ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il caso Catania: un’antimafia possibile
di Ignazio Fonzo*
Le strategie investigative e l’organizzazione giudiziaria, in sinergia con una polizia giudiziaria preparata, possono creare un esempio virtuoso di contrasto al crimine organizzato. Il caso Catania, crocevia negli anni di interessi criminali, economici, politici, grazie alla memoria storica di una Procura particolarmente impegnata, suggerisce riflessioni e considerazioni di ordine sociale di un contesto difficile, dove si rinnovano i fattori criminogeni, coinvolgendo le nuove leve del crimine organizzato.
Le Direzioni Distrettuali Antimafia, frutto di un’originale idea di Giovanni Falcone, furono istituite introducendo il comma 3 bis all’art. 51 cpp con D.L. 20/11/1991 nr 367 convertito nella legge 20/1/1992 nr 8.
La DDA della Procura di Catania, costituita sulla base del c.d. pool di sostituti procuratori che già in precedenza si occupavano di contrasto al crimine organizzato, andò a regime, con pienezza dei suoi componenti, nel biennio 1992/1994.
Nel periodo tra il 1994 ed il 2006, oltre ad impegni soprattutto processuali, ciò che maggiormente segnò l’esperienza di quegli anni fu la sensazione - probabilmente infondata alla luce di quanto si dirà di qui a breve - che il investigativo e processuale potesse portare a risultati decisivi e definitivi nei confronti del crimine organizzato, in particolare per quanto riguarda gli aspetti “militari” dell’agire delle varie consorterie criminali che imperversavano nel territorio etneo ( nella sola Catania, fino alla metà degli anni novanta si viaggiava alla media di 120/130 morti l’anno nelle varie faide mafiose).
Nel giro di alcuni anni, grazie allo sforzo ed alla sinergia tra magistratura e polizia giudiziaria ed alle numerose collaborazioni di appartenenti alle organizzazioni criminali, quanto meno sul piano della violenza quotidiana e del numero dei morti assassinati, la situazione fu ribaltata.
Le esecuzioni si azzerarono; centinaia furono gli ergastoli irrogati, i principali capi delle organizzazioni, cui fu applicato il regime detentivo del 41 bis O.P., furono posti in condizione di non impartire ordini e direttive.
Si raggiunse la convinzione, forse presuntuosamente, che il più fosse stato fatto, che da quel momento in poi si sarebbe trattato di gestire l’ “ordinaria amministrazione “ e soprattutto ci si convinse illusoriamente che le diverse organizzazioni criminali che agivano nel territorio della Sicilia orientale ( profondamente diverse da quelle operanti in Sicilia occidentale, ma questo è discorso troppo lungo per poterlo affrontare in questa sede) avessero perso la capacità di rigenerarsi e ricostituirsi perché maturata la consapevolezza, da parte degli strati sociali ove in genere si reclutavano ( e si reclutano ) nuovi sodali, che il crimine organizzato non fosse prospettiva giusta per chi tutti i giorni doveva e deve fare il conto con le difficoltà del vivere.
In realtà, in primo luogo si è potuto constatare come, malgrado le innumerevoli condanne precedenti, la stragrande maggioranza di coloro che avevano finito di scontare le pene inflitte erano tornati nuovamente, taluni anche in età ormai avanzata, a ricoprire gli stessi identici ruoli ed a commettere le medesime azioni per le quali avevano scontato la pena inflitta; ciò dovrebbe far riflettere, innanzitutto, sulla funzione non solo retributiva ma anche emendatrice della pena.
Non solo: sembra evidente che anni di manifestazioni antimafia e di cultura antimafia non hanno sortito, almeno non del tutto, l’effetto sperato.
Infatti recenti accadimenti ed i conseguenti accertamenti investigativi hanno consentito di verificare che le organizzazioni criminali operanti in territorio urbano di Catania (in particolare il Clan Cappello/Bonaccorsi e quello dei Cursoti Milanesi) hanno mantenuta intatta la capacità di attrarre e reclutare, con la prospettiva di facili ed immediati guadagni, giovani “ millenials” (ossia nati tra la fine del secolo scorso e gli inizi degli anni 2000) affascinati, se non abbagliati, dalla personalità fuorviante e deviante di vecchi “ capi bastone”, taluni anche da decenni in stato di detenzione, che - malgrado le ripetute e pesanti condanne subite - continuano a perseguire la strada dell’illegalità e del crimine.
Dette giovani leve, come si è avuto modo di verificare anche di recente, appartengono a nuclei familiari, residenti in quartieri periferici e degradati delle aree urbane di Catania ( e Siracusa ), che vivono percependo c.d. Reddito di cittadinanza.
Al riguardo si può osservare che le aree urbane marginali (secondo la più nota forma inglese "Distressed Urban Areas") nel contesto territoriale catanese si connotavano e purtroppo si connotano ancora oggi per particolari situazioni di sottosviluppo in contesti sviluppati; secondo la definizione data dall' OCSE queste sono aree che si trovano all'interno delle città nelle quali vi sono notevoli condizioni di arretratezza rispetto alla città stessa e alla media nazionale; in queste parti di città si registrano tuttora criticità che fanno in modo che servizi, livelli di vita e risorse, considerati normali nel resto della cintura del centro urbano, siano qui permanentemente assenti o pesantemente limitati.
E’ indubbio che in dette aree della città metropolitana si registrano standard di vita di gran lunga inferiori alla media nazionale e del centro cittadino, in particolare si evidenzia che :
- in dette zone si ha arretratezza multidimensionale, che comprende cioè vari ambiti della vita sociale (disoccupazione, criminalità, degrado sociale ed ambientale, bassi livelli di alfabetizzazione, analfabetismo di ritorno);
- dette aree sono facilmente riconoscibili, cioè si distinguono a vista d'occhio dal resto della città sia da coloro che vi abitano, sia dai non residenti, trattasi di veri e propri "quartieri ghetto";
- si ha presenza di circoli viziosi che perpetuano queste condizioni di sottosviluppo.
Non è superfluo sottolineare che dette aree sono quasi interamente costituite da fabbricati di edilizia popolare, suddivise in più zone abitative, con diverse caratteristiche costruttive.
Detti quartieri, come noto dopo l’adozione del PRG di Catania (Piccinato), furono costruiti oltre la cerchia della periferia urbana allora in piena espansione, a tutt'oggi risultano essere delle entità separate rispetto alle aree circostanti. I fabbricati si caratterizzano per la loro peculiare struttura architettonica (cosiddette insulae). Alla vastità e all'intensività dell'insediamento di edilizia popolare, si aggiunsero ritardi burocratici e disattenzione politica che portarono a una occupazione non legittima degli alloggi e alla mancata realizzazione di molte fondamentali opere di infrastrutturazione primaria e secondaria: in parte dei quartieri mancano ancor oggi servizi essenziali. A ben poco sono serviti gli insediamenti nei quartieri di strutture sportive ( ad esempio il PalaNesima, palasport costruito nel 1997 in occasione delle Universiadi ) oggetto di ripetute vandalizzazioni.
Detti quartieri sono da sempre afflitti da gravi problemi di degrado architettonico (per la quasi totale assenza di manutenzione sui fabbricati) specchio del degrado sociale, con alti tassi di dispersione scolastica, microcriminalità e infiltrazioni mafiose. Nonostante le varie denunce dei media e l'impegno delle istituzioni scolastiche, religiose e del volontariato, la situazione rimane allarmante con ripercussioni sul controllo effettivo
Queste considerazioni rimangono strettamente attuali ove si consideri la circostanza che giovani provenienti da contesti ambientali come quelli sopra descritti subiscono ancor oggi “il fascino del male” (come fu definito quello esercitato dal noto trafficante di stupefacenti sudamericano Pablo Escobar) e fanno a gara per arruolarsi nelle organizzazioni mafiose; si deve dunque imporre una seria riflessione sull’efficacia general preventiva della attività investigativa e processuale, necessariamente successive alla perpetrazione dei fatti criminosi, che senza un’adeguata politica sociale e culturale – certamente non demandabili all’ autorità di polizia o a quella giudiziaria – determineranno la perdita pressoché definitiva di fasce di popolazione, difficilmente recuperabili al consesso civile, con ciò determinando la sconfitta dei tanti impegnatisi, a partire quanto meno dal 1992, per giungere alla definitiva scomparsa del crimine organizzato, flagello che ha ammorbato, e ammorba tuttora, il Paese.
*Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Catania.
I danni da illegittima misura di contenimento della pandemia: il caso della zona rossa in Lombardia
Roberto Natoli
Sommario: 1. La pandemia e le mobili frontiere della responsabilità civile- 2.Il sistema del “semaforo” e la classificazione delle regioni in zone di diverso colore - 3. L’algoritmo e i dati inseriti per stabilire il livello di rischio di ciascuna regione - 4. Il danno da illegittima misura di contenimento della pandemia e il giudice competente a conoscere delle azioni risarcitorie - 5. Niente sarà più come prima?
1.La pandemia e le mobili frontiere della responsabilità civile.
Le mobili frontiere della responsabilità civile ([1]) non potevano restare indifferenti alla pandemia. Non stupisce dunque che la divisione del Paese in zone di colore diverso, con limiti e restrizioni alle attività economiche più o meno marcati in ragione dell’indice di contagio tra la popolazione del virus, potesse aprire le porte alle richieste di risarcimento dei danni da parte di chi contestasse la correttezza o la ragionevolezza delle misure di contenimento. La questione è venuta alla ribalta in conseguenza dell’erronea ascrizione della Regione Lombardia tra le regioni caratterizzate da uno scenario di massima gravità e da un livello di rischio alto ([2]), a quanto pare causata dai dati forniti dalla stessa Regione, che avrebbe conteggiato i guariti tra gli attuali positivi. Tale errore è stato la settimana successiva riconosciuto ed emendato dal Ministro della salute, il quale, “in ragione degli elementi sopravvenuti conseguenti alla rettifica dei dati operata dalla Regione Lombardia ora per allora, come certificati dalla Cabina di regia”, ha annullato l’ordinanza con cui aveva disposto la zona rossa in Lombardia dal 17 al 31 gennaio 2021, inserendola tra le regioni caratterizzate da uno scenario di elevata gravità e da un livello di rischio alto e dunque “promuovendola” ex post in zona arancione ([3]).
Ma procediamo con ordine.
Per riassumere nei suoi termini essenziali una vicenda cui i media nazionali hanno dato ovvio e comprensibile risalto ([4]) occorre premettere che il d.P.C.M. 3/11/2020 ([5]) ha previsto, come misura per contrastare l’epidemia sul territorio nazionale, un sistema di controllo della diffusione del virus su base regionale (o provinciale, per le province autonome di Trento e Bolzano) che prevede limitazioni di varia estensione alle attività economiche e sociali (e, più in generale, alle libertà personali), a seconda della gravità dello scenario di rischio. Nella comunicazione mediatica, originata dalle dichiarazioni alla stampa dello stesso Presidente del Consiglio, questo sistema è stato descritto come un’organizzazione “a semaforo”, che dal giallo (limitazioni meno gravi) transita per l’arancione (limitazioni intermedie) per arrivare poi al rosso (limitazioni gravi).
Sotto questo profilo, il sistema a semaforo rappresenta un’implicita ammissione dell’irragionevolezza del lock down disposto, sull’intero territorio nazionale, dal 10 marzo al 17 maggio 2020, pur in presenza di un indice di contagio clamorosamente diverso tra le regioni (la Lombardia, il Piemonte e il Veneto) o le zone (la bergamasca o il padovano) nelle quali il virus si è diffuso con straordinaria virulenza e quelle che, nei primi mesi del 2020, erano praticamente immuni dal contagio. Per conseguenza, il sistema “a semaforo”, su base regionale, è certamente coerente col rispetto dei principî di adeguatezza e proporzionalità fin da subito evocati per le misure di contenimento: la diffusione del contagio procede infatti diversamente a seconda dei tempi, dei luoghi e delle abitudini di vita dei cittadini.
