ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Effetti diretti delle norme dell’Unione europea ed invocabilità di esclusione: i problemi aperti dalla seconda sentenza Popławski*
di Lucia Rossi
Sommario: 1. Dalla prima alla seconda Popławski - 2. La teoria degli effetti diretti: un percorso giurisprudenziale accidentato - 3. L’enunciazione progressiva del sistema di rimedi: disapplicazione, interpretazione conforme, risarcimento del danno - 4. La disapplicazione coincide con la diretta efficacia? Effetti di esclusione ed effetti di sostituzione - 5. Una formula generale? 6. Invocabilità di esclusione ed effetti orizzontali - 7. I compiti dei giudici nazionali dopo Popławski.
1. Dalla prima alla seconda sentenza Popławski
La sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella seconda causa Popławski, C-573/17[1], ha suscitato un’attenzione generale, con reazioni che vanno dall’accettazione della sentenza[2], a commenti critici, soprattutto da parte della dottrina francese[3], sino a far parlare un autore di “une interprétation du principe de primauté très réductrice et apparemment assez rétrograde” e di una “fragilisation du principe de primauté”[4]. In realtà la sentenza, di per sé, non contraddice la giurisprudenza precedente, ma solleva nuovi interrogativi sulla complessiva teoria degli effetti diretti in relazione al principio del primato.
In effetti, pur trattando principalmente del rimedio dell’interpretazione conforme nell’ambito di applicazione delle decisioni quadro, la sentenza contiene affermazioni molto più generali, che inducono ad interrogarsi sui confini del diverso rimedio della disapplicazione, con riferimento a tutte quelle norme dell’Unione che non hanno, per varie ragioni, diretta efficacia, in particolare per quel che riguarda il c.d. “effetto di esclusione”[5].
Si ricorderà che nella prima sentenza Popławski (nella causa C-579/15)[6] la Corte aveva dichiarato che la decisione quadro 2002/584 sul mandato d’arresto europeo, pur essendo per definizione, al pari di tutte le decisioni quadro, priva di effetti diretti[7], imponeva comunque ai giudici degli Stati membri di interpretare la legge nazionale in conformità a detta decisione. La Corte riconosceva però che il principio di interpretazione conforme del diritto nazionale è soggetto ad alcuni limiti. Innanzitutto, i principi generali del diritto e in quelli di certezza del diritto e di irretroattività ostano a che l’obbligo di interpretazione conforme “possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni”[8]. Inoltre, il principio di interpretazione conforme non può porsi a fondamento di un’interpretazione contra legem del diritto nazionale[9]. Infine, la sentenza ricordava[10] che “l’obbligo di interpretazione conforme impone ai giudici nazionali di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una decisione quadro”, disapplicando ove necessario, di propria iniziativa, l’interpretazione accolta dal giudice nazionale di ultima istanza, allorché tale interpretazione non è compatibile con il diritto dell’Unione.
La seconda sentenza Popławski (è questa a cui, in mancanza di altre precisazioni, il presente contributo si riferirà) è stata resa su un secondo rinvio della stessa giurisdizione remittente del primo caso (il Tribunale di Amsterdam). Il giudice a quo specificava che, in effetti, l’interpretazione conforme non era, in quel caso, possibile, essendovi un’espressa dichiarazione in senso contrario del ministro per la sicurezza e giustizia olandese che la escludeva espressamente[11]. Il giudice pertanto, cercando una strada alternativa, chiedeva alla Corte se, qualora l’interpretazione conforme non sia possibile, l’autorità giudiziaria di esecuzione, sia tenuta, in forza del principio del primato, a disapplicare le norme nazionali incompatibili con le disposizioni di detta decisione quadro. Sottolineava poi che, se, invece, avesse potuto ignorare quella dichiarazione, in base alle altre norme della legislazione olandese, il mandato d’arresto avrebbe potuto essere eseguito.
A questa domanda l’Avvocato generale Campos Sánchez-Bordona, anche ispirandosi alle Conclusioni rese dall’Avvocato generale Bot nella prima causa Popławski[12], aveva risposto affermativamente, ritenendo che, sebbene sia innegabile che le decisioni quadro sono prive di efficacia diretta, il loro effetto sui diritti nazionali non è tuttavia “riducibile al mero obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale gravante sulle autorità nazionali”[13]. Infatti, “se una disposizione nazionale destinata ad attuare una decisione quadro non può, malgrado gli sforzi compiuti dal giudice nazionale competente, essere interpretata in modo da renderla conforme a tale decisione quadro, ciò significa che perdura l’incompatibilità tra quest’ultima e il diritto nazionale, malgrado il carattere vincolante delle decisioni quadro. Ciò è fondamentalmente contrario al principio del primato del diritto dell’Unione. In quest’ottica, la sola maniera di trovare una soluzione a tale contraddizione consiste nell’imporre che la norma nazionale in contrasto con una decisione quadro sia disapplicata dal giudice nazionale competente”[14].
Discostandosi da quanto suggerito dall’Avvocato generale, la Corte ha invece negato la possibilità di disapplicare le norme nazionali incompatibili con la decisione quadro, in quanto queste non hanno effetti diretti.
La sentenza innanzitutto ricorda che “il principio del primato impone, in particolare, ai giudici nazionali di interpretare, per quanto possibile, il loro diritto interno in modo conforme al diritto dell’Unione e di riconoscere ai singoli la possibilità di ottenere un risarcimento qualora i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto dell’Unione imputabile a uno Stato membro”[15] e che, sempre in base al principio del primato, ove non possa procedere a detta interpretazione, il giudice “ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle medesime, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”[16].
Tuttavia, ricorda ancora la Corte, occorre tenere conto “delle altre caratteristiche essenziali del diritto dell’Unione e, più specificamente, del riconoscimento di un effetto diretto ad una parte soltanto delle disposizioni di tale diritto”[17], perché il principio del primato non può rimettere in discussione la distinzione essenziale tra le disposizioni dotate di effetto diretto e quelle che ne sono prive.
Di conseguenza, quando non sia possibile l’interpretazione conforme, se da un lato il giudice nazionale ha l’obbligo di disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contraria a una norma del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito, dall’altro, tuttavia, “una disposizione del diritto dell’Unione che sia priva di effetto diretto non può essere fatta valere, in quanto tale, nell’ambito di una controversia rientrante nel diritto dell’Unione, al fine di escludere l’applicazione di una disposizione di diritto nazionale ad essa contraria”[18].
La sentenza avrebbe potuto limitarsi ad enunciare questa precisazione con riferimento alle decisioni quadro, il solo atto che veniva in rilievo nella causa. Essa enuncia invece in maniera generale la necessità di effetti diretti della disposizione dell’Unione come condizione anche per la disapplicazione di norme nazionali contrastanti, menzionando specificamente gli effetti delle direttive.
Occorre rilevare che, mentre per le decisioni quadro, sin dalla loro introduzione con il Trattato di Maastricht, gli effetti diretti sono espressamente esclusi a livello di diritto primario, esclusione oggi confermata al protocollo n. 36 allegato al Trattato di Lisbona[19], i confini degli effetti diretti, per le altre fonti del diritto dell’Unione, soprattutto per le direttive, sono assai più difficili da definire[20].
Se è vero che la nuova sentenza Popławski fa abbondante riferimento a precedenti pronunce della Corte, e dunque pare effettuare un mero riepilogo della precedente giurisprudenza, tuttavia il ragionamento complessivo che essa sviluppa costringe a riflettere, mettendone in luce alcune possibili incongruenze, sulla teoria degli effetti diretti, che è stata sviluppata in maniera graduale sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia e che si regge su delicati (e forse anche fragili) equilibri.
Il presente articolo si propone di chiarire se e in che misura le perplessità sollevate dalla dottrina sopra ricordata siano fondate e, più in generale, come la sentenza Popwlaski si collochi nel contesto della teoria degli effetti diretti. A tal fine si riassumeranno brevemente la genesi e lo sviluppo, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, dei principali concetti che sono alla base della sentenza in esame (paragrafi 2 e 3); in seguito si esamineranno i singoli aspetti problematici sollevati dalla sentenza (paragrafi 4, 5 e 6); ed infine si cercherà di sintetizzare quale siano le possibili conseguenze della sentenza sull’operato dei giudici degli Stati membri (paragrafo 7).
2. La teoria degli effetti diretti: un percorso giurisprudenziale accidentato
Per capire se la sentenza Popławski rivesta o meno carattere innovativo, rispetto ai molti precedenti che essa stessa cita nei suoi vari punti, occorre innanzitutto brevemente ricordare la genesi teorica e l’evoluzione dei concetti fondamentali che vengono in gioco in questa sentenza. Si tratta di concetti fondamentali del diritto dell’Unione, che sono stati messi a punto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, nel silenzio (a tutt’oggi) dei Trattati. La precisazione di tali concetti è stata graduale ed anche faticosa, in un percorso basato sulle risposte ai quesiti dei giudici nazionali, le cui tappe sono state spesso criticate dalla dottrina. Anche per rispondere a tali critiche, la Corte ha via via aggiunto precisazioni alle precedenti sentenze, sino a delineare quella che oggi possiamo globalmente definire la teoria degli effetti diretti[21].
Tale teoria, introdotta nel 1963 dalla sentenza Van Gend & Loos[22], è stata inizialmente concepita come capacità di talune norme del trattato di produrre effetti per i singoli, nei rapporti con uno Stato membro[23], conferendo loro diritti che essi possono direttamente invocare davanti ai giudici. Come è ben noto, si trattava, all’epoca, di un’affermazione non solo inattesa, ma anche iconoclasta, in quanto i trattati, secondo il diritto internazionale, creano, in assenza di previsioni specifiche in senso opposto, diritti ed obblighi solo per gli Stati. Proprio per questo in quella sentenza si enunciò la formula, ormai classica, che la Comunità economica (oggi l’Unione) europea costituisce un “ordinamento di nuovo genere nel panorama del diritto internazionale”. Basandosi sulla stessa premessa, la Corte di Giustizia ha potuto poi enunciare, l’anno successivo, il principio del primato del diritto comunitario su quello degli Stati membri, creando un rapporto di gerarchia a favore del primo[24]. La combinazione di primato ed effetti diretti, nell’ordinamento giuridico di nuovo genere, creava dunque un insieme di obblighi per gli stati membri e di diritti per gli individui nei confronti degli Stati, che le norme di questi ultimi, ancorché successive a quelle dell’Unione, non potevano derogare.
La sentenza Ratti ha poi specificato che per avere effetti diretti, la disposizione invocata deve essere incondizionata e sufficientemente precisa[25]. In realtà la successiva giurisprudenza induce a ritenere che, al di là delle diverse formule che la Corte utilizza, i criteri rilevanti sono di fatto la precisione e l’incondizionalità (anche se a volte può essere proprio il carattere incondizionato…ad essere poco chiaro e dunque a richiedere l’interpretazione della Corte[26]). Nella più recente sentenza, Gassmayr[27], la Corte ha sintetizzato i due requisiti in maniera efficace: “una disposizione del diritto dell’Unione è incondizionata se sancisce un obbligo non soggetto ad alcuna condizione né subordinato, per quanto riguarda la sua osservanza o i suoi effetti, all’emanazione di alcun atto da parte delle istituzioni dell’Unione o degli Stati membri. Essa è sufficientemente precisa per poter essere invocata da un singolo ed applicata dal giudice se sancisce un obbligo in termini non equivoci”.
Il passo più audace, dal punto di vista teorico, fu però l’estensione, con le sentenze SACE[28] e Van Duyn[29], degli effetti diretti alle direttive non attuate (o non attuate correttamente) a partire dalla data di scadenza dell’attuazione. Per quello che riguarda le direttive, uno dei problemi della teoria degli effetti diretti era l’ambivalenza del fondamento teorico che avrebbe dovuto giustificare una rilettura così “creativa” della definizione di tali atti contenuta nei trattati[30].
Da un lato, la ratio ispiratrice era, dichiaratamente, quella di non privare i cittadini degli Stati membri dei benefici che il diritto dell’Unione creava a loro favore in caso di mancata, tardiva o incorretta attuazione da parte di detti Stati. Dall’altro però era evidente, sebbene non dichiarata, anche una finalità sanzionatoria contro gli Stati che non attuavano le direttive entro la scadenza, o le attuavano in maniera incompleta o scorretta. Le défaillances nell’attuazione erano infatti divenute un problema molto serio, in un’epoca in cui la costruzione del grande mercato era basata appunto sulle direttive e in cui il rimedio del ricorso per infrazione era ancora sprovvisto della possibilità di applicare sanzioni pecuniarie. L’enunciazione dell’effetto diretto delle direttive, creava uno strumento indirettamente sanzionatorio contro gli Stati membri, che, avvalendosi della “vigilanza” dei cittadini, con la collaborazione dei giudici nazionali, si affiancava in maniera più capillare ed efficace al ricorso per infrazione. L’effetto diretto infatti, presentandosi come un beneficio che gli individui traevano direttamente dal diritto dell’Unione e che potevano invocare contro gli Stati membri, incentivava i primi a far valere in giudizio contro i secondi la mancata, tardiva o incorretta attuazione di tale diritto.
Questa ambivalenza ha poi determinato i passi successivi del percorso giurisprudenziale, da un lato con la negazione dell’effetto verticale rovesciato e dall’altro con l’enunciazione del principio del risarcimento del danno, alla ricerca di un non facile equilibrio fra le diverse esigenze e di un’altrettanta ardua coerenza teorica.
Nonostante l’estensione degli effetti diretti alle direttive abbia inizialmente sollevato diffuse perplessità, tanto fra i giudici nazionali (il Conseil d’Etat francese riconobbe gli effetti diretti di tali atti solo diversi anni dopo[31]), quanto in dottrina[32], la teoria degli effetti diretti, inclusi quelli delle direttive, è oggi accettata universalmente. Sebbene la definizione di direttiva contenuta nei Trattati non sia mai stata modificata nelle successive revisioni, si potrebbe configurare un riconoscimento implicito della teoria, quando con il Trattato di Maastricht fu creata la decisione quadro, la cui definizione coincideva con quella della direttiva, ma con espressa esclusione degli effetti diretti, mentre per le direttive non fu introdotta una precisazione analoga.
Nel corso degli anni, la stessa Corte ha cercato di rendere più solida la teoria, precisandone la portata e le eccezioni. Tuttavia, ad ogni nuovo passo si sono aperti problemi teorici che poi hanno richiesto ulteriori chiarimenti da parte della Corte.
Come si è detto, la teoria dell’effetto diretto era stata enunciata sul presupposto che le direttive, ancorché non trasposte, possono, a certe condizioni, conferire diritti agli individui: dunque non si poteva sostenere che le stesse potessero conferire obblighi in capo a questi ultimi. La Corte ha così chiarito che le direttive possono essere invocate dagli individui contro gli Stati membri, ma non viceversa (c.d. effetto verticale rovesciato)[33]. La Corte ha via via ampliato il concetto di Stato come destinatario dell’obbligo di osservare la direttiva, includendo non solo la pubblica amministrazione[34] e gli enti locali[35], ma anche società nel cui capitale lo Stato ha o ha avuto una quota significativa in grado di influenzarne le decisioni[36] o, addirittura, imprese private incaricate di servizi pubblici con poteri derogatori rispetto al regime generale[37].
A seguito di questa giurisprudenza si presentò però un’altra lacuna teorica: già dopo la sentenza Marshall[38] la dottrina[39] sottolineava il rischio che l’applicazione della teoria degli effetti diretti delle direttive poteva, paradossalmente, creare una discriminazione, in situazioni comparabili: ad esempio nel caso di lavoratori il cui datore fosse in un caso un ente pubblico e in un altro un’impresa privata, gli effetti diretti delle direttive potevano essere invocati solo dal primo lavoratore e non dal secondo. D’altra parte, riconoscere gli effetti orizzontali delle direttive avrebbe contraddetto il presupposto dichiarato che esse potevano creare direttamente solo dei vantaggi per gli individui. In una controversia orizzontale, solo uno dei due soggetti avrebbe tratto beneficio dalla diretta efficacia della direttiva, mentre l’altro avrebbe dovuto sopportare le conseguenze negative di un atto che, per definizione, crea obblighi soltanto per gli Stati membri. Solo dopo aver enunciato il rimedio del risarcimento del danno (v. paragrafo seguente), la Corte ha definitivamente chiarito che le direttive non possono avere effetti orizzontali, vale a dire non possono essere invocare nelle relazioni fra privati[40].
La Corte ha via via precisato la teoria degli effetti diretti anche con riferimento ad altre fonti del diritto dell’Unione. Per quel che riguarda il diritto primario, da un lato non tutte le disposizioni dei Trattati hanno effetti diretti[41] ma, dall’altro, talune di esse possono avere anche effetti orizzontali[42] e lo stesso vale per la Carta dei diritti fondamentali. Con riferimento agli effetti diretti di quest’ultima la soluzione va cercata con riferimento alle singole disposizioni della stessa[43], oltre che nel rispetto dei limiti generali alla sua applicazione, fissati dagli articoli 51, 52 e 53. La Corte ha affermato nel tempo la possibilità di avere effetti diretti anche per le decisioni[44], per i principi generali di diritto[45], per gli accordi internazionali conclusi dall’Unione[46]. Gli effetti diretti sono invece, come si è detto, espressamente esclusi dai trattati per quel che riguarda le decisioni quadro.
Non può invece a mio avviso parlarsi correttamente di effetti diretti per i regolamenti, in quanto, per la stessa definizione che di essi dà l’art 288 TFUE, essi godono di diretta applicabilità. Anche se i due concetti vengono spesso equiparati[47], quello di diretta applicabilità è più ampio di quello di effetto diretto sotto due profili: da un lato il primo è in via di principio perfettamente idoneo a creare non solo diritti, ma anche obblighi, per tutti i soggetti, dunque anche per gli individui, potendo di conseguenza avere anche efficacia orizzontale nelle relazioni fra questi ultimi, e, dall’altro, esso implica che gli Stati non devono adottare alcuna misura di attuazione[48]. La diretta applicabilità dei regolamenti pone questi ultimi al riparo della maggior parte dei problemi teorici che circondano, soprattutto per quel che concerne le direttive, la teoria degli effetti diretti.
3. L’enunciazione progressiva del sistema di rimedi: disapplicazione, interpretazione conforme, risarcimento del danno
Per supportare l’efficacia del diritto dell’Unione e l’effettività dei diritti che questo attribuisce agli individui, la Corte ha poi enunciato, nel tempo, tre rimedi, che i giudici nazionali possono (e devono) utilizzare nel caso si trovino a giudicare del conflitto fra una norma del proprio Stato ed il diritto dell’Unione europea. Essi, se si segue l’ordine in cui sono stati affermati, sono: a) la disapplicazione, b) l’interpretazione conforme e c) il risarcimento del danno.
A) Il primo rimedio, in base al quale i giudici degli Stati membri devono applicare il diritto dell’Unione, disapplicando la norma nazionale contrastante con quest’ultimo, è stato enunciato dalla sentenza Simmenthal[49]. In realtà l’obbiettivo primario di tale sentenza era quello di reagire alla sentenza ICIC della Corte Costituzionale italiana[50], che aveva rivendicato a sé il potere esclusivo di conferire applicazione al diritto dell’Unione dichiarando incostituzionali caso per caso le disposizioni italiane con esso incompatibili. Infatti in quella sentenza la Corte collegava la disapplicazione alla diretta applicabilità di una serie di regolamenti, oltre agli effetti diretti delle disposizioni del Trattato CEE sulla libera circolazione delle merci[51] ed al primato. Ci si ricollegava dunque ai principi espressi in Van Gend en Loos ed in Costa Enel, oltre che alla diretta applicabilità dei regolamenti, mentre le direttive non erano in quel caso rilevanti.
La sentenza innanzitutto precisa che “l’applicabilità diretta va intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità; dette norme sono quindi fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti coloro che esse riguardano, siano questi gli Stati membri ovvero i singoli, soggetti di rapporti giuridici disciplinati dal diritto comunitario”[52]. La Corte inoltre afferma che “in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere «ipso jure» inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche — in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri — di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie”[53].
Il ragionamento sottostante, volto appunto a rispondere alla Corte costituzionale italiana, era pertanto che, in virtù del primato, il giudice non deve tenere conto della legge nazionale incompatibile con il diritto della Comunità (oggi Unione), quand’anche posteriore a quest’ultimo. Il primato risulta chiaramente una regola di gerarchia, che preclude il criterio cronologico della lex posterior.
La sentenza enuncia inoltre il “dedoublement fonctionnel” dei giudici nazionali. La Corte precisa che la disapplicazione deve essere effettuata da tutti i giudici, in quanto organi di uno Stato membro e non solo quelli costituzionali: “qualsiasi giudice nazionale, adito nell’ambito della sua competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore che successiva, alla norma comunitaria”[54].
Da un punto di vista teorico, la disapplicazione può essere scomposta in due passaggi logici: il divieto di applicare la norma nazionale contrastante con quella europea e la sostituzione della seconda alla prima. La dottrina francese, in proposito, ha da tempo sviluppato una distinzione fra “invocabilità di esclusione ed invocabilità di sostituzione”[55], poi declinata dalla dottrina anglosassone nella distinzione tra “effetti di esclusione” ed “effetti di sostituzione”[56]. L’invocabilità di esclusione sarebbe, secondo questa visione, una conseguenza del primato, mentre l’invocabilità di sostituzione concretizzerebbe l’efficacia diretta. Tale teoria è utilizzata anche dal Conseil d’État francese[57], che da alcuni anni disapplica norme interne incompatibili con una direttiva, senza interrogarsi sugli effetti diretti delle disposizioni della stessa e dunque senza subordinare l’effetto di esclusione all’esistenza di effetti diretti[58].
B) Il secondo rimedio è quello dell’interpretazione conforme[59], enunciato dalle sentenze Von Colson e Marleasing[60]. La Corte afferma che i giudici degli Stati membri, devono scegliere, fra le possibili interpretazioni della norma nazionale, quella più conforme al diritto dell’Unione. Qualificato dalla Corte come “inerente al sistema dei trattati”, tale rimedio non nasce con intento sanzionatorio e appare logicamente collegato al primato ed al principio di leale cooperazione[61].
Esso è stato ampiamente utilizzato dalla Corte con riferimento alle direttive[62], ai regolamenti[63], alle raccomandazioni[64], alle decisioni quadro[65], ai principi generali di diritto[66], ed alle raccomandazioni[67]. La Corte ha anche precisato che l’interpretazione conforme include l’obbligo di non seguire il principio di diritto proveniente dalla giurisdizione nazionale superiore nonostante le regole processuali nazionali lo ritengano obbligatorio[68].
Tuttavia l’interpretazione conforme non è una panacea: la sua applicazione infatti incontra dei limiti piuttosto rilevanti. La Corte ha precisato che l’interpretazione conforme non può spingersi sino al punto di violare i principi di certezza del diritto[69] e di irretroattività, inoltre non consente di aggravare la responsabilità di un individuo[70], in particolare quella penale[71]. Ma, soprattutto, la Corte esclude che essa possa servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale[72]̀.
Va anche rilevato che, a differenza della disapplicazione, l’interpretazione conforme, che varia in funzione della diversità delle leggi degli Stati membri, non garantisce l’uniforme applicazione delle disposizioni del diritto dell’Unione. In ultima analisi, è al solo giudice nazionale, che spetta, sulla base della comparazione fra la norma europea e la disposizione nazionale, di valutare se sia o meno possibile procedere ad una tale interpretazione, rimanendo entro i confini indicati dalla CGUE.
C) Il terzo rimedio in caso di contrasto del diritto nazionale con quello dell’Unione è la possibilità, per l’individuo, di chiedere allo Stato il risarcimento del danno causato dalla violazione del secondo da parte del primo.
Tale rimedio fu enunciato dalla sentenza Francovich[73], come “inerente al sistema del Trattato”[74]: secondo tale sentenza “sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario”. La sentenza subordinava la possibilità di invocare tale rimedio a tre condizioni: (i) la direttiva ha il fine di attribuire dei diritti agli individui; (ii) il contenuto del diritto è sufficientemente preciso e (iii) vi è un nesso di causalità fra la non attuazione della direttiva e il danno causato[75].
Questo rimedio, avendo una connotazione fortemente sanzionatoria, in quanto espone gli Stati inadempienti a diffuse rivendicazioni pecuniarie, risultò subito particolarmente inviso a questi ultimi. Forse per questo, con la sentenza Brasserie du Pecheur e Factortame[76], modificando la lista delle tre condizioni affermata da Francovich, la Corte introduce, dichiarando di ispirarsi anche al regime della responsabilità delle istituzioni comunitarie, il concetto di “violazione sufficientemente caratterizzata”, rivedendo la lista delle tre condizioni enunciate da Francovich. Per poter invocare il risarcimento del danno occorre infatti, secondo questa sentenza, che: (i) la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, (ii) si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata e (iii) esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi[77].
La sentenza precisa in proposito che, per valutare se la violazione è, appunto, sufficientemente caratterizzata, “fra gli elementi che il giudice competente può eventualmente prendere in considerazione, vanno sottolineati il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali o comunitarie, il carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità o l’inescusabilità di un eventuale errore di diritto, la circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere all’omissione, all'adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o di prassi nazionali contrari al diritto comunitario”[78]. In ogni caso, aggiunge la Corte, una violazione è manifesta e grave quando continua nonostante la Corte stessa si sia già pronunciata sull’illegittimità del comportamento in questione[79].
