ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’arte del giudizio. A proposito del valore sociale della sentenza sul vincolo storico alla casa di Rosario Livatino.
(nota a Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, sez. giurisdizionale, 15 febbraio 2021)
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario. 1. Introduzione. La dimensione artistica della sentenza – 2. Un quadro dipinto: il racconto della casa di Rosario Livatino, tra privato e pubblico – 3. Il giudice e la parola.
1. Premessa. La dimensione artistica della sentenza
Ci sono volte in cui la delicatezza della materia del contendere in un giudizio si riflette - quasi come in uno specchio - nel linguaggio e nello stile della sentenza, che quel giudizio chiude. Ci sono volte in cui la significatività sociale, umana, etica dei fatti di causa, chiede - e anzi, richiede - che se ne parli, giudicandola, con egual profondità, rispetto e potenza comunicativa. Questa per così dire “simbiosi” tra sostanza e forma, tra oggetto e stile, tra il cosa e il come, senza dubbio traspare ed emerge con grande forza nella decisione che qui si annota, relativa alla legittimità del vincolo amministrativo posto alla “Casa di Famiglia del giudice Rosario Livatino”, in quanto bene di straordinario valore storico e culturale. Sembra quasi che i giudici sentano e assumano interamente, anche nelle forme del decidere, la responsabilità morale e sociale del messaggio che implicitamente la decisione fa pervenire alla collettività.
In questa decisione, e nella narrazione che vi è contenuta, vi è, a parere di chi scrive, una chiara presenza artistica, che merita di essere posta in luce; non nel senso di artificialità o retorica (qualità che, nell’arte, impoveriscono, piuttosto che arricchire, il prodotto), ma nel senso pieno e alto di autenticità, attenzione e cura nell’uso delle parole, capaci in questo caso di trasmettere valori e costruire consapevolezze. La sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa che qui si annota, più che parlare, dipinge; non si limita a decidere, a distribuire il torto o la ragione, ma bensì evoca – come vedremo - quel contesto domestico del Giudice Rosario Livatino, ne abbozza la personalità, argomenta con particolare efficacia il valore simbolico, e quindi collettivo, posto al servizio di tutti, della Sua abitazione. Il linguaggio qui si fa testimone del contenuto.
I filosofi, d’altronde, da tempo sanno che la parola (e quindi il racconto, la narrazione) costruisce mondi, costruisce la realtà sociale, costruisce verità. Il linguaggio costruisce insomma la nostra casa, il luogo in cui abitiamo. Differenti forme del dire comportano differenti visioni del mondo[1]. E così anche l’arte, che è, in fondo, un linguaggio, dà forma (in-forma) al nostro vivere; influenza o, ancor più, costruisce - tramite le parole, le raffigurazioni, la musica - la realtà nella quale viviamo.[2]
La sentenza - e questa sentenza in particolare – può allora esser vista come un atto artistico (e quindi creativo), soprattutto quando la bellezza del linguaggio, la scelta delle parole, le figure che evoca, le sfumature del discorso non sono fini a sé stesse, ma sono poste al servizio di un messaggio sociale più ampio il cui destinatario è la collettività (v. in fine).
Sia consentita, a questo proposito, una brevissima divagazione. Non saremo certo i primi a guardare alle sentenze sotto l’aspetto estetico[3]. Nell’universo di common law, e specialmente in Inghilterra, ad es., è ampiamente riconosciuto il valore letterario di certe judicial opinions, e molto spesso la scrittura, lo stile, identifica già dalle prime battute il giudice estensore. Il linguaggio, là, è spesso estensione della personalità. La sentenza ben può esser trattata come un genere letterario, studiato e indagato con i metodi della critica letteraria[4]. Ciò, nella tradizione di civil law, non si dà storicamente, perché il giudice non è (rectius: non si vuole che sia) un individuo, un soggetto in carne ed ossa, bensì una istituzione: egli non agisce in quanto persona con nome e cognome (come i giudici di common law: Lord Denning, Lord Diplock, ecc.), ma in quanto membro istituzionalizzato (“questo Tribunale, questa Corte, questo Collegio”). Nella cultura continentale non è il giudicante davvero che decide – è stato laconicamente detto – ma il Codice (la legge)[5]. Grandissima finzione, questa, che però perdura a livello declamatorio: ecco il perché dello stile solitamente molto asciutto, non emotivo, impersonale, formale, tecnico, burocratico, delle sentenze di civil law[6].
La sentenza in esame smentisce, attraverso l’uso di un linguaggio appassionato, caloroso – assai giustamente, assai opportunamente – questa pretesa s-personalizzazione della funzione giudicante. Più in generale, tramite le parole, viene qui rivelato il significato più autentico del giudicare: che non è e non deve mai tradursi in una operazione meccanica e indifferente, ma è, e deve rimanere, atto realmente umano, e quindi “com-partecipe” delle vicende che si agitano. In ogni frase della sentenza si manifesta, appare – giustamente – un giudice partecipe. Che è, poi, l’alto concetto della funzione che avevano i patres del diritto processuale civile italiano. Mi sono imbattuto, recentemente, in un’affermazione di Salvatore Satta, il quale rimarcava il bisogno di un giudice che «si immetta nell’azione, sia veramente un attore del dramma di vita che solo apparentemente si svolge fra le sole parti, un giudice che non sia un ricercatore di norme in un povero codice sempre malfatto, ma che arrivi a realizzare il miracolo di sentire l’interesse altrui come proprio (perché indubbiamente è suo proprio)[7]». Parole che ci sembrano distantissime dalle correnti del pensiero odierno, ma che invece meritano di essere recuperate.
2. Un quadro dipinto: il racconto della casa di Rosario Livatino, tra privato e pubblico
Con il provvedimento qui in commento, il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia si pronuncia - confermando quanto già deciso dal T.A.R. Sicilia - sull’esistenza e la giustificazione del vincolo amministrativo posto sulla “Casa di Famiglia del giudice Rosario Livatino” (a Canicattì, in provincia di Agrigento) e ai beni ivi contenuti, in quanto di “interesse storico, artistico, architettonico e etnoantropologico particolarmente importante”. L’oggetto della causa in sé è semplice; la vicenda, considerata nella sua obbiettività fattuale, è quasi routinaria (parrebbe una delle migliaia di controversie amministrative sulla legittimità di vincoli posti dagli enti locali), gli aspetti tecnico-giuridici, seppur significativi, non sono particolarmente intricati; ma l’intensità etica e l’eccezionalità umana della vicenda che sta dietro la decisione rende non solo interessante, ma persino doveroso, soffermarsi su quanto deciso. Ciò di cui si discorre è, infatti, la dimora di famiglia del giudice Rosario Livatino, profondissimo credente, la cui vita - come tristemente noto – fu spenta da un agguato mafioso in auto il 21 settembre 1990, quando Egli aveva 38 anni e prestava servizio come Giudice presso la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Agrigento[8]. «Martire della giustizia e, indirettamente, della fede» – secondo le parole di San Giovanni Paolo II - La Chiesa ha riconosciuto il suo martirio avvenuto «in odium fidei». Il processo canonico di Beatificazione, in quanto Servo di Dio, avviato nel 2011, giunge, ora, a compimento[9].
Come detto, non mi soffermerò sugli aspetti tecnici della decisione, ma bensì su quelli letterari (e quindi artistici), nel senso definito in apertura[10]. Tutto il giudizio ruota attorno al valore personale e simbolico della casa di Rosario Livatino, nella quale Egli viveva con la sua famiglia. La casa, naturalmente, è molto di più di un semplice edificio: da contesto privato e riservato, da nido del Magistrato, potremmo dire, viene ad assumere una valenza pubblica e sociale di estrema potenza. È in questi passaggi che la sentenza, non solo descrive, ma offre immagini.
Le parole, scelte con cura e con vicinanza affettiva, trasmettono magistralmente questa duplicità di aspetti dell’abitazione, privata prima e pubblica poi. Apprendiamo dal provvedimento che quella casa rappresentava il contesto esistenziale del giudice, il suo nucleo più intimo. La sentenza insiste molto su questa dimensione personalistica, individuale: «In quell’appartamento – citiamo testualmente – si è formato un ragazzo che con adamantina riservatezza ha interpretato i valori di rettitudine e indipendenza che devono caratterizzare il lavoro del magistrato». Le parole sono selezionate con estrema accuratezza. La “riservatezza”, innanzitutto, è caratteristica caratteriale di Rosario Livatino che i Giudici richiamano e valorizzano in più punti. Cito sempre dal provvedimento: «La morte di quel giovane magistrato, fino a quel momento conosciuto solo nel suo ambiente di lavoro a motivo della sua estrema riservatezza»; e poco oltre: «L’impegno morale ed etico coltivato esclusivamente nel lavoro e nella riservatezza…»; e ancora oltre: «La breve vita del magistrato si è consumata all’interno della dimensione famigliare (…). All’interno dell’immobile oggetto del presente provvedimento viveva, in riservatezza e solitudine, il giovane giudice». E nel primo passaggio su ricordato la Sua riservatezza è definita adamantina, cioè trasparente, senza macchia, innocente e pulita, che tanto più risalta nel contrasto con la brutalità dell’agguato. Prestiamo ancora attenzione alle parole: i valori della rettitudine e della indipendenza sono da Lui interpretati; cioè non semplicemente accolti, accettati, scelti, ma bensì - più intensamente – vissuti (interpretare è attribuire un significato: in questo caso esistenziale, vitale), incarnati si sarebbe anche potuto dire, fatti cioè oggetto di esempio personale, fino al sacrificio.
La sentenza riporta poi vari passi della Relazione Tecnica che accompagnava il decreto di apposizione del vincolo; passi che riteniamo di riportare qui a nostra volta perché capaci di evocare anche fisicamente quell’ambiente, quel clima domestico, quasi come se stessimo guardando un quadro delicato: « l’arredamento risulta sobrio e semplice, tutti gli oggetti, le suppellettili, i libri e gli arredi, amorevolmente preservati dalla famiglia, trasmettono al visitatore un’atmosfera emotiva di casa Livatino ». Anche qui, nessuna parola è lasciata al caso, con in un quadro nessuna pennellata è un di più, nessuna mano di colore è inutile. Gli oggetti non sono solo preservati, ma lo sono amorevolmente, il che ci lascia intuire una unità famigliare indistruttibile. Così poi la Relazione prosegue: « Tra gli oggetti personali si annoverano: il Vangelo, la macchina da scrivere, il telefono, materiale di documentazione e riviste giuridiche, un quadretto di Paolo VI (richiamato in una delle sue agendine quando muore il Sommo Pontefice)…». Come si nota, siamo lontanissimi dal linguaggio spersonalizzato, anonimo e burocratico con il quale supponiamo vengano redatte le relazioni degli esperti e delle Soprintendenze, ed entriamo invece in un universo umano. Ci sembra di aver bussato alla porta di Casa Livatino, di aver chiesto sommessamente permesso, di esser entrati nelle stanza in punta di piedi. Alla fredda e burocratica dicitura, si sostituisce un linguaggio quasi poetico. Senza nessuna retorica: poetico è – tecnicamente - quel linguaggio che vuol dire di più di ciò che dice: ed è esattamente questa la sensazione che ci trasmette il provvedimento. Dalla descrizione della casa e degli oggetti intuiamo quel di più, che riguarda il tratto umano ed esemplare di Rosario Livatino. L’elenco degli oggetti riportato non è formalistico e pignolo; si vede che non è una pura somma di cose fatta a scopo di inventario, ma è più un vero ritratto che ci dice molto sul Giudice. Ci immaginiamo una normalità della vita che contrasta, verrebbe da dire, con il sacrificio del Magistrato; ma il contrasto svanisce presto, se si pone a mente come l’autentico eroismo (anche qui, uso questa parole senza nessuna retorica) proviene da chi è stato capace di vivere la propria vocazione con umiltà e serietà. La normalità di questa casa è anzi proprio il suo valore. Oltre alla riservatezza, la normalità difatti è l’altro grande segno di Rosario Livatino che il Giudici evidenziano. Cito ancora dal testo: «nell’impegno etico e morale del giovane magistrato che, con la sua “normalità”, ha indicato ai giovani, non solo siciliani, la via del riscatto e della liberazione dal predominio mafioso»; e più avanti: « è dovere dello Stato, di cui Livatino è un “servitore eccezionale”, riconoscere lo straordinario valore della casa del Giudice e il suo forte valore simbolico a ricordo di chi ha pagato con la vita la “normale” rettitudine che non si piega alle minacce o alle lusinghe della mafia», enfasi nostra. La straordinarietà si nasconde, o meglio, si rivela, proprio nella normalità di chi si dedica (si dà, si offre) allo studio, al lavoro, di chi si prende cura della propria missione, del proprio intorno innanzitutto, e quindi della propria integrità.
Vediamo benissimo, dai passi che ho citato, come la sentenza proceda per rappresentazioni: come in un racconto d’alta fattura, ci permette di figurarci nella nostra mente quella stanza e le persone che la abitavano. Leggendola, ci pare quasi d’esser lì, di vederla.
Nella seconda parte della decisione, vi è poi il passaggio decisivo dal privato al pubblico, cioè dalla dimensione intima e personalistica del focolare domestico, così ben descritto, a quella sociale. Vi è una trasformazione, una conversione, che la sentenza riesce a rendere bene (compito linguisticamente non facile). Così continua il testo, sempre riportando i passi della relazione di accompagnamento: «La dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nella sua immobile integrità dai genitori, custodi ed artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana e istituzionale dell’uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, al ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere (…). Costituisce già un avamposto per la legalità (…)». “Immobile integrità” dicono i Giudici: ci sono cose che non si toccano, perché sono il tramite tra il passato e il futuro; e in questo loro essere tramite, cessano di appartenere al passato, per assumere la valenza di qualcosa che vive in un eterno presente. Sono un monito (un “avamposto”, nelle parole dei Giudici), qualcosa che sta e deve permanere fisso. Sono, in maniera ancora più pregnante, una testimonianza. È questa l’immaterialità del bene (che è e rimane pur sempre un oggetto materiale), cioè la sua «attitudine (…) ad essere testimonianza di superiori valori di civiltà», quali quelli che Rosario Livatino ha sicuramente incarnato. Questi valori – afferma ancora la sentenza - «si incardinano inscindibilmente» nella cosa oggetto di tutela, divengono cioè tutt’uno col bene. Non è un concetto per nulla facile da rendere.
Traspare dalle argomentazioni la dimensione chiaramente simbolica dell’oggetto. La casa di Livatino è – diremo noi, e lo dice anche la sentenza – un simbolo, ma nel senso pieno ed etimologico del termine: “simbolo” deriva dal greco antico “sym-ballo”, cioè “gettare con”, “lanciare qualcosa insieme” e quindi “riunire in uno solo due elementi distanti”. Il simbolo è qualcosa che sta al posto di, e la cui semplice visione o ricordo ci “getta” in un altrove. I Giudici siciliani assai opportunamente, a questo proposito, usano la parola “rimando”; «il valore culturale si identifica nel rimando all’impegno etico e morale del giovane magistrato». Il vocabolo “rimando” esprime bene questa finalità del simbolo, questo “gettare oltre”, come una freccia che si diparte dall’oggetto e finisce per indicarci il valore[11].
3. Il giudice e la parola
La bellezza del testo scritto ci permette di fare qualche osservazione più ampia sul giudicare. Il giudizio è, naturalmente, fenomeno linguistico (scritto o parlato). Le questioni di linguaggio e di stile non solo occupano un posto fondamentale, e non vanno perciò intesi come meri ornamenti, ma sono bensì elementi strutturali del giudicare. Quello che voglio dire è che, nel processo (così come spesso nell’arte), il come è costitutivo del cosa; lo stile è costitutivo del contenuto: non c’è vera separazione tra i due poli. Pensiamo all’architettura: possiamo distinguere una costruzione in sé (il cosa) da come (cioè dallo stile in cui) è costruita?[12] No. Un edificio “è” il suo stile. La forma è già la sostanza, e la sostanza è nient’altro che la forma concretizzatasi.
Qualcosa di simile potrebbe essere detto per la sentenza. Ora, la decisione che si è annotata avrebbe potuto decidere nella stessa maniera (e cioè ribadendo la legittimità del vincolo) con altre parole: senza indugiare sulle immagini, senza evocare i tratti esistenziali e personali del Giudice, senza la stessa cura negli avverbi e negli aggettivi, senza soffermarsi così lungamente sul passaggio dalla dimensione privata a quella pubblica della casa, senza insistere così tanto sul simbolismo etico e morale del luogo fisico che si fa testimonianza. Avrebbe potuto, sì: il valore precettivo sarebbe stato lo stesso, ma sarebbe stata una differente sentenza. Non semplicemente la stessa sentenza detta con parole differenti, ma bensì un differente atto, con una differente portata.