2. Il sistema del “semaforo” e la classificazione delle regioni in zone di diverso colore.
Nell’ordinamento costituzionale italiano è indubbio che, per fronteggiare l’emergenza sanitaria, il dovere inderogabile di solidarietà economica e sociale possa giustificare anche la compressione dei diritti di libertà dei cittadini. È altrettanto indubbio che l’utilità sociale giustifichi limiti all’esercizio delle attività economiche e possa spingersi, in situazioni eccezionali (qual è certamente quella pandemica), financo alla compressione totale della libertà di iniziativa economica. Queste limitazioni, però, devono essere ragionevoli: devono, cioè, chiedere al singolo un sacrificio proporzionato al guadagno della collettività. Per valutare questa ragionevolezza occorre però che le limitazioni si basino su dati certi e controllabili. Diversamente, il sacrificio non si giustifica più e la limitazione eccessiva, se dannosa, merita risarcimento.
L’art. 3 del d.P.C.M. 3/11/2020 ha affidato alla c.d. Cabina di regia istituita dal decreto del Ministro della salute del 30/4/2020, sentito il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) sui dati monitorati, il compito di individuare le Regioni che si collocano in uno “scenario di tipo 4” e con un livello di rischio “alto” ([6]). Ha poi previsto che il Ministro della salute, “con frequenza almeno settimanale”, provveda con ordinanza all’aggiornamento dell’elenco delle regioni in zona rossa, “fermo restando che la permanenza per 14 giorni in un livello di rischio o scenario inferiore a quello che ha determinato le misure restrittive comporta la nuova classificazione”. In altri e più semplici termini, per “uscire” dalla zona rossa occorre che la Regione per almeno due settimane consecutive esibisca dati che le consentano la “promozione” in zona arancione o gialla.
La Cabina di regia istituita presso il Ministero della salute è, dunque, il vigile che comanda il semaforo italiano per contenere la diffusione della pandemia. Le regole adottate per comandare il semaforo sono tuttavia ignote ai più, se non addirittura allo stesso vigile. L’attribuzione del colore rosso dipende, infatti, da un complesso di dati processati da un algoritmo di difficile comprensibilità. L’osservatorio per i conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano diretto dal prof. Carlo Cottarelli ha studiato i 21 indicatori processati dall’algoritmo e ha definito il complessivo sistema “complicato” e basato su una documentazione “dispersiva” ([7]). Ha comunque concluso che tre indicatori sono cruciali. Tra questi, quello di gran lunga più importante è l’Rt, che esprime quante persone in media contagia una persona infetta. A prescindere dagli altri indicatori, con un indice Rt inferiore a 1,25 una regione è automaticamente gialla. L’Rt, insieme all’occupazione dei posti letto in Area Medica e in Terapia Intensiva, è poi decisivo anche per determinare il “rischio”, cioè l’altro aspetto per determinare il colore di una regione.
Sebbene di non immediata comprensibilità ([8]), l’indice Rt è così entrato nelle case degli italiani. Da quest’indice dipende se gli studenti potranno andare a scuola; se le famiglie potranno riunirsi; se saranno consentiti spostamenti tra i comuni e le regioni. Ma dall’indice Rt dipende, soprattutto, se gli imprenditori (e, segnatamente, i commercianti) potranno esercitare le proprie attività economiche; e, se sì, con che limiti.
3. L’algoritmo e i dati inseriti per stabilire il livello di rischio di ciascuna regione
In particolare, l’ascrizione di una regione in zona rossa comporta la sospensione delle attività di commercio al dettaglio ([9]) nonché penetranti restrizioni alle attività di vendita di generi alimentari e di prima necessità, le quali devono comunque svolgersi in modo da assicurare, “oltre alla distanza interpersonale di almeno un metro, che gli ingressi avvengano in modo dilazionato e che venga impedito di sostare all’interno dei locali più del tempo necessario all’acquisto dei beni” ([10]).
Non serve dilungarsi sulle catastrofiche conseguenze economiche prodotte dalla restrizione e, soprattutto, dalla sospensione delle attività commerciali. Né dovrebbe essere necessario indugiare sull’inefficacia dei c.d. ristori economici per compensare le perdite subite dai soggetti che, per adempiere al proprio dovere costituzionale di solidarietà, hanno ridotto o interrotto la propria attività economica. Si comprende dunque perché eventuali errori di caricamento dei dati necessari a stabilire i 21 indici che il complesso algoritmo utilizzato dalla Cabina di regia processa per stabilire che colore assegnare a ciascuna regione o provincia autonoma possano aprire le porte a domande risarcitorie. Per verificare se tali domande siano fondate, occorre però procedere dalle norme rilevanti e, da lì, fissare un punto fermo.
La prima norma che al riguardo rileva è l’art. 1, comma 16, d.l. 33/2020, secondo cui:
“Per garantire lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali, le regioni monitorano con cadenza giornaliera l'andamento della situazione epidemiologica nei propri territori e, in relazione a tale andamento, le condizioni di adeguatezza del sistema sanitario regionale. I dati del monitoraggio sono comunicati giornalmente dalle regioni al Ministero della salute, all'Istituto superiore di sanità e al comitato tecnico-scientifico di cui all'ordinanza del Capo del dipartimento della protezione civile del 3 febbraio 2020, n. 630, e successive modificazioni. In relazione all'andamento della situazione epidemiologica sul territorio, accertato secondo i criteri stabiliti con decreto del Ministro della salute 30 aprile 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 112 del 2 maggio 2020, e sue eventuali modificazioni, nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020, la Regione, informando contestualmente il Ministro della salute, può introdurre misure derogatorie restrittive rispetto a quelle disposte ai sensi del medesimo articolo 2, ovvero, nei soli casi e nel rispetto dei criteri previsti dai citati decreti e d'intesa con il Ministro della salute, anche ampliative”.
La seconda norma rilevante è il già richiamato art. 3 del citato d.P.C.M. 3/11/2020, che testualmente prescrive:
“Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus Covid-19, con ordinanza del Ministro della salute, adottata sentiti i Presidenti delle Regioni interessate, sulla base del monitoraggio dei dati epidemiologici (…) nonché sulla base dei dati elaborati dalla cabina di regia di cui al decreto del ministro della salute 30 aprile 2020, sentito il Comitato tecnico scientifico sui dati monitorati, sono individuate le Regioni che si collocano in uno “scenario di tipo 4” e con un livello di rischio “alto” di cui al citato documento di Prevenzione”.
4. Il danno da illegittima misura di contenimento della pandemia e il giudice competente a conoscere delle azioni risarcitorie.
Quanto fin qui osservato consente di fissare un punto fermo.
Sotto il profilo formale, il danno da illegittima misura di contenimento della pandemia deriva da un atto amministrativo e, segnatamente, da un’ordinanza del Ministro della salute. Dal punto di vista eziologico è infatti tale ordinanza la causa materiale diretta del danno patito da chi lamenti perdite economiche conseguenti a una illegittima sospensione della propria attività commerciale. Pertanto, trattandosi di un danno da attività provvedimentale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 7 e 30 c.p.a. il giudice competente sarà il TAR e i ricorrenti, asseritamente danneggiati, avranno l’onere di agire in via risarcitoria nel termine decadenziale di 120 giorni decorrente “dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”. Inoltre, secondo i noti principî elaborati dalla giurisprudenza amministrativa ([11]), l’autonomia della domanda risarcitoria incontra comunque il limite della rilevanza causale dell’omessa impugnazione tempestiva che abbia consentito la consolidazione dell’atto e dei suoi effetti dannosi, sì che è onere del ricorrente che agisca in risarcimento del danno da provvedimento illegittimo dimostrare di aver tenuto la condotta idonea a evitare l’insorgenza o la propagazione del danno: vale a dire, impugnare il provvedimento che quel danno ha causato, nel termine decadenziale di 60 giorni.
Non sembra, però, che la pregiudizialità amministrativa, surrettiziamente reintrodotta dalla giurisprudenza citata per il medio del 3° comma dell’art. 30 c.p.a., possa operare nel caso del provvedimento che erroneamente ha incluso la Lombardia in zona rossa, posto che al momento della conoscenza del vizio da parte dei ricorrenti, il provvedimento produttivo del danno aveva già cessato i suoi effetti in conseguenza dell’annullamento operato dal citato decreto del Ministro della Salute del 23/1/2021, preclusivo dell’attività impugnatoria ([12]).
Si è pertanto chiarito che: a) l’azione risarcitoria va spiegata innanzi al giudice amministrativo ex artt. 7 e 20 c.p.a.; b) a prescindere dal gioco delle rivalse, nel quale sarà inevitabilmente coinvolto chi abbia fornito i dati errati che hanno condotto all’ordinanza illegittima, il danno è direttamente causato dall’ordinanza del Ministro della salute; c) i centoventi giorni per ricorrere decorrono dal momento dell’avvenuta conoscenza del fatto dannoso, che può individuarsi al più tardi nella successiva ordinanza del Ministro, che ne ha fatto emergere l’illegittimità.
Se il ragionamento sviluppato è corretto, resta il dato di fatto, incontestabile, secondo cui nelle more della vigenza del provvedimento illegittimo, successivamente rimosso, l’esercizio di numerosissime attività commerciali lombarde è stato sospeso o ristretto e ciò ha provocato danni economici di intuitiva gravità e capillare diffusione, che non possono ritenersi compensati da eventuali ristori, atteso che questi ultimi sono per definizione (anche nominale) somme di denaro forfettariamente quantificate e irrelate rispetto agli effettivi danni patiti ([13]).
5. Niente sarà più come prima?
Quanto osservato lascia credere che il danno da illegittima misura di contenimento della pandemia possa scuotere il terreno, da sempre in fibrillazione, della responsabilità civile della P.A. Le richieste di danni conseguenti all’erronea classificazione della Regione Lombardia in zona rossa potrebbero evocare il colpo di pistola sparato a Sarajevo nel giugno del 1914, portando a concludere che, anche in questo campo, dopo il virus niente sarà più come prima. È al momento impossibile dire se il sistema reggerà all’urto di una quantità inimmaginabile di pretese risarcitorie o se i suoi confini saranno per l’ennesima volta ridisegnati. È però doveroso osservare che la definizione di quei confini (e dunque la complessiva tenuta del sistema, anche dei conti pubblici) non sarà una questione di giustizia civile, tanto meno declinata nell’improbabile forma della class action (di cui manca ogni presupposto); sarà invece affidata alla giustizia amministrativa e alle sue rigorose regole sostanziali (ad esempio in punto di sindacabilità della discrezionalità tecnica degli atti amministrativi per manifesta illogicità o erroneo apprezzamento di dati di fatto inopinabili) e processuali (ad esempio in punto di stringenti termini decadenziali per agire in via risarcitoria e/o impugnatoria).
[1] Galgano, Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contr. impr., 1985, 159 ss.
[2] Ministero della salute, Ordinanza 16/1/2021, “Ulteriori misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 per la Regione Lombardia”, in G.U., serie generale, n. 12 del 16/1/2021.
[3] Ministero della salute, Ordinanza 23/1/2021, “Ulteriori misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 per la Regione Lombardia”, in G.U., serie generale, n. 18 del 23/1/2021.