In realtà questa giurisprudenza solleva molti interrogativi. Cosa significa scusabilità dell’errore di diritto? La responsabilità dello Stato è soggettiva od oggettiva? Essa sembra variare, in modo inversamente proporzionale, rispetto al margine di discrezionalità di cui gode lo Stato: se quest’ultimo non esiste, la violazione è di per sé sufficientemente caratterizzata[80] e la responsabilità tende ad essere oggettiva, mentre in caso contrario, anche se la Corte precisa che non si tratta di cercare la “colpa” dello Stato membro[81], occorrere valutare, al fine di accertare la sufficiente caratterizzazione della violazione e, di conseguenza, la responsabilità, anche elementi soggettivi, appunto in funzione di detto margine. Ad esempio, nella sentenza British Telecom[82], la Corte ha valutato la sussistenza della “buona fede” dello Stato, in quanto era stato indotto in errore da un comportamento della Commissione.
È evidente, e questo è il limite del terzo rimedio, che far dipendere il risarcimento del danno da una violazione caratterizzata da elementi soggettivi crea incertezza in capo agli individui titolari della pretesa, i quali non sono nella posizione di poter valutare simili elementi.
La Corte ha più recentemente cercato di ricondurre il rimedio del risarcimento del danno ad una logica più oggettiva, sottolineando che il principio della responsabilità extracontrattuale dello Stato per i danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell’Unione ad esso imputabili inerisce al sistema dei Trattati, mira a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione e l’effettiva tutela dei diritti che i singoli ne derivano ed è valido per qualsiasi caso di violazione di tale diritto da parte di uno Stato membro, indipendentemente dall’autorità pubblica responsabile di tale violazione[83]. In ogni caso, nella sentenza Dillenkofer[84], la Corte ha chiarito che l’assenza di trasposizione equivale automaticamente ad una violazione caratterizzata. Il risarcimento del danno copre sia i casi in cui i le disposizioni dell’Unione non possono essere invocate in situazioni verticali perché non sono sufficientemente chiare, precise o incondizionate (era appunto il caso Francovich), sia, come poi confermato dalla sentenza Faccini Dori[85], i casi in cui una direttiva, pur dotata di tutti i citati requisiti, venga invocata a livello orizzontale.
Anche a causa della loro progressiva stratificazione, le relazioni fra i tre rimedi sin qui illustrati non erano inizialmente molto chiare. Si tendeva però a ritenere che il risarcimento del danno fosse il rimedio ultimo, da utilizzare solo ove non fosse possibile invocare né l’interpretazione conforme, né l’effetto diretto. La successione logica con cui applicare i tre rimedi sembrava dunque inizialmente coincidere con l’ordine cronologico secondo il quale essi erano stati enunciati dalla Corte. Nelle sue conclusioni sul caso Brasserie du Pecheur, l’Avvocato generale Tesauro qualificava “l’azione risarcitoria come l’ultima spiaggia lasciata al singolo, cioè la via da utilizzare quando non gli sia possibile pervenire altrimenti ad un risultato utile, neppure mediante l’interpretazione delle norme nazionali in materia, da parte del giudice nazionale, in modo conforme alle norme comunitarie di cui si tratta”[86].
Con la sentenza Dominguez[87], una vera e propria summa di tutta la teoria dell’effetto diretto, venne formalizzata invece una diversa una gerarchia fra i tre rimedi: il giudice deve innanzitutto verificare la possibilità di eliminare le disarmonie fra ordinamento nazionale e norme dell’Unione procedendo ad un’interpretazione conforme; in caso ciò non sia possibile deve disapplicare la norma nazionale, garantendo l’effetto diretto di quella europea; e solo ove nemmeno questo sia possibile, verificare la possibilità di procedere al risarcimento del danno.
La sentenza Dominguez sembrava aver concluso il tormentato percorso giurisprudenziale e la complessa costruzione teorica che questo aveva prodotto pareva aver trovato un equilibrio stabile e coerente. Un equilibrio sul quale la nuova sentenza Popławski, pur non mettendo formalmente in discussione nessuna delle precedenti sentenze della Corte, suscita nuovi interrogativi.
4. La disapplicazione coincide con la diretta efficacia? Effetti di esclusione ed effetti di sostituzione
Come emerge dall’analisi sin qui effettuata, ogni volta che la Corte di Giustizia ha aggiunto un nuovo tassello alla propria teoria degli effetti diretti, si sono aperti nuovi problemi teorici, che hanno a loro volta richiesto l’adozione di ulteriori sentenze per risolverli. Per le ragioni che cercherò di esporre, sembra probabile che questo si verificherà anche dopo l’emissione della seconda sentenza Popławski.
In effetti questa sentenza, anche se non appare di per sé contraddire i precedenti della Corte, che anzi cita abbondantemente, solleva questioni molto rilevanti: vi è coincidenza fra effetti diretti e disapplicazione? O, meglio, esiste un rapporto di corrispondenza biunivoca fra gli stessi? E ancora: il primato esiste anche senza effetti diretti?
Il problema è che la sentenza sembra desumere, in via generale, dall’obbligo, che incombe al giudice nazionale in caso non sia possibile l’interpretazione conforme, di disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito, la conseguenza che “una disposizione del diritto dell’Unione che sia priva di effetto diretto non può essere fatta valere, in quanto tale, nell’ambito di una controversia rientrante nel diritto dell’Unione, al fine di escludere l’applicazione di una disposizione di diritto nazionale ad essa contraria”[88].
Ora, se è indubbiamente incontestabile che l’obbligo sopra ricordato sussiste, occorre chiedersi se da questo possa desumersi, a contrario, un generale divieto per il giudice di prendere in considerazione “in quanto tale”, ovvero in assenza del supporto di norme nazionali, gli effetti, in particolare gli effetti ostativi, della norma dell’Unione.
La sentenza Popławski, non limitandosi a trattare degli effetti delle decisioni quadro, si spinge ad affrontare anche quelli delle direttive, specificando che “l’invocazione di una disposizione di una direttiva che non sia sufficientemente chiara, precisa e incondizionata da vedersi riconoscere un effetto diretto non può condurre, sulla sola base del diritto dell’Unione, alla disapplicazione di una disposizione nazionale ad opera di un giudice di uno Stato membro”[89]. A dire il vero, i precedenti[90] che la sentenza riporta a sostegno di questa affermazione sono assai meno categorici, limitandosi la maggior parte di essi a sottolineare l’obbligo per il giudice di procedere alla disapplicazione in determinate situazioni.
In tal modo, la sentenza sembra equiparare disapplicazione e diretta efficacia. Anche se, i due concetti, vengono non di rado assimilati o utilizzati fungibilmente dalla dottrina, si deve rilevare che l’efficacia diretta è concettualmente distinta dalla disapplicazione. I due concetti sono stati enunciati dalla Corte in periodi diversi e, almeno inizialmente, in un contesto concettuale assai diverso, in quanto la sentenza Simmenthal era riferita al primato. Come si è visto, mentre l’efficacia diretta è una possibile caratteristica delle norme dell’Unione, la disapplicazione è uno fra i vari rimedi a disposizione dei giudici nazionali.
Inoltre, occorre ricordare la distinzione, sopra richiamata, fra invocabilità di esclusione ed invocabilità di sostituzione[91], a cui peraltro fa riferimento anche l’Avvocato generale Campos Sánchez-Bordona, nelle sue conclusioni nella sentenza in esame[92]. Egli afferma infatti che la sentenza Link Logistik (su cui si tornerà fra breve) “conforta la tesi secondo la quale l’efficacia diretta dev’essere distinta dall’effetto di esclusione delle direttive”[93].
Come si è già accennato, la disapplicazione comporta normalmente due passaggi logici: l’esclusione della norma nazionale incompatibile e la sostituzione di quest’ultima con la norma europea. Il secondo passaggio, che concretizza l’efficacia diretta, presuppone il primo, che esprime il primato, ma non viceversa.
Una simile ricostruzione forse può sembrare bizzarra, in quanto implica che i due passaggi logici della stessa operazione (la disapplicazione) siano fondati su due principi diversi: il primato e gli effetti diretti. Tuttavia si potrebbe rispondere che mentre tutte le norme dell’Unione godono del primato e dunque possono dare luogo all’effetto di esclusione, solo alcune godono di effetti diretti e possono dare luogo anche all’effetto di sostituzione.
Una norma dotata di effetti diretti è in grado di produrre direttamente i propri effetti giuridici, anche in mancanza di attuazione, se supera i due passaggi sopracitati. In altre parole, a seconda della “forza” della norma europea (ovvero un grado di chiarezza precisione e autosufficienza), della sua natura e del contesto in cui viene invocata, la disapplicazione può comportare solo un effetto di esclusione della norma nazionale, o anche la sostituzione della stessa. Mentre il primo passaggio avviene in forza del primato, in questa seconda ipotesi la disapplicazione deriva dalla somma dei principi del primato e degli effetti diretti[94].
Se dunque nel caso di una disposizione priva di effetti diretti è certamente corretto escludere l’effetto di sostituzione, ci si può chiedere se questo valga necessariamente anche per l’effetto di esclusione. La logica sembrerebbe suggerire una risposta negativa: l’effetto diretto presuppone il primato, ma non viceversa e la forza del secondo può esercitarsi anche ove non vi siano le condizioni per invocare il primo.
Mentre l’effetto di sostituzione necessita sicuramente di norme chiare, precise ed incondizionate, in quello di esclusione la norma dell’Unione, pur non avendo le caratteristiche sufficienti per produrre direttamente i propri effetti giuridici nell’ordinamento nazionale, potrebbe comunque, in virtù del primato, avere in certi casi forza sufficiente per opporsi all’applicazione di norme nazionali incompatibili. L’effetto di esclusione, per chiarire meglio, si potrebbe anche definire “ostativo”, o “di opponibilità”.
Per tornare al rapporto concettuale fra diretta efficacia e disapplicazione, si dovrebbe dunque distinguere fra una disapplicazione per sostituzione, che in effetti, pur concettualmente distinta può essere sovrapposta alla diretta efficacia, in quanto il loro perimetro applicativo coincide, ed una disapplicazione “ostativa”, basata sull’effetto di esclusione. Anche se ovviamente si possono usare per i due concetti “etichette” diverse[95], possiamo dire, per maggiore chiarezza che, a seconda che ci si ponga nell’ottica dell’individuo o in quella del giudice, all’invocabilità di sostituzione e all’invocabilità di esclusione corrispondono una “disapplicazione per sostituzione” ed una “disapplicazione per esclusione”.
Se la Corte constata che il diritto dell’Unione “osta” ad una certa legislazione nazionale, si può creare, in virtù del primato, un effetto preclusivo all’applicazione di quella legislazione, di cui il giudice deve tenere conto e di cui l’individuo può indirettamente beneficiare. Poiché una norma dell’Unione può creare un’obbligazione chiara e precisa per gli Stati, senza per ciò attribuire dei diritti o degli obblighi agli individui, questi ultimi potrebbero, in certe situazioni, avere interesse ad invocare contro lo Stato una disposizione dell’Unione, al fine di opporsi all’applicazione del diritto nazionale incompatibile con detta disposizione, giovandosi della modifica della situazione normativa causata appunto dalla disapplicazione.
In questo senso, dunque, anche una norma priva di effetti diretti potrebbe, in taluni casi, essere utilmente fatta valere in giudizio. Al riguardo la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia offre alcuni esempi.
Innanzitutto, nella sentenza Link Logistic[96] nonostante il fatto che nel caso di specie la norma di una direttiva non poteva né avere efficacia diretta, e nemmeno era possibile l’interpretazione conforme (in quanto essa si sarebbe posta contra legem), la Corte ha affermato che, “il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, eventualmente disapplicando ogni disposizione nazionale la cui applicazione, date le circostanze di specie, conduca ad un risultato contrario al diritto dell’Unione”[97].
Inoltre, un individuo potrebbe invocare una direttiva, anche se questa non è abbastanza precisa o incondizionata per produrre un effetto di sostituzione, al fine di opporsi ad una norma di uno Stato membro che ecceda il margine di discrezionalità lasciatogli dalla direttiva stessa[98]. La Corte di Giustizia si era pronunciata in tal senso già a partire dalla sentenza Kraaijeveld e a.[99] e, da ultimo, nella sentenza WWF[100] ha sottolineato che “sarebbe incompatibile con l’effetto vincolante che l’art. 189 del Trattato CE (divenuto art. 249 CE) riconosce alla direttiva l’escludere, in linea di principio, che l’obbligo da essa imposto possa esser fatto valere dalle persone interessate” e che “l’effetto utile dell’atto sarebbe attenuato se ai cittadini comunitari fosse precluso di valersene in giudizio ed ai giudici nazionali di prenderlo in considerazione in quanto elemento del diritto comunitario allo scopo di accertare se il legislatore nazionale, nell’esercizio della facoltà riservatagli quanto alla forma ed ai mezzi per l’attuazione della direttiva, sia rimasto entro i limiti di discrezionalità tracciati dalla direttiva stessa”.
Infine, nella recentissima sentenza Sportingbet PLC[101] la Corte, confermando quanto aveva già enunciato nella sentenza CIA Security e in altre[102], ha affermato che la violazione dell’obbligo prescritto dalle direttive che impongono di notificare regole tecniche è “sanzionato dall’inapplicabilità di tali regole, cosicché esse non possono essere opposte ai singoli”. Di conseguenza. “questi ultimi possono avvalersene dinanzi al giudice nazionale, cui compete la disapplicazione di una regola tecnica nazionale che non sia stata notificata conformemente alla direttiva”.
5. Una formula generale?
Alla luce di quanto sopra, può rimanere in dubbio se la sentenza Popławski, attinente ad una decisione quadro, abbia veramente inteso rimettere in discussione, in via generale, la giurisprudenza in materia di direttive da ultimo citata. Peraltro, anche la giurisprudenza successiva lascia permanere tale dubbio. Diverse pronunce della Corte successive alla sentenza Popławski riprendono i punti di quest’ultima, collegando, in maniera apparentemente biunivoca, disapplicazione ed effetto diretto. Tuttavia, la maggior parte di esse[103] lo fa solo al fine di sottolineare l’obbligo di disapplicazione di norme nazionali perché, nel caso di specie, quelle dell’Unione possono essere ritenute dotate di effetti diretti: in questi casi il ricorso alla “formula Popławski” non ha dunque alcun impatto sul problema dell’effetto di esclusione. Al momento soltanto una sentenza su una decisione quadro[104] ed un’altra relativa ad accordi-quadro[105] hanno ripreso la “formula Popławski”, per negare la disapplicazione.
Quali sarebbero i rischi in caso di consolidamento di una negazione generalizzata dell’invocabilità di esclusione per le norme prive di effetti diretti? Nel caso di una decisione quadro, o di una direttiva priva di effetti diretti, qualunque norma nazionale (anteriore o posteriore) a queste apertamente contraria, di fatto bloccherebbe sia l’interpretazione conforme che la disapplicazione e quindi, di conseguenza, anche il primato di quegli atti.
L’avvocato generale Campos Sánchez-Bordona ha messo bene in luce, con riferimento alla decisione quadro 2002/584, questo rischio, affermando che negare che essa possa produrre un effetto di esclusione del diritto nazionale contrario “equivarrebbe puramente e semplicemente a consentire l’erronea attuazione da parte degli Stati membri di un motivo di non esecuzione del MAE e a pregiudicare l’esigenza di applicazione uniforme delle decisioni quadro all’interno dell’Unione, nonché i principi di fiducia e di riconoscimento reciproci”[106].
Certo, in assenza di interpretazione conforme e di disapplicazione, rimarrebbe sempre la “sanzione indiretta” del risarcimento del danno; quest’ultima però, come si è visto sopra, non solo è, in generale, possibile soltanto a determinate condizioni, ma, nel caso delle decisioni quadro, risulta ancor più difficile da invocare. In una situazione come quella della causa Popławski, ad esempio, manca un soggetto danneggiato che avrebbe interesse a promuovere un a simile azione (a meno che non si consideri tale lo Stato di emissione, ma il danno sarebbe comunque difficile da quantificare), visto che il sig. Popławski era ben contento di non venire consegnato in Polonia. Non resterebbe allora che il ricorso in infrazione contro lo Stato inadempiente, ma si tratta di un rimedio completamente precluso agli individui e poco adatto a modularsi sulle diverse situazioni che può creare un’attuazione non corretta o incompleta.
Alcuni autori[107] sottolineano il rischio che, se si priva il giudice dello strumento della disapplicazione per esclusione, questi sarà spinto in molti casi a forzare la lettera della norma nazionale, per poter pervenire ad un’interpretazione conforme.
In effetti, la soluzione cui giunge, nel caso di specie, la stessa sentenza Popławski, può essere un esempio in questo senso: dopo aver constatato l’impossibilità, evocata dal giudice di rinvio, di procedere all’interpretazione conforme ed aver escluso la disapplicazione a causa della mancanza di effetti diretti della decisione quadro, la Corte conclude che il giudice olandese deve comunque disapplicare l’interpretazione del Ministro, in quanto l’interpretazione di quest’ultimo della legge nazionale non è conforme alla decisione quadro. Ora, a meno che non si voglia circoscrivere la contrarietà alla sola legge in senso formale (dunque nel caso di specie non alle decisioni di un Ministro), una simile soluzione sembra spingere il giudice ad una interpretazione contra legem, in contraddizione con il corollario indiscusso e sonoramente riaffermato dalla stessa sentenza[108].
Sebbene alcuni Autori[109] valutino positivamente il fatto che la Corte abbia finora evitato di tracciare distinzioni nette, riducendo in sostanza la teoria dell’effetto diretto a una questione di giustiziabilità della norma di fronte al giudice (che poi, sulla base del contenuto di detta norma, procede alla disapplicazione per sostituzione o solo per esclusione), sembra opportuno che la Corte chiarisca il dubbio, suscitato dalla formulazione generale della sentenza Popławski, che l’assenza di effetti diretti possa precludere l’invocabilità di esclusione, e la conseguente disapplicazione.
In proposito, la dottrina suggerisce diverse soluzioni. Alcuni Autori auspicano che la Corte limiti la portata della sentenza alle decisioni quadro, in virtù della loro particolare natura, mentre altri propongono che la Corte affermi la dissociazione tra diretta efficacia ed effetto di esclusione[110]. Altri ancora[111], infine, suggeriscono che la Corte, in una prossima sentenza, precisi che il fatto che il giudice nazionale non sia tenuto a disapplicare le norme interne in assenza di effetti diretti di quelle dell’Unione non significa che egli non ne abbia la facoltà. Forse la via più semplice sarebbe quella che la Corte prendesse chiaramente posizione sull’invocabilità di esclusione in assenza di effetti diretti.
6. Invocabilità di esclusione ed effetti orizzontali
Una questione ancor più delicata, la cui risposta è pure condizionata dall’accettazione o meno della distinzione fra effetti di esclusione e di sostituzione, è se l’effetto di esclusione possa o meno essere invocato anche in controversie orizzontali, soprattutto ove si tratti di direttive.
La sentenza Popławski, afferma giustamente che una disposizione priva di effetti diretti non può creare obblighi per il singolo[112], il che costituisce un principio consolidato: la sentenza Faccini Dori aveva affermato che “estendere l’invocabilità di una disposizione di una direttiva non trasposta, o trasposta erroneamente, all’ambito dei rapporti tra singoli equivarrebbe a riconoscere all’Unione europea il potere di istituire con effetto immediato obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti”[113].
Nella sentenza Wells[114], la Corte ha esaminato una situazione triangolare, in cui un privato chiedeva allo Stato di annullare una concessione, attribuita ad un altro privato, in violazione della direttiva che impone la valutazione di impatto ambientale. La Corte traccia una distinzione[115]. Da un lato il principio della certezza del diritto osta a che le direttive possano creare obblighi a carico dei singoli, quindi “un singolo non può far valere una direttiva nei confronti di uno Stato membro, qualora si tratti di un obbligo pubblico direttamente connesso all'attuazione di un altro obbligo che incombe ad un terzo”. Dall’altro però “mere ripercussioni negative sui diritti di terzi, anche se certe, non giustificano che si rifiuti ad un singolo di far valere le disposizioni di una direttiva nei confronti dello Stato”. Nella causa principale, l’obbligo per lo Stato di garantire una valutazione dell'impatto ambientale non era direttamente connesso all’esecuzione di un qualsiasi obbligo che incombeva al concessionario. La Corte chiarisce che lo svantaggio che deriva per quest’ultimo dall’applicazione della direttiva non costituisce un effetto verticale rovesciato.
Ma anche al di là delle situazioni “triangolari”, la dottrina sottolinea che vi possono essere casi in cui l’effetto di esclusione può avvantaggiare gli individui, non a causa dell’applicazione della direttiva, ma per la “sparizione”[116] di obblighi loro imposti dalla norma nazionale, la cui applicabilità è preclusa dalla direttiva stessa. In un rapporto orizzontale la “sparizione” potrebbe dunque comportare solo indirettamente uno svantaggio per un individuo, il quale non potrebbe comunque invocare contro un altro individuo il contenuto (non attuato) della direttiva stessa.
In quest’ottica, la disapplicazione per esclusione non costituisce di per sé nessun obbligo in capo ad un individuo, ma impedirebbe semplicemente l’applicazione di una norma nazionale, avvantaggiando una delle due parti in causa[117]. Si tratterebbe dunque soltanto di un effetto indiretto, analogo a quello che può produrre l’interpretazione conforme, come ad esempio nel caso Marleasing.
A sostegno della possibilità di invocare l’effetto di esclusione in una lite fra privati[118], potrebbero citarsi sentenze come CIA Security International[119], o Unilever Italia[120], in cui la Corte aveva chiarito che l’inapplicabilità di una regola tecnica non notificata conformemente alla Commissione “può essere fatta valere in una controversia tra singoli…perché, se è vero, che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti…la direttiva 83/189 non definisce in alcun modo il contenuto sostanziale della norma giuridica sulla base della quale il giudice nazionale deve risolvere la controversia dinanzi ad esso pendente. Essa non crea né diritti né obblighi per i singoli”[121]. Del resto nella già citata sentenza Wells[122], la Corte, dopo aver ricordato che “il principio della certezza del diritto osta a che le direttive possano creare obblighi a carico dei singoli. Nei confronti di questi ultimi, le disposizioni di una direttiva possono generare solo diritti”, aveva affermato che “mere ripercussioni negative sui diritti di terzi, anche se certe, non giustificano che si rifiuti ad un singolo di far valere le disposizioni di una direttiva nei confronti dello Stato membro interessato”.
Nella sentenza David Smith[123] la Corte è tornata sulle sentenze CIA Security e Unilever, riscontrando però che la fattispecie in causa non era assimilabile a quelle esaminate dalle stesse. Secondo la Corte infatti quelle sentenze “avevano ad oggetto una situazione particolare”, vale a dire quello dell’adozione di regole tecniche nazionali in violazione degli obblighi procedurali di notifica”, nella quale la direttiva, non creava né diritti né obblighi per i singoli, e non definiva il contenuto sostanziale della norma giuridica sulla base della quale il giudice nazionale doveva risolvere la controversia. Viceversa, la direttiva oggetto del procedimento principale “enuncia il contenuto sostanziale di una norma giuridica e, di conseguenza, rientra nel campo di applicazione della giurisprudenza relativa alla mancanza di invocabilità, tra singoli, di una direttiva non trasposta o trasposta non correttamente.”
La sentenza David Smith, da un lato, costituisce una conferma indiretta della giurisprudenza sopra citata, ma dall’altro evidenzia quanto siano ristretti i margini in cui la disapplicazione per esclusione potrebbe operare nelle controversie orizzontali.
7. I compiti dei giudici nazionali dopo Popławski
Occorre in conclusione chiedersi quale sia, allo stato attuale, il comportamento che il giudice nazionale deve tenere quando si trovi di fronte ad una disposizione dell’Unione, non attuata o comunque in conflitto con quelle del proprio ordinamento ed, in particolare, in quali casi egli dovrebbe effettuare un rinvio alla Corte di Giustizia.
Il giudice dovrà percorrere, in successione, le tappe del ragionamento, applicando i relativi rimedi, secondo quanto affermato dalla sentenza Dominguez e ribadito in Popławski. Il primo rimedio in ordine logico, vale a dire l’interpretazione conforme, è principalmente nelle sue mani: se ha dubbi sul significato della norma europea, potrà (o dovrà se in ultima istanza) certamente rinviare alla Corte di Giustizia, ma è il giudice nazionale – e non la Corte – che può valutare sino a che punto la legge del suo paese possa essere interpretata in conformità con la norma dell’Unione. Nel fare questo dovrà comunque ricordare che il diritto dell’Unione non gli chiede affatto – al contrario lo esclude espressamente – di effettuare un’interpretazione contra legem.
Ove il giudice ritenga che l’interpretazione conforme non sia praticabile, dovrà verificare la possibilità di procedere al secondo rimedio, disapplicando il diritto nazionale. In questo secondo passaggio, un rinvio pregiudiziale alla Corte può essere utile per aiutarlo a valutare se, e in che misura, la norma dell’Unione (ad esempio nel caso di una direttiva) sia sufficientemente chiara precisa e incondizionata perché essa possa avere effetti diretti: in caso affermativo, il giudice procederà alla disapplicazione per sostituzione.
A dire il vero, nonostante l’ordine logico enunciato dalla Corte, fra i due rimedi vi è di fatto una certa continuità. Paradossalmente, infatti, più la norma è chiara, precisa e incondizionata, più l’interpretazione conforme diventa difficile e più diventa, invece, praticabile la disapplicazione. Attribuire al giudice nazionale il potere di valutare la possibilità di ricorrere all’interpretazione conforme, modellando la norma nazionale su quella europea è anche un modo per lasciargli la scelta dello strumento meno invasivo e più idoneo per assicurare gli effetti della norma dell’Unione nel proprio ordinamento.