Per capire questo punto bisogna porre a mente che il contenuto di una sentenza non si esaurisce nel suo precetto, ossia nel comando. Questo è certamente il messaggio esplicito, lo ius dicere, il “dire il diritto” nel caso sottoposto a giudizio, che risolve il conflitto e che si rivolge quindi alle parti (nella nostra vicenda: alla parte appellante, condannata alle spese, e all’Autorità amministrativa, a cui si ordina l’esecuzione). Ma vi è, accanto a quello, anche un altro messaggio, implicito, che si rivolge alla collettività. La sentenza ha sempre – in maggior o minor misura – una vocazione alla generalità. La sentenza (che è atto pubblico, dotato di autorità) ha in sé la tendenza ad andare oltre e al di là del caso di specie, a irradiare i propri effetti all’intero ordinamento. Gli interlocutori di questo messaggio non sono più i litiganti, ma la generalità dei consociati. E ciò non è vero solo con riguardo alle statuizioni giuridiche (nel senso che la sentenza vuole sempre comunicare al pubblico come il diritto è, o come dovrebbe essere, in casi analoghi a quello deciso), ma anche con riguardo al più ampio messaggio sociale che intende veicolare. Questo è il suo valore sociale, che nel provvedimento che qui si è commentato assume un carattere preponderante. È un messaggio - quello della nostra decisione - morale ed etico, che ci parla del significato del sacrificio, della virtù della dedizione, della superiorità del Bene, che tanto più brilla tanto più lo si accosta a ciò che oscuro. Tutto questo non si esprime (né potrebbe) sotto forma di comando, ma necessita di un apparato linguistico, creativo e quindi diciamo pure artistico, in grado di trasmettere e ispirare, in grado di costruire, e che sarebbe un errore trascurare.
Se il giudice - come ritengo - è non solo solutore di conflitti, ma interprete di valori, non può restare neutrale davanti a questi. E questa sua non-neutralità (che è poi la responsabilità del giudizio, che egli certamente ha[13]) si manifesta necessariamente anche nella dimensione letteraria. Di questo, i giudici del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana si sono dimostrati non solo consapevoli ma, anzi, pienamente responsabili.
[1] J. Bruner, The Narrative Construction of Reality, in Critical Inquiry, 1991, 1 e seg.
[2] Sull’attitudine dell’arte a “creare mondi” (veri), v. N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, trad. it. a cura di C. Marletti, con prefazione di A. Varzi, 2 ed. (ed. or., 1978), Roma-Bari, 2008 («c’è un mondo per ogni diverso modo di combinare e costruire sistemi simbolici. C’è un mondo per ogni versione e visione che se ne dà nelle diverse teorie scientifiche, nelle opere di artisti e narratori differenti, nelle nostre percezioni in quanto influenzate da quelle opere e teorie, oltre che dalle circostanze»; (enfasi nostra). Così A. Varzi, Mondo-versione e versioni del mondo, dall’Introduzione). V. anche, sempre di Nelson Goodman, I linguaggi dell’arte, trad. it. a cura di F. Brioschi (ed. or., 1968), Milano, 2017.
[3] V., ad es., quanto detto da G. Policastro, intervistata da B. Capponi, sull’aspetto creativo-linguistico della sentenza, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1571-bruno-capponi-intervista-gilda-policastro, che cita, sul punto, il libro di P. Bellucci, A onor del vero (fondamenti di linguistica giudiziaria) (con introduzione di T. De Mauro), Torino, 2005.
[4] Nel contesto anglosassone, R. A. Ferguson, The Judicial Opinion as Literary Genre, in Yale Journal of Law & Humanities, 1990, 200 e seg.
[5] « The American judge is somehow expected to judge, really to judge. In France, the Code is supposed to have already judged » (la frase, che prende ad esempio la cultura statunitense e quella francese come emblemi, rispettivamente, della tradizione di common law e di quella di civil law, è riportata da M. Lasser, Judicial (Self-)Portraits: Judicial Discourse in the French Legal System, in Yale Law Journal, 1995, 1325 e seg.
[6] Per tutti, M. Taruffo, voce “Motivazione”, in Enc. giur. Treccani, 1990, 2: « Negli ordinamenti di civil law il modello prevalente è quello della motivazione burocratica ed impersonale, logicamente strutturata e imperniata sulle argomentazioni di diritto, concettualistica e tecnicizzata. Influiscono al riguardo fattori quali (…) l’assoluta preminenza del giudice burocrate, la concezione della sentenza come Staatsakt, solenne e impersonale, imputabile all’organo e mai alle persone (…)».
[7] Così S. Satta, in E. Allorio et al., Atti dell’incontro fra magistrati, professori universitari e avvocati per lo studio del tema Il giudice istruttore nel processo civile dati di esperienza ed eventuali proposte di emendamenti. Milano Palazzo Serbelloni 11 e 12 giugno 1955, Milano, 1955, 228-229.
[8] I dolorosi momenti e i tratti della personalità di Rosario Livatino sono ripercorsi nella bella intervista a cura di R. G. Conti a Roberto Saieva (oggi Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Catania), Livatino ieri e oggi, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1297-livatino-ieri-e-oggi-sacrificio-di-un-giudice-e-giurista-d-altri-tempi-o-testimonianza-limpida-di-un-magistrato-di-ogni-tempo-al-servizio-della-societa (21 settembre 2020).
[9] Cfr. il contributo di Don Baldo Reina, Rosario Livatino “martire della giustizia e indirettamente della fede”, in Giustizia Insieme
[10] Sul punto, v. l’approfondita disamina, anch’essa assai “sentita”, di P. G. Portaluri, Amara Sicilia e bella. Iudicis ad memoriam Livatini, in Giustizia Insieme
[11] Si rimanda, per questi concetti, alle dotte considerazioni di P. G. Portaluri, Amara Sicilia e bella, cit., spec. Par. 4 e 5.
[12] Traggo l’esempio da N. Goodman, The Status of Style, in Critical Inquiry, 1975, 799 e seg.
[13] Cfr. ancora l’affermazione di Salvatore Satta: «Ci si potrebbe chiedere da che cosa deriva questo valore alla sentenza del giudice. (…) La risposta che di solito si dà è in relazione alla autorità del giudice, ma io non credo sia pienamente esatto. L’autorità è anzi della dottrina, quando ce l’ha, e non vedo come un umile pretore possa dirsi più autorevole di Carnelutti. La ragione che noi riconosciamo al giudizio del giudice è piuttosto nella responsabilità (che è poi la sola cosa che dà valore all’azione umana)» (enfasi nostra), in La vita della legge e la sentenza del giudice (8 giugno 1952), ora in Il mistero del processo, Milano, 1994, 50.
Il bambino sa quello che fa?
Coscienza e responsabilità nell’infanzia: tra diritto e neuroscienze
di Santo Di Nuovo e Alessandra Garofalo
Sommario: 1. Premessa - 2. Cosa prevedono le norme? - 3. La consapevolezza secondo le neuroscienze - 4. Le tappe della coscienza di sé nel mondo - 5. La coscienza si può raccontare?
1. Premessa
La capacità di intendere e volere e la capacità di testimoniare nell’infanzia pongono al diritto e alla psicologia quesiti che vengono ricondotti a “soglie” temporali: 14 anni è la soglia entro la quale non si è giuridicamente responsabili per il diritto penale minorile; nelle cause civili fino a 12 anni l’ascolto è demandato alla valutazione delle capacità di “discernimento”, e così via.
Va dichiarato non responsabile un ragazzino tredicenne ingaggiato e lautamente stipendiato per il trasporto di pacchetti di polvere bianca, che sa bene non essere borotalco. Ad un figlio undicenne si può non chiedere cosa pensa riguardo a conflitti familiari in cui è direttamente coinvolto, con la motivazione di “non turbarne l’equilibrio”.
Il problema non è – come da più parti si dice – se convenga alzare o abbassare le soglie, fissate ai fini dei provvedimenti da prendere. Va invece trovato un rationale scientifico per adattare i provvedimenti possibili al livello di consapevolezza presente i quel minorenne, a prescindere di una soglia fissa per età, basandosi sulle risultanze delle recenti ricerche neuroscientifiche sullo sviluppo della mente umana e sui metodi di accertamenti messi a punto e validati.
2. Cosa prevedono le norme?
In ambito penale, l’art. 120 c.p.p. prevede che “non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento i minori degli anni quattordici”, anche se è stato autorevolmente precisato che questo non incide sulla sua capacità di testimoniare (che è disciplinata dal principio generale contenuto nell'articolo 196, comma 1, del c.p.p.), bensì sulla valutazione della attendibilità della testimonianza e, cioè, sulla sua attendibilità. Ed “è in tale prospettiva che opera lo speciale regime dettato dall'articolo 498, comma 4, del c.p.p. per l'esame del minore, affidato al presidente dell'organo giudicante e condotto sulla base di domande e contestazioni proposte dalle parti, eventualmente con l'ausilio di un familiare o di un esperto psicologo[1], salva la facoltà di consentire la deposizione in forma ordinaria, quando l'esame diretto non possa nuocere alla serenità del testimone”[2]. La stessa Corte di Cassazione riconosce: “… anche i bambini in tenera età sono in grado di ricordare ciò che hanno visto e soprattutto ciò che hanno subito con coinvolgimento diretto, pur spettando al giudice di valutare con particolare attenzione la credibilità del dichiarante e l'attendibilità delle dichiarazioni. In una tale prospettiva, nel caso di minore-parte offesa (la cui deposizione ben può essere assunta anche da sola come fonte di prova della responsabilità[3]), si spiega, nella prospettiva di controllo sulla «credibilità soggettiva», la possibilità di procedere alla verifica dell'«idoneità mentale» (articolo 196, comma 2, del c.p.p.), rivolta ad accertare se il minore stesso sia stato nelle condizioni di rendersi conto dei comportamenti tenuti in pregiudizio della sua persona e possa poi riferire in modo veritiero siffatti comportamenti”[4].
L'«idoneità mentale» a testimoniare viene accertata dal giudice mediante ricorso ad una perizia. Secondo il punto 16 della Carta di Noto (IV ed. del 14 ottobre 2017), la perizia dovrebbe precedere l'esame testimoniale. Tale raccomandazione, condivisa dalla comunità scientifica, non è però prevista dal codice, per cui non è precluso al giudice di ascoltare il testimone minorenne prima di effettuare la perizia. Si tratta di accertare “l'attitudine del bambino a testimoniare, sotto i profili intellettivo e affettivo” e la “credibilità” dello stesso.
Il primo aspetto concerne “l'accertamento della sua capacità di recepire le informazioni, di raccordarle con altre, di ricordarle e di esprimerle in una visione complessa, da considerare in relazione all'età, alle condizioni emozionali, che regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla qualità e natura dei rapporti familiari”, mentre il secondo è diretto ad esaminare il modo in cui il minore vittima di reati ha vissuto ed ha rielaborato la vicenda[5]. La valutazione sull'attitudine a testimoniare deve essere tanto più rigorosa quanto minore sia l'età del bambino, considerata la maggiore tendenza dei “minori in tenera o tenerissima età” al “condizionamento o alla suggestione”[6].
La più recente giurisprudenza stabilisce che i bambini piccoli possono essere attendibili se “lasciati liberi” di esprimersi, ma “diventano altamente malleabili in presenza di suggestioni eteroindotte” tendendo a conformarsi alle aspettative dell'interlocutore[7]. Il bambino, senza volerlo, crea falsi ricordi e può considerare vissute come reali esperienze anche solo veicolate come tali da altri soggetti[8].
Una parte della giurisprudenza distingue tra dichiarazioni del bambino e quelle dell'adolescente: entrambi presenterebbero “una singolare attitudine alla fabulazione magica” creandosi un mondo secondo i loro desideri, ma mentre il bambino ricorre molto più facilmente a tale rappresentazione[9], l'adolescente è portato a colorare la realtà e a raccontare menzogne che potrebbero apparire veritiere a differenza delle menzogne dei bambini che, prive di malizia, sono facilmente smascherabili[10].
Sino al 2012 non erano previste specifiche tutele per l'audizione del minore durante le indagini preliminari. Solo con la L. 172/2012, che ha recepito la Convenzione di Lanzarote del 2007, è stato introdotto l'obbligo di servirsi di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile per sentire il minore durante le audizioni investigative di polizia giudiziaria, pubblico ministero e difensore.
Per cristallizzare l'apporto dichiarativo del minorenne e al contempo farlo uscire dal circuito giudiziario, che ne aggrava la vittimizzazione secondaria, e per permettere al minore stesso un percorso terapeutico nel quale rielaborare i fatti, si privilegia il ricorso all'incidente probatorio - quanto più vicino possibile cronologicamente ai fatti - disciplinato dall’art. 398, comma 5-bis, c.p.p., che prevede alcuni presidi a tutela del minorenne: il giudice, per i gravi delitti ivi indicati, “stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere all'incidente probatorio”, potendo l'udienza svolgersi “anche in luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza, o, in mancanza, presso l'abitazione della persona interessata all'assunzione della prova” (c.d. esame protetto).
Ulteriori presidi a tutela del minore sono indicati dall'art. 498, comma 4-ter, c.p.p. (c.d. esame schermato), che prevede che l'esame del minore vittima di reati sessuali venga effettuato mediante l'uso di un vetro-specchio unidirezionale, unitamente ad un impianto citofonico, che impedisce all'accusante di vedere l'accusato, il quale si colloca al di là del vetro.
In ambito civile l’ascolto del minore, in quanto in grado di dare delle risposte ‘consapevoli’, è previsto in norme del codice relative a vari procedimenti, nonché in svariate leggi. L’art. 336-bis c.c. costituisce la norma generale della disciplina dei requisiti – minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento - e della modalità di ascolto, riprodotta in materia di separazione e divorzi nell’art. 337-octies.[11]
Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’UE prevede all’art. 24, par. 1, l’ascolto dei minori laddove stabilisce che i minori possono esprimere liberamente la propria opinione e che questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità: disposizione questa di applicazione generale che non riguarda procedimenti specifici.
Anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo si è occupata, seppure indirettamente, della tutela e dell’ascolto del minore dichiarandone l’importanza nelle decisioni familiari che lo riguardano direttamente, diritto garantito da più strumenti giuridici internazionali[12].
L’audizione del minore, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziali che lo riguardano[13], quale riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere la propria opinione, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse[14].
Nessuna norma definisce la capacità di ‘discernimento’, essendo questo un concetto mutuato dalla scienza neuropsichiatrica. Anche rare sono le pronunce che forniscono elementi in ordine al questo concetto, perché è un elemento fattuale da valutare caso per caso e devoluto al libero e prudente apprezzamento del giudice che non necessita di specifico accertamento d’indole tecnica specialistica prima dell’audizione. Tale capacità non può essere esclusa solo col dato anagrafico del minore, ma può presumersi quando si tratti di minori soggetti per età ad obblighi scolastici e, quindi, normalmente in grado di comprendere l’oggetto del loro ascolto e di esprimersi consapevolmente[15].
L’art. 336-bis c.c. prevede espressamente che l’ascolto del minore sia condotto dal giudice anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari. I giudici di merito hanno largamente praticato la modalità dell’ascolto indiretto delegandolo a professionisti, quali gli operatori dei Servizi Sociali, il Consulente Tecnico d’Ufficio o un esperto psicologo, onde evitare fraintendimenti sulle risposte e interpretare correttamente la volontà del minore. Tale modalità di ascolto è stata avallata anche dalla Cassazione, che però ne ha posto precisi paletti imponendo al giudice l’obbligo di uno specifico e previo provvedimento contenente una vera e propria delega al riguardo, nonché l’obbligo di una esaustiva motivazione della scelta per cui abdica al suo dovere di ascolto a favore di una modalità indiretta[16].
L’ascolto del minore non va operato tutte le volte che sia ritenuto inopportuno o pregiudizievole per l’interesse ad un equilibrato sviluppo psicofisico[17], né tutte le volte che esso devia dalle finalità sue proprie, divenendo anche fonte di pregiudizio per il minore stesso (C. App. Catania 17 aprile 2015).
Recentemente la Corte di Cassazione, riprendendo un consolidato indirizzo[18], si è espressa ritenendo l'audizione del minore un adempimento previsto a pena di nullità in tema di provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, incombendo sul giudice “che ritenga di ometterlo un obbligo di specifica motivazione, non solo se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l'esame manifestamente superfluo o in contrasto con l'interesse del minore, ma anche qualora opti, in luogo dell'ascolto diretto, per quello effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico, atteso che solo l'ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda”.
Il fondamentale principio del contraddittorio si esplicita in senso pieno con l'attribuzione al minore della qualità di parte in senso formale e processuale. Ciò avviene nei procedimenti più incisivi di ablazione della responsabilità genitoriale e nei giudizi sullo status filiationis o per la dichiarazione di adottabilità, che incidono sui diritti fondamentali del minore e in cui il minore può vantare una specifica autonoma legittimazione nel processo. In questi casi le esigenze correlate al contraddittorio possono essere tutelate con la nomina di un curatore speciale.
