ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte costituzionale tedesca non ostacola la ratifica della decisione sulle risorse proprie. Until the next time?
di Marina Castellaneta
La ratifica della decisione sulle risorse proprie approvata dal Consiglio UE il 14 dicembre 2020 (decisione 2020/2053 e che abroga la decisione 2014/335)[1] non solo apre la strada alle azioni indispensabili per la ripresa di tutti i Paesi membri colpiti sul piano sanitario, economico e sociale, ma è anche diventata un simbolo sul ruolo dell’Unione europea in un’epoca molto simile a quella post-bellica. Inoltre, tenendo conto dell’urgenza del completamento della procedura di ratifica da parte di tutti gli Stati membri in quanto passo indispensabile per l’effettiva applicazione del Next Generation EU (NGEU), eventuali ostacoli o rallentamenti da parte degli Stati rappresentano uno stop al cambiamento di rotta che l’Unione, a seguito della pandemia, è intenzionata a raggiungere. E questa volta non solo a parole, ma anche con i fatti come dimostra l’entità delle somme (750 miliardi di euro) destinate ai piani di ripresa dei singoli Stati membri.
Al 22 maggio 2021, tuttavia, i Paesi membri che hanno ratificato il provvedimento sono 22 perché mancano ancora all’appello Austria, Ungheria, Paesi Bassi, Polonia e Romania.
L’Unione europea ha tirato un sospiro di sollievo a seguito dell’ordinanza della Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht, BvG) che ha respinto la richiesta cautelare finalizzata a ottenere un’ingiunzione preliminare contro la ratifica del Parlamento tedesco sulla decisione fondamentale per l’attivazione del Next Generation EU. L’ordinanza della Corte costituzionale del 15 aprile 2021 (2BvR 547/21)[2] chiude, almeno per il momento, la partita. Ma potremmo dire “fino alla prossima volta” perché nell’ordinanza il BvG, pur respingendo la richiesta di ingiunzione, non ha dichiarato la manifesta inammissibilità o infondatezza del ricorso, con la conseguenza che ogni intervento Ue in ambiti analoghi potrebbe passare nuovamente sotto i riflettori della Consulta. Inoltre, come vedremo, il via libera disposto con l’ordinanza di aprile potrebbe essere scardinato qualora si ravvisassero interventi di natura permanente in grado di intaccare l’autonomia del Parlamento tedesco. Sul punto, infatti, la Corte costituzionale si riserva di decidere nel merito e di porre, eventualmente un nuovo quesito pregiudiziale alla Corte Ue.
Rinviando ad altro articolo per la ricostruzione della vicenda[3], vale la pena soffermarsi su alcuni passaggi dell’ordinanza di aprile che ha affrontato un nodo centrale sia per il mantenimento del punto di equilibrio raggiunto tra Stati e Unione sia per il ruolo politico e il contributo decisivo dato dalla Germania della Cancelliera Angela Merkel al nuovo percorso dell’Unione indirizzato, almeno per alcuni aspetti, alla solidarietà e non più al solo pareggio di bilancio. Certo, il punto era delicato perché è la prima volta che la Commissione va sul mercato per conto dell’Unione per reperire importi che saranno utilizzati dagli Stati nel loro insieme. Un punto di svolta non visto con favore da tutti anche perché considerato un passo quasi irreversibile verso la costituzione di un’unione fiscale, non voluta da alcuni partiti politici nell’intera Europa[4].
Nel caso in esame, tutto aveva preso il via dalla decisione depositata il 26 marzo 2021 con la quale era stato sospeso il procedimento di ratifica e stabilito che il Presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier non poteva firmare la legge di ratifica sulla decisione Ue sulle risorse proprie fino alla pronuncia sulle misure provvisorie della stessa Consulta tedesca[5]. Respinto il ricorso cautelare, la Germania ha ultimato la ratifica. Va ricordato che tale processo è indispensabile in base all’articolo 311 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea il quale stabilisce che il bilancio dell’Unione sia finanziato integralmente tramite risorse proprie fatte salve le altre entrate. L’approvazione è affidata al Consiglio che delibera secondo una procedura legislativa speciale all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo. Inoltre, il Consiglio può istituire “nuove categorie di risorse proprie o sopprimere una categoria esistente” e, in ogni caso, la decisione entra in vigore solo dopo l’approvazione degli Stati membri “conformemente alle rispettive norme costituzionali”. Se in passato il periodo di ratifica prendeva un tempo piuttosto lungo (quasi due anni), senza però causare particolari problemi, per la decisione del 2020 la tempestività è indispensabile. Infatti, se è vero come sottolineato nello studio del Parlamento europeo di maggio 2021, curato da Alessandro D’Alfonso, “National ratification of the Own Resources Decision”, che, in via generale, la decisione sulle risorse proprie non ha una data di scadenza e che le sue disposizioni continuano ad applicarsi fino alla ratifica del nuovo provvedimento, è anche vero che l’erogazione dei fondi “straordinari” prevista con la decisione del 2020 deve essere immediata per salvare l’economia europea.
La Corte costituzionale tedesca, come detto, non ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato e così ha precisato che nei casi in cui la Germania decida di adottare importanti misure di solidarietà a livello internazionale ed europeo, che incidano sulla spesa pubblica, è richiesta l'approvazione del Bundestag, che deve inoltre avere un’influenza sufficiente sull’utilizzo dei fondi forniti. In caso contrario, sarebbe violato il principio di autodeterminazione democratica che porta a una protezione dei cittadini rispetto ad erosioni che arrivino anche da istituzioni europee. Così, le decisioni sulla spesa pubblica decise in modo significativo sul piano sovranazionale non devono privare il Bundestag della sua prerogativa decisionale, tanto più che si tratta dell’organo direttamente responsabile nei confronti della collettività. È così impossibile costituire strumenti permanenti che spostino tale responsabilità per scelte di altri Stati in particolare “where this could have potentially unforeseeable consequences”. Se la Germania assume misure di aiuto a livello Ue o sul piano internazionale che incidono sul bilancio statale, l’approvazione del Parlamento è necessaria in ogni caso e lo stesso Bundestag deve avere un’influenza sufficiente su come i fondi saranno usati.
Quest’affermazione apre la strada a possibili ulteriori ricorsi. Tuttavia, in questo caso, per la Corte costituzionale, seppure sulla base di un primo esame, non sembra probabile che la “responsabilità di bilancio complessiva del Bundestag (art. 79 (3) GG in combinato disposto con l'art. 110 e art. 20 (1) e (2) GG) sia stata effettivamente violata”, così come si può escludere una diretta responsabilità della Germania che potrebbe derivare da un’assenza di liquidità, per colmare la quale il meccanismo previsto comporta un intervento della Commissione europea. Tra l’altro, i giudici di Karlsruhe non hanno sinora chiarito se e in che misura il principio di democrazia possa essere azionabile non solo nei casi in cui gli impegni economici, finanziari impediscano l’autonomia di bilancio per un tempo considerevole, ma anche nei casi in cui la limitino unicamente in talune specifiche situazioni e, quindi, per questa situazione, è necessaria una pronuncia di merito della Consulta.
Così, allo stato degli atti e a un primo esame sommario, la Corte rileva che la decisione sulle risorse proprie 2020, garantito che il Bundestag mantenga un'influenza parlamentare sufficiente sulle decisioni relative all'utilizzo dei fondi forniti, non appare in contrasto con la Costituzione. Pertanto, la Corte costituzionale federale ha basato la propria decisione nel procedimento cautelare preliminare su un bilanciamento delle conseguenze, arrivando a una conclusione non favorevole alle ricorrenti.
Se fosse stata emessa l'ingiunzione preliminare richiesta, la decisione sulle risorse proprie del 2020 non avrebbe potuto entrare in vigore fino alla conclusione del procedimento principale e questo ritardo avrebbe inciso negativamente sull'obiettivo di politica economica perseguito, con svantaggi irreversibili. Inoltre, la Corte prende in considerazione la posizione del Governo federale, che gode di un ampio margine di apprezzamento nella valutazione delle questioni di politica estera, arrivando alla conclusione che il ritardo dell’entrata in vigore della decisione metterebbe a dura prova le relazioni estere ed europee, di stretta competenza governativa. Proseguendo nel bilanciamento e nel raggiungimento di un punto di equilibrio tra vantaggi e svantaggi, la Corte ritiene che le conseguenze pregiudizievoli sarebbero inferiori nel caso in cui l'atto nazionale che ratifica la decisione sulle risorse proprie del 2020 fosse successivamente ritenuto incostituzionale.
Di qui la conclusione, almeno per il momento, dell’entrata in vigore della decisione sulle risorse proprie del 2020 una volta che tutti gli Stati membri l'avranno ratificata. Ciò autorizzerà la Commissione europea a contrarre prestiti fino a 750 miliardi di euro a prezzi 2018 sui mercati dei capitali per conto dell'Unione europea, fino al 2026.
Se poi, nel merito, la Corte costituzionale federale dovesse ritenere che la decisione sulle risorse proprie costituisce un atto ultra vires o ritenesse, contrariamente all'esame sommario nel procedimento di ingiunzione preliminare, che essa lede l'identità costituzionale, spetterebbe al governo federale, al Bundestag e al Bundesrat ripristinare l'ordine costituzionale con tutti i mezzi a loro disposizione. La Corte non ha poi escluso un possibile nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea. La saga continua.
[1] In Gazzetta Ufficiale Ue del 15 dicembre 2020, L 424, p. 1 ss. Si veda anche il regolamento 2020/2093 del 17 dicembre 2020 che stabilisce il quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027, in Gazzetta Ufficiale Ue del 22 dicembre 2020, L433, p. 1 ss.
[2] Reperibile nel sito https://www.bundesverfassungsgericht.de/SharedDocs/Pressemitteilungen/EN/2021/bvg21-029.html.
[3] M. Castellaneta, Bundesverfassungsgericht, ombelico del sovranismo o volano per un’Europa solidale?, in questa Rivista.
[4] Si veda L. Lionell, Green light from Karlsruhe for the ratification of new EU own resources decision. First fractures in the prohibition of fiscal integration?, in European Law Blog, 3 may 2021, https://europeanlawblog.eu.
[5] Il comunicato è nel sito https://www.bundesverfassungsgericht.de/DE/Homepage/homepage_node.html
75 anni dopo: il voto alle donne e le sfide, sempre aperte, per una democrazia inclusiva.
di Tania Groppi
Una coincidenza? Non direi proprio. Il 2 giugno del 1946 si realizzano due eventi di portata epocale nella storia d’Italia.
Il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea costituente pongono le fondamenta della Repubblica italiana, segnando il punto di svolta di un processo che porterà, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, a un ordinamento del tutto nuovo, non solo rispetto a quello fascista, ma anche allo Stato liberale prefascista. Un ordinamento inclusivo anziché escludente, rispettoso del pluralismo anziché a una dimensione, pacifista anziché imperialista.
Ebbene, questa trasformazione dell’Italia, una vera e propria rifondazione, un nuovo inizio, un pactum societatis difficilmente immaginabile e costruibile per chi non avesse attraversato quel crogiuolo di dolore, macerie, morti, che era stata la Seconda guerra mondiale, è avvenuta, per la prima volta nella millenaria storia dei popoli che si sono susseguiti sulla penisola italica, con la partecipazione politica delle donne. Sia come elettrici, che come elette.
