, d.lgs. n. 33/2013 prevede che se i limiti all’accesso civico riguardano solo alcuni dati o alcune parti del documento richiesto, deve essere consentito l’accesso agli altri dati o alle altre parti). Nella sentenza, invece, nessuna menzione viene fatta dell’accesso parziale, né, conseguentemente, di quali informazioni concretamente siano lesive degli interessi commerciali.
4. Osservazioni conclusive
A più di trent’anni dalla sua introduzione, il diritto d’accesso continua a porre problemi all’interprete, a conferma della vitalità dello strumento e del costante bisogno di trasparenza manifestato dai privati, sia come portatori di uno specifico interesse giuridico, che come cittadini. La problematicità dell’istituto è certamente accentuata dalla stratificazione normativa, che ha via via affiancato all’accesso documentale della l. n. 241/1990 altre forme di accesso, sia speciali che generali. In particolare, la sentenza in commento mostra come la attuale configurazione dell’accesso documentale, come diritto ‘più resistente’ di fronte a possibili contro-interessi, porti il giudice amministrativo a sindacare i requisiti di legittimazione del richiedente[25], più che l’eventuale pregiudizio prodotto dall’ostensione dei documenti. Questo perché la legge configura l’accesso documentale come «comunque» prevalente, quando la conoscenza dei documenti sia necessaria alla tutela di un interesse giuridico. Si tratta di una strada non priva di inconvenienti: in primo luogo, il giudice può spingersi, come nel caso che ci interessa, a sindacare la necessità di un documento per la strategia difensiva del richiedente, giudizio di per sé complesso e ragionevolmente riservato a quest’ultimo; in secondo luogo, in un’ottica sistematica, l’ordinamento offre oggi uno strumento che prescinde dalla legittimazione del richiedente e che guarda solo all’esistenza di contro-limiti all’accesso; uno strumento, peraltro, non necessariamente meno forte dell’accesso documentale[26]. Utile potrebbe essere allora la valorizzazione di quella giurisprudenza che, anziché negare in radice l’accesso difensivo per assenza di legittimazione del richiedente, ricerca un contemperamento con la tutela di contro-interessi attraverso l’oscuramento parziale dei documenti[27]. Può infatti accadere che non tutti i dati, il cui rilascio è potenzialmente lesivo di contro-interessi, siano altresì necessari alla difesa degli interessi del richiedente.
***
[1] Sul quale si veda anche la recente Cons. Stato, ad.plen., 25 settembre 2020, n. 19, in merito ai rapporti tra diritto d’accesso e strumenti di acquisizione probatoria nel processo civile; per un commento alla sentenza, M. Ricciardo Calderaro, Diritto d’accesso e acquisizione probatoria processuale, in questa Rivista.
[2] Si veda, per esempio, Cons. Stato, sez. III, 17 marzo 2017, n. 1213.
[3] Si vedano, in particolare, gli artt. 1, 5 e 5-bis del d.lgs. n. 33/2013, come modificati dal d.lgs. n. 97/2016. In particolare, sulle novità introdotte nel 2016, v. M. Savino, Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, in Giorn. dir. amm., 2016, 593 ss; M.A. Sandulli, L. Droghini, La trasparenza amministrativa nel FOIA italiano. Il principio della conoscibilità generalizzata e la sua difficile attuazione, in Federalismi.it, 19/2020, 401 ss. Più in generale, nell’ampia bibliografia sull’accesso civico, ci si limita a segnalare G. Gardini, M. Magri (a cura di), Il FOIA italiano: vincitori e vinti. Bilancio a tre anni dall’introduzione, Sant’Arcangelo di Romagna, 2019, A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, Napoli, 2018, spec. cap. VII e i contributi di M. Savino, N. Vettori, A. Moliterni, I. Piazza, F. Manganaro, M. De Rosa – B. Neri, M. Filice apparsi in Dir. Amm., 3 e 4/2019.
[4] Su questa evoluzione, v. F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in Federalismi.it, n. 10/2019, 9 ss.
[5] Art. 5, c. 1, d.lgs. n. 33/2013.
[6] Art. 5, c. 2, d.lgs. n. 33/2013.
[7] Alle quali si aggiungono i diritti di accesso previsti dalle discipline di settore, come l’accesso ambientale (d.lgs. 19 agosto, n. 195) e quello in materia di contratti pubblici (art. 53, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50).
[8] La coincidenza dell’ambito applicativo non è completa, dal momento che l’accesso documentale ha per oggetto i «documenti amministrativi» (art. 22, c. 1, lett. d; nozione da intendersi comunque in senso ampio), mentre l’accesso civico generalizzato può essere rivolto «ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni» (art. 5, c. 2, d.lgs. n. 33/2013).
[9] Tra altre, Cons. St., sez. VI, 31 gennaio 2018, n. 651, Tar Lazio, sez. I, 8 marzo 2018, n. 2628. Nello stesso senso si esprimono del resto le Linee guida Anac (delib. n. 1309 del 28 dicembre 2016), previste dall’art. 5-bis, c. 6, d.lgs. n. 33/2013, secondo cui il bilanciamento tra gli interessi in gioco è diverso nei due tipi di accesso, perché nel caso della l. n. 241/1990 «la tutela può consentire un accesso più in profondità a dati pertinenti», mentre per l’accesso generalizzato «le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all’operatività dei limiti) ma più esteso, avendo presente che l’accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni».
[10] Sul punto, F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., spec. 8.
[11] Sui limiti all’accesso civico generalizzato, M. Filice, I limiti all’accesso civico generalizzato: tecniche e problemi applicativi, in Dir. Amm., 4/2019, 861 ss.
[12] Cons. Stato, sez. VI, 27 giugno 2018, n. 3938. Si veda anche Cons. Stato, sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 249. Sull’interesse legittimante l’accesso, A. Simonati, I principi in materia di accesso, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1219 ss.
[13] Ben diverso è dunque, sotto questo profilo, il caso di specie da quello affrontato da Cons. Stato, 17 marzo 2017, n. 1213, sempre riguardante l’accesso ad accordi negoziali stipulati da AIFA con imprese terze, ma nel quale la richiedente non aveva instaurato «giudizi o procedimenti utili per la difesa della posizione giuridica di base al di là di assai generici richiami “a criticità di natura concorrenziale” formulati ai fini della domanda di accesso».
[14] Del resto, la giurisprudenza afferma solitamente che l’accesso difensivo «va valutato ex ante ed in astratto, e non già con riferimento alla pertinenza nel merito dei documenti individuati dall'interessato, dato che la concreta valutazione della rilevanza e pertinenza della documentazione ai fini del giudizio cui accede la richiesta va apprezzata nell'ambito di quest’ultimo»: Tar Trento, sez. I, 15 luglio 2020, n. 115.
[15] F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., 23.
[16] Si veda nuovamente F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., 19, secondo cui «Una volta espunta la figura dell’accesso civico dall’impianto della legge 241, l’importanza sistematica della norma recata dal citato settimo e ultimo comma dell’art. 24 deve essere necessariamente riconsiderata»; essa diventa cioè una ipotesi «tipica», nella quale la legge prevede che l’accesso prevalga e, quindi, «perché venga impedito è necessario che si contrapponga un interesse di “pari rango”, che vi sia cioè una eccezione espressamente contemplata sul piano normativo; e non già una semplice esigenza discrezionalmente apprezzabile da parte della pubblica amministrazione».
[17] Come già evidenziato da F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., 22 s., che parla, riguardo alla giurisprudenza sulla riservatezza commerciale e industriale, di «una tendenza a riappropriarsi dei margini di valutazione discrezionale con riferimento al giudizio di necessità della conoscenza per la difesa della situazione soggettiva, con il rischio di assoggettare nuovamente ad un bilanciamento con i contrapposti interessi, sotto un diverso profilo, l’esigenza defensionale».
[18] Un esito di questo tipo era stato prefigurato da A. Simonati, I principi in materia di accesso, cit., 1220.
[19] Tra tante, Tar Puglia, sez. III, 19 febbraio 2018, n. 231.
[20] Cons. Stato, sez. IV, 12 agosto 2016, n. 3631.
[21] Cons. Stato, ad. plen., 2 aprile 2020, n. 10, sulla quale v. A. Moliterni, Pluralità di accessi, finalità della trasparenza e disciplina dei contratti pubblici, in Giorn. dir. amm., 4/2020, 505 ss.
[22] Gli accordi, di per sé, non sono sottratti all’accesso, stante la nozione ampia di documento contenuta nella legge: l’art. 22, c. 1, lett. d), l. n. 241/1990 stabilisce infatti che per «documento amministrativo» debba intendersi «ogni rappresentazione (…) del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».
[23] Per la natura imperativa delle norme sull’accesso v. anche Tar Lazio, sez. II, 30 agosto 2016, n. 9437.
[24] Cons. Stato, 17 marzo 2017, n. 1213: nel caso specifico, la clausola di riservatezza era ritenuta utile non solo a tutelare gli interessi commerciali del privato, ma anche l’interesse pubblico al buon andamento, poiché la segretezza degli accordi avrebbe potuto consentire un risparmio per l’amministrazione nelle future contrattazioni con altre imprese.
[25] In alcune pronunce in materia di segreti industriali, il Consiglio di Stato utilizza, per esempio, il più stringente canone della «stretta indispensabilità» dei documenti richiesti al fine di tutelare i propri interessi giuridici (Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2020, n. 1451 e 17 aprile 2020, n. 2449), canone che l’art. 24, c. 7 riferisce però solo al caso di richiesta di documenti contenenti dati sensibili o giudiziari.
[26] Secondo Cons. Stato, ad. plen., 2 aprile 2020, n. 10, non si può escludere che «un’istanza di accesso documentale, non accoglibile per l’assenza di un interesse attuale e concreto, possa essere invece accolta sub specie di accesso civico generalizzato».
[27] V. Tar Veneto, sez. III, 26 luglio 2019, n. 894 e, soprattutto, Tar Lazio, sez. I, 4 febbraio 2020, n. 1470 («Al fine di garantire l’esigenza di cura e difesa degli interessi giuridici della parte ricorrente, contemplata dall’art. 24, comma 7, della L. n. 241/1990, le legittime esigenza di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica manifestate dall’amministrazione resistente possono essere adeguatamente preservate ricorrendo ad accorgimenti divulgativi - che l’Ufficio competente porrà in essere - tali da escludere o "mascherare" ogni indicazione contenuta nell'informativa diversa dalla identificazione dei soggetti controindicati frequentati dal ricorrente - che involga valutazioni, giudizi, riferimenti e considerazioni funzionali alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica».
Il vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro. Riflessioni a partire dall’ordinanza cautelare del Giudice del lavoro di Messina.
di Lisa Taschini
Sommario: 1. Introduzione al tema controverso. – 2. L’ordinanza cautelare del Tribunale di Messina: la vicenda contenziosa. – 3. Il quadro normativo entro cui si inscrive la materia. – 4. Il vaccino come diritto e come onere: le indicazioni dalla giurisprudenza costituzionale. – 5. Il vaccino come obbligo: le indicazioni di principio desumibili dal nostro ordinamento. – 6. Il vaccino come obbligo nel rapporto di lavoro: le tesi che sono state assunte in dottrina. – 6.1. Le tesi favorevoli. – 6.2. Le tesi contrarie. – 6.3. La posizione del Giudice del lavoro di Messina nell’ordinanza cautelare. – 7. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione al tema controverso.
Conclusa la fase iniziale dell’emergenza in cui imprese e lavoratori hanno dovuto fronteggiare il diffondersi del Covid-19 alla ricerca di una nuova razionalità organizzativa degli ambienti di lavoro per resistere ad un nuovo rischio per la salute e la sicurezza[1], si pone ora un problema inedito, reso urgente dalla diffusione del primo vaccino anti SARS-CoV-2, relativo al binomio, già di per sé oscuro e fragile, salute e lavoro.
Il prendere consistenza di un atteggiamento obiettore rispetto al vaccino da parte della popolazione ha condotto all’emersione, nell’arena politica, costituzionale, sindacale e giuslavoristica, di un acceso dibattito sulla possibile obbligatorietà del vaccino, almeno in alcuni contesti professionali, e sulle conseguenze, nelle relazioni con il datore di lavoro pubblico e privato, del rifiuto ingiustificato del lavoratore. Le soluzioni prospettate sono state le più varie, desunte tutte dai principi fondamentali dell’ordinamento ed imposte dall’assenza di una puntuale norma positiva.
Per una volta, non si sono delineati due schieramenti nettamente contrapposti, ma si sono affiancate soluzioni diverse e sfumate[2], per la delicatezza e la complessità della materia, che si pone al crocevia di diritti fondamentali e di rango costituzionale, si intreccia di diritti e doveri, di situazioni giuridiche a dimensione privatistica e pubblicistica, individuali e collettive, insieme[3].
La sfida di questo tempo che il giurista è chiamato ad affrontare è fornire risposta e regolamentazione ai drammi economici, sociali e sanitari che si susseguono con una velocità disarmante, senza avere il tempo di porsi le domande giuste, di individuare quale sia l’enigma profondo che si cela dietro alle singole questioni. Nell’attesa dell’auspicabile ed opportuno intervento del legislatore, si cercherà, nelle pagine seguenti, di dipanare questa intricata materia partendo proprio dalle disposizioni esistenti e dagli interrogativi fondamentali per, poi, cercare le risposte che allo stato ha fornito il legislatore e la giurisprudenza costituzionale, interprete privilegiato dell’interpretazione conforme, ed analizzare le varie posizioni che sono già state assunte in dottrina sui riflessi della renitenza alla vaccinazione nell’ambito del rapporto di lavoro.
In relazione al problema dell’obbligo vaccinale, innanzitutto, occorre chiedersi: si può imporre alla popolazione un obbligo generale di vaccinarsi? L’eccezionale stato pandemico in cui ci si trova, giustifica e legittima l’imposizione di un tale obbligo? Se sì, chi è competente a farlo, con quali strumenti e modalità? In alternativa ad una misura imperativa generale, sarebbe prevedibile un obbligo selettivo, relativo ad alcuni settori produttivi e a determinate attività e servizi o limitato a specifici rapporti giuridici connotati da particolari esigenze di tutela e prevenzione? Ovvero ancora, è ammissibile prevedere una sorta di passaporto sanitario ponendo, per l’accesso a determinate attività o servizi, come requisito condizionante l’avvenuta vaccinazione? Se sì, con quali criteri selettivi?[4]
Nell’ambito del rapporto di lavoro, può il datore di lavoro pretendere dai propri dipendenti di vaccinarsi? Quid juris nel caso di rifiuto del trattamento?
2. L’ordinanza cautelare del Tribunale di Messina: la vicenda contenziosa.
Con l’ordinanza cautelare pronunciata lo scorso 12 dicembre 2020 dal Giudice del Lavoro di Messina[5], il dibattito ha fatto ingresso, per la prima volta, nelle aule di giustizia e la decisione resa ha riconosciuto piena tutela al diritto di autodeterminazione del lavoratore ai trattamenti sanitari, senza, però, al contempo disconoscere la rilevanza della situazione quanto meno sul piano precauzionale e preventivo nei confronti della posizione giuridica di garanzia del datore di lavoro.