Nei procedimenti più contenuti negli effetti, in cui il provvedimento giudiziario viene, comunque, a incidere nella sfera del minore (separazioni, divorzi e in genere le problematiche nascenti dalla crisi familiare che riguardano i minori), la qualità di parte che compete al minore non è in senso processuale ma sostanziale e il principio del contradditorio viene salvaguardato attraverso l'istituto dell'ascolto, la cui mancanza, in assenza di una adeguata causa giustificatrice esplicitata con idonea motivazione, integra un vizio sostanziale nella decisione[19].
L'ascolto del minore ha una portata diversa a seconda dei vari procedimenti e non è sempre obbligatorio, necessario e ineludibile. Così nel procedimento in tema di sottrazione internazionale del minore previsto dall’art. 7 L. 64/1994, il tribunale per i minorenni può ascoltare il minore capace di discernimento e trarre elementi ai fini della valutazione del fondato rischio di esporlo, per il fatto del suo ritorno, a pericoli psichici. Tale audizione, pur prevista dall’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta adempimento necessario ai sensi degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge n. 77/2003, ma non è prescritta in via assoluta e il giudice può non ricorrervi privilegiando l’interesse superiore del minore.
Nel procedimento di riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio ex art. 250 c.c. è previsto l’obbligo di ascolto del minore quattordicenne al fine del suo assenso e, nell’ambito dell’opposizione, l’obbligo di audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore ove capace di discernimento.
L’ascolto del minore, pur non essendo assimilabile alla testimonianza né ad alcuno dei mezzi di prova tipici, ha di fatto un grado di cogenza superiore specialmente in materia di sottrazione internazionale di minori, secondo la più recente giurisprudenza del Supremo Collegio[20].
I riferimenti alla idoneità mentale e alla capacità di discernimento del bambino sottendono la più generale nozione di consapevolezza. Ma cosa intendono le neuroscienze per consapevolezza?
3. La consapevolezza secondo le neuroscienze
Comprendere i correlati neurali della coscienza, studiando le basi neurocognitive delle rappresentazioni ed elaborazioni relative al Sé, è attualmente una delle maggiori sfide scientifiche[21].
Secondo Searle e Nagel[22] la consapevolezza sintetizza l’esperienza soggettiva di sensazioni personali, che vengono fuse in un’unica esperienza, e mantengono un significato al di là delle sensazioni fisiche del momento. Essa risulta dalla sintesi di elaborazioni attuate dalle diverse aree cerebrali[23], ma è una proprietà emergente del cervello, diversa da tutte le altre proprietà cerebrali. L’intenzionalità come manifestazione essenziale della consapevolezza comporta la capacità di progettare l’azione comprendendone il significato, e tutto questo è accessibile all’analisi empirica, usando tecniche appropriate.
La consapevolezza (definita dal termine inglese awareness) è diversa dall’arousal o pura “vigilanza”, o attivazione dell’attenzione su sé e sull’ambiente che ci circonda. Questo livello di awareness è presente anche negli animali, che sono capaci di riconoscersi allo specchio[24]; si sviluppa precocemente nel bambino, passando dalla primitiva confusione con l’ambiente esterno, alla minima differenziazione da esso, fino alla piena consapevolezza di sé[25].
Ma è la awareness è pure diversa dalla capacità di auto-rilevazione di sensazioni, pensieri, memorie, immaginazione, emozioni (self-consciousness), e al tempo stesso di comprendere quelle degli altri, come è dimostrato dagli studi sulla “teoria della mente” nel bambino[26]. Questo livello di coscienza si sviluppa progressivamente, e con tappe che non possono essere ricondotte ad intervalli temporali precisi, dipendendo dalla interazione tra maturazione neurobiologica e specifica stimolazione ambientale, che attiva meccanismi epigenetici differenziati tra una persona e l’altra.
Tradizionalmente la corteccia prefrontale è stata associata alla programmazione dell’atto volitivo cosciente. Di recente sono state scoperte aree corticali (alcune aree del lobo temporale e parietale) la cui attivazione è associata all’esperienza soggettiva di essere l’autore di una specifica azione, quello che viene definito senso di agency[27]. I processi di riflessione sui propri processi mentali e sulla programmazione cosciente di un atto impegnano tutto il cervello, come hanno dimostrato gli studi di neuroimaging.
L’auto-consapevolezza non si esaurisce nel riconoscersi come separati dal resto del mondo (caratteristica condivisa da varie specie animali e dai bambini molto piccoli), ma perviene alla riflessione critica su sé e sul proprio “essere pensanti e attivi nel mondo”.
“La coscienza non si esaurisce nell'intenzionalità diretta agli oggetti, ma, ripiegandosi, riflette su di sé. Come tale, essa non è solo coscienza, ma autocoscienza. L'io penso e l'io penso che sto pensando coincidono in modo da non poter esistere l'uno senza l'altro”[28].
“La capacità riflessiva distingue sul piano categoriale la coscienza dell’uomo da quella degli animali in quanto è indissolubilmente connessa al linguaggio umano, e alla capacità – pure tipicamente umana – di comunicarla con le parole oltre che con il linguaggio non verbale. Come è stato precisato dagli orientamenti fenomenologici, l’Io individuale diventa attore dei diversi gradi costitutivi della coscienza, fino al livello più elevato, che è quello dell’apertura al mondo in un orizzonte originale, costituito da gerarchie di valori e da decisioni prese tra necessità e libertà, ma sempre in modo peculiare per la persona che sceglie ed è consapevole delle proprie scelte”[29].
4. Le tappe della coscienza di sé nel mondo
Gli stati di coscienza emergono dall’attività neuronale, già in fasi precoci, e le neuroscienze descrivono come si sviluppa questa emergenza. Lo fanno ovviamente basandosi su rilevazioni dirette delle attività cerebrali, in quanto non è possibile avvalersi di report soggettivi di bambini molto piccoli. Ad esempio, in neonati fra 5 e 15 mesi sono stati identificati specifici eventi cerebrali analoghi a quelli che si verificano negli adulti mentre fissano coscientemente l’attenzione su un viso. Quindi già a pochi mesi esiste uno stadio di coscienza percettiva[30].
Damasio[31] parla di un passaggio dal proto-sé (non conscio, riguardante i sentimenti elementari di esistenza, e la capacità di sentire, con base neurologica nel tronco encefalico) alla coscienza nucleare, che fa percepire all’organismo le relazioni interne e quelle con il mondo esterno, producendo specifiche azioni e modificazioni sia cognitive che emozionali. Da questa fase ancora transitoria e labile di coscienza si passa poi alla coscienza estesa, che attraverso la memoria autobiografica registra e richiama le esperienze passate. Questo sé autobiografico, che utilizza le aree corticali, consente di riflettere sia sul passato che sul futuro e sulla sua programmazione in relazione al contesto. La mente cosciente diventa così “sé sociale”.
Già Stern[32], con riferimento alla fenomenologia dello sviluppo, poneva in sequenza il passaggio dal sé emergente e nucleare, a quello soggettivo e poi verbale e narrativo. Quest’ultimo si sviluppa a partire dai 3 anni come capacità di esternare la propria esperienza, riferita a dimensioni di carattere simbolico.
Altri studi neuroscientifici[33] distinguono la coscienza primaria, evolutivamente più primitiva sul piano evolutivo, come consapevolezza del proprio corpo e della realtà esterna, dalla coscienza superiore che consapevolmente organizza il tempo e gli eventi in esso vissuti, definibile “coscienza di essere coscienti”.
La coscienza sta nella mente, ma è non localizzabile in aree specifiche in quanto esperienza unitaria, che richiede un funzionamento “a rete” come le simulazioni con neural networks hanno dimostrato. “Il network non è un epifenomeno ma è strumento essenziale nella generazione di self-awareness”[34].
Proprio per l’efficienza di questo network che include i centri del linguaggio, la coscienza umana, a differenza da quella animale, è capace di meta-consapevolezza o – per riprendere un antico termine filosofico – auto-coscienza, esprimibile in termini linguistici[35].
5. La coscienza si può raccontare?
Se è vero che la coscienza può essere espressa linguisticamente, l’incapacità di esprimere a parole gli stati di coscienza non significa che siano assenti: problema che sul piano giuridico riguarda la testimonianza, più indirettamente la dichiarazione di capacità.
Il problema è trovare i mezzi idonei per far emergere, in modo attendibile, le capacità di riferire (o dimostrare con modalità non verbali) stati mentali interni. Esistono a tal riguardo strumenti di assessment che, se correttamente usati, consentono di accedere alla coscienza infantile anche ad età precoci; raccogliendo informazioni la cui accuratezza e attendibilità può essere accertata mediante verifiche incrociate fra diversi mezzi e strumenti di indagine[36].
Partendo da questo presupposto metodologico, e utilizzando le tecniche adatte, si può condividere la affermazione secondo cui “i bambini sono testimoni migliori di quello che comunemente si ritiene”[37]. Testimoni di eventi esterni che hanno visto e sentito con i propri sensi, ma anche di ciò che all’interno della propria mente pensano e programmano.
Purché – se si tratta di procedure giudiziarie - questo venga appropriatamente chiesto e accertato, evitando domande suggestive o induttive, controllando atteggiamenti di compiacenza o acquiescenza, distinguendo se e in che misura la narrazione linguistica dell’esperienza corrisponde all’esperienza effettivamente vissuta, e se non ci sono intrusioni di elementi cognitivi o emotivi che non corrispondono o distorcono le tracce effettivamente depositate in memoria. Senza però una sfiducia pregiudiziale nelle capacità psicologiche del minore che porterebbe ad una altrettanto pregiudiziale limitazione dei suoi diritti di essere ascoltato e tenuto in considerazione su questioni che riguardano la sua vita relazionale.
È essenziale “garantire l’attendibilità degli accertamenti effettuati da parte dei tecnici e la genuinità delle dichiarazioni” ma al tempo stesso “assicurando protezione psicologica al minore, tutela dei suoi diritti di relazione”[38].
Nel caso di un bambino piccolo, è necessario un “accertamento della sua capacità a recepire le informazioni, di raccordarle con altre, di ricordarle ed esprimerle in una visione complessa, da considerare in relazione all’età, alle condizioni emozionali che regolano la sua relazione con il mondo esterno, alla qualità e alla natura dei rapporti familiari.”[39]
E quindi va stabilito di volta in volta, senza automatismi che le neuroscienze dimostrano infondati, se il minorenne - quale che sia la sua età cronologica - è consapevole di ciò che vede e che fa, e quindi possa essere giudicato testimone attendibile e/o capace di intendere e volere, e di conseguenza possa essere dichiarato responsabile - in vario grado, ovviamente – di ciò che fa e che dice. E in base al grado accertato di questa responsabilità, andranno adottati i provvedimenti giuridici che lo riguardano.
[1] Lo psicologo assiste il giudice sia fornendo sostegno psicologico al minore sia indicando le modalità con cui devono essere preferibilmente poste le domande (v.si Cass. Pen., sez. III, 15 febbraio 2008, n. 11130), evitando che il dichiarante subisca suggestioni. Parte della giurisprudenza ritiene possibile l'esame del minorenne da parte del solo psicologo (v.si Cass. Pen., sez. III, 27 aprile 2012, n. 20886).
[2] Cass. pen., Sez. III, 28/02/2003, n. 19789.
[3] Ex multis Cass. Pen., sez. III, 29 gennaio 2020, n. 12027; Cass. Pen, sez. III, 5 aprile 2019, n. 20018. Altra parte della giurisprudenza considera necessari i relativi riscontri ove sia stata omessa la perizia che accerti l'idoneità a testimoniare o qualora la perizia non abbia rispettato i protocolli generalmente riconosciuti dalla comunità scientifica (v. Cass. Pen., sez. III, 23 giugno 2020, n. 21166).
[4] Cass. pen., Sez. III, 06 marzo2003, n. 36619.
[5] Cass. Pen, sez. IV, 14 maggio 2019, n. 27192.
[6] Cass. Pen., sez. III, 9 luglio 2020, n. 23202; Cass. Pen., Sez. III, 21 luglio 2020, n. 25042.
[7] Cass. Pen., sez. III 29 gennaio 2020, n. 12027.
[8] Cass. Pen., sez. III, 18 dicembre 2013, n. 7510, che sottolinea anche il pericolo di “amnesia infantile”.
[9] Cass. Pen., sez. IV, 17 dicembre 2010, n. 2585; Cass. Pen., sez. III, 10 gennaio 2007, n. 8661; Cass. Pen., sez. III, 5 ottobre 2006, n. 41282.
[10] Cass. Pen., sez. III, 23 maggio 2007, n. 35224.
[11] L’art. 315 bis c.c. riconosce il diritto del bambino che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore se capace di discernimento, ad essere ascoltato in tutte le questioni che lo riguardano. L’art. 336 bis c.c. dispone che il minore sia ascoltato dal giudice nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo interessano, salvo il caso in cui l’ascolto sia in contrasto con il suo interesse o manifestamente superfluo.
[12] Di recente Corte EDU, M.K. v. Greece, 1° febbraio 2018, ricorso n. 51312/16.
[13] Cass.civ, SS. UU., 21 ottobre 2009, n. 22238; Cass. civ., 11 dicembre 2019, n. 32413, ord.; Cass.civ., 20 novembre 2019, n. 30191, ord.; Cass. civ., 4 novembre 2019, n. 28244, ord.; Cass. civ., 3 ottobre 2019, n. 24790, ord.; Cass. civ., 16 febbraio 2018, n. 3913.
[14] Cass. civ., 7 maggio 2019, n. 12018, ord.
[15] Cass. civ., 19 gennaio 2015, n. 752.
[16] Ex multis Cass. civ., 24 maggio 2018, n.12957, ripresa da Cass. 17 aprile 2019, n.10774.
[17] Cass. 2 luglio 2014, n. 15143.
[18] Cass., sez. I, 25 gennaio 2021, n. 1474, ord. (precedenti: Cass., SS: UU:, n. 22238/2009; Cass. n. 6129/2005; Cass. n. 12018/2019; Cass. n. 16410/2020).
[19] Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2020, n. 16410, ord.
[20] Cass. civ., 5 marzo 2014, n. 5237; Cass. civ., 26 settembre 2016, n.18846.
[21] Baars B. J., Ramsøy T.Z., Laureys S. Brain, conscious experience and the observing self, Trends in Neurosciences, 2003, 26, 671-675.
[22] Searle J. R., Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998; Nagel T., Mente e cosmo. Cortina, Milano 2015
[23] Dennett D.C. Contenuto e coscienza, Mulino, Bologna 1992.
[24] Gallup Jr G. G. e al. >span class="mixed-citation">(Eds) The cognitive animal: empirical and theoretical perspectives on animal cognition, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2002, pp. 325-333.
[25] Rochat P. Five levels of self-awareness as they unfold early in life, Consciousness and Cognition, 2003, 12, 717-731.
[26] Camaioni L. (a cura di) La teoria della mente. Origini, sviluppo e patologia. Laterza, Bari-Roma 2006.
[27] Chambon V., Sidarus N. Haggard P. From action intentions to action effects: how does the sense of agency come about? Frontiers in Human Neuroscience, 2014, 8, 320.
[28] Jaspers K. Philosophie, Springer, Berlin 1932; tr. it. Filosofia, Utet, Torino 1978 (cit. p. 117).
[29] Di Nuovo S. Prigionieri delle neuroscienze? Giunti, Firenze 2014, pp. 156-157.
[30] Kouider S. e al. A neural marker of perceptual consciousness in infants, Science, 2013, 340, 6130, 376-380.
[31] Damasio A. Il sé viene alla mente, tr. it. Adelphi, Milano 2012.
[32] Stern D. Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri 1992.
[33] Edelman G.M., Tononi G. Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione. Einaudi, Torino, 2002.
[34] Low H.C., Changeux J.P., Rosenstand A. Towards a cognitive neuroscience of self-awareness, Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 2017, 83.
[35] Perconti P. L'autocoscienza: cosa è, come funziona, a cosa serve, Laterza, Roma-Bari 2008.
[36] Gulotta G., Camerini G. Linee guida nazionali. L’ascolto del minore testimone, Giuffrè, Milano 2014.
[37] Castellani P., Pajardi D., La testimonianza. In: Quadrio A. (a cura di) Psicologia e problemi giuridici. Giuffrè, Milano 1991. Una ricerca sperimentale sull’argomento ha concluso: «Non abbiamo riscontrato differenze significative tra l’attendibilità dei bambini e la loro età: quindi, gli intervistati di 6, 7 e 8 anni sono risultati essere ugualmente attendibili nelle risposte alle domande aperte non suggestive» (Gulotta G., Ercolin D., La suggestionabilità dei bambini, uno studio empirico, Psicologia Giuridica, 2004, pp. 83-92).
[38] Aa. Vv. Linee guida per l’esame del minore. Carta di Noto (4a edizione) 14.10.2017.
