La tentazione tirannica dei valori assoluti[1]
di Alessio Lo Giudice
Sommario: 1. Fenomenologia del conflitto in epoca pandemica. – 2. La strada dei valori assoluti. – 3. Etica dei valori ed etica dei principi. – 4. Il rischio della deriva proceduralista e i benefici della mediazione.
1. Fenomenologia del conflitto in epoca pandemica
L’odierno e diffuso utilizzo del termine crisi nelle letture della (e sulla) pandemia acquista un significato preciso nella misura in cui lo associamo proprio alla necessità di assumere decisioni, politiche e giuridiche, in presenza di un conflitto tra principi fondamentali, talvolta rappresentati come espressione di veri e propri valori assoluti. Nella misura, cioè, in cui interpretiamo la nostra condizione come quella di un sistema sociale che, a più livelli, si è trovato, e si trova, sistematicamente di fronte alla necessità di giudicare e decidere con il tempo che stringe tra istanze configgenti e parimenti tutelate non solo dall’ordinamento giuridico ma anche dal tessuto valoriale ampiamente condiviso nel contesto socio-culturale di riferimento. È questa la situazione che hanno dovuto gestire i medici dei reparti di rianimazione quando, a corto di posti disponibili in terapia intensiva e a fronte di una serie di motivate richieste di ricovero, sono stati chiamati a giudicare chi meritava, più degli altri, di essere curato. Ma è analoga, al netto di tutte le differenze specifiche, la situazione che il decisore politico ha dovuto affrontare di fronte al dilagare dell’epidemia, prima di procedere alla chiusura delle attività sociali e produttive. Oggi, lo stesso decisore politico si trova ancora a decidere, con urgenza, tra alternative che comunque si escludono, quando è chiamato a procedere alla riapertura o alla richiusura delle attività a fronte dei risultati del contenimento del contagio; quando è chiamato a decidere sull’opportunità o meno di prevedere l’obbligo vaccinale; quando è chiamato ad adottare misure, come nel caso del Green pass, che comunque incidono sull’esercizio di alcuni diritti fondamentali. Per non parlare, poi, di tutte le ulteriori scelte quotidiane che molti hanno dovuto compiere in tale contesto, posti di fronte ad alternative quali quelle tra affetto e salute, o tra lavoro e salute. In altre parole, il conflitto tra principi, spesso riconfigurato quale espressione del conflitto tra valori assoluti, indica l’esperienza diffusa che, con una maggiore frequenza a livello istituzionale e socio-culturale, stiamo vivendo a causa della pandemia, sebbene rappresenti una situazione ricorrente nelle società tardo-moderne caratterizzate da un sempre crescente pluralismo etico[2].
Ciò che la crisi pone in risalto, del resto, è l’urgenza della scelta in assenza di criteri generali certi, indiscutibili e stabili, nonostante l’esistenza di norme di vario rango, di linee guida, principi deontologici, pareri scientifici e tecnici. Scelte che implicano la necessità di optare tra alternative in ogni caso riconducibili a istanze profondamente umane, legate alla natura dell’uomo e agli interessi che storicamente prevalgono. Questa è la situazione dei medici di fronte al dilemma etico, alla scelta tragica da compiere nel triage. Bisogna seguire a tutti i costi il principio della parità di trattamento? Occorre seguire il criterio della maggiore probabilità di successo clinico, con l’annessa valutazione sul discutibile parametro dell’aspettativa di vita? O invece basterebbe attenersi al criterio cronologico: chi prima arriva viene curato fino ad esaurimento posti? Ma simile è anche la situazione che il decisore politico deve affrontare di fronte alla necessità di aprire o chiudere lo spazio sociale ed economico-produttivo. Lo è perché si tratta di bilanciare, in concreto, principi e interessi costituzionalmente protetti che, nel loro insieme, esprimono la trama complessa di una società. Mettere in discussione uno qualsiasi di questi principi, dalle libertà alla salute, dall’uguaglianza all’iniziativa economica, comporta comunque una ferita nel tessuto sociale con tempi di recupero assolutamente non prevedibili. Una ferita, soprattutto, che rischia di ampliarsi a dismisura, senza che sia possibile immaginare di rimarginarla, se il conflitto in questione assume sempre più le caratteristiche di una lotta tra valori assoluti che si mostrano resistenti di fronte a qualsiasi ipotesi di mediazione.