Questa la vicenda processuale. Alcuni lavoratori dipendenti dell’Azienda ospedaliera universitaria di Messina ricorrevano al Giudice del lavoro per vedersi riconoscere il loro diritto di non sottoporsi a vaccinazione antinfluenzale e anti pneumococcica, il cui obbligo era stato sancito con due note aziendali adottate in ottemperanza di un decreto assessoriale che aveva rese obbligatorie dette vaccinazioni per quanti prestano attività lavorativa in ambito sanitario. Contestualmente, i ricorrenti proponevano istanza cautelare d’urgenza per la sospensione dell’efficacia degli atti amministrativi presupposti posto che la mancata adesione alla campagna vaccinale predisposta a livello regionale avrebbe comportato conseguenze immediate nel rapporto di lavoro dei ricorrenti. In particolare, il decreto regionale poneva la avvenuta vaccinazione quale requisito per l’idoneità all’espletamento delle mansioni, ai sensi dell’art. 41, comma 6, del d.lgs. n. 81/2008, e la nota aziendale attuativa prevedeva la trasmissione dell’elenco dei sanitari non aderenti alla campagna di prevenzione al medico competente per l’accertamento dell’inidoneità al lavoro a far data dalla trasmissione stessa e fino alla conclusione del periodo di presumibile intensità del fenomeno influenzale – ovvero, fino a tutto il mese di febbraio 2021 –.
Le contrapposte tesi propugnate in giudizio dai lavoratori e dall’Assessorato regionale siciliano – l’Azienda ospedaliera datrice di lavoro è rimasta contumace – si sono concentrate sulla legittimità formale della previsione di un tale obbligo vaccinale. Mentre i lavoratori denunciavano il difetto di attribuzione dell’Assessorato regionale, ritenendo che l’individuazione dei trattamenti sanitari obbligatori sia materia coperta da riserva di legge statale ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 32 e 117 Cost., l’ente pubblico regionale rispondeva ritenendo la misura precauzionale adottata giustificata e proporzionata in relazione ad impellenti ragioni di salute pubblica (si richiama, in primo luogo, la necessità di disporre, in alcuni casi la raccomandazione ed in altri, come quello del caso de quo, l’obbligo di vaccinazione, in ragione delle alte probabilità di una concomitante circolazione di virus influenzali e di SARS-CoV-2 e, in secondo luogo, gli effetti positivi della vaccinazione, individuati nella possibilità di rendere più agevole la diagnosi differenziale tra le due patologie infettive e diminuire così la pressione sul servizio sanitario) e legittima, perché consentita dalle previsioni dell'art. 32, comma 3, della legge n. 833/1978 che riconoscono al Presidente della Giunta regionale o al Sindaco il potere di emanare, in materia di sanità pubblica e di polizia veterinaria, ordinanze di carattere contingibile ed urgente nell’ambito territoriale di riferimento ed in linea con le direttive emergenziali di cui al d.l. n. 19/2020, convertito in legge n. 35/2020, che autorizza le Regioni ad introdurre misure più restrittive di quelle statali ai fini del contenimento del contagio da coronavirus.
Il Giudice del lavoro di Messina ha risolto le questioni controverse ritenendo il provvedimento amministrativo impugnato illegittimo per un duplice motivo: sia perché, e in primo luogo, «travalicando i limiti imposti dagli artt. 32 Cost. e 117 Cost., ha reso obbligatorio per gli operatori sanitari, il vaccino anti influenzale che invece, a livello nazionale è raccomandato e non ritenuto obbligatorio», sia perché l’atto assessoriale è stato adottato «in contrasto con i princìpi del riparto dei poteri tra l’apparato amministrativo regionale e l’organo legislativo regionale», come espressi dall’art. 32 della legge n. 833/1978.
3. Il quadro normativo entro cui si inscrive la materia.
Il legislatore dell’emergenza ha dettato prescrizioni obbligatorie per il contenimento della pandemia e la prevenzione della sua diffusione ponendo adempimenti e divieti generalizzati, basati sul principio di solidarietà collettiva, e prevedendo diritti, obblighi e responsabilità in capo a soggetti specifici quali, ai nostri fini, i datori di lavoro, i lavoratori, gli Istituti assicuratori pubblici[6]. Soprattutto nell’ambito del rapporto lavorativo, sorge il delicato problema di individuare l’origine professionale del contagio, la responsabilità per la prevenzione, l’indennizzo o il risarcimento dell’infortunio e, quindi, della difficoltà di individuare l’origine interna o esterna, rispetto alla causa lavorativa, della infezione stessa, visto il suo carattere pandemico.
Date queste caratteristiche peculiari del rischio, le misure di prevenzione previste dal Testo unico della sicurezza sono state integrate da ulteriori misure, poste a carico sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, suggerite dalla esperienza e dalla scienza, ai sensi dell’art. 2087 c.c., codificate nei protocolli di sicurezza concordati tra le parti sociali per la prosecuzione e messa in sicurezza dell’attività produttiva, resi obbligatori dal legislatore con i DPCM del 10 e 26 aprile 2020. Il legislatore ha poi disposto, per definire e ragionevolmente limitare la responsabilità del datore, che l’osservanza dei protocolli anzidetti integra l’adempimento delle prescrizioni dell’art. 2087 ai fini della responsabilità civile e penale del datore di lavoro (ex art. 29-bis, d.l. n. 23/2020, come convertito, con modifiche, dalla legge n. 40 del 2020).
Tra le misure obbligatorie prescritte nei protocolli non è compreso il vaccino anti Covid, all’epoca non ancora disponibile. Ora che il trattamento vaccinale è somministrabile alla popolazione, sia pure progressivamente, si pone il problema di individuare il suo ruolo nel rapporto di lavoro – oltre che nei rapporti contrattuali in genere –.
In questa situazione il Governo italiano, diversamente da quanto aveva già deciso in passato, per situazioni meno drammatiche rispetto alla pandemia in corso[7], non ha (ancora) prescritto l’obbligatorietà del vaccino, ma, in conformità al comune sentire tipicamente europeo, riscontrabile nella Risoluzione dell’assemblea del Parlamento n. 2361 del 27 gennaio 2021, ha optato per la via della raccomandazione[8], confidando che la persuasione costituisca il percorso migliore per raggiungere “una diffusione sufficiente alla sua efficacia”, ed attuare per tale via il precetto dell’art. 32 Cost. sulla tutela della salute collettiva[9].
La premessa da cui muovere per svolgere in modo equilibrato e logicamente costruito un ragionamento sulla obbligatorietà del vaccino anti-Covid e sulle conseguenze di un rifiuto a sottoporvisi nel rapporto di lavoro deve necessariamente consistere nella consapevolezza dell’assenza di una normativa generale di rango ordinario sul punto e dell’assoluta opportunità che il Legislatore si preoccupi di questi aspetti e si esprima in modo chiaro, colmando la lacuna. Le ragioni di una tale esigenza sono fin troppo evidenti: la materia chiama in causa l’equilibrio tra le istanze generali di tutela della salute collettiva e la garanzia della libera autodeterminazione ai trattamenti sanitari, tra la posizione giuridica del datore di lavoro, garante della salute e della sicurezza psicofisica dei propri dipendenti oltre che di tutti i terzi che si trovino ad instaurare rapporti e contatti con i suoi preposti e con i locali aziendali, e la libertà del singolo di non sottoporsi a vaccinazioni contro la sua volontà. Il principio di solidarietà generale costituzionale e il principio di prevenzione, su cui è imperniato l’intero sistema di sicurezza sul lavoro, si scontrano con il divieto di sottoposizione obbligatoria ai trattamenti sanitari, con il principio di libertà in materia di salute e con il divieto di discriminazione per motivi personali e di salute nell’ambito lavorativo, sia in sede di assunzione sia nel corso dell’intero rapporto e all’atto della sua cessazione.
Volgendo quindi lo sguardo alle disposizioni esistenti, primaria importanza rivestono, in termini generali, i principi e diritti fondamentali costituzionali di cui agli articoli 2, 3 e 32 della Carta, nonché, e di conseguenza, sul piano del diritto del lavoro, le normative di cui agli articoli 2087 del codice civile, 40 e seguenti e 279 del d.lgs. n. 81/2008, e la disciplina emergenziale dettata per il contrasto alla pandemia da Covid-19, contenuta nell’articolo 42, comma 2, del d.l. n. 18/2020 convertito nella legge n. 27/2020, e 83 del d.l. n. 34/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 77/2020 oltre che nel Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu 2021-2023), di cui all’Accordo del 25 gennaio 2021 della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano pubblicato nella G.U. Serie Generale, n. 23 del 29 gennaio 2021, nel Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 e nel Piano Nazionale della Prevenzione Vaccinale, del gennaio 2017.
4. Il vaccino come diritto e come onere: le indicazioni dalla giurisprudenza costituzionale.
In tempi anche recenti, sono pervenute all’attenzione della Corte costituzionale numerose questioni di legittimità, per contrasto alle disposizioni di cui agli articoli 2, 3, comma 2, e 32 della Carta, relative alla normativa vaccinale. Dall’analisi di questa giurisprudenza è possibile individuare quali sono i punti fermi che orientano gli operatori del diritto e il decisore politico nell’interpretazione che, di quelle norme, dev’essere seguita.
In particolare, con la sentenza n. 268 del 2017, la Corte ha fornito una serie di indicazioni e raccomandazioni utili anche, oggi, a correttamente inquadrare il tema della vaccinazione anti-Covid e della sua possibile ricostruzione in chiave di obbligatorietà o meno.
La Consulta ha, innanzitutto, precisato come sia la stessa costruzione dell’articolo 32 a rappresentare l’ambivalenza della tutela costituzionale della salute, insieme diritto all’autodeterminazione del singolo e interesse della collettività, diritto a preservare lo stato di salute del singolo e di tutti gli altri, ed è proprio questo ulteriore e generale scopo a giustificare la compressione dell’autodeterminazione individuale quando si rendano obbligatori per legge specifici trattamenti sanitari[10].
Conseguentemente, quali trattamenti sanitari aventi essi stessi quella duplice finalità, le vaccinazioni possono essere imposte come obbligatorie o raccomandate e la tecnica dell’obbligatorietà[11] ovvero della raccomandazione[12] «possono essere sia il frutto di concezioni parzialmente diverse del rapporto tra individuo e autorità sanitarie pubbliche, sia il risultato di diverse condizioni sanitarie della popolazione di riferimento, opportunamente accertate dalle autorità preposte». Nel primo caso, spiega la Corte, la libera determinazione individuale viene diminuita attraverso la previsione di un obbligo assistito da una sanzione. Questa soluzione è rimessa alla decisione delle autorità sanitarie pubbliche e, quando sia fondata su obiettive e riconosciute esigenze di profilassi, «non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento obbligatorio sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche quello degli altri», per la ratio stessa dell’articolo 32. Nel secondo caso, le autorità sanitarie optano per un appello all’adesione spontanea degli individui a un programma di politica sanitaria vaccinale e preventivo. La tecnica della raccomandazione «esprime maggiore attenzione all’autodeterminazione individuale (o, nel caso di minori, alla responsabilità dei genitori) e, quindi, al profilo soggettivo del diritto fondamentale alla salute, tutelato dal primo comma dell’art. 32 Cost., ma è pur sempre indirizzata allo scopo di ottenere la migliore salvaguardia della salute come interesse (anche) collettivo». Qualunque sia la tecnica prescelta dalle autorità sanitarie per promuovere e diffondere un vaccino, ferma la differente impostazione delle due, quel che rileva, nel ragionamento della Corte, per la decisione delle questioni di legittimità costituzionale, è l’obiettivo essenziale che entrambe perseguono nella profilassi delle malattie infettive: ossia il «comune scopo di garantire e tutelare la salute (anche) collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale».
Entrando, pertanto, in questa prospettiva, delineata come l’unica legittima attraverso la quale inquadrare correttamente i trattamenti sanitari vaccinali ex art. 32 Cost., ed incentrata sulla salute quale interesse (anche) obiettivo della collettività, perde di significato la differenza tra obbligo e raccomandazione: «l’obbligatorietà del trattamento vaccinale è semplicemente uno degli strumenti a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione. I diversi attori (autorità pubbliche e individui) finiscono per realizzare l’obiettivo della più ampia immunizzazione dal rischio di contrarre la malattia indipendentemente dall’esistenza di una loro specifica volontà di collaborare: “e resta del tutto irrilevante, o indifferente, che l’effetto cooperativo sia riconducibile, dal lato attivo, a un obbligo o, piuttosto, a una persuasione o anche, dal lato passivo, all’intento di evitare una sanzione o, piuttosto, di aderire a un invito” (sentenza n. 107 del 2012)»[13].
Relativamente, poi, alle vaccinazioni raccomandate, la Corte chiarisce che in presenza di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore dei trattamenti vaccinali, si sviluppa nei destinatari un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie e ciò rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione di per sé obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che muovono i singoli. Pertanto, e conseguentemente, la Corte ha sempre riconosciuto anche in tali casi il diritto all’indennizzo per gli effetti dannosi eventualmente prodottisi al singolo per aver aderito alla campagna vaccinale, anche se solo raccomandata[14]: la ragione determinante del diritto all’indennizzo deriva non dall’essersi sottoposti a un trattamento obbligatorio, in quanto tale, quanto piuttosto risiede nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività, laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica derivanti da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato) effettuato anche nell’interesse della collettività.
L’obiettivo cui si mira, nell’ottica del contemperamento dei contrapposti interessi, è la più ampia copertura vaccinale della popolazione, in applicazione dei principi costituzionali di solidarietà – ex art. 2 Cost. –, di tutela della salute anche collettiva – ex art. 32 Cost. – e di ragionevolezza – ex art. 3 Cost. – e in attuazione del “patto di solidarietà” tra individuo e collettività che l’articolo 32 istituisce.
5. Il vaccino come obbligo nel rapporto di lavoro: le indicazioni di principio desumibili dal nostro ordinamento.
Chiarito, quindi, che nell’esecuzione del patto di solidarietà costituzionalmente previsto tra individuo e collettività, un obbligo, generalizzato o selettivo, a vaccinarsi può essere autoritativamente imposto, si rivela opportuno valutare quali sono le indicazioni di principio che allo stato sono già state rese quando si voglia porre un tale obbligo.
La prima questione affrontata riguarda la legittimità di un obbligo di sottoposizione a trattamento sanitario e le condizioni in presenza delle quali lo si può ritenere legittimo, ragionevole e proporzionale. Nella già ricordata sentenza n. 268 del 2017, la Corte costituzionale evidenzia come, nella scelta di politica sanitaria, l’opzione per l’obbligo o la calda raccomandazione di un vaccino dipenda, anche, dal contesto e dal grado di pericolo per la salute pubblica cui la renitenza a sottoporvisi esporrebbe.
Ed è questa l’essenza del ragionamento che la stessa Consulta sviluppa nella sentenza n. 5 del 2018 in relazione all’introduzione dell’obbligo di sottoporre a dieci vaccinazioni i figli minori (d.l. n. 73/2017), convertito con modifiche dalla legge n. 119/2017): proprio partendo dall’analisi del dato contestuale della preoccupante flessione delle coperture vaccinali, alimentata anche dal diffondersi della convinzione (falsa perché «mai suffragata da evidenze scientifiche») che le vaccinazioni siano inutili, se non addirittura nocive, la Corte giustifica il disposto rafforzamento della cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, qualificandolo un intervento «non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche».