[39] Cass. Pen. Sez. III, 3 ottobre 1997, n. 8962.
Amara Sicilia e bella. Iudicis ad memoriam Livatini
di Pier Luigi Portaluri
Sommario: 1. I fatti di causa e il ricorso al Tar Palermo - 2. Il giudizio di prime cure - 3. La sentenza del Consiglio di giustizia in commento - 4. Casa Livatino e vincolo testimoniale - 5. Di una sottrazione al divenire: i semiòfori.
1. I fatti di causa e il ricorso al Tar Palermo
Dopo la barbarie mafiosa del 21 settembre 1990, con un decreto del 2015 l’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana dichiara «di interesse storico, artistico, architettonico ed etnoantropologico particolarmente importante» la casa dove, a Canicattì, la famiglia di Livatino viveva.
Il padre del «Giudice ragazzino» era scomparso nel 2010, per cui – «in assenza di ulteriori eredi che della famiglia Livatino conservassero il nome»[1] – l’immobile era pervenuto in eredità al soggetto ricorrente: il quale, ricevuto quel decreto di vincolo, lo impugna innanzi al TAR Palermo[2].
Due ordini di censure.
Anzitutto deduce che l’Assessorato non avrebbe preso in considerazione le osservazioni endoprocedimentali della ricorrente.
Ma è col secondo ordine di doglianze che si entra nel vivo della vicenda.
Il ricorrente ritiene infatti che «l’immobile non presenterebbe alcuno dei requisiti richiesti dalla normativa vigente per la dichiarazione di interesse storico, artistico, architettonico ed etnoantropologico particolarmente importante, sia sotto il profilo del valore culturale, sia con riferimento all’assenza di pregio dei beni mobili presenti all’interno dell’immobile»[3]: di qui l’asserita violazione degli artt. 10, comma 3, lett. a) e d) e 13, d.lgs. n. 42/’04.
2. Il giudizio di prime cure
Il Tar Palermo dapprima sospende il decreto impositivo atteso il «mancato esame delle osservazioni presentate dalla ricorrente, alle quali il provvedimento impugnato non fa il minimo cenno»[4]: dispone quindi per il riesercizio del potere.
Ma l’Assessorato non riadotta un nuovo decreto e sceglie invece la strada della difesa meritale del provvedimento.
La strategia è vincente. In sentenza[5] il primo Giudice cambia infatti idea e aderisce espressamente alla tesi sostanzialistica per cui – in caso di omessa considerazione degli apporti difensivi – la violazione delle norme sul contraddittorio non rileva se gli interessati non provano o non forniscono elementi, «ancorché indiziari, ma certi, precisi ed univoci che quella violazione o omissione non ha consentito la completa emersione degli interessi privati in conflitto ed il conseguente corretto, adeguato e completo accertamento del substrato materiale (e giuridico) su cui avrebbe inciso con i propri effetti il provvedimento amministrativo; sotto tale angolazione non si richiede che dal provvedimento stesso risultino formalmente esaminate le memorie e i documenti depositati nel corso del procedimento, ma che una tale valutazione sia stata sostanzialmente compiuta».
La censura di diritto procedimentale è dunque superata e il Tar può esaminare le doglianze sostanziali.
Al giudice territoriale bastano pochi passaggi ricostruttivi per accertare la legittimità del decreto regionale e dunque respingere il ricorso: la relazione che accompagna il provvedimento, e che ne è parte integrante, motiva in modo adeguato la scelta vincolistica.
Vediamo il percorso argomentativo.
Un primo profilo è meno convincente. Piuttosto debole. Concerne l’interesse storico-artistico particolarmente importante dell’immobile in sé ex art. 10, comma 3, lett. a), cit.: il giudice territoriale si limita a validare in modo abbastanza cursorio la relazione citata, dove la casa della famiglia Livatino «viene collocata temporalmente e storicamente dal punto di vista architettonico, nella parte in cui la stessa si fa risalire alle fine dell’ottocento senza interventi di ristrutturazione e con la presenza delle finiture originarie».
È vero, precisa subito prima il Tribunale rifacendosi al diritto vivente, che «…il giudizio, che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale, è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità». Ma di contro – osserviamo noi – una motivazione così vaga e stereotipa sul punto sarebbe bonne à tout faire.
Tutto questo conta poco, per fortuna. Il cuore della decisione è ovviamente altrove, nel secondo profilo motivazionale: ed è tutto – sottolinea il giudice di prime cure – nel «riferimento all’insieme dei beni complessivamente considerati (immobili e mobili) in quanto la p.a. ha ritenuto detti beni espressione di valori storico-culturali simbolici, e di un valore sociale connesso non tanto ai beni mobili in sé considerati, quanto piuttosto al valore simbolico che gli stessi assumono per le generazioni, anche in funzione di stimolo per la coscienza sociale e culturale di un determinato contesto storico». Valenza culturale, peraltro, che nella ricordata relazione tecnica allegata al decreto è attestata dal fatto che «tale dimora è luogo di incontro di associazioni antimafia […] il che implica l’attualità del collegamento con l’aspetto culturale inteso in senso ampio»[6].
3. La sentenza del Consiglio di giustizia in commento
Il soggetto proprietario appella la sentenza davanti al Consiglio di Giustizia, che tuttavia conferma[7] la pronuncia del TAR.
Il Consiglio di Giustizia scrive una sentenza particolarmente ariosa.
Ci parla in toni vividi di quel mattino tragico, dei quattro sicari che uccisero Livatino ad appena 38 anni per ordine della stidda agrigentina; di come quel delitto avesse avuto anche l’effetto di aiutare il risveglio delle coscienze nell’impegno contro la mafia. Si spinge anche oltre, il giudice. Un tocco polemico: nell’esaltare di Livatino «l’impegno morale ed etico coltivato esclusivamente nel lavoro e nella riservatezza», sottolinea che in tal modo esso «assumeva valenze ulteriori a confronto delle deviazioni cui era andato incontro un certo modo di intendere e praticare l’iniziativa contro la mafia nella regione siciliana»[8].
Non manca in sentenza l’accenno al processo di beatificazione, che peraltro si concluderà fra pochissimi giorni, il prossimo 9 maggio 2021: per la Chiesa – ricorda il Consiglio – quel delitto è un martyrium in odium fidei[9].
Poi la descrizione – insistita – della casa di Livatino, degli arredi, delle semplici cose appartenutegli[10].
Infine – sempre tratta dalla relazione di accompagnamento al decreto – la conclusione: «la dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nel tempo nella sua immobile integrità dai genitori, custodi e artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana ed istituzionale dell'uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore».
Questo indugiare non è superfluo, nel ductus della decisione. Ne è anzi la base fondativa.
Tralascio qui le doglianze appellatorie di diritto procedimentale: il Consiglio le rigetta muovendosi sostanzialmente nella scia del TAR.
Più interessanti sono invece le considerazioni meritali. Il CGA muove, ancora una volta, dal contenuto dell’atto impugnato, condividendolo (come vedremo): Casa Livatino – aveva sostenuto la relazione assessorile – è un «connubio tra valenza architettonica e preziosa testimonianza di memoria storica e di avvenimenti socio-politici caratterizzanti il territorio di Agrigento e della sua provincia», come tale tutelabile in base all’art. 10, comma 3, lett. a) e d). Per cui – afferma l’Assessorato siciliano – quella dimora è un bene culturale «particolarmente importante».
Per il nostro giudice d’appello si tratta quindi di «calibrare il valore semantico del termine “bene culturale”».
A questo fine, richiamato il concetto di patrimonio culturale introdotto dal Codice e la conseguente bipartizione in beni paesaggistici e culturali, la sentenza afferma che tra i caratteri comuni a tutti i beni culturali quello che rileva nel nostro caso è il carattere dell’immaterialità, intesa come l’attitudine a essere «testimonianza di superiori valori di civiltà». I valori – prosegue la pronuncia – «si incardinano inscindibilmente nel bene materiale, ed il bene diventa radice ed espressione di una significazione altra che non si identifica con il supporto materiale ma rimanda ai valori ed ai principi che in dato momento storico guidano l’evoluzione della società». E ancora: «il valore storico dei beni oggetto del presente procedimento origina dal loro valore simbolico e si colora di indubbi significati etici»[11].
«Immaterialità». «Significazione altra». «Simbolo»[12]. Concetti sui quali devo ora soffermarmi.
4. Casa Livatino e vincolo testimoniale
Volgiamoci[13] allora alla norma centrale, quella con cui s’apre il capo sui beni culturali: l’art. 10 del codice[14]. Per garantire la tutela dei beni oggetto della nostra vicenda l’Assessorato siciliano ne ha utilizzato sopra tutto il comma 3, lett. d)[15], concernente «le cose immobili e mobili[16], a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose»[17].
Questi beni non devono presentare un interesse storico o artistico in sé. Sono rilevanti per un altro aspetto, per il loro legame con un evento storico o con una specifica epoca della civiltà: condizione sufficiente perché il bene sia vincolato.
I presupposti per l’imposizione del vincolo qui sono, in primo luogo, l’esistenza di un fatto della storia e della cultura collegabile al bene; poi, l’importanza particolare che la cosa assume per effetto del riferimento a quel fatto storico-culturale.
È il c.d. vincolo testimoniale (o storico-relazionale), sintagma molto elegante al quale la giurisprudenza ha attribuito carattere di specificità: «il vincolo appena descritto si distingue tradizionalmente da quello previsto in generale dallo stesso art. 10 a tutela delle cose di ‘interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico’. Si afferma infatti, in sintesi estrema, che la cosa di interesse per riferimento con la storia di per sé non rivestirebbe alcun interesse culturale, ma lo assume nel caso concreto, perché collegata ad un qualche evento passato di rilievo: si fa l’esempio di un oggetto di fattura comune e di nessun pregio artistico, che però fosse caro al personaggio celebre che ne era proprietario. In questo senso si esprimono anche, in termini generali, le sentenze della Sezione 22 maggio 2008 n. 2430 e 24 marzo 2003 n. 1496, che si citano perché di rilievo, e riguardano due casi nei quali il vincolo in questione era stato apposto su un bene immobile. […] Nei termini descritti, si osserva che il riferimento con la storia non necessariamente coinvolge fatti di particolare importanza, potendo essere sufficiente anche il ricordo di eventi della storia locale, come appunto la valorizzazione di un quartiere in precedenza disagiato, ovvero della storia minore, cui rimandano le mappe di un tratto di campagna. Si tratta però pur sempre di fatti specifici, bene individuati come tali. Si potrebbe anzi affermare che proprio in questo carattere specifico sta la differenza fra il vincolo in esame e quello storico-artistico, dato che, all’opposto, i valori artistici sono espressione del generico gusto di un’epoca, non necessariamente ricollegabile a fatti determinati»[18].
Il profilo d’importanza storica si colloca al di fuori del bene e prescinde da un requisito di vetustà del bene stesso[19]: il vincolo potrebbe essere applicato – come nel nostro caso – anche a beni di fattura recente, ma che meritano tuttavia di esser comunque tutelati a motivo del loro collegamento con fatti storici specifici.
5. Di una sottrazione al divenire: i semiòfori
Il riferimento alla storia politica, peraltro indipendente – come abbiamo appena visto – da una determinata data di costruzione del manufatto, rende questa norma di notevole rilievo per noi.
In base alla lett. d) in esame, infatti, la dichiarazione ex art. 13 del codice può riguardare un bene privato o pubblico, di realizzazione remota o moderna, pregevole o meno: nulla di tutto ciò rileva, ma solo l’esser protagonista o testimone di un accadimento cui si possa oggettivamente annettere rilievo storico-politico.
La natura puramente relazionale di questa tipologia di vincolo, e la vastità indefinita del parametro di valutazione cui esso appunto si riferisce e quindi ci riconduce (la generica rilevanza politica di un evento), sono strumenti che l’ordinamento offre a tutela di una categoria di beni assai estesa, proprio perché non circoscrivibile per qualità intrinseche.
Il rischio è anzi quello opposto: che ricadano nel perimetro del vincolo beni collocati in una “posizione segnica” troppo distante dall’evento cui dovrebbero riferirsi.
Per utilizzare una figurazione, l’accadimento – l’Ereignis – è generato da una serie virtualmente infinita di antecedenti causali. Può a sua volta immaginarsi come un punto d’impatto su di una superficie che disegna – a mo’ di cerchi concentrici – i segni dei suoi effetti. Non è semplice individuare il momento, a monte e a valle dell’evento, a partire dal quale si possa cominciare a ritenere segnicamente irrilevante la relazione – pur esistente per causa, effetto, vicinanza o somiglianza (come si dirà meglio più avanti) – fra una cosa-testo e l’evento stesso.
Un esempio costruito sul nostro caso. Nell’interminato novero delle cose che esibiscono oggettivamente un legame causale, effettuale (o relazionale in genere) con il tragico accadimento del 21 settembre 1990, quando si deve ritenere che quel legame sia così labile e lontano da non meritare l’apposizione del vincolo sulla res che si trova in una situazione siffatta? Il giudizio è foriero di non poche incertezze, esplicandosi nell’esercizio di un potere comunque discrezionale, sia pur connotato da valutazioni più o meno assise su criteri tecnico-scientifici[20].
Ciò deriva dal fatto che la funzione originaria del bene – la sua utilità[21] concreta – è infatti trascesa del tutto: l’oggetto acquista un nuovo significato, come frase di un testo diverso e più ampio.
Da qui si diparte poi un duplice, progressivo allargamento della prospettiva, ben sottolineato dal Consiglio siciliano.
Anzitutto, l’area semantica del bene vincolato si affranca dal suo riferimento a un oggetto specifico (materiale o meno, inteso dunque come Gegenstand), per assurgere a indicare un intero ambito di riflessione e d’interpretazione della realtà: un angolo visuale di lettura e comprensione dei processi reali.
Inteso come ‘campo’, quel bene induce poi alla costruzione di una teoria affidante intorno al modo con cui uno spazio-macchina[22] produttivo di segni crea un ambiente affatto immaginario, nonché intorno allo scopo ultimo cui esso è funzionale[23].
Sottrazione all’uso[24], protezione, pregio[25] e visibilità sono le caratteristiche evidenti e costanti dell’oggetto vincolato, che trae la sua rilevanza dall’ingresso in quello spazio-macchina, dal quale infatti non può più – regola abbastanza costante pur nell’infinita diversità di tempi, luoghi, modi, circostanze – uscire[26].
Questi beni esibiscono tutti una palese «omologia di funzioni»[27]. A differenza dei beni apportatori di utilità pratica (produzione, consumo, etc.), essi apportano un significato rimandando a ciò che non è immediatamente visibile/sensibile: sono cioè puri semiofori[28].
In sintesi, cose (utili) in opposizione a semiofori (significanti). Tali perché orientati nella direzione della loro funzionalizzazione a esigenze di elevazione culturale, di protezione e trasmissione dei fondamenti della civiltà di un popolo.
Non importa il pregio in sé del bene. Il segno di vita – e di morte – che questi oggetti tracciano come media simbolici è esso stesso momento di valore. Non può essere alterato.
L’oggetto è entrato in una dimensione al di fuori del tempo e dello spazio[29], divenendo «κτῆμα ἐς αἰεί»[30], acquisto perenne: la storia ne ha scolpito quel sembiante esteriore che noi – i sorteggiati a vivere ancora – possiamo oggi contemplare[31].
V’è qualcosa di sacrale. E un invito per il giurista-poeta[32]: queste cose restino sottratte al divenire. Tramandino per sempre il ricordo di un’ora tragica; di un’esistenza breve, piena di Grazia.
[1] Come si legge nella sentenza commentata.
[2] Uno dei più classici casi di dialettica fra interesse pubblico e (legittimo) interesse privato. Cfr. M.L. Torsello, Profili generali del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in giustizia-amministrativa.it: «l’interesse sotteso al bene culturale è intrinsecamente “debole”, nel senso cioè che è esposto più di altri a confliggere con valori diversi delle società contemporanee, quali quelli dell’industria e del profitto. Del resto è questo il senso della collocazione della tutela tra i principi fondamentali della nostra Costituzione».
[3] Anche questo passo è preso dalla sentenza del CGA.
[4] Ord. n. 172/’16.
[5] È la n. 2887/’16.
[6] Si pensi al «Centro Studi Rosario Livatino», che – come si legge nel sito (centrostudilivatino.it) – si occupa di «temi riguardanti in prevalenza il diritto alla vita, la famiglia, la libertà religiosa, e i limiti della giurisdizione in un quadro di equilibrio istituzionale», attivandosi anche per iniziative di mobilitazione culturale.
[7] È la sentenza 15 febbraio 2021, n. 107, pubblicata qui.
[8] Molto bella, e sopra tutto molto autentica, l’intervista di Roberto Conti a Roberto Saieva (oggi Procuratore generale della Repubblica a Catania, il quale lavorò a contatto strettissimo con Livatino), pubblicata in questa rivista per il trentennale della morte del magistrato: Livatino ieri e oggi.