Giunge così a compimento un processo che nel nostro paese, come in altri, è stato particolarmente lungo e controverso, quello della conquista dell’eguaglianza tra i sessi nel godimento dei diritti politici: le donne avevano fatto parte dei “grandi dimenticati” (insieme ad altri soggetti, come i popoli colonizzati e gli schiavi) dalle rivoluzioni per i diritti della fine del Settecento e non erano riuscite a compiere quel cammino di conquiste che era invece riuscito, tra Ottocento e Novecento, ai movimenti dei lavoratori.
Le donne votano, massicciamente, quel 2 giugno del 1946, e un manipolo di esse riesce anche ad essere eletto. La pattuglia delle 21 “Madri costituenti” (quanti decenni ci sono voluti prima che si iniziasse ad utilizzare questa espressione!) fa il suo ingresso nell’Assemblea costituente, tra i commenti di giornalisti e cinegiornali, che osservano incuriositi questo fenomeno esotico e un po' bizzarro.
Che differenza con quel che sta accadendo in questi giorni, nel 2021, in un ordinamento lontano, ma per tanti versi vicino all’Italia come quello cileno, dove si sta per insediare una Convenzione costituente che, grazie al sistema elettorale utilizzato è completamente paritaria, 78 uomini e 77 donne chiamati a scrivere il nuovo patto fondamentale, a quasi cinquant’anni dall’uccisione di Salvador Allende e dall’avvio della dittatura.
È fin da subito evidente un primo problema, che si trascinerà poi per decenni e che resta ancora oggi insoluto. Tante sono le elettrici, più numerose persino degli uomini, ma poche sono le elette, In mezzo, c’è la questione delle candidate, poche anch’esse, e dell’attitudine dei partiti politici.
Un secondo si affaccia subito dopo. Nell’Assemblea costituente, le donne sono relegate ad occuparsi di tematiche ritenute più consone per il loro genere: eccole così alle prese con diritti delle lavoratrici, famiglia, infanzia, istruzione, lontane dalla “sala delle macchine” della forma di governo o della magistratura. Dove il gioco si fa serio, dove è in ballo il potere, quello non è un “terreno per donne”.
Ciò nonostante, le più combattive tra loro riescono in qualche modo ad emergere, a far sentire la propria voce, a lasciare un segno su alcuni temi, dal principio di eguaglianza (come non ricordare quel “di fatto” inserito grazie a Teresa Mattei nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione) all’accesso alle cariche pubbliche, con gli interventi di Maria Federici che riesce ad evitare che si faccia riferimento alle “attitudini” dei due sessi, per limitarsi ai casi più conosciuti.
La stagione che si apre subito dopo, a partire dal 1948, è come noto quella della inattuazione costituzionale. Anche qui un altro parallelismo, purtroppo in negativo. In tutti i campi, le novità introdotte dai costituenti (e dalle costituenti, dovremmo dire) restano per molto tempo sulla carta. I diritti delle donne non fanno eccezione, a partire da quella eguaglianza “senza distinzione di sesso” dell’art. 3, comma 1, della Costituzione: ci vorranno molti anni, e numerosi interventi della Corte costituzionale, per rimuovere discriminazioni macroscopiche, come la punizione con sanzione penale dell’adulterio femminile o l’impossibilità per le donne di accedere ai concorsi per la magistratura o per le posizioni dirigenziali nelle amministrazioni pubbliche.
Se molti gravi elementi discriminatori sono stati rimossi negli anni 1970 (pensiamo alla riforma del diritto di famiglia), ancora più lento e parziale è stato il cammino verso una vera e propria democrazia paritaria, che comprende non soltanto la partecipazione elettorale femminile, quella per intendersi avviata nel 1946 e che oggi celebriamo, ma la presenza paritaria di donne e uomini nei luoghi dove si adottano le decisioni politiche.
In questo campo, un primo momento di svolta è costituito dagli anni 1990. Qui, benché non vada trascurato l’impulso del diritto internazionale (sono gli anni della Conferenza di Pechino delle Nazioni Unite), spazi nuovi e prima impensati si aprono in Italia grazie al tentativo di rinnovare la rappresentanza politica nel crollo della cd. “Prima Repubblica”. Il vuoto di potere che si crea in conseguenza della fine di equilibri consolidati da decenni, consente che si “insinuino” previsioni legislative finalizzate a promuovere la rappresentanza femminile negli organi elettivi. Se la sentenza della Corte costituzionale n. 422/1995 ha costituito una dura (e non del tutto prevedibile) battuta d’arresto, il processo non si è fermato, spostandosi dal piano legislativo a quello delle fonti costituzionali, come è sembrato richiedere la sentenza stessa, che è stata letta nel senso di rendere necessaria la introduzione di un “ombrello costituzionale”. Ecco così nel 2003 la modifica dell’art. 51 (con l’aggiunta, nel primo comma, di una nuova frase: «A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini»), ma già nel 2001 si era inserito nell’art. 117, sulla potestà legislativa delle Regioni ordinarie (che viene completamente riscritto), un comma, il settimo, dedicato all’eguaglianza donna-uomo, introducendo una obbligazione positiva per i legislatori regionali, nella quale risuona fortemente ̶ come riconoscerà la sentenza n. 4/2010 della Corte costituzionale ̶ l’eco del secondo comma dell’’art. 3: «Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive».
Eccoci quindi arrivati, da quel lontano 2 giugno del 1946 che ha avviato la partecipazione politica delle donne, quasi ai nostri giorni. Cosa è accaduto in questi ultimi venti anni, dovremmo ora chiederci?
Se guardiamo ai dati della presenza femminile negli organi elettivi, essi risultano alquanto migliorati rispetto all’epoca precedente. In particolare, per il parlamento, la legge elettorale n. 165/ 2017 sembra aver prodotto qualche risultato, portando, con 225 elette alla Camera e 109 al Senato, al livello più alto della storia repubblicana il numero di donne parlamentari, ben il 35%. È questo il culmine di un lungo cammino: pensiamo che sono stati necessari 30 anni e sette legislature per eleggere più di 50 donne in parlamento e che soltanto nella X legislatura, cioè nel 1987, le donne hanno superato il 10% dei parlamentari, mentre sono giunte a sfiorare il 20% soltanto nella XVI, nel 2008 (molti altri dati interessanti sono disponibili nel Dossier elaborato nel 2018 dal Senato).
La situazione resta più complicata a livello regionale, dove le norme di riequilibrio via via introdotte, anche a seguito di un impulso dal centro intensificatosi negli ultimi anni (pensiamo, oltre alla legge di principio n. 20/2016, che chiede una presenza del 60/40 nelle liste e la doppia preferenza di genere, alla sostituzione, nel 2021, da parte del governo della Regione Puglia, per non aver attuato tali principi: primo, e per ora unico caso di utilizzo da parte dello Stato del potere sostituivo nei confronti di una regione per omissione legislativa), sembrano prestarsi ad elusioni e aggiramenti. L’EIGE (European Institute for Gender Equality) nel suo rapporto del 2020 dedicato all’Italia, rileva, quanto al “potere politico”, la presenza di un gender gap particolarmente significativo proprio a livello regionale: infatti, sulla base dei dati del 2019, la presenza femminile nei consigli regionali si attesta al 19,7% (a fronte di una media europea, in organi equivalenti, del 29%) e questo dato contribuisce a connotare una posizione italiana non proprio brillante (al 16 posto dell’Europa a 28).
Basti pensare a una regione come la Liguria, andata al voto nel 2020, che ha adeguato proprio in extremis la propria legislazione ai principi statali: il risultato di elezioni svoltesi con la normativa adeguata è di 3 donne su 30 consiglieri. Per non parlare dei presidenti di regione, una categoria nella quale la presenza femminile è assai sporadica, per usare un eufemismo, per non dire quasi inesistente (al momento solo l’Umbria ha una presidente donna).
Ma, oltre alle cariche elettive, la partecipazione femminile resta circoscritta anche in tutti quei luoghi decisionali ai quali si accede per elezione di secondo grado o per nomina: il che comprende sia organi politici, come il governo o le giunte regionali, ma anche autorità indipendenti o di garanzia, dalla Corte costituzionale al Consiglio superiore della magistratura. Inutile qui presentare la lunga lista dei “mai”: mai una donna è stata in Italia presidente del consiglio, mai presidente della Repubblica, mai presidente di una autorità indipendente, mai governatore della banca d’Italia. L’elezione di Marta Cartabia alla presidenza della Corte costituzionale, nel dicembre 2019, ha rappresentato una novità enorme, che non cancella però il fatto che, nella storia della Corte medesima, ci siano state soltanto 7 donne su quasi 120 giudici costituzionali.
Insomma, 75 anni dopo quel 2 giugno 1946, siamo ben lontani da una democrazia paritaria, fatta di donne e di uomini. Che si tratti dell’ennesimo parallelismo, cioè della riprova della incapacità di costruire nel nostro paese una democrazia veramente inclusiva, che consenta la partecipazione di tutti, in condizioni di eguaglianza, alla adozione delle decisioni politiche?
Una delle finalità degli anniversari è quella di suscitare una riflessione pubblica. In questo specifico anniversario, mi pare che la riflessione debba ruotare sul ruolo del diritto nel confrontarsi con una realtà che sembra assai ostile al cambiamento. Nel senso che alcuni settori della società italiana, tra i quali si colloca senza dubbio in una posizione di rilievo quello della politica, restano per le donne di difficile accesso, nonostante l’esistenza di una serie di norme, non troppo stringenti, ma nemmeno del tutto vacue, di riequilibrio.
Che fare? Come può il diritto contribuire a scardinare una mentalità che resta spesso patriarcale? Questo nella convinzione che, come è stato detto da una delle giuriste di punta del pensiero femminista, Catharine Mackinnon, il diritto «non è tutto ma non è nemmeno niente», e che è chiamato a una complessa interazione col tessuto delle norme sociali e dei comportamenti umani.
Sono sufficienti politiche pubbliche nel settore dei servizi sociali, che alleggeriscano la pressione di cura sulle donne, per liberare quelle energie necessarie per affrontare la vita politica? Oppure servono norme più stringenti, vere e proprie azioni positive in senso forte, che prevedano quote femminili nei luoghi decisionali, a partire dal governo, dalle giunte regionali, per arrivare alle autorità indipendenti, alle società partecipate…Norme che portino il genere storicamente subalterno ad essere presente in modo significativo in tali istituzioni, nella consapevolezza che occorre una critical mass minima, considerata almeno pari al 30%, per poter integrare la prospettiva di genere nelle decisioni degli organi collegiali ed evitare il cd. “tokenism”, ovvero la presenza di un numero di donne irrisorio e del tutto incapace di sovvertire le gerarchie di genere.
Tutto ciò nella convinzione, che è anche una speranza e chissà, forse un sogno, che una presenza femminile consistente possa permettere non solo una democrazia più paritaria, ma anche veramente plurale. Una democrazia nella quale le donne possano portare pienamente le proprie competenze e la propria voce. Una voce che dia voce a tutti gli oppressi, uomini e donne, a quella umanità esclusa che per tanti secoli e millenni esse hanno, più di tutti, incarnato. Chissà che questo non fosse il desiderio profondo che animava, quel 2 giugno 1946, quei milioni di donne che per la prima volta poterono dire una parolina, mettendo nell’urna le loro schede.