Ma cosa deve fare il giudice se la norma dell’Unione non può nemmeno avere effetti diretti? Se la Corte dichiara che il diritto dell’Unione si oppone (“osta”) all’applicazione di una certa norma, il giudice nazionale, come si è visto, potrebbe trovarsi a valutare un effetto di esclusione. In effetti (e in attesa di maggiori chiarimenti da parte della CGUE), anche se può non essere facile, il giudice dovrebbe cercare, nel caso concreto, di conciliare le affermazioni della sentenza Popławski con la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia secondo la quale il principio di leale cooperazione (di cui all’art. 4.3 TUE) obbliga gli Stati membri e tutte le autorità nazionali, inclusi i giudici, a rimuovere le conseguenze illecite della violazione del diritto dell’Unione, adottando tutti i provvedimenti necessari[124]. Come è stato rilevato[125], il rifiuto, da parte del giudice, di garantire a norme vincolanti dell’Unione lo stesso effetto che viene riconosciuto alle norme nazionali, costituirebbe anche una violazione del principio di equivalenza.
Quanto infine al rimedio residuale del risarcimento del danno, la Corte riconosce che la sua applicazione spetta al giudice nazionale[126], il quale dovrà ovviamente rispettare i principi generali di effettività e di equivalenza. Il giudice dovrebbe essere in grado di applicarlo autonomamente, anche se, in caso di dubbio, potrà chiedere conforto alla Corte di giustizia. Se da un lato egli è mieux placé, rispetto alla Corte, per apprezzare l’esistenza ed entità del danno ed il nesso di causalità, dall’altro, la valutazione della sufficiente caratterizzazione della violazione può, come si è visto sopra, essere tutt’altro che evidente ed è su tale aspetto che un rinvio alla Corte può essere necessario.
Con specifico riferimento all’ordinamento italiano, ci si potrebbe infine chiedere in che modo si inserisca, nello schema teorico sin qui delineato, la delicata questione della c.d. “doppia pregiudizialità”, che, a seguito di alcune ben note pronunce della Corte Costituzionale, ha acceso uno sconfinato dibattito dottrinale[127]. In quali dei passaggi di tale schema si può inserire utilmente, anche dal punto di vista del diritto dell’Unione europea, l’intervento della Consulta? La Corte Costituzionale sembra riconoscere, in generale, che il proprio ruolo può venire in gioco quando la norma dell’Unione è priva di effetti diretti[128], il che peraltro conferma quanto già era stato accennato nella sentenza Granital[129].
Ora, in tali situazioni, come si è visto, il primo step per il giudice è quello di verificare la possibilità di procedere ad un’interpretazione delle norme nazionali conforme a quelle dell’Unione e quando ciò non sia possibile, rimane aperta la questione se, in taluni casi, il giudice possa o meno trarre le conseguenze di effetti ostativi della norma dell’Unione che possano portare alla soluzione del caso concreto. Ma in ogni caso, quando l’interpretazione conforme si porrebbe chiaramente contra legem, anziché procedere ad una simile interpretazione, il giudice dovrebbe chiedere lumi alla propria Corte costituzionale, in quanto si porrebbe un problema di delimitazione delle competenze fra potere giudiziario e potere legislativo il quale potrebbe richiedere una dichiarazione di incostituzionalità della norma italiana, per violazione degli articoli 11 e 117 Cost.[130] Un rinvio alla Corte di Giustizia in questi casi potrebbe essere utile solo per chiarire la portata ed il significato della norma dell’Unione ed avrebbe dunque un oggetto diverso dal rinvio incidentale di costituzionalità. Ove poi l’applicazione di nessuno di tali rimedi possa scongiurare un danno per l’individuo, quest’ultimo potrà sempre chiederne il risarcimento.
La sentenza Popławski accenna indirettamente a questi problemi di coordinamento interni agli ordinamenti degli Stati membri, senza però ovviamente poter essa stessa offrire la soluzione, quando sottolinea ripetutamente[131], per la verità utilizzando una formula non inedita[132], che il giudice di uno Stato membro non è tenuto “sulla sola base del diritto dell’Unione” a disapplicare una norma del suo ordinamento contraria a tale diritto[133]. Può però ricordarsi che, qualunque sia il suo grado di chiarezza e precisione, una direttiva deve essere attuata e, in caso contrario, la conseguenza potrebbe essere un ricorso di infrazione contro lo Stato e che il coinvolgimento “ulteriore” delle autorità nazionali potrebbe essere un mezzo per scongiurare tale conseguenza.
Un discorso particolare va fatto infine per la Carta dei diritti fondamentali, che, in quanto spesso sostanzialmente sovrapponibile alla Costituzione, sembra essere al centro delle preoccupazioni della Consulta[134]. In proposito va ricordato che, se da un lato l’interprete unico della Carta stessa è la Corte di Giustizia, la quale sola può definire gli effetti, dall’altro diverse disposizioni della stessa fanno riferimento a norme e prassi nazionali[135], delle quali ovviamente l’interprete ultimo è la Corte Costituzionale.
L’analisi sin qui svolta mostra quanto il principio degli effetti diretti e tutti i corollari che assieme al primo costituiscono la teoria degli effetti diretti, necessitano della collaborazione fra i giudici nazionali e la Corte di Giustizia. Questa collaborazione non solo è indispensabile per mettere in atto quotidianamente questa teoria, ma ha anche contribuito, nel tempo, attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale, a modellare, precisare e, talvolta, a ridefinire la stessa.
*Il presente lavoro esprime opinioni strettamente personali e non attribuibili alla Corte.
[1] Sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, C‑573/17, EU:C:2019:530.
[2] Cfr. P. Beauvais, M. Benlolo Carabot, Infléchissement ou bouleversement ? Vers une redéfinition des rapports entre primauté et effet direct, RTDE, 2 (2020), pp. 427-437; A. Bailleux, C. Rizcallah, Chroniques. Les droits fondamentaux dans l'ordre juridique de l'Union européenne, J.D.E., 9 (2019), no. 263, pp. 369-377, H. Cassagnabère e. a., Chronique de jurisprudence de la CJUE, A.J.D.A, 28 (2019), p. 164 ; L. Coutron, Invocabilité du droit de l’Union européenne : une doctrine enfin assumée par la Cour de justice dans l’arrêt Popławski, RTDE., 2 (2020), pp. 274-279; L. Krämer, L’interprétation conforme : la Cour de justice et la doctrine sur l’effet direct, R.D.U.E., 3 (2019), pp. 59-67 ; F. Lafarge, E. Neframi, M. Mangenot, Chronique de l’administration européenne [1], Revue française d'administration publique, Vol. 171, no. 3 (2019), pp. 831-860; E. Neframi, Quelques Réflexions Sur Le Retour Du Principe De Primauté : A Propos Des Arrêts Popławski (C‑573/17) Et A.K. (C-585/18, C-624/18 Et C-625/18), in J-C. Barbato, S. Barbou des Places, M. Dubuy, A. Moine (dir), Transformations et résilience de l'Etat, Mélanges en l'honneur de Jean-Denis Mouton, Paris, Pedone (2020), pp. 463-476.
[3] Secondo A. Rigaux et D. Simon, L’arrêt Popławski 2 : accroc limité ou ébranlement général dans la mise en oeuvre de la primauté par le juge national ?, Europe (octobre 2019), Étude, p. 5, la sentenza mette in discussione il primato e l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, e lascia il giudice nazionale in una situazione di impotenza. Per osservazioni critiche sulla sentenza v. anche L. Krämer, L’interprétation conforme : la Cour de justice et la doctrine sur l’effet direct, R.D.U.E., 3 (2019), pp. 59-67; D. Dero-Bugny, Note sous CJUE, GC, 24 juin 2019, Popławski, C-573/17, Journal du droit international (Clunet), 2 (2020), pp. 717-720.
[4] Così C. Blumann, Les droits fondamentaux, nouvel horizon du droit de l’Union européenne?, R.D.U.E., 1 (2020), pp. 145-168, in particolare p.164.
[5] Su cui v. infra, nota 54.
[6] Sentenza del 29 giugno 2017, Popławski, C‑579/15, EU:C:2017:503.
[7] Tale effetto era infatti espressamente escluso dall’articolo 34, paragrafo 2, lettera b), UE, nella versione anteriore al Trattato di Lisbona.
[8] Ibid., punto 32.
[9] Ibid., punto 33.
[10] Ibid., punto 35 e ss.
[11] Nel caso di specie, per poter applicare la decisione quadro, entrata in vigore dopo i fatti della causa, si sarebbe dovuto equipararla ad una convenzione internazionale.
[12] Sentenza del 29 giugno 2017, Popławski, C‑579/15, EU:C:2017:503.
[13] Conclusioni dell'avvocato generale Campos Sánchez-Bordona nella causa Popławski, C‑573/17, EU:C:2018:957, p.104.
[14] Ibid., punto 105.
[15] Sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, C‑573/17, EU:C:2019:530, punto 57.
[16] Ibid., punto 58.
[17] Ibid., punto 59.
[18] Ibid., punto 62.
[19] Ai sensi dell’articolo 9 del protocollo (n. 36) sulle disposizioni transitorie, allegato ai trattati, gli effetti giuridici degli atti delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione adottati in base al Trattato UE prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona sono mantenuti finché tali atti non saranno stati abrogati, annullati o modificati in applicazione dei trattati
[20] Ibid., punto 64
[21] Una teoria che, come rileva M. Bobek, Van Gend en Loos +50: the Changing Social Context of Direct Effect, in 50ème anniversaire de l’arrêt Van Gend en Loos: 1963-2013: actes du colloque, Luxembourg, 13 maggio 2013, ha ancora molti aspetti da chiarire.
[22] Sentenza del 5 febbraio 1963, van Gend & Loos, 26/62, EU:C:1963:1
Sul tema la letteratura è sconfinata. Occorre però citare, in particolare, i vari contributi contenuti in 50ème anniversaire de l’arrêt Van Gend en Loos: 1963-2013: actes du colloque, Luxembourg, 13 maggio 2013, https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2013-12/qd30136442ac_002.pdf
[23] Com’è noto, secondo la sentenza Van Gend &Loos, “Il Trattato non è un accordo che crea “obblighi reciproci fra gli Stati contraenti”.” Quindi l’articolo 12 TCEE può essere invocato direttamente dal singolo davanti al giudice nazionale perché contiene un divieto “chiaro e incondizionato”, per sua natura “perfettamente atto a produrre direttamente degli effetti sui rapporti giuridici intercorrenti fra gli Stati membri ed i loro amministrati” Si trattava infatti di un obbligo non di fare, bensì di non fare, e, in quanto tale, non subordinato all’emanazione di un provvedimento di diritto interno
[24] Sentenza del 15 luglio 1964, Costa c. ENEL, 6/64, EU:C:1964:66, pp. 1144-5.
[25] Sentenza del 5 aprile 1979, Ratti, 148/78, EU:C:1979:110, punto 23
[26] Di diversa opinione è D. Gallo, op. cit. p. 9, il quale ritiene che se una norma è incondizionata allora è necessariamente anche chiara e precisa.
[27] Sentenza del 1° luglio 2010, Gassmayr, C‑194/08, EU:C:2010:386, punto 45
[28] Sentenza del 17 dicembre 1970, SACE, 33/70, EU:C:1970:118. Con tale sentenza l’effetto diretto fu dapprima esteso a direttive scadute e non attuate, in combinato disposto con alcuni articoli del Trattato
[29] Sentenza del 4 dicembre 1974, Van Duyn, 41/74, EU:C:1974:133, p.12 V. anche sentenza del 23 febbraio 1994, Comitato di coordinamento per la difesa della cava e a., C‑236/92, EU:C:1994:60, punto 9
[30] Tali atti, secondo la definizione, oggi contenuta nell’art 288 TFUE, creano per gli Stati obblighi di risultando, lasciando loro per la scelta dei mezzi un margine di discrezionalità, più o meno elevato a seconda del contenuto della singola direttiva.
[31] Sul punto v. H. Cassagnabère e. a., Chronique de jurisprudence de la CJUE, A.J.D.A, 28 (2019), p. 164.
[32] Fra le numerosissime critiche forse la più nota è quella di P.,Pescatore, The Doctrine of “Direct Effect”: An Infant Disease of Community Law, in EL Rev. 1983, p. 155 ss. Rilievi critici sono peraltro stati mossi da esponenti della Corte: v. S. Prechal, Does Direct Effect Still Matter?, in CML Rev. 2000, p. 1047 ss. ; T. Von Danwitz, Effets juridiques des directives selon la jurisprudence récente de la Cour de justice - Effet anticipé, antérieur à l’expiration du délai de transposition, interprétation conforme aux directives, primauté et application “combinée” avec les principes généraux du droit, in RTD Eur. 2007, p. 575 ss.
[33] V. sentenze dell'8 ottobre 1987, Kolpinghuis Nijmegen, 80/86, EU:C:1987:431 e del 26 settembre 1996, Arcaro, C‑168/95, EU:C:1996:363; del 14 luglio 1994, Faccini Dori, C‑91/92, EU:C:1994:292, punto 20; del 7 marzo 1996, El Corte Inglés, C‑192/94, EU:C:1996:88, punto 15; del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., C‑397/01 – C‑403/01, EU:C:2004:584., p. 108; nonché sentenza del 19 gennaio 2010, Kücükdeveci, C‑555/07, EU:C:2010:21, punto 46; del 3 maggio 2005, Berlusconi e a., C‑387/02, C‑391/02 e C‑403/02, EU:C:2005:270, del 10 ottobre 2017, Farrell, C‑413/15, EU:C:2017:745 e dell'8 ottobre 2020, Subdelegación del Gobierno en Toledo (Conseguenze della sentenza Zaizoune), C‑568/19, EU:C:2020:807.
[34] Sentenza del 26 febbraio 1986, Marshall, 152/84, EU:C:1986:84.
[35] V. sentenza del 22 giugno 1989, Costanzo, 103/88, EU:C:1989:256, punti 30 e 31.
[36] Sentenza del 12 luglio 1990, Foster e a., C‑188/89, EU:C:1990:313.
[37] V. sentenza del 10 ottobre 2017, Farrell, C‑413/15, EU:C:2017:745 e da ultimo sentenza del 24 novembre 2011, Asociación Nacional de Establecimientos Financieros de Crédito, C‑468/10 e C‑469/10, EU:C:2011:777, punto 51 “per costante giurisprudenza della Corte, in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere invocate dai singoli dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, ove quest’ultimo non abbia recepito nei termini tale direttiva nel diritto interno o non l’abbia recepita correttamente (v. sentenza 3 marzo 2011, causa C‑203/10, Auto Nikolovi, Racc. pag. I-1083, punto 61 e giurisprudenza ivi citata).”
[38] Sentenza del 26 febbraio 1986, Marshall, 152/84, EU:C:1986:84.
[39] V. ad esempio A. Arnull, The Direct Effect Of Directives: Grasping The Nettle, ICLQ 1986, p. 939 e ss.
[40] Sentenza del 14 luglio 1994, Faccini Dori, C‑91/92, EU:C:1994:292.
[41] V. sentenza del 5 febbraio 1963, van Gend & Loos, 26/62, EU:C:1963:1, punti 1 e 23: “gli individui possono avere diritti come contropartita di precisi obblighi imposti agli Stati membri”.
[42] La Corte ha, ad esempio, precisato che hanno effetti diretti orizzontali le norme sull’abolizione dei dazi doganali (v. sentenze del 5 febbraio 1963, van Gend & Loos, 26/62, EU:C:1963:1 e del 17 dicembre 1970, SACE, 33/70, EU:C:1970:118), l’art. 157 TFUE (ex 119) (sentenza dell'8 aprile 1976, Defrenne, 43/75, EU:C:1976:56), l’art. 45 TFUE (sentenza del 12 dicembre 1974, Walrave e Koch, 36/74, EU:C:1974:140), e l’art. 325 TFUE (sentenza dell'8 settembre 2015, Taricco e a., C‑105/14, EU:C:2015:555).
[43] Sentenza del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale, C‑176/12, EU:C:2014:2 (l’art. 27 della Carta non ha effetto diretto). Sono invece stati riconosciuti gli effetti diretti agli artt. 7 e 8 (sentenza del 13 maggio 2014, Google Spain e Google, C‑131/12, EU:C:2014:317), dell’art. 21 in combinazione con l’art. 49 (sentenza del 6 ottobre 2016, Procura della Repubblica, C‑218/15, EU:C:2016:748), dell’art. 31.2 (sentenza del 6 novembre 2018, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, C‑684/16, EU:C:2018:874) e dell’art. 50 (sentenza del 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate e a., C‑537/16, EU:C:2018:193). Sul tema v. L. S. Rossi, Il valore giuridico dei valori. L’Articolo 2 TUE: relazioni con altre disposizioni del diritto primario dell'UE e rimedi giurisdizionali, Federalismi.it, 19 (2020)
[44] A partire dalla sentenza del 6 ottobre 1970, Grad, 9/70, EU:C:1879:78, punto 5; più recentemente, nella sentenza del 7 giugno 2007, Carp, C-80/06, EU:C:2007:327, punti 20 e 21, la Corte ha chiarito invece che, per le stesse ragioni fatte valere rispetto alle direttive, le decisioni non possono avere effetti diretti orizzontali.
[45] Sentenza del 22 novembre 2005, Mangold, C‑144/04, EU:C:2005:709
[46] Sentenze del 30 settembre 1987, Demirel, 12/86, EU:C:1987:400 e del 12 aprile 2005, Simutenkov, C‑265/03, EU:C:2005:213. Le disposizioni contenute in tali accordi sono direttamente efficaci qualora tenuto conto del tenore letterale delle loro disposizioni, nonché dell'oggetto e della natura dell'accordo, emerga un obbligo chiaro e preciso la cui esecuzione ed i cui effetti non siano subordinati all'adozione di alcun atto ulteriore. Al requisito della chiarezza, completezza e non condizionalità si aggiunge quindi la necessità di considerare i termini, l’oggetto e la natura dell’accordo medesimo
[47] Si v. già R. H. Lauwaars, Lawfulness and Legal Force of Community Decisions. European Aspects, Leiden, 1973, p. 14 e D. Gallo, Effetto diretto del diritto dell’Unione europea e disapplicazione, oggi, Osservatorio sulle fonti, 3 (2019), p.1 e ss; per una ricognizione delle posizioni dottrinali sul punto si v., per il dibattito italiano, F. Capelli, Le direttive comunitarie, Milano, 1983, pp. 261-9 e, più in generale, S. Prechal, Directives in EC Law, Oxford 2006, p. 227-9.
[48] In tal senso anche J.-V. Louis, Les règlements de la Communauté Économique Européenne, Bruxelles, 1969, pp. 249-256; sul punto si v. anche J.A. Winter, Direct applicability and direct effect – Two distinct and different concepts in Community Law, CML Rev. 1972, 425-438. Naturalmente nel caso in cui un regolamento nasca volutamente come incompleto, lasciando agli Stati un potere discrezionale per attuare norme di integrazione, tale integrazione costituisce un obbligo di attuazione e, in mancanza della stessa si applicherebbe, per i relativi aspetti, la teoria degli effetti diretti. Lo stesso vale per quelle disposizioni dei regolamenti che, pur essendo sufficientemente precise, richiedano, per essere applicate, l’adozione di misure di esecuzione da parte degli Stati membri; tali disposizioni sono condizionate e dunque non possono conferire diritti che i singoli possano azionare di fronte ai giudici nazionali, ma restano fonte di obblighi per gli Stati membri e pongono dunque il tema della loro possibile invocabilità di esclusione, sulla base del primato (sulla quale si v. il paragrafo 6); sul punto si v. le sentenze dell’11 gennaio 2001, Monte Arcosu, C-403/98, EU:C:2001:6, punti 26-29 e del 14 aprile 2011, Vlaamse Dierenartsenvereniging e Janssens, C‑42/10, C‑45/10 e C‑57/10, EU:C:2011:253, punti 48-50.
[49] Sentenza del 9 marzo 1978, Simmenthal, 106/77, EU:C:1978:49; per una riflessione approfondita sulla genesi e la ricezione di tale sentenza si v. AA.VV., Il primato del diritto comunitario e i giudici italiani, Milano, 1978.
[50] Corte Costituzionale, sentenza n. 232 del 1975.
[51] La prima sentenza Simmenthal riguardava, nello specifico, la violazione degli artt. 30 e seguenti del trattato CEE, del regolamento n. 14/64/CEE, nonché del regolamento n. 805/68/CEE (Regolamento del Consiglio 27 giugno 1968, n. 805, relativo all'organizzazione comune dei mercati nel settore delle carni bovine (GU n. L 148, pag. 24), sulla cui violazione la Corte si era peraltro già pronunciata nella prima sentenza Simmenthal del 15 dicembre 1976 (35/76, EU:C:1976:180).
[52] Sentenza del 9 marzo 1978, Simmenthal, cit., punti14-15.
[53] Ibid., punto 17.
[54] Ibid., punto 21.
[55] V.Y. Galmot e J-C. Bonichot, La Cour de justice des Communautés européennes et la transposition des directives en droit national, Revue française de droit administratif, 4(1), janvier-février 1988, pp. 1-23, p. 16 e successivamente T. Dal Farra, L'invocabilité des directives communautaires devant le juge national de la légalité, RTD eur., 28 (4), octobre-décembre 1992, p. 631; P. Manin, De l'utilisation des directives communautaires par les personnes physiques ou morales, AJDA, 20 avril 1994, p. 259; G. Isaac, Droit communautaire général, Masson, 1994; D. Simon, La directive européenne, Dalloz, 1997 e Id., Le système juridique communautaire, 2e éd., PUF, 1998 e più recentemente da O. Dubos, L'invocabilité d'exclusion des directives : une autonomie enfin conquise, RFDA 2003, p. 568.
[56] M. Lenz, D. S. Tynes e L. Young, Horizontal what? Back to basics, EL Rev. 2000, p. 509¸T. Tridimas, Blackwhite and shades of grey :Horizontality of the directives revisited, YEL 2002, p. 327 ss.; P. V. Figueroa Regueiro, Invocability of Substitution and Invocability of Exclusion: Bringing Legal Realism to the Current Developments of the Case-Law of “Horizontal” Direct Effect of Directives, Jean Monnet Working Paper ,7 (2002), https://jeanmonnetprogram.org/archive/papers/02/020701.pdf.; K. Lenaerts e T. Corthaut, Of birds and hedges: the role of primacy in invoking norms of EU law, EL Rev. 2006, p. 287; richiamano tale dicotomia senza farla propria anche M. Dougan, When worlds collide! Competing visions of the relationship between direct effect and supremacy, CML Rev. 2007, pp. 931-963, p. 933; A. Dashwood, From Van Duyn to Mangold via Marshall: Reducing Direct Effect to Absurdity?, Cambridge Yearbook of European Legal Studies, 2007, pp. 81-109, p. 100 e ss. e più recentemente M. Dougan, Primacy and the Remedy of Disapplication, CML Rev. 2019, pp. 1459.
[57] Sentenze C.E., 12 novembre 2015, Société Metro Holding (n°367256) e C.E., 31 maggio 2016, Jacob (n°396881)
[58] Così H. Cassagnabère e. a., Chronique de jurisprudence de la CJUE, A.J.D.A, 28 (2019), p. 164
[59] Su tale principio v., recentemente V. Piccone, Primato e pregiudizialità. Il ruolo dell’interpretazione conforme, in Ferrero-Iannone, Il rinvio pregiudiziale, 2020, p.325 ss
[60] Sentenze del 10 aprile 1984, von Colson e Kamann, 14/83, EU:C:1984:153 e del 13 novembre 1990, Marleasing, C‑106/89, EU:C:1990:395. V. anche sentenza del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., C‑397/01 – C‑403/01, EU:C:2004:584
[61] V. sentenza del 16 giugno 2005, Pupino C‑105/03, EU:C:2005:386, punto 42
[62] Sentenze del 25 febbraio 1999, Carbonari e a., C‑131/97, EU:C:1999:98; del 14 luglio 1994, Faccini Dori, C‑91/92, EU:C:1994:292; del 27 giugno 2000, Océano Grupo Editorial e Salvat Editores, C‑240/98 – C‑244/98, EU:C:2000:346 e del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., C‑397/01 – C‑403/01, EU:C:2004:584
[63] Sentenza del 19 novembre 2009, Sturgeon e a., C‑402/07 e C‑432/07, EU:C:2009:716
[64] Sentenza del 13 dicembre 1989, Grimaldi, C‑322/88, EU:C:1989:646
[65] Sentenza del 16 giugno 2005, Pupino, C‑105/03, EU:C:2005:386
[66] Sentenza del 19 aprile 2016, DI, C‑441/14, EU:C:2016:278
[67] Sentenze del 19 dicembre 2013, Koushkaki, C‑84/12, EU:C:2013:862 e del 29 giugno 2017, Popławski, C‑579/15, EU:C:2017:503
[68] Sentenze del 5 ottobre 2010, Elchinov, C‑173/09, EU:C:2010:581; del 20 ottobre 2011, Interedil, C‑396/09, EU:C:2011:671; del 5 aprile 2016, PFE, C‑689/13, EU:C:2016:199 e del 20 dicembre 2017, Global Starnet, C‑322/16, EU:C:2017:985
[69] Sentenza del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C‑212/04, EU:C:2006:443
[70] Sentenza del 16 giugno 2005, Pupino, C‑105/03, EU:C:2005:386, punti 45-47
[71] V. sentenza del 29 giugno 2017, Popławski, C‑579/15, EU:C:2017:503, punto 32 e sentenza dell’8 novembre 2016, Ognyanov, C‑554/14, EU:C:2016:835, punti da 62 a 64.
[72] Sentenze del 15 aprile 2008, Impact, C‑268/06, EU:C:2008:223, punto 100 e del 28 luglio 2016, JZ, C‑294/16 PPU, EU:C:2016:610, punto 33 e giurisprudenza ivi citata.
[73] Sentenza del 19 novembre 1991, Francovich e a., C‑6/90 e C‑9/90, EU:C:1991:428.
[74] Ibid., punto 35.