[4] Per una chiara descrizione del “caso” e delle ragioni delle reciproche accuse di Ministero della salute e Regione Lombardia v. https://www.infodata.ilsole24ore.com/2021/01/25/sette-giorni-in-zona-rossa-per-un-errore-no-e-colpa-dellalgoritmo-cronanca-critica-della-diffusione-dei-dati/?refresh_ce=1
[5] “Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 maggio 2020, n. 35, recante «Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19», e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, n. 74, recante «Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19»”, in G.U., serie generale, n. 275 del 4/11/2020, suppl. ord. n. 41.
[6] Come descritto dal documento di “Prevenzione e risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno invernale”, condiviso dalla Conferenza delle Regioni e Province autonome l’8/10/2020.
[7] Cottarelli – Gottardo – Olivari, Come fa una regione a finire in zona rossa? Chiariamo i 21 indicatori, https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-come-fa-una-regione-a-finire-in-zona-rossa-chiariamo-i-21-indicatori
[8] Per comprendere cosa sia Rt occorre fare un passo indietro e partire dal “numero di riproduzione di base” (R0) che, nella definizione offerta dall’Istituto Superiore della Sanità (ISS), «rappresenta il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno emergente. Questo parametro misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva». Sempre secondo l’ISS, mentre «R0 rappresenta quindi il potenziale di trasmissione, o trasmissibilità, di una malattia infettiva non controllata [ed] è funzione della probabilità di trasmissione per singolo contatto tra una persona infetta ed una suscettibile, del numero dei contatti della persona infetta e della durata dell'infettività. La definizione del numero di riproduzione netto (Rt) è equivalente a quella di R0, con la differenza che Rt viene calcolato nel corso del tempo. Rt permette ad esempio di monitorare l’efficacia degli interventi nel corso di un’epidemia»: https://www.iss.it/primo-piano/-/asset_publisher/o4oGR9qmvUz9/content/faq-sul-calcolo-del-rt
[9] Si tratta di una sospensione pressoché completa: resta infatti la teorica possibilità, per i negozianti al dettaglio, di effettuare consegne a domicilio, anche tramite piattaforme on line. Nella realtà, è noto a tutti che il commercio on line sia governato a livello globale da poche multinazionali ed è comunque intuitivo che la predisposizione di una piattaforma di commercio elettronico implica ingenti costi di riconversione dell’attività.
[10] COVID-19 – Domande frequenti sulle misure adottate dal Governo, http://www.governo.it/it/articolo/domande-frequenti-sulle-misure-adottate-dal-governo/15638#zone
[11] A partire da Cons. Stato, Ad. plen., 23/3/2011, n. 3, in https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=17820&content=&content_author=, con nota di M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni.
[12] Al momento in cui si scrive pare che l’errore sia derivato dall’errato conteggio dei guariti tra i positivi e dal conseguente errato calcolo dell’indice Rt, risultato inevitabilmente più alto di quello effettivo. Certo è, però, che l’errore è stato emendato e che la Lombardia, dopo una sola settimana, è stata “promossa” dallo stesso Ministero a zona arancione.
[13] La Confcommercio lombarda ha ad esempio stimato i danni patiti a causa di una settimana del blocco forzato delle attività, avvenuto peraltro nel periodo dei saldi invernali, in 600 milioni di euro: v. la Repubblica, ed. Milano, 24 gennaio 2021, Il pasticcio della zona rossa in Lombardia, il conto dei commercianti: “Danni per 600 milioni”.
Un piccolo dubbio sul rinvio civile
di Bruno Capponi
Al giudizio di rinvio il codice di procedura civile dedica poche norme (artt. 392-394), che si integrano con quelle, proprie del giudizio di legittimità, che al rinvio fanno riferimento (artt. 383-384; 143 disp. att.). Sebbene si parli spesso del rescissorio che segue la cassazione come di un quid unitario, caratterizzato dalla chiusura ai nova e dominato dal principio di diritto e comunque da «quanto statuito dalla Corte» (art. 384, comma 2), dal rinvio proprio o prosecutorio vanno distinti, da un lato, la rimessione al primo giudice, che è fenomeno diverso dal rinvio (art. 383, comma 3) e, dall’altro lato, il rinvio restitutorio, che si caratterizza per il fatto che il giudice di rinvio non dovrà correggere un giudizio che la Suprema Corte ha riconosciuto erroneo e illegittimo, bensì compiere per la prima volta quel dovuto giudizio che, erroneamente, nella sentenza cassata (per le più varie ragioni) non era stato compiuto. La distinzione è quella classica tra vizi di giudizio e vizi di attività.
Ne deriva che nel caso della rimessione, come anche nel caso del rinvio restitutorio, il giudizio prosegue, senza le preclusioni e i condizionamenti tipici del rinvio prosecutorio, dinanzi al giudice ad quem, il quale pronuncerà una sentenza soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione.
È lo stesso per la sentenza che definisce il rinvio prosecutorio?
Le norme sul giudizio di rinvio nulla dicono, e l’art. 360, comma 1, parla delle «sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado»; l’attuale ultimo comma, frutto della riforma portata dal d.lgs. n. 40/2006, contiene un riferimento alle «sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge» (cfr. l’art. 111, comma 7, Cost.) che senz’altro non riguarda la sentenza che definisce il giudizio di rinvio prosecutorio, che, del resto, non può essere considerata in grado d’appello.
La giurisprudenza, ora dominante, riconosce pacificamente che, nel caso del rinvio prosecutorio, il giudizio, sebbene rimesso «ad altro giudice di grado pari a quello che ha pronunciato la sentenza cassata» (art. 383, comma 1), non rappresenta una restituzione o prosecuzione del grado d’appello – o comunque del grado in cui era stata pronunciata la sentenza cassata – bensì è fase del tutto nuova, un unico grado integrato (di certo integrabile in caso di decisione sostitutiva di merito) nella fase di legittimità: argomentando soprattutto dall’art. 393 c.p.c., si tende a riconoscere che la Corte Suprema opera il giudizio rescindente rimettendo il rescissorio a un giudice di merito e tutto ciò avviene nell’ambito di un giudizio che, concettualmente, resta unitario.
Questa impressione è stata decisamente rafforzata dalle riforme del 1990 e poi del 2006, che hanno consentito alla S.C. la definizione nel merito dei ricorsi accolti: dapprima soltanto con riferimento al motivo di cui al n. 3 dell’art. 360 («La Corte, quando accoglie il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, enuncia il principio di diritto al quale il giudice di rinvio deve uniformarsi ovvero decide la causa del merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto»: art. 384, comma 2, versione 1990), poi con carattere di generalità («La Corte, quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte, ovvero decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto»: versione 2006).
Proprio alla luce della disciplina del giudizio sostitutivo, sembra poco convincente, o comunque impreciso, affermare che «la riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio non dà luogo a un nuovo procedimento, ma a una prosecuzione dei precedenti gradi di merito» (così Cass. n. 25834/2020). Si può di certo convenire sul carattere di merito del giudizio di rinvio – così come, d’altra parte, del giudizio sostitutivo della Cassazione – fermo restando la sua distinzione riguardo a tutte le precedenti fasi di merito (per il solito discorso sulla prosecuzione e non restituzione).
Attualmente, la Corte può sempre, quale che sia il motivo accolto, decidere la causa nel merito, con l’unico limite degli accertamenti di fatto (che tuttora si ritengono inibiti in Cassazione). È quindi materia di scelta discrezionale, per la Corte, definire il rescissorio nella sede di legittimità oppure rinviare a un giudice di merito, con le caratteristiche dette, il quale dovrà fare applicazione del principio di diritto (che la Corte pronuncia, dal 2006, non soltanto quando accoglie il ricorso fondato sul n. 3 dell’art. 360, ma anche quando «risolve una questione di diritto di particolare importanza») e comunque, abbiamo detto, di quanto statuito dalla Cassazione (ciò dovrebbe rilevare soprattutto per le censure fondate sul n. 5, che ovviamente sono in fase di regressione dopo la novella del 2012).
La scelta non è però priva di conseguenze.
Anzitutto nel processo: non è invero dubbio che anche nel rinvio prosecutorio avranno rilevanza i fatti sopravvenuti, successivi al momento in cui avrebbero potuto essere allegati nelle fasi di merito; lo jus superveniens con efficacia retroattiva; la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma cui rimanda il principio di diritto; il contrasto con norme di rango costituzionale, che legittima il giudice di rinvio a sollevare la questione incidentale; il contrasto col diritto comunitario o eurounitario, con possibilità di sollevare la questione pregiudiziale; anche il giudicato esterno, sopravvenuto al ricorso o alla sentenza di cassazione che ha disposto il rinvio, può far venir meno o modificare il vincolo. Generalmente si ritiene che una nuova impostazione giuridica della controversia, data dalla Cassazione nella sentenza che ha disposto il rinvio, può “riaprire” il giudizio rescissorio. In casi siffatti, la questione “nuova” è liberamente introducibile già dinanzi alla Corte, ma con importanti limitazioni: in primo luogo, non debbono essere necessari ulteriori accertamenti in fatto, preclusi nel giudizio di legittimità; in secondo luogo, la questione dev’essere coerente in rapporto all’oggetto del giudizio, dovendo riferirsi a profili investiti, almeno indirettamente, dai motivi di gravame: la questione “nuova” potrà incidere sull’alternativa accoglimento-rigetto dell’impugnazione, ma non alterare i termini del giudizio (fatti storici e causa petendi) giusta la nota regola di non modificabilità dell’oggetto del giudizio in sede di legittimità.
Mentre l’oggetto del giudizio di legittimità è dato dai motivi di ricorso, l’oggetto del giudizio di rinvio (prosecutorio) è dato dal principio di diritto (che vincola le parti comunque: art. 393, ultimo periodo) quale risultato della fase rescindente e dalla riproposizione delle conclusioni delle parti, che saranno quelle già precisate nelle fasi di merito salvo che la necessità di nuove “conclusioni” (con richieste anche istruttorie) nasca proprio dalla sentenza della cassazione (art. 394, comma 3). Il giudizio di rinvio non è un ritorno all’indietro (cioè, di solito, all’appello) bensì una progressione rispetto alla fase rescindente e dunque cumula le preclusioni (l’esaurimento della materia controversa) dei precedenti gradi, ivi compreso quello di legittimità definito dalla sentenza che ha disposto il rinvio.
Non essendo il rinvio restituzione al pregresso grado di merito, l’attività rimessa al giudice del rinvio è soltanto quella successiva al vizio che ha determinato l’accoglimento del ricorso per cassazione (quindi, ad es.: legittimazione delle parti, competenza, integrità del contraddittorio sono questioni che, se non transitate nei motivi di ricorso, non possono riemergere in fase di rinvio).
Di qui il carattere “chiuso” del giudizio di rinvio, fatta eccezione per le questioni assorbite, su cui la Cassazione non s’è pronunciata per aver arrestato il suo esame su questioni logicamente anteriori. L’esame di ogni altra questione è impedito dalle preclusioni maturate nel passaggio dei gradi o dal giudicato interno. Non è dubbio che anche a proposito del giudizio di rinvio vada richiamato il fenomeno del consolidamento delle posizioni giuridiche o, come spesso ripete la Suprema Corte (tra le tante, SS.UU. n. 9069/2003), l’esigenza di realizzare «l’interesse dell’ordinamento al progressivo esaurimento della controversia attraverso il giudizio», mediante l’applicazione delle «regole che disciplinano il graduale formarsi del giudicato e delle preclusioni» (i focolai di contenzioso di cui parlava Carnelutti).
Ci sono però conseguenze anche sulla decisione.
La sentenza della Cassazione non è soggetta a cassazione, ma soltanto a revocazione e può inoltre essere corretta, dalla stessa Cassazione, in caso di errori materiali (art. 391 bis c.p.c., che problematicamente cumula in un’unica previsione la disciplina di un’impugnazione e quella di uno strumento che impugnazione certamente non è).