Denunciare l’estorsione in Sicilia: fatto ordinario o “rivoluzionario”?
Intervista di A. Apollonioa Giuseppe Condorelli
Giuseppe Condorelli è titolare dell'omonima azienda dolciaria siciliana, nota in tutto il mondo per i suoi torroncini. Ma è anche colui che di recente ha denunciato un tentativo di estorsione mafiosa, consentendo alla giustizia di fare il suo corso. Qualche anno prima aveva agito nello stesso modo: gli era stato chiesto il pagamento di una tangente e lui era corso a denunciare i fatti. Oggi, con moto d'orgoglio e d'ammirazione, viene cercato dai media del Paese per raccontare la sua esperienza, ma il cavaliere Condorelli si limita a dire: "ho fatto una cosa che dovrebbe essere normale".
Abbiamo cercato di capire in che cosa consista questo tipo di normalità, oggi in Sicilia.
Lei ha denunciato un tentativo di estorsione mafiosa e ha fatto arrestare i responsabili. La notizia ha suscitato un notevole clamore: alcuni parlamentari hanno sventolato in aula i torroncini Condorelli, i giornali e le testate nazionali sono accorse ad intervistarla, l'opinione pubblica la vede come un “eroe”. Lei si sente tale?
Assolutamente no. Non mi sento affatto un “eroe”, anzi sono rimasto alquanto esterrefatto dell’eco mediatica che ha avuto la notizia. Da cittadino nonché imprenditore siciliano, ho sempre creduto nella legalità quale valore imprescindibile nell’esercizio dell’attività d’impresa.
Già in passato aveva subito richieste estorsive, e puntualmente aveva denunciato. Lo Stato, e quindi la magistratura e le forze dell'ordine, ieri e oggi, si sono rivelate pronte a fronteggiare le minacce e i pericoli che lei denunciava?
Anche in occasione di esperienze negative di tale genere, ho potuto constatare l’efficienza e l’efficacia nelle azioni delle istituzioni e delle Forze dell’Ordine a tutela dei cittadini che denunciano atti intimidatori e/o tentativi estorsivi.
Lei è un imprenditore di primo piano, i suoi prodotti sono esportati in tutto il mondo: chi in Italia non conosce i torroncini Condorelli? Dal suo punto di vista, privilegiato, che differenza corre tra essere imprenditore in Sicilia e altrove? E quanto pesano le dinamiche criminali della sua terra?
Certamente, non volendo essere retorico e non volendo esternare “ovvietà”, posso affermare che fare l’imprenditore in Sicilia è ancora più difficile che altrove. In Sicilia , l’imprenditore è consapevole di dover lottare non solo contro le dinamiche criminali, ma anche contro le inefficienze burocratiche degli apparati pubblici e, talvolta, anche contro il deficit infrastrutturale e logistico.
Nel linguaggio mafioso, l'operatore economico è in regola quando è sotto la “protezione” di qualcuno. Questo modo di pensare risale agli albori ottocenteschi del fenomeno, in cui i grandi proprietari terrieri dell'Isola erano costretti ad affidare la protezione dei loro interessi ai mafiosi con la coppola e la lupara. Eppure siamo nel 2021....
Sappiamo che le origini della Mafia in Sicilia risalgono alla fine dell’ottocento con i primi movimenti dei “fasci” e successivamente con l’incedere dei mafiosi che taglieggiavano i grandi proprietari terrieri. Oggi sono cambiati i soggetti mafiosi e le loro dinamiche operative, ma fortunatamente c’è una maggiore coscienza civica nella lotta contro ogni forma di estorsione .
L'imprenditore siciliano come percepisce il fenomeno mafioso? Come un retaggio storico, un passato lontano, oppure un rischio concreto per l'attività di impresa? E come, dal suo punto di vista, l'imprenditore dovrebbe intendere il fenomeno mafioso?
L’imprenditore operoso, onesto e che ama il suo lavoro non può e non deve scendere a compromessi con i soggetti mafiosi.
Cosa si sente di dire ai suoi colleghi che, pur con le difficoltà del momento, nell'esercizio dell'attività di impresa credono sia “meglio” pagare il pizzo?
Direi che “denunciare conviene”! Oggi, la denuncia è l’unica azione che deve intraprendere l’imprenditore se vuole salvaguardare la propria impresa e soprattutto il futuro della stessa.
Lei, dalle colonne di un giornale, ha affermato rivolgendosi ai suoi estorsori se li avesse avuti di fronte: “Capisco che nella vita si può anche sbagliare, ma gli direi che non è questo il modo di vivere. La strada corretta è quella della dignità, dei valori, del lavoro. Non c'è alternativa, devono cambiare”. Le sue parole sono disarmanti, straordinariamente semplici, e da esse si coglie un messaggio di speranza per l'intera Sicilia: non c'è alternativa alla legalità. Vale per i mafiosi, per gli imprenditori, per le istituzioni. E' così?
Assolutamente sì! Nella vita di ogni uomo esistono dei valori fondamentali quali: dignità, legalità e onestà. Ecco perché anche i soggetti mafiosi possono redimersi nel tempo e possono cambiare.
Pochi giorni fa ricorreva l'anniversario della morte di Giovanni Falcone: egli all'inizio degli anni Novanta affermava sconsolato: “Oggi in pratica quasi tutti pagano la tangente”. Se oggi Falcone fosse ancora tra noi, e avesse davanti la nuova imprenditoria siciliana, pronuncerebbe le stesse parole?
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono i veri “eroi” dei nostri tempi. Grazie a loro che hanno pagato un prezzo elevatissimo con le loro vite spezzate da un vile e barbaro attentato nel 1992, oggi la Sicilia e gli imprenditori siciliani hanno preso le distanze dai fenomeni mafiosi. Credo che, anche oggi, Falcone avrebbe continuato la sua lotta contro la mafia con lo stesso impegno e con la stessa caparbietà di allora.
Sono stati giorni difficili, in cui i riflettori erano puntati su di lei. Una domanda forse molto personale: la sera, prima di addormentarsi, a cosa pensa?
Penso alla mia famiglia, alla mia azienda e al bene sviscerato che provo nei confronti della mia terra. Sogno un futuro migliore per i miei figli e soprattutto un futuro scevro da qualsiasi forma di sopruso e prepotenza.
È stato detto che l'invincibilità della mafia non esiste, dipende da noi: è così?
Non credo che la mafia sia invincibile, perché, il successo della lotta dipende solo da noi.
Occorre cambiare la cultura sociale soprattutto nei soggetti più giovani e per fare ciò occorre anche l’aiuto e la collaborazione di chi ci governa.
Incostituzionalità dell’interpretazione analogica “creativa” in malam partem (nota a Corte cost. 14 maggio 2021 n. 98) di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. La rilevanza della sentenza per il diritto amministrativo - 2. I principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale - 3. La questione all’esame della Consulta - 4. Conclusioni.
1. La rilevanza della sentenza per il diritto amministrativo.
Con la sentenza n. 98, pubblicata il 14 maggio scorso, la Corte costituzionale (Presidente Coraggio, redattore Viganò) ha segnato un importante punto fermo sulla delimitazione dei confini tra potere giurisdizionale e potere legislativo, quanto meno in ambito sanzionatorio.
Il tema è evidentemente di massimo interesse anche per il diritto amministrativo sotto diversi profili.
La prima, di più immediata evidenza, è data dalla progressiva estensione dell’ambito delle “pene amministrative”: oltre all’aumento delle sanzioni pecuniarie per effetto del processo di depenalizzazione degli illeciti contravvenzionali (a partire dalle leggi n. 317 del 1967, 706 del 1975 e, soprattutto, 689 del 1981, seguite da vari interventi successivi, come il d.lgs. n. 8 del 2016), si assiste invero a una proliferazione di sanzioni interdittive[1] (categoria nella quale evidentemente rientra anche la sottospecie – dai confini estremamente labili e incerti - dell’incapacità di contrarre con le pubbliche amministrazioni di chi si sia reso responsabile di precedenti illeciti o di falsità o omissioni dichiarative) e di misure eccezionalmente ostative alla fruibilità delle regole generali a tutela del legittimo affidamento in forza di pretese violazioni dell’obbligo di “autoresponsabilità” dichiarativa (come quelle previste dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 s.m.i. per l’operatività del limite temporale di esercizio del potere di annullamento d’ufficio degli atti di autorizzazione e di ammissione a vantaggi economici e del potere di controllo postumo sulla s.c.i.a.).
La seconda è la tendenza - troppe volte purtroppo vanamente criticata - della giurisprudenza amministrativa a debordare dai confini dell’interpretazione, per esercitare, in inaccettabile concorso con il legislatore, una vera e propria funzione “creativa” di regulae iuris, anche in malam partem[2] e la denunciata “ritrosia” della Corte di cassazione a rilevare l’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore.
Il tema assume peraltro massima attualità e importanza in un momento in cui vi è assoluto bisogno di assicurare “certezza” ai cittadini e agli operatori economici, quantomeno sulle conseguenze giuridiche dei loro comportamenti. Perché, come ho cercato ripetutamente di segnalare, non si può sperare in una ripresa economica in un sistema che continua a tessere “trappole” e incertezze, esponendo i cittadini e gli operatori economici al costante rischio di una “riscrittura giurisprudenziale” in malam partem di disposizioni ambigue – e dunque interpretabili in buona fede anche in senso diverso e più favorevole all’agente – o, addirittura, caratterizzate da un dettato letterale assolutamente chiaro, stravolto dal giudice solo perché ritenuto “irragionevole” [3]. È emblematica, per tutti, la giurisprudenza sui richiamati limiti temporali al potere dell’amministrazione di rimuovere i propri atti (o dichiarare l’inefficacia delle s.c.i.a.) per vizi originari di legittimità, la quale, per un verso, propone indebite interpretazioni estensive delle eccezioni (come tali di stretta interpretazione) alla regola generale di consumazione del potere alla scadenza del termine stabilito dalla legge (nel 2015, 18 mesi, ora ridotti a 12[4] e, per gli atti legati al Covid-19, addirittura a 3[5]) per presunti “falsi o mendaci” dei soggetti istanti o segnalanti e, per l’altro verso, a fronte di una disposizione che inequivocabilmente individua il dies a quo per la decorrenza del termine nell’adozione del provvedimento originario, senza distinguere tra provvedimenti già adottati e provvedimenti successivi all’entrata in vigore della norma, lo ha, dopo qualche iniziale (e più corretta) interpretazione secundum litteram, prevalentemente posticipato a quest’ultima data e, in alcune pronunce, ne ha addirittura negato – contra legem – l’applicazione ai provvedimenti adottati prima della novella[6]. E non sono certamente meno gravi le interpretazioni estensive delle ipotesi di illecito ostative alla stipula di contratti pubblici (esemplari, per tutte, la confusione, opportunamente fermata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, tra false dichiarazioni e dichiarazioni erronee o reticenti e l’assimilazione analogica del rappresentante del socio unico persona giuridica al “socio unico persona fisica”) o, con riferimento a una materia di confine tra il diritto amministrativo e il diritto penale, le interpretazioni estensive del concetto di attività edilizia senza titolo, mediante un’indebita attrazione in tale ipotesi di illecito delle attività realizzate in base a titolo illegittimo[7].
