ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Prolegomeni ad una teoria della raccomandazione giudiziaria di Rosario Russo
Sommario: 1.Premessa - 2.Fenomenologia della raccomandazione – 3. Il sistema clientelare-spartitorio.
1. Premessa
I magistrati ordinari sono selezionati fin dall’inizio in base al proprio merito, accertato per mezzo di un rigoroso concorso a numero chiuso. La loro carriera (trasferimenti, promozioni, sanzioni disciplinari, etc.) è regolata da rigorose norme (costituzionali, primarie, secondarie) ed è amministrata dal C.S.M., organo di rilievo costituzionale (presieduto dalla più alta Magistratura), istituito al fine di assicurare l’indipendenza (interna ed esterna) dell’Ordine giudiziario e dei magistrati.
Come in tutti i paesi facenti parte della famiglia romano-germanica (o famiglia di civil law), nel nostro ordinamento il fondamento e la legittimità della funzione giudiziaria riposa soltanto sul merito e sulla capacità professionale del giudice. Servo soltanto della legge[1], egli gode di un’assoluta indipendenza, la sola che gli consente di giudicare in nome del Popolo. E tale formidabile indipendenza deve difendere non solo da attacchi interni ed esterni all’ordine, ma anche dalla propria personale ambizione.
Questo, soltanto questo, è lo statuto costituzionale del magistrato ordinario, il suo habitus professionale e personale. Con misurata enfasi, può affermarsi che egli è assunto, e retribuito, dallo Stato innanzi tutto per tutelare la propria libertà e dominare le proprie ambizioni di potere. Specularmente il cittadino, che è l’Utente finale del servizio Giustizia, può fidarsi – e si fida – soltanto di un magistrato giudicante che sia capace, indipendente e imparziale, siccome scelto dal C.S.M. secondo il principio meritocratico (art. 111, 2° Cost.). Razionalmente egli diffida di un magistrato che raccomanda o si fa raccomandare, temendo per altro che egli abbia favori da restituire o debiti di gratitudine da acquisire.
Con questo paradigma di senso deve misurarsi il recente scandalo delle «toghe sporche», documentato dai numerosi messaggi sequestrati al dott. Luca Palamara.
È allarmante osservare che in tali documenti (numerosi e licenziati in un arco di tempo significativo) gli interlocutori – a volte autorevoli magistrati in ruoli di grande responsabilità - non trattano mai (neppure per inciso) di ‘diritto’. Approfonditamente, e con vari accenti, invece essi discorrono a lungo soltanto del «rovescio del diritto», e precisamente di raccomandazioni e di accordi correntizi, sicché il Presidente della Repubblica ha (generosamente) parlato di «modestia etica» dei loquentes.
2. Fenomenologia della raccomandazione
Al di fuori delle fattispecie penali[2], la ‘classica’ raccomandazione (o segnalazione) normalmente consiste in un rapporto trilaterale, composto com’è dal raccomandante, dal raccomandato (o favorito) e dal raccomandatario. Si distingue non solo dalla sponsorizzazione (finanziamento di attività a scopo pubblicitario), ma anche dal mero consiglio. Se un magistrato suggerisce ad un suo amico di rivolgersi al dentista di cui è soddisfatto cliente, non resta integrata la fattispecie della raccomandazione, perché il dentista è un professionista la cui scelta è per legge libera. Per essere (anche) giuridicamente rilevante, la raccomandazione deve (almeno potenzialmente) incidere negativamente su un procedimento amministrativo di selezione formalizzato all’insegna del merito: esami scolastici o universitari, abilitazioni, concorsi e forniture pubblici, etc. Il raccomandante cerca di indurre il raccomandatario a preferire il raccomandato, anche a dispetto delle disposizioni di legge che assegnano maggior merito o maggiori titoli di preferenza ad altri candidati (non raccomandati). Perché la raccomandazione possa avere successo, è necessario che il raccomandato abbia qualche influenza sul raccomandante e che questi a sua volta possa esercitare qualche ascendente sul raccomandatario, tanto da indurlo a violare il procedimento disciplinato dalla legge.
Ma se il raccomandato può esercitare qualche potere della stessa natura sul raccomandatario, non è necessario l’intervento del raccomandante. È il caso dell’autopromozione.
Tanto la raccomandazione (trilaterale) quanto l’autopromozione incitano a comportamenti illegittimi di vario genere, comunque in netto contrasto con la legge che premia il merito (artt. 54 e 97 Cost.), tanto nei procedimenti selettivi aperti (esami scolastici e universitari, abilitazioni, etc.), quanto in quelli a numero chiuso (in cui si pretende che il raccomandato ‘scavalchi’ i non raccomandati). Nel primo caso, è danneggiato il sistema nel suo complesso, attribuendo un titolo o una carica a chi non li merita, con tutte le conseguenze negative che ne derivano (chi vorrebbe essere curato da un medico laureatosi a seguito di raccomandazioni?); nel secondo caso è pregiudicato non solo il sistema nel suo complesso (nel senso anzidetto), ma anche direttamente il candidato meritevole ‘scavalcato’ dal raccomandato.
La raccomandazione può essere esercita in due modi cumulabili: o esaltando il valore del raccomandato; ovvero (specialmente nei procedimenti selettivi chiusi) denigrando i suoi concorrenti. Anche se infine non accolta dal raccomandatario, essa turba comunque il procedimento di formazione della decisione, facendolo deragliare dai binari vincolativamente previsti.
Dunque, la raccomandazione, sempre che sia idonea ad influire sulla decisione, non è mai innocua.
La sua gravità è direttamente proporzionale sia all’importanza (sociale e giuridica) della funzione o del titolo cui aspira il raccomandato, sia al demerito del medesimo, sia soprattutto alla capacità di condizionare le scelte del raccomandatario.
Perciò essa è sanzionata doverosamente dal codice deontologico dei magistrati[3]. Ben vero, qualunque sia l’esito della raccomandazione, i suoi protagonisti inevitabilmente pregiudicano, con la propria indipendenza, anche quella dell’Ordine giudiziario. Soltanto un magistrato che non debba sperare o temere (o restituire favori ricevuti o precostituirsi futuri vantaggi) è realmente libero e autonomo nel concreto esercizio della giurisdizione, come prescritto dalla Costituzione. La pratica della raccomandazione mette dunque in crisi, smentendolo, il criterio meritocratico, l’unico da cui dipende la legittimazione stessa della funzione giurisdizionale (v. retro sub par. 0).
La raccomandazione può essere isolata ovvero sistematica, dando luogo allora, oltre che al nepotismo, al sistema clientelare, in opposizione a quello meritocratico imposto dalla legge.
3.Il sistema clientelare-spartitorio
All’interno della A.N.M. convivono categorie diverse di magistrati. Accanto a quelli che vi partecipano operativamente coesistono quelli che vi fanno parte passivamente. Tra gli attivisti si annoverano sia quelli che legalmente si battono per l’affermazione soltanto dei valori ideali della corrente cui appartengo (attivisti disinteressati); sia coloro (attivisti interessati) che invece, mediante una distorta ’attività’ associativa, principalmente «certant del lucro captando», cioè aspirano a vantaggi illegittimi, ovvero (coscientemente o putativamente) «certant de damno vitando», avvalendosi di mezzi illegittimi.
