GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa

    Il dibattito lanciato da Giustizia Insieme con l'editoriale L'estremo saluto al Protocollo 16 annesso alla CEDU  prosegue con le riflessioni della Professoressa Elisabetta Lamarque.

    La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa

    di Elisabetta Lamarque

    Sommario: 1. Che cosa è successo alla Camera dei deputati – 2. Come tornare a discutere meglio del Protocollo n. 16 – 3. Contro l’argomento sovranista “sostanziale” – 4. Contro l’argomento sovranista “giurisdizionale”.  

    1. Che cosa è successo alla Camera dei deputati

    L’accaduto ce lo già hanno raccontato bene coloro che hanno finora preso parte al dibattito su questa Rivista[1].

    In estrema sintesi è andata così. Da tempo[2] pendevano alla Camera dei deputati, in prima lettura, due disegni di legge, uno di iniziativa parlamentare[3] e uno di iniziativa governativa[4], volti – entrambi – a ratificare contemporaneamente due Protocolli alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: il Protocollo n. 15, contenente alcune modifiche procedurali al meccanismo del ricorso individuale alla Corte di Strasburgo e alle modalità di decisione da parte di quest’ultima, e il Protocollo n. 16, che introduce un nuovo modo di accesso alla Corte di Strasburgo, prevedendo che le più alte giurisdizioni nazionali degli Stati membri del Consiglio d’Europa, individuate da ciascuno Stato, possano presentare richieste motivate di pareri consultivi su questioni di principio relative alla interpretazione e all’applicazione della CEDU[5], e che, qualora un collegio di cinque giudici decida di accogliere la richiesta, la Grande Camera della Corte di Strasburgo risponda all’autorità giudiziaria nazionale con un parere consultivo motivato e non vincolante[6].

    Tra luglio e settembre di quest’anno le commissioni parlamentari, concentrandosi sul disegno di legge governativo[7], hanno stralciato il riferimento al Protocollo n. 16. A fine settembre il medesimo disegno di legge è stato approvato dall’aula, naturalmente con un altro titolo, limitato alla “ratifica ad esecuzione del Protocollo n. 15”, ed è stato quindi trasmesso al Senato della Repubblica, dove ora attende di essere approvato[8].

    Se non ci fossero alcuni elementi che fanno propendere per una diversa lettura dell’intera vicenda, si potrebbe anche dire che la scelta politica di separare i destini dei due impegni internazionali – dando assoluta priorità alla ratifica del Protocollo n. 15 e prendendo invece più tempo per riflettere sulle modalità di attuazione del Protocollo n. 16 – sia stata saggia.

    È vero che nell’ambito del Consiglio d’Europa il processo che ha dato origine ai due protocolli è stato unitario, ma le differenze tra i due strumenti sono tali da giustificarne un esame separato e tempi diversi per la loro approvazione in sede nazionale.

    Il Protocollo n. 15, infatti, introduce modifiche al testo della Cedu (nella parte relativa alla garanzia giurisdizionale della stessa Cedu) e, di conseguenza, non potrebbe non essere recepito in modo identico da tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, che in quanto tali sono vincolati integralmente al testo della Cedu. È previsto dunque che esso possa entrare in vigore solo se adottato da tutti gli Stati[9] e, naturalmente, non è concepibile alcuna discrezionalità degli Stati quanto alla scelta delle modalità della sua esecuzione. Il recepimento da parte dell’Italia è allora certamente opportuno, perché un rifiuto italiano impedirebbe l’entrata in vigore del Protocollo, e dunque potrebbe essere letto – sul piano delle relazioni internazionali – come uno sgradevole sabotaggio del sistema Cedu, dato che la riforma è stata voluta, in particolare, per migliorarne l’efficienza. Si tratta, inoltre, di un’operazione non problematica né laboriosa, perché il Parlamento è chiamato a valutare soltanto l’an del recepimento, e null’altro.

    Inoltre, la ratifica non sembra soltanto opportuna, ma anche urgente, dato che l’Italia è l’unico Stato, dei 47 membri del Consiglio d’Europa[10], a non avere ancora recepito il Protocollo, nonostante siano ormai trascorsi oltre sette anni dalla sua apertura alla firma[11]. Lo stesso ulteriore ritardo, dunque, potrebbe essere percepito come un altrettanto sgradevole sabotaggio della riforma del sistema Cedu.