Invece, la sentenza di rinvio è soggetta a cassazione, che secondo la giurisprudenza risponde alle regole comuni: «il ricorso per cassazione contro la sentenza emessa in sede di rinvio non è disciplinato da alcuna norma speciale rispetto al normale ricorso per cassazione, onde non presenta particolari requisiti di ammissibilità, restando disciplinato dall'art. 360 c.p.c. quanto ai motivi deducibili, dall’art. 366 c.p.c. quanto al contenuto» (così, tra le tante, Cass. n. 22301/2008). Quindi il motivo non è soltanto – come potrebbe pensarsi – quello della violazione dei canoni di cui all’art. 384, comma 2, sebbene i possibili motivi (escluderemmo senz’altro il n. 1 e il n. 2) debbano armonizzarsi col principio di preclusione e di progressivo esaurimento della controversia, determinato dal passaggio dei gradi.
La scelta discrezionale della Cassazione, tra giudizio sostitutivo e rinvio, incide così non soltanto sul processo (che, fin quando è pendente, inevitabilmente risente di una serie di sopravvenienze che, per quanto coerenti con la regola di formazione progressiva del giudicato, possono finire per alterare l’oggetto e l’esito del giudizio), ma anche sulla decisione, che sarà o meno soggetta a nuova impugnazione a seconda che la Corte abbia definito o meno il ricorso in via sostitutiva.
A quale regola razionale risponde un sistema del genere, tenuto conto che nessuna norma garantisce il ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia definito il rinvio prosecutorio?
Risponde ai canoni del “giusto processo” (che dev’essere «regolato dalla legge») la possibilità di un ricorso per cassazione senza previsione di specifici motivi, posto che quelli dell’art. 360 – che la Cassazione utilizza in mancanza di altri, specifici per il giudizio di rinvio prosecutorio – non possono non integrarsi con la regola del progressivo esaurimento del focolaio di contenzioso?
Una regolamentazione per legge di questi problemi andrebbe data, specie di questi tempi in cui – grazie a un’applicazione sempre più pervasiva del principio di ragionevole durata – le impugnazioni non sono riguardate, dal legislatore e da molti, con particolare favore.
La legge del sangue o la legge della polis? Riflessioni sui nessi tra famiglia, giustizia e cultura della legalità
di Rossella Marzullo
Sommario: 1. Il Progetto “Liberi di scegliere” e le nuove frontiere della tutela minorile – 2. La pedagogia distorta delle organizzazioni criminali: il pregiudizio inferto ai minori dall’indottrinamento mafioso – 3. Assonanze tra l’orientamento giurisprudenziale reggino e l’intervento delle Corti inglesi in materia di educazione familiare all’estremismo jihadista – 4. “Liberi di scegliere”: voci critiche su un progetto ancora controverso – 5. Conclusioni.
1. Il progetto “Liberi di scegliere” e le nuove frontiere della tutela minorile
Il progetto “Liberi di scegliere” trae origine dal filone giurisprudenziale inaugurato dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, secondo cui è possibile disporre la decadenza o la limitazione della responsabilità genitoriale ogniqualvolta si profili per i figli un grave pregiudizio derivante dal loro assoggettamento incondizionato alla cultura criminale della famiglia d’origine, che non esita a sacrificare identità e aspirazioni dei giovani per avviarli a un destino già scritto e determinato dall’appartenenza al clan familiare.
È una nuova strada, un nuovo corso, che mira a scardinare il legame più forte che esista nel contesto 'ndranghetistico, quello che cementa le ‘ndrine e rende “infame” chi si pente: il vincolo di sangue.
La linea seguita dai giudici reggini risponde all’obiettivo di garantire al minore il diritto di scegliere la propria vita mediante l’accesso ad una dimensione valoriale che gli è negata dalle strettoie inglobanti e mortali dell’organizzazione criminale.
Il carattere ereditario della subcultura ‘ndranghetistica trova conferma nei dati statistici forniti dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, che negli ultimi vent’anni, infatti, ha trattato circa 100 procedimenti per reati di associazione mafiosa e connessi (art. 416 bis c.p., art. 74 D.P.R. 309/90, estorsioni etc., reati di cui all’art. 51 bis ter c.p.p.) e più di 50 procedimenti per omicidi e tentati omicidi commessi da minori, molti dei quali – una volta diventati maggiorenni – sono stati sottoposti al regime del 41 bis ord. pen., sono stati uccisi nel corso di faide familiari o hanno assunto la leadership della ‘ndrina di appartenenza.
I dati statistici del passato, purtroppo, non sono disgiunti dal presente e ad oggi il T.M. di Reggio Calabria si trova a giudicare i figli o i fratelli di coloro che erano processati negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila, tutti appartenenti alle storiche famiglie del territorio.
È dunque l’esame dei dati a confermare che la ‘ndrangheta si eredita: le famiglie, cioè, si assicurano il potere sul territorio grazie alla continuità generazionale.
Quello dei minori di 'ndrangheta è un fenomeno endemico, talvolta sommerso, che per troppo tempo è stato sottovalutato, come pure sottovalutata è stata l’insidia della trasmissione di valori culturali deteriori da padre in figlio.
«Analizzando nello specifico le storie e l’habitus psicologico dei figli di ‘ndrangheta – ha più volte osservato l’ex Presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, che oggi presiede il T.M di Catania – ci si è potuti rendere conto di come l’appartenenza all’organizzazione rappresenti nei loro percorsi di vita non una devianza, un errore o una crisi, bensì un modo di essere che ribadisce piuttosto una coerenza con un sistema criminal-familiare che ha fornito una specifica formazione e che, soprattutto, ha dato risposte soddisfacenti ai loro bisogni».
La ‘ndrangheta esercita su questi adolescenti un fascino perverso, in quanto li immette, senza sforzi, in un sistema di potere che conferisce loro uno status facilmente riconoscibile all’esterno e che senza alcun dubbio li fa sentire “visibili”, in un’ottica tragicamente contemporanea, in cui la visibilità è avvertita come la chiave del successo e dell’affermazione sociale, in perfetta coerenza con la civiltà dello spettacolo, per usare le parole con cui Vargas Llosa descrive la postmodernità.
Ma dietro l’orgoglio dell’appartenenza si nasconde per questi ragazzi una ben più triste e inconsapevole verità: la rigidità della struttura familiare e la costruzione di un mondo chiuso e governato da regole proprie che soffoca le esigenze di libertà ed espressività dei giovani in crescita, negando loro in radice l’esercizio dei diritti fondamentali.
L’età adolescenziale, normalmente dedicata alla costruzione dell’identità personale, è vissuta all’insegna dell’obbedienza cieca e acritica che ha come esito la definitiva strutturazione criminale dei figli di ‘ndrangheta. L’identità per loro è il luogo di una rigida coerenza, di un’assoluta immutabilità, di una fissità ideativa: rappresentazioni dogmatiche di una cultura repressiva che educa all’impossibilità di cambiare, di costruire un pensiero flessibile, di accettare il differenziarsi senza sentirsi minacciati.
Come non comprendere, dunque, che le prime vittime della mafia sono proprio i ragazzi delle mafie, chiamati senza appello a fare schiera, a fare esercito, a fare a meno della loro giovinezza, a fare a meno del loro mondo interiore, per essere completamente a disposizione di interessi che non li riguardano, senza l’incertezza e l’ingombro delle emozioni, della paura, dei sentimenti.
I ragazzi di ‘ndrangheta non esprimono alcuna emozione, sono educati a controllarsi “per non tradirsi e per non tradire”.[1] A loro non resta che portare nell’ombra la loro grande e inconfessabile sofferenza.
Si tratta di ragazzi emotivamente soli, spesso senza un padre (latitante, in carcere o ucciso in agguati di mafia) dal quale essere affiancati e sostenuti, a cui fare domande anche banali, ma fondamentali nel percorso di crescita. La loro fame di affettività deve accontentarsi di legami parentali freddi, sacri e intoccabili: la loro famiglia - pure così presente e invasiva nel garantire le certezze e le regole interne osservate dal clan - disconosce totalmente la vita emotiva e sentimentale di questi figli, i loro sogni e i loro desideri.
L’adolescente di ‘ndrangheta vive un’inibizione del desiderio che lo porta a chiudersi nei confronti di nuove informazioni, nuove credenze e nuove esperienze, e a sottrarsi al “rischio” di contrarre relazioni sociali al di fuori dell’ambiente di appartenenza.
L’aver accertato che questo è ciò che accade in ambienti di tal fatta, ha indotto gli operatori della giustizia minorile di Reggio Calabria a censurare i modelli educativi deteriori che la mafia trasmette, in tutti i casi in cui sia messo a repentaglio il corretto sviluppo psico-fisico dei figli minori. La prassi seguita corrisponde esattamente a quella che si adopera quando si deve intervenire nei confronti di genitori violenti o maltrattanti, o che abbiano problemi di alcolismo o tossicodipendenza.
Su questa scia, dal 2012 ad oggi, il T.M. di Reggio Calabria ha mutato l’orientamento giurisprudenziale ed è intervenuto con provvedimenti civili di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale e allontanamento dei minori dal nucleo familiare, con affido ai Servizi sociali competenti, tentando così di interrompere la spirale perversa della trasmissione di valori deteriori da una generazione all’altra.
Grazie al protocollo d’intesa siglato dal T.M. di Reggio Calabria, dal T.M. di Catanzaro, dal Ministero dell’Interno, dal Ministero della Giustizia, dalla Prefettura di Reggio Calabria, dal servizio centrale di protezione e dall’Associazione “Libera”, oggi il progetto “Liberi di scegliere” è una realtà che ha consentito a più di 70 ragazzi di abbandonare il crimine per scoprire se stessi, per sperimentare il piacere di costruirsi il futuro liberandosi sia dalle logiche di inglobamento e di invischiamento che animano i rapporti familiari nelle cosche, sia dall’ingombrante cognome che portano.
«Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente mafia svanirà come un incubo». Con queste parole Paolo Borsellino spiegava che la l’arma più forte contro la criminalità organizzata era e resta l’educazione; perché l’educazione leviga le coscienze, facendole diventare critiche, emancipate, libere e dunque capaci di governare i processi di scelta.
Laddove emergono tutti i limiti dell’azione repressiva dello Stato – che con gli arresti celebri e le maxi operazioni non è riuscito a fermare l’azione pervasiva e spietata di un’organizzazione forte e radicata, che mette in conto i problemi giudiziari e la latitanza, considerandoli fisiologici rischi del mestiere – si affaccia l’efficacia dell’azione educativa, perché è capace di trasformare il pensiero e, con esso, la società.
I processi di trasformazione, come insegna Freire, partono dalla consapevolezza che la realtà è un interlocutore vivo e problematico, è sfida, provocazione e sollecitazione al cambiamento; per questo motivo l’educazione si fa interprete della ribellione e del riscatto attraverso cui salvare e promuovere i valori autentici della persona.
Nell’incontro con se stesso e nel rapporto complesso con la sua realtà, l’uomo – chiamato a non chiudere gli occhi al mondo endogeno ed esogeno – «accoglie la sfida drammatica del momento presente»[2] e riconosce «la disumanizzazione, non solo come ipotesi ontologica, ma anche come realtà storica»[3].
È a partire da queste premesse che Freire denuncia a più riprese la realtà brutale in cui l’autentica vocazione umana viene «negata nell’ingiustizia, nello sfruttamento, nell’oppressione, nella violenza degli oppressori»[4] in cui prevale a volte «un “ordine” ingiusto, che genera la violenza degli oppressori», altre volte la «falsa generosità, che si alimenta con la morte, lo scoraggiamento e la miseria»[5].