La captazione dell’illegittimo vantaggio può avvenire prima dell’elezione a cariche associative ovvero al C.S.M., secondo il classico «voto di scambio»: «mi adopero per la tua elezione al C.S.M. se ti impegni a favorirmi successivamente». Oppure può intervenire a elezione avvenuta: «ho contribuito alla tua elezione ovvero per tanti anni al successo della nostra corrente, dunque ora pretendo la mia ricompensa». A volte il magistrato associato ha effettivamente diritto, e sa di avere diritto, a conseguire l’ambito provvedimento. Temendo tuttavia che il Consiglio possa illegittimamente preferire altri per effetto di raccomandazioni altrui, chiede in prevenzione di essere ‘protetto’ o ‘accompagnato’ o ‘difeso’ dal sodale Consigliere del C.S.M., invece di affidarsi alla G.A. impugnando la delibera ‘raccomandata’. Nella raccomandazione ‘difensiva’ si rinviene la prova tangibile della estensione e del consolidamento del metodo clientelare: la preventiva scorciatoia illegittima è ritenuta più affidabile del successivo rimedio ordinamentale.
Essendo agevolmente riscontrabile, il sistema clientelare può operare soltanto per mezzo del «metodo spartitorio»[4]; perché il metodo regga è necessario che tendenzialmente le correnti siano parimenti avvantaggiate e compromesse, sicché ciascuna di esse non possa far valere una virginale irreprensibilità. Una prima scrematura avviene in Commissione: di norma i magistrati privi di appoggi correntizi sono subito esclusi dall’agone, qualunque sia il loro merito professionale. I ‘giochi’ o le trame correntizie (con o senza il sistema dei ‘pacchetti’ di nomine) si svolgono poi nel Plenum, con la singolare conseguenza che le nomine concordate ricevono addirittura il consenso unanime. Ovviamente, nomine siffatte sono impugnabili davanti al G.A.: è tuttavia un’evenienza (praticata spesso con successo, ma) non frequente, sia perché è scarsa la propensione al ricorso giurisdizionale al T.A.R.; sia perché la decisione definitiva, ancorché favorevole, perviene dopo qualche anno, quando già l’interessato è in quiescenza o prossimo ad essa; sia perché talvolta il C.S.M. reitera con diversa motivazione il provvedimento annullato.
Approfondendo l’analisi, si scopre che il sistema spartitorio entra in crisi – ed è entrato in crisi, com’era prevedibile – allorché i privilegi illegittimamente erogabili non bastano a soddisfare l’esorbitante domanda dei clientes, sempre più numerosi ed esigenti. Allorché cioè, a misura che si amplia (con l’altalenante successo delle varie correnti) la pletora di coloro che ‘devono’ essere favoriti per meriti correntizi, non vi siano più sufficienti magistrati indipendenti e disinteressati da sacrificare! Tale è la ’legge fondamentale’ – e l’intrinseco limite - del paradigma clientelare-spartitorio, condannato perciò a crollare proprio quando si erge a generale o prevalente sistema. Ma - si sa - poco importa del suo destino, perché «il presente prende corpo, ingigantisce: copre il futuro che si annulla e gli uomini non vogliono pensare che al giorno dopo» (A. de Tocqueville): fa parte del generale nichilismo culturale accontentarsi dell’oggi o del domani, senza pensare al futuro dell’istituzione (anche) giudiziaria. Né manca chi si ostina a proclamare e a teorizzare, con rara protervia, la necessità dell’abietto sistema descritto[5].
Pertanto è necessario che il rapporto instaurato tra il magistrato che aspira ad ottenere un qualunque provvedimento ed il C.S.M. sia depurato da qualunque impropria interferenza. Soltanto così potrà avviarsi l’auspicata ‘rinascita’ della Magistratura Ordinaria[6] e riconquistare soprattutto la fiducia dei cittadini[7].
[1] «Legum omnes servi sumus ut liberi esse possimus»: M.T. CICERONE, Pro Aulo Cluentio Habito, 66 a.c.
[2] «In tema di abuso di ufficio, non è configurabile nella mera "raccomandazione" o nella "segnalazione" una forma di concorso morale nel reato, in assenza di ulteriori comportamenti positivi o coattivi che abbiano efficacia determinante sulla condotta del soggetto qualificato, atteso che la "raccomandazione", come fatto a sé stante, non ha un'efficacia causativa sul comportamento del soggetto attivo, il quale è libero di aderire o meno alla segnalazione secondo il suo personale apprezzamento.» (Sez. 6, Sentenza n. 35661 del 13/04/2005 Ud. (dep. 04/10/2005) Rv. 232073 - 01).
Ma a volte il discrimine non è così netto. V., per esempio, Sez. 5, Sentenza n. 40061 del 12/07/2019 Cc. (dep. 30/09/2019): «In tema di concorso di persone nel reato, la mera "raccomandazione" o "segnalazione" non ha di per sè un'efficacia causale sul comportamento del soggetto attivo, il quale è libero di aderirvi o meno secondo il suo personale apprezzamento, salvo che essa sia caratterizzata da ulteriori comportamenti positivi o coattivi che abbiano efficacia determinante sulla condotta del soggetto qualificato, costituendo in tale caso una forma di concorso morale nel reato. (Fattispecie in cui è stato ritenuto configurabile il concorso per istigazione nel reato di rivelazione di segreti di ufficio nei confronti di un importante esponente politico che, facendosi "collettore" di segnalazioni o raccomandazioni in favore di candidati in pubblici concorsi, induceva i membri delle commissioni esaminatrici a rivelare in anticipo le tracce dei temi e dei quesiti da utilizzarsi nel successivo esame, per farle pervenire direttamente ai candidati segnalati)».
[3] Codice deontologico dei magistrati:
«Nello svolgimento delle sue funzioni, nell'esercizio di attività di autogoverno ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità» (art. 1, 2°); «Il magistrato non si serve del suo ruolo istituzionale o associativo per ottenere benefici o privilegi per sé o per altri. Il magistrato che aspiri a promozioni, a trasferimenti, ad assegnazioni di sede e ad incarichi di ogni natura non si adopera al fine di influire impropriamente sulla relativa decisione, né accetta che altri lo facciano in suo favore. Il magistrato si astiene da ogni intervento che non corrisponda ad esigenze istituzionali sulle decisioni concernenti promozioni, trasferimenti, assegnazioni di sede e conferimento di incarichi.» (art. 10).
[4] La cui introduzione a livello dommatico, nel 1976, risale ad una pubblicazione di G. AMATO, illustre costituzionalista.
[5] Infatti, ex presidente dell’A.N.M. ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura, il dott. P. non teme di rivendicare pubblicamente una funzione necessariamente e saggiamente mediatrice, come riferisce la Stampa. All’interno della magistratura, le nomine agli uffici giudiziari – sostiene egli con forza, chiamando in correità i suoi numerosi sodali - necessariamente devono svolgersi con il metodo spartitorio, a prescindere dal merito. Pazienza se ne restino esclusi i magistrati privi di appoggi correntizi, ancorché più meritevoli! Se ne faranno una ...ragione! Dunque la logica correntizia e spartitoria prevale – deve prevalere - secondo il signor P., sia sulla legalità sia sullo statuto dell’A.N.M. E deve trionfare – a suo dire - perfino nell’ambito di un organo, il Consiglio Superiore della Magistratura, tuttavia deputato costituzionalmente ad assicurare, nel segno della più stretta legalità, l’indipendenza dei magistrati sia dagli altri poteri (ivi compresi gli intrighi associativi), sia dalle stesse smisurate ambizioni dei magistrati militanti nelle correnti associative.