    Il Protocollo n. 16, invece, è opzionale. Per di più, essendo stato ratificato da più di dieci Stati, previsti come numero minimo per la sua entrata in vigore, esso è già pienamente operativo da oltre due anni[12]. Non vi è dunque alcun motivo di opportunità politica nelle relazioni con gli altri Stati del Consiglio d’Europa per procedere alla ratifica, né, ovviamente, vi è alcuna urgenza di ratificarlo. Un eventuale rifiuto o un recepimento tardivo da parte dell’Italia non produrrebbero conseguenze dirette e immediate sull’efficienza del sistema di controllo giurisdizionale della Cedu, anche se naturalmente più sono gli Stati che lo recepiscono e più è possibile che lo strumento del parere preventivo raggiunga lo scopo per il quale è stato concepito che – bisogna ricordarlo – è quello della prevenzione di violazioni future e del contenimento del numero di ricorsi individuali[13]. Inoltre, l’adesione al Protocollo n. 16 comporta, da parte di ciascuno Stato, la necessità di compiere alcune scelte discrezionali da valutare attentamente. Tra queste vi è la selezione delle “più alte giurisdizioni” nazionali abilitate a richiedere il parere alla Corte di Strasburgo e la predisposizione di norme processuali relative alla possibilità (o alla necessità) della sospensione dei processi pendenti davanti ai giudici nazionali che fanno la richiesta.

    Considerando le differenze tra i due Protocolli, dunque, come dicevo, la decisione della Camera dei deputati di scindere i destini dei due Protocolli per assegnare una corsia preferenziale alla ratifica del Protocollo n. 15 potrebbe sembrare saggia, data l’assenza di discrezionalità dell’operazione di recepimento e la sua assoluta urgenza sul piano delle relazioni internazionali; come del resto potrebbe apparire opportuno un supplemento di riflessione in sede parlamentare sul Protocollo n. 16, allo scopo di meglio valutare il contenuto della legge di esecuzione, eventualmente anche alla luce della prima prassi applicativa. Ad esempio, se si vedesse che i tempi di decisione da parte della Corte di Strasburgo su una richiesta di parere consultivo si allungano, superando i sei mesi nei quali è stato reso il primo parere[14], potrebbe essere utile vietare, invece che lasciare facoltativa, la sospensione del giudizio davanti al giudice nazionale, in modo da fare pressione sulla Corte di Strasburgo per ottenere una decisione in tempi rapidissimi, sotto la ‘minaccia’ della formazione di un giudicato nazionale in possibile contrasto con gli obblighi convenzionali.

    Lo stralcio del Protocollo n. 16 dal disegno di legge, tuttavia, non sembra essere stato dettato da una simile pacata prudenza e dalla ricerca di soluzioni più mature.

    È successo invece che, dopo avere ascoltato le opinioni espresse da autorevoli studiosi in sede di audizione parlamentare – studiosi peraltro a me pare selezionati senza curarsi di dare voce al pluralismo delle posizioni presenti all’interno dell’accademia – alcuni deputati si sono dichiarati “spaventati” da quanto emerso nelle audizioni e hanno colto l’occasione per parlare di “un provvedimento […] preoccupante per la giustizia italiana e preoccupante per i diritti civili del popolo italiano”, di una “deriva europeista in campo giuridico” e della “paura” di una “supercortecostituzionale europea”[15].

    Dal canto suo, la relatrice per la commissione Affari esteri e comunitari[16], esprimendosi anche a nome della relatrice per la commissione Giustizia[17], ha affermato che il disegno di legge è stato emendato “al fine di rinviare al futuro” la ratifica del Protocollo n. 16 “a causa di profili di criticità connessi al rischio di erosione del ruolo delle alte Corti giurisdizionali italiane e dei principi fondamentali del nostro ordinamento”, formulando tuttavia comunque “l’auspicio” di una sua rapida approvazione, per rimuovere  “l’ultimo ostacolo rimasto all'entrata in vigore del Protocollo, dando un'ulteriore concreta testimonianza dell'impegno del nostro Paese per una piena salvaguardia dei diritti umani a livello globale, che costituisce un pilastro della nostra politica estera”[18] [19].  

    2. Come tornare a discutere meglio del Protocollo n. 16

    Lo scopo di questo mio breve scritto è offrire qualche spunto di riflessione per l’evenienza, auspicata come si è visto nella stessa sede parlamentare[20], e dunque altamente probabile, che il progetto di legge relativo all’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 sia ripresentato e nuovamente discusso.

    La mia speranza, lo dico subito, è che si superino le perplessità e si giunga alla ratifica del Protocollo, e che lo si faccia in un futuro non troppo lontano[21].

    È sempre possibile, tuttavia, che il nostro Parlamento, dopo un confronto più aperto e sereno di quello appena svolto, in quanto ormai non più pressato dall’urgenza di autorizzare la ratifica del Protocollo n. 15, possa comunque valutare questo strumento internazionale inutile per il nostro Paese, e decidere così definitivamente di non autorizzarne la ratifica.