2. I principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale.
Merita dunque grande attenzione e massimo apprezzamento la sentenza in epigrafe, nella quale il Giudice delle leggi ha, giustamente, messo in relazione il principio di stretta legalità delle pene enunciato dall’art. 25, co. 2, Cost. (operante, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale[8] e sovranazionale[9], per tutte le misure afflittive, a prescindere dalla “etichetta” data loro dai singoli ordinamenti) e “l’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981)”, ravvisando nel divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice “l’ovvio pendant” del suddetto “mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice” e sottolineando come la Corte abbia “recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018)”.
Si evidenzia pertanto che l’imperativo dell’art. 25, co. 2, cit. “mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004)”. In questa prospettiva, la sentenza ha stigmatizzato il giudice rimettente, che, “nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio (omissis) omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998)”. La Corte ha dunque affermato in termini molto netti che “Il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore”. Dopo aver rimarcato la valenza generale del principio, anche negli altri ordinamenti, confermata dal richiamo alla giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, la sentenza ha, ancora, ribadito che “Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale” (significativamente richiamando, in particolare, accanto alle sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, anche la sentenza n. 121 del 2018, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo), mettendo specificamente e molto opportunamente in luce il fatto che tali corollari sono “posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988)”. E ha significativamente aggiunto che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale (da intendersi, come detto, riferita anche alle sanzioni amministrative) verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge, sottolineando come la richiamata garanzia soggettiva che il suddetto mandato costituzionale di determinatezza della legge penale vuole assicurare a ogni consociato sarebbe evidentemente svuotata laddove fosse consentito al giudice “assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura”.
3. La questione all’esame della Consulta.
La questione portata alla Consulta, pur legata a un dubbio di incostituzionalità di una norma processuale (art. 521 c.p.c.), investiva, indirettamente, l’applicabilità dell’art. 572 cod. pen. - che prevede un regime sanzionatorio delle condotte abusive nei confronti delle “persone della famiglia” più grave rispetto a quello contemplato dall’art. 612-bis, co. 2, dello stesso codice per le condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente - anche alle persone “conviventi” con l’autore del reato[10]. Di fronte al chiaro riferimento della fattispecie criminosa descritta dal richiamato art. 572 alle “persone della famiglia”, il Garante della Costituzione, sulla scorta delle considerazioni sopra riportate, ha dunque correttamente ritenuto “il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato”, mettendo in luce come essa si sostanzierebbe in una interpretazione analogica della norma punitiva a sfavore dell’autore della condotta sanzionata: “una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost”. La Corte ha conseguentemente ritenuto che il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in senso sfavorevole al reo in relazione al caso di specie si traducesse in una carenza di motivazione sulla rilevanza delle questioni prospettate, implicandone l’inammissibilità (da ultimo, sentenza n. 57 del2021).
In estrema sintesi, la “giustizia sostanziale” nei confronti della vittima, in nome della quale la Suprema magistratura penale (nelle numerose pronunce richiamate dal giudice remittente e citate nella sentenza in commento) ha ritenuto che l’ipotesi di reato descritta dall’art. 572 c.p. possa comprendere anche le condotte abusive nei confronti della persona convivente, non è dunque un elemento sufficiente a superare (recte, violare) il limite di stretta legalità e chiara prevedibilità nel quadro legislativo stabilito dall’art. 25, co. 2, Cost. e il principio di separazione dei poteri. Analogamente, e a più forte ragione, il richiamo alla “ragionevolezza” e alla pretesa esigenza primaria di tutela dell’interesse pubblico non possono giustificare una lettura “creativa” in malam partem di norme amministrative a contenuto sanzionatorio.
4. Conclusioni.
Si tratta, come anticipato in apertura, di un principio molto importante per la certezza del diritto e per la tutela dei confini tra i poteri voluta dalla nostra Costituzione: un’importanza tanto maggiore nel momento in cui, proprio all’esito della nota sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno, come noto, investito la Corte di Giustizia dell’Unione europea della questione dell’ambito di operatività del ricorso alle Sezioni Unite contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per “soli motivi inerenti alla giurisdizione”. Come evidenziato in sede di commento all’ordinanza di rinvio al Giudice sovranazionale[11], la posizione di “chiusura” della Corte costituzionale era stata in quell’occasione verosimilmente determinata dalla prospettazione della questione in termini di derogabilità al limite di sindacato delle Sezioni Unite sul potere di “interpretazione” del giudice amministrativo, sul presupposto – a mio avviso non condivisibile – che il confine tra “creazione” e “interpretazione” non sia di fatto mai tracciabile. Ora, quantomeno per le norme penali chiare, la Corte costituzionale ha smentito questo assunto ed è quindi auspicabile che anche la Corte regolatrice della giurisdizione apra finalmente la strada, almeno nei casi limite della giurisprudenza creativa in malam partem, all’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore.
[1] Categoria estesa, inter alia, dal codice dei contratti pubblici, dal d.lgs. n. 231 del 2001 e dall’art. 264 del d.l. n. 34 del 2020 (su cui v. La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in Giustizia insieme, giugno 2020.
[2] Mi si consenta il rinvio, anche per i richiami alla dottrina e alla giurisprudenza, inter alia, alle considerazioni svolte in M.A. SANDULLI, Princìpi e regole dell’azione amministrativa: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in Federalismi.it, 2017; Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in Riv. giur. ed., 3/2018, 687 e ss; Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 e ss.;
Conclusioni di un dibattito sul principio della certezza del diritto, in M.A. SANDULLI, F. FRANCARIO (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, 305 e ss.; 27; Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, e in giustizia-amministrativa.it, 2019; Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, in Giustiziainsieme, ottobre 2020; Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020, in Giustiziainsieme, novembre 2020.
[3] Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e p A o il Recovery è inutile, Intervista a Il dubbio, 7 maggio 2021, leggibile anche su Giustiziainsieme, maggio 2021, e Sanità, misure abilitanti generali sulla semplificazione e giustizia, Intervento al webinar AIPDA su Next Generation EU. Proposte per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, 28 aprile 2021, in corso di pubblicazione sul sito AIPDA.
[4] Art. 63 del d.l. semplificazioni approvato dal Consiglio dei Ministri il 28 maggio scorso.
[5] Art. 264 del d.l. 19 maggio 2020 n. 34, convertito, senza modificazioni in parte qua, nella l. n. 77 del 18 luglio.
[6] Cfr. C. DEODATO, Annullamento d’ufficio, in M.A. SANDULLI (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, 2 ed., Milano, 2017 e M. SINISI, Autotutela in M.A. SANDULLI (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, 3 ed., Milano, 2020.
[7] M.A. SANDULLI, Controlli sull’attività edilizia, cit..
[8] A partire dalla sentenza n. 196 del 2010, seguita dalla sentenza n. 104 del 2014. Sull’applicabilità alle sanzioni amministrative delle garanzie di stretta legalità, proporzionalità, irretroattività e favor rei previste per le sanzioni penali (su cui cfr. già M.A. SANDULLI, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione. Studi preliminari, Napoli, 1981 e Le sanzioni amministrative pecuniarie, Principi sostanziali e procedimentali, Napoli 1983), v., tra le più recenti, Corte cost., sentt. nn. 20 e 63 del 2019 e ord. n. 117 del 2019, su cui cfr., anche per ulteriori richiami, E. BINDI e A. PISANESCHI, La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale, in Federalismi.it, novembre 2019. Per una sintesi dell’evoluzione giurisprudenziale sulle sanzioni amministrative e per i richiami alla bibliografia essenziale, cfr. da ultimo, S. CIMINI, Sanzioni amministrative, Treccani on-line 2019.
[9] A partire dalla nota sentenza della Corte EDU Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel. c. Paesi Bassi, seguita dalle altrettanto note sentenze 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, 27 settembre 2011, Menarini Diagnostic c. Italia, e 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia. La posizione è stata pacificamente abbracciata anche dalla Corte di Lussemburgo: cfr. da ultima, la sentenza della Grande Sezione 2 febbraio 2021, in C-489/19, sulla questione sollevata dalla Corte costituzionale nella citata ord. 117 del 2019 (e definita dalla sentenza n. 84 del 2021). Sull’ampia nozione di sanzione penale (afflittiva) secondo la Corte EDU, cfr., tra gli scritti più recenti, M. LIPARI, Il sindacato pieno del giudice amministrativo sulle sanzioni secondo i principi della CEDU e del diritto UE. Il recepimento della direttiva n. 2014/104/EU sul private enforcement (decreto legislativo n. 3/2017), in federalismi.it, aprile 2018; F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, 3 ed., Torino, 2018; nonché lo stesso F. VIGANO’, Il nullum crimen conteso: legalità “costituzionale” vs legalità “convenzionale”, in Atti del convegno su “Il rapporto problematico tra giurisprudenza e legalità”, BUP, 2017, 9 ss, il quale rileva come “i due fasci di garanzie sottesi alla legalità penale di fonte, rispettivamente, costituzionale e convenzionale, non debbano essere considerati come antinomici, ma piuttosto come complementari, alla luce del criterio della massimizzazione delle garanzie dei diritti fondamentali che deriva dalla combinazione tra Costituzione e carte internazionali dei diritti, prima fra tutte la Convenzione europea; e che, pertanto, l'impatto del principio di legalità europeo sul sistema penale italiano comporti in linea di principio un innalzamento complessivo del livello di tutela dell'individuo nei confronti della potestà punitiva statale, rispetto al livello ricavabile dalla sola Carta costituzionale” (p. 11)..
[10] In particolare, come riporta la sentenza in commento, secondo il giudice remittente, “una tale interpretazione sarebbe, anzi, l’unica compatibile con l’art. 3 Cost., dal momento che sarebbe «irragionevole tutelare la vittima di mortificazioni abituali allorquando sia legata da vincoli fondati sul matrimonio, anche in quei casi in cui il rapporto sia ormai sgretolato e indebolito nella sua capacità di condizionare la vittima», e «non tutelare, invece, la vittima di mortificazioni abituali che avvengono in contesti affettivi non suggellati da scelte formali, ma caratterizzati comunque dalla attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima». Del resto, le altre ipotesi previste dall’art. 572 cod. pen. (sottoposizione ad autorità o affidamento per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, ovvero esercizio di una professione o di un’arte) prescinderebbero tutte dall’elemento della convivenza”.
[11] Guida alla lettura, cit
Giustizia e comunicazione. 3)
La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero
di Giovanni Melillo
Con il contributo odierno, gentilmente offerto da Giovanni Melillo, prosegue il percorso di riflessioni avviato dalla rivista Giustizia Insieme in ordine alle forme di comunicazione della giustizia attraverso l’Editoriale (https://www.giustiziainsieme.it/it/giustizia-comunicazione/1733-giustizia-e-comunicazione-editoriale), l’intervento di Giovanni Canzio sul linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale (https://www.giustiziainsieme.it/it/giustizia-comunicazione/1738-il-linguaggio-giudiziario-e-la-comunicazione-istituzionale-di-giovanni-canzio) e l’intervista a Rosaria Capacchione (https://www.giustiziainsieme.it/it/giustizia-comunicazione/1750-giustizia-e-comunicazione-2-fare-cronaca-giudiziaria-intervista-di-maria-cristina-amoroso-a-rosaria-capacchione).