[6] R. RUSSO, Giustizia è sfatta. Appunti per un accorato necrologio, 8 gennaio 2020, in Judicium.it.
[7] Idem, Non punibile il vilipendio dell’ordine giudiziario. Vox populi? - in questa Rivista, 15 maggio 2021.
Insufficienti garanzie per chi non aderisce alle exit-strategies di Giorgio Spangher
La relazione della Commissione istituita dal Ministro, ha due punti nevralgici: le proposte sulla prescrizione e la riforma delle impugnazioni e dell’appello in particolare.
Sul primo profilo la Commissione propone due soluzioni alternative, delle quali la seconda appare preferibile, perché la prima rimetterebbe il tema nelle mani del p.m. che potrebbe decidere i tempi dell’esercizio dell’azione penale, con conseguente blocco della prescrizione, non temperato dalla possibile tempistica dei tempi delle fasi successive, rimesse alle scelte degli organi giudicanti in ordine al loro rispetto ed alle relative conseguenze di estinzione del processo.
Della seconda, al di là di qualche errore per il mancato coordinamento con la disciplina riformata delle impugnazioni, si segnala il superamento – si spera definitivo – della ritenuta incostituzionalità della differenza tra condannati e prosciolti.
Il punto centrale del dissenso sulla proposta della Commissione riguarda la disciplina dell’appello, al di là delle questioni sui numeri dei gravami dei p.m., delle differenze nei vari distretti, dei tempi della loro celebrazione, dei loro esiti rispetto alle decisioni di prima istanza.
Se si vuole fare un discorso di sistema, e non potrebbe essere diversamente, si deve evitare la truffa delle etichette.
Si afferma, infatti, che il modello accusatorio esclude, ovvero ridimensiona il giudizio di secondo grado e quindi l’appello dell’imputato.
Ora, pur nella considerazione che ogni modello processuale fa storia a sé – anche quella risalente, nella cultura giuridica che le è propria – è corretto affermare che i singoli elementi di un percorso procedimentale vanno visti nella loro interezza e nella loro progressione.
Ora, guardando nel suo insieme il nostro processo, solo con non poche forzature può dirsi che si tratta di un modello accusatorio, anche senza volersi rifare al modello anglosassone o a quello americano, in particolare, in ordine al quale basterebbe a differenziarlo la presenza della giuria, la decisione con il verdetto immotivato, il ruolo del giudice garante della regolarità del giudizio e non artefice della decisione, e così via.
Certamente, si può ridurre il ricorso al controllo da parte di un altro giudice, ma bisognerebbe che il giudizio di primo grado e la fase delle indagini prima siano connotate da specifiche garanzie. Basterebbe considerare come l’attuale processo, sia ben lontano da quello introdotto nel 1988 e significativamente alteratosi negli anni, al punto che a fronte di alcune profonde riforme, alcuni membri della Commissione Ministeriale chiamata al monitoraggio dei primi passi del nuovo codice, si dimisero.
Igiene processuale e operatività della regola dei frutti dell’albero avvelenato, effettività del contraddittorio nell’esame delle prove dichiarative attraverso l’esame incrociato condotto dalle parti, regole di esclusione delle prove, soprattutto se disposte per il venir meno degli originari presupposti, mancanza di poteri probatori officiosi, limitatissimo recupero del precedente investigativo, solo per esemplificare, costituirebbero allora sì di ritenere l’accusatorietà del modello e di contenere il ricorso al controllo attraverso i gravami. Ma il nostro è un modello significativamente diverso, come a tutti è noto, che solo reiterando i controlli ritiene di consegnare alle parti ed alla società una sentenza più aderente ai fatti.
Il limite della proposta della Commissione è proprio questo: quello di aver compresso i controlli senza aver rimesso in equilibrio il sistema.
Sotto questo profilo, il discorso non riguarda solo l’imputato ma anche le altre parti e con riferimento al p.m. (al di là dei dati statistici, pochi appelli: si conserva la legittimazione ovvero si può eliminare), bisogna far riferimento al suo statuto ed al suo ruolo in parte ridisegnato dalla proposta di riforma.
La criticità della riforma sotto questo profilo è ulteriormente accentuata anche da una più ampia riflessione sulla filosofia complessiva del modello che emerge dall’intersecarsi del rinnovato sistema sanzionatorio sostanziale e processuale nonchè dei suoi sviluppi nella dinamica dei comportamenti delle parti.
Il superamento dell’attuale sistema carcerocentrico (non accompagnato da correlati provvedimenti in materia cautelare), integrato da meccanismi sanzionatori alternativi, premiali o comunque “favorevoli”, con una forte “spinta” alla loro volontaria adesione (accentuata anche da due nuove regole di giudizio dell’archiviazione e del rinvio a dibattimento), è connesso con una disciplina della prescrizione, che ne rende problematica l’applicazione, ma soprattutto, per chi voglia difendersi nel processo da un percorso che resta quello attuale, con la compressione del giudizio da gravame (disincentivato, oltre che sotto il profilo normativo, da ulteriori sconti di pena, nel caso dell’opposizione al decreto penale, dell’appello della sentenza di condanna dell’abbreviato (non è chiaro se si tratta solo di quello condizionato) e assorbito dall’accordo nel patteggiamento.
Sarebbe necessario consegnare a chi non vuole aderire alle nuove ipotesi di definizione, un processo che assicuri effettivamente – come anticipato – le garanzie di un giusto processo accusatorio, con possibilità di ricondurre nella filosofia di un processo giusto anche l’attività di controllo, che in questo caso potrà essere rimodulata.
Il ruolo dei giudici comuni e i loro rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo dinanzi alle “nuove domande di giustizia”*
di Alberto Randazzo
Sommario: 1. Introduzione - 2. Cenni sul primato della legislatio sulla iurisdictio e prime considerazioni sul rapporto tra i giudici e le altre Corti - 3. I rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo - 3.1. … a proposito dell’applicabilità diretta della CEDU - 3.2. … a proposito dell’interpretazione conforme - 3.3. (segue) la sent. n. 43 del 2018 - 3.4. La massimizzazione della tutela - 4. Conclusioni.
1. Introduzione
Quando, nel 1992, Alessandro Pizzorusso (da qui in avanti, P.) interveniva al Convegno organizzato da “Magistratura democratica”, per discutere della “posizione” che il potere giudiziario stava assumendo in quel contesto storico e sociale, notava un superamento delle impostazioni che, in sintesi, potevano ricondursi al «liberalismo politico e al positivismo giuridico», tipiche del ’800. Ciò, a suo avviso, aveva condotto ad «una nuova domanda di giustizia da parte dei titolari di diritti vecchi e nuovi» con il contestuale sviluppo di «una cultura delle garanzie» che aveva determinato «un nuovo ruolo da parte del diritto».