    In relazione quest’ultima ipotesi, che come ho detto non mi auguro, nutro comunque la speranza che l’eventuale rifiuto di adottare il Protocollo n. 16 si fondi su argomenti più corretti e concreti di quelli fino a questo momento utilizzati – a me pare in modo strumentale – per giustificarne il rinvio.

    Come cercherò ora di dimostrare, infatti, entrambi i “profili di criticità” finora addotti – e cioè il “rischio di erosione” tanto “del ruolo delle alte Corti giurisdizionali italiane” quanto “dei principi fondamentali del nostro ordinamento” – sono in realtà del tutto privi di fondamento.

    Nel paragrafo che segue proverò a smontare questo secondo argomento, che per comodità chiamerò “sovranista” dal punto di vista sostanziale, mentre nel successivo, e ultimo, paragrafo di questo breve scritto mi occuperò dell’argomento “sovranista” dal punto di vista giurisdizionale.  

    3. Contro l’argomento sovranista “sostanziale”

    Direi approssimativamente così: sbaglia, e di molto, chi ritiene che dare alle nostre giurisdizioni supreme la possibilità di richiedere pareri alla Corte di Strasburgo sul significato delle norme della Cedu esponga l’ordinamento italiano a essere colonizzato da quel giudice esterno e dalla sua visione dei diritti.

    È vero, anzi, tutto il contrario.

    Oggi, lo ricordo, funziona così. Normalmente, i giudici italiani, così come del resto il legislatore, per assegnare un contenuto all’obbligo internazionale che l’Italia ha assunto nel lontano 1955 quando ha deciso di recepire il testo della Cedu del 1950, sono tenuti semplicemente a conoscere e a tenere conto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Soltanto qualora si sia in presenza di una sentenza pilota resa nei confronti dell’Italia oppure di un orientamento interpretativo consolidato della Corte di Strasburgo – ed esclusivamente in questi due casi[22] – tutti i giudici italiani sono vincolati all’interpretazione della Cedu data dalla stessa Corte europea, e dunque sono obbligati a interpretare la legge italiana in senso conforme alla Cedu, così intesa, oppure, nel caso in cui il testo della legge italiana si opponga all’interpretazione conforme, sono tenuti a sollevare davanti alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale della legge nazionale per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., indicando, come parametro interposto, la disposizione della Cedu così come letta dalla giurisprudenza europea. A sua volta, la Corte costituzionale, se verifica che legge italiana effettivamente contrasta con una sentenza pilota o con la giurisprudenza consolidata di Strasburgo, dovrà eliminare la legge italiana, salvo che, applicando una sorta di controlimiti all’ingresso del diritto convenzionale, non verifichi che il diritto garantito dalla Cedu per bocca del suo giudice, entrando nell’ordinamento italiano, abbassa, invece che innalzare, il livello complessivo di tutela dei diritti già garantito dal quadro costituzionale interno.

    Come si vede, se si ritiene che il meccanismo ora descritto opponga una resistenza insufficiente ai valori e alle logiche proprie del diritto convenzionale europeo, la temuta colonizzazione da parte della Cedu e della Corte europea si è già verificata, e l’unico modo per sottrarvisi, ormai, sarebbe – paradossalmente – non già rifiutare la ratifica del Protocollo n. 16, bensì denunciare la nostra stessa adesione alla Cedu e, quindi, al Consiglio d’Europa. La possibilità delle corti supreme del nostro ordinamento di chiedere pareri consultivi alla Corte di Strasburgo non muterebbe in nulla questo meccanismo, né aggraverebbe i vincoli già esistenti a carico dell’ordinamento italiano.

    Al contrario, come dicevo, l’adesione al Protocollo n. 16 potrebbe, nell’ottica stessa dei sovranisti, potrebbe addirittura migliorare le cose, garantendo all’ordinamento italiano maggiori margini di manovra e soprattutto di negoziazione con Strasburgo.

    Se ci si pensa bene, infatti, praticamente tutta la giurisprudenza europea, compresa quella che già oggi è capace di entrare ‘a gamba tesa’ negli equilibri interni, è frutto, come si sa, di ricorsi individuali azionati dalle persone nei confronti del loro Stato, in reazione alle ingiustizie, o meglio alle violazioni di diritti convenzionali, da loro asseritamente subite.

    Dei ricorrenti è l’intera impostazione dell’atto introduttivo davanti alla Corte di Strasburgo: la presentazione dei fatti, l’esposizione delle lesioni, l’invocazione dei diritti convenzionali pertinenti, le motivazioni a sostegno della domanda, le richieste di ristoro.