Di assoluta e stringente attualità è senza dubbio la relazione esistente tra la giustizia penale e l’informazione e, in questo ambito, appare ineludibile una compiuta elaborazione circa le modalità di comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero. In particolare, si avverte il pericolo di un interesse massimo della collettività nella fase delle indagini preliminari, interesse che appare scemare progressivamente nel corso dello sviluppo processuale.
Occorre, dunque, declinare la comunicazione pubblica della fase investigativa con particolare riguardo al delicato rapporto - e al conseguente bilanciamento - tra il segreto istruttorio e il diritto all’informazione, da contemperare naturalmente con le garanzie poste a tutela delle persone sottoposte ad indagine, seguendo scrupolosamente, con equilibrio e misura, quanto indicato dal C.S.M. nelle Linee Guida, approvate con delibera dell’11 luglio 2018, le quali dettano una disciplina uniforme che trae spunto anche da molteplici documenti elaborati in sede sovranazionale, attese le scarne previsioni legislative nazionali.
Allo stato tre appaiono i temi maggiormente meritevoli di considerazione con i quali gli uffici di procura dovranno certamente, o almeno auspicabilmente, confrontarsi e sui quali vi è necessità di un’attenta meditazione.
In primis, occorre mettere in rilievo la giurisprudenza della Corte E.D.U. che, anche di recente, con sentenza dell’1 aprile 2021, Sedletska v. Ucraina, ha ribadito il diritto del giornalista a beneficiare della protezione della confidenzialità delle proprie fonti.
In secondo luogo, risulta particolarmente interessante osservare gli sviluppi della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, al cui recepimento l’Italia ha provveduto solo con la legge di delegazione europea 2019-2020 (legge n. 53 del 22 aprile 2021, in vigore dall’8 maggio 2021).
Infine, un nuovo terreno comunicativo investe gli uffici di procura: la rendicontazione sociale attraverso lo strumento del bilancio di responsabilità sociale. Tale strumento di "accountability" consente di portare all’esterno l’organizzazione dell’ufficio e le attività svolte, anche con riferimento ai risultati conseguiti e alle spese sostenute, e, lungi dall’assumere una visione aziendalistica - prospettiva assolutamente incompatibile con l’essenza della funzione giurisdizionale - può inverare un momento di trasparenza del lavoro degli uffici inquirenti a beneficio del popolo in nome del quale si amministra giustizia, anche per contribuire a recuperare la fiducia nell’istituzione in parte perduta.
Donatella Palumbo
Sommario: 1. Relazioni fra giustizia penale e informazione. Inquadramento generale – 2. La comunicazione pubblica nella fase delle indagini preliminari – 2.1. La disciplina nazionale – 2.2. La giurisprudenza della Corte E.D.U. e le altre fonti internazionali – 3. Le Linee Guida del Consiglio Superiore della Magistratura – 4. Rapporto tra segreto d’indagine e diritto all’informazione – 5. La tutela della riservatezza – 6. Conclusioni. Il bilancio di responsabilità sociale.
1.Relazioni fra giustizia penale e informazione. Inquadramento generale
La complessità della trama concettuale delle relazioni fra giustizia penale e informazione, ampiamente visibile già nei riflessi delle numerose norme costituzionali di imprescindibile riferimento (artt. 21, 24, 97, 101, 111 Cost.), non potrebbe considerarsi appieno senza riconoscere la sua prima, fondamentale connotazione patologica, propria essenzialmente della realtà italiana: il controllo sociale sulla giurisdizione, reso possibile dal dispiegarsi della libertà di informazione, è inversamente proporzionale allo sviluppo del processo, in quanto massimo durante la fase delle indagini preliminari, che dovrebbero avere una funzione preparatoria del processo, di regola, invece, assai attenuato nella successiva fase delle verifica in contraddittorio della fondatezza dell’accusa formulata all’esito delle investigazioni preliminari.
Naturalmente, le cause di tale fenomeno sono complesse, sia sul versante della disciplina processuale che della fenomenologia dell’informazione, ma conviene additarlo subito come uno dei principali fattori di distorsione e di ostacolo al bilanciamento fra libertà di informare e diritto di essere informati, da un lato, e gli altri valori costituzionali, poiché, con evidenza, un irragionevole distanziamento temporale della conoscenza e del clamore delle indagini preliminari dall’esito del processo acuisce enormemente i costi sociali ed individuali del corto circuito insito in un rapporto di proporzionalità inversa fra tempo del procedimento e pressione mediatica, che nello stesso modo contribuisce a determinare l’accumularsi e l’acutizzarsi delle tensioni polemiche e istituzionali attorno al ruolo del pubblico ministero e all’incedere delle investigazioni.
Spetta ad autorevoli processualisti[1] il merito di aver descritto limpidamente i rischi dell’affiancamento al processo ordinario del processo mediatico, per l’assoluta diversità dei rispettivi caratteri e codici narrativi, fornendo alcune essenziali chiavi di accesso alla comprensione del reale valore deontologico dei comportamenti dei soggetti del processo nel rapporto con l’informazione e, per tale via, dell’intensità del rischio di deragliamento della sorte reale delle garanzie e degli stessi ruoli processuali collegato all’ingresso sulla scena mediatica di fattori obiettivamente distorsivi, poiché funzionali al rischio di condizionamento della percezione di accadimenti ancora da sottoporre alla valutazione del giudice.
Nel contempo, conviene ricordare che si deve ad un giornalista[2] l’aver posto anche il problema della “ecologia” della professione giornalistica: non solo quando essa pretende di avere il diritto-dovere di pubblicare “qualunque notizia giunga nel proprio ambito di percezione, a prescindere da qualunque altra valutazione sulle conseguenze della pubblicazione sulle persone e sui relativi procedimenti”, ma anche quando, “coi mille trucchi dell’omissione chirurgica, del sapiente sottointeso, dell’ingigantimento di circostanze prive di rilievo ed il nascondimento di cose serie, rinuncia alla verità per le tante ragioni, dal piccolo cabotaggio della concorrenza fra testate e giornalisti alle campagne orchestrate per ragioni commerciali o di lotta politica”.
Accanto ad una dimensione patologica, vi è però anche un valore sociale ed istituzionale della relazione fra giustizia ed informazione che sarebbe oltremodo sbagliato trascurare, anche e soprattutto con riferimento all’organizzazione degli uffici del pubblico ministero, poiché attiene alla necessità di non oscurare agli occhi del cittadino l’esercizio della giurisdizione, aprendo alla conoscenza della sua struttura e del suo funzionamento. Ciò apre la porta verso aree problematiche tanto importanti quanto sovente oscurate, che chiamano in causa innanzitutto la trasparenza delle logiche che presiedono al funzionamento degli uffici giudiziari, sovente considerate ius repositum in penetralibus pontificum, anziché snodi fondamentali del rapporto con la collettività e le altre istituzioni democratiche[3]. Ma sul punto converrà ritornare in seguito, essendo preminente l’urgenza di considerare il versante delle prassi della comunicazione pubblica nella fase delle indagini preliminari.
2. La comunicazione pubblica nella fase delle indagini preliminari
In astratto, la materia si presta ad agevole definizione. Potrebbe semplicemente dirsi che la comunicazione deve essere deontologicamente impeccabile ed insieme efficace nel restituire il senso dell’iniziativa giudiziaria di volta in volta in rilievo. Ma non faremmo grandi passi in avanti, perché, come è stato sottolineato, la realtà ha mostrato e mostra ancora molti esempi di comunicazione efficacissima, ma sicuramente scorretta, perché lesiva delle ragioni di altri e talvolta anche della verità, così come esempi di segno opposto, nei quali una comunicazione correttissima risulta priva di qualsiasi interesse per i media[4].
Si tratta allora di trovare la formula quasi alchemica, in grado di assicurare il perfetto equilibrio fra efficacia e correttezza della informazione, ciò che per un giurista, e a maggior ragione per un magistrato come tale soggetto solo alla legge, vuol dire una comunicazione efficace nei limiti nei quali può rendersi rispettando le regole, non solo prettamente processuali, ma anche della cultura e della deontologia del processo penale di una società liberale.
Naturalmente, anche così dicendo, i nodi problematici che abbiamo di fronte sono ben lungi dall’essere avviati a scioglimento, collocandosi in una dimensione delle prassi scarsamente attinta dalla legge ed anzi resi ancor più intricati da aporie, contraddizioni, incertezze ed anche ipocrisie normative.
Collocandosi sul terreno delle prassi investigative, in talune circostanze, la consapevolezza della delicatezza degli interessi in gioco dovrebbe spingere a serbare il silenzio assoluto, che, tuttavia, può risultare impraticabile, perché incompatibile con la libertà di stampa e il diritto dei cittadini di essere informati.
Anche per questo appare senz’altro necessario accogliere l’invito[5] a metter da parte l’idea di poter fungere da disciplinati seguaci del settecentesco abate Dinoaurt, autore del famoso libretto L’Arte del silenzio.
Al di là del valore pedagogico e filosofico di molte delle acute riflessioni di quell’elegante intelletto ecclesiastico, infatti, è bene subito fissare che, ai nostri fini, riserbo e correttezza sono concetti diversi e talvolta contrastanti con quello di silenzio, che esprime piuttosto una pretesa - un po’ altezzosa, un po’ comodamente difensiva ed un po’ ipocritamente ispirata a visioni sacerdotali del lavoro giudiziario incompatibili con le moderne democrazie - di tenere lontana dal magistrato la responsabilità per la comunicazione pubblica.
Una comunicazione ben regolata e, così, ancorata a principi di equilibrio, sobrietà e prudenza è possibile ed appare anzi necessaria. Anche per recuperare la fiducia in parte perduta dei cittadini nell’amministrazione della giustizia.[6]
Naturalmente, tutto si fa più difficile nell’era della connessione globale del web e del diffondersi incontrollabile di campagne di disinformazione su vasta scala[7], ma anche i pericoli e le minacce proprie di questa fase dello sviluppo tecnologico contribuiscono a rendere ancor più evidente ed urgente la necessità di disporre di criteri di orientamento delle prassi della comunicazione maggiormente capaci di misurarsi con la complessità e la delicatezza dei valori e degli interessi complessivamente in gioco.
Se, dunque, non possiamo limitarci al silenzio, per progredire nella ricerca di un sempre incerto, ma più avanzato equilibrio, occorre piuttosto considerare il monito insito nel paradosso plotiniano del millepiedi, costretto, come noto, per evitare di inciampare, a non interrogarsi sull’ordine del movimento delle proprie zampe.
Il ricordo della paradossale condizione del povero artropodo dalle troppe zampe e dalle troppo povere capacità elettive può aiutare a dimostrare che non è conveniente muoversi senza disporre di un preciso orientamento metodologico e di strumenti di indirizzo delle prassi degli uffici giudiziari.