La trasformazione culturale generata dai provvedimenti ablativi emessi dal T.M. di Reggio Calabria rappresenta dunque la risposta freiriana allo scoraggiamento e alla miseria: oggi sono le madri a chiedere ai giudici, anche nel silenzio talvolta, di allontanare i propri figli dalla famiglia per tutelarli da un sistema criminal-familiare che non fa sconti a nessuno. E in una terra come la Calabria, in cui è normale pagare il pizzo alle organizzazioni criminali ed è anormale pagare le tasse allo Stato, l’azione del Tribunale per i minorenni ha sconvolto questo assetto: lo Stato non è più percepito come nemico, o come oppressore, ma è l’Istituzione a cui le madri affidano i loro figli, nella speranza di sottrarli alle strettoie mortali dei clan.
Questo è il segno dei tempi. Lo Zeitgeist dei nostri giorni confusi e complessi rivela che «dentro un più ampio processo di trasformazione dei ruoli femminili nelle mafie e di una loro maggiore visibilità, è da inserire anche il mutamento percepito dei ruoli delle donne della ’ndrangheta calabrese»[6].
Che le donne siano il futuro delle cosche, il collante della famiglia, la ’ndrangheta lo sa bene. La centralità della famiglia amplifica l’importanza concreta delle figure femminili, nonostante le stesse appaiano formalmente soffocate dalla cultura della subalternità di genere ancora fortemente presente nel mondo arcaico delle organizzazioni criminali. E ciò è talmente tanto vero che nel tempo le donne di ‘ndrangheta hanno affiancato alla funzione di “contenimento interno”, quella sempre più esplicita di intermediarie nelle attività “esterne” della cosca.
Ma cosa succede nella ’ndrangheta se le donne rompono il vincolo e decidono di parlare? I risultati sono sconvolgenti.
Quando una donna inizia a parlare per chiedere aiuto allo Sato il sistema “impazzisce”, perché la donna è considerata il mezzo di consolidamento e di trasmissione dei codici familiari: educa, forgia, tiene insieme la struttura.
Se una donna di ‘ndrangheta decide di parlare e di affidare il proprio figlio allo Sato e non al clan, non distrugge esclusivamente la famiglia, distrugge il sistema.
Ciò accade perché, pur non rivestendo gli stessi ruoli degli uomini all’interno delle organizzazioni, le donne svolgono attività di supporto, di tramite per la circolazione delle comunicazioni, garantendo così l’operatività della cosca in concreto e nel quotidiano. «Oltrepassare la frontiera significa rompere i legami di appartenenza, mettere quindi in discussione la propria identità e ricostruirla secondo altri punti di riferimento»[7].
Quanto queste scelte dirompenti siano temute dagli uomini della ’ndrangheta lo si è visto nelle storie drammatiche di Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola: la paura della frattura del patto familiare, del movimento tellurico che nasce dall’interno, ha segnato il loro destino di morte, utile sia a fermare l’azione giudiziaria, sia a ricomporre sotto l’egida del terrore la tenuta dell’organizzazione.
Con violenza fisica, psicologica, con torture subdole e ricatti morali gli uomini della famiglia mafiosa hanno tentato di sanare la scossa provocata dalla voce delle donne, facendo leva sulla violenza e sull’ennesimo tentativo di subordinarle. Ecco perché è possibile affermare che la ’ndrangheta ha così tanta paura di loro.
Le voci femminili della ’ndrangheta, che hanno scosso un sistema consolidato e ritenuto intangibile, rappresentano l’anti-’ndrangheta per eccellenza: nelle loro scelte c’è una volontà di rottura con il mondo mafioso ancora più forte. Ciò consente di affermare che “Liberi di scegliere” nel tempo si è rivelato uno strumento prezioso su due livelli: quello della reale possibilità di cambiamento per i minori che sono entrati nel progetto e quello non meno importante della trasformazione culturale che il protocollo ha generato, tramutando lo Stato da nemico da combattere a interlocutore possibile.
2. La pedagogia distorta delle organizzazioni criminali: il pregiudizio inferto ai minori dal fenomeno dell’indottrinamento
Per comprendere l’entità e la natura del pregiudizio inferto ai minori dal fenomeno dell’indottrinamento mafioso, bisogna avere ben chiaro che nell’organizzazione criminale calabrese la famiglia rappresenta la vera forza dell’organizzazione. La ‘ndrangheta nasce come organizzazione strutturata per famiglie, ognuna delle quali ha pieni poteri sia sul territorio in cui opera, sia sui membri della famiglia stessa, nella quale si viene educati al principio del credere e obbedire, coltivato come naturale sentimento filiale.
I giovani in questi contesti vengono sollecitati all’odio, alla violenza, alla vendetta come strumento per riparare torti, alla delegittimazione delle Istituzioni, a partire dalla scuola sino ad arrivare agli organi di giustizia.
Ci sono bambini di dieci o undici anni in grado di maneggiare armi con perizia, sanno dove nascondere la droga, some sottrarsi ai controlli delle forze dell’ordine. Sin da giovanissimi vengono utilizzati come vivandieri per latitanti, esercitano il racket a imprenditori locali spendendo il cognome della famiglia su mandato dei genitori ristretti in carcere, vengono coinvolti a pieno titolo, talvolta con il ruolo di killer, nelle faide locali.
In questi contesti i ragazzi subiscono un percorso di dolorosa e precoce adultizzazione con conseguente perdita dell’identità. Contraggono disturbi d’ansia che sedano con farmaci per la paura di perdere l’affetto e la considerazione dei propri cari nell’ipotesi in cui si discostino dal modus vivendi di questi ultimi. E perdendo gli affetti dei loro cari temono di perdere l’unica identità riconosciuta come possibile: quella dell’appartenenza captativa al nucleo familiare da cui provengono. Vivono il terrore di poter subire le atroci conseguenze già sperimentate da chi ha scelto il dissenso; così come sperimentano la preoccupazione delle perquisizioni notturne, degli arresti dei propri parenti più stretti. Vivono lo stress della latitanza di padri, zii, nonni, temendo costantemente che le forze dell’ordine possano scoprire dove si nascondano.
Il drammatico nesso tra famiglia e percorsi di devianza generati da un modello educativo prepotente e pervasivo sembra essere il riflesso delle caratteristiche di una terra dolente come la Calabria, che racconta la sua complessità non solo attraverso la sua storia, ma anche attraverso la sua tormentata orografia.
«Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione. La parola Calabria dice alla maggioranza cose assai vaghe, paese e gente difficile[8]». Con queste parole Corrado Alvaro tentò di raccontare la sua terra in occasione della conferenza al Lyceum di Firenze, che si svolse nel 1930.
Quelle parole sono ancora incredibilmente attuali. La Calabria è terra inquieta[9], difficile anche da narrare, fluttuante tra miti e leggende, abbandoni e ritorni, assoggettamenti e ribellioni.
Divisa tra Calabria Citra e Calabria Ultra, essa è mobile anche dal punto di vista geoantropologico.
Terremoti, frane e abbandoni hanno scandito la storia della precarietà di un luogo eternamente incompiuto e simbolicamente rappresentato da case mai finite, dal cemento che nasconde la vergogna della sua tradizione contadina riscattata dai calabresi americani che hanno ridisegnato la geografia dei paesi d’origine, coltivando la segreta ambizione di sostituire il potere aristocratico-feudale, senza mai desiderare di mutare il senso vero dell’appartenenza ad una terra bella e difficile.
L’unico tratto costante di questa ancestrale inquietudine è l’incompiutezza; non solo quella delle case in attesa di essere ultimate dai figli, o dai nipoti o da chi verrà poi, ma anche l’incompiutezza delle innumerevoli opere pubbliche mai finite: dighe, fabbriche ormai dismesse sorte col miraggio del lavoro e della prosperità, letti di fiumi prosciugati che oggi ospitano solo detriti e immondizie, baracche precarie ai margini dei paesi e recinzioni instabili che delimitano uno spazio, spesso un terreno incolto, improduttivo, che rigoglioso genera ginestre e fiori di campo a dispetto dell’uomo a cui basta segnare simbolicamente che quello spazio recintato gli appartiene, senza curarsene. Perché conta solo l’affermazione del possesso su quello spazio, il resto non importa, non ha valore. In una terra – anche morfologicamente – disgregata, il processo di progressiva costruzione della communitas è faticoso, a tratti impossibile. Così come lo è la cultura del legame con l’altro e l’affermazione del principio secondo cui è la legge a regolare le vite di tutti.
Il rapporto con i luoghi racconta molto anche delle relazioni familiari, intessute attraverso la forza del sangue, che stringe i membri del nucleo e tiene fuori tutto il resto, che è nemico, estraneo, temibile.
Il senso del dominio sullo spazio si riflette nella storia dei legami familiari, ai quali tradizionalmente si è applicato lo stesso canone, quello che per secoli ha legittimato e avallato la concezione proprietaria della filiazione.
È per questo che quando la ‘ndrangheta ha scelto il legame di sangue per costruire la sua forza non ha inventato nulla: ha agito su un dato esistente e fortemente radicato. Qual è, se non la famiglia, il centro motore della società in Calabria?
È la famiglia la sua vera forza, come scrisse Alvaro, la sua spinta vitale, il suo dramma, la sua poesia. «La famiglia fra la nostra gente si proietta in maniera abnorme su tutto il ventaglio degli interessi umani, comprimendoli sino ad annullarli».[10]
«La relazione interna di base dei gruppi mafiosi calabresi è basata sul vincolo di sangue. Esso tende a imporsi su ogni altro tipo di relazione, e col tempo avvolge in modo sempre più vincolante tutti i membri del gruppo criminale, data la pratica sempre più diffusa dei matrimoni interni ai gruppi mafiosi – una vera e propria endogamia di ceto – che caratterizza soprattutto la mafia della provincia di Reggio Calabria e la rende sempre più chiusa alle influenze della società legale[11]».
La struttura familiare è stata e continua (in parte) a essere la forza della 'ndrangheta per una serie di ragioni. Le origini della cultura familistica sono note[12]: la mancata esperienza politica dei Comuni, l’eccessivo protrarsi della fase feudale, la frammentazione del territorio, il succedersi delle dominazioni hanno fatto della famiglia in Calabria «il baluardo, l’unità naturale, il dispensatore di tutto ciò che lo Stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore e il remuneratore»[13].
Il familismo amorale – generato dalle viscere di una terra fluttuante al punto da navigare sulle acque[14], perché priva di radicamento e solidità – non è altro che il risvolto della mancanza di senso dello Stato. Nulla più che il rassegnato “disinteresse” verso gli “interessi generali”, smarriti in un orizzonte di senso che ingloba solo il sostentamento della propria famiglia nucleare.
Il termine familismo amorale, introdotto dallo studioso statunitense Edward C. Banfield[15], sintetizza la teoria, presentata e analizzata nella sua celebre opera Le basi morali di una società arretrata, secondo cui l'assenza di fermento associativo nel Meridione, e il conseguente sottosviluppo economico, sono da attribuirsi ad un ethos tipico delle popolazioni meridionali, che porterebbe gli individui a perseguire l'interesse immediato della propria famiglia nucleare, senza riguardo alcuno per l'interesse della collettività intera.
Francis A. J. Ianni, antropologo e studioso britannico, ha sostenuto che se in Italia la famiglia è la principale artefice della struttura sociale, nelle zone del Mezzogiorno «essa è la struttura sociale»[16]. La famiglia esclude gli altri attori della scena sociale, come la Chiesa e lo Stato. Li esclude ingurgitandoli: «nel Sud la famiglia non entra negli affari o nella politica, ma incorpora i medesimi quali sottosistemi di un sistema di parentela che allunga i suoi tentacoli ovunque»[17].