Non è per fortuna uno stucchevole ritratto agiografico da immaginetta sacra, da improbabile santino, quello che vien fuori dalle parole di Saieva: «La sua rigidità nel rispetto delle regole – anche di quelle formali, che rappresentano la necessaria premessa di quelle sostanziali – era non di rado causa di malcontento. I malumori crebbero quando passò alle funzioni giudicanti. Ricordo qualche memoria e qualche gravame avverso provvedimenti da lui redatti dai toni insolitamente aspri». Ancora, per descrivere le reazioni all’omicidio: «Sul momento, com’è ovvio, il sentimento prevalente fu quello della commozione, anche tra coloro – avvocati, altri liberi professionisti, pubblici amministratori, colleghi – che nei suoi confronti non avevano nutrito particolare simpatia. La commozione è un sentimento facile. […] E ricordo pure che nel dicembre di quell’anno 1990, nella cappella maggiore del seminario vescovile di Agrigento fu celebrata una solenne messa in suffragio di Rosario. Naturalmente i magistrati agrigentini furono tutti presenti. La cerimonia era aperta anche agli avvocati, ma soltanto tre di loro vi parteciparono. Uno dei tre era tuo padre».
Come giustamente secca e impietosa è la descrizione del clima ambiguo e opaco cha caratterizzava le istituzioni del tempo, inclusa la magistratura: «noi magistrati impegnati sul fronte antimafia avevamo la sensazione di essere non funzionari dello Stato, ma liberi professionisti; e se non rappresentavamo lo Stato, se facevamo quel che facevamo per una nostra scelta individuale, era normale che subissimo le conseguenze di un impegno che nessuno ci chiedeva. Era una sensazione fondata. E infatti la scia di sangue, come sappiamo, non si sarebbe fermata. Ci sarebbero state ancora le stragi di Capaci e Via D’Amelio, le stragi sul continente». Poi si ebbe finalmente la reazione dello Stato. Ecco il commento tagliente di Saieva: «[…] nell’attività della Magistratura debbano essere distinte due fasi, corrispondenti alle due fasi dell’azione dello Stato che ho in precedenza indicato. La risposta fu, non dico corale, ma diffusa solo nella seconda fase, quando cioè fu chiara la volontà dei pubblici poteri di sgominare le associazioni mafiose, cosa nostra soprattutto, che, per ragioni, ripeto, ancora largamente oscure, aveva scelto la strada dello scontro diretto con le Istituzioni. Insomma, molti magistrati avvertirono che il vento cambiava e furono lesti a conformarsi. Ho visto magistrati passare in pochi anni dalla negazione dell’esistenza della mafia, alla pubblica celebrazione dei secoli di carcere inflitti ai mafiosi».
Sulla figura di Livatino si v. ora il recentissimo volume di A. Mantovano, D. Airoma, M. Ronco, Un Giudice come Dio comanda. Rosario Livatino, la toga e il martirio, Milano, il timone, 2021.
[9] Sia pure nella sua più recente accezione, indiretta e larga. Cfr. K.J. Wojtyla, Il sangue dei due missionari martiri costituisce le fondamenta della Chiesa cinese, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VI/1, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1983, p. 1245: «gli uccisori danno mostra di odiare la fede non solo quando la loro violenza si getta contro l’annuncio esplicito della fede [...], ma anche quando tale violenza si scaglia contro le opere di carità verso il prossimo, opere che obiettivamente e realmente hanno nella fede la loro giustificazione ed il loro motivo. Odiando ciò che sorge dalla fede, mostrano di odiare quella fede che è la sorgente».
[10] «Il vangelo, la macchina da scrivere, il telefono, materiale di documentazione e riviste giuridiche, un quadretto di Paolo VI (richiamato in una delle sue agendine quando muore il Sommo Pontefice), una vecchia radio assieme ad una nutrita videoteca in VHS. Presenti anche la copia della tesi di specializzazione in Diritto regionale nonché alcuni capi di abbigliamento compresa la toga posta sulla bara il giorno dei funerali».
[11] Ho aggiunto io i corsivi che compaiono nelle frasi della sentenza riportate nel testo.
[12] Il CGA insiste sul concetto di simbolo: «il valore storico-simbolico dell’immobile e delle cose conservate è, infatti, ancora maggiore oggi dopo che la Chiesa ha quasi portato a termine il procedimento di beatificazione del giovane giudice. […] A fronte dell’assenza di familiari diretti che possano mantenerne viva la memoria, è dovere dello Stato, di cui Livatino è stato un “servitore eccezionale”, riconoscere lo straordinario valore culturale della casa del Giudice ed il suo forte valore simbolico a ricordo di chi ha pagato con la vita la “normale” rettitudine che non si piega alle minacce o alle lusinghe della mafia».
[13] Si noti: in assenza di altri documenti recanti criteri per l’identificazione di un bene culturale (uso un linguaggio attualizzato), per molto tempo la fonte – pur a maglie comunque assai larghe – cui la prassi amministrativa ha fatto ricorso anche per procedere alla ricognizione dell’esistenza di un interesse pubblico all’apposizione del relativo vincolo è stata la circolare 13 maggio 1974, n. 2718 del Ministero della pubblica istruzione (allora titolare della competenza in materia), in materia di esportazione delle cose di interesse artistico ed archivistico.
Frutto del contributo di personalità come Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e Massimo Pallottino, gli indirizzi risentono di una duplice influenza, derivante sia dalla formazione culturale dei loro componenti, di natura prevalentemente storico-artistica, sia dallo Zeitgeist, vicino a una visione marxiana dei rapporti sociali. È infatti percepibile l’abbandono (pur se ancora in itinere) della concezione idealistico-estetica dell’intera materia. Così la circolare: «in sostanza può dirsi che mentre fino a qualche tempo fa le istanze prevalenti nella considerazione delle cose del passato erano quelle estetiche, ora pur conservando i valori estetici tutto il loro peso, se ne sono aggiunti ad essi molti altri che allargano notevolmente la sfera di interessi in cui tali cose possono rientrare». E vi affiorano le prime, ma già abbastanza strutturate teoricamente, consapevolezze circa la necessità di superare l’approccio sino a quel momento domi-nante: si delinea la traiettoria che condurrà poi, come vedremo, al modello – particolarmente interessante per la nostra riflessione – di apertura tendenziale nei confronti della possibilità di ravvisare i caratteri del bene culturale pressoché in ogni «testo» connotato da un particolare effetto di senso o valore.
[14] Di seguito, per comodità di lettura, riporto il testo dell’art. 10 (sul quale v. il commento di G. Morbidelli in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, III ed., Milano, 2019, 133 ss., il quale legge opportunamente il telaio normativo distinguendovi i beni culturali «per ragioni soggettive», «ope legis», «per dichiarazione amministrativa» ed «esemplificati»). «1. Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico. 2. Sono inoltre beni culturali: a) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico; b) gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico; c) le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico, ad eccezione delle raccolte che assolvono alle funzioni delle biblioteche indicate all’articolo 47, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616. 3. Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13: a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1; b) gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante; c) le raccolte librarie, appartenenti a privati, di eccezionale interesse culturale; d) le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose. Se le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale; d-bis) le cose, a chiunque appartenenti, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione; e) le collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti, che non siano ricomprese fra quelle indicate al comma 2 e che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica, archeologica, numismatica o etnoantropologica, rivestano come complesso un eccezionale interesse.
4. Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a): a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b) le cose di interesse numismatico che, in rapporto all’epoca, alle tecniche e ai materiali di produzione, nonché al contesto di riferimento, abbiano carattere di rarità o di pregio; c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio; d) le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio; e) le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio; f) le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico; g) le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico; h) i siti minerari di interesse storico od etnoantropologico; i) le navi e i galleggianti aventi interesse artistico, storico od etnoantropologico; l) le architetture rurali aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale.
5. Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente titolo le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni, nonché le cose indicate al comma 3, lettera d-bis), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni».
[15] In questa vicenda il riferimento assessorile alla lett. a) ha – come abbiam visto – un ruolo chiaramente satellitare e di blando rinforzo motivazionale.
[16] Il codice ha opportunamente esteso la tutela anche ai beni mobili, esclusi invece dal previgente art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), secondo cui «sono beni culturali […] le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante».
[17] Così prosegue la lett. d) cit., a seguito della novella recata dall’art. 6, l. 12 ottobre 2017, n. 153 («Disposizioni per la celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci e Raffaello Sanzio e dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri»): «Se le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale».
[18] Cons. Stato, VI, 14 giugno 2017, n. 2920: è il caso del cinema ‘America’ di Roma.
V. anche Cons. Stato, VI, 3 settembre 2013, n. 4399, secondo cui «la dichiarazione di particolare interesse storico-artistico di un immobile si deve basare su elementi pregnanti che ne illustrino uno specifico pregio o che ne attestino quantomeno la sua valenza testimoniale di un tipico e ben determinato stile architettonico».
[19] Questo profilo è oggetto di una censura dedotta in primo grado (ma che parrebbe non riproposta in appello). Il Tar Palermo la rigetta così: «non coglie nel segno neppure il riferimento alla circostanza che i beni mobili avrebbero meno di cinquanta anni, atteso che la disposizione normativa di riferimento è contenuta nell’art. 12, co. 1, del d.lgs. 42/2004, il quale – nel porre ope legis il vincolo sulle opere la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili – si riferisce ai soli beni mobili di cui all’art. 10, co. 1, d. 42/2004 e, quindi, ai soli beni pubblici o di enti privati riconosciuti, i quali non vengono in rilievo nel caso di specie».
[20] La sentenza evidenzia chiaramente questo aspetto: «il giudizio circa la sussistenza dei requisiti che legittimano l’emissione del provvedimento impugnato è certamente discrezionale e lo stesso meriterebbe censura solo nelle ipotesi in cui debba ritenersi illogico o irrazionale».
Dobbiamo a G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in AA.VV., Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela, in Aedon, 2016, un’attenta analisi sulle dinamiche del potere tecnico-discrezionale nelle vicende qui in esame. Premessa in generale l’estraneità di ogni processo ponderativo, dovendosi quel potere muovere – come viaggiando su una monorotaia, dice l’A. – verso la tutela del solo interesse commessogli dalla norma, egli sottolinea che «la particolarità delle “tecniche” da spendere in questo settore – storia, storia dell’arte, architettura, scienze del paesaggio e del territorio, ecc. – è di un marcato carattere di “non-scienza esatta” delle conoscenze specialistiche necessarie alla ricognizione per la dichiarazione di bene culturale o paesaggistico, ovvero alla stima di compatibilità dell’intervento concretamente immaginato». Per la tesi, non priva di qualche arditezza, secondo cui la considerazione e ponderazione di interessi altri «costituirebbe invece un sicuro argine al dilagare della notificazione di rilevante interesse, indice sintomatico di un modo di amministrare che non può essere condiviso» per l’asserito timore che l’eccesso conduca a una sostanziale vanificazione della tutela, v. B. Cavallo, op. cit., 122.
[21] Un «mondo strano da cui l’utilità sembra bandita per sempre»: così, a proposito dei musei e degli oggetti custoditi lì, inizia la sua analisi celebre e densissima, K. Pomian, Collezione, in Enciclopedia Einaudi, vol. III, Torino, 1978, 330 ss., spec. 330; cui adde ovviamente Id., Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII secolo, Milano, 2007.
[22] La casa di Livatino, nel caso nostro.
[23] Il riferimento d’obbligo è ai due lavori di Krzysztof Pomian già citati: a essi mi atterrò nel prosieguo.
[24] E dunque al circuito dello scambio economico in base all’utilità sua intrinseca, se e in quanto esistente.
[25] Poiché, pur essendo allo stato non utilizzabile, potrebbe comunque esser considerato un oggetto con valore di scambio, anche se non d’uso.
[26] Come le offerte agli dei nei templi greco-romani, dai quali non potevano essere distolte se non in situazioni estreme, onde ricavarne provviste finanziarie ritenute indispensabili per la salus rei publicae.
[27] K. Pomian, Collezione, cit., 341. Pomian analizza anzitutto i cc.dd. musealia dell’epoca premoderna (suppellettili funebri, offerte votive, tesori reali, etc.), ravvisandovi un tratto comune: consentire la comunicazione biunivoca tra il mondo visibile e quello invisibile (tramandato da miti, leggende, religioni: è il linguaggio a secernere i fantasmi dell’invisibile – osserva Pomian – in un mondo dove si muore e che induce a sperare che il visibile/sensibile sia soltanto una parte dell’essere), donde le quattro già viste loro caratteristiche dell’esser sottratti all’uso comune, protetti, pregiati, visibili. Poiché l’invisibile è di necessità ritenuto superiore al visibile, l’oggetto che col primo intrattiene una relazione di partecipazione, discendenza, vicinanza o somiglianza gode inevitabilmente di uno status privilegiato rispetto alle altre cose.
[28] K. Pomian, Collezione, cit., 350.
[29] «Preservata nel tempo nella sua immobile integrità»: così dice – come abbiam visto – la relazione assessorile a proposito di casa Livatino (e di tutto ciò che vi è conservato).
[30] Tucidide, Historiae, I, 20, 23.
[31] Onde il «vedere poetico» che rimanda a Hölderlin e da lui a Heidegger e Benjamin: «un’identificazione affettiva che consente di superare la distanza fra il mondo in cui sono le cose e il mondo in cui ne pronunciamo i nomi, cogliendo un’intimità con le cose stesse sentite non più come “oggetti opachi e chiusi” ma come intimamente partecipi alla nostra vita, ad un “destino creaturale” dove vita delle cose, vita dell’uomo, della natura sono necessariamente legati»: così A. Quendolo, op. cit., 47.
[32] Per il giurista che conosca e dica il diritto poietico, con M. Nussbaum, Giustizia poetica, Milano-Udine, 2012, su cui ora i profondi pensieri di G. Montedoro, Giustizia poetica, in apertacontrada.it («Un giurista concepito come mero tecnico ha meno chances di comprendere la complessità valoriale dell’ordinamento multilivello, di essere attrezzato per interpretare le diverse culture che ormai confluiscono nel mare magnum dell’esperienza giuridica sovranazionale, ha meno attenzione in definitiva per ogni aspetto dell’umano ed alla fine è meno capace di apprezzarne la concretezza con quel grado di eternità che è in ogni differenza»).
Giustizia Insieme ha deciso di lanciare una riflessione pubblica sul programma di gestione della Corte di Cassazione per l'anno 2021 predisposto dal Primo Presidente Pietro Curzio, nella consapevolezza che la "vita" dell'organo giurisdizionale di ultima istanza al quale l'art.65 della legge sull'ordinamento giudiziario affida tuttora la funzione di nomofilachia, le modalità con le quali essa Corte opera, i risultati e gli obiettivi preventivati non siano patrimonio esclusivo di Presidenti, consiglieri, Procuratore generale, Avvocati generali e sostituti procuratori generali, ma appartengano alla comunità dei giuristi teorici e pratici e, più in generale all'intera collettività, alla quale la Corte tende a proporsi come una casa di vetro, pur minata, a volte, anche nelle sua fondamenta, da diversi fattori, non ultimo quello della irragionevole durata del processo.
Le riflessioni si snoderanno su binari che riguardano gli ambiti civili e quelli penali della Corte, non mancando di esaminare questioni di sistema collegate agli aspetti statistici ed all'essere e svolgere la funzione di consigliere di Corte nel tempo presente.
Inizia questo viaggio il Primo presidente aggiunto emerito della Cassazione Renato Rordorf sul tema, centrale, della motivazione dei provvedimenti.
Riflessioni sulla Relazione illustrativa del programma di gestione della Corte di Cassazione per l’anno 2021.
1) Commento al punto 11: “La motivazione dei provvedimenti”
di Renato Rordorf
1. La relazione con la quale il Primo presidente Pietro Curzio ha illustrato il programma di gestione della Corte di cassazione per l’anno 2021 (in prosieguo: la Relazione) dedica un corposo paragrafo, l’undicesimo, alla motivazione dei provvedimenti. Vale la pena, data l’importanza del tema, di trarne spunto per alcune brevi riflessioni.
Nel documento vengono posti in evidenza tre aspetti fondamentali, strettamente correlati: il primo attiene alla rilevanza costituzionale della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, il secondo alla loro funzione, il terzo ai caratteri che dovrebbero contraddistinguerli. Proverò ad accennare brevemente a ciascuno di essi.
2. È superfluo ricordare che l’obbligo di motivare i provvedimenti giurisdizionali costituisce una delle più importanti conquiste della civiltà giuridica. L’art. 111 della Costituzione, che inaugura la sezione dedicata alle norme sulla giurisdizione, significativamente enunciava quell’obbligo sin dal primo comma, quasi a volerne evidenziare l’importanza prioritaria. Dopo la riforma costituzionale del 1999 l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali è slittato al settimo comma, ma non per questo ha perso di rilievo.