In questo contesto, si mette in luce anche come, ciononostante, il legislatore abbia ritenuto di dover preservare un adeguato spazio per l’autodeterminazione e la costruzione di un rapporto con i cittadini basato sull’informazione, sul confronto e sulla persuasione, laddove ha previsto che, in caso di mancata osservanza dell’obbligo vaccinale, la legge delinea un procedimento volto in primo luogo a fornire ai genitori (o agli esercenti la potestà genitoriale) ulteriori informazioni sulle vaccinazioni e a sollecitarne l’effettuazione[15]. Solo al termine di tale procedimento, e previa concessione di un adeguato termine, potranno essere inflitte le sanzioni amministrative previste in capo agli esercenti la potestà genitoriale sul minore, peraltro assai mitigate in seguito agli emendamenti introdotti in sede di conversione. Vi è anche un altro istituto che mitiga la previsione dell’obbligo e lo coordina con le esigenze di tutela della salute individuale e collettiva e di garanzia dell’autodeterminazione individuale: il sistema di monitoraggio periodico ex art. 1, comma 1-ter, del decreto legge n. 73, nella versione definitiva, il quale consente di rivalutare e riconsiderare la scelta attraverso il monitoraggio della dinamica evolutiva dei livelli di copertura e della incidenza delle patologie virali, arrivando fino alla cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini e al ritorno alla raccomandazione.
Gli elementi di flessibilizzazione previsti dalla normativa denotano, a dire della Corte, «che la scelta legislativa a favore dello strumento dell’obbligo è fortemente ancorata al contesto ed è suscettibile di diversa valutazione al mutare di esso», come se l’imposizione dell’obbligo di un trattamento sanitario vada considerata quale extrema ratio, misura necessaria ad aumentare i livelli di tutela della salute individuale e collettiva, senza comprimere in misura assoluta e senza scadenza la libertà di autodeterminazione individuale.
In altri termini, la Corte applica al tema della legittimità dell’obbligo vaccinale il principio di proporzionalità e ne esegue il relativo test di congruità dei mezzi rispetto al fine: nel caso concreto, limitare l’autodeterminazione individuale risponde ad uno scopo legittimo? Sussiste un nesso causale tra la limitazione della libertà e lo scopo (legittimo) che si persegue? La prevista misura rappresenta il mezzo meno invasivo della libertà personale?
L’altro aspetto su cui le indicazioni della Corte appaiono piuttosto chiare e consolidate riguarda l’individuazione del soggetto legittimato dalla Costituzione ad imporre un tale obbligo sanitario.
Con le sentenze n. 5 del 2018 e 137 del 2019[16] è stato infatti spiegato come lo stesso debba necessariamente essere disposto sulla base di una legge o di un atto avente forza di legge statale e come non sia sufficiente una fonte di rango regionale. La materia vaccinale e dei trattamenti sanitari obbligatori, infatti, si rivela essere particolarmente delicata anche perché si pone al crocevia di varie materie sensibili, tutte di competenza statale.
Quanto invece alla possibilità di desumere un obbligo vaccinale nuovo dal sistema legislativo primario già vigente la Corte costituzionale non ha fornito risposta, evitando di trattare specificamente questo punto. Nella stessa sentenza n. 137 del 2019, ampiamente richiamata dal Giudice messinese nell’ordinanza cautelare in commento, nonostante in quella sede si cerchi di farle dire più di quanto abbia in realtà detto, la Corte ha lambito tale questione, limitandosi ad un esame selettivo della normativa regionale impugnata per evidenziare come la disciplina regionale non abbia introdotto nuove regole in materia sanitaria e di tutela della salute, quanto piuttosto abbia dettato istruzioni sull'organizzazione dei servizi sanitari della Regione, proprio evitando così di esaminare la questione centrale, ovverosia se un obbligo sanitario possa essere desunto dalle leggi vigenti e da una lettura sistematica e integrata dell’ordinamento[17].
La conclusione cui pare potersi giungere dall’analisi della consolidata giurisprudenza costituzionale è che la Corte chiede al legislatore di basarsi sulla scienza e sulla sua continua evoluzione per stabilire quale mezzo impiegare per promuovere la somministrazione di massa di un trattamento sanitario a tutela della salute individuale e collettiva, insieme, perché sono solo la ricerca scientifica e le sue conquiste ad assicurare il giusto ed quo contemperamento tra libertà e solidarietà, nel rapporto tra libertà ed autorità in attuazione del patto di solidarietà costituzionale. Al contempo, la Corte è altrettanto chiara nel ritenere che sussiste, ed è bene che sussista, un margine di discrezionalità politica nella scelta delle politiche sanitarie e nella valutazione del contesto, sociale ed economico, e del rischio, sulla base della consapevolezza che può esservi discrasia tra la normatività medica e quella giuridica.
6. Il vaccino come obbligo nel rapporto di lavoro: le tesi che sono state assunte in dottrina.
Tutto ciò chiarito su di un piano generale e spostandoci all’interno del rapporto di lavoro, il quesito cui, a questo punto, occorre cercare risposta riguarda la possibilità, per il datore di lavoro, di pretendere che i propri dipendenti si vaccinino contro il Sars-Cov-2.
Sul punto il dibattito è particolarmente caldo e sono intervenuti i maggiori esponenti della dottrina giuslavorista ciascuno su posizioni diverse.
6.1. Le tesi favorevoli.
Per semplificare, la risposta affermativa alla possibile obbligatorietà del vaccino per disposizione del datore di lavoro è sostenuta da molti Autori[18] sulla base del seguente e comune schema normativo: innanzitutto l’art. 2087 c.c., diretta estrinsecazione dell’art. 32 Cost., costituisce una norma aperta che impone al datore di lavoro di aggiornare i propri presidi di sicurezza interni e di adottare tutte quelle misure, anche e soprattutto preventive, che la migliore scienza, tecnica ed esperienza dovessero scoprire e suggerire, in qualunque momento. Così, i protocolli sottoscritti dalle parti sociali nello scorso mese di aprile e resi obbligatori dal legislatore per ridurre il rischio di contagio da Covid nei luoghi di lavoro non possono essere considerati in senso statico, ma sempre soggetti all’obbligo di aggiornamento dinamico previsto proprio dall’art. 2087 c.c., di cui sono attuazione: sperimentato e reso disponibile il vaccino, questo deve rientrare in quella previsione dinamica dell’art. 2087.
Nella stessa direzione depone anche l’art. 279 del Testo unico sulla sicurezza, d.lgs. n. 81 del 2008, il quale fa obbligo al datore di lavoro di mettere «a disposizione vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente». La norma non richiede che i vaccini siano obbligatori, ma solamente efficaci dal punto di vista medico-sanitario, e quindi può trattarsi anche di vaccini semplicemente raccomandati[19].
Ancora, la direttiva della Commissione europea dello scorso 3 giugno 2020 n. 2020/739, recepita in Italia con l’art. 4, d.l. n. 125 del 2020, convertito dalla legge n. 159 del 2020, ha espressamente incluso il SARS-CoV-2 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche nell’ambiente lavorativo, con ciò superando ogni dubbio ermeneutico sollevato sulla qualificabilità di questo virus come agente biologico presente nelle lavorazioni di qualunque tipo.
Sotto altro aspetto, l’art. 20 del medesimo testo unico istituisce una correlazione tra gli obblighi del datore e quelli del lavoratore disponendo che «ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo del lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro», così confermando il principio di collaborazione e prevenzione su cui è costruito l’intero sistema normativo di sicurezza sul lavoro, in attuazione del principio solidaristico di matrice costituzionale già visto.
La stessa normativa d’emergenza, quando ha ribadito per via legislativa la qualificazione della infezione da coronavirus per causa lavorativa come infortunio sul lavoro, secondo la nostra tradizione sistemica, ha esposto il datore di lavoro a tutti gli obblighi di prevenzione ed alle responsabilità previste dalla legislazione sulla sicurezza sul lavoro in relazione al nuovo rischio infettivo pandemico (art. 42, comma 2, d.l. n. 18/2020 convertito nella legge n. 27/2020).
Il vero punto controverso, su cui si registra una ampia varietà di soluzioni adottate, attiene alle conseguenze giuridiche nell’ambito del rapporto di lavoro del rifiuto a vaccinarsi del dipendente.
Secondo una prima tesi, ed è quella sostenuta da Pietro Ichino, tutta la vicenda deve essere letta in chiave di idoneità o inidoneità ad adempiere correttamente l’obbligazione lavorativa (Ichino parla anche di «prontezza», al proposito). Secondo l’Autore la domanda da porsi è se, durante la pandemia da Covid-19, un luogo di lavoro nel quale tutti siano vaccinati contro il virus realizzi condizioni di sicurezza contro il rischio dell’infezione apprezzabilmente maggiore, rispetto ad altro luogo di lavoro nel quale una parte dei dipendenti non sia vaccinata. Se le indicazioni della scienza medica sono univocamente nel senso della risposta positiva, quando il singolo datore di lavoro, in relazione alle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro nella propria azienda, con l’assistenza del medico competente, ravvisi nella vaccinazione contro il Covid-19 una misura utile per ridurre apprezzabilmente il rischio specifico di trasmissione dell’infezione a causa del contatto tra le persone in seno all’azienda, «egli ha il potere/dovere contrattuale – e non solo – di adottare questa misura, consigliata dalla scienza e dall’esperienza, ed esigerne il rispetto da parte dei dipendenti come parte dell’obbligazione contrattuale gravante su di loro, salvo il caso di un motivo giustificato che sconsigli a una determinata persona di sottoporvisi»[20]. Perdurante la pandemia, nel caso di rifiuto oggettivamente ingiustificato della vaccinazione da parte del dipendente, l’Autore definisce «sconsigliabile» applicare la sanzione del licenziamento disciplinare, considerata la possibilità che venga contestata la sussistenza dell’elemento psicologico necessario ai fini della configurabilità della mancanza grave[21], mentre è più ragionevole qualificare il comportamento come impedimento di carattere oggettivo alla prosecuzione della prestazione lavorativa. Anche rispetto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quando sarà cessato il relativo divieto congiunturale in vigore, l’Autore indica come soluzione migliore, dove possibile, la sospensione della prestazione fino alla fine della pandemia, salvo ovviamente che siano possibili soluzioni organizzative diverse (lavoro da remoto o disponibilità di posizione di lavoro, anche di contento professionale inferiore, che consenta l’isolamento rispetto agli altri dipendenti, fornitori e utenti), «anche in considerazione dell’effetto controproducente che potrebbe avere l’adozione di una politica aziendale più minacciosa»[22].
In termini congruenti si esprime anche Arturo Maresca secondo il quale il datore di lavoro può trarre dalla scelta del dipendente di non vaccinarsi tutte le conseguenze che ne derivano sul piano giuridico, «verificando se l’esecuzione della prestazione sia oggettivamente e temporaneamente impossibile con la liberazione dall’obbligo retributivo (art. 1256, co. 2, c.c.). Una verifica da effettuare non in astratto, ma in concreto avendo riguardo alla prevenzione del rischio di contagio e tenendo conto della compresenza con altri lavoratori (vaccinati e non) o di eventuali contatti che il lavoratore deve intrattenere con utenti/clienti. Un giustificato motivo oggettivo di licenziamento sarebbe ipotizzabile soltanto se la perdurante impossibilità di utilizzo del dipendente dovesse impedire il funzionamento dell’attività produttiva»[23].
La posizione illustrata assume una soluzione concreta, pratica e cauta, oltre a rivelarsi pienamente compatibile anche con la recente giurisprudenza di legittimità, protesa a riconoscere al datore di lavoro un grado di responsabilità per non aver garantito la serenità del dipendente rispetto a terzi[24]. E la sospensione – finanche la risoluzione – del contratto di lavoro potrebbe essere una delle soluzioni per non incorrere in questa responsabilità.
Sulla stessa scia si pone anche la tesi sostenuta da Raffaele Guariniello[25], che basa il suo ragionamento su di un dato normativo che ritiene ignorato sia in dottrina che in giurisprudenza, nell’ordinanza cautelare del Tribunale di Messina, qui in commento: la già citata Direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020, già recepita nell’ordinamento italiano[26], che, nel dichiarato intento di garantire il rigoroso rispetto e l’applicazione delle disposizioni nazionali che recepiscono le norme dell’Unione in materia di salute e sicurezza sul lavoro a tutela di tutti i lavoratori ovunque nell’Unione contro la pandemia di Covid‐19, classifica la SARS-CoV-2 come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3 ed estende al Covid-19 le misure di prevenzione previste nella Direttiva 2000/54/CE dedicata alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti biologici durante il lavoro e adottate, in Italia, con le diposizioni contenute nel Titolo X del d.lgs. n. 81/2008, prime fra tutte la «individuazione e valutazione dei rischi» (artt. 3 e seguenti), la sorveglianza sanitaria e, nel suo ambito, le vaccinazioni (art. 14). Secondo Guariniello il legislatore europeo e quello italiano hanno collocato l’infezione da Covid-19 tra i rischi che i datori di lavoro sono tenuti a valutare e a prevenire, così smentendo quanti sostengono che il Covid-19 rappresenti una situazione esterna riverberabile sui lavoratori all’interno dell’ambiente di lavoro a seguito di dinamiche esterne, non controllabili dal datore di lavoro. «Basta, a questo punto, lasciarsi condurre per mano dal Titolo X del D.Lgs. n. 81/2008, e, in particolare, dopo aver letto gli artt. 271, comma 4, e 266, comma 1, soffermarsi sull’art. 279, comma 2, dello stesso decreto legislativo, ove si prescrivono la messa a disposizione di vaccini efficaci e l'allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure di quell’art. 42 che - piaccia o no - impone al datore di lavoro di attuare le misure indicate dal medico competente, e, qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica, di adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza». L’Autore evidenzia come: il medico competente non possa esimersi dall’esprimere un giudizio di inidoneità del lavoratore quando il datore di lavoro, proprio su conforme parere dello stesso medico competente, abbia doverosamente messo il vaccino a disposizione di quello specifico lavoratore, ma sia stato da costui rifiutato; sotto altro profilo, il datore di lavoro non possa trascurare i doveri stabiliti nell’art. 18, comma 1, lettere g) e bb), d.lgs. n. 81/2008, di vigilare sul rispetto degli obblighi del medico competente e di adibire i lavoratori alla mansione soltanto se muniti del giudizio di idoneità, e più in generale il dovere imposto dalla lettera c) di quello stesso articolo 18, di tenere conto, nell'affidare i compiti ai lavoratori, «delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza». La conclusione che Guariniello espone, però, si spinge oltre e prevede che, «ove sia provato che l’inosservanza di tali obblighi sia causa di un’infezione da covid-19, può sorgere a carico del datore di lavoro come del medico competente l’addebito di omicidio colposo o lesione personale colposa. Perché la colpa può consistere, non solo nell’omessa adozione delle misure prescritte nei protocolli, nelle linee guida, negli accordi, emergenziali di cui parla l’ormai celebre art. 29-bis del decreto Liquidità (d.l. n. 23/2020), ma anche e soprattutto nella negligenza, imprudenza, imperizia, ovvero nella violazione delle specifiche leggi in materia di sicurezza sul lavoro, a cominciare dal d.lgs. n. 81/2008»[27].
Altra tesi autorevolmente sostenuta, invece, immagina come conseguenza del rifiuto ingiustificato a vaccinarsi la irrogabilità di un licenziamento di tipo disciplinare[28] poiché la mancata vaccinazione configurerebbe propriamente e tipicamente un inadempimento contrattuale[29].