Ciò che allarma è che, nonostante il mondo sia radicalmente mutato e la cultura sia contaminata dai processi legati alla globalizzazione, in alcune zone del meridione tutto ciò non ha modificato nulla, o quasi, e la famiglia continua ad essere il centro propulsore della società, al punto che ad oggi ancora lo Stato non è riuscito a “farsi scegliere”[18].
Il progressivo radicarsi della cultura familistica, infatti, ha determinato una grave frattura tra i singoli e la collettività, difficile da ricomporre, perché lo Stato rimane sempre un estraneo a cui guardare con diffidenza. E la mancanza di legame tra Stato e società produce due ordini di conseguenze: l’assenza di ethos pubblico e l’annientamento del processo di soggettivazione cui invece ogni individuo avrebbe diritto.
L’inibizione del processo di emancipazione è proprio uno dei più gravi pregiudizi inferti al minore dall’indottrinamento praticato dalla ‘ndrangheta, perché corrisponde alla perdita dell’identità, che si consuma all’interno del gruppo. E il gruppo disconosce, anche sotto il profilo affettivo, chiunque si discosti dai codici non scritti che regolano la vita in questi contesti.
Tutto ciò si traduce in una vera e propria lesione del diritto all’educazione spettante ai soggetti minori d’età, perché non può trascurarsi che quello all’educazione è un vero e proprio diritto, qualificato espressamente come tale dagli artt. 28 e 29 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia.
Vi è una precisa ratio in questa scelta, poiché la tutela di tale diritto ha l’obiettivo di garantire il corretto sviluppo della personalità del minore, nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche in tutta la loro potenzialità.
Le norme citate stabiliscono inoltre che l’educazione cui il minore ha diritto deve tendere alla costruzione di una cultura del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite. Il bambino – secondo l’art. 29 Convenzione ONU – «ha diritto ad essere preparato a una vita responsabile in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza dei sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi».
I genitori pertanto non possono sottrarsi alla sfida educativa, né sotto il profilo giuridico, né tanto meno sotto quello etico e morale, perché il valore dell’educazione evoca immediatamente il rapporto tra il singolo e la sua realtà e dunque la sua capacità di essere in sintonia con sé stesso e con gli altri.
Se l’educazione è un diritto, allora essa può e deve essere pretesa. A meno che non si voglia considerare il diritto all’educazione una formula vuota, un diritto che però non è in alcun modo coercibile, allora deve sostenersi che è lo Stato a dover intervenire per sostituire il genitore che si sottrae ai compiti educativi a cui è chiamato.
3. Assonanze tra l’orientamento giurisprudenziale reggino e l’intervento delle Corti inglesi in materia di educazione familiare all’estremismo jihadista
Il principio appena richiamato innerva non solo i provvedimenti dell’Autorità giudiziaria italiana, ma anche quelli dell’Alta Corte inglese al cui vaglio sono posti i pregiudizi derivanti dall’indottrinamento dei figli all’estremismo jihadista.
D’altronde, ci si deve chiedere come potrebbe ritenersi compiutamente realizzato il diritto all’educazione codificato e richiamato in leggi nazionali e internazionali, in contesti in cui ancora, in modo decisamente radicato, la genitorialità è concepita come appartenenza, come dominio sul più piccolo che non può e non deve, a costo della sua stessa vita, sfuggire alle regole della famiglia?
E qui l’attenzione si sposta sul quomodo, sui contenuti e sui limiti della libertà educativa.
Quando si considera straripante il potere del giudice che dispone l’allontanamento dalla famiglia d’origine, ci si deve chiedere anzitutto quanto ampia debba essere ritenuta la libertà di educare: si può educare al crimine organizzato oppure alla guerra di religione, ritenendo che ciascuno nel privato della sua casa possa fare ciò che vuole? Si può educare a spacciare a soli dieci anni o anche meno? Si è davvero liberi di impartire regole precise, riti, codici non scritti che decretano la marginalità e l’esclusione di un essere umano? Si può esortare alla guerra e allo stragismo in nome di un dio?
Questo è il grande interrogativo che le riflessioni sull’educazione generano: esistono dei limiti alla libertà di educare? E – come dice Bauman – quanto è libera la libertà?
Se volgiamo lo sguardo oltre i confini nazionali, possiamo constatare che il tema dei limiti alla libertà educativa si è posto e ha trovato una possibile risposta in alcuni provvedimenti emessi dall’Autorità giudiziaria inglese rispetto alla complessa questione dell’indottrinamento all’estremismo jihadista.
Il fenomeno dei minori che subiscono forme di radicalizzazione religiosa da parte dei genitori, o dei familiari più stretti, ha aperto la querelle della tutela da accordare ai medesimi in tutte le ipotesi in cui patiscano profonde distorsioni dell’equilibrio psico-fisico e relazionale o corrano rischi per la stessa incolumità fisica.
V’è da chiedersi innanzitutto cosa debba intendersi per “estremismo”, quale sia il rapporto tra libertà educativa e libertà religiosa e quando l’intervento pubblico nella “family autonomy” sia legittimo e quando invece sia da considerarsi eccessivo, e, infine, quali strumenti siano messi a disposizione dello Stato per far fronte a tale fenomeno.
Non è qui possibile soffermarsi approfonditamente sulla complessità delle succitate questioni,[19] ma una breve riflessione va fatta, analizzando il fenomeno sotto un duplice profilo: il primo riguarda quei minori esposti da parte dei familiari a un’azione di indottrinamento a ideologie estremiste, che conduce sovente alla circuitazione dell’individuo nell’ambito del radicalismo terroristico;[20] il secondo comprende invece tutti i provvedimenti che si occupano di quei genitori ai quali si contesta il tentativo di trasferirsi in zone di guerra controllate dall’ISIS, esponendo così i propri figli minori a rischi gravi di danni fisici ed emotivi.[21]
In un caso che risale a pochi anni fa, deciso dalla County Court di Leicester, è stata esaminata la condizione di tre minori, figli di una coppia di aspiranti foreign fighters.[22] La procedura a tutela dei tre bambini è scaturita dal fermo della loro madre ad opera dei servizi segreti presso l’aeroporto di Birmingham. Contrariamente alle dichiarazioni della donna, che affermava di voler raggiungere il marito per una breve vacanza a Monaco con i figli, sono state rinvenute prove inoppugnabili relative al progetto di trasferirsi tutti in Siria: un ulteriore biglietto aereo per la Turchia, prenotazioni alberghiere a Istanbul, una lista di numeri telefonici di noti combattenti islamici operanti in Siria; oltre duecento chiamate effettuate dal cellulare della donna verso utenze di importanti esponenti di Daesh; grandi quantitativi di farmaci; immagini contenute nel cellulare della madre che ritraggono i tre bambini mentre brandiscono armi da fuoco, emblemi dell’ISIS, e indossano passamontagna.
Il giudice inglese, dopo aver accertato che l’intenzione dei genitori di trasferirsi in Siria fosse guidata eminentemente da una ideologia religiosa estremistica e che in tal modo si esponessero i figli minori al rischio di patire un “grave pregiudizio”, ha disposto con un care order la collocazione dei minori presso i nonni materni e la decadenza dall’esercizio responsabilità parentale nei confronti di entrambi i genitori.
Dalla lettura integrale del provvedimento emerge che l’Autorità giudiziaria inglese ha ritenuto che ricorresse un significant harm[23], ossia un grave pregiudizio per i minori, non solo per il possibile danno psico-fisico dovuto al loro inserimento in un contesto di guerra, ma anche per la loro «probable radicalisation»[24] a causa della ideologia religiosa condivisa dai genitori.
La questione dei pericoli derivanti dalla radicalizzazione è stata affrontata anche in altri casi, come quello deciso dalla High Court of Justice, in cui il giudice, Lord Holman, ha introdotto apertamente il tema dell’educazione religiosa di matrice islamica nell’ambito familiare, ponendo il problema dei limiti, oltrepassati i quali, l’azione educativa debba valutarsi come abusive[25].
Vale la pena di riportare il percorso logico-argomentativo espresso dalla Corte che appare conducente e di grande interesse: «radicalizzazione è una parola dal significato vago e generico che può essere utilizzata con differenti accezioni semantiche. (…). Questa nazione e la nostra cultura sono tolleranti nei riguardi della diversità religiosa, e non vi può essere alcuna obiezione di alcun tipo a che un minore venga esposto, spesso anche piuttosto intensivamente, a pratiche religiose e riti seguiti dai genitori del minore stesso. Se e nella misura in cui si intende questo per radicalismo, ciò significa niente di più che un insieme di credenze musulmane e pratiche religiose a cui i minori sono indottrinati anche in modo pervasivo, il ché non può essere in alcun modo considerato opinabile o inappropriato. Diversamente, però, se la radicalizzazione si traduce in una azione negativa di indottrinamento del minore al pensiero radicale fondamentalista, associato al terrorismo, la valutazione sarà ovviamente del tutto differente. Se qualsivoglia bambino viene educato (o infected) a una ideologia che implica la possibilità dell’azione terroristica o sentimenti di odio per la propria terra natia, che è l’Inghilterra, o contro altra religione, quale il Cristianesimo (…) allora tale azione pedagogica è in potenza fortemente abusiva e di estrema gravità».
Fortissime le assonanze con i provvedimenti del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria e decisamente potente è il ruolo della pedagogia in ambito giudiziario.
Sia in Italia, sia in Inghilterra al vaglio dei giudici è l’educazione praticata in famiglia. Sicché torna al centro della scena il tema richiamato in apertura del presente paragrafo: quali sono i limiti alla libertà educativa?
Gli ultimi avvenimenti che hanno attraversato e scosso l’Europa non possono lasciarci indifferenti di fronte al tema della formazione, specie ove si osservi che è proprio una certa pratica formativa che espone i minori alla morte fisica e a quella morale.
Ecco perché la giurisprudenza del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria in materia di “minori di mafia” costituisce un esempio importante e innovativo di come il ricco strumentario a disposizione del giudice a protezione del superiore interesse del minore possa essere utilizzato come mezzo di contrasto al fenomeno mafioso.
Se si riconosce infatti nella mafia (rectius nelle mafie) un fenomeno a forte connotazione culturale, forse ancor prima che criminale, allora si dovrà prendere atto della estrema limitatezza della risposta esclusivamente sanzionatoria di matrice penale. L’azione del giudice minorile - di sottrazione del fanciullo al grave pregiudizio che gli deriva dalla pedagogia mafiosa - sembra per contro muoversi su un piano di prevenzione rispetto ad un destino criminale che appare ineluttabile, abdicando all’idea, quasi rassegnata, di poter solo reprimere.
Con quanto detto non si vuole affatto avallare alcuna forma di automatismo valutativo secondo cui ogni genitore implicato nell’associazione mafiosa debba aprioristicamente e pregiudizialmente ritenersi inidoneo a svolgere la funzione educativa nei confronti dei figli.
È pacifico, infatti, che la pericolosità sociale di coloro i quali agiscono in un contesto mafioso può tradursi in diverse ipotesi criminose, che postulano pertanto disvalori differenziabili: coloro che agiscono con “metodo mafioso”, gli “intranei” all’associazione, i “concorrenti esterni”; e ciò implica che è possibile che genitori contigui alla criminalità desiderino, tuttavia, per i propri figli un destino diverso e lontano dalle dinamiche culturali dell’organizzazione.[26]
Analoghe considerazioni possono essere fatte con riferimento all’esperienza straniera considerata, laddove il giudice è chiamato a verificare, caso per caso se un determinato fanciullo soffra, o sia a rischio di patire, un pregiudizio derivante dalla condotta del genitore estremista.