2. La strada dei valori assoluti
Ebbene, la strada dei valori, se questi ultimi, occorre precisare, vengono intesi come ideali e assoluti, rischia di condurre a conflitti sempre più irrisolvibili[3]. Per essere più precisi, tale strada equivale alla pretesa e alla prassi di ricorrere a valori assoluti nel momento in cui sorge il problema di giustificare o contestare, a diversi livelli, una decisione politica e giuridica. Intendo, in particolare, sostenere come siffatta forma di giustificazione, concepita come attuazione materiale di valori ritenuti assoluti, sia intrinsecamente conflittuale.
A prescindere dalla caratterizzazione morale di molti conflitti contemporanei, specie in epoca pandemica, può in proposito considerarsi anche un’analisi concettuale frutto di una tradizione consolidata. Ci sono certo riflessioni che puntano proprio a sottolineare la conflittualità strutturale della prassi politico-giuridica fondata sui valori assoluti. Ma è significativo potersi riferire anche agli studi di coloro che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX hanno fondato filosoficamente un’etica materiale dei valori. Si pensi a Max Scheler o a Nicolai Hartmann. In particolare, quest’ultimo individua nel tendenziale aspetto tirannico del valore un tratto tipico dei rapporti di opposizione tra i valori stessi: «Ogni valore – una volta che ha acquistato potere su di una persona – ha la tendenza di erigersi a tiranno esclusivo dell’intero ethos umano, ed invero alle spese di altri valori, anche di quelli che non gli sono materialmente contrapposti»[4].
In realtà, come anticipato in precedenza, la conflittualità è una componente strutturale di un certo modo di intendere i valori. Se intesi come assoluti, tali cioè da ordinare in maniera onnicomprensiva e totalizzante una forma di vita, non possono che comportare l’esclusione di valori alternativi che si presentano come altrettanto assoluti. A questo proposito Carl Schmitt, ragionando proprio sulla tirannia dei valori indicata da Hartmann, afferma: «I valori per quanto alti e santi, come valori, valgono sempre e soltanto per qualcosa e per qualcuno»[5].
Riferimento classico, nel riflettere sull’ontologia del conflitto di valori, è l’idea della pluralità di valori come centri normativi avanzata da Max Weber, espressione del fallimento dei progetti di neutralizzazione etica che si sono susseguiti nella modernità. Il politeismo dei valori, così concepito, è più il riflesso dell’insufficienza regolativa e integrativa del modello di razionalità autoreferenziale, che il residuo dell’implosione di una precedente omogeneità culturale: «Gli antichi dèi, spogliati del loro incanto e perciò in forma di potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e ricominciano la loro eterna lotta»[6].
Una tale contesa è in realtà lo scontro tra posizioni comunque situate storicamente che pretendono di imporre concezioni del mondo assolutizzanti. Posizioni cioè che divinizzano il dato valoriale promuovendone la supremazia gerarchica che ne consegue. Da questo punto di vista, le riflessioni di Schmitt indicano quella che oggi potrebbe appunto essere definita la logica di chi incarna un’ingenua, quanto improbabile, concezione assoluta della libertà individuale: “Per la logica del valore deve sempre valere che per il valore supremo il prezzo più alto non è troppo alto, e deve essere pagato”[7].