Se quanto ora detto veniva rilevato dall’illustre Maestro quasi trent’anni fa, non si può fare a meno di osservare come quella “domanda di giustizia” si sia oggi ulteriormente rinnovata unitamente al “ruolo del diritto” e, insieme a quest’ultimo, dei giudici.
Non è certamente questa la sede per affrontare funditus un tema che è al tempo stesso ampio, complesso e affascinante, connotato com’è da molteplici aspetti non solo di natura giuridica, ma – direi – anche sociologica e forse pure antropologica[1] che meriterebbero di essere studiati; tuttavia, è proprio muovendo da quell’intervento svolto da P. che si vuole accennare ad uno dei profili che – a mio modesto avviso – ineludibilmente hanno rinnovato, appunto, il ruolo dei giudici comuni.
D’altra parte, chiunque voglia accostarsi a questo tema non può fare a meno di confrontarsi con il fondamentale pensiero di P. che, a questo ambito del Diritto costituzionale e pubblico, ha dedicato buona parte degli studi durante la sua luminosa carriera universitaria, lui che peraltro riuniva in sé non solo il profilo di studioso e maestro di generazioni di studiosi ma anche di “pratico” del diritto, essendo stato – come tutti sanno – magistrato negli anni giovanili, dal 1958 al 1972 (in particolare, fu pretore ad Empoli e giudice del Tribunale di Pisa). Nella parte finale di quel periodo, poi, ebbe modo – in qualche misura – di porre a confronto il suo ruolo con quello del giudice delle leggi, essendo stato assistente di studio di Costantino Mortati (dal 1966 al 1971).
Precisando meglio l’oggetto di questa succinta riflessione, sembra di poter affermare senza tema di smentita che il ruolo dei giudici, oggi, non possa essere compreso in pieno se si sottovaluta l’incidenza che con il trascorrere del tempo è stata esercitata sulla giurisdizione dal nuovo modo di atteggiarsi dei rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee. Il rilievo che negli anni è stato riconosciuto (pur sempre entro certi limiti) alle seconde ha avuto non poche ricadute, come adesso si ricorderà, sui giudici comuni, ridisegnandone la posizione all’interno dell’ordinamento quali primi “custodi” dei diritti. Quanto ora si sta dicendo, d’altra parte, è strettamente legato alle sempre crescenti e nuove (o, se si preferisce, insolite) “domande di giustizia” che si levano dal tessuto sociale, spesso originate da fenomeni extra-giuridici che si possono ricondurre, volendo esemplificare al massimo, ai seguenti: un crescente individualismo, che porta il singolo ad avanzare pretese connesse ad interessi che in passato, in linea di massima, non erano avvertiti; il progresso tecnologico, che ha creato opportunità e possibilità prima inimmaginabili delle quali (comprensibilmente) l’uomo di oggi non si vuole (e, in alcuni casi, non si può) privare.
Spostandoci, invece, sul piano giuridico, non si può fare a meno di notare che l’aumento delle domande di giustizia sia figlio di una crisi del legislatore, non in grado di offrire quelle risposte che sarebbe chiamato a dare. Questo dato di fatto, a sua volta, ha molteplici cause che non si possono qui indagare, non ultima quella dovuta ad una certa incapacità di interpretare adeguatamente (e “preventivamente”, cioè in via generale e astratta) il sentire sociale e quindi, conseguentemente, andarvi incontro. Ciò è certamente dovuto sia alla crisi dei corpi intermedi (partiti in primis) che a quella del corpo sociale nella sua interezza. Non a caso, in dottrina, molti anni or sono, si è fatto notare che la crisi dei rappresentanti derivi da quella dei rappresentati[2].
Le inefficienze del legislatore, poi, non sono certo slegate da quelle della disciplina (in sede costituzionale ma anche regolamentare) relativa al funzionamento del Parlamento. Si pensi, ad es., ai possibili vantaggi, sia sul piano della tempistica che su quello della rappresentanza territoriale (e quindi della tutela dei diritti), che potrebbero aversi a seguito dell’introduzione, nel nostro ordinamento, del bicameralismo imperfetto.
Quanto appena rilevato, però, non è altro che un cenno rispetto a ciò che potrebbe (e dovrebbe) dirsi se si volessero studiare le cause che stanno alla base della crisi della legge (e, a monte, del legislatore), alla quale il potere giudiziario – come tutti sanno – è soggetto; a motivo del nesso inscindibile che c’è tra essi, la generale crisi della legge non può essere senza effetto per l’intero potere giudiziario, che conseguenzialmente può “entrare in sofferenza”. In questa sede interessa sottolineare che l’aumento delle domande di giustizia è proporzionale (anche o soprattutto) all’aumento delle omissioni del Parlamento[3]. A tutto ciò si aggiunga che i tempi di crisi (ad es., economica o sanitaria) aggravano, nei cittadini, il senso di ingiustizia (a prescindere che quest’ultima sia reale o presunta) e la frantumazione sociale, il che porta ad una rinnovata, più insistente e diffusa domanda di tutela.
2. Cenni sul primato della legislatio sulla iurisdictio e prime considerazioni sul rapporto tra i giudici e le altre Corti
Com’è ovvio, le domande di giustizia sono volte a ottenere tutela per diritti che si ritengono lesi e quindi ad assicurare idonea protezione della sfera giuridica, che si ritiene essere stata intaccata.
Per prima cosa, a scanso di equivoci, occorre rammentare che il “luogo” deputato ad individuare e a predisporre forme e modalità di salvaguardia dei diritti, alla luce di una adeguata “lettura” del contesto sociale, è il Parlamento. Come si sa, è infatti la legge, prima (e più) ancora che la giurisprudenza, a doversi fare carico del compito di saper andare incontro alla persona umana, dovendone recepire le esigenze e i bisogni. In questo senso, infatti, una troppo frequente sostituzione dei giudici al legislatore (e quindi delle sentenze alle leggi) appare una patologia del sistema; i primi dovrebbero essere chiamati ad intervenire solo per individuare, nei casi dubbi, «la volontà normativa da far valere nel caso concreto»[4] e per “ricomporre” l’ordine giuridico violato, non anche per supplire sistematicamente chi (il Parlamento, appunto) si dovrebbe occupare di stabilire le regole costitutive dell’ordine stesso[5].
Nella legislatio (e non nella iurisdictio) va pertanto individuata la “sede” naturale nella quale occorre prestare attenzione agli interessi umani per soddisfarli, una volta riconosciuti meritevoli di tutela[6].
Quanto più sono chiamati i giudici ad intervenire tanto più è possibile rilevare una crisi del sistema, così come pensato dai Padri costituenti e suggellato nella Carta.
Fatte queste precisazioni, però, non si può fare a meno di constatare – come mi sono trovato già altre volte a rilevare – che la scrivania del giudice è adesso più “affollata” di un tempo[7], non essendovi su di essa solo i “classici” codici, ma anche – almeno idealmente – le numerose fonti esterne che oggi hanno assunto un rilievo assai diverso rispetto al passato (sia perché esse sono aumentate e sia per il nuovo valore che la Corte costituzionale e le Corti europee hanno ad esse attribuito)[8].