    Gli Stati, e in particolare il governo italiano per i casi riguardanti l’Italia, hanno invece la possibilità di giocare solo di difesa, e mai d’attacco, perché possono solo rispondere alle questioni poste dai ricorrenti così come da loro impostate. Il governo, tra l’altro, di solito non può nemmeno giovarsi, per correggere l’impostazione della questione data dai ricorrenti, di quella conoscenza diretta dei fatti di cui invece dispongono gli organi giurisdizionali nazionali che in prima battuta si sono occupati delle vicende del ricorrente.

    Le conseguenze di questo assetto sono evidenti. Come è noto, infatti, il modo in cui una domanda viene posta, gli obiettivi che la domanda persegue, e lo stesso soggetto che la pone, condizionano sia la qualità sia gli stessi contenuti della risposta.

    Se si vogliono risposte buone bisogna fare domande buone: garbage in, garbage out (GIGO) dicono gli informatici. E, soprattutto, se la risposta non soddisfa, probabilmente è la domanda a essere sbagliata, come insegna quel famoso racconto di saggezza orientale nel quale un monaco aveva chiesto al padre spirituale se poteva fumare mentre pregava, e aveva avuto risposta negativa; mentre un altro monaco aveva chiesto allo stesso padre spirituale se poteva pregare mentre fumava, e gli era stato consentito.

    Nella stessa ottica dei sovranisti, dunque, che hanno a cuore – come è emerso dal dibattito parlamentare – la non ingerenza della Corte di Strasburgo in questioni come la maternità surrogata, il regime del carcere duro e l’immigrazione, è davvero meglio che le domande alla Corte di Strasburgo sull’estensione dei diritti garantiti dalla Cedu, e la narrazione dei fatti che stanno alla base della ritenute violazioni dei diritti nei singoli casi, siano fatte soltanto da coloro che ritengono di avere subito un torto, e cioè da coloro che hanno commissionato un bambino all’estero pagando per avere un utero in affitto, da un detenuto al 41-bis o da un immigrato irregolarmente entrato in Italia? Oppure gli stessi sovranisti non preferirebbero che a chiedere lumi a Strasburgo fosse (anche) la Corte di Cassazione o il Consiglio di Stato, e cioè un giudice supremo del nostro ordinamento che non ha a cuore soltanto il soddisfacimento della pretesa individuale, ma muove da una visione di sistema, ha in mente la complessità dei diritti e dei valori in gioco, e nel giudicare del caso concreto nutre contemporaneamente preoccupazioni ordinamentali?

    Inoltre, la lunga esperienza del meccanismo incidentale – quello del controllo di costituzionalità e quello del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia – insegna che i contenuti non sono veicolati soltanto nella fase discendente, e cioè dal giudice che risponde al giudice che ha posto la domanda, di solito con effetto vincolante (effetto vincolante che tra l’altro nel caso del meccanismo di parere consultivo previsto dal Protocollo n. 16 è espressamente escluso).

    Al contrario, uno dei pregi nascosti del meccanismo incidentale è quello di consentire di veicolare contenuti innanzitutto nella fase ascendente, dal giudice che pone la domanda al giudice che poi dovrà rispondere. E questo pregio si apprezza soprattutto quando i due giudici appartengono a ordinamenti diversi, che rispondono a logiche e a valori differenti.

    Insomma, se entrasse in vigore anche per noi il Protocollo n. 16 e una corte suprema dell’ordinamento italiano decidesse di porre una domanda a Strasburgo, sono convinta che lo farebbe anche e soprattutto per portare a conoscenza della Corte europea dei diritti dell’uomo la prospettiva del nostro ordinamento, illustrando il suo modo di funzionare, il quadro costituzionale vivente, i problemi della nostra pubblica amministrazione, le caratteristiche del nostro territorio, i movimenti culturali presenti nella società civile e la loro attuale consistenza, i punti di forza e di debolezza del nostro sistema giurisdizionale di tutela dei diritti, e così via[23].

    Si tratta di un patrimonio di conoscenze che è molto difficile che possa emergere oggi negli a volte scarni interventi del nostro governo, che per di più – come si è detto – non possono fare altro che reagire, rispondendo puntualmente a uno stimolo o a una provocazione proveniente dal singolo individuo ricorrente a Strasburgo, e non si giovano del grande vantaggio di potere dare l’impostazione iniziale alla questione su cui la Corte di Strasburgo dovrà poi pronunciarsi.