[75] Sentenza del 19 novembre 1991, Francovich e a., C‑6/90 e C‑9/90, EU:C:1991:428
[76] Sentenza del 5 marzo 1996, Brasserie du pêcheur e Factortame, C‑46/93 e C‑48/93, EU:C:1996:79
[77] Ibid., punto 51.
[78] Ibid., punto 56.
[79] Ibid., punto 57.
[80] In tal senso v. sentenze del 23 maggio 1996, Hedley Lomas, C‑5/94, EU:C:1996:205, punto 28; del 2 aprile 1998, Norbrook Laboratories, C‑127/95, EU:C:1998:151, punto 109; del 4 luglio 2000, Haim, C‑424/97, EU:C:2000:357, punto 38 e del 28 giugno 2001, Larsy, C‑118/00, EU:C:2001:368.
[81] Ibid., punto 78.
[82] Sentenza del 26 marzo 1996, British Telecommunications, C‑392/93, EU:C:1996:131, punto 42
[83] Sentenza del 19 dicembre 2019, Deutsche Umwelthilfe, C‑752/18, EU:C:2019:1114, in sostanza punti 54 e 55
[84] Sentenza dell’8 ottobre 1996, Dillenkofer e a., C‑178/94, C‑179/94 e C‑188/94 – C‑190/94, EU:C:1996:375
[85] Sentenza del 14 luglio 1994, Faccini Dori, C‑91/92, EU:C:1994:292
[86] Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro nelle cause riunite Brasserie du pêcheur e Factortame, C‑46/93 e C‑48/93, EU:C:1995:407, punto 104.
[87] Sentenza del 24 gennaio 2012, Dominguez, C‑282/10, EU:C:2012:33.
[88] Sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, C‑573/17, EU:C:2019:530, punti 61 e 62.
[89] Ibid., punto 64.
[90] Allo stesso punto 64 vengono citate le sentenze del 24 gennaio 2012, Dominguez, C‑282/10, EU:C:2012:33, punto 41; del 6 marzo 2014, Napoli, C‑595/12, EU:C:2014:128, punto 50 del 25 giugno 2015, Indėlių ir investicijų draudimas e Nemaniūnas, C‑671/13, EU:C:2015:418, punto 60, nonché del 16 luglio 2015, Larentia + Minerva e Marenave Schiffahrt, C‑108/14 e C‑109/14, EU:C:2015:496, punti 51 e 52.
[91] V. supra.
[92]Conclusioni dell'avvocato generale Campos Sánchez-Bordona nella causa Popławski, C‑573/17, EU:C:2018:957, punti 115-117. Tale distinzione per la verità era già stata menzionata nelle conclusioni dell'avvocato generale Léger nella causa Linster, C‑287/98, EU:C:2000:3.
[93] Conclusioni dell'avvocato generale Campos Sánchez-Bordona nella causa Popławski, cit., punto 117.
[94] Così, in sostanza, D. Simon e A. Rigaux, L’arrêt Marshall II et l’effet direct des directives: une solution d’espèce à une question de principe?, Europe, 1993, p. 1; D. Simon, La directive europeéenne, Parigi, 1997, pp. 95-6; S. Amadeo, Norme comunitarie, posizioni giuridiche soggettive e giudizi interni, Milano, 2002; R. Mastroianni, G. Strozzi, Diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale, 2016, pp. 311-2; G. Di Federico, Il recepimento delle direttive nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in G. Di Federico, C. Odone (a cura di), Il recepimento delle direttive nell’Unione europea nella prospettiva delle regioni italiane. Modelli e soluzioni, Napoli, 2010, p. 55; contra, con diverse motivazioni riassumibili in sostanza nel fatto di ritenere il primato una regola di conflitto giustiziabile per il solo tramite dell’effetto diretto della norma di diritto dell’UE invocata dal singolo, si v., tra gli altri, P. Pescatore, The doctrine of ‘Direct effect’: an Infant Disease of Community Law, ELRev. 1983 (2015), 135-153, p. 149; R. Kovar, La contribution de la Cour de justice à l’édification de l’ordre juridique communautaire, in A Cassese, R. Dehousse e J.H.H. Weiler (a cura di), Recueil des cours de l’Académie de droit européen, Martinus Nijhoff, 1995, 15-122, pp. 63-5; S. Prechal, Directives in EC Law, Oxford 2006, pp. 94 e, quanto alla manualistica, G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea, Padova, 2012, p. 190; L. Daniele, Diritto dell’Unione europea, Milano, 2020, pp. 273 e 328 e M. Bobek, The Effects of EU Law in the National Legal System, in C. Barnard e S. Peers (a cura di), European Union Law, Oxford, 2020, pp. 160 e 175; D. Gallo, op. cit., p. 241-7 e 355-60, invece, ammette, sulla base della giurisprudenza della Corte, la possibilità di far discendere la disapplicazione per esclusione dal solo principio del primato, condizionandola però ad un accentramento di tale rimedio in capo alla Corte costituzionale, previo eventuale rinvio alla Corte di giustizia.
[95] D. Gallo, op cit., parla di effetto soggettivo per la sostituzione ed effetto oggettivo per l’esclusione. Suggestiva l’immagine dello scudo e della spada utilizzati da B. De Witte, The Continuous Significance of Van Gend en Loos, in Poiares Maduro – Azoulai (eds.), The Past and Future of EU Law: The Classics of EU Law Revisited on the 50th Anniversary of the Rome Treaty, Oxford, 2010, p. 12.
[96] Sentenza del 4 ottobre 2018, Dooel Uvoz-Izvoz Skopje Link Logistic N&, C‑384/17, ECLI:EU:C:2018:810 punti 55 ss.
[97] Ibid., punto 61.
[98] Sul punto v. T. Tridimas, Black white and shades of grey :Horizontality of the directives revisited, YEL 2002, p. 327 ss.
[99] Sentenza del 24 ottobre 1996, Kraaijeveld e a., C‑72/95, EU:C:1996:404
[100] Sentenza del 16 settembre 1999, WWF e a., C‑435/97, EU:C:1999:418, punti 69-71
[101] Sentenza del 22 ottobre 2020, Sportingbet e Internet Opportunity Entertainment, C‑275/19, EU:C:2020:856, punti 53 e 54.
[102] Sentenza del 30 aprile 1996, C-194/94, CIA Security International SA c. Signalson SA e Securitel SPRL., ECLI:EU:C:199 172, punto 54; v. anche la sentenza del 26 settembre 2000, C-443/98, Unilever Italia SpA contro Central Food SpA., ECLI:EU:C:2000:496, punti 49-50 e più recentemente la sentenza del 27 ottobre 2016, James Elliott Construction, C-613/14, EU:C:2016:821, punto 64. Sul tema v. P. V. Figueroa Regueiro, Invocability of Substitution and Invocability of Exclusion, cit. In CIA Security e Unilever, a differenza di Kraaijeveld, le norme in causa erano provviste dei caratteri di precisione e incondizionalità, ma si trattava di una controversia orizzontale.
[103] Sentenze dell'11 luglio 2019, A, C‑716/17, EU:C:2019:598, punto 38; del 29 luglio 2019, Torubarov, C‑556/17, EU:C:2019:626; del 19 novembre 2019, A. K. e a. (Indipendenza della sezione disciplinare della Corte suprema), C‑585/18, C‑624/18 e C‑625/18, EU:C:2019:982, punti 73 e 161; del 19 dicembre 2019, Deutsche Umwelthilfe, C‑752/18, EU:C:2019:1114, punto 42; del 14 maggio 2020, Staatsanwaltschaft Offenburg, C‑615/18, EU:C:2020:376, punti 68 e 69; del 14 maggio 2020, Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság Dél-alföldi Regionális Igazgatóság, C‑924/19 PPU et C‑925/19 PPU, EU:C:2020:367, punto 139; del 2 aprile 2020, CRPNPAC e Vueling Airlines, C‑370/17 e C‑37/18, EU:C:2020:260, punto 74; sentenza del 30 settembre 2020, B., C‑233/19, EU:C:2020:757, punto 54; del 6 ottobre 2020, La Quadrature du Net e a., C‑511/18, C‑512/18 e C‑520/18, EU:C:2020:791, punto 215
[104] Sentenza del 4 marzo 2020, Bank BGŻ BNP Paribas, C‑183/18, EU:C:2020:153
[105] Sentenza del 19 marzo 2020, Sánchez Ruiz e a., C‑103/18 e C‑429/18, EU:C:2020:219
[106]Conclusioni dell'avvocato generale Campos Sánchez-Bordona nella causa Popławski, C‑573/17, EU:C:2018:957, punto 116
[107]V. D. Dero-Bugny, nelle osservazioni alla sentenza in esame contenute in F. Picod, Jurisprudence de la CJUE 2019, Bruxelles, Bruylant, 2020, p.77 ss.
[108] In tal senso v. H. Cassagnabère e. a., Chronique de jurisprudence de la CJUE, A.J.D.A. 2019, p. 164.
[109] B. De Witte, Direct Effect, Primacy and the Nature of the Legal Order , in G. De Burca e P. Craig (a cura di), The Evolution of EU Law, Oxford, 2011, 323-362, pp. 311-3.
[110] H. Cassagnabère e. a., Chronique de jurisprudence de la CJUE, A.J.D.A, 28 (2019), p. 164.
[111] A. Rigaux et D. Simon, L’arrêt Popławski 2 : accroc limité ou ébranlement général dans la mise en oeuvre de la primauté par le juge national ?, Europe (octobre 2019), Étude, p. 5. Fra l’altro autori rilevano che una soluzione contraria metterebbe in discussione anche l’invocabilità preventiva, enunciata dalla sentenza del 29 luglio 2019, Inter-Environnement Wallonie e Bond Beter Leefmilieu Vlaanderen, C‑411/17, EU:C:2019:622 per disapplicare norme nazionali adottate dopo l’approvazione di una direttiva ma prima della sua data di scadenza, che potrebbero pregiudicarne seriamente il risultato.
[112] Sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, C‑573/17, EU:C:2019:530, punti 65 e 66
[113] Sentenza del 14 luglio 1994, Faccini Dori, C‑91/92, EU:C:1994:292, punto 24
[114] Sentenza dell'11 settembre 2003, Walcher, C‑201/01, EU:C:2003:450. Sul tema v. K. Lenaerts , T. Corthaut, Of birds and hedges: the role of primacy in invoking norms of EU law, EL Rev. 2006, p.287 ss
[115] Ibid., punti 56-58
[116] Usa questo termine P. V. Figueroa Regueiro, Invocability of Substitution and Invocability of Exclusion: Bringing Legal Realism to the Current Developments of the Case-Law of “Horizontal” Direct Effect of Directives, Jean Monnet Working Paper ,7 (2002), https://jeanmonnetprogram.org/archive/papers/02/020701.pdf.
[117] In questi casi parte della dottrina riconduce il vantaggio per il singolo al principio dell’estoppel, in connessione con quello del primato, principio già chiamato in causa più in generale da P. Pescatore, L’effet des directives communautaires. Une tentative dc démythification, Parigi, 1980, p. 176, per fondare la pretesa del singolo de “s’opposer judiciairement à l’application de dispositions nationales contraires à une directive communautaire” (priva di effetto diretto); nel senso di rinvenire nell’effetto di estoppel derivante dal primato la fonte dell’invocabilità di esclusione anche F. Capelli, Le direttive comunitarie, Milano, 1983, pp. 448-451, che sottolinea come la “direttiva fungerebbe nei confronti del singolo non come fonte di diritti, ma bensì come “scriminante” o “esimente”, in grado di realizzare la presenza sanzionatoria [...] che lo Stato intendesse far valere nei confronti del singolo”.
[118] In tal senso anche K. Lackhoff e H. Nyssens, Direct effect of Directives in triangular situations, EL Rev. 1998, 23(5), pp. 397-413, p. 406 e ss. e M. Dougan, When worlds collide! Competing visions of the relationship between direct effect and supremacy, CMLRev, 2007, pp. 931-963, pp. 936, 949 e 960-2.
[119] Sentenza del 30 aprile 1996, CIA Security International, C‑194/94, EU:C:1996:172.
[120] Sentenza del 26 settembre 2000, Unilever, C‑443/98, EU:C:2000:496.
[121] Ibid., punti 49-51.
[122] Sentenza del 7 gennaio 2004, Wells, C‑201/02, EU:C:2004:12, punti 56-57.
[123] Sentenza del 7 agosto 2018, Smith, C‑122/17, EU:C:2018:631, punti 52-54.
[124] V. da ultimo sentenza del 29 luglio 2019, Inter-Environnement Wallonie e Bond Beter Leefmilieu Vlaanderen, C‑411/17, EU:C:2019:622, punto 170.
[125] K. Lenaerts , T. Corthaut, Of birds and hedges: the role of primacy in invoking norms of EU law, ELR 2006, p. 287 ss.
[126] V. da ultimo sentenza del 16 luglio 2020, Presidenza del Consiglio dei Ministri, C‑129/19, EU:C:2020:566, punti 58-61.
[127] Sulla sentenza n. 269 del 2017, si v., oltre ai numerosissimi commenti raccolti da https://www.giurcost.org/decisioni/2017/0269s-17.html, A. Barbera, La Carta dei diritti: per un dialogo fra la Corte italiana e la Corte di giustizia, Quaderni costituzionali, 1/2018, pp. 149-172 e R. Mastroianni, Da Taricco a Bolognesi, passando per la ceramica Sant'Agostino: il difficile cammino verso una nuova sistemazione del rapporto tra Carte e Corti, Osservatorio sulle fonti, 1/2018, pp. 1-36; sull’evoluzione della successiva giurisprudenza costituzionale, dalla sentenza n. 20 del 2019 all’ordinanza n. 182 del 2010, si cfr. invece, senza pretesa di esaustività, D. Gallo, Effetto diretto del diritto dell’Unione europea e disapplicazione, oggi, Osservatorio sulle fonti, 3/2019, pp. 2-42; F. Spitaleri, Doppia pregiudizialità e concorso di rimedi per la tutela dei diritti fondamentali, Il diritto dell’Unione europea, 4/2019, p. 729; P. Mori, La Corte costituzionale e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE: dalla sentenza 269/2017 all’ordinanza 117/2019. Un rapporto in mutazione?, I Post di AISDUE, 3 settembre 2019, p. 55; V. Piccone, Diritti fondamentali e tutele nel difficile “crossroad” fra le Corti, Federalismi.it, 10/2019; A. Ruggeri, Ancora un passo avanti della Consulta lungo la via del “dialogo” con le Corti europee e i giudici nazionali (a margine di Corte cost. n. 117 del 2019), Consulta Online, 2/2019, 242-8; A. Ruggeri, Forme e limiti del primato del diritto eurounitario, dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale: profili teorico-ricostruttivi e implicazioni istituzionali, I Post di AISDUE, 31 ottobre 2019; G. Scaccia, Alla ricerca del difficile equilibrio fra applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sindacato accentrato di legittimità costituzionale, Giurisprudenza costituzionale, 3/2019, pp. 1428-1437; D. Tega, Tra incidente di costituzionalità e rinvio pregiudiziale: lavori in corso, Quaderni costituzionali, 3/2019, pp. 615-643; F. Viganò, La tutela dei diritti fondamentali della persona tra corti europee e giudici nazionali, Quaderni costituzionali, 2/2019, pp. 481-502; S. Catalano, Rinvio pregiudiziale nei casi di doppia pregiudizialità. Osservazioni a margine dell’opportuna scelta compiuta con l’ordinanza n. 117 del 2019 della Corte costituzionale, Osservatorio AIC, 4/2019; A. Anzon Demmig, Applicazioni virtuose della nuova “dottrina” sulla “doppia pregiudizialità” in tema di diritti fondamentali (in margine alle decisioni nn. 112 e 117/2019), Osservatorio AIC, 6/2019, pp. 179-192; N. Lupo, Con quattro pronunce dei primi mesi del 2019 la Corte costituzionale completa il suo rientro nel sistema “a rete” di tutela dei diritti in Europa, Federalismi.it, 13/2019; C. Amalfitano, Il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e rimessione alla Consulta e tra disapplicazione e rimessione alla luce della giurisprudenza “comunitaria” e costituzionale, Rivista AIC, 1/2020, pp. 296-321; A. Cardone, Dalla doppia pregiudizialità al parametro di costituzionalità: il nuovo ruolo della giustizia costituzionale accentrata nel contesto dell’integrazione europea, Osservatorio sulle fonti, 1/2020, p. 13; D. Tega, Il superamento del “modello Granital”. Le questioni in materia di diritti fondamentali tra incidente di costituzionalità e rinvio pregiudiziale, in Liber Amicorum Pasquale Costanzo, Consulta Online, 27 gennaio 2020; R. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no? A proposito di Corte cost. n. 20/2019, in G. Palmisano (a cura di), Il diritto internazionale ed europeo nei giudizi interni, Napoli, 2020, pp. 517-545; F. Donati, I principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione in un sistema di tutele concorrenti dei diritti fondamentali, in Federalismi.it, 12/2020; C. Padula, Uno sviluppo nella saga della “doppia pregiudiziale”? Requisiti di residenza prolungata, edilizia residenziale pubblica e possibilità di disapplicazione della legge, Consulta Online, 1/2020; R. Mastroianni, Sui rapporti tra Carte e Corti: nuovi sviluppi nella ricerca di un sistema rapido ed efficace di tutela dei diritti fondamentali, European Papers, 1/2020, pp. 493-522; C. Caruso, F. Medico, A. Morrone (a cura di), Granital Revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giursprudenziale, Bologna, 2020; N. Lazzerini, Dual Preliminarity Within the Scope of the EU Charter of Fundamental Rights in the Light of Order 182/2020 of the Italian Constitutional Court, European Papers, 25 novembre 2020, pp. 1-14.
[128] In tal senso si v. già Corte costituzionale, sentenza n. 269 del 2017, par. 5.1 e giurisprudenza citata.
[129] Corte costituzionale, sentenza n. 170 del 1984, parr. 5 e 6.
[130] Qualora la disposizione di diritto dell’Unione sia priva di effetto diretto e la norma nazionale in conflitto non si presti ad un’interpretazione conforme, il giudice comune potrebbe così ottenere una pronuncia con effetto erga omnes che rimuova dall’ordinamento la norma nazionale in conflitto con quella dell’UE. A tal proposito, va sottolineato che, in base alla più recente giurisprudenza costituzionale (si v. la sentenza n. 20 del 2019, par. 2.1, così come precisata dalle sentenze nn. 63 del 2019, par. 4.3 e 112 del 2019, par. 7 e le ordinanze nn. 117 del 2019, par. 2 e 182 del 2020, par. 3.1; sull’evoluzione di tale giurisprudenza si cfr., tra gli altri, R. Mastroianni, Sui rapporti tra Carte e Corti: nuovi sviluppi nella ricerca di un sistema rapido ed efficace di tutela dei diritti fondamentali, European Papers, 1/2020, pp. 493-522 e, per una lettura di segno diverso, G. Scaccia, Alla ricerca del difficile equilibrio fra applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sindacato accentrato di legittimità costituzionale. In margine all’ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019, Osservatorio AIC, 6/2019, p. 171 ss.), questo percorso parrebbe poter applicarsi anche alle norme dei trattati o della Carta dei diritti fondamentali corrispondenti nella sostanza a diritti costituzionalmente tutelati, nonché alle norme di diritto derivato che specificano o concretizzano tali diritti, nella misura in cui queste ultime costituiscono l’“elemento di attrazione” delle corrispondenti disposizioni della Carta (sul punto si v. L.S. Rossi, La relazione fra Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e direttive nelle controversie orizzontali, Federalismi.it, 10/2019, p. 8 ss.). Si potrebbe valorizzare, in tal modo, il margine di apprezzamento che tale giurisprudenza costituzionale pare riconoscere al giudice comune, fermo restando, però, l’obbligo per quest’ultimo di dare a entrambe le categorie di norme immediata applicazione – con effetto di sostituzione – qualora dette norme siano sufficientemente precise e incondizionate, previo un eventuale rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia per verificarne la portata e gli effetti.
[131] Sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, C‑573/17, EU:C:2019:530, punti 63, 64, 68, 71
[132] V. ad esempio la sentenza del 24 gennaio 2012, Dominguez, C‑282/10, EU:C:2012:33, punto 41
[133] Secondo L. Coutron, nelle osservazioni alla sentenza in esame contenute in F. Picod, Jurisprudence de la CJUE 2019, Bruxelles, Bruylant, 2020, p. 260, il senso di questo passaggio è di “habiliter les autorités nationales à retenir une lecture de leur Constitution de nature à cautionner une plus large invocabilité du droit de l’Union”. A ben guardare, le autorità nazionali non hanno bisogno, per fare questo, di essere abilitate dalla Corte di Giustizia. Quest’ultima si limita a chiarire, utilizzando una formula che non è nemmeno nuova che se i giudici intendono disapplicare il diritto nazionale dovranno cercare un altro fondamento.
[134] Sul punto si v. supra, nota 130.
[135] In proposito si rinvia a L.S.Rossi Stesso valore Stesso valore giuridico dei Trattati”? Rango, primato ed effetti diretti della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, Il Diritto dell’Unione europea, 2/2016, pp. 329-356.
Pena di morte e pena perpetua: e il senso di umanità?*
di Davide Galliani
La vita e le opere di Primo Levi parlano molto a chi si occupa delle massime pene. Un solo esempio. Scrive Primo Levi: al pari della felicità perfetta, anche la infelicità perfetta non è realizzabile; questi due stati-limite non sono realizzabili perché la condizione umana è “nemica di ogni infinito”. Ha ragione Primo Levi. Infinitezza e perpetuità implicano l’assenza di limite, sono estranee alla condizione umana. Viene in mente chi si dichiarava contro l’ergastolo, la pena perpetua, perché incapace di immaginarsela. La pena perpetua, infinita, sta fuori dalla immaginazione dell’uomo, sta fuori dalla condizione umana, è inumana: se non possiamo immaginarci una cosa è perché quella cosa sta fuori dal nostro essere umani. Facciamo una radicale traduzione giuridica. Approvata la Costituzione, si era riusciti a definire con una qualche precisione il perimetro del divieto dei trattamenti contrari al senso di umanità: vietate le frustate, vietata (anzi punita) ogni violenza fisica. Non era molto, ma per i tempi era il massimo, essendo la mente, rispetto al corpo, ancora misteriosa. Franco Basaglia non aveva neppure ottenuto la libera docenza. Grosso modo con la svolta culturale del 1968, anche la rieducazione, il secondo corno dell’art. 27 Cost., ha iniziato a prendere forma. Da lì è stata una escalation, fino alla (giustissima) affermazione della Consulta, oramai del 1990: la rieducazione non può essere schiacciata da alcuna altra funzione della pena. È anche successo che la stessa Consulta abbia chiaramente affermato che senso di umanità e rieducazione non possono essere disgiunti, al contrario formano un tutto unico. Tuttavia, ed è questo il punto, la rieducazione si è presa il palcoscenico, mentre il senso di umanità è rimasto, per quanto più o meno contornato, al divieto delle frustate. Il senso di umanità ha mantenuto un più o meno preciso perimetro, ma lo spazio al suo interno non si è ingrandito, al contrario di quanto accaduto alla rieducazione, che ha attratto tutte le nostre attenzioni. Si pensi alle manette e alle gabbie in aula, ai blindati in carcere. Quale la tesi, quindi? Se vogliamo contestare la pena perpetua dobbiamo tornare a parlare di senso di umanità. Non ci siamo riusciti con la rieducazione, e dubito ci riusciremo. Del resto, contestare l’ergastolo ostativo significa (piaccia o meno) contestare anche l’ergastolo tout court. Ecco che, se non entriamo nel perimetro del senso di umanità, per restare dentro a quello della rieducazione, abbiamo già finito la battaglia. Voglio dire che le potenzialità offerte dal senso di umanità, per contestare la pena perpetua, devono essere approfondite. Peraltro, dato che la Consulta oramai legge quasi sempre il III comma dell’art. 27 Cost. insieme all’art. 3 Cost., avremmo anche un notevole guadagno. La pena perpetua, in quanto tale, in quanto perpetua, infinita, è contraria al senso di umanità perché non permette alcuna retribuzione medievale, nessuna eguaglianza costituzionale, zero proporzionalità giurisprudenziale. Infrange insieme il senso di umanità e la eguaglianza-proporzionalità: non tratta un uomo al pari di un uomo, ma ragiona con il sono tutti uguali. Un premeditato omicidio aggravato merita quanto dieci omicidi. La pena è uguale per tutti, perpetua, infinita. Può un giudice calibrare, parametrare, ragionare sul singolo fatto, sul singolo uomo? No, lo tratta come tutti gli altri, a disparità di fatto-concreto. Capisco che si possa dire: ma così la pena perpetua è anche contro la rieducazione, perché non può essere compresa come pena giusta, essendo identica a quella di chi ha commesso un fatto-reato diverso. Infrange la colpevolezza, e per questa via anche la responsabilità penale personale, se è vero (ed è vero) che anche il legislatore, e non solo i giudici e l’amministrazione, deve rispettare la rieducazione. Questo è vero, però si tenga in considerazione un ulteriore argomento. La rieducazione non esiste in tutte le Costituzioni del mondo, anzi. Noi siamo una (bella) eccezione. Mentre in tutte le Costituzioni del mondo esiste il divieto di trattamenti inumani (grosso modo, il cruel inglese). E la stessa Convenzione europea dei diritti umani, al pari del Trattato UE, utilizza l’inumano, non la rieducazione. Parlare di senso di umanità piuttosto che di rieducazione ci universalizza, ci sprovincializza. I rischi sono fortissimi, sbagliato negarli, inutile sottacere che dopo Auschwitz l’uomo rappresenta la più grave minaccia per sé stesso. Ma il rischio soggettivo di comprendere cosa sia il senso di umanità è bilanciato dal privilegio oggettivo del principio di eguaglianza. In fondo, non sono scindibili: non esiste un uomo fisso, non esiste un uomo eguale ad un altro. Il senso di umanità e l’eguaglianza insieme sono uno scudo, forgiano il limite, rappresentano la barriera più forte contro l’infinitezza, la perpetuità, che alimentano l’egoismo smisurato che oggi prevale ovunque, come se esistessero tanti padri eterni quanti padri in terra. Per venire alla pena capitale, la questione è conseguente. Non basta essere contro, per l’errore giudiziario o per principio (il quinto comandamento). Non basta: è pieno il mondo di politici democratici che combattono la pena capitale sostenendo che non bisogna uccidere perché la persona può essere (anzi deve essere) lasciata marcire in galera. Una posizione attraente: intanto ti salvo la vita, poi vediamo cosa succede. Ma faccio presente che poi vediamo che succede è tanto crudele e inumano quanto giustiziare subito una persona appena condannata a morte. Non vi sono alternative: chi è contro la pena capitale ma a favore della pena perpetua deve spiegare a sé stesso e poi a noi cosa è più inumano. Si dirà: il marcire in galera non va bene, sono favorevole alla pena perpetua con la possibilità un giorno di tornare in società. Chi dice questo abbia almeno la cortesia, per non infrangere l’ottavo comandamento, di andare un giorno nella sua vita in un carcere, il luogo che dovrebbe preparare il ritorno in società. Ammetto la replica: ma, con un carcere diverso, se una persona è sempre pericolosa non può tornare in società. Qui dobbiamo gettare la spugna. Siamo dentro ad un argomento divino, non umano. Se fosse umano mediterebbe che l’infinito non appartiene a ciò che noi (umani) possiamo immaginare, nemici come siamo di ogni infinità.