D’altronde, come la Relazione non manca di sottolineare, la motivazione dei provvedimenti del giudice mette in gioco anche altri profili di rilevanza costituzionale: serve a dar conto all’opinione pubblica del modo di esercizio del potere giudiziario e va posta perciò in relazione con l’art. 101 della Costituzione in quanto fonda “la legittimazione tecnico-professionale dei magistrati”. V’è in effetti uno stretto legame tra il dovere dei giudici di motivare i propri provvedimenti, lo statuto di indipendenza di cui essi godono e la responsabilità che loro incombe; ed opportunamente viene anche richiamata, a tal proposito, la Raccomandazione n. 12 adottata il 17 novembre 2010 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, la quale non casualmente, nel trattare il tema dell’indipendenza, dell’efficienza e della responsabilità dei giudici, al punto 63 espressamente afferma: “I giudici devono motivare le sentenze in linguaggio che sia chiaro e comprensibile”.
La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano, come recita il primo comma del già citato art. 101 della Costituzione, ma ad amministrarla sono chiamati dei pubblici funzionari – i magistrati – privi di una diretta investitura popolare, perché non eletti dal popolo bensì selezionati unicamente in base alle loro competenze tecnico-professionali. Ciò che, nondimeno, consente di riferire al popolo italiano i provvedimenti emessi da quei giudici è, per un verso, la soggezione di costoro (soltanto) alla legge, come si affretta a precisare il secondo comma del medesimo art. 101, ma per altro verso anche e proprio l’obbligo di motivazione dei provvedimenti di cui si è appena detto. In società complesse i principi democratici dello Stato di diritto non implicano che ogni decisione debba necessariamente promanare direttamente dal popolo, o dai suoi rappresentanti eletti, ma postula che chi è chiamato ad assumerla lo faccia nel rispetto della legge, forgiata dal Parlamento eletto dal popolo, e che ciò avvenga in modo trasparente e controllabile. Perché ciò accada occorre, appunto, che i provvedimenti giurisdizionali siano dotati di una motivazione che dia conto del rispetto da parte del giudice della stessa Costituzione e delle leggi emanate dal Parlamento. Non sarebbe altrimenti possibile il controllo dell’opinione pubblica sul modo in cui la giurisdizione è esercitata, né sarebbe offerto al medesimo Parlamento lo stimolo ad eventualmente modificare i testi normativi la cui applicazione giurisprudenziale fosse ritenuta non rispondente agli indirizzi del corpo elettorale. D’altronde qualsiasi forma di esercizio di un potere, ed in primo luogo quello giurisdizionale, nelle moderne democrazie deve sempre essere motivato.
3. V’è un evidente legame logico tra quanto appena osservato ed il secondo profilo sul quale la Relazione opportunamente si sofferma: quello concernente la funzione della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.
Si tratta, in realtà, di una funzione duplice, tanto endoprocessuale quanto extraprocessuale. Sono due facce, entrambe in qualche misura quasi sempre almeno potenzialmente presenti in ogni provvedimento giurisprudenziale, che possono combinarsi diversamente ed avere un diverso peso specifico a seconda dei casi. La funzione endoprocessuale consiste nel dare conto alle parti (ed ai loro difensori) delle ragioni per le quali è stato dato loro torto o ragione. E’ questa un’esigenza ineliminabile, quale che sia il regime di impugnazione del provvedimento, ed anche se esso non sia impugnabile. L’esercizio della giurisdizione, infatti, non consiste solo nel decidere autoritativamente una controversia o nell’esplicare d’imperio il potere punitivo dello Stato, ma dovrebbe anche poter favorire il ripristino del tessuto sociale lacerato dalla contesa soggettiva o dal compimento del reato; e perché ciò possa accadere (o almeno si possa sperare che accada) è sempre indispensabile che la decisione poggi su criteri ragionevoli e che i destinatari siano posti in condizione di intenderne il fondametno. Quando però il provvedimento sia impugnabile, la motivazione è ovviamente essenziale anche e soprattutto per consentire alle medesime parti, se del caso, una ragionata impugnazione, e serve al giudice del grado successivo per valutare appieno l’ammissibilità di tale impugnazione e la sua eventuale fondatezza. Può ben dirsi, quindi, che la funzione endoprocessuale della motivazione è immanente a qualsiasi provvedimento giurisdizionale, in quanto destinato ad incidere sulla situazione giuridica delle parti, fatta solo eccezione per i limitati casi in cui la Cassazione è chiamata ad enunciare un principio di diritto nell’esclusivo interesse della legge, ai sensi dell’art. 363 c.p.c.
Ma si è già prima ricordato che la motivazione è essenziale anche per consentire il controllo della pubblica opinione sull’esercizio della giurisdizione, ed in ciò risiede la sua funzione extraprocessuale. La motivazione non si rivolge più solo alle parti del singolo processo, ma si allarga ad una più ampia platea di destinatari, a cominciare dalla comunità dei giuristi, alimentando quel dialogo tra dottrina e giurisprudenza che è il principale motore dell’evoluzione dell’ordinamento. La conoscenza delle ragioni che hanno ispirato una determinata decisione giudiziaria può poi riflettersi sul modo in cui altre analoghe vertenze potranno prevedibilmente essere decise, Una funzione, questa, di certo non meno importante dell’altra, ove si consideri che il nostro sistema giuridico, pur non conferendo ai precedenti un valore propriamente vincolante, tende nondimeno col tempo a riconoscere sempre maggior rilievo agli orientamenti giurisprudenziali consolidati, incoraggiando a discostarsene solo in presenza di ben motivate ragioni. Il che, con ogni evidenza, implica, per un verso, che gli orientamenti della giurisprudenza (a cominciare da quelli della Cassazione) riusciranno ad essere tanto più stabili ed a assicurare quindi tanto maggiore certezza del diritto quanto più solida e persuasiva risulterà la motivazione che li sorregge; e, per altro verso, che il successo di qualsiasi, pur meritoria, spinta a modificare orientamenti ritenuti non più al passo coi tempi e con l’evoluzione dell’ordinamento dipenderà dalla persuasività della motivazione che ne venga posta a base e dalla sua capacità di scalfire e rimpiazzare la motivazione più risalente.
È quindi di tutta evidenza che la motivazione rappresenta lo strumento fondamentale per il corretto esercizio della nomofilachia, che compete in via principale (benché non esclusiva) alla Corte di cassazione, perché è proprio con l’uso accorto di tale strumento che risulta possibile declinare la nomofilachia in modo, per così dire, dinamico: ossia contemperare in maniera trasparente e ragionevole l’esigenza di stabilità e di (almeno relativa) prevedibilità della giurisprudenza con quella, non meno importante, di costante adeguamento della medesima giurisprudenza al mutare delle esigenze e delle sensibilità sociali.
Ma c’è di più. Oltre alla duplice funzione di cui si è detto, in cui la motivazione svolge un ruolo comunicativo verso l’esterno, ne aggiungerei una terza, per così dire interiore. La motivazione serve anzitutto al giudice per verificare la correttezza logica del ragionamento che lo ha condotto ad assumere una determinata decisione e la coerenza di quel ragionamento con i dati normativi di riferimento. La decisione sta in piedi se si riesce a motivarla in modo persuasivo nei suoi vari passaggi, ed è solo nell’esporre quei passaggi che lo stesso estensore acquisisce piena e sicura contezza della loro tenuta logica e giuridica. Accade talvolta che proprio nella fase di scrittura della motivazione ci si accorga che qualcosa nel ragionamento non funziona e che occorre perciò ridiscutere o rivedere, in tutto o in parte, la stessa decisione. Purtroppo l’eccessivo carico di lavoro da cui sono gravati quasi tutti gli uffici giudiziari non lo consente, ma sarebbe davvero un gran bene se, come accade per le pronunce della Corte costituzionale, prima di pubblicare qualsiasi provvedimento collegiale (o almeno le sentenze della Cassazione aventi una particolare valenza nomofilattica) fosse possibile sottoporne la motivazione al riesame dell’intero collegio giudicante.
4. Per poter soddisfare appieno le esigenze comunicative di cui prima s’è detto ed esplicare adeguatamente le diverse funzioni alle quali s’è fatto cenno, occorre che la motivazione risponda a due requisiti, ben messi in luce dalla Relazione che si sta qui commentando: chiarezza e sinteticità. L’importanza di questi requisiti è ormai entrata nel comune sentire: da tempo in documenti programmatici ed in ripetute circolari se ne raccomanda il rispetto e li si evoca sovente anche nei commenti di dottrina, quantunque mi pare non che li si rispetti poi con altrettanta fermezza nella pratica dell’agire quotidiano.
4.1. Che la motivazione di un provvedimento debba esser chiara mi sembra, a dire il vero, un concetto persino lapalissiano. La motivazione – lo si è già visto – deve poter dare conto delle ragioni della decisione ed essere il più possibile persuasiva; deve cioè assolvere ad una funzione comunicativa ed esplicativa. Ma una comunicazione che non sia chiara, e quindi non sia ben comprensibile da parte dei suoi destinatari, tradisce evidentemente il suo scopo; ed una spiegazione che non si lasci intendere in realtà non spiega nulla. Anche tralasciando i casi limite nei quali la motivazione risulti a tal punto incomprensibile o contraddittoria da potersi dire solo apparente, se le ragioni del decidere sono esposte con formule contorte, con inutili arcaismi, con un periodare eccessivamente lungo e pieno di incisi, con espressioni ambigue o di significato oscuro, il rischio del loro fraintendimento è elevato e si impone alle parti (nonché, eventualmente, al giudice dell’impugnazione) uno sforzo supplementare ed un dispendio di energia che non giova alla ragionevole durata del giudizio e spesso neppure al buon esito della causa. La Relazione che qui si sta commentando lo dice bene: “Il giusto processo è, quindi, anche un giudizio ben comprensibile”.
Discende da ciò anche la necessità di saper dosare l’uso dei termini giuridici e delle locuzioni gergali che sono familiari soltanto al mondo dei giuristi. Se si ha riguardo a quanto appena detto a proposito della funzione extraprocessuale della motivazione, ed in particolare al controllo dell’opinione pubblica che per il suo tramite si deve poter esercitare sull’esercizio della giurisdizione, non si stenterà ad intendere che l’abuso di un linguaggio estremamente specialistico rischia di frustrare quella finalità. Non posso qui affrontare in termini generali il ben più ampio tema, affascinante ma assai complesso, del linguaggio giuridico; mi si consenta però almeno di accennare alla necessità che, nel motivare i propri provvedimenti, il giudice non dimentichi chi ne sono i destinatari e sappia, di conseguenza, modulare diversamente l’uso di espressioni tecnico-giuridiche a seconda che l’argomentazione investa una questione strettamente giuridica (il cui significato saranno necessariamente i difensori a dover poi spiegare alle parti) o che invece riguardi temi di più generale interesse umano, magari tali da suscitare la sensibilità sociale della collettività, per i quali è necessario sforzarsi di evitare un linguaggio iniziatico non comprensibile ai più.
La chiarezza della motivazione dipende anche, come è ovvio, dalla sua struttura, ossia dal rispetto dell’ordine logico in cui vengono affrontati i diversi nodi problematici che il caso prospetta. E’ un ordine cui si può talvolta derogare, se la soluzione di una questione logicamente successiva, ma di per sé sola risolutiva, consente di decidere la causa più rapidamente (la cosiddetta ragione più liquida), a condizione però di rendere ben chiaro ed esplicito il motivo per il quale si è scelto di tralasciare l’esame, altrimenti prioritario, di questioni pregiudiziali o preliminari, onde non vi sia dubbio sul fatto che tali questioni sono rimaste assorbita e non sono state, invece, neppure implicitamente rigettate.
È sempre all’esigenza di chiarezza che va ascritto il dovere, nelle sentenze della Corte di cassazione, di enunciare il principio di diritto in base al quale la causa è stata decisa (art. 384 c.p.c.). Non sempre, in passato, si è prestata sufficiente attenzione a questa regola, che invece appare fondamentale per il corretto esercizio della già richiamata funzione nomofilattica della Suprema corte, realizzando quel “delicato equilibrio tra astrattezza e concretezza” che giustamente la Relazione invoca. La puntuale enunciazione del principio di diritto, inoltre, agevola di molto il compito di chi è poi chiamato ad estrarre dalla motivazione una massima, e non occorre aggiungere che, costituendo la massimazione uno strumento importantissimo per la conoscenza diffusa della giurisprudenza, è essenziale che ogni massima risulti il più possibile fedele al nucleo giuridico fondamentale della decisione cui si riferisce.
4.2. Mi è già capitato altre volte di rimarcare che chiarezza e sinteticità non sono concetti antitetici, bensì complementari, perché non è affatto vero che per risultare più chiari occorre spendere un maggior numero di parole. Ovviamente, la sinteticità non deve essere spinta sino all’ermetismo e, quindi, può ben dirsi che l’esigenza di chiarezza e comprensibilità della motivazione costituisce il limite oltre il quale la concisione non deve andare. Ma l’eccesso di parole e l’inutile sovrabbondanza delle argomentazioni, lungi dal giovare alla comprensibilità dei concetti, sovente li rende meno immediatamente percepibili, affatica inutilmente il lettore, ne affievolisce l’attenzione e finisce quindi col nuocere anche alla chiarezza.
La sinteticità della motivazione è, d’altronde, un importante strumento di economia processuale, non tanto perché lo scrivere meno consente di risparmiare tempo (ciò che non sempre è vero), ma in quanto l’eccesso di argomentazioni inutili inevitabilmente stimola la parte che voglia impugnare la decisione del giudice a formulare cautelativamente, a propria volta, motivi d’impugnazione non indispensabili ed, in un processo a catena, impone poi al giudice del grado successivo di esaminare anche tali motivi, sia pure magari solo per disattenderli o dichiararli inammissibili.
Non senza aggiungere che, quando si tratti di obiter dicta, ossia di considerazioni estranee alla vera a propria ratio decidendi, contenuti in motivazioni di provvedimenti collegiali quali sono quelli della Corte di cassazione, non è detto che se ne sia discusso approfonditamente in camera di consiglio: sovente la loro formulazione è frutto del pensiero individuale dell’estensore, di cui solo il presidente è reso poi partecipe, col rischio di generare una nomofilachia impropria e non sufficientemente controllata
Qualsiasi giudice, ma forse il giudice di cassazione più di ogni altro, deve saper porre un argine al pur comprensibile desiderio di allargare il proprio esame a tutti gli aspetti di una questione sottoposta al suo esame, anche quando solo alcuni tra essi risultano davvero rilevanti per la decisione della causa o per provvedere sugli specifici motivi di ricorso. Le cosiddette sentenze-trattato, pur se ispirate da intenti lodevoli, nella maggior parte dei casi non rendono un buon servizio alla giurisprudenza, che ha una funzione diversa dalla dottrina; e se un magistrato è punto dal legittimo desiderio di approfondire un tema giuridico anche al di là di quanto richiede la sentenza che è chiamato a motivare, non gli mancherà quasi mai la possibilità di farlo inviando ad una rivista giuridica il suo contributo di dottrina.
Una certa dose di narcisismo, sostengono gli psicologi ed i sociologi, è ineliminabile in qualsiasi manifestazione umana, ma c’è un narcisismo positivo ed uno nocivo. Il primo si identifica con l’amor sui, spinge a migliorarsi nell’intento di essere stimato nel proprio ambiente sociale e lavorativo; l’altro invece sconfina con la vanità, nasce dal desiderio di primeggiare sugli altri e rischia spesso perciò di pregiudicare il buon esito di attività destinate per loro natura a convergere verso una finalità collettiva. Anche nella motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, come in ogni altra manifestazione esterna del pensiero, si rispecchia questo dualismo. E’ un bene che l’estensore sia animato dal desiderio di non sfigurare nell’esercizio della sua professione, ed è anche umano che eventualmente egli ambisca a vedersi riconoscere il merito di aver contribuito positivamente allo sviluppo della giurisprudenza; ma è importante che non perda mai il senso del limite, che non si lasci trascinare dal “narcisismo cattivo” e non scambi la motivazione come una vetrina in cui mostrare al mondo la ricchezza della propria scienza giuridica: perché lo scopo dei provvedimenti giurisdizionali non è quello di illustrare il pensiero individuale di chi li redige, bensì di esprimere l’orientamento dei tribunali e delle corti cui sono intestati e di concorrere al formarsi della giurisprudenza nel suo insieme.
Anche l’auspicato ricorso a formule predefinite (le cosiddette “stringhe motivazionali”), quando si sia in presenza di questioni ricorrenti già ripetutamente affrontate e risolte dalla Corte, più ancora che consentire un significativo risparmio di tempo può forse valere a dar l’idea della motivazione come un prodotto collettivo in cui si manifesta, senza possibilità di equivoci, un orientamento giurisprudenziale condiviso e consolidato.