    Non bisogna dimenticare, poi, che anche nei procedimenti eventualmente sorti a seguito di richiesta di parere consultivo da parte di una delle supreme magistrature italiane il governo italiano avrebbe comunque l’occasione di presentare il proprio punto di vista, e cioè il punto di vista della maggioranza politica del momento. Aggiungendosi questa seconda, e diversa, prospettiva agli elementi e agli argomenti offerti da giudice italiano richiedente, il risultato sarebbe quello di offrire alla Corte europea un quadro veramente completo e attendibile della situazione normativa, fattuale e valoriale del nostro ordinamento.

    Gli effetti di una conoscenza completa da parte della Corte di Strasburgo del punto di vista dell’ordinamento italiano sono duplici e di immediata evidenza. Da una parte, la Corte europea, bene informata e consapevole del nostro punto di vista, nel decidere la questione non potrà ignorarlo, e quindi esprimerà necessariamente un’opinione migliore, anche nell’ottica degli stessi sovranisti, di quella che avrebbe espresso a seguito di un ricorso individuale sul medesimo tema.

    Dall’altra parte, la cultura costituzionale del nostro Paese, espressa nella richiesta di parere consultivo di una corte suprema italiana, completata dall’eventuale intervento del nostro governo e poi rifluita nel successivo parere della Corte di Strasburgo, avrà concrete chance di portare un contributo originale e significativo allo sviluppo della giurisprudenza europea, con beneficio generale del sistema Cedu nel suo complesso e, si immagina, con soddisfazione, ancora una volta, degli stessi sovranisti italiani.

    Del resto, occupandosi dell’analogo, anche se per molti versi differente, meccanismo del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, la dottrina è giunta proprio alla medesima conclusione: che cioè per avere voce in capitolo sulle questioni che riguardano i diritti fondamentali per un giudice avere “la prima parola”, in modo da “fissare il quadro dei riferimenti e dei problemi”[24], è addirittura meglio di riuscire a dire “l’ultima parola” (anche perché in un ordinamento multilivello e complesso come quello in cui ci troviamo una parola veramente definitiva forse non si dà mai)[25].

    Ma non è tutto. Come qualcuno ha già correttamente osservato, il Protocollo n. 16, una volta recepito, offrirebbe alla cultura giuridica italiana la straordinaria opportunità, che la via ordinaria del ricorso individuale oggi non consente, di essere apprezzata fuori dai confini nazionali.

    Proprio dall’ordinamento italiano, infatti, tramite la corte suprema nazionale che formula la richiesta di parere, e con l’autorevolezza propria di quella corte – che potrebbe anche essere la stessa Corte costituzionale – potrebbe partire l’impulso per indurre la Corte di Strasburgo a correggere, o a mutare, un orientamento interpretativo consolidato[26].

    La cultura costituzionale italiana e i bilanciamenti dei diritti da noi praticati potrebbero infatti utilmente essere sottoposti al giudice europeo per convincerlo, con validi argomenti, a cambiare rotta su un tema specifico. Con l’ulteriore, fondamentale, conseguenza pratica che una legge italiana eventualmente in contrasto con un vecchio orientamento della Corte europea, in seguito rivisto, non dovrebbe più essere dichiarata incostituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

    Anche quest’ultimo elemento, mi pare, potrebbe indurre i nostri sovranisti a considerare il recepimento del Protocollo n. 16 come una garanzia, e non già una minaccia, per l’identità costituzionale italiana.  

    4. Contro l’argomento sovranista “giurisdizionale”

    Il secondo argomento che pare avere indotto lo stralcio del Protocollo n. 16 dal disegno di legge è “il rischio di erosione del ruolo delle alte Corti giurisdizionali italiane”.

    Per dimostrare che i timori in tale senso sono completamente infondati servono pochissime battute.

    Quanto detto finora dimostra che il ruolo dei giudici nazionali supremi indicati nel testo della legge di recepimento verrebbe rafforzato, e non già eroso, dato che la ratifica del Protocollo n. 16 porterebbe in dono a tutti loro la possibilità di influire sul contenuto delle decisioni della Corte di Strasburgo.

    Di recessione del ruolo dei supremi giudici italiani – Corte costituzionale compresa – all’interno del panorama delle altre supreme giurisdizioni nazionali si dovrebbe piuttosto parlare nel caso opposto. Qualora l’Italia non recepisse il Protocollo, infatti, le alte corti italiane resterebbero loro malgrado mute e passive di fronte a qualunque posizione assunta dalla Corte europea, al contrario delle alte corti dei paesi che hanno già recepito il Protocollo, le quali invece già oggi sono abilitate a portare a Strasburgo il loro punto di vista alternativo.

    Un’ultima osservazione va fatta con specifico riguardo al ruolo della Corte costituzionale, che secondo gli avversari del Protocollo n. 16 sarebbe messo in grave pericolo.