Tuttavia, posto che la società[27] deve essere aperta a tollerare standard molto diversi di genitorialità - inclusi quelli di genitori eccentrici o appena adeguati, onde evitare di aprire varchi a pericolose azioni (più o meno surrettizie) di ingegneria sociale - non si può non sottolineare che la libertà educativa abbia comunque dei limiti, superati i quali sconfina nell’abuso, che come tale richiede interventi statuali finalizzati in primis a determinarne la cessazione e poi a costruire percorsi di riparazione dei danni dal medesimo provocati.
La questione della libertà educativa rimanda al concetto di libertà positive e libertà negative di Isaiah Berlin, sulla scorta del quale Bauman ci avverte dei pericoli nascosti dietro l’illusione perversa di una libertà senza limiti. Quest’ultima, assai lontana dalla sua matrice filosofica, sembra somigliare sempre più all’idea di libertà importata dal mercato e dalle speculazioni di tipo capitalistico, quelle stesse speculazioni che sono all’origine dell’individualismo e della solitudine del cittadino globale.
Ma non si può sostenere che la libertà sia questa.
La libertà, al contrario, è solo quella attiva e fondata sulla ragione; essa è strettamente connessa all’idea di responsabilità individuale e collettiva, è il criterio di scelta per l’azione, è il discrimen tra interesse personale e bene comune.
Educare alla violenza, alla faida, all’odio spietato verso chiunque si frapponga tra se stessi e l’obiettivo da realizzare non può e non deve essere ritenuto una libertà educativa da preservare, a meno che non si voglia ritenere un pregiudizio etnocentrico anche la repressione dei matrimoni tra uomini adulti e spose bambine, la repressione della pratica dell’infibulazione, quella dell’arruolamento dei bambini negli eserciti. Non ci sono culture da preservare e libertà degli adulti da tutelare quando in gioco ci sono i diritti fondamentali dei più piccoli. Alcuni valori hanno carattere assoluto. La vita, la dignità, il rispetto dell’altro e la libertà stessa non possono subire le derive di un relativismo senza significato, altrimenti il rischio è quello rendere labile, incerta e debole la tutela dei diritti umani, che non sono e non possono essere suscettibili di interpretazioni soggettivistiche e fuorvianti.
4. “Liberi di scegliere”: voci critiche su un progetto ancora controverso
La scelta dei giudici reggini non è stata accolta dal favore unanime, voci contrarie si sono levate sia da una parte della Magistratura, sia da una parte del mondo accademico. Non è mancato, infatti, chi ha parlato di giustizia etica o addirittura di deportazioni di bambini. Alcuni studiosi di pedagogia hanno definito gli allontanamenti espressione di una cultura etnocentrica, altri hanno considerato tali interventi come una indebita e pregiudiziale ingerenza nella sfera familiare ad opera degli organi di giustizia.
Tant’è che, in alcuni provvedimenti, i giudici hanno ritenuto di dover specificare che il decreto di affido del minore ad altri familiari, o a strutture reputate idonee ad avviare programmi di rieducazione, non ha carattere afflittivo e la sua genesi non è data dalla mera appartenenza ad una famiglia mafiosa, ma è conseguente a una ponderata valutazione di una situazione di disagio.
Le critiche mosse a questo orientamento giurisprudenziale si fonderebbero sul presunto carattere pervasivo di simili interventi e sulla pericolosità che si cela dietro l’esercizio del potere giurisdizionale legittimato in qualche misura a ritenere inadeguato qualsiasi contesto familiare per il minore e, quindi, anche a limitare la responsabilità genitoriale in ipotesi diverse da queste, ma che, comunque sia, divergano dal modello familiare, per così dire, normativo.
In risposta a queste censure deve porsi in evidenza anzitutto che le istruttorie svolte non si basano sulla mafiosità del genitore, ma sulla disamina attenta del contesto familiare, nonché sulle dinamiche relazionali presenti e sul pregiudizio che le condotte genitoriali hanno determinato nei confronti del minore. Perciò le perplessità, espresse da quanti temono l’esercizio arbitrario del potere del giudice, si dissolvono dinanzi alla lettura dei provvedimenti e assumono più propriamente la connotazione di inutili esercizi di erudizione, ove si osservi che nessuna decisione nasce ipso iure da una condanna per mafia inflitta al genitore.
Le decisioni sulla decadenza o sulla limitazione della responsabilità genitoriale non sono sanzioni comminate alle madri e ai padri, ma provvedimenti a tutela dei figli, che non possono subire condotte genitoriali incompatibili con il concetto di responsabilità, intesa anche come responsabilità educativa.
V’è poi da sottolineare, a sostegno della fragilità delle argomentazioni contrarie all’orientamento giurisprudenziale del T.M. di Reggio Calabria, che l’ordinamento giuridico italiano si ispira ad un principio di minima invasività nella sfera familiare, il quale garantisce e tutela il pluralismo nelle scelte pedagogiche da parte dei genitori, purché ciò venga fatto nell'interesse dei figli. E questo passaggio è senz’altro quello che più di tutti chiarisce qual è il limite invalicabile sia per il genitore che per il magistrato: l’interesse del minore. Non esiste altra via per misurare l’opportunità e la legittimità di una decisione che riguarda un bambino o un ragazzo, se non quella di parametrare il decisum al principio del best interest of the child.
Da ultimo, a confutazione della tesi secondo cui gli allontanamenti sarebbero atti di violenza istituzionale, si ritiene di dover sottolineare che l’obiettivo della family reunification è sotteso a tutti i provvedimenti ablativi, compresi quelli disposti in favore dei minori di ‘ndrangheta.
I progetti di recupero (gestiti in gran parte dall’Associazione Libera) prevedono la presa in carico dei genitori che intendano prendere le distanze dall’organizzazione criminale e hanno come fine ultimo quello di realizzare il ricongiungimento familiare in condizioni e contesti che consentano al nucleo di vivere onestamente e senza il condizionamento e la pressione del clan.
Il lavoro generoso, sensibile e capillare svolto da Don Ciotti, dall’Avvocato Rando, dal Gruppo Abele, in favore degli adulti che hanno inteso aderire a “Liberi di scegliere” rappresenta la risposta più efficace e potente che si possa dare alla mafia: un’alternativa esiste. Ed esiste per tutti, anche a dispetto degli umani fallimenti che in percorsi così difficili è naturale incontrare.
La conferma che i genitori non sono vittime di un’azione giudiziaria spietata e pregiudiziale, ma parte attiva di un processo di trasformazione culturale, è data dalla scelta del Presidente Di Bella di firmare un’ordinanza di rimessione alla Consulta[28] nella quale si lamenta l’assenza di una normativa d’emergenza sulla situazione sanitaria, a causa della quale i detenuti ristretti secondo il regime previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario sono stati totalmente privati dell’esercizio della genitorialità.
Tale regime, infatti, non ha subito alcuna variazione nonostante l’imperversare dell’emergenza sanitaria, pertanto non sono state previste deroghe alla disciplina dei colloqui telefonici e visivi. È stata fatta solo una precisazione mediante una nota del D.A.P. del 21 marzo 2020, a mente della quale i familiari della persona ristretta secondo i dettami dell’art. 41 bis o.p. - data l’impossibilità di usufruire del diritto alla visita mensile - avrebbero potuto colloquiare con il detenuto attraverso una telefonata da effettuarsi o presso il comando dei carabinieri o presso la struttura penitenziaria più vicina al luogo di residenza del familiare, per evitare spostamenti ulteriori fuori dalla Regione.
Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con nota del 27 marzo 2020, ha poi chiarito che la concessione di un ulteriore colloquio telefonico, in aggiunta a quello sostitutivo spettante ai detenuti sottoposti al regime speciale di cui all’art. 41 bis, possa essere esteso a un massimo di due familiari per colloquio, con esclusione della presenza dei figli minori.
Ciò vuol dire che dall’entrata in vigore della normativa sul contenimento dei contagi da COVID-19 i bambini non hanno avuto più contatti né fisici né visivi con il genitore detenuto.
Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, con l’ordinanza di rimessione del 9 giugno 2020, su impulso della Procura, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione dell’assenza di una previsione – anche provvisoria – che consenta il mantenimento del rapporto genitore-figlio, anche laddove il genitore sia sottoposto al regime speciale di detenzione.
Ciò dimostra che le azioni intraprese a tutela dei minori di ‘ndrangheta non hanno mai inteso realizzare forme di giustizia etica o deportazioni di bambini, ma, sin dall’inizio, hanno cercato di rendere concrete le disposizioni sui loro diritti, che troppe volte sono stati per gli adulti solo formule vaghe, parole enfatizzate sterilmente durante le giornate celebrative, slogan lanciati in luoghi e modalità lontanissimi dall’infanzia violata.
5. Conclusioni
Perché il confine tra libertà educativa e abuso non sia labile bisogna partire da un dato ormai certo: la famiglia di ‘ndrangheta promuove l’educazione all’illegalità secondo dinamiche riconducibili a quelle di qualsiasi apprendimento, come ben sottolinea Sergio Tramma[29].
L’educazione all’illegalità, infatti, può avvenire sia per adesione che per imitazione e «presuppone l’esistenza di un modello da cui attingere alcuni comportamenti imitabili, o dal quale ricavare orientamenti per la costruzione di un percorso di vita positivamente valutato e verso il quale tendere ad avvicinarsi il più possibile»[30].
Il rapporto ambiente-educazione è stato ed è al centro di riflessioni di carattere pedagogico, sociologico e antropologico, ma anche la letteratura ne racconta la potenza, talvolta distruttrice.
Perfette per descrivere il processo di apprendimento di modelli educativi devianti appaiono le parole di Nicolai Lilin, che, nel suo romanzo Educazione siberiana, scrive: «nel nostro quartiere ogni giorno qualcuno finiva in prigione o ne usciva, e quindi a noi ragazzini non faceva strano vedere un uomo che era stato in prigione, eravamo cresciuti per essere pronti a finirci anche noi, ed eravamo abituati a parlare di galera come di una cosa assolutamente normale, come altri ragazzini parlano del servizio militare o di cosa faranno da grandi. In alcuni casi le figure di certi galeotti prendevano nei nostri racconti una forma eroica, diventavano i modelli a cui volevamo somigliare a tutti i costi».[31]
L’educazione all’illegalità avviene proprio mediante questi schemi ed è senza dubbio favorita in quei territori caratterizzati da un alto tasso di disoccupazione, dal precoce abbandono scolastico, dall’assenza di servizi e luoghi di aggregazione, eccetto quegli spazi che sono gestiti da esponenti della criminalità organizzata.[32] È inevitabile che in contesti di degrado i giovani facciano proprie le norme del loro ambiente e che idealizzino il modello degli adulti più prepotenti e brutali, quelli che emergono all’interno del gruppo e che si impongono come i più temuti e “rispettati”.
Il luogo diventa dunque strumento di formazione ed educa[33] secondo le regole di sopravvivenza che in esso si affermano, lasciando il resto del mondo fuori e negando ai più piccoli la possibilità di misurarsi con altri luoghi e con altri sistemi di relazione.
Assai toccanti, sulla formatività dei luoghi, appaiono le pagine del romanzo d’esordio di Silvia Avallone: «Cosa significa crescere in un complesso di quattro casermoni, da cui piovono pezzi di balcone e di amianto, in un cortile in cui i bambini giocano accanto a ragazzi che spacciano e vecchie che puzzano? Che genere di visione del mondo ti fai, in un posto dove è normale non andare in vacanza, non andare al cinema, non sapere niente del mondo, non sfogliare il giornale, non leggere libri e va bene così?»[34].