2.1. La disciplina nazionale
L’esperienza dimostra che può non bastare esser consci delle difficoltà e persino operare con correttezza e rigore. Vi è bisogno di regole e di procedure, per quanto sia evidente che anch’esse possono essere travolte nello scontro con la realtà. Se la comunicazione è un campo di battaglia, quella relativa alla giustizia è fra i terreni di scontro più frequenti ed insidiosi. Dunque, occorre convenire che, effettivamente, se l’indagine e il processo toccano interessi e centri di potere politici, economici, criminali, sarà oltremodo agevole constatare che, anche toccandosi l’apice della correttezza della comunicazione, sarà ben difficile evitare attriti, reazioni, polemiche, conflitti.
Non di meno, resta intatto il bisogno di custodire quotidianamente valori e regole di condotta fondamentali per la trasparenza e l’imparzialità dell’agire giudiziario.
Certamente, vengono in primaria considerazione i canoni normativi essenziali per la tenuta del principio di legalità processuale nella fase delle indagini e per l’effettività del relativo ruolo di garanzia proprio anche del pubblico ministero, ma la ricerca di solidi ancoraggi normativi non è destinata ad offrire approdi confortanti se si sposta dal terreno della deontologia a quello dell’organizzazione degli uffici e dell’orientamento delle prassi.
Come noto, il dato legislativo (art. 5 del d.lgs. 106/2006)[8] è assai laconico e si limita ad attribuire al capo dell’ufficio requirente la esclusiva responsabilità della comunicazione. Rivelando una discreta dose di rassegnata indifferenza ovvero di ipocrisia, nulla dice sul quomodo. Né, a ben vedere, molto aggiunge la previsione del d.lgs. 109/2006, la quale, prevedendo il rilievo disciplinare di una serie di comportamenti del magistrato (fra le quali altresì la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di notizie non pubblicabili[9]), si colloca in una prospettiva obiettivamente lontana dall’organizzazione razionale delle prassi.
Non molto di più, al momento, dicono le norme secondarie del sistema dell’autogoverno, anche se non poche, ed anche importanti indicazioni possono trarsi, come si dirà oltre, dalle pur non stringenti “Linee Guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, approvate dal Consiglio Superiore della Magistratura con delibera dell’11 luglio 2018[10].
2.2. La giurisprudenza della Corte E.D.U. e le altre fonti internazionali
Naturalmente, anche nella consapevolezza che, ad ogni latitudine, non esistono dispositivi normativi che garantiscano dai rischi tipici della informazione giudiziaria, alcuni passi in avanti possono farsi guardando, innanzitutto, alle regole enucleabili dalla giurisprudenza della C.E.D.U. e da documenti internazionali importanti, pur se privi di ogni valore immediatamente precettivo[11].
Sul primo versante, si ritrovano ampie tracce di alcuni principi fondamentali, fissati dalla Corte di Strasburgo attorno, da un lato, al valore della libertà di stampa, intesa secondo la classica (ed un po’ retorica) formula del “cane da guardia della democrazia” (William Goodwin v. UK, 27 marzo 1996) e, dall’altro, alla necessità di equilibrio degli assetti reali dei sistemi nazionali, essendo buon andamento della amministrazione della giustizia, privacy e presunzione di innocenza[12] valori protetti dalla Convenzione, ma chiamati a fare i conti con un’ampia tutela del diritto di cronaca (almeno a far tempo dalla famosa sentenza del 26 aprile 1979 - Sunday Times v. UK - che ricordò a tutti che i tribunali non possono funzionare nel vuoto, perché i loro compiti suscitano naturalmente il dibattito pubblico e devono confrontarsi con il diritto del pubblico ad essere informato).
Del resto, della sussistenza dell’interesse pubblico non può che decidere il giornalista, come ovvio assumendone la responsabilità, quando l’interesse pubblico ritenuto sussistente per legittimare la pubblicazione entri in conflitto con altri interessi e diritti, quali quella alla privacy e alla reputazione (si veda, ad esempio, il caso Furst-Pfeifer v. Austria del 17 maggio 2016 ove si discuteva della legittimità, riconosciuta dalla C.E.D.U., della pubblicazione di notizie sulla salute mentale di una psichiatra che agiva come consulente sui minori dell’autorità giudiziaria)[13].
Sul secondo versante, alcuni parametri fondamentali di un’informazione corretta delle Procure della Repubblica è dato individuarli nei contenuti del parere reso, sotto l’egida del Consiglio d’Europea, dal Comitato Consultivo dei Procuratori Europei nel 2013 (parere n. 8/2013)[14], intervenuto quattro anni dopo la Dichiarazione di Bordeaux su “Giudici e magistrati del Pubblico Ministero in una società democratica”[15] predisposta appunto a Bordeaux, in seduta comune dei Gruppi di lavoro del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (C.C.J.E.) e del Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei (C.C.P.E.), ed adottata ufficialmente dal C.C.J.E. e dal C.C.P.E. a Brdo il 18 novembre 2009[16].
Potrà sembrare banale il preliminare avvertimento che da tali documenti potremo solo in controluce ricavare gli antidoti della comunicazione clandestina o più abilmente ricercata a fini di promozione mediatica di figure e destini personali, occupandosi i medesimi di orientare correttamente i canoni pratici della comunicazione giudiziaria ufficiale, ma sarebbe ancor più facile constatare che l’ampiezza del gioco dell’una significativamente dipende dagli spazi non occupati dalla seconda.
In tale prospettiva, si coglie tutta l’importanza dei canoni di orientamento dell’applicazione pratica dei principi convenzionali enucleabili dalla lettura dell’uno e dell’altro documento[17].
In definitiva, trova limpida affermazione in quei documenti il principio secondo il quale la trasparenza delle funzioni del p.m. e dell’organizzazione delle indagini e degli uffici che hanno la responsabilità è una “componente essenziale dello Stato di diritto e al tempo stesso una delle garanzie del giusto processo”.
Naturalmente, resta affidata alla considerazione personale di ciascuno ogni riflessione sulla distanza della realtà quotidiana delle prassi applicative di quei valori, certo particolarmente visibile nella rappresentazione degli esiti delle indagini con enfasi e perentorietà di toni non compatibili con la natura della fase procedimentale e la dimensione giurisdizionale dell’azione del pubblico ministero[18], ancorché sovente ricercati in logiche di comunicazione proprie delle società nelle quali si indeboliscono i fattori di difesa e diffusione della cultura della presunzione di innocenza e della dignità delle persone, pur se accusate di gravissimi delitti.
Tuttavia, l’aperto e continuo richiamo ai principi della Dichiarazione di Bordeaux operato dalle successive Linee guida del C.S.M. consente, pur essendo tale strumento per sua natura dotato di relativa capacità di vincolante indirizzo, di cogliere il valore innovativo dell’approccio al problema e di talune delle soluzioni prospettate, consentendo di proiettare l’uno e le altre nella concreta dimensione dell’organizzazione degli uffici del pubblico ministero e di ridurre il rischio di divaricazioni e contraddizioni delle prassi operative.
3.Le Linee Guida del Consiglio Superiore della Magistratura
Innanzi tutto, il documento[19] muove dal ripudio dell’idea che la comunicazione sia materia accantonabile nel lavoro di ogni magistrato.
All’elogio del silenzio e alla stantia ed ipocrita massima secondo la quale i magistrati dovrebbero parlare solo con i loro provvedimenti (nella realtà sovente esposizioni di enormi masse informative e di valutazioni difficili da comprendersi per i più), si sostituisce l’invito ad una parola equilibrata, misurata, responsabile, ispirata al rispetto della funzione giudiziaria e dei diritti dei cittadini.
Naturalmente, ciò non copre tutta la dimensione della comunicazione del magistrato, che comunica con tutti i suoi comportamenti, non solo professionali, come ci ricordano le bellissime pagine introduttive alla pubblicazione del pluridecennale dialogo epistolare di un giudice con una persona condannata alla pena perpetua[20], ma anche conducendo o partecipando all’udienza e con ogni altro atteggiamento percepito dal cittadino a vario titolo coinvolto nel procedimento.
In altri termini, come è stato altresì ben detto[21], la percezione sociale del magistrato e della giustizia si nutre sempre più del costume giudiziario, ovvero di come i magistrati si pongono, parlano, scrivono, si comportano e si relazionano con i soggetti del processo e nel dibattito pubblico.
In questa dimensione, nella quale, quasi quotidianamente, la magistratura perde piccole quote di credibilità e fiducia dei cittadini, il dovere di difendere strenuamente la libertà di manifestazione del pensiero del cittadino magistrato anche su temi politicamente sensibili ed esposti al rischio della polemica deve potersi associare alla possibilità di criticare e tenere lontane da sé le tentazioni a presentarsi come depositari di verità e dell’etica pubblica e a non cedere alla vanità e ai precari vantaggi del circuito mediatico.
Le Linee guida, dunque, per quanto generiche e bisognose di traduzione in documenti di chiaro valore precettivo, hanno un rilievo obiettivo e si potrebbe ritenere non eludibile per i dirigenti degli uffici giudiziari, imponendosi la necessità di valutare la necessità di precisi interventi organizzativi, essenziali all’orientamento trasparente delle forme di esercizio della loro responsabilità della comunicazione pubblica.
Ecco allora, trattandosi di informazione sulle attività del P.M., vedere la luce nella sede dell’autogoverno della magistratura alcuni pur generici, ma chiarissimi, principi, agevolmente suscettivi di progressione precettiva: dal divieto di discriminazioni tra giornalisti o testate e di canali informativi privilegiati alla tutela della dignità delle persone vulnerabili dal rischio di pressioni vessatorie dei media, dal dovere di una comunicazione reattiva, finalizzata a correggere o smentire informazioni errate, false o distorte, fino al dovere (del dirigente dell’ufficio) di coinvolgere gli altri magistrati nelle valutazioni di modalità ed impatti della comunicazione pubblica.
In altri termini, di alcuni dei principi dedotti nelle ricordate Linee Guida è ben possibile tentare di assicurarne la reale condivisione e l’uniforme applicazione, riducendo i margini della scivolosa dimensione di informalità che abitualmente caratterizza i rapporti con i media.
La considerazione del rischio di diffusione di fotografie e video ritraenti il volto di persone arrestate in esecuzione di ordinanze applicative di misure cautelari ovvero arrestate in flagranza di reato o sottoposte a fermo di polizia giudiziaria[22] può, ad esempio, utilmente porsi a fondamento di formali direttive ai servizi di polizia giudiziaria, così collocandosi apertamente la doverosa cura delle condizioni di efficace tutela della dignità delle persone sottoposte ad indagini in condizioni di particolare vulnerabilità, da un lato, nella sfera di diretta responsabilità dei vertici degli organi di polizia giudiziaria e, dall’altro, al centro delle funzioni di direzione e controllo delle investigazioni proprie dell’ufficio del pubblico ministero.