    Gli argomenti in questo senso sono due. Il primo è l’argomento della “super Corte costituzionale europea”, evocato come si è visto da qualche deputato, ma ancor prima suggerito in sede di audizione parlamentare da un mio collega, secondo il quale la nuova procedura consentirebbe alla Corte di Strasburgo di intervenire “nei casi più delicati”, o più “spinosi”, “fornendo “una propria lettura dei diritti che potrebbe essere diversa da quella fatta propria dalla Costituzione italiana e relegherebbe a un ruolo di secondo piano la Consulta”[27]. Si tratta di un argomento poco comprensibile.

    Innanzitutto, bisogna pensare che potrebbe essere la stessa Corte costituzionale a voler richiedere il parere, esercitando il suo diritto alla prima parola e impostando il problema in modo mirato e con un occhio di riguardo ai bilanciamenti propri della Costituzione italiana.

    In ogni caso, poi, si deve ricordare che le pronunce della Corte di Strasburgo incidono soltanto sul significato del parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., e che, comunque, solo una pronuncia pilota o una giurisprudenza consolidata della Corte di Strasburgo può fissarne il significato in modo vincolante anche per la stessa Corte costituzionale.

    In terzo luogo, se pure il parere preventivo reso dalla Corte di Strasburgo venisse a inserirsi nel flusso della giurisprudenza in modo tale da consolidarla, la Corte costituzionale avrebbe comunque l’ultima parola sulle ricadute di quella giurisprudenza europea consolidata nel nostro ordinamento[28], nel senso che avrebbe almeno due strumenti per evitare di dichiarare incostituzionale una legge italiana contrastante con quella giurisprudenza: sia la facoltà di giudicare incostituzionale il parametro interposto sia la possibilità, di cui si è già detto, di applicare quella sorta di controlimiti che impediscono a un diritto proveniente dall’esterno dell’ordinamento di produrre conseguenze in Italia se il suo ingresso, anziché aumentare il livello complessivo di tutela dei diritti già garantito dalla Costituzione italiana, produce l’opposto effetto di abbassarlo).

    La seconda preoccupazione riguarda il fatto che le alte corti italiane, ordinaria e amministrative, qualora dubitino della conformità della legge sia alla Cedu che alla Costituzione italiana possano ‘scavalcare’ la Corte costituzionale scegliendo di rivolgersi prima alla Corte di Strasburgo[29].

    Anche questa seconda preoccupazione sembra priva di fondamento. Si deve infatti ricordare che il problema della priorità da dare all’incidente di costituzionalità è serissimo, ed è ben conosciuto dalla stessa Corte costituzionale, che non a caso da tempo sta cercando di risolverlo, quando il competitor è il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. In quel caso, infatti, la posta in gioco è molto alta, perché consentire che i giudici diano sempre la priorità ai profili di contrasto con il diritto dell’Unione europea, nel caso in cui la questione riguardi il rispetto dei diritti fondamentali garantiti sia a livello dell’Unione europea (in particolare, ma non solo, dalla Carta dei diritti fondamentali), sia dalla Costituzione italiana, vuole dire aprire la strada, in tutti i settori dell’ordinamento italiano interessati dal diritto dell’Unione, al sindacato diffuso della legge, operato da ciascun giudice attraverso la non applicazione della legge contrastante con un diritto fondamentale. La posta in gioco, in altre parole, è la stessa sopravvivenza del sindacato accentrato di costituzionalità e della funzione principale attribuita alla Corte costituzionale.

    Nulla di tutto questo, invece, potrebbe dirsi qualora il Protocollo n. 16 fosse recepito dall’Italia.

    La disapplicazione della legge in contrasto con la Cedu, infatti, non è mai consentita nel nostro ordinamento. Non vi è dunque alcun pericolo che la priorità eventualmente data dalle alte corti ordinaria e amministrative alla richiesta di parere a Strasburgo generi un sindacato diffuso di convenzionalità e il conseguente svuotamento del ruolo della Corte costituzionale[30]. Essa, infatti, anche dopo una eventuale richiesta di parere preventivo a Strasburgo continuerà a essere regolarmente adita dai giudici al solo ricorrere dei presupposti di rilevanza e di non manifesta infondatezza delle questioni relative all’art. 117, primo comma, Cost.

    [1] A seguito dell’Editoriale pubblicato su questa Rivista, L’estremo saluto al Protocollo n. 16 annesso alla CEDU, in Giustizia insieme, 12 ottobre 2020, sono finora intervenuti A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbum?, ivi, 22 ottobre 2020, e C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, ivi, 3 novembre 2020.