Come tutti sappiamo, oggi, la protezione dei diritti (in risposta alle domande di giustizia) trova in più “attori del diritto”, nazionali e sovranazionali, una possibilità di soddisfazione, com’è tipico del costituzionalismo multilivello. Ovviamente, i giudici sono coloro ai quali in prima battuta ci si rivolge e che, in un certo senso, operano “in trincea”; nella maggior parte dei casi, sono proprio loro ad offrire le risposte che la persona reclama, in quanto «avampost[i] della ricezione delle domande emergenti nel vivere sociale»[9]. Tuttavia, anche quando le istanze di tutela sono rivolte alle Corti europee, i giudici comuni rimangono essenziali sia nel sollecitare le alte Corti a pronunziarsi u questioni di cruciale rilievo che nel dare idoneo “seguito” alla giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, ruolo che con il tempo è cresciuto, secondo quanto si vedrà meglio a momenti.
Con specifico riferimento alla funzione che essi svolgono nei rapporti con la Corte costituzionale, appare palese quanto prezioso sia il loro compito nell’ambito dei giudizi in via incidentale, sede privilegiata – com’è noto – per la tutela dei diritti da parte della Consulta. A quest’ultimo proposito, però, non si può tacere che l’uso sempre più libero e disinvolto delle regole processuali da parte del giudice delle leggi (delle quali quest’ultimo, come ha osservato P., è «quasi sempre l’unico possibile interprete ufficiale»)[10] ha molte volte ridimensionato (o addirittura sacrificato) il ruolo dei giudici, a fronte di una maggiore estensione di quello della Consulta[11]. Ciò accade ormai con una certa frequenza quando la Corte, prescindendo dalla rilevanza della questione, utilizza tecniche decisorie con le quali modula nel tempo e nello spazio gli effetti delle proprie decisioni[12], mettendo di fatto in discussione l’elemento dell’incidentalità[13]. Emblematica è, poi, la messa da parte del limite della discrezionalità del legislatore, di cui si hanno ormai numerose e preoccupanti testimonianze.
Ciò che si intende dire è che, mentre sul “versante” esterno (rispetto alle Corti europee) il ruolo dei giudici (o, forse, sarebbe meglio dire della «funzione giurisdizionale»)[14] appare (almeno in parte) rinvigorito[15], su quello interno – cioè nei rapporti con la Consulta – sembra spesso ridimensionato.
In questa sede, ci si occuperà solo del primo e, nello specifico, del rapporto intercorrente tra i giudici e la Corte EDU[16], sebbene non meno rilevante sarebbe indagare quello tra i primi e la Corte di giustizia.
3. I rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo
3.1. … a proposito dell’applicabilità diretta della CEDU
Ci si metterà ora nei panni dei giudici comuni e si volgerà dal loro angolo visuale verso la CEDU e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, al fine di stabilire quale “uso” essi possano farne per rispondere alle numerose e pressanti “domande di giustizia” loro indirizzate.
Nel momento in cui P. scriveva il lavoro a partire dal quale muovono queste osservazioni il rilievo riconosciuto alla CEDU era pari a quello di qualunque altro trattato internazionale, come tale avente il rango della fonte interna (ossia la legge) in grado di portare ad esecuzione quella esterna. Non poche, nel tempo, erano state le istanze presentate al giudice comune (e in alcuni casi alla Consulta), con le quali si chiedeva di riconoscere maggior valore alla Convenzione, a cominciare dalla possibilità di darvi applicazione diretta. Tuttavia, il primo vero scostamento dai precedenti orientamenti il giudice delle leggi lo ha manifestato solo nel 2007, con le note sentt. nn. 348 e 349 (le c.d. “gemelle”). Da lì in poi i rapporti tra la CEDU e la Costituzione (e, in generale, il diritto interno) hanno, seppure moderatamente, cambiato fisionomia.
Come si diceva, non è possibile in questa sede ripercorrere nel dettaglio la giurisprudenza costituzionale in materia, ma guardare con gli “occhi” del giudice i rapporti in parola al fine di individuare la sua “collocazione” all’interno di essi.
Il desiderio degli operatori interni di applicare direttamente la CEDU è stato subito smorzato dalla Corte costituzionale che, com’è noto, ha escluso una tale possibilità, premurandosi di mettere in luce le differenze del diritto convenzionale rispetto al diritto dell’Unione europea e riconoscendo ai giudici la facoltà di sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione di fonte interposta[17]. Sebbene non vi sia dubbio che le fonti esterne in parola non siano equiparabili, tuttavia non pochi dubbi residuano in merito alla totale impossibilità di dare applicazione diretta alla Convenzione; ciò che si intende dire è che in taluni limitati casi essa potrebbe anche aversi. Tuttavia, non interessa indugiare su questo punto, quanto prendere atto della impostazione della Consulta, che però nella sent. n. 311 del 2009 non ha mancato di precisare che «allo stato» le norme della CEDU non sono direttamente applicabili[18]. Senza volere fare un processo alle intenzioni della Corte, una semplice interpretazione letterale della decisione farebbe pensare che il giudice delle leggi, nel 2009, non escludesse una tale possibilità futura (magari qualora fosse avvenuta o avvenisse l’adesione della UE alla CEDU, che invero appare ancora lontana).
Se quanto appena detto rispecchia l’orientamento della Consulta, non si può fare a meno di rilevare che rispetto ad esso non sono mancati «giudici ribelli»[19]. Effettivamente, qualche osservazione critica può farsi al fine di prospettare alcuni casi in cui sembrerebbe possibile (o forse inevitabile) l’applicabilità diretta. Ad esempio, qualora si fosse in presenza di una norma legislativa anteriore alla CEDU e con questa in stridente contrasto[20], si potrebbe fare utilizzo del canone della lex posterior, così come potrebbe aversi applicazione diretta in caso di vuoto legislativo[21].
Inoltre, con riferimento ai casi di sostanziale coincidenza di norme della CEDU e di norme della Carta dei diritti dell’Unione europea, laddove ci si discostasse dall’indirizzo fatto proprio dal giudice costituzionale, si potrebbe accogliere la tesi favorevole alla immediata applicazione da parte del giudice della Carta suddetta; la qual cosa produrrebbe un effetto di trascinamento nei confronti anche della Convenzione.
Non mancano, poi, altri casi in cui la CEDU – al di là di quanto dice la Consulta – potrebbe trovare diretta applicazione; ad es., in fase cautelare[22] oppure qualora fosse il giudice di Strasburgo a richiederlo[23] (non si sottovaluti che il nostro Stato, come gli altri che hanno sottoscritto la Convenzione, si sono impegnati a dare esecuzione alle decisioni della Corte EDU, ex art. 46).
Non v’è dubbio che, a prescindere dalla concreta percorribilità delle strade ora illustrate (o di altre ancora che potrebbero immaginarsi), l’intervento dei giudici comuni potrebbe acquisire particolare rilievo in tutti i casi in cui il legislatore sia rimasto inerte sul piano dell’esecuzione di sentenze di condanna della Corte EDU.
A quanto ora detto si ricollega un altro aspetto da prendere in considerazione, che peraltro è stato interessato da una certa evoluzione nella giurisprudenza costituzionale.
3.2. … a proposito dell’interpretazione conforme
Fin dalle sentenze del 2007, la Corte ha chiesto ai giudici comuni di tentare l’interpretazione conforme della fonte interna alla CEDU, secondo il significato data alla previsione convenzionale dalla Corte di Strasburgo. Solo nel caso in cui non fosse riuscita (o non riuscisse) tale operazione, non potendo – come detto – applicare direttamente la norma esterna, l’operatore interno si sarebbe dovuto (o si dovrebbe) rivolgere alla Corte costituzionale.