*Intervento al consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino del 30 gennaio 2021
Nomina dei componenti togati del Comitato Direttivo della Scuola superiore della magistratura: è l’auto-vincolo a imporre il procedimento selettivo a carattere comparativo
di Mario R. Spasiano
Sommario: 1. I contenuti della sentenza – 2. Il quadro normativo di riferimento - 3. La discrezionalità tecnica e la regola dell’auto-vincolo
1. I contenuti della sentenza
Con sentenza resa in data 11 gennaio 2021, n. 330, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha avuto occasione di occuparsi della vicenda concernente la nomina, da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, dei componenti togati del Comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura.
Nel giudizio di primo grado, un magistrato non risultato tra i prescelti, sulla scorta dei requisiti professionali vantati,aveva proposto ricorso al TAR Lazio adducendo plurime censure volte a sindacare l’operato del CSM per avere tale organo, a suo avviso: a) erroneamente ricostruito il suo curriculum professionale; b) prescelto magistrati in possesso di minori esperienze professionali nell’ambito della formazione, in mancanza di indicazione di specifici elementi preferenziali; c) non operato la pur necessaria valutazione comparativa, sostituendola con “una motivazione apparente e puramente assertiva” fondata su analisi parziali o persino erronee dei dati curriculari forniti dai candidati, così determinando un’evidente disparità di trattamento tra i candidati nella valutazione dei relativi requisiti; d) proceduto alle nomine senza indicare più specifici elementi motivazionali.
Il TAR Lazio, Sezione Prima, aveva accolto il ricorso in primo grado.
Il CSM proponeva appello al Consiglio di Stato che, pronunciandosi con la richiamata sentenza n. 330/2021, confermava l’esito del giudizio di primo grado.
Le doglianze di merito del CSM nel giudizio di appello si fondavano su un unico motivo, vale a dire la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 del decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26.
A questo punto, si rende necessario il richiamo del quadro normativo di riferimento.
2. Il quadro normativo di riferimento
Il d. lgs. n. 26 del 2006, intitolato “Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della L. 25 luglio 2005, n. 150”, disciplina appunto l’istituzione in questione, munita di competenza esclusiva in materia di aggiornamento e formazione dei magistrati ordinari.
Si tratta di una struttura didattica autonoma, con personalità giuridica di diritto pubblico, piena capacità di diritto privato e autonomia organizzativa, funzionale, gestionale, negoziale e contabile, secondo le disposizioni del proprio statuto e dei regolamenti interni, nel rispetto delle norme di legge.
La Scuola è preposta ad una gamma ampia di attività tutte aventi una prevalente componente di tipo formativo e tecnico-scientifico, fortemente incidenti, sotto il profilo culturale, sulla qualificazione professionale dei magistrati. Esse concernono:
a) la formazione e aggiornamento professionale dei magistrati ordinari;
b) l’organizzazione di seminari di aggiornamento professionale e di formazione dei magistrati e, nei casi previsti dalla lettera n), di altri operatori della giustizia;
c) la formazione iniziale e permanente della magistratura onoraria;
d) la formazione dei magistrati titolari di funzioni direttive e semi-direttive negli uffici giudiziari;
d-bis) l'organizzazione di corsi di magistrati giudicanti e requirenti che aspirano a incarichi direttivi di primo e di secondo grado;
e) la formazione dei magistrati incaricati di compiti di formazione;
f) l’attività di formazione decentrata;
g) la formazione, su richiesta della competente autorità di Governo, di magistrati stranieri in Italia o partecipanti all'attività di formazione che si svolge nell'ambito della Rete di formazione giudiziaria europea ovvero nel quadro di progetti dell'Unione europea e di altri Stati o di istituzioni internazionali, ovvero all'attuazione di programmi del Ministero degli affari esteri
e al coordinamento delle attività formative dirette ai magistrati italiani da parte di altri Stati o di istituzioni internazionali aventi ad oggetto l'organizzazione e il funzionamento del servizio giustizia;
h) la collaborazione, su richiesta della competente autorità di Governo, nelle attività dirette all'organizzazione e al funzionamento del servizio giustizia in altri Paesi;
i) la realizzazione di programmi di formazione in collaborazione con analoghe strutture di altri organi istituzionali o di ordini professionali;
l) la pubblicazione di ricerche e di studi nelle materie oggetto di attività di formazione;
m) l’organizzazione di iniziative e scambi culturali, incontri di studio e ricerca, in relazione all'attività di formazione;
n) lo svolgimento, anche sulla base di specifici accordi o convenzioni che disciplinano i relativi oneri, di seminari per operatori della giustizia o iscritti alle scuole di specializzazione forense;
o) la collaborazione alle attività connesse con lo svolgimento del tirocinio dei magistrati ordinari nell'ambito delle direttive formulate dal Consiglio superiore della magistratura e tenendo conto delle proposte dei consigli giudiziari.
Organi di governo della Scuola sono il Comitato direttivo, il Presidente e il Segretario generale.
Il Comitato direttivo, in particolare, composto da dodici membri, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d. lgs. cit., “adotta e modifica lo statuto e i regolamenti interni; cura la tenuta dell'albo dei docenti; adotta e modifica, tenuto conto delle linee programmatiche proposte annualmente dal Consiglio superiore della magistratura e dal Ministro della giustizia, il programma annuale dell'attività didattica; approva la relazione annuale che trasmette al Ministro della giustizia e al Consiglio superiore della magistratura; nomina i docenti delle singole sessioni formative, determina i criteri di ammissione ai corsi dei partecipanti e procede alle relative ammissioni; conferisce ai responsabili di settore l'incarico di curare ambiti specifici di attività; nomina il segretario generale; vigila sul corretto andamento della Scuola; approva il bilancio di previsione e il bilancio consuntivo”.
Ai sensi dell’art. 6, “Fanno parte del comitato direttivo dodici componenti di cui sette scelti fra magistrati, anche in quiescenza, che abbiano conseguito almeno la terza valutazione di professionalità, tre fra professori universitari, anche in quiescenza, e due fra avvocati che abbiano esercitato la professione per almeno dieci anni. Le nomine sono effettuate dal Consiglio superiore della magistratura, in ragione di sei magistrati e di un professore universitario, e dal Ministro della giustizia, in ragione di un magistrato, di due professori universitari e di due avvocati.
I magistrati ancora in servizio nominati nel comitato direttivo sono collocati fuori del ruolo organico della magistratura per tutta la durata dell'incarico (ovvero, a loro richiesta, possono usufruire di un esonero parziale dall'attività giurisdizionale nella misura determinata dal Consiglio superiore della magistratura)”.
I componenti del comitato direttivo sono nominati per un periodo di quattro anni; non possono essere immediatamente rinnovati e non possono fare parte delle commissioni di concorso per magistrato ordinario.
Essi, ai sensi dell’art. 8, esercitano le proprie funzioni in condizioni di indipendenza rispetto all'organo che li ha nominati.
3. La discrezionalità tecnica e la regola dell’auto-vincolo
Come si è fatto cenno, l’unico motivo di appello concernente il merito del giudizio, proposto dal CSM, ha riguardato la presunta violazione e falsa applicazione dell’art. 6 del d. lgs. n. 26 del 2006, ossia la modalità di nomina dei componenti togati spettanti allo stesso organo di autogoverno della magistratura.
E’ innanzitutto noto che il sindacato degli atti del CSM da parte della giustizia amministrativa (in particolare riguardante i provvedimenti di nomina dei magistrati a incarichi giudiziari) costituisce un tema oggetto di non recente dibattito con incerti orientamenti giurisprudenziali oscillanti tra le esigenze di difesa delle prerogative proprie di un organo a rilevanza costituzionale quale il CSM, chiamato a preservare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, da un lato, e il rispetto dei principi propri dell’attività amministrativa di cui all’art. 97 Cost. e alla L. n. 241 del 1990, nonchè del suo sindacato, dall’altro.
Negli ultimi anni, la cresciuta sensibilità per più diffuse e penetranti esigenze di tutela giudiziaria hanno finito col prevalere, inducendo il G.A. ad affermare ormai stabilmente la legittimità di un sindacato estrinseco sugli atti del CSM, ancorché questi risultino per lo più connotati da ampia discrezionalità tecnica. Il vaglio permane dunque circoscritto alla verifica della sussistenza di profili di irragionevolezza manifesta, travisamento dei fatti o arbitrarietà[1].
Nel tornare al caso in esame, l’appello proposto dal CSM contestava che il riferimento alla “nomina”, operato dalla disposizione di cui all’art. 6 cit., imponesse di fondare l’obbligo di attivazione di una vera e propria procedura selettiva di tipo comparativo, ritenendo piuttosto che la norma avesse inteso riservare “la più ampia discrezionalità” nella “scelta” dei componenti della Scuola al fine di assumere determinazioni che consentissero di coprire tutti i settori dell’attività formativa coperti dalla Scuola, a prescindere da qualsiasi forma di selezione di candidati in possesso delle maggiori competenze nei vari contesti che “visti nell’ambito della loro coordinata attività all’interno del Comitato, potrebbero non assicurare la completezza della proposta culturale della Scuola”.
A tale argomentazione la difesa del CSM aggiungeva poi che “l’onere di una comparazione diretta ed esplicita tra i diversi aspiranti si risolverebbe in adempimento eccessivamente laborioso e defatigante, e, comecchessia, foriero di una motivazione della delibera inevitabilmente poco lineare”: quest’ultima argomentazione, appare subito da segnalare, sarebbe stato meglio non fosse stata inserita nella difesa rivelandosi, come opportunamente rilevato dal Consiglio di Stato, un “adducere inconveniens”, privo di rilievo ai fini dell’apprezzamento della legittimità amministrativa.
Ad ogni modo, il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, riteneva infondato il motivo di appello sulla base dell’argomentazione secondo la quale il potere di nomina di cui all’art. 6 cit. riveste un duplice carattere, strumentale (individuazione del destinatario della scelta), il primo, e formale (perfezionamento del procedimento di nomina), il secondo: nella fattispecie, si sarebbe prospettata una questione di contestuale nomina-scelta. Ad avviso del Giudice adito, tuttavia, mentre la competenza del Ministro nel procedere alle nomine dei componenti il Comitato direttivo a lui spettanti, in virtù della natura strettamente amministrativa dell’organo e della sua responsabilità politica, gli consente di operare la scelta intuitu personae (laddove l’apprezzamento del merito professionale e della capacità rispetto all’ufficio ad quem vengono rimessi all’autonomo apprezzamento discrezionale ministeriale), nel caso del CSM, organo non politico bensì di alta amministrazione di rilievo costituzionale, la relativa scelta non può essere connessa all’ufficio di destinazione, bensì alla particolare natura e struttura del CSM che, in ragione del suo carattere di organo di governo autonomo a base composta ed elettiva, gli impedisce di sottrarsi all’obbligo di operare mediante una vera e propria selezione secondo canoni di trasparenza, verificabilità, idoneità e razionalità al pari di qualsiasi attività amministrativa, con vaglio delle professionalità proposte, congrua motivazione dei provvedimenti, nel rigoroso rispetto di parametri di scelta strettamente professionali, non già di altra natura.
La prospettiva enunciata dal Consiglio di Stato, secondo la logica sulla quale essa fonda, appare chiara e coerente (non per questo necessariamente condivisibile): essa colloca a monte del ragionamento, la natura giuridica dell’organo selezionatore (il CSM), natura non politica, dalla quale fa scaturire, al di là del contenuto della disposizione normativa concernente il potere di scelta, l’obbligo di attuazione di una procedura selettiva fondata sul criterio comparativo.
L’impostazione si fonda evidentemente su un assioma (che appare invero da dimostrare) secondo cui il fattore condizionante la qualificazione di un’attività, dunque la sua sottoposizione ai canoni propri di qualsiasi attività amministrativa concernente nomine, sarebbe costituito dalla natura giuridica dell’organo che la pone in essere. Da qui, la necessaria correlazione tra profilo istituzionale (natura giuridica dell’organo) e profilo funzionale (natura dell’attività), il ché induce ad affermare consequenzialmente che mentre nel caso di un organo a natura (prevalentemente) politica, è impedito comunque al giudice addentrarsi nel sindacato delle modalità operative adottate, in quello di organo a natura non politica, la sua attività è in ogni caso sottoposta agli ordinari parametri del sindacato sull’azione amministrativa.
Il problema, evidentemente, è più complesso e non pare possa prescindere dalla considerazione della peculiare natura dell’organo di indipendenza e autonomia della magistratura, dallo specifico contenuto della disposizione attributiva del potere di scelta e finanche dalla peculiarità della nomina in questione.
Viene da chiedersi: siamo davvero certi che l’attività di un organo a rilevanza costituzionale e base elettiva quale il CSM non possa operare scelte fondate su un’amplissima discrezionalità tecnica, delimitata solo dai requisiti prescritti dalla legge? La risposta pare dover essere negativa se si voglia tener conto dell’autonomia rafforzata e garantita propria dell’organo in questione, sottoposto di certo alla legge, ma non alle procedure proprie di un qualsiasi altro organo della pubblica amministrazione. E, per converso, la natura prevalentemente (non esclusivamente) politica del Ministro può implicare che tutti i suoi atti (di nomina) siano aprioristicamente sottratti al sindacato di legittimità? Anche in questo caso la domanda appare retorica. Intanto, la lettura del testo dell’art. 6 cit. induce a rilevare che la norma detta una disciplina unica per le differenti tipologie di nomina ivi previste, sia quelle di origine CSM, sia quelle di fonte ministeriale. Ivi si definisce indifferentemente “scelta” quella operata dal CSM e dal Ministro, sulla base del possesso, da parte degli aspiranti, di un unico requisito; se la legge avesse voluto disporre in modo differenziato di certo avrebbe potuto adoperare diversa terminologia a fronte dei due distinti soggetti chiamati ad operare, il CSM e il Ministro, riservando al primo il riferimento al candidato “selezionato”. Al di là della disquisizione operata nella sentenza del Consiglio di Stato tra nomina-scelta e nomina-investitura, per tutte le nomine dei componenti il Consiglio direttivo della Scuola unico è il fattore condizionante, dovendosi in ogni caso trattare della scelta di magistrati, anche in quiescenza, che abbiano conseguito almeno la terza valutazione di professionalità: null’altro. Il magistrato che versi in quella condizione e che ne faccia domanda può essere nominato componente del Consiglio direttivo laddove ritenuto adeguato. Nessun ulteriore requisito è previsto dalla disciplina e soprattutto nessun riferimento ad una procedura comparativa di selezione emerge dalla disposizione.
Sotto altro profilo appare meritevole di considerazione anche un’ulteriore circostanza, ossia che la natura e la tipologia delle attività della Scuola in questione pongono in luce che si tratta di compiti a carattere formativo, culturale, organizzativo, persino di iniziativa scientifica: un’ampia gamma di attività il cui migliore complessivo assolvimento più che essere garantito dalla compresenza di concorrenti-tipo ideali, resi tali dal possesso di corposi curriculum professionali, pare fare riferimento all’esigenza di integrazione tra competenze complementari, la cui articolata e persino differenziata acquisizione non pare poter essere conseguita sulla scorta di una unica, omogenea e burocratica procedura selettiva fondata sulla verifica del possesso del maggior numero di titoli e sulla relativa comparazione, quanto da una scelta a carattere prevalentemente fiduciario (ancorché adeguatamente motivata), nel delicato e rilevantissimo fine di comporre un gruppo composito e affiatato in grado di assolvere efficacemente il compito di governo della Scuola Superiore per la formazione dei magistrati, compito per certi versi non meno delicato e complesso di quello proprio dell’investitura di talune funzioni dirigenziali.
Per altro verso, viene anche da osservare che se fosse prescritta implicitamente una procedura selettiva a carattere comparativo, non vi sarebbe ragione in base alla quale taluni componenti del Consiglio direttivo, sol perché di nomina ministeriale ma chiamati a svolgere le medesime funzioni degli altri membri, potrebbero invece risultare il frutto di scelte intuitu personae!
Tanto non prescrive la legge e tanto non si può ritenere di imporre al CSM tanto più che il Consiglio direttivo della Scuola Superiore, alla luce della disciplina normativa vigente, costituisce organo di governo di una istituzione strumentale allo stesso CSM e alle sue politiche generali di indirizzo anche nel campo della formazione della magistratura ordinaria, un ambito nel quale proprio il rispetto della indipendenza e dell’autonomia degli organi giudiziari, richiede il riconoscimento, nell’ambito delle prescrizioni legislative, di quell’amplissimo tasso di discrezionalità necessario al suo più corretto e coerente espletamento.
Eppure, nonostante queste riflessioni, la sentenza del Consiglio di Stato perviene ad un esito assolutamente condivisibile. La sentenza in commento coglie pienamente nel segno laddove definisce decisiva, al fine del rigetto dell’appello, la circostanza che il CSM abbia ritenuto di procedimentalizzare la selezione mediante un interpello tra gli aspiranti connotato non solo da una manifestazione di disponibilità, bensì da apposite relazioni, strumentali a fornire elementi di valutazione in ordine alla “idoneità specifica a ricoprire l’incarico” con riguardo “alle esperienze maturate nella giurisdizione sia di merito, nei differenti settori di competenza”, alle “pregresse specifiche esperienze nell’attività di formazione e in attività di rilevanza organizzativa”, alla “comprovata attitudine all’approccio multidisciplinare”, alle “attività di studio e di ricerca scientifica, connesse alle attività di formazione”, al “possesso di specifiche attitudini tecniche, culturali e organizzative”, alla “comprovata conoscenza delle problematiche della didattica e della formazione professionale”, alla “conoscenza di una o più lingue straniere, attestate da idonea documentazione o da autocertificazione”.
Insomma, una vera e propria articolata serie di informazioni ovviamente corrispondenti ad altrettanti criteri selettivi che, in assenza di precetti normativi, hanno fatto sì che la disciplina rigorosa dettata dallo stesso CSM costituisse un auto-vincolo alla sua azione, con la rinunzia all’esercizio di qualsiasi forma di nomina intuitu personae.
Scelta tale strada, il principio meritocratico indicato dal CSM non poteva non guidare e persino vincolare le modalità operative conseguenti, obbligando l’organo a motivare in ordine alla loro concreta attuazione anche in termini comparativi.
Tale impostazione, come condivisibilmente affermato dal Consiglio di Stato, andava applicata sin dalla fase iniziale c.d. della scrematura dei candidati, sebbene con modalità differenti rispetto alla fase finale. Nella realtà, se nella prima parte del procedimento in effetti non è mancato, a fronte dell’interpello articolato, un primo legittimo vaglio con confronto limitato ai titoli, ciò che non ha poi (illegittimamente) avuto luogo è stato il successivo più approfondito confronto analitico tra professionalità individuate secondo quanto ci si sarebbe attesi inconsiderazione del contenuto dell’interpello operato dal CSM.
Se dunque appare condivisibile quanto sostenuto dalla difesa del CSM secondo cui la risultante di un lavoro selettivo avrebbe potuto essere una compagine di selezionati complessivamente inadeguata ad “interpretare le variegate esigenze della formazione dei magistrati”, che non rappresentasse “un equilibrio … tra le diverse istanze provenienti dall’esercizio della giurisdizione su tutto il territorio nazionale”, tale profilo avrebbe dovuto essere tenuto in considerazione a monte dal CSM, prima di auto-vincolarsi all’applicazione di criteri selettivi dai quali non ci si sarebbe poi potuti più discostare.
[1] In tal senso, tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 11/2/2016, n. 597 e 3/3/2016, n. 875; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 2/3/2018, n. 2325 e 2/12/2016, n. 12070.
Conversando su diritto legislativo e diritto giurisprudenziale
Intervista di Luigi Salvato a Renato Rordorf
Il travolgente e repentino sviluppo della tecnologia, la globalizzazione, l’affermarsi di un modello economico che, sia pure con differenti sfaccettature, sembra quello del turbocapitalismo, l’emergere di nuovi bisogni e nuove esigenze e la modificazione delle istituzioni politiche moderne, che sta avvenendo rapidamente e con intensità maggiore di quanto si abbia consapevolezza, rendono evidente la difficoltà (non soltanto nel nostro Paese) di governare il cambiamento e la società. Tali fenomeni hanno investito anche il diritto, quale forma di organizzazione sociale, e quindi la giurisdizione, dando luogo ad un coacervo di questioni, allo stesso tempo antiche e nuove, che riguardano la sua stessa essenza ed il modo in cui quotidianamente è esercitata. Sembra dunque opportuno sottoporre a Renato Rordorf sei domande su alcune di dette questioni, anche in modo, diciamo così, provocatorio, senza che sottintendano la mia personale visione di esse. La finalità non è, ovviamente, quella di ricevere soluzioni (che certo non possono essere affidate al limitato spazio di un’intervista), ma di tentare di fare emergere qualche profilo meritevole di specifica riflessione.
L’opportunità di rivolgere a Renato Rordorf tali domande è suggerita dalla constatazione che di alcune egli ha di recente offerto un’analisi nitida e lineare e dalla considerazione della sua pluridecennale attività (ad altissimi livelli) nell’esercizio della giurisdizione (di merito e di legittimità), oltre che della sua esperienza in un’Autorità indipendente ed in Commissioni ministeriali di riforma, nonché della sua attività in campo scientifico e dell’importante presenza nel dibattitto associativo. Ho inoltre avuto la fortuna di lavorare con lui presso la I Sezione civile della Corte di cassazione e di quel periodo conservo il ricordo di camere di consiglio segnate dai suoi interventi che per me hanno costituito vere e proprie lezioni (di diritto e di vita professionale), rafforzandomi nel convincimento che la vera formazione – intesa come trasmissione del saper essere e saper fare il magistrato, nonché quale maturazione del senso di appartenenza ad una comunità ispirata agli stessi ideali e finalità e, quindi, condizione essenziale del corretto, efficace ed efficiente esercizio delle funzioni giudiziarie – è e resta anzitutto quella che si realizza nella camera di consiglio e/o nel contatto lavorativo quotidiano con i colleghi più capaci, esperti e dotati di alto rigore morale.
Salvato Volgendo l’attenzione alle questioni sopra accennate, la prima (sotto ogni profilo) a venire in rilievo è quella del rapporto tra la funzione di chi pone la legge e di chi è chiamato ad interpretarla ed applicarla, quindi dei limiti dell’interpretazione. Dal punto di vista della magistratura associata la questione sembrava avviata a soluzione sin dall’ormai lontano 1965, quando il congresso dell’A.n.m. di Gardone approvò una mozione unitaria che conteneva una conclusione in cui si dichiarava «decisamente contrario alla concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad un’attività puramente formalistica indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese». Il tramonto della modernità giuridica e dell’ideale illuministico del «diritto chiaro e preciso», l’irrompere della post-modernità in cui il diritto è «frutto di invenzione» (nell’accezione di Paolo Grossi) ed anche la giurisdizione comune opera per principi sembravano avere reso definitivamente vincente l’interpretazione c.d. ‘creativa’ (detto in sintesi, con le improprietà insite in ogni semplificazione).
Negli ultimi tempi è diventata invece sempre più frequente una normazione di estremo (finanche esasperato) dettaglio (ne costituisce significativa riprova la recente legislazione di emergenza), non implausibilmente ispirata alla finalità di restringere la discrezionalità del giudice e, quindi, in controtendenza rispetto agli esiti dell’evoluzione sintetizzata. La Corte costituzionale, in parte, ha ridimensionato l’interpretazione costituzionalmente orientata (che di quella creativa costituisce una delle più importanti tecniche), sostituendo al criterio della «impossibilità» del suo esperimento quale requisito di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale (nella declinazione offerta dalla sentenza n. 356 del 1996), quelli della «improbabilità» e della mera «difficoltà» dell’interpretazione correttiva, rimarcando il valore vincolante della lettera della legge (tra le più recenti, sentenze n. 221, n. 141 e n. 54 del 2019) stabilito dall’art. 12, primo comma, delle preleggi, che pure, sotto certi profili, sembrava divenuto desueto. Ha, inoltre, ripreso forza la tesi della doppia pregiudizialità (nel caso di contrasto delle norme interne con quelle dell’UE) e si è posta la questione dei rapporti tra Corte costituzionale e giudice comune in ordine alle disposizioni della Carta dei diritti. Infine, una parte della dottrina, anche di recente (il riferimento, in particolare, è ad uno stimolante scritto di Massimo Luciani) sta svolgendo una rinnovata riflessione in ordine al c.d. attivismo giudiziale, incarnato dall’interpretazione ‘creativa’, ed alle ragioni che fanno dubitare che sia di per sé preferibile e che comunque garantisca – sempre, al meglio ed appieno - la tutela e la realizzazione dei valori fondamentali stabiliti nella Costituzione e nelle Carte internazionali.