Parafrasando la scrittrice, ci si deve chiedere allora: cosa significa crescere in un luogo dove le case sono una schiera di enormi scheletri non finiti, con i pilastri a vista e gli interni arricchiti con elementi di decoro di ogni genere, quasi a voler dire che l’unico spazio che conta è quello vissuto dal nucleo, il resto non ha importanza, come non ne hanno le persone che restano fuori da quello spazio? Cosa significa crescere con le armi in casa e le botole per la latitanza? Cosa significa crescere imparando a nascondere la droga nei posti giusti, quelli in cui le forze dell’ordine non potrebbero mai trovarla? Cosa significa saper sparare a soli dieci anni? Che genere di visione del mondo ti fai, in un posto dove è normale vedere la propria madre maltrattata, picchiata, o la propria sorella costretta a sposare un uomo che non ama per favorire gli interessi della famiglia? Che genere di visione del mondo ti fai se non puoi studiare? Se devi preoccuparti di come reperire i soldi per pagare la parcella dell’avvocato che difende tuo padre condannato all’ergastolo? Che persona diventerai se a formarti sono questi luoghi e questi modelli e va bene così?
Interrogativi difficili, che scuotono gli animi e producono altri interrogativi. Anzitutto ci si chiede cosa debba prevalere: la legge del sangue o la legge della polis?
L’intera storia spirituale e dogmatica della legge nel corso dei secoli è il frutto delle alterne vicende che caratterizzano i rapporti tra essa e il diritto e tra le regole e la giustizia: tra lex e ius, tra nomos e Dike.
Meravigliosa metafora dell’eterno conflitto tra norma e Legge, tra morale soggettiva e ordine costituito è Antigone, l’eroina sofoclea, figlia incestuosa di Edipo e Giocasta, nata contro, che si presenta come la sintesi tragica del dolore generato dal richiamo incondizionato dei legami familiari e dal sangue.
Antigone e Creonte sono così l’immagine dello scontro eterno tra la tradizione e il rinnovamento, la conservazione e la spinta al cambiamento.
Lo sono oggi, come lo erano ieri, quando Sofocle parlava alla città in uno dei suoi luoghi più sacri, il teatro, anch’egli combattuto dalla suggestione verso il nuovo (Creonte) e dal legame viscerale con la memoria (Antigone), per la quale pure intimamente sembrava parteggiare.
Antigone e Creonte rivivono oggi nel complesso rapporto tra diritto naturale e diritto positivo, che si scontrano nelle aule giudiziarie in cui si vaglia il destino dei figli di mafia, come di tutti i figli: la legge del sangue o la legge della polis? Entrambe forti, entrambe giuste, tanto che nel dramma sofocleo tutte e due soccombono, perché questo è, purtroppo, l’esito sciagurato del vicendevole disconoscimento di diritto e legge: Antigone muore e di Creonte «resta un nulla».
Perciò è sul terreno della legge che Creonte deve cercare Antigone: la legge ricerca il diritto quale suo limite, quale straordinario strumento di difesa della sua stessa legittimità. Dunque, quando un giudice – a tutela diritti inviolabili della persona minore d’età – decide di far prevalere il diritto positivo sul diritto naturale, non emette un mero kérugma (κήρυγμα), ma offre ad Antigone la possibilità di esercitare il suo diritto preservandola da soprusi e sopraffazioni, che non devono giungere né dai suoi simili né in forma di legge.
[1] Istituto Centrale di Formazione di Messina, 2008.
[2] P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA, 2002, p. 47.
[3] Ibidem
[4] Ivi, pp. 48-49).
[5] Ibidem
[6] A. Dino, Un mondo in frantumi, «Narcomafie», 3/2012.
[7] R. Sciarrone, Passaggio di frontiera: la difficile via d’uscita dalla mafia calabrese, in A. Dino (a cura di), Pentiti, Donzelli, Roma, 2006.
[8] E. Ciconte, 'ndrangheta, Rubbettino, 2011, Soveria Mannelli, p. 7
[9] V. Teti, Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale, Rubbettino, 2015.
[10] V. Mercadante, Sottocultura mafiosa, Ila Palma, Palermo, 1986, in (a cura di) G. Lo Verso, La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli, 2002, Milano p. 58
[11] N. Gratteri, A. Nicaso, Fratelli di sangue, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2007, p. 66
[12] R. Marzullo, Educazione Famiglia Democrazia. Percorsi di legalità, Anicia, Roma, 2014, pag. 129 e ss.
[13] P. Nichols, Italia, Italia, London 1973, p.227; trad. it. Italia, Italia, Garzanti, 1975, Milano, p.222, cit. in C. Deambrogio, Famiglia di sangue e mafia: un’analisi socio-criminologica, ArchivioPenale.it, Fascicolo n.3, Settembre-dicembre 2012, p. 2.
[14] C. Alvaro, Gente in Aspromonte, nona ed., collana Gli elefanti - Narrativa, Garzanti Libri, 2000, incipit: «Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque»
[15] E. C. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society (1958), trad. it. come Le basi morali di una società arretrata, Bologna il Mulino, 1976.
[16] F. Ianni, A.J, Affari di famiglia: parentela e controllo sociale nel delitto organizzato, trad.it. di D.Ceni, Garzanti, 1974, Milano, p.36 cit in. C. Deambrogio, Famiglia di sangue e mafia: un’analisi socio-criminologica, ArchivioPenale.it, Fascicolo n.3, Settembre-dicembre 2012 p. 2.
[17] Ibidem
[18]Cfr. J. Davis, Antropologia delle società mediterranee: un’analisi comparata, Rosembreg & Sellier, 1980, Torino, p. 40
[19]Per un approfondimento sul tema, cfr. S. Casabona, Pedagogia dell’odio e limiti alla funzione educativa dei genitori, Giuffrè, Milano, 2016, p. 86-101.
[20] Cfr. ex multis London Borough of Tower Hamlets v. B, 21 August 2015, [2015] EWHC 2491 (Fam); Brighton and Hove City Council v. the mother and Y, 23 aprile 2015, [2015] EWHC 2099 (Fam).
[21] Cfr. ex multis In the matter of X and Y (Children), 30 July 2015, [2015] EWHC 2265 (Fam); In the matter of X (Children) (No. 3), 16 December 2015, [2015] EWFC 3651 (Fam); In the matter of X and Y (Children) (No. 2), 4 August 2015, [2015] EWHC 2358 (Fam); Y (Children) (No 3), 7 March 2016, [2016] EWHC 503 (Fam).
[22]Leicester City Council v. T, 28 January 2016, (2016) EWFC 20.
[23] E’ la locuzione inglese che corrisponde al danno ingiusto, o danno significativo, presente nell’ordinamento interno.
[24] Leicester City Council v. T, 28 January 2016, (2016) EWFC 20, par. 15.
[25] Re M children, 5 March 2014, [2014] EWHC 667 (Fam). Cfr. altresì Martin Downs,Is preventing violent extremism a facet of child protection?, Fam. Law 2015, 45(Oct), 1167-1168.
[26] È il caso, ad esempio, del pentito di mafia Gaspare Mutolo, il quale alla domanda sulle ragioni che lo avevano spinto a collaborare con la giustizia, così dichiara: “Cominciai a pensare che tutti i miei guai erano dovuti al comportamento che aveva avuto la mafia, e pensai pure che avevo quattro figli, quale avvenire gli lasciavo" (cfr. Gruppo Abele, Dalla mafia allo Stato. I pentiti: analisi e storie, EGA, Torino, 2005, p. 326); e aggiunge "sono contento, felice perché i miei figli si sono inseriti e lavorano onestamente" (Ibidem, p. 332).
[27] Re L (Care: Threshold Criteria), 26 October 2006, [2007] 1 FLR 2050, par. 50.
[28] L’ordinanza di rimessione è stata pubblicata sulla GU 1a Serie Speciale - Corte Costituzionale n. 42 del 14 ottobre 2020.
[29] S. Tramma, Legalità Illegalità. Il confine pedagogico, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 73.
[30] Ibidem.
[31] N. Lilin, Educazione siberiana, Einaudi, Torino, 2009, p. 24.
[32] G. Salierno, Fuori margine. Testimonianze di ladri, prostitute, rapinatori, camorristi, Einaudi, Torino, 2001, p. IX.
[33] Cfr. S. Tramma, Legalità Illegalità. Il confine pedagogico, già cit., p. 75.
[34] S. Avallone, Acciaio, Rizzoli, Milano, 2010, p. 32.
Riflessione a margine della relazione del primo Presidente di Giuseppe Santalucia
La Relazione del Primo presidente della Corte di cassazione offre importanti spunti di riflessione.
La grave crisi pandemica – evidenzia il Primo presidente – ha imposto una forte accelerazione nella ricerca e nella messa a punto di soluzioni che hanno fatto crescere la qualità della organizzazione degli uffici, ha consentito l’acquisizione di nuove competenze di gestione e ha elevato la consapevolezza della necessità di un coinvolgimento di tutti gli attori della giustizia e del ricorso alla tecnologia, soprattutto informatica.
Sono parole che costituiscono straordinari spunti di riflessione. La crisi reca con sé un potenziale di innovazione che bisogna saper cogliere e utilizzare al meglio. La crisi è il punto di svolta; può essere, se ne siamo capaci, l’inizio di una forte ripresa. Segna la frattura con il passato e con il suo carico di problemi atavici, offre una opportunità, non facilmente ripetibile, di cambiamento.
Sono quindi parole che sostengono quanti, come l’Associazione nazionale magistrati, deve fare i conti con una altrettanto rilevante crisi, intrisa di indignazione, di delusione e di rabbia, sentimenti che scaturiscono dalle pesanti rivelazioni di chi per anni è stato al vertice dell’associazionismo giudiziario e del governo autonomo della magistratura; e che di esse si alimentano.
Rivelazioni che ora trovano nel libro dato alle stampe dal dott. Palamara, ex presidente dell’Anm ed ex componente del Csm, e dal dott. Sallusti, importante firma del giornalismo italiano e direttore de “Il Giornale”, un ulteriore veicolo di diffusione.
Lo sconcerto è forte e solo lo sconcerto spiega quel silenzio dell’Anm che taluno ha voluto in questi giorni evidenziare.
Questo non è il tempo dei silenzi, che possano apparire ammissioni di colpe e riconoscimento di collusioni e compromissioni con il cd. sistema.
È il tempo della reazione indignata contro chi, per comprensibile convenienza, non si immerge nella faticosa opera di distinguere i fatti e i comportamenti dei singoli ma cuce con suggestione narrativa tanti diversi episodi per tratteggiare con le fosche tinte del complotto l’esistenza di un “sistema” in cui la Magistratura si muoverebbe come un Corpo unitario, animato da convenienze faziose e interessi, appunto, corporativi.
È un affresco che dileggia una Istituzione dello Stato, che reca un grave torto alla realtà, in cui i magistrati sono ancora e autenticamente un potere diffuso, non governabile e non orientabile da mediatori improvvisati.
Le responsabilità dei singoli dovranno essere accertate e dovranno trovare la giusta risposta nelle giuste sedi. Quanti sono chiamati in causa spiegheranno e diranno la loro verità e chi ne ha il potere distribuirà torti e ragioni.
Quel che non può tollerarsi è che una intera Istituzione, la Magistratura, paghi oggi un prezzo elevatissimo in termini di sfiducia collettiva e di pericolosa delegittimazione per l’opera di quanti hanno creduto di poterla utilizzare per personale tornaconto.
I magistrati italiani, nella loro stragrande maggioranza, hanno le risorse culturali e di sensibilità istituzionale per venir fuori, e in fretta, da questo triste periodo; e ne sapranno conservare memoria, per evitare che la smodata ambizione di pochi possa di nuovo offuscare la limpidezza del quotidiano gravoso esercizio del render giustizia.
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