Di questo avviso è Roberto Riverso che, ponendo l’accento sulla valenza duplice del principio di solidarietà e su quell’orientamento, già visto, della Corte costituzionale in forza del quale è irrilevante la distinzione tra vaccini meramente raccomandati o imposti dal legislatore ai fini del diritto solidaristico all’indennizzo per le conseguenze pregiudizievoli e permanenti sofferte dall’individuo per essersi sottoposto al trattamento stesso, e strutturando l’argomentazione sulla base delle disposizioni normative già illustrate, qualifica il virus come un fattore di rischio professionale, e definisce il tema del vaccino come un trattamento «di cui il datore di lavoro non può disinteressarsi e di cui lo stesso datore deve prescrivere, per tempo, l’assunzione, quale necessaria misura di prevenzione e protezione per la tutela della salute e per l’accesso nei luoghi di lavoro»[30]. Riverso sottolinea come nel sistema di sicurezza sociale, sulla base del principio di prevenzione su cui è costruito, agli obblighi del datore ne corrispondono altrettanti in capo al lavoratore disciplinati dall’art. 20 del testo unico, il quale prevede proprio quello di contribuire all'adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, di osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro e, per quanto qui rileva, soprattutto quello di prendersi cura della propria salute e di quella dei colleghi e di tutti gli altri soggetti presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni. L’Autore ritiene che nell’ambito del rapporto di lavoro, il dipendente deve essere tutelato, per legge, anche contro la sua volontà e, soprattutto, vanno tutelati i colleghi ed i terzi dai rischi discendenti dalla sua volontà. «In questa diversa prospettiva il nodo che si discute sembrerebbe già risolto dalla legge in una chiave solidaristica: il lavoratore non può, in nome del proprio diritto alla libertà di cura, decidere di mettere a repentaglio l’incolumità altrui (…) In ambito lavorativo, l’ordinamento obbliga il lavoratore a prendersi cura della salute altrui ed a considerare l’effetto potenzialmente nocivo della sua omissione: quando il rischio esista, il vaccino sia disponibile e sia efficace».[31] Da ciò consegue che la mancanza della vaccinazione richiesta dal datore di lavoro, a fronte del rischio, «potrebbe in effetti rilevare in chiave di violazione degli obblighi legali incombenti sul lavoratore in base al rapporto di lavoro», sia nel caso di rischio biologico specifico di cui all’art. 279 del testo unico, sia in ogni altro caso di rischio qualificato o aggravato, legittimando «una reazione disciplinare che può comportare una sanzione di diversa gravità, a seconda della reale situazione di fatto e dei diversi contesti aziendali, in base al principio di proporzionalità». Quanto alla congruità della sanzione massima e non conservativa, l’Autore propende per un’interpretazione «che miri a responsabilizzare al massimo le parti del rapporto, a fronte della drammatica pandemia. Anche perché mi pare elusivo, sul piano sistematico, far scadere il rifiuto di una misura di sicurezza come il vaccino – pregnante questione contrattuale, imputabile alla volontà di una parte – a mera inidoneità professionale: come se il lavoratore fosse malato, o incapace a svolgere le mansioni, mentre è renitente agli obblighi di protezione citati. È una tesi che, a ben vedere, indebolisce anche le tutele, conservative e retributive, modulabili meglio sul piano soggettivo, col principio di proporzionalità, piuttosto che attraverso la fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta fondata esclusivamente sulla valutazione del residuo interesse alla prestazione del creditore»[32].
Aldo De Matteis, ricostruendo anch’esso i termini del problema sulla base della nozione di rischio ubiquo, rischio professionale interno ed esterno insieme, atto a mettere in pericolo la salute del dipendente, dei colleghi e di tutti i terzi, si rifà alla scala presuntiva di rischio elaborata dall’Inail specificamente nella circolare 3 aprile 2020 n. 13, posta la qualificazione della infezione da coronavirus in occasione di lavoro come infortunio sul lavoro[33]. Su queste premesse, evidenzia come la dottrina abbia operato un passaggio ulteriore[34]: il lavoro prestato durante la fase pandemica costituisce di per sé solo fattore di aggravamento del rischio di contagio. Nel caso di infezione da coronavirus, l’aggravamento del rischio è costituito dall’aggregazione sociale per ragioni lavorative: aggregazione interna, con altri colleghi, o esterna, per i contatti imposti per ragioni lavorative con una pluralità di soggetti. Ciò posto, la nozione accolta da De Matteis di rischio ubiquo, «ai fini correlati della copertura assicurativa e della responsabilità del datore di lavoro verso i dipendenti e verso i terzi, comporta due conseguenze: da una parte risulta arduo ipotizzare categorie immuni dal rischio di contagio; dall’altra la difficoltà di misure conservative quali la ricollocazione in ambienti protetti da tale rischio, salvo lo smart working»[35].
Una posizione intermedia è poi occupata da chi, da una parte, esclude che il datore di lavoro possa, in linea generale, imporre a un proprio dipendente un trattamento sanitario personale come il vaccino anti-Covid in assenza di una specifica previsione di legge, ma dall’altra, prevede due eccezioni alla regola, sempreché le condizioni di salute del lavoratore consentano la somministrazione del vaccino: «la prima è quando l’obbligo di vaccinarsi può essere ricondotto al codice deontologico del lavoratore (esempio medico o infermiere in situazioni ad elevatissimo rischio di contagio); la seconda quando il vaccino può essere necessario per garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro», e questo perché, nella prima ipotesi «vengono meno i requisiti di idoneità professionale, il lavoratore non è più abilitato a svolgere la propria attività e può essere persino licenziato» e nel secondo caso «molto dipende da quanto è indispensabile il vaccino al fine di garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro. Nell’effettuare questa valutazione rilevanza prioritaria devono avere le condizioni oggettive in cui viene resa la prestazione e la effettiva disponibilità di un vaccino efficace»[36]. Quanto, poi, alle conseguenze per l’ipotesi del rifiuto ingiustificato del dipendente di sottoporsi al vaccino quando questo gli sia obbligatorio, Zoppoli propende, più che per l’opportunità di un intervento del legislatore, per una regolamentazione specifica delle sanzioni nella contrattazione collettiva.
6.2. Le tesi contrarie.
Non mancano anche posizioni – per vero minoritarie – più scettiche sulla possibilità di introdurre un obbligo vaccinale sulla base delle disposizioni già vigenti, se non addirittura contrarie[37], che si fondano sulla convinzione che le disposizioni riportate, singolarmente considerate, non integrano la riserva di legge disposta dall’art. 32 della Costituzione, aderendo ad una interpretazione maggiormente garantista della libertà individuale di autodeterminazione e ritenendo necessaria una legge ad hoc[38].
Inoltre, e più specificamente, vi è chi evidenzia come gli obblighi imposti dalle disposizioni del Testo Unico non possano trovare concreta applicazione nel caso del vaccino anti Covid in quanto il datore di lavoro non si trova nelle condizioni di poter adempiere alle prescrizioni di cui al citato articolo 279 poiché le risorse e la procedura di vaccinazione sono ancora tutte in mano all’autorità sanitaria pubblica e non si può sostenere che siano nella disponibilità del datore[39].
Sul piano, comunque, delle posizioni che escludono la possibilità giuridica dell’irrogabilità del licenziamento, vi è chi sostiene che l’idea di evocare l’istituto del licenziamento in caso di rifiuto da parte del lavoratore di sottoporsi alla vaccinazione sia una posizione priva di fondamento normativo[40]. Anche nel caso in cui il datore di lavoro fosse obbligato ad integrare il sistema di sicurezza, procurando la possibilità della vaccinazione, si ritiene che non possa in ogni caso ritenersi che sorga un medesimo obbligo per il lavoratore di sottoporsi al trattamento perché il dipendente, in base a fondate prescrizioni mediche, può avere ragioni ostative al vaccino tra cui, secondo questa opinione, anche motivi legati alla paura e alla convinzione personale, arrivando così a giustificare anche un rifiuto da parte dei c.d. no-vax. In ogni caso, si precisa, per giungere a paventare un’ipotesi di licenziamento, il datore di lavoro dovrebbe affrontare un percorso ad ostacoli: in primis, dimostrare che la misura del vaccino sia indispensabile per tutelare la salute anche negli ambienti di lavoro e dei colleghi e che non vi siano misure alternative adeguate e ragionevolmente sufficienti (dispositivi di sicurezza, metodi di disinfezione, smart working, etc.); inoltre, non va dimenticato che sul datore di lavoro incombe sempre l’onere di provare a ricollocare il dipendente, magari su posizioni organizzative che presentino profili di rischio di contagio minori.
6.3. La posizione del Giudice del lavoro di Messina nell’ordinanza cautelare.
L’ordinanza di Messina in commento risponde al dibattito con argomentazioni di carattere generale pur sfiorando solamente il tema della possibile obbligatorietà del vaccino contro il Covid nell’ambito del rapporto di lavoro, nella misura in cui sono pronunciate in relazione alla vaccinazione anti influenzale comune.
La decisione sviluppa, en passant, il tema dell’intersecazione della disciplina dell’obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro con la condizione della sottoposizione o meno a vaccini antivirali in contesti professionali a rischio qualificato di contagio, per concentrarsi piuttosto «sull’asseribile incidenza del potere amministrativo sul diritto costituzionale alla salute, nell’esplicazione dell’incoercibilità del consenso ai trattamenti sanitari».
Il ragionamento proposto dal Giudice si sviluppa per punti consequenziali partendo dalla constatazione che il provvedimento aziendale dell’Ospedale di Messina che attuava il decreto assessoriale regionale debba essere considerato una scelta quanto mai opportuna, non censurabile e obbligata del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., pena la sua responsabilità per avere colposamente violato una norma precauzionale vigente, sia pure di rango secondario.
Ciò posto il Tribunale ritiene comunque che il provvedimento aziendale, nell’imporre un requisito di idoneità del lavoratore, non possa definirsi ragionevole e proporzionato per l’illegittimità – accertata in un procedimento a trattazione sommaria – della decisione assessoriale.
Nell’ordinanza in commento, pur riconoscendosi che gli operatori sanitari e il personale di laboratorio fanno parte delle categorie maggiormente a rischio, per le quali i piani nazionali vaccinali hanno sempre attestato questo maggiore grado di esposizione a malattie infettive prevenibili con programmi ben impostati di vaccinazione – ritenuti capaci di ridurre in modo sostanziale i rischi sia di acquisire pericolose infezioni occupazionali, sia di trasmettere patogeni ad altri lavoratori e soggetti con cui i lavoratori possono entrare in contatto –; sono stati indicati come destinatari privilegiati di una serie di specifiche vaccinazioni al fine di un adeguato intervento di immunizzazione attiva, ritenuto fondamentale non soltanto per la protezione del singolo operatore, ma soprattutto per la garanzia nei confronti dei pazienti, ai quali l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali; rappresentano una categoria target per la vaccinazione antinfluenzale, ai fini della protezione del singolo, della riduzione della diffusione dell'influenza a gruppi vulnerabili di pazienti e del mantenimento dell’erogazione dei servizi sanitari durante epidemie influenzali; ciononostante si sostiene che l’assenza di una norma di legge statale che renda espressamente obbligatorie specifiche vaccinazioni precluda tout cour la possibilità di ritenere sussistente un tale obbligo in capo ai dipendenti. A sostegno di ciò vi sarebbero le disposizioni dei piani nazionali vaccinali e delle circolari ministeriali annuali in tema che prevedono solo una forte raccomandazione e la sentenza n. 137 del 2019 della Corte costituzionale, già richiamata, per la quale, sulla base del combinato disposto degli artt. 32 e 117 Cost., la competenza legislativa in materia sanitaria spetta allo Stato, unico legittimato ad imporre trattamenti sanitari.
Un ultimo punto della decisione merita di essere segnalato: il Giudice messinese ritiene che l’attività di controllo svolta dal datore di lavoro per il tramite del medico competente e la prevista trasmissione dell’elenco dei lavoratori che non aderiscono alla campagna vaccinale al medico competente, in accompagnamento alla richiesta di visita per gli accertamenti di cui all’art. 41 d.lgs 81/2008, non sia pregiudizievole del diritto alla privacy dei lavoratori «in quanto è diretta esplicazione del diritto del datore di lavoro, in quanto obbligato all’adozione di misure di prevenzione del rischio professionale, di richiedere al professionista medico l’accertamento dell’idoneità alle mansioni».
Come è chiaro, nella prima occasione in cui la questione dell’obbligatorietà vaccinale è approdata nelle aule di giustizia, la giurisprudenza ha assunto una posizione contraria alla possibilità di ritenere sussistente un tale obbligo sulla base delle disposizioni già vigenti, a massima protezione della libertà di autodeterminazione dell’individuo; una posizione, però, che si presta a qualche riflessione critica.
In primo luogo, l’ordinanza pare essere contraddittoria nella misura in cui esclude l’introduzione di un obbligo a vaccinarsi se non per legge dello Stato, ma, senza prevedere quali strumenti il datore di lavoro possa adoperare e come possa gestire una tale situazione, riconosce a chiare lettere e in più punti la doverosità di considerare, nell’organizzazione del lavoro e nell’attuazione della sua posizione di garanzia verso la salute e la sicurezza dei dipendenti e di tutti i terzi che entrino in contatto con quelli, il fattore vaccinale, ritenendo non irrilevante, ai fini della sua responsabilità, anche colposa, l’accertamento e il controllo sulla renitenza o la sottoposizione a vaccino dei lavoratori. E se ciò viene sostenuto per il vaccino antinfluenzale comune, tanto più vale e non può non valere per il vaccino anti Covid.
In secondo luogo, l’ordinanza si basa su una analisi del quadro normativo parziale, non considerando la direttiva europea n. 739 del 2020, già recepita con legge italiana, né l’intero sistema di sicurezza sul lavoro e, in ultima analisi, vuole far dire alla Corte costituzionale più di quanto abbia in effetti detto, come si è evidenziato supra.
7. Considerazioni conclusive.
In conclusione, il quadro, così ampiamente tracciato, suggerisce di porre in termini il più possibile chiari e schematici qualche considerazione di sintesi per cercare di sciogliere una materia fortemente complessa e intrecciata di libertà individuali, solidarietà collettive, misure di emergenza e stato d’eccezione, che si scontra con la gestione ordinaria e straordinaria dei rapporti di lavoro.