Nel contesto di tali segnali, che sembrano contraddittori, è possibile ipotizzare che la c.d. crisi della fattispecie sia, a sua volta, entrata in crisi, facendone riemergere la centralità? A riprova, inoltre, che nihil sub sole novi, potrebbe riproporsi la problematicità della vicenda del mugnaio di Potsdam che, come ha scritto Romano Ricciotti, per avere giustizia dovette sì accedere al giudice, ma poi (attraverso i suoi eredi) a Federico II? Le diverse dimensioni dell’interpretazione e le contraddittorie concezioni possono essere una delle principali ragioni del riesplodere della polemica (in realtà mai sopita), in ordine al se ed al come della responsabilità del giudice?
Rordorf Il rapporto tra il giudice e la legge o, se si preferisce, tra il legiferare ed il giudicare, tra il dettare e l’applicare le regole dell’agire, è questione antichissima: credo si sia posta sin da quando l’umanità si è dotata di quello straordinario strumento di organizzazione sociale che dai romani fu chiamato ius. Se una tale questione la si volesse davvero affrontare in tutta la sua complessità, occorrerebbe non solo coglierne le evidenti implicazioni di teoria generale del diritto, ma anche e soprattutto intendere il suo profondo radicamento nella storia. L’esercizio della giurisdizione attiene al modo di essere delle società umane ed è quindi condizionato dal modello di società in cui si cala; perciò è destinato a mutare in conseguenza dei continui cambiamenti che la storia imprime nel costume e nella sensibilità degli uomini, nonché nelle concrete modalità di vita, di sviluppo e di governo di ciascuna società.
Ha quindi ben ragione Luigi Salvato a richiamare, nella sua premessa, quei fenomeni di cambiamento sociale alla luce dei quali debbono essere affrontate le questioni che egli pone. E sottolineerei che, se quel cambiamento ha certo sempre rappresentato una costante dell’evoluzione umana, non altrettanto costante ne è stato il ritmo, che negli ultimi decenni sembra aver conosciuto una straordinaria accelerazione; ed è questo uno dei problemi con i quali occorre misurarsi, perché i tempi con cui i legislatori sono in grado di rispondere al mutare delle esigenze e della sensibilità sociale sono quasi sempre diversi, e più lenti, di quelli che si richiedono al giudice per soddisfare le nuove domande di giustizia che ne derivano.
Non è però nella chiave, pur molto affascinante, della riflessione teorica che vorrei provare a svolgere qualche breve considerazione, bensì partendo dai dati dalla concreta esperienza quotidiana della giurisdizione in cui mi sono a lungo esercitato. Un’esperienza di quasi mezzo secolo che, ovviamente, è stata figlia del suo tempo e si è modellata sulle caratteristiche e sulle esigenze che di quel tempo sono il naturale portato. Eppure, dovendo risolvere una controversia o giudicare di una condotta, mai ho neppur lontanamente pensato di poterlo fare senza cercare di individuare le disposizioni di legge che mi sembravano meglio attagliarsi alla vicenda sottoposta al mio esame. E credo che la totalità dei magistrati operino a questo modo, non foss’altro perché essi si trovano a dover rispondere a domande ed eccezioni che i difensori, a propria volta, formulano sempre sforzandosi di supportarle con riferimenti legali, dai quali perciò neppure il giudice potrebbe mai davvero prescindere. Parto da questo rilievo, che sfiora l’ovvietà, per sottolineare come la discussione circa la cosiddetta giurisprudenza creativa sia in larga parte fuorviante, o almeno rischi di dirigersi verso un falso bersaglio. Non v’è dubbio che spesso, come mi accingo a dire, l’individuazione e l’interpretazione del dato normativo applicabile in ciascuna specifica situazione, lungi dal presentarsi come un percorso dall’esito obbligato, impone al giudice di scegliere tra diverse possibili risposte. Ma, quale che sia la scelta, essa pur sempre presuppone un quadro giuridico di riferimento: un quadro di diritto positivo che il giudice deve sforzarsi di leggere nel miglior modo possibile (ed è a questo che anni di studio lo preparano) ma che preesiste alla sua decisione e non è certo creato da lui. Anche nella post-modernità giuridica, cara a Paolo Grossi, insomma, non si dà un “diritto libero”, ed il giudice che ha giurato fedeltà alla Costituzione non può mai ignorare che la Carta espressamente lo vuole soggetto alla legge: soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma 2), certo, ma pur sempre ad essa soggetto.
Ciò, tuttavia, non significa che l’operazione del giudicare si riduca ad una tecnica combinatoria di regole legali già date. Anche qui fa bene Luigi Salvato a ricordare il monito del congresso tenuto dall’ANM a Gardone, oltre mezzo secolo fa, in cui si metteva in guardia dal concepire l’interpretazione della legge come un’attività puramente formalistica “indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese”.
Il compito del giudice in questo consiste: nel rendere giustizia. “Giustizia” è parola difficile, talvolta persino terribile, che può essere declinata in molti modi diversi, come insegna la storia, ma che pur sempre esprime un bisogno primario profondamente radicato nella socialità dell’umano. E’ un concetto ed un valore con cui ogni giudice, in qualsiasi grado, non può fare a meno di misurarsi, se non vuole trasformarsi in un burocrate della legge smarrendo l’essenza stessa della sua funzione, che è appunto quella di rispondere alla domanda di giustizia che la società esprime e che si manifesta in ogni singola vertenza sulla quale egli è chiamato a pronunciarsi. E’ vero che giustizia e legalità non sono concetti mai del tutto sovrapponibili, ma un fine di giustizia è pur sempre in qualche misura insito nella legge, che sovente ad esso direttamente o indirettamente rinvia (basti pensare all’importanza ed alla frequenza dei richiami all’equità nel testo degli articoli del codice civile), anche se quel rinvio non può esser riferito ad un’idea di giustizia assoluta ed astratta bensì a quella condivisa in una determinata società ed in un ben definito momento storico. E qui, di nuovo, consentitemi di richiamarmi all’esperienza maturata in tante e tante camere di consiglio. Quante volte capita di avvertire che la soluzione apparentemente più semplice di una questione di diritto, meglio ancorata al dato testuale della legge, condurrebbe però ad un risultato che si avverte immediatamente come ingiusto! Credo che ciò sia accaduto a tutti coloro che esercitano il difficile mestiere del giudice, e se le diverse sensibilità di ciascuno possono di volta in volta far propendere per un approccio più formalista o più sostanzialista resta comunque in tutti la chiara percezione di questo ineludibile punto critico.
Ma davvero v’è incompatibilità tra la soggezione del giudice alla legge ed il bisogno di soddisfare le istanze di giustizia che egli percepisce nel suo operare quotidiano? E non v’è il rischio che ogni giudice interpreti a modo suo il bisogno di giustizia al quale vorrebbe dare sfogo?
Ad entrambe tali domande darei risposta negativa. Non mi convince del tutto la pessimistica visione di un “diritto senza verità”, in cui il weberiano politeismo dei valori farebbe sì che ciascun giudice si ponga alla ricerca di una propria Grundnorm alla quale ancorare la sua decisione, come pensa Natalino Irti; mi pare francamente esagerato l’approccio apocalittico di chi, come Carlo Castronovo, profetizza l’eclissi del diritto; e nemmeno sopravaluterei la pur legittima preoccupazione di Massimo Luciani, laddove egli paventa che il soggettivismo della decisione, anche mediante l’uso non ben controllato della cosiddetta interpretazione conforme a Costituzione, possa condurre ad uno stravolgimento del precetto normativo e possa dissimulare forme di vera e propria disapplicazione della legge da parte del giudice.
Due considerazioni mi sembrano a tal riguardo necessarie.
La prima si ricollega a quanto già sopra detto a proposito dell’impossibilità per il giudice di prescindere comunque dal dato legale. La ricerca di una soluzione del caso concreto più rispondente all’esigenza di giustizia che da quel medesimo caso promana trova il suo limite naturale nella legge, che il giudice è pur sempre chiamato ad interpretare ed applicare. L’interpretazione e l’applicazione di un testo di legge non è mai un’operazione del tutto neutra, ed è frequente, come ho già ricordato, che si prospettino diverse possibili soluzioni. La caratteristica dei moderni ordinamenti, alla cui formazione concorrono fonti di diverso livello e di provenienza diversa, che sempre più accolgono norme frutto di differenti tradizioni giuridiche e che tendono ad abbracciare nella loro regolazione aspetti sempre nuovi e vieppiù mutevoli della realtà sociale, ne indebolisce inevitabilmente l’interna coerenza, favorisce l’ambiguità dei testi normativi e, di riflesso, amplia la sfera della discrezionalità interpretativa del giudice. Ma pur sempre di interpretazione di quei testi normativi deve trattarsi, e per quanto ogni interprete possa sforzarsi di darne una lettura diversa, conformandola a quella che egli avverte come più idonea a realizzare la giustizia del caso concreto, vi sono comunque dei limiti che il significato comune delle parole (unitamente agli altri criteri interpretativi che la stessa legge enuncia) non consente mai di superare. Limiti che nel nostro tempo si vanno ampliando, è vero, e ciò spiega l’allarme di chi paventa un eccesso di soggettivismo giudiziario, ma che nondimeno esistono e vanno salvaguardati.
Al rischio del soggettivismo giudiziario – e qui vengo alla seconda considerazione che mi ero ripromesso di fare – si possono contrapporre due importanti antidoti: anzitutto, il fatto che l’istanza di giustizia, cui il giudice non può mai restare indifferente, deve pur sempre modellarsi sui principi generali cui è ispirato l’ordinamento, a cominciare da quelli enunciati nella Carta costituzionale; in secondo luogo, la consapevolezza che le decisioni giudiziarie ed il fondamento su cui esse riposano non sono monadi isolate ma si innestano in un sistema che, almeno tendenzialmente (ed a prescindere da fenomeni patologici in qualche misura sempre inevitabili), dovrebbe metter capo ad orientamenti giurisprudenziali dotati di un certo grado di coerenza e stabilità.
Nel ricercare la soluzione interpretativa di un testo di legge che meglio si armonizzi con l’esigenza di giustizia del caso concreto non è alla propria soggettiva concezione di giustizia che il giudice deve ispirarsi, bensì a quella che egli ricava dai principi generali cui ho prima fatto cenno. Il diritto, con i principi generali che lo innervano, è una funzione della società, non dell’individuo. E, se è indubbio che la naturale elasticità dei principi (non diversamente dalle clausole generali) offre talvolta spazio ad un’ampia gamma di soluzioni diverse, resta che anche i principi debbono comunque essere desunti da dati normativi, e principalmente da quelli enunciati nella Carta costituzionale (o da fonti di diritto europeo cui la stessa Costituzione apre la via), perché è lì che si esprime il modo di intenderli proprio della comunità di cui il giudice stesso fa parte e di cui è tenuto a rispettare il fondamento.
Ribadisco che vi sono sempre, insomma, dei limiti oggettivi che non è consentito varcare. E la garanzia che non li si varchi – garanzia, si capisce, pur sempre relativa – sta, oltre che nella formazione professionale richiesta a chi esercita la giurisdizione e nell’obbligo costituzionale di motivare i provvedimenti, nella pluralità dei gradi di giudizio e nella collegialità delle decisioni adottate nei gradi superiori. Al singolo giudicante non è consentito affidarsi unicamente alla sua individuale concezione della giustizia, ma gli si richiede la consapevolezza del fatto che ogni suo provvedimento è destinato ad inserirsi nel flusso di una giurisprudenza che è opera collettiva e che egli, certo, può cercare di far evolvere, ma sempre e solo attraverso il confronto dialettico con gli orientamenti altrui.
Ciò detto, non intendo certo negare che il già ricordato ampliamento della discrezionalità interpretativa del giudice, dovuto alle ragioni che ho prima sommariamente indicato, possa costituire un problema, specie se il giudice cede alla tentazione di abusare di quella discrezionalità; e non ignoro il pericolo che la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni giudiziarie ne possano risultare in qualche modo scalfite. Sono perciò convinto che sia sacrosanto lo sforzo di dare ad ogni disposizione di legge l’interpretazione il più possibile conforme ai principi desumibili dal dettato costituzionale, ed anzi è fondamentale che proprio a quei principi il giudice deve ispirarsi nell’esercitare la sua discrezionalità interpretativa, ma non mi nascondo che talvolta l’uso non sufficientemente avveduto del criterio dell’interpretazione conforme a Costituzione (o ai principi dei Trattati europei o della Convenzione sui diritti dell’Uomo) ha condotto ad interpretazioni eccessivamente forzate del dato normativo, laddove la difficoltà di conciliarlo con questa o quella disposizione costituzionale avrebbe dovuto piuttosto suggerire di rimettere la questione all’esame della Consulta, così eventualmente determinando la definitiva espulsione dall’ordinamento della norma dichiarata incostituzionale, senza il rischio di successive diverse valutazioni in proposito da parte di altri giudici.
Dubito, però, che per ovviare a questi possibili inconvenienti sia buon rimedio quello di ricorrere ad una legislazione a maglie più strette, nella speranza di poter ridurre la discrezionalità dell’intervento giudiziario ed impedirne veri o presunti sconfinamenti. La realtà, come è ben noto, supera sempre l’immaginazione del legislatore, e norme troppo minuziosamente dettagliate finiscono spesso per risultare troppo rigide e per non riuscire ad attagliarsi a molte fattispecie diverse da quelle che il legislatore aveva previsto, generando così lacune che inevitabilmente impongono poi al giudice di ricercare altrove il fondamento della propria decisione. Insomma, una vera e propria eterogenesi dei fini, per evitare la quale è spesso preferibile che il diritto positivo sia, invece, sufficientemente elastico in modo da fornire al giudice, pur se con un maggior margine di discrezionalità interpretativa, almeno una chiara indicazione di principio capace di orientarne la decisione in un’ampia gamma di casi e di adattarsi al rapido mutare delle situazioni nel tempo. E soprattutto occorrerebbe che gli interventi legislativi fossero più attenti all’esigenza di organicità e sistematicità del quadro ordinamentale e non invece frutto di spinte improvvise e disordinate. Auspicio che forse può apparire inattuale, in tempi di emergenza dovuta all’improvviso ed imprevisto scoppio di una pandemia, ma che in prospettiva di più lungo periodo credo conservi tutta la sua pregnanza.
Salvato La questione oggetto della prima domanda ha in sé insita quella del modello di magistrato. Nei sistemi di civil law, certamente nel nostro ordinamento, la soggezione del giudice al diritto legislativo giustifica che il magistrato sia un pubblico funzionario, reclutato mediante concorso e sembra tollerare una dose minima di creatività della giurisprudenza. La validità (e praticabilità) di tale modello non è messa in crisi dalla dimensione integrativo-creatrice della giurisprudenza? Ralf Dahrendorf ha scritto che sono due i presupposti della democrazia, «la società civile e il dominio del diritto», il secondo «è l’altra metà della costituzione della libertà. Anch’esso è esposto a diversi pericoli. Può dal canto suo diventare il dominio dei funzionari o almeno dei giudici». Non è quest’ultimo un rischio che può divenire concreto in un sistema caratterizzato dall’indicato modello di magistrato, in presenza di un’espansione della dimensione creativa dell’interpretazione, rendendo parimenti concreto il pericolo della lesione del fondamentale principio della separazione dei poteri, una volta che i giudici finiscono con l’operare scelte sostanzialmente politiche, dando conseguentemente forza all’interrogativo di Salvatore Mannuzzu, secondo cui occorre allora chiedersi «da dove viene, come si giustifica un loro potere così grande»? In ogni caso, la dimensione creativa dell’interpretazione può altresì incidere sulla finalità e sulla stessa modalità di redazione della motivazione dei provvedimenti del giudice?
Rordorf Temo di essermi dilungato troppo nel rispondere alla prima domanda, e cercherò quindi di essere ora più sintetico.
Non so quanto sia fondato il timore che l’ampliamento del campo d’intervento del potere giudiziario – se così vogliamo definirlo – comprometta il principio di divisione del poteri sul quale riposa uno dei fondamenti dello stato democratico: dipende dal rispetto di quei limiti che ho più volte prima richiamato. L’equilibrio del sistema è affidato sia alla capacità della stessa giurisprudenza di controllare e neutralizzare la tentazione di esorbitare dai confini naturali del proprio agire, sia dalla capacità del potere legislativo di svolgere correttamente la propria parte sforzandosi di recuperare la necessaria coerenza e sistematicità dell’ordinamento giuridico (per quanto possibile nelle condizioni storiche date) ed evitando il proliferare di leggi ambigue, lacunose o addirittura contraddittorie.
D’altronde, come ho già detto, l’accrescersi degli spazi di discrezionalità interpretativa del giudice dipende da fattori storici di lungo periodo, che non credo siano tali da mettere in discussione il principio della separazione dei poteri, ma che certamente non consentono di concepirlo secondo l’antico modello che pretendeva di confinare il giudice nel ruolo di semplice bouche de la loi.
Ciò ha fatto sì che andasse mutando col tempo anche il modello di magistrato: non più confinato ad un compito che si pretendeva fosse di mera tecnica giuridica (ma che forse mai è stato davvero soltanto tale), quasi indifferente alle conseguenze pratiche che la meccanica applicazione dei testi di legge avrebbe potuto causare e tendenzialmente perciò separato dal corpo sociale. Il giudice è chiamato oggi sempre più spesso ad operare delle scelte che richiedono invece una profonda comprensione della realtà sociale su cui le sue decisioni sono destinate ad incidere, e quindi anche una valutazione consapevole degli effetti che esse produrranno. Gli esempi di diretta influenza di decisioni giudiziarie sul concreto tessuto sociale potrebbero essere tantissimi, ma mi limiterò a farne uno solo: si pensi a come, ammettendo la possibilità di invocare la responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione in ipotesi di violazione di interessi legittimi del cittadino, la notissima sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni unite della Corte di cassazione, che rovesciò l’opposto orientamento sino ad allora costantemente seguito dalla giurisprudenza pur senza che alcuna modifica fosse stata frattanto apportata dal legislatore alle norme di riferimento, abbia profondamente modificato i rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione e l’immagine stessa di quest’ultima come titolare di un potere di supremazia prima di allora solo limitatamente sindacabile.
E’ legittimato il giudice a tanto, pur in difetto di una diretta investitura democratica? Io penso di sì, perché la sovranità appartiene al popolo ma si esercita nelle forme previste dalla legge. Quindi anche la giurisdizione, che è appunto una forma di esercizio di sovranità, è pienamente legittima nella misura in cui trova nella Costituzione e nelle leggi in base ad essa emanate il proprio fondamento ed i propri limiti. Nelle complesse società moderne ha poco senso pretendere che ogni esercizio di potere presupponga un mandato elettorale; quel che importa è che colui il quale è chiamato ad esercitarlo sia designato in conformità al modello legale previsto dalla Costituzione, o dal Parlamento, che lo faccia attenendosi a quel modello e che vi siano strumenti atti ad impedirne l’abuso.
Di nuovo perciò, come sempre, la questione si risolve avendo riguardo non all’astratta definizione dell’ampiezza dei poteri dei quali il giudice dispone, ma nel concreto rispetto da parte sua dei limiti che a quei poteri sono comunque assegnati. Ed uno di tali limiti sicuramente risiede nell’obbligo di motivare le proprie decisioni, in modo da offrire non solo alle parti direttamente interessate ma all’intera opinione pubblica la possibilità di conoscerne ed eventualmente criticarne il fondamento logico e giuridico. Anche questo è esercizio di democrazia ed anche così si consente al legislatore di tener conto delle ragioni che ispirano l’evoluzione della giurisprudenza ed, ove lo ritenga necessario, di intervenire a propria volta per modificare di conseguenza il quadro normativo.
L’accresciuta responsabilità sociale del magistrato è un dato ineliminabile nella società in cui viviamo. Non credo giovi deprecarla. Occorre piuttosto prestare particolare attenzione sia al tema della formazione, sia a quello delle valutazioni di professionalità cui i magistrati sono periodicamente soggetti. Da più parti, e non senza ragione, è stata posta in evidenza la scarsa significatività di tali valutazioni di professionalità, quasi sempre stereotipate e poco inclini a porre in luce profili di criticità. Ed invece, oggi più che mai, sarebbe necessario un serio vaglio critico per assicurare che il magistrato assolva con serietà l’importante compito che gli è confidato, con piena consapevolezza dei liniti ad esso connaturati.
Salvato Uno degli ambiti in cui maggiormente si è esplicata la dimensione creativa dell’interpretazione è quello dei diritti fondamentali, con esiti positivi e così noti da rendere superfluo ricordarli. Nondimeno, non vanno sottovalutate le preoccupazioni di quanti hanno richiamato l’attenzione sull’esigenza di evitare di «consegnare i diritti fondamentali alla mercé del consenso» e di non alimentare la cd. juristocracy, termine utilizzato (come ricorda Marta Cartabia, La Costituzione italiana 60 anni dopo: i diritti fondamentali, 15 e 23, in Atti del Convegno dell’Accademia dei Lincei su “La Costituzione ieri e oggi”, Roma, 9-10 gennaio 2008) «per sottolineare la tendenza un po’ aristocratica di individuare nelle aule giudiziarie le sedi più appropriate per le decisioni sui diritti fondamentali», con il rischio sia di pervenire a soluzioni «arbitrarie», appunto per questo, scarsamente tolleranti (Francesco Gazzoni), sia di determinare la prevalenza di una logica mercantile, se venga affermata la preminenza assoluta della libertà personale (Cesare Salvi). I diritti fondamentali devono inoltre essere considerati in una dimensione che non è, non può essere, soltanto individuale, ma è collettiva e che, appunto per questo, nel momento genetico eccede l’ambito di una specifica controversia. Non potrebbe allora essere necessario mantenere fermo il momento della loro positivizzazione mediante il riconoscimento in fonti normative (eventualmente anche attraverso l’intervento della Corte costituzionale)? Se così non è, non vi è il rischio che i giudici assurgano a «padroni del diritto» e finiscano per restare i soli garanti della complessità strutturale del diritto nello Stato costituzionale, «cioè della necessaria, mite coesistenza di legge, diritti e giustizia» (Gustavo Zagrebelsky)?
Rordorf Il tema dei diritti fondamentali è affascinante, ma al tempo stesso spinoso, anche per il rischio di un sovraccarico di retorica che talvolta lo accompagna.
Sono diritti al pari degli altri ma, pur appartenendo a ciascun singolo individuo, costituiscono il fondamento su cui si regge la vita di una comunità; e sono fondamentali anche perché sono posti a fondamento di una serie di ulteriori diritti. Rifuggendo da suggestioni giusnaturalistiche, è nell’evoluzione storica della coscienza sociale che credo occorra ricercarne l’origine: quindi nel modo in cui i diversi ordinamenti giuridici sono andati modellandoli nel tempo. Ma, se è vero che il riconoscimento di alcuni di essi (come dignità, uguaglianza di trattamento, libertà nelle sue varie declinazioni, ecc.) appare indiscutibile e trova agevole riscontro nella Costituzione, nei Trattati europei ed in molteplici carte e convenzioni internazionali, resta nondimeno arduo individuarne un catalogo preciso e completo. Donde la funzione decisiva che in questo campo svolge la giurisprudenza, nazionale e sovranazionale (particolarmente in ambito europeo), sia nel rinvenire il fondamento stesso di tali diritti sia nella definizione del loro perimetro applicativo. E’ evidente che quando l’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea parla dei diritti fondamentali non solo riferendosi a quelli specificamente garantiti dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e sulle libertà fondamentali ma anche a quelli “risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”, destinati a fungere da principi generali del diritto comunitario, per ciò stesso demanda all’interprete – e quindi, prima di ogni altro, al giudice – il delicato compito di rintracciare il fondamento di tali diritti nell’impianto costituzionale (non sempre scritto) dei singoli stati.
E’ vero, quindi, che in questo ambito la funzione della giurisprudenza può assumere una rilevanza anche maggiore che in altri, perché i dati testuali offrono margini interpretativi più ampi, ma non credo che ciò autorizzi conclusioni sostanzialmente diverse da quelle che mi è parso di poter trarre rispondendo alle domande precedenti. Anche qui, cioè, deve restare fermo che non è il giudice a creare i diritti, e tanto meno quelli fondamentali, ma è l’ordinamento a produrli (o, se si preferisce, a riconoscerli) nella varietà delle sue fonti cui il giudice dovrà attingere per dare a quei diritti concreta e ben motivata attuazione.
Problemi assai delicati sorgono, però, quando accade che, in determinate situazioni, si manifestino diritti fondamentali reciprocamente incompatibili (o che tali sembrano essere). E’ innegabile che anche i diritti fondamentali sono suscettibili di compressione, per effetto del necessario bilanciamento con altri diritti o valori ai quali cui l’ordinamento attribuisce pari importanza. L’attualità ne offre subito un esempio: il conflitto del diritto alla salute con varie esplicazioni del diritto di libertà, ed in qualche misura anche col diritto allo studio, che sono stati compressi per limitare la diffusione del contagio pandemico. E la cronaca di questi ultimi anni ha fato emergere anche altri ben noti casi di contrasto tra il diritto alla salute ed il diritto al lavoro, ma credo sia superfluo indugiare in ulteriori esempi. Importa invece notare che qui si apre un’ulteriore sfera di discrezionalità dell’interprete, complicata spesso dal confronto tra le diverse Corti, nazionali ed europee, e dal fatto che non sempre i diritti riconosciuti in ambito europeo coincidono appieno con quelli della Costituzione.