Questo discorso trova un importante riscontro in un contesto filosoficamente distante da quello schmittiano. Jürgen Habermas, infatti, indicando nella mancata distinzione tra norme e valori un vizio metodologico, frutto dell’errata auto-interpretazione del proprio ruolo da parte della Corte Costituzionale tedesca, ha reiteratamente criticato la cosiddetta “giurisprudenza dei valori”. E ancora una volta sottolinea la conflittualità intrinseca rispetto a qualsiasi ordine di valori assoluti: “Valori differenti lottano per la prevalenza: nella misura in cui trovano riconoscimento intersoggettivo nell’ambito d’una cultura o d’una forma di vita, essi generano configurazioni flessibili e ricche di tensione”[8].
3. Etica dei valori ed etica dei principi
L’ispirazione per una prassi politico-giuridica valoriale in senso assoluto, e inevitabilmente conflittuale, nasce probabilmente dalla necessità di una legittimità sostanziale che rafforzi, o superi, il presunto debole fondamento del legalismo e del positivismo giuridico, nonostante la cornice del costituzionalismo del secondo novecento abbia condotto alla positivizzazione di una pluralità di valori attraverso principi normativi di chiara matrice morale. Secondo l’impostazione ispirata dall’etica dei valori di cui qui si sta discutendo, non basterebbe una teoria formale dei valori di stampo neokantiano. Sarebbe invece necessaria un’etica materiale che neutralizzi il pluralismo dei valori e dia vita a una filosofia dei valori assoluti, a una gerarchia di valori che quindi, in una certa misura, detti la forma e gli obiettivi delle decisioni politiche e giuridiche e delle corrispondenti contestazioni.
L’asserzione di un valore assoluto, se concepito come fondamento escludente che non ammette la possibilità di fondamenti “altri”, è però sostanzialmente un’asserzione negativa, legandosi alla simultanea affermazione di un disvalore. Secondo una tale visione, infatti, il valore vale nella misura in cui svaluta ciò che ad esso si contrappone, e che diviene quindi un non-valore o un valore negativo. A questo proposito basti pensare all’etica assiomatica di Scheler, in cui il rapporto con la negazione è costitutivo del valore stesso: “La non esistenza di un valore positivo è in sé un valore negativo; […] la non esistenza di un valore negativo è in sé un valore positivo”[9].
Di conseguenza, un agire politico o una prassi giurisdizionale che si autogiustifichino sulla base di un’etica materiale dei valori assoluti non potrebbe pretendere di colmare in questo modo la presunta carenza di legittimità sostanziale di decisioni guidate esclusivamente dalle norme di rango costituzionale. In realtà, l’aggressività di ogni decisione volta ad attuare un valore assoluto che esclude la legittimità di percezioni valoriali alternative è sintomo di parzialità: affermo il valore negando un non-valore. Ciò spesso equivale a dire: affermo una forma di vita negandone un’altra. Ma ciò che è buono per noi non è detto che sia buono per tutti. Occorrerebbe infatti chiedersi se l’universale, quale fondamento assoluto, divida o unisca, nel momento in cui se ne pretende la concretizzazione storica.
Proprio a partire da questo interrogativo si comprende la differenza tra l’etica dei valori assoluti e l’etica dei principi. Sebbene, infatti, entrambe le impostazioni possano avere per oggetto i medesimi beni (libertà, sicurezza, salute, vita etc.), i presupposti filosofici e gli esiti deliberativi sono prevalentemente antitetici. Ciò si comprende se si tiene a mente la natura tendenzialmente tirannica dei valori assoluti, per come è stata descritta nelle pagine precedenti. Non a caso, Gustavo Zagrebelsky riconfigura l’idea di valore come valore-fine: «Il valore, nel senso che qui interessa, è un bene finale, fine a se stesso, che sta innanzi a noi come una meta che chiede di essere perseguita attraverso attività teleologicamente orientate»[10]. Ciò comporta che l’etica derivante da una tale concezione dei valori sia un’etica dei fini. L’obiettivo etico è l’attuazione materiale del valore a prescindere dai mezzi o dalla procedura seguiti. Il criterio di legittimità della decisione assunta è la sua efficienza rispetto alla concretizzazione del valore in oggetto. Perde quindi di rilevanza la valutazione sul mezzo utilizzato e, di conseguenza, la possibile compresenza di altri valori confliggenti: «Tra l’inizio e la fine dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé qualsiasi azione che possa essere messa in rapporto di strumentalità efficiente rispetto al valore stesso»[11]. Siamo quindi di fronte non ad un’etica deontologica bensì ad un’etica del risultato.