Pare, pertanto, che si possa sostenere che:
a) i vaccini in generale, e il vaccino anti-Covid in particolare, dovrebbero essere correttamente intesi nella società e nelle sedi politiche non solo come trattamenti sanitari, ma anche come beni comuni, tra le misure preventive più efficaci per la realizzazione del patto di solidarietà costituzionale finalizzato alla tutela della salute individuale e collettiva, con un rapporto rischi/benefici particolarmente positivo, riconoscendo loro un valore non solo sanitario, ma anche etico intrinseco di particolare rilevanza[41];
b) il virus SARS-CoV-2 è stato qualificato e classificato, dalla Direttiva (UE) n. 739 del 2020, come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3 e al Covid-19 sono state estese le misure di prevenzione previste nella Direttiva 2000/54/CE dedicata alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti biologici durante il lavoro e adottate in Italia nel Titolo X del d.lgs. n. 81/2008. La citata direttiva è stata già recepita nell’ordinamento italiano mediante apposite modifiche proprio del Testo unico sulla sicurezza con due decreti legge già convertiti (artt. 4, d.l. 7 ottobre 2020, n. 125 come convertito dalla legge 27 novembre 2020, n. 159, e art. 17, d.l. 9 novembre 2020 n. 149 inserito nell’art.13-sexiesdecies del d.l. Ristori 28 ottobre 2020, n. 137 come convertito dalla legge 18 dicembre 2020 n. 176);
c) un intervento legislativo positivo statale non si è avuto né per rendere obbligatoria la vaccinazione contro il virus SARS-CoV-2 (solo fortemente raccomandata negli atti governativi più recenti), né in senso generale né per determinate categorie di soggetti particolarmente a rischio, né per esplicitare le conseguenze nel rapporto di lavoro, ai fini della responsabilità del datore di lavoro, di quell’aggiornamento degli agenti patogeni cui le attività lavorative sono state ritenute esposte ex lege; d)la Corte costituzionale è chiara nel ribadire la natura ambivalente del vaccino, quale misura atta a proteggere la salute dell’individuo e della collettività, l’obiettivo che la Costituzione intende perseguire con le campagne vaccinali (la massima copertura possibile della popolazione), la necessità di una normativa statale che renda obbligatorio un determinato vaccino e il diritto costituzionalmente necessario all’indennizzo per chiunque si sottoponga ad un vaccino, obbligatorio o raccomandato che sia, per le conseguenze dannose permanenti subite;
e) mentre non è altrettanto chiara nel ritenere necessario, ai fini della corretta attuazione dell’articolo 32 Cost., un intervento normativo ad hoc ovvero nel ritenere possibile anche il desumere la sussistenza di un tale obbligo dalla normativa già vigente: sul punto la Corte non si è espressa. In più occasioni ha, invero, sostenuto come sia necessario, ai fini della decisione sulla legittimità o meno dell’imposizione di determinati trattamenti sanitari, valutare ed evidenziare le circostanze concrete fattuali e contingenti sulla base delle quali giustificare ed adottare le scelte di politica sanitaria;
f) nell’ambito del rapporto di lavoro, il datore è per legge garante della salute e della sicurezza dei propri lavoratori e collaboratori e di tutti coloro che entrano in contatto con questi nei locali aziendali e in occasione di lavoro. La normativa d’emergenza ha riconosciuto la natura professionale del contagio da Covid nei luoghi di lavoro ponendo anche un meccanismo presuntivo per determinate attività lavorative ritenute maggiormente esposte al rischio infettivo;
g) le parti sociali, nell’aprile 2020, hanno stipulato dei protocolli di sicurezza, che la legge ha reso obbligatori e integrativi delle previsioni dell’art. 2087 c.c., per consentire la ripresa in sicurezza delle attività lavorative: in quei protocolli non si fa menzione del vaccino anti covid, necessariamente successivo a quelli, ma le procedure e i dispositivi di protezione anti contagio sono entrati così a far parte dell’obbligo di sicurezza gravante tanto sui datori di lavoro quanto sui lavoratori.
Tutto ciò posto e considerato, mi pare si possa concludere che, allo stato, il datore non può imporre ai propri dipendenti l’obbligo di sottoporsi al vaccino anti Covid, ma deve, in prima battuta, attivamente promuovere la campagna vaccinale e farsi promotore di una adeguata e seria informativa sul trattamento sanitario in discorso per favorire nella misura massimamente possibile una adesione volontaria e consapevole al vaccino e, in secondo luogo, sul piano degli obblighi di sicurezza e prevenzione ex art. 2087 c.c. e dell’intero sistema di sicurezza sul lavoro, specialmente ex art. 279 del testo unico, prevedere un procedimento di controllo e pretendere dai suoi dipendenti e collaboratori una certificazione attestante la loro avvenuta vaccinazione, assumendo le necessarie informazioni, nel rispetto della privacy sui lavoratori vaccinati e non, per poter accettare la loro prestazione o prendere le necessarie cautele[42].
Il comportamento del lavoratore che non si è sottoposto al vaccino e ne rifiuta la somministrazione, infatti, pur non assumendo rilievo disciplinare[43], comporta necessariamente delle conseguenze in termini di valutazione oggettiva della sua idoneità alle mansioni, da accertarsi mediante il procedimento di sorveglianza sanitaria previsto dal Testo unico e con la collaborazione, quale corresponsabile del datore, del medico competente.
Il datore di lavoro pertanto, sulla base della certificata renitenza, ingiustificata da motivi sanitari, alla vaccinazione del dipendente, dovrà valutare attentamente la rilevanza nel caso concreto dell’art. 42, d.lgs. n. 81/2008, sull’inidoneità alla mansione specifica espressa dal medico compente, per verificare con quale strumento gestire il rapporto di lavoro. Il datore, dopo aver controllato l’impossibilità dell’obbligo di repechage, anche eventualmente adibendo il dipendente a mansioni inferiori, se accettate dal lavoratore, potrà sospendere unilateralmente il rapporto, senza retribuzione e senza contribuzione, fintanto che perduri la condizione di inutilizzabilità dello stesso, arrivando in ipotesi anche a disporre un licenziamento per motivo oggettivo quando, per decorso del tempo, la prestazione del lavoratore sia divenuta inutile per la sua organizzazione.
Vero è che il datore di lavoro non può essere costretto ad adeguare la sua organizzazione, anche in termini di organico dei lavoratori dipendenti, per consentire l’esercizio di un diritto, seppure di rilevanza costituzionale, ad un suo dipendente che non intende vaccinarsi, ma l’adozione di una soluzione non conservativa del rapporto appare, allo stato incauta e pericolosa[44].
In conclusione, la esigenza costituzionale prioritaria di garantire la persona, nella sua libertà di autodeterminazione e nella sua salute suggerirebbe l’opportunità di un intervento chiaro ed esplicito in materia del legislatore, opportuno anche per evitare che si dia luogo ad un contenzioso infinito per i mesi successivi e ad una situazione di incertezza nella gestione quotidiana dei rapporti di lavoro, facendo propri gli auspici del Comitato Nazionale per la Bioetica che, in tema di obbligatorietà del vaccino, si augura che «sia rispettato il principio che nessuno dovrebbe subire un trattamento sanitario contro la sua volontà preferendo l’adesione spontanea rispetto all’imposizione autoritativa, ove il diffondersi del senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della diffusione della pandemia lo consentano», ma che, «nell’eventualità che perduri la gravità della situazione sanitaria e l’insostenibilità a lungo termine delle limitazioni alle attività sociali ed economiche, non vada esclusa l'obbligatorietà dei vaccini soprattutto per gruppi professionali che sono a rischio di infezione e trasmissione di virus; tale obbligo dovrà essere revocato qualora non sussista più un pericolo significativo per la collettività»[45].
[1] Sulla qualificazione del Covid-19 come agente biologico e sulla conseguente necessità per l’Azienda di aggiornare il DVR, si rinvia all’articolata disamina di L. M. Pelusi, Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in DSL, 2019, n. 2, 122- 137, reperibile al link https://www.repertoriosalute.it/wp-content/uploads/2020/04/Prof.-Pelusi-su-Corona-Virus.pdf. Per un approfondimento sul tema cfr. anche P. Pascucci, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del D.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL, 2020, n. 1; pp. 117-135; P. Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in DSL, 2019, n. 2, pp. 98-121; R. Guariniello, La sicurezza sul lavoro al tempo del coronavirus, ed. Wolters Kluwer Italia, 2020; G. Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, WP CSDLE “Massimo D’An- tona”.IT – n. 413/2020; S. Dovere, Covid-19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi, in Giustizia Insieme, 22 aprile 2020, n. 1016; V. Filì, Covid-19 e rapporti di lavoro, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi, Welfare e lavoro nella emergenza epidemiolo- gica, Volume I, ADAPT e-Book, n. 93, 2020.
[2] M. Basilico, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in questa Rivista, 22 gennaio 2021, reperibile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[3] R. Riverso, L’obbligo del vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questione Giustizia, 2021, consultabile al link https://www.questionegiustizia.it/articolo/l-obbligo-del-vaccino-anti-covid-nel-rapporto-di-lavoro-tra-principio-di-prevenzione-e-principio-di-solidarieta?idn=26&idx=28230&idlink=3&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=20210123.
[4] In relazione al problema dell’accesso alla vaccinazione, sicuramente attuale vista la carenza e la limitatezza delle dosi disponibili, occorre chiedersi, esiste un diritto ad essere vaccinati? Ad essere vaccinati entro un certo limite temporale? Quali priorità sono riscontrabili, se vi sono, tra la popolazione nell’accesso al vaccino? La Costituzione offre criteri per determinare l’ordine giusto ed equo di vaccinazione?
Ed ancora, in relazione al problema dell’indennizzo, è bene chiedersi, esiste un diritto all’indennizzo per qualunque tipo di vaccinazione? Ne è richiesta l’obbligatorietà o è sufficiente la sua raccomandazione da parte delle forze politiche e dalle autorità sanitarie?
[5] Ordinanza emessa nell’ambito di un giudizio cautelare d’urgenza dal Tribunale di Messina, sezione lavoro, n. 23455 del 12 dicembre 2020.
[6] A. De Matteis, Art. 32 della Costituzione: diritti e doveri in tema di vaccinazione anti-Covid, in Virus, stato di eccezione e scelte tragiche. Le politiche del lavoro, economiche e sociali e la tutela dei diritti fondamentali nei tempi incerti dell’emergenza sanitaria e della crisi. La costruzione di un nuovo diritto del lavoro. Conversazioni sul lavoro a distanza da agosto 2020 a marzo 2021 promosse e coordinate da Vincenzo Antonio Poso, nella collana Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi; il contributo è di prossima pubblicazione ne Il Giuslavorista.
[7] Basti pensare alla legge n. 891/1939 sull’obbligo di vaccino contro la difterite, alle dieci vaccinazioni obbligatorie previste dal d.l. n. 73/2017, conv. in legge n. 119/2017. Significative anche le leggi 5 marzo 1992 n. 292 e 20 marzo 1965 n. 419 sull’obbligo di vaccinazione antitetanica per determinate categorie di lavoratori. In tali situazioni il legislatore italiano ha sancito l’obbligatorietà del vaccino per determinate infezioni e per puntuali categorie di soggetti esposti, imponendo anche l’obbligo di esibire, ove richiesta, la relativa certificazione sanitaria.
[8] La legge di bilancio 2021, legge n. 178/2020, si occupa del piano strategico nazionale dei vaccini con numerose disposizioni, c. 457 ss., dettando misure di carattere amministrativo per la sua attuazione capillare, senza imporre l’obbligo individuale di vaccinazione. Il d.l. n. 1 del 2021, in continuità con la legge n. 219 nel 2017, ribadisce la necessità del consenso per le vaccinazioni non obbligatorie e detta criteri per l’espressione del consenso da parte di persone incapaci ricoverate presso strutture sanitarie assistite a mezzo dei rispettivi tutore, curatore, amministratore di sostegno e, in ultima analisi, direttore sanitario, o, in caso di contrasto, giudice tutelare. Si rinvia a F. Spaccasassi, Ospiti delle RSA e consenso alla vaccinazione anti Covid-19: un percorso ad ostacoli?, e L. Fumagalli, Le vaccinazioni anti Sars-CoV-2 delle persone incapaci «ricoverate presso strutture sanitarie assistite». Prima lettura dell’articolo 5 d.l. n. 1/2021, tutti in Questione giustizia, 27 gennaio 2021.
[9] A. De Matteis, cit.
[10] Si veda l’orientamento granitico espresso dalla Corte in numerose sentenze, tra cui, ex plurimis, n. 107 del 2012, n. 226 del 2000, n. 118 del 1996, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990.
[11] La Corte chiarisce come l’obbligatorietà deve essere prescritta per legge o per ordinanza di un’autorità sanitaria.
[12] La Corte spiega che la raccomandazione di una vaccinazione può emergere da una serie variegata di atti: insistite e ampie campagne anche straordinarie di informazione e raccomandazione da parte delle autorità sanitarie pubbliche nelle loro massime istanze; distribuzione di materiale informativo specifico; informazioni contenute sul sito istituzionale del Ministero della salute; decreti e circolari ministeriali; piani nazionali di prevenzione vaccinale; oppure la stessa legge. Nel caso specifico della vaccinazione antinfluenzale, poi, si mostra particolarmente significativo quanto espresso nei Piani nazionali di prevenzione vaccinale, che, affiancando la vaccinazione antinfluenzale ad altri tipi di vaccinazioni raccomandate e indicando i rispettivi obiettivi di copertura, definiscono la complessiva programmazione vaccinale; le raccomandazioni del Ministero della salute adottate specificamente, per ogni stagione, con riferimento alla vaccinazione antinfluenzale; le campagne informative istituzionali del Ministero della salute, oltre che delle Regioni.
[13] I passaggi riportati tra virgolette nel capoverso sono tutti tratti dalla citata sentenza della Corte costituzionale, n. 268/2017.
[14] Per il riconoscimento del diritto all’indennizzo deve essersi verificata una menomazione permanente conseguente alla somministrazione del vaccino e deve essere giudizialmente accertato il nesso di causalità tra la somministrazione stessa e la menomazione subita.
[15] Si ricorderà come, a tale scopo, l’art. 1, c. 4, d.l. n. 73/2017 ha inserito un apposito colloquio tra le autorità sanitarie e i genitori, istituendo un momento di incontro personale, strumento particolarmente favorevole alla comprensione reciproca, alla persuasione e all’adesione consapevole.
[16] Quest’ultima ampiamente richiamata anche dall’ordinanza cautelare del Giudice del lavoro messinese.
[17] La normativa regionale pugliese censurata, in quell’occasione, è stata ritenuta compatibile con la riserva di legge di cui all’art. 32 Cost. poiché si sarebbe limitata a dettare «esclusivamente una disciplina sull'organizzazione dei servizi sanitari della Regione, senza discostarsi dai principi fondamentali nella materia “tutela della salute” riservati alla legislazione statale ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost., senza introdurre obblighi vaccinali di nuovo conio e, comunque, senza imporre obbligatoriamente ciò che a livello nazionale è solo suggerito o raccomandato». Nel dettaglio, la normativa regionale si limitava a precisare che il rispetto delle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente (anche PNPV) avrebbe costituito un onere per l’accesso degli operatori sanitari ai reparti individuati con la delibera della Giunta regionale. Così prevedendo, spiega la Corte, «la disposizione impugnata si muove nel solco del PNPV vigente, il quale infatti indica per gli operatori sanitari alcune specifiche vaccinazioni in forma di raccomandazione, sulla base della fondamentale considerazione che un adeguato intervento di immunizzazione degli operatori sanitari non solo protegge gli interessati, ma svolge un ruolo di “garanzia nei confronti dei pazienti ai quali”, date le loro particolari condizioni di vulnerabilità, “l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali”» (così, C. Cost. n. 137/2019).
[18] P. Ichino, Perché e come l’obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, in LavoroDirittiEuropa, 1/2021; R. Riverso, L’obbligo di vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questione giustizia, 18/1/2021; A. De Matteis, cit.; R. Guariniello, Covid- 19: l’azienda può obbligare i lavoratori a vaccinarsi?, in www.ipsoa.it 28.12.2020; V.A. Poso, Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in Labor on-line, 27.1.2021.
[19] R. Riverso, cit.
[20] P. Ichino, Perché e come l’obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, in LavoroDirittiEuropa, 1/2021, cit. l’Autore evidenzia come la circostanza della eccezionale brevità dei tempi necessari ad ottenere l’autorizzazione alla somministrazione del vaccino confermi che l’intera comunità scientifica e politica mondiale ritenga urgente la vaccinazione di massa su scala planetaria, sulla base di un confronto tra l’entità e la gravità degli eventuali effetti collaterali dell’inoculazione del vaccino e l’entità e gravità estrema dei danni certi derivanti dalla pandemia in atto. «Se dunque è del tutto ragionevole il rilascio accelerato dell’autorizzazione da parte delle autorità competenti, non può non ritenersi ragionevole anche l’adozione di questa misura da parte del titolare di un’azienda».
[21] Ichino ritiene che la renitenza del dipendente alla vaccinazione sia in astratto suscettibile di essere trattata allo stesso modo del rifiuto di una qualsiasi altra misura di sicurezza che nei casi più gravi può portare al licenziamento disciplinare, ma che l’intensità del dibattito politico in corso negli ultimi anni sull’obbligo delle vaccinazioni in generale, e su quello della vaccinazione contro il Covid-19 in particolare, possa avere un’incidenza sull’elemento psicologico indispensabile per il configurarsi della mancanza disciplinare grave. Per questo, indica come preferibile la qualificazione del rifiuto alla vaccinazione come impedimento di carattere oggettivo alla prosecuzione della prestazione, piuttosto che come mancanza disciplinare.