Ma conviene qui tralasciare il delicato tema del confronto e del dialogo tra le corti, che condurrebbe troppo lontano. Val la pena piuttosto di notare che, se anche si voglia condividere l’istanza di una maggiore “positivizzazione” dei diritti fondamentali, cui allude Luigi Salvato nella sua domanda, ogni qual volta il legislatore (ordinario o costituzionale, nazionale o europeo) non abbia già fornito un chiaro criterio al quale attenersi sarà sempre inevitabile che il bilanciamento tra diritti e valori si realizzi sul piano giudiziario. Ma non me ne scandalizzerei: in qualche misura è logico che sia così, giacché il più delle volte quel bilanciamento non può operarsi in astratto ma deve essere calibrato in relazione alle particolarità di ciascun caso concreto.
Salvato La dimensione creativa dell’interpretazione rimanda anche alla questione, a te cara, della specializzazione del giudice. Da tempo, ed anche di recente, hai infatti più volte sottolineato (soprattutto con riguardo al diritto dell’economia) che al giudice «si richiede di essere all'altezza del compito»; perché ciò accada, è imprescindibile che «egli sia dotato di un adeguato livello di specializzazione». La specializzazione, se intesa come possesso di un complesso di nozioni tecniche in una determinata materia, sembra tuttavia costituire una mera ripetizione del «centro dell’idea che i magistrati hanno di se stessi», espresso dalla formula «magistrato professionale», che identifica «il modello weberiano del funzionario, portatore di un sapere tecnico che lo legittima, sulla base del quale è stato selezionato ed è entrato a far parte di un apparato», in quanto egli deriva appunto la sua legittimazione dal fatto di essere colui che «sa come si fa» (Mario Dogliani). E’ questa la nozione di specializzazione che viene in rilievo o deve piuttosto aversi riguardo a quella che identifica il giudice in grado di comprendere, e governare, «le conseguenze dell’intervento che gli viene richiesto», consentendogli (ed imponendogli) di bilanciare gli interessi in conflitto in base ai principi generali dell’equità e della ragionevolezza (nella specie, economica)? L’eccessiva enfatizzazione della specializzazione (in entrambe le accezioni) non può avere in sé insito il rischio, evidenziato da Guido Calabresi, che il giudice, divenendo «specialista», finisca con l’essere rinchiuso dentro (e divenire prigioniero di) «un sistema di saperi tanto esclusivi quanto minuscoli»? Non è forse vero, come ancora ha scritto Guido Calabresi, che soltanto l’essere inguaribilmente “generalista” può consentire al giudice di porsi di fronte ai problemi con animo e curiosità liberi da preconcetti, condizionamenti, pigrizie intellettuali? L’eccessiva specializzazione e la settorializzazione che ne consegue non rischia, inoltre, di alimentare derive corporative e, comunque, di far smarrire quell’esigenza di unità ed unificazione della società, garantita proprio ed anche dalla giurisdizione, se esercitata da un giudice ‘generalista’?
Rordorf Il “sapere tecnico”, che legittima il magistrato ad esercitare la sua funzione, secondo il risalente modello richiamato da Luigi Salvato nella sua domanda, è costituito dall’intero bagaglio della sue conoscenze giuridiche, vagliate nelle prove concorsuali che egli deve superare per entrare a far parte dell’ordine giudiziario e successivamente coltivate con gli strumenti di formazione offertigli dall’amministrazione giudiziaria (oltre che, ovviamente, con la sua auspicabile, personale e continua applicazione allo studio). Tanto basta perché egli risponda alle caratteristiche tradizionali del magistrato professionalmente competente, che è tale in quanto in possesso delle cognizioni giuridiche che dovrebbero permettergli di padroneggiare indistintamente l’universo legale.
Quando si parla di specializzazione, però, credo ci si debba riferire ad altro, o quantomeno anche ad altro: cioè a quella particolare competenza che non si esaurisce nell’essere genericamente esperti di leggi e di diritto ma che attiene ad uno specifico settore nel quale le nozioni giuridiche sono strettamente intrecciate con altri tipi di sapere, sicché la sola capacità di maneggiare codici e pandette non basta né ad intendere fino in fondo le ragioni per cui quelle particolari leggi sono state dettate, né a valutare le conseguenze pratiche della loro applicazione.
L’esigenza della specializzazione, che piaccia o no, è un altro ineludibile portato dell’evoluzione delle società moderne verso una sempre maggiore complessità, e si manifesta perciò con assoluta evidenza in quasi tutti campi del sapere. In ambito giuridico è stata ancora scarsamente sino ad ancora poco tempo fa, e se ne è cominciato a prendere consapevolezza solo in epoca relativamente recente ed in misura assai limitata (per esempio, nel settore del diritto del lavoro a partire dagli anni settanta del novecento). Ma quell’esigenza si è fatta oggi più impellente, essenzialmente per due ragioni: in primo luogo perché il diritto ha esteso progressivamente il suo campo di applicazione a settori sempre più vasti e sempre più caratterizzati da regole tecniche di natura extragiuridica, tradizionalmente estranee al normale bagaglio di conoscenze del quale il magistrato medio è dotato; ed in secondo luogo perché, come già prima osservato, l’attenuarsi dell’interna coerenza e la minore sistematicità dell’impianto ordinamentale hanno accresciuto la discrezionalità interpretativa del giudice, per esercitare correttamente la quale è indispensabile che egli abbia piena consapevolezza degli effetti prodotti dalle proprie decisioni. La fiducia dei cittadini nella giustizia dipende anche dalla percezione che coloro ai quali spetta amministrarla sappiano davvero quel che fanno, ossia sappiano misurare le conseguenze del loro operato, che altrimenti rischia di essere avvertito come un fattore imponderabile.
Vi sono settori dell’ordinamento nei quali la stessa normativa è sempre più ampiamente tributaria di nozioni e principi tratti da altri rami del sapere. Basti pensare, per limitarsi ad un solo esempio, alla vigente disciplina del bilancio d’esercizio e dei bilanci consolidati delle società, la cui comprensione presuppone la conoscenza di concetti (ammortamenti, ratei, risconti, fair value, e così via) poco familiari all’orecchio del giurista di formazione tradizionale. O ancora, per restare nel campo del diritto commerciale, si pensi al dovere del giudice di verificare la “fattibilità economica” dei piani di concordato preventivo, prescritto dall’art. 47, comma 1, del recente codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che evidentemente richiede la capacità di misurarsi con la complessa dinamica di un progetto di risanamento imprenditoriale. Ed è allora evidente che, se privo di una competenza specifica, il giudice sarà propenso ad arroccarsi nel fortino delle sue sole conoscenze giuridiche e finirà sovente per dare una risposta formale e burocratica, quasi sempre del tutto inadeguata alla bisogna; oppure si affiderà a consulenti dei quali non è però in grado di controllare l’operato ed ai quali impropriamente delegherà così il proprio compito.
Non nego che possa avere un qualche fondamento la preoccupazione che l’eccessiva specializzazione provochi una visione troppo angusta dei temi che sovente si intrecciano tra rami diversi dell’ordinamento giuridico, impedendo al giudice di cogliere le implicazioni di sistema che solo in un orizzonte più aperto appaiono chiare e consentono di non smarrire il senso dei principi generali. Ma resto convinto che i tempi nei quali viviamo e la vieppiù accresciuta complessità dell’organizzazione sociale non consentano nostalgie per il giudice “generalista”, come non lo consentono ormai in quasi nessun tipo di professione intellettuale. Per ovviare al rischio sopra evidenziato non è all’indietro che occorre guardare, ma bisogna invece trovare il modo di contemperare la specializzazione con forme di rotazione delle funzioni, tali per cui soprattutto i magistrati più giovani possano acquisire esperienze anche in altri campi del diritto, senza per questo far venire meno la presenza in ogni ufficio giudiziario di un nucleo di magistrati specializzati nei settori del diritto che maggiormente lo richiedono. Il che peraltro – lo dico incidentalmente – imporrebbe di affrontare senza timidezze il tema della geografia giudiziaria per garantire che i tribunali abbiano tutti una dimensione adeguata a consentire le necessarie specializzazioni al proprio interno.
Salvato Il riferimento alla specializzazione del giudice rinvia all’esigenza, da te sottolineata, che il diritto non può ignorare la sostanza economica delle materie con cui si confronta e che «la leva giuridica» non è in grado «di sollevare il mondo dell’economia». Nondimeno, al fondo resta la centrale questione di stabilire se l’economia possa (e debba) esprimere le sue proprie regole, riducendo il contenuto delle leggi giuridiche alla competenza dei tecnocrati (potendo tutti i problemi ricevere una soluzione ‘tecnica’) o se, invece, debba affermarsi la prevalenza della «decisione politica» e, per questa, del «primato del diritto». Se così è, come appare preferibile, tra le principali finalità della giurisdizione non vi è anzitutto quella di garantire (oggi più di ieri) che l’apertura al libero mercato ed alle forze imprenditoriali avvenga sempre nel rispetto delle scelte di politica economica e sociale realizzate dalla nostra Costituzione, avendo quale faro l’esplicito richiamo dell’art. 41, che subordina la legittimità dell’iniziativa economica privata al rispetto del valore della dignità umana, e l’idea, insita nella Carta, di rendere compatibile lo sviluppo economico con un ordine sociale ‘giusto? Tale sfida può colorarsi di nuovi aspetti, tenuto conto del contenuto e dei caratteri della globalizzazione e di uno sviluppo tecnologico che sembra fare di talune ‘compagnie’ (in particolare, quelle padroni dei big data, orientate esclusivamente alla finalità del profitto) le effettive reggitrici dei destini e delle scelte della società?
Rordorf Sono totalmente d’accordo sul fatto che la necessaria attenzione alle esigenze dell’economia ed alle conseguenze economiche delle decisioni giudiziarie non debba far mai dimenticare che la giurisdizione ha il compito primario di garantire il rispetto dei valori di giustizia posti a base dell’ordinamento giuridico e ben rappresentati dalla nostra Carta costituzionale, a partire da quello della dignità umana.
Non so quanto sia corretto parlare di un primato del diritto sull’economia: sono due mondi da sempre destinati a convivere ed a condizionarsi reciprocamente. Tradizionalmente s’immagina che l’homo oeconomicus persegua l’utile prendendosi cura dei propri interessi individuali, ma la ricerca dell’utile sarebbe sterile se non fosse in grado di abbracciare anche interessi comuni ad un più ampio consorzio umano, perché nessuno è da solo sufficiente a se stesso, L’utile deve perciò necessariamente coniugarsi con il giusto, che è a fondamento del diritto cui spetta il compito di governare i conflitti e garantire la coesione sociale.
È vero, però, che il progressivo affermarsi, grazie anche alle nuove tecnologie informatiche, di un sistema economico (e soprattutto finanziario) assai meno condizionato del passato dai confini tra gli stati e la correlativa ascesa di imprese sovranazionali di grande dimensione e di peso economico paragonabile o addirittura superiore a quello degli stati medesimi (o di molti tra essi) hanno rischiato e tuttora rischiano di mettere, per così dire, fuori scala gli ordinamenti giuridici, ancora largamente legati ad una base nazionale. E si è andata nel frattempo affermando l’idea che gli stessi ordinamenti giuridici nazionali dovrebbero porsi quasi in concorrenza tra loro per risultare più attraenti agli occhi degli investitori economici. Un’idea che, francamente, mi è sempre parsa pericolosissima, perché rischia di produrre una sorta di concorrenza al ribasso, spingendo i diversi legislatori a dettare regole sempre più blande ed inevitabilmente così riducendo il tasso di legalità complessivo del sistema.
Dubito che sia possibile ovviare a questi rischi operando solo sul piano del diritto interno o facendo leva sul solo apporto della giurisdizione nazionale. La natura stessa di quel fenomeno che siamo ormai abituati e definire “globalizzazione” rende evidente che i rimedi vanno ricercati in un orizzonte più vasto, quanto meno in ambito europeo. Se infatti, da un lato, il rinchiudersi in logiche “sovraniste” appare una reazione incongrua e del tutto inadeguata, come anche le recenti drammatiche vicende della pandemia da Coronavirus mi pare stiano dimostrando, dall’altro lato occorre evitare che la logica di un’economia di mercato capace tendenzialmente di svincolarsi dal rispetto delle normativa nazionali dia vita ad un mercato senza regole, che in realtà sarebbe retto dalla regola del più forte e finirebbe per tradire quei valori di giustizia che sono il fondamento essenziale di qualsiasi stato di diritto.
Se si vuol tentare di salvaguardare un corretto equilibrio tra la logica economica che domina il mondo contemporaneo ed il rispetto dei valori di giustizia insiti nella nozione stessa di diritto, credo sia necessario alzare la posta in gioco. Occorre cercare, cioè, di dar vita a forme di sovranità sovranazionale – ovviamente mi riferisco anzitutto al contesto dell’Unione europea – nel cui ambito potrebbe essere più agevole evitare che gli animal spirits del capitalismo debordino dai confini che necessariamente il diritto deve loro porre; e forse anche il sistema giurisdizionale ed il complicato rapporto tra corti nazionali e corti europee andrebbe almeno in parte ripensato in un quadro costituzionale di più ampio respiro. Ma qui mi fermo, perché comprendo bene di aver toccato un tema che richiederebbe un livello di approfondimento assai superiore a quello che mi è consentito.
Salvato Sottesa ai problemi oggetto delle precedenti domande vi è la questione, questa davvero antica, della certezza del diritto, che attraversa e muove la Storia con la “S” maiuscola, ma anche minuscola, poiché - ammoniva Piero Calamandrei - «ci tocca da vicino nella sicurezza dei focolari, nella dignità di uomini, nella libertà individuale». Questa idea teorica appare oggi in declino ed il complesso di fattori accennato nella premessa ha determinato, come di recente ha scritto Giovanni Salvi, «l’evoluzione della certezza del diritto nella prevedibilità della decisione». Cosa questo voglia dire, come e cosa debba intendersi per prevedibilità e come vada perseguita costituisce tema noto, ampiamente dibattuto, da te sapientemente affrontato. In questa sede ritengo tuttavia opportuno più che riflettere su questo tema volgere l’attenzione ad alcuni mutamenti che stanno incidendo su di esso con effetti dei quali potrebbe non aversi piena contezza. Il riferimento è alle conseguenze dell’irrompere dei sistemi di intelligenza artificiale (al quale ho dedicato qualche considerazione in uno scritto in corso di pubblicazione). La nuova frontiera sembra essere infatti quella della giustizia predittiva, intesa come possibilità di decidere uno specifico caso, rimettendolo all’AI, attraverso l’ausilio di algoritmi, divenuta attuale grazie anche allo sviluppo del machine learning. La giustizia predittiva è già operante in alcune realtà, tra l’altro, nel diritto d’autore, in alcune modalità di gestione delle procedure di mediazione e di gestione alternativa delle controversie e, negli Stati Uniti, per la concessione della libertà su cauzione o in materia di recidiva. Peraltro, sembra essersi già avverata l’amministrazione predittiva, tenuto conto che il Consiglio di Stato ha ritenuto legittimo l'utilizzo di algoritmi informatici per la determinazione del contenuto di provvedimenti amministrativi, anche discrezionali.
Le domande che possono essere poste sono, in primo luogo, se tale scenario sia auspicabile e se, a questo, scopo, non occorra almeno distinguere le controversie da affidare a tale tipo di giustizia (sono evidentemente differenti, ad esempio, le decisioni concernenti i presupposti dell’insolvenza e/o della probabilità di risanamento di un’impresa che versa in una situazione di difficoltà economica, ovvero le condizioni del rilascio di un permesso di soggiorno, oppure l’affidamento dei minori). In secondo luogo, se occorra, da subito, riflettere sulle conseguenze già prodotte dall’attuale stato dell’evoluzione tecnologica, delle quali forse non si ha dovuta consapevolezza. Il riferimento, tra l’altro, è alla circostanza che la facilità del reperimento dei precedenti già da sola può comportare (finanche, come ho scritto, per mere ragioni di ‘comodità’ e di ‘pigrizia’) un’omologazione, attribuendo in modo strisciante (perciò solo pericoloso) forza vincolante (sia pure ‘di fatto’) ai precedenti, prima ed al di fuori di ogni questione teorica in ordine ai presupposti della stessa, nonché ai software di profilazione del giudice, del p.m., degli avvocati e delle parti (in base a dati che si ignora quali siano, da chi e dove detenuti), che possono diventare strumento di condizionamento, prima ancora che di predizione.
Rordorf Può ben darsi che la certezza del diritto faccia parte di quelle mitologie giuridiche della modernità dalle quali ci mette ripetutamente in guardia Paolo Grossi. Ma i miti, si sa, hanno sempre un fondamento profondo nell’animo umano: esprimono bisogni, timori, desideri che percorrono come un fiume carsico la storia dell’umanità. Non ce ne si può sbarazzare con un’alzata di spalle.
Non v’è dubbio che, per diverse ragioni già prima ricordate, l’insieme delle norme da cui è formato l’ordinamento giuridico si presenti oggi assai più complesso e meno facilmente leggibile di quanto fosse cento o forse anche solo cinquanta anni fa; ed è inevitabile che ciò renda il diritto più incerto. Rischia in conseguenza di ridursi anche il tasso di prevedibilità delle decisioni giudiziarie, che della certezza del diritto costituisce un corollario. Della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni è bene non fare dei feticci. Il diritto riguarda vicende umane che, per loro stessa natura, sono estremamente variabili: chi è chiamato a giudicarle deve sempre saperne cogliere la specificità, e questo non consente di predicare l’assoluta prevedibilità di qualsiasi decisione. Tuttavia qui si pone un problema del quale ci si deve far carico, non foss’altro perché, se l’eccessiva erraticità delle risposte di giustizia fa sì che situazioni simili o analoghe ricevano un trattamento giuridico diverso, ne risulta vulnerato il fondamentale principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Se, di conseguenza, è senz’altro auspicabile che i legislatori (nazionali e sovranazionali) si sforzino di dare maggior coerenza sistematica e maggior chiarezza al diritto positivo, non meno importante e consapevole dev’essere lo sforzo del mondo giudiziario di favorire il più possibile il formarsi di orientamenti giurisprudenziali tendenzialmente stabili e sorretti da motivazioni ben argomentate. Il che si traduce nel dovere – che definirei deontologico – di ciascun singolo magistrato di tener sempre conto dei precedenti che abbiano attinenza al caso da decidere e di discostarsene, se lo ritiene davvero necessario, solo sulla scorta di argomenti critici nuovi o, comunque, sorretti da un impianto motivazionale capace di mettere in discussione l’orientamento che si vorrebbe mutare. Qui, più che mai, mi sembra che l’etica della responsabilità debba riuscire a coniugarsi virtuosamente con l’etica della convinzione, nella necessaria consapevolezza che il giudice non è un decisore solitario ma opera all’interno di un sistema giurisdizionale dotato di una sua interna coerenza. L’esercizio della giurisdizione non è un terreno sul quale il singolo magistrato debba sperimentare le proprie avventure intellettuali.
Possono gli strumenti dell’intelligenza artificiale utilmente concorrere a rendere più certo il diritto e più prevedibile la giurisprudenza? Confesso che ho difficoltà a rispondere a questa domanda. Benché ormai da molti anni anche io, come un po’ tutti, mi arrangi a trafficare con il computer e sia dovuto venire a patti con l’informatica, ne so davvero poco di intelligenza artificiale, e mi rendo conto che il timore dell’ignoto può offuscare o deformare la mia visione del fenomeno.
Quel che mi sembra però di poter dire è che altro è la funzione strumentale che queste nuove (o relativamente nuove) tecnologie possono svolgere per facilitare il giudice, l’avvocato o il giurista in genere nello svolgimento dei suoi compiti, altro il delegare tali compiti ad una macchina, sia pure dotata di intelligenza artificiale e programmata per decidere in base ad algoritmi predisposti dall’uomo.
E’ vero che neanche la sola maggior facilità del reperimento dei precedenti, oggi consentita dagli strumenti informatici, è del tutto neutra rispetto agli esiti del procedimento decisorio, perché potrebbe favorire il recepimento acritico da parte del giudice di massime sempre immediatamente a disposizione ed ostacolare quindi oltre il dovuto la capacità della giurisprudenza di rinnovarsi confrontandosi con il mutare della realtà sociale. Sono convinto, nondimeno, che i vantaggi siano, su questo piano, di gran lunga prevalenti sugli inconvenienti. L’enorme ampliamento delle possibilità di conoscere il tenore e le motivazioni dei provvedimenti giudiziari (per non parlare dei testi normativi) rende assai più trasparente l’esercizio della giurisdizione, agevola grandemente i professionisti e gli operatori economici che hanno necessità di tener conto degli orientamenti della giurisprudenza e, quanto ai giudici, consente loro con un minino di addestramento di compiere ricerche di precedenti non solo più rapide ma anche più complete. L’eventuale cattivo uso di questi strumenti da parte di taluni non può far velo alla loro generale utilità.
Tutt’altro discorso mi sembra da farsi a proposito dell’uso di algoritmi destinati ad incidere sulla decisione del giudice, o addirittura a sostituirla (i cosiddetti algoritmi decisori). Non sono affatto sicuro che, nella sua gelida logica, l’intelligenza artificiale sia sempre davvero in grado di cogliere tutte le infinite sfumature, non solo materiali ma anche psicologiche, che, come già in precedenza accennavo, rende straordinariamente variabile la realtà sulla quale la decisione giudiziaria deve cadere. Sono disposto a concedere che si possano immaginare tipologie di situazioni più semplici e di decisioni meglio standardizzabili, alle quali maggiormente si addice l’automatismo decisorio, ma ho l’impressione che ci si dovrebbe comunque acconciare a muoversi in un ambito piuttosto ristretto.
L’aspetto maggiormente critico è costituito però, se non m’inganno, dalla difficoltà di stabilire a chi competa predisporre gli algoritmi e secondo quali criteri debba farlo, oltre che di verificare poi dall’esterno come essi sono stati in effetti realizzati. Sono stati evocati, a proposto dell’uso di algoritmi nelle decisioni amministrative, i principi di conoscibilità, di comprensibilità e di non discriminazione, che ovviamente potrebbero valere anche se si ammettesse l’uso di analoghi algoritmi anche nelle decisioni giudiziarie. Resta però il fatto che, se la decisione giudiziaria è il prodotto di un algoritmo, non è facile comprendere come possa essere motivata, a meno di non ritenere che la motivazione riposi nel criterio in base al quale quell’algoritmo è stato elaborato. Ma, mi chiedo, fino a qual punto è possibile comprendere quel criterio anche da parte di persone non particolarmente esperte in materia di intelligenza artificiale? Non si rischia, allora, di compromettere quello che tutti consideriamo uno dei fondamenti della giurisdizione nel moderno stato di diritto, ossia appunto la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, tale da consentire su di essi un controllo diffuso e da giustificare il fatto che sono pronunciati in nome del popolo italiano? L’eccessivo tecnicismo del linguaggio giuridico costituisce già ora (ma non da ora) un ostacolo all’effettiva realizzazione dei valori di democrazia insiti in tali principi, ed è una delle cause non secondarie della sfiducia che sovente circonda l’esercizio della giurisdizione, visto quasi come un rito esoterico comprensibile solo ad una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Ho il timore che una giustizia amministrata secondo algoritmi esaspererebbe ancor più questo aspetto negativo.
Ed ancora, conseguentemente, per quali motivi e con quali argomenti – su base giuridica o di carattere informatico – si potrà immaginare che provvedimenti emessi in questo modo siano impugnabili, ed a quali strumenti l’eventuale giudice dell’impugnazione si dovrà affidare per sindacare la correttezza della decisione impugnata?
A questi interrogativi, come ho già detto, non so rispondere. Ma mi inquietano.
Giurisdizione e acquisizione sanante: l’ennesima sciarada (nota a Cass., sez. I, ord. n. 29625/20)
di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. Premessa. – 2. La questione rimessa alle Sezioni unite. 3. I diversi orientamenti giurisprudenziali sulla questione della giurisdizione in tema di indennizzo da acquisizione sanante. - 4. Le questioni aperte dopo l’assestamento del 2015. – 5. Provvisorie conclusioni … in attesa delle Sezioni unite
1. Premessa
L’ordinanza che si annota conferma l’idea, già espressa qualche anno fa, secondo cui «la tematica dell’acquisizione sanante si pone sempre più come questione di diritto processuale, ma al contempo continua a non rimanere avulsa da scenari più generali, posto che oggi il rispetto dei principi sanciti prima dalla Corte EDU, poi dalla Consulta, a garanzia del proprietario rispetto ad una espropriazione indiretta, passano soprattutto, a seconda dei casi, per la rigorosa applicazione e/o per l’affinamento di svariati istituti di matrice processuale»[1].
Si pensi al tema delicato del giudicato restitutorio e ai poteri del commissario ad acta. Secondo il Consiglio di Stato[2]la preclusione del giudicato restitutorio sussiste come regola generale, con alcune eccezioni individuate in modo più o meno netto[3]. La medesima sentenza, inoltre, ammette l’usucapione entro ristretti limiti[4] allo scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull'Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta, in violazione dell'art. 1 del primo protocollo addizionale della Cedu.