Nella medesima prospettiva, i progetti organizzativi degli uffici di Procura, vieppiù quando risultanti dall’effettiva partecipazione di tutti i magistrati che ne fanno parte al relativo processo di elaborazione, si offrono naturalmente (al pari delle opportunità di indirizzo uniforme delle prassi insite nelle funzioni di vigilanza spettanti ex art. 6 d.lgs. 106/2006 ai procuratori generali presso le corti d’appello) alla costruzione di chiare e trasparenti regole organizzative interne per la gestione dei rapporti con i media, imprimendo alla comunicazione pubblica dell’Ufficio il valore aggiuntivo della consapevole contribuzione dei sostituti assegnatari dei singoli affari alla definizione dei contenuti delle informazioni da rendere in ordine alle procedure che - in ragione della particolare delicatezza, gravità, rilevanza e comunque idoneità a coinvolgere l’immagine dell’Ufficio o per le questioni di diritto, nuove ovvero di speciale complessità e delicatezza o per la loro rilevanza per la tutela dei diritti delle persone coinvolte - maggiormente esigono la più ampia collaborazione, anche attraverso specifiche riunioni, all’analisi dei dati e delle informazioni suscettivi di divulgazione. Ciò rende evidente che il principio di responsabilità del Procuratore della Repubblica, lungi dall’esprimere istanze di esclusione, esige invece, per la sua stessa effettività di nutrirsi della partecipazione degli altri magistrati alla sua concreta declinazione, vieppiù rilevante allorquando si imponga rendere con tempestività e precisione le comunicazioni sempre più necessarie per correggere informazioni ed interpretazioni errate e dannose per l’efficacia delle indagini o per la tutela dei diritti delle persone coinvolte, nonché dell’immagine di indipendenza, imparzialità e correttezza dell’Ufficio.
4.Rapporto tra segreto d’indagine e diritto all’informazione
Soprattutto, per quanto il tema sembri accantonato nella loro definizione, le Linee Guida del C.S.M. rivelano chiaramente l’ineludibilità della questione della regolazione dell’accesso diretto dei giornalisti agli atti non segreti, aprendosi per tale via la strada alla condivisione delle istanze da tempo mosse dal giornalismo più attento e colto e dalla dottrina più rigorosa e lungimirante.
Da tempo è stato autorevolmente sollevato il problema dell’irragionevolezza della distinzione normativa, ancora attuale, fra “atto”, non pubblicabile, e “contenuto pubblicabile”, sulla quale si fonda l’art. 114 c.p.p., indicando l’accesso diretto (e controllato nelle forme dell’art. 116 c.p.p.) del giornalista agli atti del procedimento come condizione per un esercizio autonomo e responsabile della libertà di informazione[23].
Si staglia così una dimensione problematica che non può che essere affidata al legislatore, poiché coincidente con l’individuazione della linea problematica cruciale alla sdrammatizzazione del rapporto fra comunicazione ed indagini: rendere pubblicabile tutto ciò che non è più segreto ed assicurare l’effettività della protezione di ciò che invece è segreto (in tale direzione muovendosi il superamento del tradizionale quanto ipocrita divieto di pubblicazione dell’ordinanza applicativa di misure cautelari), superando le istintive obiezioni correlate alla sorte della presunzione di innocenza e della serenità delle successive valutazioni del giudice, essendo realisticamente assai difficile riconoscere fondamento razionale tanto al mito della verginità cognitiva del giudice quanto al timore che le campagne di stampa colpevoliste sarebbero significativamente alimentate dalla rimozione di un divieto, quale quello di pubblicazione, costantemente violato e ridicolmente sanzionato.
Ma al tema in esame è collegata anche una dimensione non eludibile responsabilmente nel concreto atteggiarsi delle prassi giudiziarie, direttamente riferibile, nelle condizioni normative date, al riconoscimento della possibilità di accesso diretto del giornalista a ciò che non è più segreto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 116 c.p.p. e, dunque, attraverso l’esercizio, responsabile e trasparente, di potestà processuali, spettanti, nella fase delle indagini preliminari, all’ufficio del pubblico ministero, sollevando il giornalista e la libertà di stampa [24]dal peso di “situazioni di sostanziale sudditanza”[25] e ponendo fine ad un obiettivo sistema di scambi immorali[26], quale quello che si realizza in una sorta di mercato clandestino delle informazioni, secondo le condizioni tipicamente proprie dei regimi proibizionistici, che si nutrono delle violazioni della loro impossibile pretesa di attuazione reale.
Per tale via, e dunque ancor prima ed indipendentemente dalla maturazione delle condizioni di una consapevole e moderna regolazione legislativa del rapporto fra segreto d’indagine e diritto all’informazione, non soltanto la figura del giornalista può essere emancipata dalla necessità di attingere clandestinamente alle proprie fonti e messa in grado di poter accedere in condizioni di parità e trasparenza alle informazioni contenute in provvedimento non più segreti, ma si riduce significativamente il rischio di trascinamento del pubblico ministero in sistemi di relazione non coerenti con il suo statuto di imparzialità.
Naturalmente, non si tratta di una sorta di vaccino utile contro virus proteiformi e resistenti ad ogni profilassi, ma certo di un rimedio apprezzabile nella logica della riduzione dei danni correlati al mondo delle relazioni clandestine fra stampa e soggetti del processo. Anche in tal caso, la strada sembra attraversare l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, esigendosi una regolamentazione delle modalità di esercizio della discrezionalità giudiziaria essenziale al migliore bilanciamento degli interessi complessivamente coinvolti nella singola procedura. L’esperienza, del resto, rivela che alle prassi in tal senso orientate non corrispondono inconvenienti o doglianze di sorta. Nessun rimedio miracoloso né tanto meno definitivo, dunque, ma uno strumento di inoculazione di una dose aggiuntiva di trasparenza e responsabilità della quale sembra difficile poter negare la necessità.
5.La tutela della riservatezza
Ancor più naturalmente, non essendo l’accesso diretto dei giornalisti agli atti non coperti da segreto panacea di ogni male, perdura immutata l’importanza di un rigoroso controllo delle tecniche di selezione delle informazioni e dei dati sensibili acquisiti nel corso delle indagini ai fini della formazione dei provvedimenti giudiziari, essenziale anche per ridurre le tensioni che ruotano attorno alla radicale divaricazione fra il criterio di giudizio che dovrebbe guidare le valutazioni del pubblico ministero e del giudice e i parametri della cronaca giudiziaria, che non possono che essere più ampi, coincidendo con l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, così come valutato dagli organi di informazione.
Restano altresì intatti i rischi collegati al governo delle tecnologie impiegate nel processo penale, l’uso delle quali pone problemi di responsabilità del trattamento dei dati personali in passato impensabili ed oggi largamente inesplorati, soprattutto con riguardo all’intervento di ausiliari e servizi privati il rilievo decisivo dei quali ai fini delle investigazioni pone sovente gli Uffici giudiziari in una posizione di dipendenza cognitiva e subalternità operativa, venendo in rilievo la gestione di sistemi informativi retti da logiche d’impresa ed ancora lontani da una sfera di effettiva controllabilità dell’amministrazione della giustizia.
Sul primo terreno si pone nitidamente il tema della separazione dei destini dei due diversi campi di giudizio, assicurando l’allontanamento della giurisdizione da ciò che, esorbitando dall’accertamento del reato, attiene invece all’etica dei comportamenti ed al loro disvalore morale, attraverso la cura scrupolosa nella ricognizione di ciò che effettivamente rileva ai fini del processo penale, di ciò necessitando la stessa autorevolezza della funzione giudiziaria, perché l’attribuzione o più spesso l’autoassegnazione al magistrato di impropri e persino improbabili ruoli di autorità morale[27] mette in crisi la distinzione fra etica e diritto penale la chiarezza della quale è invece baluardo della legalità processuale.
Sul secondo piano di riflessione si colloca invece il fattore di dilatazione delle tensioni fra esigenze investigative e tutela della riservatezza e dei dati personali delle persone a vario titolo coinvolte nel procedimento penale rappresentato nell’era della connessione globale alla rete dall’ingresso in scena dei big data e dell’intelligenza artificiale nelle attività di ricerca della notizia di reato e di successiva acquisizione probatoria e dal trascinamento nel processo penale di enormi masse informative e di dati sensibili coincidenti con l’intera sfera esistenziale delle persone coinvolte nelle attività di indagine. A tale dimensione problematica apparterranno anche le prossime, ancor più grandi ed ormai visibili fibrillazioni polemiche intorno alla disciplina delle indagini preliminari e ai limiti, insiti nell’imprescindibile legame di proporzionalità ed adeguatezza fra esigenze investigative e tutela dei diritti fondamentali, delle più invasive potestà di acquisizione probatoria[28].
6.Conclusioni. La rendicontazione sociale
Ultime considerazioni vanno riservate al profilo della comunicazione degli Uffici del Pubblico Ministero afferente alla relativa organizzazione e all’attività svolta, che il già ricordato parere del Comitato Consultivo dei Procuratori Europei consente di valorizzare ponendo l’applicazione del principio di trasparenza del lavoro degli uffici inquirenti come elemento essenziale per assicurare la fiducia del pubblico, richiedendo ciò la più ampia diffusione delle informazioni sui criteri prescelti di esercizio delle relative attribuzioni istituzionali e prettamente processuali.
Un’indicazione offuscabile attraverso approcci retti da finalità di cosmesi e autocelebrazione, ma non a lungo eludibile, imponendosi l’apertura ad una conoscenza diffusa e agevole del lavoro giudiziario, dando conto dei criteri e dei risultati ottenuti, illustrando le ragioni che regolano l’ordine di trattazione delle procedure, la durata delle medesime procedure, le modalità di impiego delle risorse, secondo modelli condivisi ed omogenei, che consentano la comparazione e l’analisi delle diverse prassi.
Anche in questo modo, attraverso lo strumento del bilancio di responsabilità sociale[29], la giurisdizione “rende conto” (nell’accezione anglosassone di accountability) della propria azione al popolo nel nome del quale è amministrata, sottoponendosi ad un controllo democratico che è il necessario contrappeso all’indipendenza e alla autonomia della magistratura.
[1] Glauco Giostra, Processo penale e informazione, Milano, 1989; ID., Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007; ID., L’informazione giudiziaria non soltanto distorce la realtà rappresentata, ma la cambia, in Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali italiane (a cura di), L’informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, 2016, 82; Carlo E. Paliero, La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed ‘effetti penali’ dei media), in Rivista di diritto penale e procedura penale, 2006, 2, 467 ss.; Tullio Padovani, Informazione e giustizia penale: dolenti note, in Diritto penale e processo, 2008, 689 ss.; Ennio Amodio, Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction, Milano, 2016.
[2] Luigi Ferrarella, Non per dovere, ma per interesse (dei cittadini): i magistrati e la paura di spiegarsi, in Questione Giustizia, 2018, 4, 311; ID., Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, in Diritto penale contemporaneo, 2017, 3, 4 ss..
[3] Sul punto si segnalano le considerazioni di Elisabetta Cesqui, Farsi capire da Adam Henry e da tutti gli altri, in Questione Giustizia, 2018, 4, 236 ss. secondo la quale “la comunicazione della attività e delle decisioni è un gesto di trasparenza e la trasparenza, quando riguarda il potere, è un esercizio di democrazia che può che giovare alla società” (p. 237). Ed ancora “non è vero che i giudici parlano solo con le sentenze, parlano anche con i loro comportamenti, con il modo in cui si pongono nei confronti di chi, vittima o reprobo che sia, incrocia il loro cammino nei luoghi della giustizia e non possono sottrarsi al dovere di rendere comprensibile il loro agire” (p. 242).