A tal proposito, non v’è dubbio che sia stato riconosciuto un ruolo centrale ai giudici interni, chiamati ad essere “ponte” tra le Corti e, quindi, tra le Carte (CEDU e Costituzione); tuttavia, come accennato, il loro margine di manovra era (ed in parte è) alquanto limitato, l’ultima parola spettando alla Consulta. Non è comunque da sottovalutare il compito ad essi attribuito di svolgere operazioni ermeneutiche nel senso che si è ora detto perché dalle modalità con cui esse vengono portate a termine dipende il rilievo (seppure “indiretto”) della Convenzione nel nostro ordinamento; non si può a priori escludere, poi, che i giudici possano provare “acrobatiche” e ardite interpretazioni per evitare la presenza ingombrante della Consulta, con conseguente applicazione (diretta) “mascherata” della CEDU.
Strettamente collegata a quanto ora detto è la richiesta ai giudici di considerare la previsione convenzionale, al fine di valutare la conformità ad essa della norma interna, alla luce della giurisprudenza di Strasburgo (in questo senso, d’altra parte, si esprime l’art. 32, par. I, CEDU); nel 2007 – con le sentenze “gemelle” – sembrava che quest’ultima fosse da seguire “alla lettera”, non residuando per i giudici comuni alcun margine di manovra. Due anni dopo, invece, con la sent. n. 311 del 2009, la Corte si è espressa in modo alquanto innovativo per quanto attiene l’oggetto di questa riflessione; in questa decisione, infatti, si legge che gli operatori interni erano chiamati a cogliere la “sostanza” dell’interpretazione fornita dalla Corte EDU, solo da essa rimanendo vincolati. In questo momento, la Consulta riconosceva agli operatori interni una certa discrezionalità, se si pensa che ad essi sarebbe spettato individuare la linea di confine tra “sostanza” (una sorta di “nucleo duro” dell’interpretazione) e “non-sostanza”. Solo alla prima essi avrebbero dovuto “guardare” in sede di interpretazione conforme. Tuttavia, tale impostazione poneva, a mio avviso, non pochi problemi di compatibilità con l’art. 46 della Convenzione, che invece – come già accennato e come tutti sanno – pone un generale obbligo per gli Stati (e quindi per i suoi operatori interni) di attenersi (verrebbe da dire, “in tutto e per tutto”) alle decisioni emesse a Strasburgo; al riguardo, come si sa, si è molte volte espressa la stessa Corte EDU, ma si ricordi anche la Raccomandazione del Comitato dei ministri R(2000)2.
Nel 2015, poi, con la sent. n. 49, il giudice delle leggi ha chiarito cosa fosse la “sostanza”, riconducendo a quest’ultima solo la presenza di orientamenti consolidati della Corte EDU. Esemplificando al massimo, ai giudici interni (volendo ancora una volta metterci dal loro angolo visuale) è stato chiesto di attenersi a quando detto dal giudice di Strasburgo solo se sull’interpretazione di quella previsione vi fosse già, appunto, un orientamento consolidato, un filone giurisprudenziale già ben definito[24]. Ecco allora cosa avrebbe dovuto (o dovrebbe) fare il giudice nel chiuso del suo ufficio: «collocare la singola pronuncia nel flusso continuo della giurisprudenza europea, per ricavarne un senso che possa conciliarsi con quest’ultima, e che, comunque, non sia di pregiudizio per la Costituzione»[25]. In questo senso, allora, è apparso ulteriormente valorizzato il ruolo dei giudici, come sembra confermare quanto si legge poco dopo: «sarebbe errato, e persino in contrasto con queste premesse, ritenere che la CEDU abbia reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato»[26], fermo restando però che i giudici comuni non «possano ignorare l’interpretazione della Corte EDU, una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione. Corrisponde infatti a una primaria esigenza di diritto costituzionale che sia raggiunto uno stabile assetto interpretativo sui diritti fondamentali, cui è funzionale, quanto alla CEDU, il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo»[27]. Eppure «il giudice nazionale non può spogliarsi della funzione che gli è stata assegnata dall’art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si “esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto” (sentenza n. 40 del 1964; in seguito sentenza n. 234 del 1976), e ciò vale anche per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell’ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento»[28]. Se ne ha, per un verso, che la Corte costituzionale ha «responsabilizza[to] i giudici comuni» ma, per altro verso, si è riserva[ta] la competenza di verificare la «correttezza delle [loro] operazioni»[29].
In altre parole, il rispetto della “sostanza” è strettamente connesso al (e condizionato dal) rispetto degli orientamenti consolidati, se questi ultimi vi sono. In caso contrario, infatti, il giudice sembrerebbe libero di muoversi, pur sempre, com’è ovvio e come ha precisato anche la Consulta, senza potersi sostituire alla Corte EDU. Il giudice delle leggi, infatti, ha osservato (non senza una certa creatività) che è «solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento ormai divenuto definitivo». Non si comprende sulla base di quale fondamento normativo il giudice interno non debba ritenersi vincolato alla giurisprudenza EDU anche in assenza di un orientamento consolidato, sempre che l’operatore non si trovi dinanzi ad una “sentenza-pilota” (anch’essa considerata vincolante)[30], la cui riconoscibilità è pur sempre a lui affidata; ancora una volta, l’art. 46 CEDU pare di ardua conciliabilità con quanto ora detto. È ovvio che nulla vieterebbe (o potrebbe vietare) ad un giudice di seguire l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo anche in assenza di un orientamento consolidato, la cui sussistenza sarebbe comunque affidata all’operatore interno; a tal proposito, quest’ultimo sarebbe chiamato a prendere in considerazione una serie di indici, ai quali fa rimando la Consulta[31] e la cui presenza indicherebbe la mancanza del suddetto orientamento. In altre parole, nulla può impedire che il giudice comune interpreti una previsione convenzionale alla luce dell’interpretazione fornita da una pronuncia “isolata” (o da più sentenze che non sono sufficienti a dare vita ad un orientamento consolidato) del giudice di Strasburgo qualora ritenga che ciò implichi un innalzamento della tutela dei diritti “in gioco”; quanto ora detto apre un’altra questione sulla quale mi soffermerò a breve, quella cioè relativa alla massimizzazione della tutela, nella individuazione della quale i giudici sono chiamati a svolgere un ruolo ancora una volta cruciale.
In altre parole, l’impostazione del 2015 della Corte costituzionale sembra volta ad evitare possibili (“inutili”, mi verrebbe da dire) antinomie tra CEDU e Costituzione qualora queste ultime fossero causate da singole decisioni della Corte di Strasburgo[32]. Che poi ciò sia difficilmente conciliabile con l’art. 46 CEDU è un’altra storia.
Tornando a quanto si diceva poco sopra, viene spontaneo chiedersi: se, per un verso, dalla sent. n. 49 traspare una certa apertura nei riguardi dei giudici, lasciati più liberi di agire pur nel rispetto delle leggi ordinarie (compresa quella che ha reso esecutiva la CEDU), siamo certi che gli “indici” illustrati dalla Corte costituzionale siano sempre sufficienti ad offrire aiuto agli operatori interni? E ancora: non è forse vero che da ogni decisione giurisprudenziale (a prescindere dalla sede istituzionale da cui provenga) sia possibile trarre il principio di diritto (appunto, la “sostanza”) che ne sta alla base? Non si possono certo immaginare sentenze che “nella sostanza” non dicano nulla.