L’etica dei principi, al contrario, ha una natura intrinsecamente deontologica, quindi normativa, e quindi giuridica. I principi, infatti, nella chiara distinzione proposta da Zagrebelsky, sono beni iniziali che, in quanto espressione di valori non assoluti, pretendono di realizzarsi attraverso mezzi determinati, coerenti con la natura del principio stesso: «L’agire “per principi” è intrinsecamente regolato e delimitato dal principio medesimo e dalle sue implicazioni: ex principiis derivationes»[12]. Si tratta dunque di un’etica dei mezzi e, conseguentemente, dei doveri. Ciò che conta è la strada seguita, ispirata dal principio e coerente con le implicazioni normative comprese nel principio stesso. Ebbene, proprio perché non regolata dall’efficienza e dal risultato, l’etica dei principi è, a differenza di quella materiale dei valori assoluti, non solo compatibile con i fondamenti teorico-istituzionali dello Stato di diritto, ma anche costitutiva della prassi giuridica nell’ambito di contesti sociali che tutelano il pluralismo etico e culturale. L’etica materiale dei valori assoluti, infatti, data la prospettiva dogmatica e gerarchica che la ispira, non ammette la logica del bilanciamento bensì quella della sopraffazione o contrapposizione irriducibile. Al contrario, l’etica dei principi, in quanto fondata su istanze valoriali che sono volte non all’efficienza e alla potenza del risultato ma a determinare la coerenza delle azioni ispirate dai principi stessi, senza che sia postulata una gerarchia statica tra di essi, contempla e alimenta la compresenza di più valori e il necessario bilanciamento tra principi quando alcuni di essi sono rilevanti rispetto alla situazione concreta oggetto di valutazione. Si comprende dunque quanto possa essere benefico un agire etico-giuridico fondato sui principi nei frangenti, come è quello attuale, di crisi emergenziale, e quanto, al contrario, possa essere deleterio, un agire per valori materiali ritenuti assoluti inevitabilmente volto a generare conflitti laceranti.
4. Il rischio della deriva proceduralista e i benefici della mediazione
L’etica dei principi pare dunque non solo più coerente, rispetto all’etica materiale dei valori assoluti, con l’impianto istituzionale dello Stato di diritto democratico di matrice costituzionale, ma anche più confacente alle esigenze che si pongono in una situazione di emergenza come è quella causata dalla pandemia da Covid-19. In realtà, la portata della questione si estende al fondamento da dare alla regolazione sociale. A una prima possibilità, che come si è visto comporta un’attuazione immediata e diretta di valori assoluti, può opporsi un’alternativa strategica, ispirata dall’etica dei principi, e fondata sull’applicazione di norme che regolino la coesistenza di prospettive morali differenti, tanto fondamentali quanto legittime, predeterminando proceduralmente anche il percorso da seguire nel processo di deliberazione. La prescrizione normativa, seguendo questa strategia, si configura concettualmente come rivolta a tutti. Allora, come sostiene Habermas, si tratta ancora una volta di apprezzare la differenza, nell’ottica della regolazione, tra un agire deontologico (guidato da norme) e uno teleologico (guidato da valori): «La domanda “che devo fare?” […] avrà nei due casi formulazioni e risposte diverse. Alla luce delle norme si può decidere cosa sia doveroso fare, nell’orizzonte dei valori cosa sia raccomandabile»[13].
Sulla base di queste premesse si possono pensare diversi modelli regolativi interni al paradigma dell’applicazione di norme. Due, in particolare, meritano attenzione in quanto pretendono, nel primo caso, di neutralizzare il dato valoriale, con tutti gli effetti controfattuali che ne conseguono, nel secondo caso, invece, di mutarne semplicemente l’auto-percezione.