    [2] In realtà il primo disegno di legge governativo per l’autorizzazione alla ratifica di entrambi i Protocolli, con testo parzialmente differente, risale alla XVII legislatura, nel corso della quale c’era stata anche l’approvazione da parte di un ramo del Parlamento (C.2801, che aveva assorbito il ddl C.3132, presentato il 30 dicembre 2014 e approvato il 26 luglio 2017).

    [3] Si tratta della proposta di legge C.35, presentata il 23 marzo 2018.

    [4] Ci si riferisce al disegno di legge C.1124, presentato il 10 agosto 2018.

    [5] In realtà il testo del Protocollo mette la disgiuntiva “o”: sul punto, criticamente, V. Zagrebelsky, Parere consultivo della Corte europea dei diritti umani: vera e falsa sussidiarietà, e G. Sorrenti, Un’altra cerniera tra giurisdizioni statali e Corti sovranazionali? L’introduzione della nuova funzione consultiva della Corte di Strasburgo da parte del Prot. 16 Cedu, entrambi in La richiesta di pareri consultivi alla Corte di Strasburgo da parte delle più alte giurisdizioni nazionali. Prime riflessioni in vista della ratifica del Protocollo 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a cura di E. Lamarque, Torino, 2015, rispettivamente pp. 94 e 151.

    [6] Artt. 1-5 del Protocollo n. 16.

    [7] C.1124 era stato adottato come testo base il 4 marzo 2020.

    [8] S.1958. Il 3 novembre 2020 è stato concluso l’esame in commissione.

    [9] Art. 7 del Protocollo n. 15.

    [10] Anche la Bosnia e Erzegovina vi ha infatti ora provveduto (18 settembre 2020).

    [11] Il Protocollo n. 15 era stato aperto alla firma delle Alte Parti contraenti il 24 giugno del 2013.

    [12] È infatti entrato in vigore il 1° agosto 2018.

    [13] Sottolineano bene che alla base del nuovo istituto introdotto dal Protocollo n. 16 vi è l’intento deflattivo del contenzioso E. Crivelli, Il protocollo n. 16 alla Cedu: la tutela dei diritti nella prospettiva del nuovo rinvio interpretativo alla Corte di Strasburgo, in Scritti in onore di Maurizio Pedrazza Gorlero. Volume I. I diritti fondamentali fra concetti e tutele, Napoli, 2014, pp. 145 ss. e A. Guazzarotti, La parabola della costituzionalizzazione delle tutele della Cedu: rapida ma anche inarrestabile?, in La Corte europea dei diritti dell’uomo. Quarto grado di giudizio o seconda Corte costituzionale?, a cura di C. Padula, Napoli, 2016, p. 37.

    [14] Ci si riferisce al parere reso dalla Corte di Strasburgo su richiesta della Cassazione francese. Per i riferimenti precisi e un commento si veda R. Russo, Il caso Mennesson, vent’anni dopo. divieto di maternità surrogata e interesse del minore. Nota a Arrêt n°648 du 4 octobre 2019 (10-19.053) – Cour de Cassation – Assemblée plénière, in questa Rivista, 20 novembre 2019.

    [15] Così il deputato Di Muro (Lega) nelle dichiarazioni di voto finale del 28 settembre 2020.

    [16] Ehm (M5S).

    [17] Giuliano (M5S).

    [18] XVIII Legislatura, Resoconto stenografico dell'Assemblea, Seduta n. 399 di lunedì 28 settembre 2020 (Discussione sulle linee generali – A.C. 1124-A e abbinata).

    [19] Come bene rileva R. Conti, Chi ha paura del Protocollo 16 – e perché, in Sistema penale, 2020, pp. 2 ss., tuttavia, le riserve espresse dalla dottrina riguardano anche il tema più ampio del suprematismo giudiziario, che tuttavia in sede parlamentare è restato sullo sfondo.

    [20] Oltre alla promessa di “rinviare al futuro” l’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 formulata dalla relatrice per la Commissione Giustizia, di cui sopra si è detto, va ricordato anche, in particolare, che la Commissione politiche dell’Unione europea ha espresso parere favorevole all’espunzione dal testo del disegno di legge del riferimento al Protocollo n. 16 “con un’osservazione che invita le Commissioni ad addivenire quanto prima anche alla ratifica del Protocollo n. 16 al fine di potersi avvalere di nuovi strumenti atti a favorire ulteriormente l'interazione e il dialogo tra i giudici nazionali e la Corte europea dei diritti dell'uomo, in coerenza con l'obiettivo di una maggiore armonizzazione ed efficacia nella tutela dei diritti e delle libertà fondamentali contemplati nella Convenzione e nei suoi Protocolli” (lo ricorda il deputato Cabras in sede di Commissioni riunite Giustizia e Affari esteri e comunitari nella seduta del 23 settembre 2020.