Si faccia caso, peraltro, all’eventualità che una decisione dapprima non venga presa in considerazione dal giudice comune in quanto isolata e dopo, qualora sulla scia di quella (ed in conformità ad essa) la Corte EDU si pronunciasse altre volte, contribuisca a comporre un orientamento consolidato, acquisendo necessariamente un diverso valore (e forza vincolante) per il giudice comune in un tempo successivo. Si assisterebbe al curioso caso di una sentenza ad efficacia (o, meglio, a vincolatività) variabile. Qualche perplessità in merito sembra legittima.
Infine, ci si chiede se con la sent. n. 49 il giudice delle leggi non abbia solo voluto venire in soccorso agli operatori interni, ma abbia anche voluto sollevarsi a sua volta dall’essere costretto a confrontarsi con la giurisprudenza EDU, in sede di giudizio di legittimità costituzionale, in assenza di orientamenti consolidati. Ciò che si intende dire è che la decisione della Corte sottende una volontà di quest’ultima di smarcarsi (ove possibile) dalla Corte europea, ferma restando la libertà di scelta dell’operatore interno in merito alla possibilità di sollevare o meno una questione di legittimità costituzionale assumendo la Convenzione come fonte interposta in caso di insuccesso dell’operazione di interpretazione conforme della norma interna alla CEDU. Che poi il ragionamento della Corte possa anche “scoraggiare” i giudici comuni dal sollevare questioni di legittimità per contrasto con la CEDU (e quindi con l’art. 117, I comma, Cost.) non si può escludere. Tuttavia, quanto da ultimo detto potrebbe avere un effetto contrario e rivelarsi un boomerang per la Consulta se si considera, come si diceva prima, che i giudici comuni potrebbero finire per applicare la CEDU bypassando la Corte costituzionale. Certo è che, dalla decisione in parola, la giurisprudenza di Strasburgo è apparsa nel complesso sminuita.
3.3. (segue) la sent. n. 43 del 2018
Ulteriore e significativo passaggio in merito alle possibilità riconosciute ai giudici comuni nei rapporti con la Corte EDU, ma anche nella valorizzazione di quest’ultima (e, in generale, della Convenzione), appare quello rappresentato dalla sent. n. 43 del 2018 della Corte costituzionale. Senza volere (e potere) ripercorrere qui la vicenda che ha originato la pronuncia in discorso, sembra opportuno rilevare che in questa occasione la Consulta ha ritenuto vincolante, ai fini ermeneutici, per l’operatore interno, una singola decisione resa a Strasburgo, siccome dotata di «carattere innovativo»[33] rispetto al momento in cui era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale[34]: in altre parole, un novum (anche se il giudice delle leggi preferisce non usare tale lemma)[35].
La Corte costituzionale rilevava che la decisione in merito, specificamente, alla non operatività del divieto del ne bis in idem in presenza di una close connection tra due giudizi, con la conseguente procedibilità del secondo a prescindere dal primo[36], dovesse «passare da un giudizio casistico, affidato all’autorità che procede»[37]. Com’è evidente, anche ai fini della valutazione della pena[38], appare allora rilevante il ruolo riconosciuto ai giudici comuni, i quali però potrebbero trovarsi un po’ disorientati nel discernere i casi nei quali essi sarebbero vincolati, sul piano interpretativo, solo in presenza di un orientamento consolidato e quando, invece, una pronuncia isolata (rappresentando, appunto, un novum) possa (o, addirittura, debba) avere una efficacia altrettanto vincolante. Il tutto con i non pochi rischi ai quali va incontro la certezza del diritto.
3.4. La massimizzazione della tutela
Infine, non si trascuri il fondamentale ruolo che i giudici comuni svolgono (rectius, potrebbero svolgere) nell’individuazione della tutela più intensa dei diritti “in gioco”[39].
Al di là di alcuni passaggi non irrilevanti della sent. n. 348 del 2007, è nella sent. n. 317 del 2009 che la Consulta ha osservato che la CEDU non può causare una diminuzione di protezione dei diritti ma un «ampliamento» della stessa[40], non essendo ammissibile «che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale»[41]. Si tratta allora di individuare la «massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti»[42]; ma – verrebbe da dire – non solo (quell’“anche” fa pensare, infatti, che la “massima espansione delle garanzie” potrebbe aversi – com’è ovvio – grazie al contributo offerto da fonti pure diverse dalla Costituzione)[43].
Il giudice delle leggi ha inoltre significativamente e opportunamente osservato che «appartiene alle autorità nazionali il dovere di evitare che la tutela di alcuni diritti fondamentali – compresi nella previsione generale ed unitaria dell’art. 2 Cost. – si sviluppi in modo squilibrato, con sacrificio di altri diritti ugualmente tutelati dalla Carta costituzionale e dalla stessa Convenzione europea»[44]. Come si sa, più volte, la Consulta ha avuto modo di richiamare il principio della massimizzazione della tutela, del quale già discorreva Paolo Barile nel 1984[45]. Non è possibile in questa sede soffermarsi sul contenuto del principio in parola[46], tuttavia non si può fare a meno di rilevare quanto sia prezioso il contributo che i giudici possano offrire nell’individuazione della fonte (esterna o interna) nella quale riposi la più intensa tutela dei diritti ritenuti di volta in volta prevalenti, con il minor sacrificio degli altri; si tratta, in altre parole, di individuare il “miglior bilanciamento possibile” (o, per dirla con la Corte, il «ragionevole bilanciamento»)[47] tra tutti i diritti che vengono in rilievo. In una operazione di questo tipo, sembra ineliminabile una certa dose di discrezionalità degli operatori interni, chiamati per primi «ad individuare, maneggiare e conformare in vivo diritti fondamentali»[48]. Se si concorda sul fatto che, «l’effettività dei diritti è il termometro che consente di stabilire se e quanto è davvero “costituzionale” l’ordinamento dello Stato»[49], ben si comprende il ruolo che la Corte costituzionale svolge nell’usare il canone in parola, possibilità però che dovrebbe poter essere data anche ai giudici comuni nello svolgimento del loro irrinunciabile ruolo di salvaguardia dei diritti[50]. Nella complessa opera volta a conciliare domande di tutela contrastanti, il criterio della “massimizzazione della tutela” diventa una preziosa “bussola”, le cui istruzioni d’uso non sempre sono facilmente intellegibili. Ciò che si intende dire è che i parametri di riferimento sulla cui base misurare l’intensità della tutela possono essere diversi e, comunque, pur sempre esposti ad una ineliminabile dose di discrezionalità di chi tiene in mano quella bussola. Certo è, però, che privare i giudici dell’utilizzo di tale “metacriterio” (o “metaprincipio”)[51] potrebbe comportare un vulnus alla tutela dei diritti.