Va detto, però, che quello della sinteticità è pur sempre un concetto relativo. L’ampiezza dell’argomentazione, ovviamente, è proporzionale alla complessità della questione trattata e, se molte sono le questioni da affrontare, inevitabilmente ne risentirà la sua lunghezza. Ma c’è anche la variabile costituita dal tipo di provvedimento, perché alle ordinanze dovrebbe adattarsi una motivazione più sintetica ed agile di quella richiesta per le sentenze. Il codice del rito civile, pur se con qualche oscillazione terminologica, è esplicito in tal senso, laddove stabilisce che l’ordinanza sia “succintamente motivata” (art. 134, comma 1, c.p.c.). Proprio muovendo da tale considerazione il legislatore, nel riformare il procedimento di cassazione col d.l. n. 168 del 2016 (convertito nella legge n. 197 del 2016), ha voluto creare un duplice canale prescrivendo l’uso dell’ordinanza non solo quando si tratti di dichiarare un ricorso inammissibile o quando esso appaia manifestamente fondato o infondato, ma anche in tutti gli altri casi nei quali la Corte non ravvisi una preminente esigenza nomofilattica, riservando la decisione con sentenza, all’esito di discussione in pubblica udienza, solo alle questioni di maggiore rilevanza giuridica (art. 375 c.p.c.). Non posso però tacere l’impressione che questa impostazione normativa, ispirata dall’intento di valorizzare la funzione nomofilattica del giudice di legittimità consentendogli di riservarle maggior tempo e maggiori risorse, non sia stata ancora pienamente recepita e non sempre trovi riscontro nell’operare quotidiano della Cassazione. Ci si sarebbe potuto aspettare che solo (o quasi solo) le sentenze esibissero delle motivazioni ampie ed articolate, e che le ordinanze invece risultassero sempre più concise e stringate, come conseguenza della trattazione in pubblica udienza solo delle questioni più complesse e della scelta per tutte le altre del più sbrigativo rito camerale non partecipato. Ma è sufficiente sfogliare velocemente le pagine di qualsiasi rivista di giurisprudenza per accorgersi che così non è. La percentuale dei provvedimenti della Cassazione emessi con ordinanza, e nondimeno commentati su tali riviste perché considerati giuridicamente importanti, non è assolutamente inferiore a quella dei provvedimenti emessi con sentenza. Se poi si va a leggere la motivazione delle ordinanze pubblicate, ci si rende immediatamente conto che in moltissimi casi la loro ampiezza argomentativa non è per nulla inferiore a quella che ci si potrebbe attendere se si trattasse della motivazione di una sentenza. Appare quindi legittimo il dubbio che la scelta tra l’una o l’altra tipologia di provvedimento, nella realtà, non rispecchi un criterio uniforme, chiaramente definito e ben riconoscibile; né a tale scelta sembra poi corrispondere davvero una diversa tecnica motivazionale. Ciò verosimilmente dipende anche dalla difficoltà di operare efficacemente una cernita preventiva, in presenza di un numero elevatissimo di ricorsi, e di distinguere con sufficiente puntualità quelli ad alta o bassa valenza nomofilattica già nella fase del cosiddetto “spoglio”, ossia nel corso di quell’esame preliminare che serve appunto ad incanalarne la trattazione di ciascun ricorso nel solco del rito camerale o in quello della pubblica udienza. Se la rilevanza ed il grado di complessità delle questioni si percepiscono appieno solo quando si è giunti al momento di doverle decidere, è ovvio che l’esigenza di motivare adeguatamente una decisione che si rivela più complicata del previsto finisca col prevalere sul canone della maggior concisione cui ci si dovrebbe attenere in base al rito camerale ed alla conseguente tipologia del provvedimento decisorio. La medesima Relazione del Primo Presidente non manca, del resto, di sottolineare, in un diverso paragrafo, proprio l’importanza dello “spoglio” dei ricorsi e la necessità di renderlo più puntuale ed efficace.
Anche a tal proposito, d’altronde, si avvertono le conseguenze dell’antico e mai risolto problema dell’eccessivo numero di ricorsi che la Corte di cassazione deve fronteggiare e del modo in cui essa può riuscire a coniugare ius litigatoris ed ius constitutionis in difetto di criteri normativamente definiti che pongano limiti più stringenti alla possibilità di accedere al giudizio di legittimità. Ma di ciò non è qui il caso di parlare giacché il discorso condurrebbe davvero troppo lontano.
5. Non va infine dimenticato che la motivazione di un provvedimento giurisdizionale, oltre ad avere un’autonoma valenza nel favorire il consolidarsi o l’evolversi della giurisprudenza, costituisce il momento conclusivo di un dialogo che s’intreccia, nel corso del processo, tra i difensori delle parti ed il giudice; un dialogo destinato poi eventualmente a proseguire anche nel grado successivo se il provvedimento è impugnabile. La motivazione si colloca, quindi, in un contesto comunicativo di tipo dialettico nel quale, come in ogni forma di interlocuzione, è inevitabile che ciascun interlocutore sia almeno in qualche misura influenzato dall’atteggiamento dell’altro. Quanto più un atto difensivo è ben strutturato e chiaramente argomentato tanto maggiori probabilità vi saranno che altrettanto ben strutturata ed argomentata sia la motivazione del corrispondente provvedimento giurisdizionale; ed in tal caso è verosimile che se ne avranno effetti positivi anche sull’eventuale atto d’impugnazione e sui conseguenti provvedimenti di grado successivo.
È per questa ragione, per la stretta correlazione esistente tra la qualità degli atti difensivi e dei provvedimenti giurisdizionali, che appare del tutto condivisibile lo sforzo che da diverso tempo si va compiendo per sviluppare un costruttivo dialogo tra magistrati ed avvocati anche e proprio in merito alla redazione dei rispettivi atti. Un dialogo certamente più agevole in ambito locale ma che da alcuni anni a questa parte ha preso corpo anche tra i vertici della Corte di cassazione, della Procura generale presso detta corte, del Consiglio nazionale forense e dell’Avvocatura generale dello Stato, conducendo all’elaborazione di appositi protocolli. Ed è perciò ben condivisibile il proposito manifestato nella Relazione del Primo Presidente di incentivare tale dialogo tra i protagonisti del processo.
Siffatti protocolli, beninteso, vanno considerati alla stregua di strumenti di soft law. L’eventuale mancato rispetto di quanto in essi previsto non dovrebbe mai poter produrre conseguenze processuali; e mi permetto incidentalmente di osservare che è perciò discutibile il riferimento che ad essi talvolta ho visto fare nella motivazione di alcune sentenze della Cassazione quasi ponendoli sol medesimo piano delle norme aventi forza di legge. Ma sono convinto che quei protocolli possono essere assai utili per indurre, al tempo stesso, magistrati ed avvocati a seguire buone prassi ed, in particolare, per agevolare quella fruttuosa dialettica tra atti difensivi e provvedimenti giurisdizionali ben motivati che dovrebbe auspicabilmente favorire lo sbocco fisiologico del processo verso una risposta chiara ed il più possibile persuasiva alla domanda di giustizia che lo ha messo in moto.
Ciascuna categoria professionale ha il ruolo suo proprio, e ad esso deve attenersi, ma la buona amministrazione della giustizia è un bene comune a tutti.
La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33
di Arnaldo Morace Pinelli
Sommario: 1. Il problema del riconoscimento della filiazione delle coppie omoaffettive. L’orientamento giurisprudenziale di massima apertura, che valorizza la tutela di un asserito diritto alla genitorialità della coppia omoaffettiva - 2. L’intervento delle Sezioni unite in tema di maternità surrogata e il revirement della prima sezione civile della Corte di cassazione - 3. Il ripensamento del problema operato dalla Corte costituzionale - 4. Necessità dell’intervento del legislatore.
1. Il problema del riconoscimento della filiazione delle coppie omoaffettive. L’orientamento giurisprudenziale di massima apertura, che valorizza la tutela di un asserito diritto alla genitorialità della coppia omoaffettiva
La recente sentenza della corte costituzionale, in tema di maternità surrogata,[1] impone una riflessione ad ampio raggio su tale spinosa questione, che interseca l’altrettanto problematico nodo della filiazione delle coppie dello stesso sesso, notoriamente esclusa dalla legge sulle unioni civili e di cui si è fatta carico la giurisprudenza, come lo stesso legislatore del resto auspicava.[2]
Subito dopo l’approvazione di tale legge ha, infatti, preso corpo un orientamento giurisprudenziale, che ha fatto del riconoscimento della filiazione delle coppie dello stesso sesso una bandiera, pretendendo di conseguire un risultato di massima apertura attraverso un percorso ermeneutico segnato, essenzialmente, da tre tappe.
Il primo tassello è rappresentato dall’ammissione della c.d. stepchild adoption all’interno delle coppie omoaffettive. La Corte di cassazione[3] – all’esito di un inconsueto scontro con la Procura Generale, la quale aveva inutilmente richiesto che la questione fosse portata all’esame delle Sezioni unite e denunciato lo sconfinamento di campo che il potere giudiziario avrebbe compiuto estendendo alle coppie di fatto l’applicazione dell’art. 44, lett. “d”, l. adoz., stante il carattere derogatorio e di stretta interpretazione della norma – ha ritenuto praticabile la c.d. stepchild adoption all’interno delle coppie omoaffettive, giudicando superabili gli argomenti ostativi posti in luce dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza[4] e trasformando, con una non comune forzatura ermeneutica, l’istituto dell’adozione particolare da criterio residuale a strumento generale, mediante il quale riconoscere alle coppie dello stesso sesso un rapporto di filiazione giuridica.
Il secondo momento di questo percorso logico-giuridico è incentrato sull’annoveramento, tra i diritti fondamentali della persona, di un asserito diritto alla genitorialità spettante anche ai membri della coppia omoaffettiva. Una pronuncia della Corte di Cassazione,[5] in particolare, cavalcando le apparenti aperture rinvenibili nella sentenza della Corte costituzionale che ha aperto alla fecondazione eterologa,[6] ha ritenuto di poter configurare un vero e proprio diritto soggettivo ad avere figli, fondato «sulla fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia», riconoscibile anche agli appartenenti alle coppie dello stesso sesso, onde evitare illegittime discriminazioni. Individua, poi, accanto ad esso, un diritto fondamentale del minore alla conservazione dello status filiationis, comunque acquisito (all’estero), pretendendo di identificare nella sua tutela, automaticamente, la realizzazione del superiore interesse del minore. In tale prospettiva, «la violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 - imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia – non possono ricadere su chi è nato» ed il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato civile in Italia di un atto che riconosce lo status filiationis, validamente formato all’estero, «non contrastano con l’ordine pubblico per il solo fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti il verificarsi» di una pratica di p.m.a. sul proprio territorio.
L’ultimo anello ermeneutico lo ha posto la giurisprudenza di merito. Notoriamente, sul problema della filiazione per le coppie dello stesso sesso aleggia la spinosa questione della legittimità della surrogazione di maternità. In particolare, nella coppia omosessuale maschile il figlio non può nascere a seguito di una fecondazione eterologa, «ma, di necessità, a seguito di un contratto con il quale una donna si presti ad essere fecondata artificialmente, per poi consegnare alla coppia committente il nato, contratto che, nella modalità della maternità surrogata, non solo è vietato, ma anche penalmente sanzionato (art. 12 n. 6, l. 40/2004)».[7]
Seguendo l’iter logico indicato dalla Corte di cassazione, con il pretesto della realizzazione del preminente interesse del minore, identificato nella conservazione dello status filiationis, taluni giudici di merito hanno sdoganato anche la pratica della surrogazione di maternità, conseguendo il risultato di fornire piena attuazione all’asserito diritto ad avere figli, riconosciuto anche alla coppia omoaffettiva. E’ stato pertanto affermato,[8] allo scopo di tutelare il diritto del minore a conservare lo status di figlio di due padri che avevano fatto ricorso alla surrogazione di maternità all’estero, che «la disciplina positiva della procreazione medicalmente assistita» non deve essere considerata «espressione di principi costituzionalmente obbligati» e, dunque, d’ordine pubblico internazionale, cosicché il fatto che il legislatore nazionale vieti il verificarsi di una simile pratica fecondativa nel territorio italiano non osta al riconoscimento nello Stato del provvedimento straniero che dichiari la duplice paternità.
2. L’intervento delle Sezioni unite in tema di maternità surrogata e il revirement della prima sezione civile della Corte di cassazione
Di quest’ultima questione, come è noto, sono state molto opportunamente[9] investite le Sezioni unite della Corte di cassazione, le quali[10] hanno negato la possibilità di riconoscere nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato a seguito di maternità surrogata e il c.d. genitore d’intenzione. Secondo l’importante pronuncia, deve ribadirsi che il divieto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma sesto, l. n. 40/2004, integra un principio di ordine pubblico, posto a tutela di valori fondamentali, quali il rispetto della dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto. Di fronte a questa pratica, penalmente sanzionata, torna ad operare il favor veritatis. Tuttavia, l’interesse del minore non è cancellato e, nei limiti consentiti da tale verità, è tutelato attraverso la possibilità della stepchild adoption da parte del genitore d’intenzione, con cui si salvaguarda «la continuità della relazione affettiva ed educativa» eventualmente instauratasi tra il minore e tale soggetto.
Questo lodevole sforzo di operare un equo bilanciamento tra l’interesse pubblico all’effettività del divieto della surrogazione di maternità e quello del minore alla conservazione delle sue relazioni affettive fondamentali è obiettivamente inappagante.[11]
Da un punto di vista sostanziale, la possibilità della stepchild adoption, per sanare giuridicamente le conseguenze di una maternità surrogata attuata all’estero, di fatto elude il divieto posto dall’art. 12 l. n. 40/2004 e non disincentiva il ricorso a tale pratica procreativa. Specie se l’adozione particolare venisse disposta automaticamente, per il solo fatto della convivenza con il figlio del partner, quando il nato sia in tenera età e, dunque, in un momento della sua vita in cui non è seriamente configurabile quella relazione affettiva fondamentale, che si intende tutelare. D’altro canto, la soluzione salomonica delle Sezioni Unite, oltre a non scongiurare il ricorso all’estero alla maternità surrogata, crea in Italia una filiazione di “serie b”. L’adozione particolare, infatti, non istituisce un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante e neppure tra l’adottante e la famiglia dell’adottato (art. 300 c.c. e 55 l. adoz.) e ciò è obiettivamente pregiudizievole per il minore in caso di maternità surrogata, non esistendo alcuna famiglia d’origine che giustifichi la superiore limitazione, nell’interesse del minore adottato. Inoltre, nelle more della pronuncia di adozione, il minore rimane sprovvisto di tutela giuridica. Soprattutto, l’adozione in casi particolari resta rimessa alla volontà del genitore c.d. d’intenzione ed è condizionata all’assenso da parte del genitore biologico, che potrebbe non prestarlo in caso di crisi della coppia.
Muovendo da tali contraddizioni, la prima sezione civile della Corte di Cassazione, a meno di un anno dalla pronuncia delle Sezioni Unite, ha ritenuto di dover sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, l. n. 40/2004, dell’art. 64, comma 1, lett. “g” l. n. 218/95 e dell’art. 18 d.p.r. n. 396/2000 «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente (fornita dalle Sezioni unite), che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico».[12]
Autorevole dottrina non ha mancato di criticare il revirement,[13] che mette in discussione il “fresco” risultato ermeneutico raggiunto dalle Sezioni Unite, attraverso il ricorso alla Corte costituzionale.
3. Il ripensamento del problema operato dalla Corte costituzionale
La Corte costituzionale,[14] con una pronuncia che si coordina con un’altra, pubblicata nello stesso giorno[15] e di cui condivide l’iter logico-giuridico, ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate dalla prima sezione della Corte di cassazione, mettendo, peraltro, ordine nella complessa materia ed aprendo scenari nuovi.
Le due sentenza hanno, innanzitutto, il merito di mostrare l’evanescenza (rectius: l’erroneità) degli argomenti giuridici da cui ha preso le mosse l’orientamento giurisprudenziale che si è proposto di riconoscere il rapporto di filiazione all’interno delle coppie omoaffettive, ossia l’asserita sussistenza di un diritto alla genitorialità spettante ai membri della coppia e la ritenuta legittimità del ricorso all’adozione particolare per costituire il rapporto di filiazione tra il minore ed il partner del genitore biologico.