Ancor più recentemente si è esclusa la configurabilità nel nostro ordinamento della rinuncia abdicativa quale atto implicito nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della p.a., a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo[5]. Le ragioni a sostegno di tale opinione sono molto significative[6]. In particolare, si è osservato che la figura non è provvista di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.), sia a livello di diritto europeo. Si è ricordato, sotto questo profilo, che in materia di espropriazione indiretta occorre evitare di ricorrere a istituti che in qualche modo si pongano sulla falsariga della cd. occupazione acquisitiva, cui la giurisprudenza fece ricorso negli anni Ottanta del secolo scorso per risolvere le situazioni connesse a una espropriazione illegittima di un terreno che avesse tuttavia subìto una irreversibile trasformazione in forza della costruzione di un’opera pubblica.
Si prospetta, quindi, un coacervo di questioni generali strettamente avvinte, i cui nodi irrisolti determinano persistenti incertezze: non solo i rapporti fra diritto sostanziale e diritto processuale, né solo i rapporti fra diversi ordinamenti (nazionale ed europeo) in tema di proprietà[7], ma anche gli incerti confini tra diritto pubblico e diritto privato, anche in questa materia[8]. Si è detto dello spinoso tema dell’usucapione “sanante” e della rinuncia abdicativa. Ma il capo delle tempeste, vero e proprio crocevia di tutti questi rivoli d’indagine e problematicità, non poteva che essere il tema della giurisdizione. In questo caso i profili di ordine sostanziale ad essere chiamati in causa sono da un lato la natura dell’istituto dell’acquisizione sanante, dall’altro il rapporto tra indennizzi e risarcimenti contemplati all’art. 42 bis T.U. espropriazioni.
E così, la questione della giurisdizione si indirizza segnatamente proprio sugli indennizzi e i risarcimenti previsti all’art. 42 bis, che per il principio di concentrazione ed effettività della tutela (art. 7 c.p.a.) forse dovrebbero ricadere nella cognizione, ormai sempre più estesa (anche alla luce dell’abbandono della tesi della carenza di potere in concreto), del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. E tuttavia sul punto si è andata formando una giurisprudenza che, sulla scia della fondamentale sentenza della Corte cost. n. 71/2015, ritiene che l’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 preveda un autonomo, speciale ed eccezionale procedimento espropriativo, con la conseguenza che, ove detto procedimento sia stato legittimamente promosso, attuato e concluso, il corrispettivo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale liquidato con il provvedimento acquisitivo ha natura non già risarcitoria ma indennitaria, con l’ulteriore corollario che le controversie relative alla determinazione o alla corresponsione di esso sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario[9].
Anche in questo caso appare evidente il legame tra questione processuale e intima natura sostanziale dell’istituto dell’acquisizione sanante. È da tali premesse che è necessario partire per cogliere il parziale cambio di rotta suggerito dell’ordinanza interlocutoria che si annota, con la quale la Sez. I della Cassazione chiede alle Sezioni unite di rivedere l’orientamento consolidato per quanto attiene la fattispecie relativa alla quantificazione della somma di danaro da corrispondersi «a titolo risarcitorio» al proprietario in ragione dell’ablazione dell’area occupata (art. 42 bis, comma 3).
2. La questione rimessa alle Sezioni unite
La Sez. I, fermo restando che la giurisdizione sugli indennizzi spetta al g.o., contesta tale appartenenza nel caso del risarcimento per il danno nel periodo di occupazione senza titolo. L’indennizzo, come noto, riguarda il pregiudizio patrimoniale e quello non patrimoniale, determinato quest’ultimo nella misura del dieci per cento del valore venale del bene, sofferti dal proprietario destinatario del provvedimento di acquisizione. Senonché l’art. 42 bis, coma 3, stabilisce anche: «per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma».
Nell’orientamento giurisprudenziale precedente maturato si è ritenuto che anche questa posta rientrasse nella competenza funzionale della Corte di appello, sul presupposto che l’utilizzo della locuzione «a titolo di risarcimento del danno» fosse frutto di una «mera imprecisione lessicale che non altera la natura della corrispondente voce dell’indennizzo, il quale essendo unitario non può che avere natura unitaria»[10].
La Sez. I non condivide: la precedente interpretazione delle Sezioni unite, infatti, forzerebbe il dato letterale della norma, che parla di risarcimento del danno per il periodo di occupazione illegittima[11]. Non rispetterebbe neanche la sistematica del risarcimento del danno in materia espropriativa, in quanto, per porsi in linea di continuità con la riconosciuta legittimità costituzionale dell’acquisizione sanante, finisce per concepire quest’ultima come una sorta di ombrello che tramuta – sotto la comune copertura indennitaria – in lecito ciò che precedentemente era illecito.
Con una serie di distonie sul piano processuale, come quella relativa alla legittimazione passiva, giocoforza limitata alla sola p.a. che ha adottato il provvedimento di acquisizione sanante accedendo alla tesi indennitaria, ovvero quella relativa all’onere della prova, di fatto sovvertito nella misura in cui l’assorbimento nella fattispecie pan-indennitaria finisce per elidere tale onere, da un lato in base alla giurisprudenza consolidata in tema di poteri giudiziali di determinazione dell’indennità di espropriazione[12], dall’altro enfatizzando la forfettizzazione presuntiva del danno.
Anche sul piano sostanziale vengono individuati degli importanti presupposti teorici che sottendono la tesi avversata: la «definizione di una sanzione della condotta della p.a. sostenuta da una lettura della funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost. che oblitera gli effetti redistributivi che si accompagnano al danno, quale costo da ripartirsi tra tutta la collettività, nella sola affermata necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori».
Al fondo, quindi, si afferma l’estraneità della fase risarcitoria al procedimento espropriativo propriamente detto, e si prospetta una prevalenza di tale dato sostanziale rispetto ai principi di ragionevole durata e concentrazione delle tutele. Che, peraltro, come diremo non è detto che siano effettivamente meglio rispettati aderendo alla tesi sinora invalsa in giurisprudenza.
3. I diversi orientamenti giurisprudenziali sulla questione della giurisdizione in tema di indennizzo da acquisizione sanante
Invero la questione non è sempre stata pacifica, e ha dato luogo ad un contrasto di giurisprudenza, o, meglio, ad uno svolgimento in tre fasi[13].
In una prima fase si ritiene devoluto alla cognizione del g.o., ai sensi dell’art. 133, lett. g, c.p.a., l’indennizzo in parola. Si noti che sostiene tale esegesi anche la giurisprudenza amministrativa[14].
In seguito si segnalano pronunce in cui viene affermata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[15]. Si argomenta, fra l’altro, nel senso della natura rimediale dell’indennizzo rispetto alla pregressa illegittimità: in tal senso esso apparirebbe non già proiettato al futuro in vista dell’ablazione del bene, ma ripiegato sull’illecito pregresso. A maggior ragione ciò varrebbe con riguardo al pregiudizio non patrimoniale, non collegabile ad un atto lecito[16]. Si aggiunge, sotto il profilo strettamente processuale, che nel caso dell’acquisizione sanante, a differenza di quello “fisiologico” dell’ordinario procedimento di esproprio, spesso il contenzioso avente ad oggetto il provvedimento adottato ai sensi dell’art. 42 bis coinvolge contestualmente an e quantum, sicché in questi casi i principi di ragionevole durata del processo e concentrazione delle tutela militerebbero a favore della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, e non già della Corte d’appello, tanto più a fronte della riluttanza delle amministrazioni ad adottare il provvedimento di acquisizione sanante, dovuta all’insufficienza dei bilanci e al connesso obbligo di comunicazione alla Corte dei conti[17], che determina la contestuale valutazione di an e quantum in sede di ottemperanza, ove la giurisdizione esclusiva e di merito ne consentono il congiunto radicamento.
Dopo la sentenza della Corte cost. n. 71/2015 si afferma di nuovo, come si è già accennato, l’indirizzo favorevole alla giurisdizione del g.o., poiché l’acquisizione sanante è ormai da considerare, in modo costituzionalmente e convenzionalmente orientato, quale «procedimento espropriativo semplificato». Sicché oggetto della controversia non è l’operato illegittimo della p.a., bensì il legittimo provvedimento di acquisizione sanante, da cui il carattere indennitario del relativo ristoro. Peraltro si osserva che gli ulteriori argomenti posti a fondamento della "teoria risarcitoria" - cioè l'uso, da parte del legislatore, del termine “indennizzo” anzichè di quello “indennità”, e la previsione di tale indennizzo per il ristoro anche del “pregiudizio non patrimoniale” - appaiono intrinsecamente deboli: il primo, perchè presuppone una permanente, appropriata e precisa utilizzazione del lessico giuridico da parte del legislatore che, invece ad esempio, nello stesso art. 42 bis, comma 3, richiamando il D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37 (che reca la rubrica “Determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area edificabile”) per la determinazione dell'indennizzo in caso di provvedimento di acquisizione di aree edificabili, mostra evidentemente di utilizzare i due termini come sinonimi; il secondo perchè il ristoro del pregiudizio non patrimoniale, automatico e predeterminato nel quantum in una percentuale del valore venale del bene, è misura accessoria inidonea ad incidere, di per se sola, sul riparto di giurisdizione[18]. Anche in questo caso la giurisprudenza amministrativa si è tendenzialmente uniformata alle prese di posizione delle Sezioni unite successive al 2015[19].
4. Le questioni aperte dopo l’assestamento del 2015
Come conferma l’ordinanza qui commentata, tuttora sono rimaste aperte alcune delicate questioni.
Prima di tutto quella relativa a quale giudice, nell’ambito della giurisdizione ordinaria, sia competente per le controversie relative alla misura dell’indennità prevista in un provvedimento di acquisizione sanante. Sul punto si è ritenuto che il carattere eccezionale della previsione della competenza in unico grado della Corte d’appello non rappresenti nel caso di specie un vulnus alla regola generale della competenza del tribunale o del doppio grado di giurisdizione di merito, poiché nello specifico settore delle espropriazioni per pubblica utilità la legge espressamente prevede varie ipotesi di competenza in unico grado della Corte d’appello, oltre a quella della opposizione alla stima ai sensi dell’art. 54 T.U. espropriazioni, sicché tale competenza è da considerarsi quale regola generale per la determinazione giudiziale delle indennità dovute nell’ambito del procedimento espropriativo[20].
Vi sono poi alcune questioni più strettamente processuali, riguardanti le specificità trattate nell’ordinanza qui commentata, che si sofferma sulla somma a titolo risarcitoria individuata al comma 3 dell’art. 42 bis.
Innanzi tutto il tema dell’onere probatorio, nel caso di pregressa occupazione illegittima (rispetto alla giurisprudenza consolidata sui poteri officiosi del giudice nel caso di indennizzo). L’opportunità di differenziare le due ipotesi di indennizzo previste ai commi 1 e 3 dell’art. 42 bis dalla somma a titolo risarcitorio prevista dal comma 3, secondo alinea, della medesima disposizione, a ben guardare si intravede già nel fatto che, una volta superata la tesi risarcitoria, anche in quest’ultimo caso dovrebbe applicarsi l’orientamento della Cassazione secondo cui il giudice procede autonomamente alla determinazione dell'indennità di espropriazione, senza essere vincolato dalle prospettazioni delle parti, qualificate anche come «indicazioni», o meri «punti di vista»[21].
Appare però non agevole applicare questa peculiare impostazione nel caso di pregiudizio per occupazione illegittima diverso da quello forfettizzato dalla legge in un ventesimo per anno dal valore venale del bene; qui, infatti, sembra più in linea coi principi generali che sia la parte interessata a dover prima dedurre e poi provare i fatti a sostegno della propria domanda. Non stupisce, quindi, che proprio nell’ordinanza qui annotata i giudici si pongano questo problema evidenziando che la forfettizzazione presuntiva del danno non può escludere modifiche sia in melius sia in peius nello scrutinio della posizione del privato.
Vi è poi il tema del principio di ragionevole durata e concentrazione delle tutele. Senza qui indugiare su come negli anni la ragionevole durata abbia ispirato nei giudici di legittimità interpretazioni spesso discutibili, fondate su una valorizzazione eccessiva del principio a scapito di regole processuali precise e del principio di legalità in materia processuale[22], il punto è che nel nostro caso non sembra neanche così scontato che la piena realizzazione di tale principio passi per la giurisdizione del g.o. e la competenza della Corte d’appello.
Invero la Cassazione nell’annotata ordinanza sembra continuare a crederlo, nella misura in cui però subordina tale principio alla coerenza con l’assetto sostanziale della materia, valorizzando l’estraneità della fase risarcitoria rispetto al procedimento espropriativo propriamente detto, che nella specie si estrinseca tramite acquisizione sanante.
E, tuttavia, non sempre è così. La giurisprudenza amministrativa appare particolarmente sensibile a questo problema, e ha finito per individuare talune “zone franche” che residuano nella giurisdizione esclusiva, anche accedendo alla tesi pan-indennitaria. Si tratta dei casi di interferenza con il giudicato, qualora il provvedimento ex art. 42 bis si innesti su una precedente decisione del giudice amministrativo che abbia specificamente dettato, ad esempio, i criteri specifici per valutare il valore venale del fondo. Secondo tale orientamento laddove si lamenti che l’amministrazione, nell’emettere il provvedimento ex art. 42 bis, si sia discostata dalla specifica indicazione valoriale scolpita nella decisione giudiziale, effettivamente si potrebbe sostenere che la successiva vicenda processuale concerna il doveroso controllo in sede di ottemperanza di decisioni nell’ambito delle quali erano state indicate dal giudice della cognizione le coordinate cui l’amministrazione intimata avrebbe dovuto attenersi anche laddove avesse ritenuto di emettere il provvedimento ex art. 42 bis[23].
Tale impostazione vanta una sana dose di realismo sulle modalità operative dell’istituto di cui all’art. 42 bis, e sulla centralità che rispetto ad asso hanno assunto in sede contenziosa i riti speciali del silenzio e dell’ottemperanza dinanzi al g.a. Senonché, a darle rigorosa coerenza di sviluppo, essa porterebbe a un possibile recupero dell’impostazione “rimediale”, che come si è detto ha già evidenziato la frequente compresenza nel contenzioso sull’acquisizione sanante di questioni indennitarie, e la notevole ricorrenza delle ipotesi di ottemperanza in materia, sicché si potrebbe dire, al contrario di quanto sostiene la Cassazione anche nell’ordinanza qui commentata, che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nell’intero arco di rimedi patrimoniali e non apprestati dall’art. 42 bis, eviterebbe la necessità di adire due giurisdizioni, e la sospensione del giudizio sull’indennizzo per pregiudizialità[24].
5. Provvisorie conclusioni … in attesa delle Sezioni unite
La soluzione prospettata dalla Cassazione, in questo senso, appare condivisibile, ma per ragioni forse opposte rispetto a quelle addotte.
A leggere l’ordinanza ci si chiede, infatti, se il diritto sostanziale debba prevalere sul principio di concentrazione delle tutele, con una propensione dei giudici per tale soluzione.
Al contrario, si potrebbe concludere a favore della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle poste risarcitorie muovendo più dal dato processuale che dal dato sostanziale.
Di fatti, appare ormai superata l’equiparazione fra attività illecita e risarcimento, come dimostrano i sempre più numerosi casi problematici di indennizzi da attività illecita, di cui alcuni argomentano con una certa ragione le finalità sanzionatorie[25], dalle quali viceversa l’annotata ordinanza vuole discostarsi.
D’altra parte, pure a voler parlare di indennizzo e non di risarcimento, come nella lettera della legge, si pone comunque il problema fondamentale della distinzione e dell’autonomia col procedimento espropriativo “semplificato” rappresentato dall’acquisizione sanante. Distinzione prospettata ancora dalla Sez. I della Cassazione, che peraltro ne evidenzia una natura riparatoria e non sanzionatoria, ma in effetti distonica rispetto alla non agevole operazione di “salvataggio” compiuta da Corte cost. n. 71/2015, allorquando la fattispecie venne inquadrata in modo unitario come «procedimento espropriativo semplificato».
Da un punto di vista processuale, invece, sembrano convincenti i rilievi della Sez. I circa la legittimazione passiva e la prova del danno, in quanto maggiormente in linea con il principio della domanda. Peraltro, il principio di concentrazione non è detto abbia a risentirne, perché la giurisdizione del g.a., salvo il caso di occupazione usurpativa, sarebbe legata alla giurisdizione del g.a. sul provvedimento di acquisizione sanante[26]. D’altra parte, se si accoglie tale impostazione, si ripropone il problema di un’effettiva concentrazione, e sarebbe forse corretto ritornare all’esegesi integralista del 2014 sposata per un breve periodo dal Consiglio di Stato, che ha offerto solide ragioni per una integrale concentrazione delle poste individuate dall’art. 42 bis in capo al g.a.
Viene prima il diritto sostanziale o quello processuale?[27] Ecco l’ennesima sciarada offerta dall’enigmatico istituto dell’acquisizione sanante.
Attendiamo con interesse le Sezioni unite per un’autorevole risposta.
[1] G. Tropea, Le persistenti “valvole di sicurezza del sistema”: l’acquisizione sanante come questione di stretto diritto processuale)?, in Dir. proc. amm., 2016, 636. Per una chiara esposizione sulle origini dell’istituto v. M. Conticelli, L’acquisizione sanante, in Dig. disc. pubbl., Agg. VII, 2017, Torino, 1 ss.
Sulle più recenti questioni in tema si v. anche l’intervista di R. Conti a R. Caranta, F. Goisis, G. Tropea, Cedu e cultura giuridica italiana 9. La Cedu e il diritto amministrativo, in questa Rivista, 5 marzo 2020.
[2] Cons. Stato, Ad. plen., 9 febbraio 2016, n. 2.
[3] i) Quando il privato non ha interesse reale ed attuale alla tutela reipersecutoria, e non propone quindi una rituale domanda di condanna dell’amministrazione alla restituzione previa riduzione in pristino; ii) quando il proprietario ha interesse alla restituzione ma il giudice non si pronuncia sulla relativa domanda o si pronuncia «in modo insoddisfacente»; iii) quando il giudice amministrativo, ferma restando l’impossibilità di condannare direttamente in sede di cognizione l’amministrazione a emanare tout court il provvedimento in questione, imponga all’amministrazione, eventualmente anche nel rito sul silenzio, di decidere — ad esito libero, ma una volta e per sempre, e nel rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali — se intraprendere la via dell’acquisizione ex art. 42 bis ovvero abbandonarla in favore di altre soluzioni (restituzione del fondo, accordo transattivo, etc.).
[4] A condizione che: i) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta; ii) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis; iii) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. perché solo l'art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il superamento dell'istituto dell'occupazione acquisitiva e dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Prima della pronuncia, buona parte della dottrina si era espressa in toni critici. Cfr. R. Pardolesi, Occupazione appropriativa, acquisizione sanante, usucapione e valvole di sicurezza, nota a Cons. Stato, sez. IV, 3 luglio 2014, n. 3346, in Foro it., 2014, III, 590 ss.
[5] Cons. Stato, Ad. plen., 20 gennaio 2020, n. 2.
[6] La figura della rinuncia abdicativa, oltre a quanto osservato supra nel testo: i) non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante; ii) viene ricostruita quale atto implicito, secondo la nota dogmatica degli atti impliciti, senza averne le caratteristiche essenziali.
[7] Cfr. F. Manganaro, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto di proprietà, in Dir. amm., 2008, 379 ss.
[8] Cfr. V. Cerulli Irelli, Amministrazione pubblica e diritto privato, Torino, 2012.
[9] «L’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale per la perdita del diritto di proprietà all'esito — nell'ambito di un apposito procedimento espropriativo, del tutto autonomo rispetto alla precedente attività della stessa amministrazione — del peculiare provvedimento di acquisizione ivi previsto, non ha natura risarcitoria ma indennitaria, con l'ulteriore corollario che le controversie aventi ad oggetto la domanda di determinazione o di corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario». Così Cass., Sez. un., 25 luglio 2016 n. 15283, che ha affermato la competenza in unico grado della Corte d'Appello; Id., 29 ottobre 2015 n. 22096. In particolare, la Cassazione nella citata sentenza delle Sez. un., 29 ottobre 2015 n. 22096, ha sottolineato la natura espropriativa del nuovo istituto dell'acquisizione sanante, «innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato (commi 1 e 2, primo periodo) o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub judice (comma 2, secondo periodo)»; ha precisato che, «quanto alla disciplina del riparto di giurisdizione tra Giudice ordinario e Giudice amministrativo ... tale natura determina la piena riconducibilità dell'istituto alle ... disposizioni di cui all'art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a., ed all'art. 53 del d.p.r. n. 327 del 2001» e che l'art. 42 bis consente di prefigurare quantomeno due grandi categorie di controversie, a seconda che il loro oggetto sia costituito dalla denuncia di illegittimità del provvedimento di acquisizione e dalla eventuale consequenziale richiesta di risarcimento del danno, oppure dalla domanda di determinazione o di corresponsione dell'indennità, rientranti nella giurisdizione, rispettivamente, del giudice amministrativo e di quello ordinario. La Cassazione ha affrontato la preliminare questione della natura indennitaria o risarcitoria dell'indennizzo, aderendo alla prima ricostruzione sulla base dei chiarimenti forniti dalla Corte costituzionale nella sentenza 30 aprile 2015 n. 71. La Consulta — nel respingere le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione agli artt. 3, 24, 42, 97, 111, 113 Cost. — ha infatti qualificato, in discontinuità con il passato, il nuovo istituto come una «sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma». Pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia proposta dal privato proprietario di un fondo per l'annullamento della delibera con la quale la p.a., che lo aveva illegittimamente occupato, ne ha disposto l'acquisizione sanante, ove la controversia attenga esclusivamente alla quantificazione dell'importo dovuto in applicazione di detto articolo, non venendo in contestazione l'utilizzo, da parte dell'Amministrazione, di tale strumento né la legittimità dello stesso in relazione alla sussistenza dei presupposti normativamente previsti per la emanazione di un provvedimento di acquisizione sanante: Cons. Stato, Sez. IV, 4 dicembre 2015 n. 5530; Id., Sez. IV, 15 settembre 2016 n. 3878; Id., Sez. IV, 1 marzo 2017 n. 941.
[10] Cass., Sez. un., 25 luglio 2016 n. 15283.
[11] In tal senso, in dottrina, v. già R. Conti, Diritto di proprietà e Cedu. Itinerari giurisprudenziali europei. Viaggio fra carte e corti alla ricerca di un nuovo statuto proprietario, Roma, 2012, 180, il quale evidenzia la distonia fra l’espressione “indennizzo” e l’espressione “risarcimento”, arrivando peraltro a ritenere che lo stesso uso del termine “indennizzo” vada letto alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale volta a parificare dal punto di vista sostanziale l’indennità espropriativa al risarcimento del danno da occupazione appropriativa.
[12] Nella giurisprudenza della Cassazione è consolidato l'indirizzo secondo il quale il giudice procede autonomamente alla determinazione dell’indennità di espropriazione, senza essere vincolato dalle prospettazioni delle parti, qualificate anche come «indicazioni», o meri «punti di vista». Si v. Cass. 9 ottobre 2019, n. 25381, Id., 6 giugno 2018, n. 14632.
[13] Cfr. R. Artaia, La giurisdizione in materia di indennizzo da acquisizione sanante, in Urb. app., 2016, 398 ss.
[14] Cons. Stato, sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4445; Id., 29 agosto 2013, n. 4318; Id., 25 giugno 2013, n. 3455.
[15] Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2014, n. 993.
[16] Sul tema, da ultimo, v. A. Scarpa, Lesione della proprietà e risarcimento del danno non patrimoniale, in Giust. Civ., 2019, 353 ss.
[17] Aspetto che, a sua volta, è causa di frequenti delicate questioni giuridiche, come i poteri in materia del giudice del silenzio e quelli del commissario ad acta. Si v. M. Mazzamuto, Il fantasma dell’occupazione appropriativa tormenta i giudici amministrativi, nota a Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1514, in Giur. it., 2012, 2668 ss.
[18] Cass., Sez. un., 29 ottobre 2015, n. 22096.
[19] Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 2015, n. 5530; TAR Sardegna, sez. II, 12 gennaio 2016, n. 13; Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 7 febbraio 2017, n. 151.
[20] Cass., Sez. un., 29 ottobre 2015, n. 22096.
[21] Cass., sez. I, ord. 25 giugno 2020, n. 12619: «Nei giudizi per la determinazione dell'indennità di esproprio, il giudice ha il potere-dovere di individuare il criterio legale applicabile alla procedura ablatoria sulla base delle caratteristiche del fondo espropriato, senza essere vincolato dalle prospettazioni delle parti, né alla quantificazione, neppure necessaria, della somma eventualmente contenuta nell'atto introduttivo del giudizio, dovendo questa essere liquidata in riferimento a detti criteri, con conseguente accoglimento o rigetto della domanda a seconda che venga accertata come dovuta un'indennità maggiore o minore di quella censurata».
[22] Si v., per tutti, G. Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, 505 ss.; R. Villata, La giurisdizione amministrativa e il suo processo sopravviveranno ai «Cavalieri dell’apocalisse»?, in Riv. dir. proc., 2017, 106 ss.
[23] Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2016, n. 1910; TAR Marche, sez. I, 24 luglio 2019, n. 508.
[24] Così, infatti, Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2014, n. 993.
[25] Cfr. A. Giannelli, Indennizzi da attività illecita delle pubbliche amministrazioni: una nuova “rete di contenimento”?, in Dir. soc., 2020, 509.
[26] Si è visto come in alcuni casi la giurisprudenza ha ritenuto sussistente la giurisdizione esclusiva del g.a., in caso di ottemperanza.
[27] Sul punto sono sempre meritevoli d’estrema attenzione le recenti osservazioni, favorevoli alla prima prospettiva, di R. Villata, Processo amministrativo, pluralità delle azioni, effettività della tutela, in corso di pubblicazione negli Scritti in onore di F.G. Scoca, che il chiaro Autore mi ha cortesemente consentito di leggere in anteprima.
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