    [21] Il mio interesse a che l’Italia si doti di questo strumento è risalente nel tempo. Il volume La richiesta di pareri consultivi alla Corte di Strasburgo da parte delle più alte giurisdizioni nazionali. Prime riflessioni in vista della ratifica del Protocollo 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., infatti, raccoglie gli atti di un convegno sul tema da me organizzato proprio a ridosso dell’adozione del Protocollo da parte del Consiglio d’Europa.

    [22] Corte cost., sent. n. 49 del 2015.

    [23] R. Conti, La richiesta di parere consultivo alla Corte europea delle alte corti introdotto dal Prot. 16 CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in La richiesta di pareri consultivi alla Corte di Strasburgo da parte delle più alte giurisdizioni nazionali. Prime riflessioni in vista della ratifica del Protocollo 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 106, osserva che in questo modo si potrebbe stemperare “l’accusa che talvolta si muove alle sentenze della Corte di Strasburgo di non avere bene calibrato il quadro normativo e giurisprudenziale interno potendo il giudice nazionale, forte della sua intrinseca carica di imparzialità e terzietà, fornire ogni elemento utile di valutazione alla Corte europea”.

    [24] D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bologna, 2020, p. 252.

    [25] Questa conclusione è stata formulata dalla dottrina casi di doppia pregiudizialità, costituzionale ed europea, in relazione ai quali sembra opportuno che i giudici comuni passino la parola alla Corte costituzionale prima che alla Corte di Giustizia. Essa è ripetuta, tuttavia, anche in relazione alla scelta della Corte costituzionale di rivendicare una sorta di diritto alla prima parola in ambito europeo, utilizzando essa stessa lo strumento del rinvio pregiudiziale. Si è constatato che, grazie ad atti di rinvio approfonditamente argomentati e orientati verso le soluzioni auspicate, la Corte costituzionale riesce a portare all’attenzione della collega europea le esigenze costituzionali specifiche del nostro ordinamento e ottiene poi che esse siano prese in dovuta considerazione, come dimostra l’emblematica vicenda Taricco. Discorre di “un sistema “a rete”, in cui la prima parola è spesso quella più importante”, N. Lupo, Con quattro pronunce dei primi mesi del 2019 la Corte costituzionale completa il suo rientro nel sistema “a rete” di tutela dei diritti in Europa, in Federalismi.it, n. 3/2019, pp. 20 ss. e ancor prima Id., The Advantage of Having the “First Word” in the Composite European Constitution, in Italian Journal of Public Law, 2018, n. 2 (special issue on “Constitutional Adjudication in Europe between Unity and Pluralism”, edited by P. Faraguna, C. Fasone, G. Piccirilli), pp. 186 ss., ma si vedano ancora, in proposito, almeno M. Massa, La prima parola e l’ultima. Il posto della Corte costituzionale nella tutela integrata dei diritti, in Dir. pubbl. comp. ed eur., n. 3, 2019, pp. 737 ss.; V. Sciarabba, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Corte costituzionale, in Consulta on line, 2019, p. 546; G. Martinico e G. Repetto, Fundamental Rights and Constitutional Duels in Europe: An Italian Perspective on Case 269/2017 of the Italian Constitutional Court and Its Aftermath, in Eur. Cost. Law Rev., Vol. 15, Issue 4, December 2019, p. 734, e D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, cit., pp. 184 ss., 232, 252 ss. L’espressione “prima parola” è presente, tra virgolette, anche nel testo di una sentenza della stessa Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 20 del 2019, par. 2.3.).

    [26] M. Lipari, Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16 annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU): il dialogo concreto tra le Corti e la nuova tutela dei diritti fondamentali davanti al giudice amministrativo, in Federalismi, n. 3/2019, p. 35.

    [27] F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n. 15 e 16 alla CEDU, in dirittifondamentali.it, 2019, pp. 7-8. Perplessità molto più sfumate, sul punto, sono espresse anche da G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Federalismi, n. 5/2019, p. 10.

    [28] Se ho ben compreso, invece, G. Zampetti, Ordinamento costituzionale e Protocollo n. 16 alla CEDU: un quadro problematico, in Federalismi, n. 3/2020, p. 169, teme, a mio parere erroneamente, che l’influenza del parere eventualmente reso dalla Corte di Strasburgo su richiesta di un giudice supremo italiano diverso dalla Corte costituzionale possa pregiudicare la successiva decisione della Corte costituzionale.

    [29] M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, in Sistema penale, 2019, p. 6.

    [30] Chiarissimo, in questo senso, R. Sabato, Sulla ratifica dei Protocolli n. 15 e16 della CEDU, in Sistema penale, 2019, p. 5.


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