Da un canto, infatti, viene ribadito a chiare lettere che l’asserito diritto alla genitorialità, spettante ai membri delle coppie omoaffettive, non esiste.[16] In effetti, la l. n. 40/2004 configura le tecniche di P.M.A. come rimedio alla sterilità o infertilità umana, «escludendo chiaramente con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati»; d’altro canto, tale legge «prevede una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre» (art. 5, secondo il cui disposto possono accedere alla PMA esclusivamente le coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi).[17] Meno che mai, in termini generali, è configurabile un diritto soggettivo ad adottare, sussistendo soltanto un interesse giuridicamente rilevante ad adottare, che «può essere soddisfatto solo se e in quanto sia adeguatamente realizzato il diritto del minore ad essere adottato».[18]
Al contempo, si riconosce l’erroneità dell’operazione ermeneutica in virtù della quale è stato consentito alle coppie omoaffettive il ricorso all’istituto dell’adozione particolare. La Corte costituzionale ammette, infatti, che la situazione del nato da p.m.a. è «assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lett. ”d”, della l. n. 184 del 1983».[19] Il che significa che siffatta peculiare situazione non poteva rientrare, attraverso il ricorso all’interpretazione estensiva, nell’ambito di operatività di quest’ultima norma, specie considerando che si tratta di una norma residuale e di chiusura e – in quanto tale - di stretta interpretazione. Di qui l’intrinseca impossibilità della stessa ad assurgere a regola generale e primaria del sistema, che consente al convivente, eterosessuale o omosessuale che sia, di diventare genitore, adottando il figlio del proprio partner.
Compiendo un’operazione culturale d’indubbio valore, la Corte costituzionale indica una strada diversa, che muove, anziché dai diritti della coppia omoaffettiva, soltanto dal minore e dai suoi diritti fondamentali. In altri termini, la Corte chiarisce definitivamente che il problema non è quello di riconoscere un inesistente diritto ad avere figli della coppia dello stesso sesso, bensì quello di tutelare i diritti fondamentali del nato da P.M.A., anche se questa è avvenuta all’estero ed in spregio ai divieti della l. n. 40/2004. Il nato, infatti, non ha colpa della violazione del divieto ed è «bisognoso di tutela come ogni altro e più di ogni altro» ed è criticabile il fatto che il legislatore si sia limitato, in questa materia, a vietare e sanzionare, mentre «avrebbe dovuto… regolare la sorte del nato malgrado il divieto».[20]
Questo percorso ermeneutico si sviluppa in piena armonia con i principi sanciti dalla c.d. Riforma Bianca sulla filiazione, che ha saldamente riposizionato l’ordinamento dalla parte del minore. E’ noto infatti che, in un mutato contesto, il nuovo art. 315 bis c.c. enuncia lo statuto dei diritti fondamentali del figlio come persona, mentre in passato «la posizione giuridica del figlio veniva identificata solo relativamente ai doveri dei genitori e agli obblighi delle prestazioni alimentari».[21] Il figlio viene posto al centro del sistema, ultimando la Riforma Bianca sulla filiazione il passaggio da una concezione del minore, quale soggetto debole da tutelare, a quella di individuo, titolare di diritti soggettivi, che l’ordinamento salvaguarda ed è chiamato a promuovere. Ed i suoi diritti, scolpiti nell’art. 315 bis c.c. (il diritto ad essere mantenuto, educato, istruito ed assistito moralmente dai genitori, il diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, il diritto all’ascolto) rientrano nel novero di quelli fondamentali della persona e sono garantiti dall’art. 2 Cost.
Questa visione minore-centrica si ripercuote anche nel rapporto con i genitori, focalizzato sulla persona del figlio e sulla prevalenza dei suoi diritti. Costituisce portato fondamentale della Riforma del 2012 la sostituzione della nozione di potestà, evocativa di un potere sul minore, con quella di responsabilità genitoriale, che evidenzia invece l’impegno che l’ordinamento richiede ai genitori, non identificabile «come una “potestà” sul figlio minore, ma come un’assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti del figlio».[22] Questa sostituzione lessicale assume una valenza culturale profonda, segnando il radicale mutamento di prospettiva operato dalla Riforma: nel rapporto genitori-figlio l’ordinamento si colloca dalla parte del minore, in virtù del superiore interesse di cui questi è portatore.
In questa nuova prospettiva, espressamente evocata dalla Corte costituzionale,[23] nelle decisioni concernenti il minore deve essere sempre ricercata «la soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca…la miglior “cura della persona”»,[24] e non vi è dubbio – afferma la Corte costituzionale - «che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita…da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia».
Tuttavia, la Corte costituzionale ribadisce la condanna della maternità surrogata, pratica che «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», con il rischio di «sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate», con la conseguenza che l’interesse del minore deve essere bilanciato, «alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore», ferma restando «la rammentata necessità di riconoscimento del “legame di filiazione” con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura».
Secondo la Corte, dunque, è legittima la soluzione, offerta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, in ordine alla non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e, a fortiori, dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il c.d. padre d’intenzione. L’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia, che lo abbiano accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale, impone, peraltro, che esso sia tutelato «attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato,…sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice», non potendosi «strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata».
4. Necessità dell’intervento del legislatore
Molto condivisibilmente, secondo la Corte costituzionale, nel contesto del difficile bilanciamento tra l’esigenza di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata e la necessità di assicurare i diritti dei minori, la soluzione non può essere quella indicata dalle Sezioni unite dell’adozione particolare, per gli evidenziati limiti intrinseci dell’istituto, volto a disciplinare ipotesi peculiari (rectius: eccezionali), in cui si pone, tra l’altro, la necessità di conservare il legame giuridico tra il minore e la sua famiglia d’origine, situazione del tutto estranea ai nati da P.M.A.
Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata non può che spettare, almeno «in prima battuta», al legislatore, «al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco». La Corte costituzionale, pertanto, «allo stato», si arresta, pur riservandosi chiaramente di intervenire in futuro, in caso di latitanza del legislatore, stante l’”indifferibilità” di una soluzione in grado di porre rimedio «all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore».
In effetti, in questa delicata materia, soltanto il legislatore può individuare una disciplina esaustiva, individuando soluzioni di carattere generale e astratte, in grado di contemperare tutti gli interessi in gioco.
A nostro avviso, il legislatore dovrà, innanzitutto, favorire la costituzione di rapporti di filiazione giuridica tra persone esistenti, anziché il ricorso alle tecniche di p.m.a., con una profonda revisione della legge sulle adozioni. Essendo incontestabile l’idoneità genitoriale delle coppie omoaffettive ed in virtù dei sempre maggiori riconoscimenti delle convivenze, in un’epoca in cui il matrimonio non costituisce garanzia di stabilità affettiva, ci pare che il legislatore debba prendere seriamente in considerazione la possibilità di ammettere i conviventi, anche dello stesso sesso (ed, a ben vedere, anche la persona singola) all’adozione piena. Se – come ci sembra innegabile - l’adozione ha una chiara matrice solidaristica ed accedendo ad essa si adempie anche un «dovere di solidarietà verso i minori in stato di abbandono»,[25] è certamente auspicabile un’apertura dell’adozione nazionale e – in questo peculiare momento storico – di quella internazionale anche alle coppie conviventi, comprese quelle dello stesso sesso, ed alle persone singole, previa individuazione di ragionevoli requisiti e presupposti d’accesso ai due istituti.
Per quanto concerne, poi, la maternità surrogata, che riguarda soprattutto le coppie eterologhe, certamente non basta vietarla, dovendosi necessariamente disciplinare le conseguenze giuridiche che discendono dalla violazione del divieto, posizionandosi sempre dalla parte del minore, «nato incolpevole e bisognoso di tutela come ogni altro e più di ogni altro».[26] La possibilità dell’adozione particolare, ammessa dalle Sezioni unite, per quanto detto, costituisce un rimedio insufficiente. Il legislatore è chiamato ad introdurre una nuova tipologia di adozione, con un procedimento celere ed una disciplina che l’avvicini, negli effetti, all’adozione piena. Dovrà, peraltro, rimanere il vaglio del Giudice, che accerti, in concreto, la sussistenza del legame tra il minore e il genitore d’intenzione.
Nelle more dell’intervento del legislatore o della Corte costituzionale, va invece evitata, a nostro avviso, la chiamata alle armi dei giudici di merito, anche al fine di scongiurare soluzioni che, sulla base delle esigenze del caso concreto, risultino contrastanti e contraddittorie. La pronuncia della Corte costituzionale n. 33/2021 ha chiaramente ribadito la natura pubblicistica del divieto di maternità surrogata e non legittima – come peraltro è stato affermato[27] - alcun «ripensamento della nozione di ordine pubblico fatta propria dalle Sezioni unite, per il diverso bilanciamento tra i valori in gioco» suggerito dalla prima sezione civile.[28] Anzi, la Corte costituzionale ha espressamente riconosciuto la piena legittimità della soluzione offerta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, in ordine alla non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero e, a fortiori, dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il c.d. padre d’intenzione.
In materia di maternità surrogata, le Sezioni unite hanno compiuto il massimo sforzo ermeneutico possibile, entro il limite di compatibilità con la voluntas legis, espressa dalle norme vigenti e dai valori che esse esprimono, di cui deve essere operato il bilanciamento.
Come riteneva un illustre e compianto Maestro - il cui insegnamento, in materia di diritto di famiglia, è stato brillantemente esposto in un recente saggio[29] - «l’effettività della norma» è data «dalla sua accettazione da parte del corpo sociale come norma giuridica», che è il fatto dal quale scaturisce il diritto.[30] Il principio di effettività costituisce il metro dell’attività interpretativa, imponendo una lettura della norma «secondo il significato in cui essa è effettivamente operante».[31] Di qui il fondamentale ruolo della giurisprudenza, giacché «le applicazioni giurisprudenziali che si traducono in orientamenti consolidati conferiscono alla norma un significato che tende ad essere recepito nel tessuto sociale».[32] Ciò non significa, tuttavia, «né conferire né riconoscere un potere normativo ai giudici né dare ingresso alla “consuetudine giurisprudenziale” come fonte del diritto».[33]
In effetti, l’interpretazione della giurisprudenza non possiede un’autorità legislativa[34] e, soprattutto, secondo l’insegnamento degli stessi giudici di legittimità, non può correggere o sostituire la voluntas legis, dovendosi arrestare di fronte al limite di tolleranza ed elasticità segnato dal significante testuale della norma, nell’ambito del quale questa, di volta in volta, adegua il suo contenuto, piegandosi all’evoluzione che «l’interesse tutelato nel tempo assume nella coscienza sociale, anche nel bilanciamento con contigui valori di rango superiore, a livello costituzionale e sovranazionale».[35] A tale limite di tolleranza ed elasticità della norma soggiace anche l’interpretazione costituzionalmente orientata.[36]
A ben vedere, il diritto vivente costituisce un fenomeno oggettivo, legato alla peculiare struttura della norma giuridica e determinato dall’evoluzione dell’ordinamento. Come è stato efficacemente rilevato, la giurisprudenza «lo disvela, ma non per questo lo crea».[37]
E’ compito del legislatore, dunque, di fronte ad una realtà moralmente inadeguata, quale è certamente l’attuale con riguardo alla posizione giuridica del minore nato da un pratica di maternità surrogata, operarne il mutamento ed apprestare l’invocata tutela.[38]
[1] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33.
[2] Cfr., sul punto, il nostro Il problema della filiazione nell’unione civile, in C.M. BIANCA, Le unioni civili e le convivenze, Torino, 2017, 303 e ss.
[3] Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, in Foro it., 2016, I, 2342.
[4] Per il loro compiuto esame, rinviamo al nostro Per una riforma dell’adozione, in Fam. e dir., 2016, 723 e ss.
[5] Cass., 30 settembre 2016, n. 19599, in Foro it., 2016, I, 3329.
[6] Corte Cost., 10 giugno 2014, n. 162, in Foro it., 2014, I, 2324.
[7] F. GAZZONI, La famiglia di fatto e le unioni civili. Appunti sulla recente legge, in www.personaedanno.it
[8] App. Trento 23 febbraio 2017, in Foro it., 2017, I, 1034.
[9] Cass., ord., 22 febbraio 2018, n. 4382, rel. Genovese, in Foro it., 2018, I, 782.
[10] Cass., S.U., 8 maggio 2019, n. 12193, in Foro it., 2019, I, 1951.
[11] Cfr., sul punto, il nostro La filiazione da p.m.a. e gli spinosi problemi della maternità surrogata e della procreazione “post mortem”, in Foro it., 2019, I, 3357 e ss.
[12] Cass., I Sez. civ., ord., 29 aprile 2020 n. 8325, in giudicedonna.it, 2/2020, con nota di M. BIANCA, Il revirement della Cassazione dopo la decisione delle Sezioni Unite. Conflitto o dialogo con la Corte di Strasburgo? Alcune notazioni sul diritto vivente delle azioni di stato.
[13] M. BIANCA, Il revirement, cit., 2
[14] Sent. n. 33/2021.
[15] Corte cost., 8 marzo 2021, n. 32.
[16] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33, precisa che «non è qui in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino»; Corte cost., 9 marzo 2021 n. 32, esclude propriamente «l’esistenza di un diritto alla genitorialità delle coppie dello stesso sesso».
[17] Corte cost., 23 ottobre 2019, n. 221.
[18] In tal senso, cfr. C.M. BIANCA, Audizione, alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati del 23 maggio 2016, nel corso dell’indagine conoscitiva diretta a verificare lo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozioni ed affido.
[19] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33.
Anche Corte cost., 9 marzo 2021 n. 32, si premura di porre in luce le «caratteristiche peculiari dell’adozione in casi particolari, che opera in ipotesi tipiche e circoscritte, producendo effetti limitati».
[20] G. OPPO, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in G. OPPO, Scritti giuridici, VII, Vario diritto, Padova, 2005, 49 e ss.
[21] M. BIANCA, Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, in La riforma del diritto della filiazione (l. n. 219/12), in N.l.c.c., 2013, 509.
[22] Così la Relazione illustrativa del d.lgs. n. 154/2013.
[23] Cfr. soprattutto Corte cost., 9 marzo 2021, n. 32.
[24] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33; Corte cost., 10 febbraio 1981 n. 11.
[25] Così Cass., S.U., ord., 16 febbraio 1995, n. 78.
Cfr. da ultimo, sulle ragioni solidaristiche dell’istituto dell’adozione, Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006, in Questionegiustizia.it, con nota di L. GIACOMELLI, L’adozione piena da parte delle coppie dello stesso sesso avvenuta all’estero è compatibile con l’ordine pubblico internazionale: gli equilibrismi della Cassazione tra inerzia del legislatore, moniti costituzionali ed esigenze di tutela omogenea dei figli.
[26] G. OPPO, Procreazione assistita e sorte del nascituro, cit., 53.
[27] G. FERRANDO, Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte costituzionale n. 32 e 33 del 2021, in www.giustiziainsieme.it.
[28] Argomento in tal senso non è deducibile neppure dalla recentissima Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006, cit. In tale pronuncia, infatti, la Corte di cassazione chiarisce ripetutamente le differenze tra il caso esaminato e quello, affrontato da Cass., S.U., 8 maggio 2019, n. 12193, cit., riguardante la genitorialità formatasi all’estero attraverso una pratica di maternità surrogata, di cui si ribadisce il divieto e la contrarietà all’ordine pubblico. Ed anzi Cass. n. 9006/2021 richiama espressamente Corte cost. n. 33/2021 «con la quale è stato riaffermato il margine di apprezzamento degli Stati nel non consentire la trascrizione di atti di stato civile o provvedimenti giudiziari stranieri che fondino gli status genitoriali sulla surrogazione di maternità, pur sottolineando l’esigenza di un sistema di tutela del minore più efficace che non quello garantito dall’adozione in casi particolari» (§ 17 detta).
[29] M. BIANCA, Il diritto di famiglia e la missione del giurista. L’insegnamento di mio padre Cesare Massimo Bianca, in Familia, 2021, 125 e ss.
[30] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, in C.M. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma giuridica. Scritti giuridici, I, 1, 202 e ss.
[31] C.M. BIANCA, Interpretazione e fedeltà alla norma, in C.M. BIANCA, Realtà sociale, cit.,I, 1, 138 e ss.
[32] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 207.
[33] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 203 e ss.
[34] Non essendo quello italiano un ordinamento di common law, il giudice non è vincolato dal precedente, per quanto autorevole. Cfr., in tal senso, Cass., S.U., 3 maggio 2019, n. 11747.
[35] Cass., S.U., 11 luglio 2011, n. 15144.
[36] Secondo Corte cost., 13 aprile 2017, n. 82, in Foro it., 2017, I, 1819, «l'univoco tenore letterale della norma impugnata preclude un'interpretazione adeguatrice, che deve, pertanto, cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale». Conf. Corte cost., 19 febbraio 2016, n. 36, «l'obbligo di addivenire ad un'interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all'incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). L'interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un'indubbia priorità su ogni altra, ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell'esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Ove, perciò, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice è tenuto ad investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale».
[37] Cass., S.U., 11 luglio 2011, n. 15144.
[38] Cfr., in generale, C.M. BIANCA, Lo pseudo-riconoscimento dei figli adulterini, in Realtà sociale, cit., I, 1, 303 e ss.
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