Seguendo anzitutto la visione proceduralista, per uscire dal conflitto tra valori assoluti sarebbe necessario porre l’attenzione su elementi comunicativi e procedurali in grado di stabilire le condizioni di possibilità per una cooperazione tra forme di vita diverse. Ciò, allo stesso tempo, rispettando il progetto etico di ogni forma di vita nella misura in cui soddisfi i requisiti procedurali di comunicabilità che la convivenza tra differenti universi morali impone. A quest’esito giunge, ad esempio, la critica di Habermas alla filosofia dei valori: «Le etiche dei beni e le etiche dei valori isolano dei particolari contenuti normativi: ma le loro premesse normative – in una società moderna caratterizzata dal “pluralismo degli idoli” (Weber) – sono in realtà troppo “forti” per servire da base a decisioni universalmente vincolanti. Solo teorie morali e giuridiche impostate in senso procedurale possono promettere un procedimento imparziale per la fondazione e il confronto critico di principi diversi»[14].
Ma una tale impostazione riposa su una fiducia incondizionata negli effetti conciliativi di un dialogo proceduralmente regolato. Come se la prassi deliberativa, in sé, possa neutralizzare il conflitto di valori. In realtà, si tratta in questo caso di affidarsi ad assunti non dimostrati, e in una certa misura indimostrabili. Come la presunzione stessa della capacità innata degli individui di farsi guidare da un agire comunicativo regolato da una procedura. O come la credenza nell’attitudine degli individui a “mettersi nei panni degli altri” in virtù della semplice comunicazione reciproca.
Occorrerebbe allora individuare un’altra strada, attraverso cui pensare la regolazione sociale come applicazione di norme e decisioni. Potrebbe essere, a ben vedere, quella che in questa sede si propone di associare al concetto di mediazione. Non la mediazione garantita da una procedura, e neanche quella prodotta da una politica fondata sul mero calcolo delle convenienze. Mi riferisco invece alla mediazione tra portatori di valori che, se da una parte interpretano i propri valori come riferimenti identitari indispensabili, dall’altra non escludono la legittima capacità dei diversi soggetti di riconoscersi in valori fondamentali alternativi.
Un valore fondamentale, in sé, nella misura in cui venga inteso come dato assolutizzante, non può essere oggetto di mediazione; è concettualmente immediato. Richiedendo attuazione ad ogni costo, si impone. Al contrario, un valore che possiamo definire complementare a priori (nel senso che è in attesa di ricevere e fornire complemento senza essere il fondamento assoluto di un ordine ideale onnicomprensivo) è sostanzialmente un punto di vista degno del più alto riconoscimento. Dichiara la sua natura non assoluta e si mostra quindi disponibile alla mediazione. La complementarità di un valore, in questo senso, da una parte ne garantisce la rilevanza politica e giuridica quale punto di vista che esprime una forma di vita, dall’altra ne esclude l’aggressività quale centro onnicomprensivo di regolazione.
Non si tratta però di affidarsi agli effetti misteriosamente conciliativi di un dialogo potenziale tra portatori di punti di vista reciprocamente riconosciuti. Occorre invece riflettere sulla strutturale relazionalità dei valori: per cui ogni valore “vale” proprio in quanto strutturalmente in relazione – qualsiasi tipo di relazione, come abbiamo visto – con altri valori. Nella misura in cui il portatore del punto di vista acquista la consapevolezza della non esclusività della propria posizione, si profila l’esigenza di una visione panoramica dei contesti oggetto di regolazione. Cioè di una visione che cerchi di tener conto di tutti i punti di vista, in quanto di pari rango, poiché riconosciuti in un quadro metaetico condiviso[15].
La mediazione quindi non sorge come scelta etica, ma come esigenza regolativa fondata su una reinterpretazione della prospettiva da cui si agisce e del modo di autorappresentare la propria posizione. Se tanto le norme quanto le decisioni giudiziarie e gli atteggiamenti individuali fossero il prodotto di un tale capovolgimento prospettico, allora potrebbe delinearsi una via di uscita al conflitto di valori ritenuti assoluti che non riposi sulla presunzione neutralizzante, e in realtà concettualmente viziata, della mera prospettiva proceduralista.