[22] P. Ichino, cit.
[23] A. Maresca, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in questa Rivista, 22 gennaio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[24] Cass. 4 dicembre 2020, n. 27913. Trattasi di un caso in cui un lavoratore era stato vessato da un altro collega e il datore di lavoro non aveva adottato le giuste misure di precauzione per evitare che si concretizzasse un caso di mobbing.
[25] R. Guariniello, Covid-19: l’azienda può obbligare i lavoratori a vaccinarsi?, in www.ipsoa.it, 28 dicembre 2020; Id., Sorveglianza sanitaria: vaccino obbligatorio per i lavoratori?, in DPL, 2021, n. 1, pp. 27-34; nonché da ultimo Id., Sul vaccino per i lavoratori contro il Covid-19 si applichi la legge!, in www.ipsoa.it, 16 gennaio 2021 (è questa la versione da cui, qui, si cita).
[26] La Direttiva n. 739 del 3 giugno 2020 è stata recepita nel nostro ordinamento con due decreti legge già convertiti (artt. 4, d.l. 7 ottobre 2020, n. 125 come convertito dalla legge 27 novembre 2020, n. 159, e 17, d.l. 9 novembre 2020 n. 149 inserito nell’art.13-sexiesdecies del d.l. c.d. ristori 28 ottobre 2020, n. 137 come convertito dalla legge 18 dicembre 2020 n. 176).
[27] R. Guariniello, Sul vaccino per i lavoratori contro il Covid-19 si applichi la legge!, cit.
[28] Osserva G. Cazzola, Il vaccino anti Covid e il licenziamento del dipendente, in www.startmag.it, 2 gennaio 2021, che «il lavoratore potrebbe avere dei buoni motivi, come tali riconosciuti dalla legge o dai protocolli» per rifiutare la somministrazione del vaccino. «Ma solo quelli. Perché, in caso contrario, il datore potrebbe avvalersi del suo potere disciplinare e, alla fine, risolvere il rapporto».
[29] P. Iervolino, Sul licenziamento del dipendente no-vax: «Ignorantia excusat», in www.paoloiervolino.it, 29 dicembre 2020. L’Autore, tuttavia, osserva che «il lavoratore avrebbe colpa solo se dalle sue azioni, o meglio obiezioni, derivassero effetti sulle altre persone presenti sul luogo di lavoro. Ed un effetto tangibile al momento vi sarebbe solo per gli operatori sanitari, gli unici lavoratori che sappiamo avere la possibilità immediata di vaccinazione. Gli effetti andrebbero invece ad affievolirsi man mano che ci si avvicina alla c.d. immunità di gregge».
[30] R. Riverso, L’obbligo di vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questione giustizia, 18/1/2021.
[31] R. Riverso, op. ult. cit.
[32] R. Riverso, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in questa Rivista, 22 gennaio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[33] Il sistema di tutela costruito dall’Inail su scala presuntiva basata su di un criterio probabilistico suddivide le attività lavorative individuando il diverso grado, per ciascuna, dell’aggravamento del rischio pandemico per cause lavorative e, così, pone al vertice gli operatori sanitari, indipendentemente dal reparto in cui operano, cui equipara i lavoratori in costante contatto con il pubblico, oltre ad altri lavoratori cui possa applicarsi la stessa presunzione semplice di contagio (quali, a mero titolo esemplificativo, gli operatori delle Residenze sanitarie assistenziali, RSA, i tassisti, gli addetti alla pulizia negli studi medici, e simili). Per queste categorie di lavoratori si applica una presunzione semplice di professionalità del contagio per il solo fatto di svolgere quella data attività lavorativa. Lo stesso strumento presuntivo è stato applicato anche all’infortunio in itenere, considerato che nel mezzo di trasporto pubblico il rischio di contagio è più elevato, trattandosi di ambiente confinato con più persone, con la conseguenza che, da una parte, ai lavoratori che si avvalgano del trasporto pubblico si applica la presunzione di origine professionale, anche se non appartenenti alle categorie professionali esemplificate sopra; dall’altra l’uso del mezzo privato costituisce in questa fase pandemica una ulteriore ipotesi di mezzo necessitato.
[34] S. Giubboni, Covid 19: Obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, in WP CSDLE MASSIMO D’ANTONA, maggio 2020; G. Ludovico, Il contagio da Covid 19 come infortunio sul lavoro tra copertura Inail e responsabilità civile, in RDSS, 2020, II, 353.
[35] A. De Matteis, Art. 32 della Costituzione: diritti e doveri in tema di vaccinazione anti-Covid, cit. L’Autore conclude con l’auspicio della dottrina e delle parti sociali di un intervento chiarificatore del legislatore, come già avvenuto con l’art. 29-bis legge n. 40/2020, anche nel senso della obbligatorietà, e richiama le dichiarazioni di esponenti governativi che non escludono misure più cogenti nel caso in cui il metodo persuasivo non raggiunga il suo obiettivo, ulteriore dimostrazione della indipendenza della regolazione privatistica rispetto al contingente comando statale.
[36] L. Zoppoli, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in Giustizia insieme, 22 gennaio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[37] Sul punto, cfr. Covid: legale Rsa, personale non vaccinato è inidoneo, in www.ansa.it, 29 dicembre 2020.
[38] O. Mazzotta, Vaccino anti-Covid e rapporto di lavoro, in LavoroDirittiEuropa, n. 1/2021; A. Perulli, Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in Labor on-line, 27.1.2021.
[39] G. Falasca, Non si può licenziare il dipendente che rifiuta di vaccinarsi, in www.open.online.it, 25 dicembre 2020.
[40] F. Scarpelli, Rifiuto del vaccino e licenziamento: andiamoci piano!, in www.linke- din.com, 29 dicembre 2020. Propende per negare la possibilità al datore di lavoro di licenziare il dipendente che si rifiuti di vaccinarsi anche G. Pellacani, Vi spiego perché non si può licenziare chi non si vaccina contro Covid-19, in www.startmag.it, 1° gennaio 2021, sebbene con alcune eccezioni. Osserva, infatti, l’Autore che «il primo aspetto da considerare è il contesto nel quale si svolge l’attività lavorativa, perché una soluzione valida per tutti e per tutte le stagioni non è ragionevolmente prospettabile. Occorre in particolare distinguere tra ambienti di lavoro in cui il Coronavirus-2 (SARS-CoV-2) sia introdotto intenzionalmente nel ciclo produttivo (laboratori) o in cui la presenza dello stesso non possa essere evitata (strutture sanitarie) dagli altri ambienti di lavoro». Nel primo caso, il vaccino risulterebbe una misura da assumere nel rispetto delle previsioni di legge in materia (art. 279 del d.lgs. n. 81/2008), per tutelare la salute dei lavoratori secondo l’esperienza e la tecnica. Nel secondo caso, invece, «in assenza di previsioni legali di portata generale o particolare, la questione si pone invece in termini differenti e con- duce ad escludere la possibilità di configurare, in capo al lavoratore, un obbligo di vaccinazione e la conseguente possibilità, in caso di rifiuto, di spostamento a mansioni di- verse o di licenziamento».
[41] In questo senso, le raccomandazioni del Comitato Nazionale per la Bioetica espresse nel documento I vaccini e covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, del 27 novembre 2020.
[42] In senso conforme, V. A. Poso, cit.
[43] Diverso sarebbe il caso in cui i Protocolli siglati dalle parti sociali venissero aggiornati e venisse lì introdotta una qualche previsione relativa al vaccino anti covid: in quel caso, il contravvenire a quelle regole cautelari si colorerebbe di illiceità, offrendo al datore di lavoro la possibilità di contestare l’addebito al dipendente e, all’esito del procedimento previsto per legge, irrogargli la sanzione ritenuta la più proporzionata rispetto alla gravità del comportamento anti-disciplinare posto in essere.
[44] Si concorda con le preoccupazioni espresse da Ichino nel suo articolo, già ricordate. V., P. Ichino, Perché e come l’obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, cit.
[45] Comitato Nazionale per la Bioetica, I vaccini e covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, 27 novembre 2020, cit.
Rivive il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale?
di Carlo Citterio
1. All’udienza del 28 gennaio 2021 le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, chiamate a rispondere al quesito “se, in caso di annullamento ai soli effetti civili della sentenza di condanna, pronunciata in appello senza previa rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, a seguito di gravame della sola parte civile contro la sentenza di assoluzione di primo grado, il rinvio debba essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello o a quello penale” hanno risposto affermando il principio di diritto che “il rinvio deve essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen., che così dispone con riferimento a tutti i casi di annullamento che abbiano ad oggetto esclusivamente le statuizioni ad effetti civili” [ricorso n. 5219/2020, ordinanza di rimessione n. 30858/2020, ric. Cremonini].
2. Si tratta di una decisione di rilevantissima importanza, per le implicazioni che dovrebbe, o almeno potrebbe, comportare anche su una serie di altre questioni determinate dalla possibilità di protrarre l’esercizio dell’azione civile nel processo penale pur dopo la conclusione dell’esercizio dell’azione penale.
Attendiamo con grande interesse le motivazioni della sentenza, perché dalle stesse si trarranno le indicazioni per comprendere se torneremo, finalmente, a restituire al senso sistematico del principio dell’accessorietà dell’azione civile nel processo penale un’efficacia di sicuro orientamento nelle soluzioni giurisprudenziali di tali questioni ovvero se proseguirà il recente approccio, che pare ancorato all’affermazione di un reciproco diritto di (ex)-imputato e (presunta) persona offesa danneggiata (o presunto mero soggetto danneggiato) di pretendere comunque la deliberazione del giudice penale. Tale ‘pretesa’ comportando poi il rispetto non già delle sole “forme” della procedura (art. 573, comma 1, cod. proc. pen.: L’impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale), bensì pure delle peculiari garanzie che la legge processuale penale impone per poter affermare la responsabilità penale, quella che comporta applicazione di sanzioni di natura penale e che, solo come tale, trova anche in sede di normativa e giurisdizione europea specifiche peculiari tutele. Tutele in tale sede per il vero mai estese, in eguale natura dimensione e prospettiva, alla mera azione civile.
3. Valga, per tutte, la questione dell’applicabilità dell’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale nel caso di “appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”, previsto dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen..
La dizione della norma introdotta dalla legge n. 103/2017 è chiarissima: limita l’obbligo al caso dell’appello del pubblico ministero, quindi all’impugnazione che determina prosecuzione dell’esercizio dell’azione penale. E si tratta di norma che segue (e quindi conosce) il diverso approdo delle precedenti sentenze Dasgupta (27620/2016) e Patalano (18620/2017).
Lo hanno riconosciuto le stesse Sezioni Unite nella sentenza n. 14426/2019, ric. Pavan, p. 9: “La norma - avendo evidente natura eccezionale rispetto alle previsioni di cui ai precedenti commi, ed essendo, quindi, di stretta interpretazione - ha sì introdotto una nuova ipotesi di ammissione d'ufficio delle prove (art. 190, comma 2, cod. proc. pen.), ma l'ha disciplinata limitando l'obbligo ("dispone") di rinnovazione dell'istruttoria alle seguenti condizioni: a) che il soggetto impugnante sia il pubblico ministero (non, quindi, la parte civile);”.
La vicenda è davvero emblematica.
Tre appunto gli obiettivi dati di fatto: una giurisprudenza precedente che estende in via interpretativa l’obbligo anche al caso dell’impugnazione della parte civile (strutturalmente diverso per gli interessi sottesi alle azioni penale e civile); una norma successiva (l’art. 603, comma 3-bis) che, consapevole di tale giurisprudenza e della disciplina dell’art. 576, cod. proc. pen. (che anche alla parte civile riconosce il diritto di impugnare le sentenze di proscioglimento), riserva l’obbligo di rinnovazione al solo caso dell’impugnazione, quella della parte pubblica, che determina la prosecuzione dell’azione penale (e quindi la permanenza della qualità di imputato nell’appellato pur assolto in primo grado); una sentenza delle Sezioni Unite successiva (Pavan) che riconosce la inequivoca scelta normativa e l’afferma.
E tuttavia si impone la giurisprudenza estensiva che, bypassando la novità normativa e ignorando la sentenza Pavan, si àncora al precedente Dasgupta, seguito dalla sentenza Patalano. Ma se si ritorna al testo della sentenza Dasgupta (pregevolissima e condivisibile per l’impostazione sul piano penale) si deve constatare che il principio estensivo era nato in termini sostanzialmente assertivi: “8.5. Inoltre, lo stesso è da dire nella ipotesi in cui il rovesciamento della pronuncia di assoluzione di primo grado sia sollecitata nella prospettiva degli interessi civili, a seguito di impugnazione della sola parte civile (in questo ordine di idee, Sez. 6, n. 37592 del 11/06/2013, Manna, Rv. 256332), essendo anche in questo caso in gioco la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica; tanto che anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione probatoria di ufficio ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.”
L’affermazione avrebbe dovuto confrontarsi con il fatto obiettivo che, terminata l’azione penale, l’imputato rimane nel processo solo come “convenuto”, e la parte civile è non più la “persona offesa” (né mai lo è stata se soggetto solo danneggiato) ma l’ “attore”, e che pertanto si è davanti ad un’azione a contenuto solo civile che prosegue, depurata di ogni implicazione sanzionatoria penalistica, e il cui rito mantiene “le forme” del processo penale (573, comma 1), non necessariamente i suoi principi probatori (sicché la reinterpretazione del principio di accessorietà dell’azione civile avrebbe dovuto essere oggetto di specifico esame e pertinente spiegazione; ma, a ben vedere considerando il caso oggetto della sentenza Dasgupta, l’estensione del principio all’impugnazione della parte civile era sostanzialmente un obiter dictum: il pericolo del quale sta proprio nella mancata possibilità dello sviscerare tutte le implicazioni della questione).
Proprio su quest’ultimo passaggio (i principi probatori) attendiamo con interesse vivo la motivazione delle Sezioni Unite Cremonini. Perché la giurisprudenza non occasionale che le Sezioni Unite hanno disatteso nasceva dall’improvviso reciso rifiuto della Terza sezione civile della Corte di cassazione di adeguarsi, nei giudizi di rinvio ex art. 622, cod. proc. pen., ai principi penalistici di valutazione della prova.
4. Rinviamo dunque necessariamente ogni approfondimento alla lettura della motivazione della sentenza Cremonini. Con almeno due aspettative per i giudici penali d’appello.