[4] Giuseppe Pignatone, Comunicazione della Procura della Repubblica: una garanzia anche per l’imputato, in Questione Giustizia, 2018, 4, 262 e ss..
[5] Nello Rossi, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in Questione Giustizia, 2018, 4, 245 e ss..
[6] In tale senso, altresì, Donatella Stasio, Il dovere di comunicare dei magistrati: la sfida per recuperare fiducia nella giustizia, in Questione Giustizia, 2018, 4, 213 e ss.
[7] Sul tema, assume peculiare rilievo l’elaborazione in corso in ambito sovranazionale (cfr. European Commission contribution to the European Council, Action Plan against Disinformation, 5 dicembre 2018; European Parliament, Study requested by the LIBE committee, Disinformation and propaganda – impact on the functioning of the rule of law in the EU and its Member States, febbraio 2019).
[8] Si riporta il testo integrale dell’art. 5 del d.lgs. 106/2006 (concernente “Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150”), rubricato “Rapporti con gli organi di informazione”: “1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell'ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione. 2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento. 3. E' fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio. 4. Il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3.”
[9] Si riporta il testo dell’art. 2 del d.lgs. 109/2006 (concernente “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150”), rubricato “Illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni”, limitatamente alle lettere u) e v): “u) la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando é idonea a ledere indebitamente diritti altrui; v) pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106”.
[10] Sul tema, Edmondo Bruti Liberati, Un punto di arrivo o un punto di partenza?, in Questione Giustizia, 2018, 4, 318 e ss.; Vincenza (Ezia) Maccora, Un percorso che deve coinvolgere l’agire quotidiano dei magistrati per costituire una effettiva svolta culturale, in Questione Giustizia, 2018, 4, 218 ss., la quale opportunamente osserva che “il tema della comunicazione della giustizia sulla giustizia è un tema ineludibile, finora troppo sottovalutato o temuto, con il quale ogni magistrato - giudice o pm - deve misurarsi, non solo con gli strumenti “ordinari”, a cominciare dal rendere sempre comprensibile la motivazione dei propri provvedimenti, ma anche attraverso altre forme di comunicazione che, a prescindere da quella veicolata dai media, raggiungano in modo corretto l’opinione pubblica”.
[11] Per un quadro di riferimento generale: Mariarosaria Guglielmi, Uno sguardo oltre i confini. Principi ed esperienze della comunicazione giudiziaria in Europa, in Questione Giustizia, 2018, 4, 278 ss..
[12] Al riguardo si segnala anche la Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. Tale Direttiva, composta da 51 considerando e 16 articoli, doveva essere recepita dagli Stati membri entro l’1 aprile 2018, stante il tenore dell’art. 14. Tuttavia l’Italia ha provveduto solo con la Legge di delegazione europea 2019-2020 (Legge n. 53 del 22 aprile 2021, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 23 aprile 2021 e in vigore dall’8 maggio 2021), contenente la delega al Governo al recepimento anche della predetta Direttiva sulla presunzione di innocenza (cfr. art. 1 comma 1 della L. 53/2021 e allegato A alla medesima legge). Ai fini della presente trattazione appare rilevante soprattutto il contenuto dell’art. 4 della Direttiva rubricato “Riferimenti in pubblico alla colpevolezza” di cui si riporta il testo integrale: “1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell'indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità. 2. Gli Stati membri provvedono affinché siano predisposte le misure appropriate in caso di violazione dell'obbligo stabilito al paragrafo 1 del presente articolo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in conformità con la presente direttiva, in particolare con l'articolo 10. 3. L'obbligo stabilito al paragrafo 1 di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all'indagine penale o per l'interesse pubblico”.
[13] Da ultimo deve essere menzionato il diritto del giornalista a beneficiare della protezione della confidenzialità delle proprie fonti, come ribadito nella sentenza C.E.D.U., 1 aprile 2021, Sedletska v. Ucraina, a commento della quale si segnala il seguente articolo: Marina Castellaneta, La C.E.D.U. e i limiti alle intercettazioni dirette nei confronti di giornalisti (a proposito di Corte edu, 1 aprile 2021, Sedletska contro Ucraina), in questa Rivista, 5 maggio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/news/130-main/diritti-umani/1707-la-cedu-e-i-limiti-alle-intercettazioni-dirette-nei-confronti-di-giornalisti-di-marina-castellaneta. Con riferimento allo stesso tema, si segnala anche la precedente sentenza C.E.D.U., 6 ottobre 2020, Jecker v. Svizzera, e il commento della medesima Autrice, Segretezza delle fonti giornalistiche nel quadro della C.E.D.U.. Una nuova pronunzia della Corte di Strasburgo (Jecker c. Svizzera), in questa Rivista, 14 novembre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/europa-e-corti-internazionali/1367-articolo-ceduarticolo-cedu.
[14] Parere n. 8/2013 del Comitato Consultivo dei Procuratori Europei reperibile in lingua inglese al seguente indirizzo: https://www.procuracassazione.it/procurageneraleresources/resources/cms/documents/CCPE_20131009_Opinion_8_en.pdf.
[15] In particolare, degno di rilievo il punto 11: “E’ altresì interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto ad un giusto processo ed il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici ed i magistrati del pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione”. Il testo integrale della Dichiarazione di Bordeaux su “Giudici e magistrati del Pubblico Ministero in una società democratica” è reperibile all’indirizzo: https://www.procuracassazione.it/procuragenerale-resources/resources/cms/documents/CCPE_20091208_Opinion_4_it.pdf.
[16] Nella scia di tali organi consultivi di quell’organizzazione paneuropea si collocano anche i documenti dell’European Network of Councils for the Judiciary (E.N.C.J - acronimo in lingua francese R.E.C.J.), a far tempo dal “Justice, Society and the Media – Report 2011-2012”, il cui testo è reperibile in lingua inglese al seguente indirizzo https://www.encj.eu/images/stories/pdf/GA/Dublin/encj_report_justice_society_media_def.pdf, nonché al più recente - per come rilevante ai fini della presente trattazione - “Public Confidence and the Image of Justice – Report 2017-2018”, approvato a Lisbona l’1 giugno 2018, nell’ambito del quale si sviluppa ampiamente la prospettiva della comunicazione in ambito giudiziario e si suggerisce l’adozione di piani d’azione nazionali, verifiche periodiche del livello di fiducia del pubblico, la formazione professionale specifica (per capi degli uffici, giudici, procuratori, personale amministrativo), l’elaborazione di linee-guida sui rapporti tra il giudiziario e i media. In particolare, tra l’altro, si raccomanda la nomina come “spokeperson” di giudici o procuratori con specifica formazione in tema di comunicazione e l’istituzione di uno “specialised department” che impieghi professionisti nella comunicazione sotto la direzione del “press judge/prosecutor”.
[17] Sinteticamente: l’informazione data ai media non deve minare l’integrità delle investigazioni, l’esercizio dell’azione e le loro finalità; l’informazione data ai media non può danneggiare o influenzare la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o dei terzi; le relazioni con i media devono essere costruite sulla base del reciproco rispetto, dell’eguale trattamento e della responsabilità, operando con imparzialità e uguaglianza nei confronti dei giornalisti; dunque, trasparenza di queste relazioni, senza tessitura di rapporti personali o di pratiche selettive finalizzate ad assicurare maggiore risalto all’azione del P.M.; l’informazione data ai media deve essere rispettosa delle decisioni del giudice e, segnatamente, “i membri dell’ufficio del pubblico ministero devono rispettare l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici; in particolare, essi non possono esprimere dubbi sulle decisioni giudiziali o ostacolare la loro esecuzione, salvo quando esercitano i loro diritti di appello o invocano altre procedure declaratorie”.
[18] Armando Spataro, Comunicazione della giustizia sulla giustizia. Come non si comunica, in Questione Giustizia, 2018, 4, 294 e ss.. Sul punto anche Giovanni Canzio, in questa Rivista, 19 maggio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/giustizia-comunicazione/1738-il-linguaggio-giudiziario-e-la-comunicazione-istituzionale-di-giovanni-canzio.
[19] Il testo delle “Linee Guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, approvate dal C.S.M. con delibera dell’11 luglio 2018, è reperibile al seguente indirizzo: https://www.csm.it/documents/21768/87316/linee+guida+comunicazione+%28delibera+11+luglio+2018%29/4e1cd7cc-a61b-66b0-3f0e-46cba5804dc3?version=1.0.
[20] Elvio Fassone, Fine pena: ora, Sellerio, Palermo, 2015.
[21] Armando Spataro, cit., p. 294.
[22] Naturalmente, il tema ha diretta incidenza anche nello statuto deontologico dei giornalisti, che prevede espressamente che “Salva l'essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona (...) salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riproduce né riprende immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato. Le persone non possono essere rappresentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi”, per quanto sia chiaro che in ogni caso la trasmissione agli organi di stampa delle foto segnaletiche di persone scattate in occasione dell’arresto possa integrare, in mancanza di comprovate finalità di giustizia, di polizia o di motivi di interesse pubblico, una violazione dell'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (come già sancito nella sentenza della C.E.D.U. dell’11 gennaio 2005 - ricorso n. 50774/99 - in procedura instaurata nei confronti dell’Italia), integrando la violazione di un divieto ribadito anche in numerosi provvedimenti dell’Autorità di garanzia della protezione dei dati personali (ex plurimis, provvedimento n. 179 del 5.6.2012).
[23] Francesco C. Palazzo, Note sintetiche sul rapporto tra giustizia penale e informazione giudiziaria, in Diritto penale contemporaneo, 2017, 3, 139 e ss..
[24] Naturalmente, l’accesso agli atti potrà essere assicurato, secondo la medesima clausola normativa ed analoga tecnica di motivato bilanciamento degli interessi coinvolti, oltre che al giornalista, altresì all’informazione digitale che si realizza senza la mediazione dell’appartenenza ordinistica del soggetto istante, altresì in corrispondenza alle esigenze di analisi criminologica e statistica proprie di istituzioni accademiche e di ricerca.
[25] Francesco C. Palazzo, ivi, 142.
[26] Luigi Ferrarella, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario, cit., 6 ss.
[27] Armando Spataro, cit., p. 297.
[28] Per una rassegna degli irrisolti nodi giurisprudenziali in materia di intercettazione delle comunicazioni telematiche e di acquisizione investigativa dei dati accumulati nei relativi dispositivi, cfr. Pierluigi Di Stefano, Il Trojan horse nel processo penale in questa Rivista, 28 ottobre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/news/122-main/processo-penale/1364-il-trojan-horse-nel-processo-penale
[29] Per un approfondimento sullo strumento del bilancio di responsabilità sociale applicato agli uffici requirenti: Paolo Ricci e Pietro Pavone, The experience of social reporting in Italian judicial offices. The laboratory of the public prosecutor’s office in Naples, in International Journal of Public Sector Management, 2020 (DOI 10.1108/IJPSM-04-2020-0102); Id. The Accountability in the Judicial System: Have Times Really Changed? Reflections From an Italian Social Reporting Experience, in Public Integrity, 2021 (https://doi.org/10.1080/10999922.2021.1872991).
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