[1] Si segnala che questo testo è destinato altresì alla pubblicazione in un volume collettaneo in corso di stampa presso Edizioni Scientifiche Italiane, dal titolo I diritti fondamentali al tempo della pandemia, curato da C. Ingratoci, A. Madera e F. Pellegrino.
[2] Sulla accresciuta rilevanza giuridica di tali conflitti cfr., tra gli altri, V. Villa, Disaccordi interpretativi profondi. Saggio di metagiurisprudenza ricostruttiva, Giappichelli, Torino 2017; D. Canale, Conflitti pratici. Quando il diritto diventa immorale, Laterza, Roma-Bari 2017.
[3] A questo risultato non giungono invece quelle solide, quanto condivisibili, concezioni del diritto assiologicamente orientate in senso realistico. A tal proposito, nella eminente concezione di Angelo Falzea, il diritto viene inteso come realtà assiologica attraverso una lettura critica delle anguste visioni formalistiche ed astratte del fenomeno giuridico. La scienza giuridica, secondo tale concezione, deve quindi fondarsi sulla realtà fattuale complessa, sulle combinazioni valoriali che pragmaticamente si realizzano in contesti pluralisti, proprio attaverso la prassi sociale che si consolida grazie all’emergere degli interessi e all’esperienza dei valori che così si affermano. Il diritto è quindi concepito come un sistema di valori associati ai fatti. La norma stessa consente di associare un valore ai fatti che contempla. In particolare, è nell’effetto giuridico che è possible rinvenire il valore attribuito al fatto. Ma l’esperienza dei valori, in quanto prodotto della pratica sociale, è antitetica all’assolutizzazione idealistica dei valori stessi in chiave metafisica, trascendente, o comunque fondamentalisticamente dogmatica. L’esperienza dei valori coincide con una realtà assiologica, e non con un’idealità assoluta e irrelata. Essa, dunque, comprende lo spazio della convivenza sociale assiologicamente determinata in senso plurale e in grado di mediare tra interessi confliggenti (Cfr., in particolare, A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Parte I: Il concetto di diritto, VI edizione ampliata, Giuffrè, Milano 2008, pp. 259-502. Si veda, inoltre, per una fondamentale riflessione sul rapporto tra l’etica sociale e i bisogni materiali della vita umana, l’opera di R. De Stefano, Per un’etica sociale della cultura, I, Le basi filosofiche dell’umanismo moderno, Giuffrè, Milano 1954).
[4] N. Hartmann, Etica. Assiologia dei costumi, trad. it., Guida editori, Napoli 1970, p. 408.
[5] C. Schmitt, “La tirannia dei valori”, trad. it., Rassegna di diritto pubblico, n. 1, 1970, p. 19.
[6] M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, trad. it., Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 30. Per un’interpretazione in senso analogo dell’idea weberiana del politeismo dei valori, si veda G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 379 ss.
[7] C. Schmitt, “La tirannia dei valori” cit., p. 25.
[8] J. Habermas, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, trad. it, Guerini e Associati, Milano 1996, p. 304.
[9] M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, trad. it., Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 1996, p. 48.
[10] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, il Mulino, Bologna 2008, p. 206.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 208.
[13] J. Habermas, Fatti e norme cit., p. 304.
[14] J. Habermas, Morale, diritto, politica, trad. it., Einaudi, Torino 1992, p. 30.
[15] All’affermazione dell’immanenza giuridica di una tavola assiologica condivisa, chiaramente coerente con il pluralismo valoriale tutelato dalle cornici costituzionali del secondo Novecento, possono ricondursi, tra le altre, le riflessioni di G. Silvestri, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Giappichelli, Torino 2005, e di A. Ruggeri, Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti normative, Giuffrè, Milano 1977; Id., Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Giappichelli, Torino 2009.