La prima. Che si aprano strade interpretative sicure per restituirli alla funzione propria pertinente: innanzitutto e specialmente tutti i processi in cui è in atto l’esercizio dell’azione penale, allontanando il rischio inabissante di distogliere le non adeguate risorse per rispondere ad una tipologia di domanda e di incombenze procedurali che, nel processo penale, non trovano giustificazione mentre possono ancora trovare piena efficace e ‘naturale’ tutela nella sede civile propria. Basti pensare, per rendere la concretezza del problema e la gravità delle sue implicazioni, che il disegno di legge del Ministro Bonafede (C.2435, Camera dei Deputati in discussione alla Commissione Giustizia) contiene anche una norma, l’art. 13, che tra l’altro indica quale contenuto della delega: la previsione che le parti o i loro difensori possano presentare istanza di immediata definizione del processo quando siano decorsi i termini di durata dei giudizi in grado di appello (e in cassazione) stabiliti ai sensi dell’art. 12 (due anni per l’appello), dovendo i processi essere definiti ‘entro’ sei mesi dall’istanza di immediata definizione, con (ma questa ormai pare la bacchetta magica per risolvere i problemi a costo zero) possibili conseguenze disciplinari per il dirigente che non ha organizzato per assicurare il rispetto di tali termini e il giudice che non li abbia rispettati. Sia chiaro: con la giurisprudenza prevalente fino al 28 gennaio, vorrebbe dire che il giudice penale d’appello passerebbe il suo tempo a trattare solo i processi con azione penale in corso e parte civile (anche se bagatellari) ovvero le assoluzioni (intervenute dopo pieno contraddittorio e quindi quantomeno con presunzione di infondatezza della pretesa civilistica) con impugnazione delle sole parti civili, in questo secondo caso rinnovando pressoché in tutti i processi l’istruttoria. Con buona pace delle aspirazioni dei cittadini ad avere dalla giustizia penale, per le azioni penali esercitate e in atto, processi giusti e in tempi ragionevoli, con decisioni nel merito e non per prescrizione dei reati.
La seconda. Che si rifletta davvero in termini sistematici sull’attualità o meno di un principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale, per comprendere, così e per esempio, se davvero (come sorprendentemente conclude Sezioni Unite sentenza 28911/2019, ric. Massaria/Papaleo): “Nei confronti della sentenza di primo grado che abbia dichiarato l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come nei confronti della sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammissibile l'impugnazione della parte civile ove con la stessa si contesti l'erroneità di detta dichiarazione (In motivazione la Corte ha precisato che la legittimazione della parte civile ad impugnare deriva direttamente dalla previsione dell'art. 576, comma 1, cod. proc. pen., mentre l'interesse concreto deve individuarsi nella finalità di ottenere, in caso di appello, il ribaltamento della prima pronuncia e l'affermazione di responsabilità dell'imputato, sia pure ai soli fini delle statuizioni civili, e, in caso di ricorso in cassazione, l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile in grado di appello, ex art. 622 cod. proc. pen., senza la necessità di iniziare "ex novo" il giudizio civile).
Difficile comprendere perché la legittimazione ad impugnare (576) debba assorbire l’interesse ad impugnare (568, comma 4) e perché, appunto “se” l’azione civile è accessoria, la parte civile abbia interesse ad impugnare una sentenza (erronea dichiarazione di prescrizione in primo grado) che non fa stato nei suoi confronti nel senso che (ex art. 651 ss, cod. proc. pen.) non le impedisce di rivolgersi, con la stessa impregiudicata domanda, al giudice civile, originario referente fisiologico della sua domanda; ed invece il giudice d’appello debba fare (in ipotesi) tutta l’istruttoria non svolta in primo grado per assecondare una scelta preferenziale discrezionale di una parte “accessoria” al processo penale, pure al di fuori di alcun pregiudizio giuridicamente rilevante (che il contingente interesse di fatto per sé mai rileva), mentre i ‘suoi’ processi penali corrono verso la prescrizione.
Ecco. Attendiamo che la motivazione Cremonini ci confermi che nel codice di rito esiste ancora il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale.
Formazione progressiva del giudicato ed esecuzione della pena (nota a SS.UU. 3423/21 del 29/10/20).
di Giuseppe Amara
Il presente rapido lavoro da riscontro alla sentenza n. 3423/21 depositata dalle Sezioni Unite lo scorso 27 gennaio con la quale è stata decisa la controversa questione relativa agli effetti, in punto di esecuzione delle pene principali, del principio della formazione progressiva del giudicato e alla relativa competenza a decidere.
Sommario: 1. Il caso. - 2. Sull’evoluzione giurisprudenziale del giudicato progressivo.- 3. I termini del conflitto.- 4. La decisione delle Sezioni Unite.- 5. Principio di diritto enunciato.
1. Il caso
La vicenda processuale muove dall’impugnazione di un’ordinanza emessa dalla Corte di Appello territoriale che, in parziale accoglimento della richiesta difensiva, dichiarava esecutiva una sentenza (limitatamente alla pena di anni quattro, mesi cinque e giorni dieci di reclusione), trasmettendo gli atti alla Procura Generale per l'emissione dell’ordine di carcerazione. Nel pronunciarsi, la Corte territoriale rilevava che, erroneamente, la Procura Generale aveva emesso un ordine di esecuzione ritenendo che la Corte di Cassazione avesse dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato avverso la sentenza d’appello, con la quale la Corte di Appello territoriale aveva riformulato la pronuncia di primo grado, condannando l’imputato alla pena di anni sette di reclusione per i reati di cui agli artt. 74 (capo 13) e 73 (capo 8), d.P.R. 309/90, con l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante dell'associazione armata contestata al capo 13; diversamente, la Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello territoriale, in relazione al reato sub 13, esclusivamente con riguardo alla sussistenza della circostanza aggravante di cui al comma 4 dell'art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, e in relazione al capo 8, limitatamente alla qualificazione giuridica ai sensi dell'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309/90.
Con l’ordinanza impugnata, la Corte di Appello precisava come il principio della formazione progressiva del giudicato (art. 624 c.p.p.) debba trovare applicazione soltanto con riferimento alla pena minima inderogabile prevista per i reati oggetto dei capi della sentenza non sottoposti ad annullamento. Nel caso di specie, in ordine alla contestazione di cui al capo 13, sostanzialmente, l’accertamento della responsabilità era da ritenersi passato in giudicato, rilevando, l’annullamento con rinvio, esclusivamente sulla valutazione della sussistenza della circostanza aggravante di cui al comma 4 dell’art. 74 d.Pr. 309/90 (con assorbimento dei motivi afferenti il bilanciamento con le circostanze di cui all’art. 62 bis c.p.) e, dunque, in ogni caso, la pena minima, da un computo astratto, non sarebbe potuta essere inferiore ad anni quattro, mesi cinque e giorni dieci di reclusione, così calcolata: pena base determinata in anni dieci di reclusione; operata sulla medesima la massima diminuzione per le circostanze attenuanti generiche — già applicate dalla sentenza di primo grado e ritenute da tale pronuncia equivalenti alla circostanza aggravante dell'associazione armata - e tenuto conto della riduzione di un terzo per il rito abbreviato).
L'ordinanza veniva impugnata dalla difesa per violazione dell'art. 624 c.p.p. che segnalava come, nel caso di specie, l’annullamento con rinvio relativamente alla circostanza aggravante di cui all'art. 74, comma 4, d.P.R. n. 309/90 avrebbe potuto avere una serie di effetti in concreto ostativi ad un’eseguibilità anche parziale; innanzi tutto sarebbe circostanza idonea ad incidere sul quantum della pena, in un’ottica di bilanciamento tra attenuanti generiche, già riconosciute, ma ritenute “soltanto” equivalenti alle aggravanti contestate. Ancora, la rideterminazione della pena potrebbe assumere rilievo, in sede esecutiva, per individuare, ai fini della continuazione, la violazione più grave ed inoltre è circostanza idonea ad incidere in ambito penitenziario (accesso alle misure alternative alla detenzione e fruizione di benefici penitenziari). Infine, veniva rimarcata la dubbia possibilità di ricorrere al giudizio di revisione, non passata in giudicato la sentenza nella sua interezza.
La Prima Sezione penale investiva della questione le Sezioni Unite, rilevando un duplice profilo di conflitto che richiedeva un intervento definitorio. In particolare, veniva ravvisato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sia in ordine al tema della c.d. soglia minima di pena eseguibile, in caso di annullamento con rinvio solo in punto di trattamento sanzionatorio, accertata l’affermazione di responsabilità, che a quello relativo alla competenza funzionale a decidere (giudice dell’esecuzione o Corte di Cassazione).
2. Sull’evoluzione giurisprudenziale del giudicato progressivo
Le Sezioni Unite, nella pronuncia qui riportata, muovono da un ampio excursus sull’evoluzione giurisprudenziale del giudicato progressivo e sui riflessi in tema di eseguibilità della pena. Premessa concettuale da cui muove la Corte è la piena compatibilità del principio della formazione del giudicato progressivo con il sistema processuale, sulla scorta del disposto di cui all’art. 624 comma 1 c.p.p. in base al quale: “se l'annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata».
Dalla lettura della norma, primo dubbio interpretativo è quella relativo al termine “parti”, ovvero se vada inteso come riferito ai “capi”, ovvero anche ai “punti” della sentenza.
Il primo richiamo operato è a Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216239 (ripresa anche da Sez. U, n. 10251 del 17/10/2006, dep. 2007, Michaeler, Rv. 235700) che, in estrema sintesi, individua quale “capo” della sentenza la decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all’imputato (processo con esercizio di più azioni penali e pluralità di rapporti processuali afferenti ad una singola imputazione, sentenza c.d. plurima o cumulativa). Il “punto” è invece, sostanzialmente, un sottoinsieme del “capo” e può essere ritenuto tale ogni passaggio della decisione che, in un’autonoma valutazione, purché indispensabile per il giudizio sul reato, concorre a formare la statuizione sul “capo” della sentenza. “Punti” della decisione sono, pertanto, l'accertamento del fatto, la responsabilità personale dell'imputato, la qualificazione giuridica, l'inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, l'accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio.
Le Sezioni Unite Tuzzolino chiariscono, innanzi tutto, la distinzione fra giudicato progressivo e sistema di preclusioni correlate all’effetto devolutivo delle impugnazioni ove, in caso di sentenza di condanna e di mancata impugnazione sulla responsabilità dell’imputato, con devoluzione al giudice dell’impugnazione esclusivamente del punto relativo alla determinazione della pena, pur creandosi la preclusione sul profilo dell’accertamento della responsabilità, il relativo capo non avrà autorità di cosa giudicata che si potrà formare, esclusivamente, quando su tutti i punti vi sia stato pronunciamento, con la conseguenza del positivo rilievo di eventuali cause sopravvenute di estinzione del reato. Tale assunto, chiariscono le Sezioni Unite, non confligge con l’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 624 comma 1 c.p.p., in quanto norma speciale applicabile soltanto ai giudizi di annullamento con rinvio, che attribuisce autorità di cosa giudicata sia ai capi che ai singoli punti della decisione, con sequenziale inapplicabilità, da parte del giudice del rinvio investito dei soli punti afferenti la determinazione della pena, delle cause sopravvenute di estinzione del reato (fra cui, in primis, la prescrizione del reato). In tale interpretazione, è evidente dunque come il termine “parti” utilizzato dall’art. 624 c.p.p., deve intendersi come “punto” e non come “capo” della decisione.
Un primo arresto in punto di giudicato progressivo, sul quale poi si è inserita la giurisprudenza successiva è Sez. U, n. 373 del 23/11/1990, Agnese, Rv. 186164 (conforme Sez. U, n. 6019 del 11/05/1993, Ligresti, Rv. 193418), pronuncia che ha ribadito come l'autorità di cosa giudicata vada riconosciuta anche ai punti non oggetto di annullamento. Il giudicato progressivo può, infatti, riguardare sia in caso di annullamento di uno o più capi d'imputazione, sia nel caso in cui ricada su uno o più punti, questo perché il relativo giudizio si è esaurito e dunque è da intendersi irrevocabile (con sequenziale limite alla rilevanza delle cause estintive del reato sopravvenute all’autorità di cosa giudicata formatasi sull’accertamento della responsabilità non oggetto di annullamento con rinvio). Diverso è invece il profilo dell’eseguibilità della sentenza che presuppone un vero e proprio titolo esecutivo che richiede “la materiale e giuridica possibilità dell’esecuzione della sentenza”. Sez. U, n. 6019 del 11/05/1993, Ligresti, Rv. 193418 ha dunque ulteriormente precisato come l’autorità di cosa giudicata possa formarsi anche su statuizioni della decisione dotati di autonomia giuridica – concettuale.
Sul solco dell’interpretazione dell’art. 624 c.p.p., la Corte, nella pronuncia in oggetto, richiama Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196886 che, muovendo dalla dicotomia tra definitività ed eseguibilità, aggiunge al dibattito, una riflessione sul “rapporto di connessione essenziale” tra pronuncia annullata e pronuncia non annullata che ove esistente impedisce alla parte non annullata di acquisire l’autorità di cosa giudicata è che da intendersi come “necessaria interdipendenza logico-giuridica tra le parti suddette nel senso che l'annullamento di una di esse provochi inevitabilmente il riesame di altra parte della sentenza seppur non annullata, sollecitando su entrambe i poteri di giudizio e, quindi, la decisione del giudice”.
Ancora, di interesse per il tema qui controverso risulta Sez. U, n. 20 del 09/10/1996, Vitale, Rv. 206170 che ammette la possibilità di porre in esecuzione le “statuizioni della sentenza non ulteriormente modificabili e relative alla totalità dei capi di imputazione”, di fatto riferendosi al caso in cui il perimetro del giudizio del rinvio non abbia alcuna concreta possibilità di influenzare il trattamento sanzionatorio del capo integralmente deciso.
Ulteriormente esplorativa del tema risulta essere Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640, che, dopo aver ribadito che il giudicato progressivo sull’affermazione della responsabilità impedisce l’applicazione di cause estintive del reato da parte del giudice del rinvio, afferma, nettamente, come il giudicato non sempre vada di pari passo con l’esecutività della decisione, ben potendo essersi il giudicato – progressivo – formato solo su punti della sentenza e non anche sul capo unitariamente inteso (ad esempio, proprio in punto di determinazione pena) ed infatti l’irrevocabilità potrebbe non coincidere con la definitività della statuizione.
Di interesse, il successivo richiamo della Corte, alla giurisprudenza della Consulta (ord. n. 367 del 1996) che ha riconosciuto la legittimità costituzionale del giudicato progressivo, peraltro rimarcando la necessaria distinzione che deve intercorrere tra giudicato e possibilità di porlo in esecuzione.
3. I termini del conflitto
Secondo un primo orientamento, da ritenersi maggioritario, i capi della sentenza non oggetto di annullamento con rinvio e dunque che abbiano acquisito autorità di cosa giudicata devono essere, obbligatoriamente, posti in esecuzione dalla competente a.g. (Sez. 1, n. 4506 del 10/12/1990, dep. 1991, Teardo, Rv. 186838); invero, sulla base del presupposto per cui l’esecutività non può che riguardare un “capo” nella sua interezza, è stata esclusa la possibilità di mettere in esecuzione la pena, sia pure limitatamente alla parte di essa calcolata tenendo conto della possibile applicazione, nella massima estensione, delle circostanze attenuanti generiche, in caso di annullamento di una sentenza di condanna unicamente sul punto concernente l'applicabilità o meno delle stesse (Sez. 1, n. 575 del 12/02/1993, Fracapane, Rv. 193656). Ancora, “valorizzando la nozione di capo della sentenza quale decisione emessa relativamente a uno dei reati attribuiti all'imputato e il suo connotato di oggetto della singola azione penale e del singolo rapporto processuale confluito nel processo cumulativo”, può essere messa in esecuzione quella decisione dotata di “autonomia giudico-concettuale” su una singola imputazione, non in connessione essenziale con parti annullate della sentenza (Sez. 2, n. 6287 del 15/12/1999, dep. 2000, Piconi, Rv. 217857). Ad esempio, in questo solco, non è eseguibile la sentenza nella parte relativa ad un capo in ipotesi di rinvio di altri capi, avvinti dal vincolo della continuazione, allorquando, potenzialmente uno di questi capi possa essere ritenuto violazione più grave (Sez. 1, n. 32477 del 19/06/2013, Dello Russo, Rv. 257003), limite che invece non rileva in caso di annullamento di reati satellite e, dunque, con un minimo di pena da espiare certo (Sez. 1, n. 6189 del 17/12/2019, dep. 2020, Castiglione, Rv. 278473). Di interesse, fra le pronunce richiamate dalla Corte, Sez. 1, n. 30780 del 05/07/2018, Fiesoli, la quale ha precisato come “il fatto che il risultato finale non potrà consistere in una pena inferiore a quella ora posta in esecuzione non significa che la pena sia stata già definita». Dunque, non si ha connessione essenziale nella misura in cui risulti irrevocabile un capo ed il relativo trattamento sanzionatorio non possa avere riflessi dalla decisione sull’annullamento con rinvio. Ed ancora, se la decisione contiene già l’indicazione della pena minima che deve espiare questa deve essere messa in esecuzione, in quanto l'eventuale rinvio non incide sull'immediata eseguibilità delle statuizioni residue aventi propria autonomia (Sez. 5, n. 2541 del 02/07/2004, dep. 2005, Pipitone, Rv. 230891; conf. Sez. 6, n. 3216 del 20/08/1997, Maddaluno, Rv. 208873). Fuori da tale perimetro, le sentenze sono ineseguibili, con sequenziali riflessi processuali, ad esempio, in tema di termini di durata della misura cautelare che dovranno essere conteggiati, non risultando la detenzione ascrivibile alla fase dell’esecuzione della pena (Sez. 4, n. 10674 del 19/02/2013, Macrì, Rv. 254940; Sez. 6, n. 273 del 05/11/2013, dep. 2014, Elia, Rv. 257769).
La Procura Generale, nel formulare le proprie richieste, sostanzialmente, ha inteso condividere tale primo prevalente orientamento, chiedendo l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata e dell'ordine di esecuzione emesso dalla Procura Generale competente, in particolare segnalando che in caso di annullamento con rinvio per il solo trattamento sanzionatorio, la formazione del giudicato progressivo riguarda esclusivamente l'accertamento del reato e la responsabilità dell'imputato; il favor esecutionis deve infatti assumere una posizione recessiva rispetto al favor libertatis che potrebbe essere compromesso in caso di calcoli ipotetici rimessi agli organi dell'esecuzione, peraltro a mente i riflessi negativi, già segnalati dal ricorrente, rilevanti in ambito penitenziario.
Un secondo orientamento, minoritario, di contrario avviso, accosta, all’autorità di cosa giudicata, l’esecutività della condanna, pur in presenza di un annullamento con rinvio della Suprema Corte su un punto della decisione e, dunque, pur se ancora l’intero capo della sentenza non sia passato in giudicato. Ciò che rileva secondo tale orientamento è la circostanza per cui, in relazione alla parte di sentenza divenuta irrevocabile, possa essere definito con certezza nel quantum il minimo inderogabile di pena irrogata (Sez. 1, n. 12904 del 10/11/2017, dep. 2018, Centonze, Rv. 272610, in una fattispecie relativa ad annullamento con rinvio disposto con riguardo alla recidiva; Sez. 1, n. 41941 del 21/09/2012, Pitarà, Rv. 253622, in una fattispecie relativa ad annullamento con rinvio disposto con riguardo a una circostanza aggravante), ovvero la pena minima applicabile alle parti delle statuizioni non oggetto di annullamento (Sez. 1, n. 43824 del 12/04/2018, Milito, Rv. 274639; conf. Sez. 3, n. 253 del 22/11/2019, dep. 2020, Ruggiero, Rv. 278263)”. In linea con questo orientamento – ma portandolo a conseguenze ulteriori – si collocano talune pronunce che fanno riferimento, non già alla necessità che la quantità di pena minima sia stata indicata ma alla circostanza che, di fatto, non vi sia incertezza in relazione al quantitativo di pena minimo da applicare al caso concreto, passibile di modifica sollo un aumento (Sez. 1, n. 33154 del 15/05/2019, Chirico, Rv. 277226). In maniera analoga, (Sez. 1, n. 19644 del 09/04/2019, Gallo, Rv. 275605; conf. Sez. 1, n. 42728 del 20/09/2019, Buonavoglia).
4. La decisione delle Sezioni Unite.
Le Sezioni Unite hanno inteso aderire al primo maggioritario orientamento, con le seguenti puntualizzazioni.
Primo arresto è la cristallizzazione della dicotomia tra autorità di cosa giudicata di una parte della sentenza (rilevando anche singoli punti e non solo interi capi) ed eseguibilità della sentenza che, invece, presuppone la formazione di un vero e proprio titolo esecutivo. Il giudicato progressivo, pur potendo congelare l’accertamento della responsabilità dell’autore del fatto, non preclude il potere del giudice di rinvio della rideterminazione della pena a lui devoluta. Secondo la Corte, infatti, da una lettura coordinata degli artt. 624-648-650 c.p.p., il titolo esecutivo si ritiene formato solo quando si forma il giudicato sull’accertamento della sussistenza del fatto, della responsabilità personale dell’arrestato e sulla quantificazione della pena. In ogni caso, se il giudicato progressivo ha coperto l’accertamento della sussistenza del reato e della sua attribuzione all’imputato, con superamento della presunzione di innocenza di cui al comma 2 dell’art. 27 Cost. potendo parlarsi di condanna definitiva, il giudice del rinvio ha un limitato ambito cognitivo e decisorio ove non potranno rilevare le cause sopravvente di estinzione del reato, prime fra tutte la prescrizione.
In parte motiva, le Sezioni Unite fanno anche riferimento ai principi consolidati della giurisprudenza sovranazionale. In particolare, la Corte europea dei diritti dell'uomo esclude, di regola, l'applicabilità dell'art. 6, § 2, Cedu al procedimento volto esclusivamente alla commisurazione della sanzione dopo la condanna, in base alla considerazione che la citata norma convenzionale restringe la portata della presunzione di innocenza al mero accertamento legale della colpevolezza (Corte EDU, IV sez., sent. Phillips vs Regno Unito, 05/07/2001, § 3; Corte EDU, III sez., dec. Van Offeren vs Olanda, 05/07/2005; Corte EDU, II sez., dec. Previti vs Italia, 08/12/2009, § 267), a differenza dell'art. 27, secondo comma, Cost., che richiede un accertamento definitivo collegato, almeno, alla proponibilità del ricorso per cassazione per violazione di legge.
Viene inoltre rimarcata la specialità della previsione normativa di cui all’art. 624 c.p.p. che consente, come già precisato in passato, di riconoscere autorità di cosa giudicata sia ai capi che ai punti della sentenza, con il sequenziale limite ai poteri decisori e cognitivi in sede di rinvio. Ne segue, però, che, in tema di continuazione, in caso di giudicato progressivo con rinvio su capi astrattamente qualificabili come più gravi, la sentenza non è eseguibile.
La Corte poi precisa la questione della connessione essenziale tra parti annullate e parti del giudicato progressivo. La connessione essenziale va intesa, secondo quanto statuito dalle Sezioni Unite Agnese come “necessaria interdipendenza logica e giuridica tra le diverse statuizioni, di guisa che l'annullamento di una di esse rende inevitabile il riesame di quelle parti che, perché non suscettibili di autonoma decisione, impongono un rinnovato giudizio.”
Di converso, il giudicato progressivo, pur nell'autonomia giuridico-concettuale della statuizione relativa a ciascun capo nella sentenza, qualora la statuizione non incida definitivamente anche sulla determinazione della pena, non può però avere tra i suoi effetti anche quello della eseguibilità della decisione che richiede, per l’appunto, anche la definitività della pena (Sez. 2, n. 6287 del 2000, Piconi, cit.), a prescindere dalla circostanza per cui non vi potrà comunque essere una pena inferiore a quella posta in esecuzione. Pertanto, la nozione di pena minima inderogabile su cui fa leva il secondo orientamento non è idonea a integrare un titolo esecutivo relativo a uno o più capi. Perchè via sia eseguibilità, la statuizione sulla pena deve essere irrevocabile, ovvero "completa" (Sez. 2, n. 6287 del 2000, Piconi), non modificabile dal giudice del rinvio, e "certa", ovvero individuabile sulla base delle sentenze rese in sede di cognizione e non ricostruibile attraverso ragionamenti ipotetici (pena da eseguire non inferiore ad una determinata quantità). Non è, invece, necessario per l'esecutività della pena il passaggio in giudicato dell'intera sentenza, con riferimento alle sentenze oggettivamente cumulative.
Tale assunto produce i suoi effetti, come illustrato in precedenza, anche in relazione ai termini di durata delle eventuali misure cautelari in essere. Infatti, in un’interpretazione costituzionalmente orientata, a mente l’ultimo comma dell’art. 13 Cost. (sul punto Corte cost., ord. n. 397 del 2000), l’autorità di cosa giudicata sull’accertamento del fatto e l’ascrivibilità all’imputato, pur ergendo barriere al potere cognitivo e decisorio del giudice del rinvio, non consentono di “riqualificare” la detenzione dell’imputato in termini di esecuzione pena , dovendo invece, ancora, essere assoggettate al regime di custodia cautelare (con relativa decorrenza dei termini di custodia massima).
Ancora, tale impostazione, secondo la Corte, risulta maggiormente coerente con la finalità rieducativa della pena di cui, di recente, ne è stata rimarcata la centralità (Corte cost., sent. n. 149 del 2018), anche in un’ottica di applicazione delle previsioni dell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354) che prevedono un percorso di comprensione da parte dell’imputato del fatto criminoso commesso, percorso che risulterebbe incompleto e parziale qualora rapportato ad una statuizione non completa, anche in ragione, ad esempio, della non completa affermazione del fatto in ordine alle circostanze del reato, ovvero alla corretta qualificazione giuridica. Peraltro, la mancata definitività della pena, inevitabilmente, finisce per incidere sull’applicabilità o meno di istituti della fase dell’esecuzione pena, quali la sospensione dell'ordine di esecuzione (art. 656 c.p.p.), le misure alternative come l'affidamento in prova ai servizi sociali (art. 47 ord. pen.).
Aporie sistematiche che, invece, le Sezioni Unite non ravvisano in caso di autorità di cosa giudicata di un intero capo della sentenza che, di converso, acquista i requisiti dell’esecutività, a prescindere da modifiche sul quantum di pena del giudice di rinvio, ad esempio in ordine a reati satellite, sulla scorta dell’autonomia giuridico-concettuale attribuibile a ciascun capo della sentenza.
Statuito in termini generali quanto sopra, le Sezioni unite hanno poi puntualizzato una serie di aspetti, anche sulla scorta dei casi emersi nella prassi. Ad esempio, in tema di annullamenti di capi posti in continuazione con altri divenuti irrevocabili. Viene ribadito, innanzi tutto, che qualora, per effetto dell’annullamento, sia ancora in dubbio l’individuazione del reato più grave, non si può ritenere sussistere l’esecutività del capo che acquisito autorità di cosa giudicata, non potendo ragionare in termini di ipotesi della determinabilità della pena comunque applicabile. Di converso, si può riconoscere l’effetto dell’esecutività in caso di passaggio in giudicato del capo relativo al reato da sicuramente ritenersi più grave, qualora la pena sia “certa” e “completa” (ad esempio non vi sono annullamenti in ordine a circostanze aggravanti).
Ancora, la Corte, nell’individuare altre ipotesi dove all’autorità di cosa giudicata può non seguire l’esecutività della sentenza, fa menzione del caso della richiesta di applicazione della sospensione condizionale della pena la cui verifica non potrà che essere definita soltanto all’esito dell’iter processuale di tutti i reati in continuazione (Sez. 1, n. 45340 del 10/09/2019, Vinciguerra, Rv. 277915). Evidente come, in tale prospettiva, criterio di valutazione primario sarà quello dell’individuazione del legame di connessione essenziale tra parte annullata e parte non annullata.
Altra puntualizzazione della Corte riguarda l’autonomia, anche sulla scorta dell’art. 579 comma 2 c.p.p. che demanda la competenza al giudice di sorveglianza, tra esecutività della pena in caso di giudicato progressivo e definitività della decisione sui punti relativi alle misure di sicurezza ordinate con sentenza. Ai fini dell’esecutività della pena non è richiesta una definitività della decisione in tema di misura di sicurezza.
Analogamente bisognerà ragionare per quanto riguarda le pene accessorie e le confische non aventi natura di misura di sicurezza, qualora la loro definitiva statuizione intervenga successivamente all'irrevocabilità della pena principale.
Alla luce di tutte le considerazioni sopra riportate, ritengono le Sezioni Unite che, “in caso di annullamento parziale da parte della Corte di cassazione (art. 624 cod. proc. pen.), la pena principale - irrogata in relazione a un capo per il quale sia passata in giudicato l'affermazione di responsabilità, anche in relazione alle circostanze del reato – sia suscettibile di esecuzione, qualora abbia acquisito autorità di cosa giudicata, essendo stata determinata in termini di "completezza" e di "certezza". La "completezza" della pena comporta la "insensibilità" rispetto alle statuizioni rimesse al giudice del rinvio, mentre il connotato delle "certezza" rinvia alla precisa definizione - senza necessità di ricorrere a computi ipotetici – del trattamento sanzionatorio, tenuto conto delle statuizioni del giudice della cognizione quali risultanti dalle sentenze emesse e dall'ambito del giudizio di rinvio perimetrato dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione”. Ed ancora, entrando nel dettaglio: “deve, pertanto, qualificarsi esecutiva la pena principale irrogata in relazione a un capo (o a più capi) - non in connessione essenziale con quelli attinti dall'annullamento parziale - per il quale siano passati in giudicato (oltre che, naturalmente, l'inapplicabilità di cause estintive del reato, quali la sospensione condizionale: cfr. Sez. 1, n. 45340 del 2019, Vinciguerra, cit.) tutti i punti, a eccezione di quelli attinenti alle pene accessorie, alle misure di sicurezza ordinate con sentenza e alle confische non aventi natura di misura di sicurezza; restano, inoltre, estranee al tema dell'esecutività della pena principale le questioni attinenti alle statuizioni civili, in quanto afferenti a un capo autonomo.”
In punto di competenza a decidere su chi deve determinare la pena da eseguire in relazione al giudicato parziale, l’A.G. dell’esecuzione, ovvero la Corte di Cassazione, in sede di annullamento con rinvio, pur risultando la questione parzialmente superata da quanto deciso e sopra riportato, le Sezioni Unite, nel dar atto di un duplice orientamento ritengono che l'accertamento circa l'eseguibilità della pena e la sua specifica individuazione competano agli organi dell'esecuzione, secondo i criteri stabiliti in materia. Ciò sulla scorta del tenore letterale dell'art. 624, comma 2 c.p.p. da un lato e, d’altro canto, dell’assenza di diversa previsione normativa che, peraltro, mal si concilierebbe con il ruolo del pubblico ministero quale organo promotore dell’esecuzione penale.
5. Principio di diritto enunciato
Conclusivamente, si riporta il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte: “In caso di annullamento parziale (art. 624 cod. proc. pen.), è eseguibile la pena principale irrogata in relazione a un capo (o a più capi) non in connessione essenziale con quelli attinti dall'annullamento parziale per il quale abbiano acquisito autorità di cosa giudicata l'affermazione di responsabilità, anche in relazione alle circostanze del reato, e la determinazione della pena principale, essendo questa immodificabile nel giudizio di rinvio e individuata alla stregua delle sentenze pronunciate in sede di cognizione. La Corte di cassazione, con la sentenza rescindente o con l'ordinanza di cui all'art. 624, comma 2, cod. proc. pen., può solo dichiarare, quando occorre, quali parti della sentenza parzialmente annullata sono diventate irrevocabili”.
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