4. Conclusioni
Non v’è dubbio che molti altri sarebbero i profili da trattare, tuttavia non è possibile farlo in questa sede. Tra gli altri, non è da sottovalutare il rilievo che potrebbe avere il Protocollo n. 16, qualora fosse ratificato anche dal nostro Paese, per favorire il dialogo tra le “giurisdizioni superiori” e la Corte di Strasburgo e prevenire possibili contrasti tra quest’ultima e la Corte costituzionale. Di certo, il ruolo dei giudici verrebbe ulteriormente valorizzato a beneficio della tutela dei diritti.
Pur nella consapevolezza che il tema avrebbe richiesto ben altro approfondimento di quello che qui può esservi dato, è necessario avviarsi a qualche osservazione conclusiva, rinviando ad altri studi per ulteriori considerazioni in argomento.
È adesso possibile riannodare le fila del discorso e ripartire dalle parole di P. che, nel lavoro del 1992 dal quale ha preso spunto questa riflessione, notava l’importante ruolo dell’«organizzazione internazionale» e, in particolare, per ciò che ci riguarda da vicino, del diritto comunitario (oggi, eurounitario o dell’Unione europea) e, nello specifico, della Corte di giustizia, che ha favorito un «ravvicinamento fra i diritti statali» grazie alla «conciliazione di tecniche proprie degli ordinamenti appartenenti alla tradizione romanistica con tecniche proprie della common law». Proprio quanto da ultimo detto non sembra senza effetto. L’innegabile vicinanza, o forse anche commistione, delle due grande famiglie del diritto, quella di common law e di civil law, anche dovuta alla spinta data in tal senso dalle Corti europee, hanno di certo rinvigorito il ruolo dei giudici. La stessa Consulta, nel ridefinire i rapporti tra la Costituzione e la CEDU, profilo al quale si è fatto qui riferimento, ha riconosciuto agli operatori interni – implicitamente o esplicitamente – una serie di attribuzioni (o, se si preferisce, di possibilità) che fino al 2007 non erano ben precisate. In estrema sintesi, questo è quanto emerge dalla giurisprudenza costituzionale che negli ultimi quindici anni circa si è interessata alla materia. D’altra parte, non poteva essere altrimenti se si considera che la soggezione dei giudici alla legge implica la soggezione degli stessi anche alle leggi di esecuzione dei trattati internazionali (e quindi delle Carte dei diritti), con le non poche conseguenze che ne derivano sul piano delle fonti esterne, nelle quali il singolo operatore può rintracciare la regola da applicare al caso[52].
Già nel 1992, P. osservava che vi erano state «innovazioni tecniche di grande rilievo […] nell’ambito della tutela internazionale dei diritti dell’uomo, in particolare per effetto della creazione di un’istituzione come la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale applica una sorta di “diritto comune”, in certa misura costruito sulla comparazione fra i diritti degli stati aderenti al Consiglio d’Europa». Ciò ha condotto, «anche nell’ambito delle giurisdizioni statali, all’impiego diretto del diritto di altri paesi, quanto meno come strumento d’interpretazione del diritto nazionale»[53].
I rapporti con “l’esterno”, come “disegnati” nel tempo dalla Corte costituzionale, unitamente al contesto-storico politico nel quale ci muoviamo, hanno di certo maggiormente favorito la valorizzazione del ruolo dei giudici[54], «primi e principali attori della implementazione del diritto europeo e del diritto Cedu»[55]; il fatto poi che questi ultimi, come detto, si trovino spesso a dover porre riparo alle omissioni del legislatore non autorizza a parlare di Stato giurisdizionale, com’è stato fatto notare in dottrina[56]. Semplicemente, il “mestiere del giudice”[57] appare (in parte) ridefinito[58] o, comunque, arricchito dalle potenzialità che offrono gli “strumenti” a sua disposizione[59] (in questo caso, le fonti sovra- e internazionali) per la tutela dei diritti fondamentali – e, in primis, della dignità umana – in una “società che cambia”[60] molto più rapidamente che nel passato e nella quale «la mancanza, o l’eccessiva la debolezza, della politica» provoca un certo «deficit democratico» inversamente proporzionale rispetto all’aumento del rilievo dei giudici[61].
In definitiva, pur nella necessaria distinzione dei ruoli della legislatio e della iurisdictio, non si può fare a meno di rilevare che il giudice, all’interno di un sistema a più livelli all’interno dei quali nessuno può reclamare una primazia[62], appare oggi come «cuore pulsante dei diritti fondamentali»[63], la cui tutela più intensa è il primo a dovere garantire.
A conferma di quanto si sta dicendo, ritorna la lungimiranza di Alessandro Pizzorusso, il quale già nel 1992 segnalava la tendenza di una «sempre maggiore diffusione della tutela dei diritti mediante l’opera di organi imparziali». Da qui nasceva (e nasce) l’esigenza di «fare ogni possibile sforzo per cercare di adeguare la realtà italiana, nella misura in cui essa si presenta arretrata rispetto a queste esigenze, respingendo l’offensiva attualmente in corso contro il potere giudiziario […] affrontando i nuovi problemi che occorre risolvere per assicurare un avvenire migliore»[64]. Queste parole sembrano pronunciate oggi.
* Il contributo è destinato al Volume, in corso di pubblicazione, che raccoglierà gli Atti del Seminario “Ricordando Alessandro Pizzorusso” (Pisa, 15 dicembre 2020). Il titolo riprende l’opera di A. Pizzorusso, Magistrature e nuove domande di giustizia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, volume secondo, Napoli 2019, 1093 ss., a partire dalla quale queste brevi riflessioni prendono le mosse.
[1] I. Ruggiu, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Milano 2012.
[2] M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in AA. VV., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon-F. Biondi, Milano 2001, 109 ss.
[3] Cfr. A. Ruggeri, Omissioni del legislatore e tutela giudiziaria dei diritti fondamentali, in www.dirittifondamentali.it, n. 1/2020, 193 ss. Cfr. G. Sorrenti, Il giudice soggetto alla legge… in assenza di legge: lacune e maccanismi integrativi, Napoli 2020, spec. 24, ma passim.
[4] T. Martines, Diritto costituzionale, Milano 2020, 421.
[5] In argomento, cfr. G. Moschella, Ruolo dei giudici e ruolo del legislatore a tutela dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di G. Silvestri, II, Torino 2016, 1486 ss.
[6] Cfr. R. Bin, Chi è il giudice dei diritti? Il modello costituzionale e alcune deviazioni, in Rivista Aic, n. 4/2018, 621 ss., e Id., Il giudice, in BioLaw Journal, n. 2/2019, spec. 188.
Sul rapporto, oggi in parte nuovo, tra legislatio e iurisdictio, cfr. G. Laneve, Legislatore e giudici nel contesto delle trasformazioni costituzionali della globalizzazione: alcune riflessioni, in Rivista Aic, n. 4/2018, 421 ss.
[7] L’immagine della “scrivania” è condivisa da diversi autori; v. A. SAITTA, Il concetto di “noi” e di “altri” nella Costituzione e nella C.E.D.U., in Consulta Online, 4 novembre 2014, § 4; A. RUGGERI, Dal legislatore al giudice, sovranazionale e nazionale: la scrittura delle norme in progress, al servizio dei diritti fondamentali, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XVIII, Studi dell’anno 2014, Torino 2015, 595; R. CONTI, Ruggeri, i giudici comuni e l’interpretazione, in www.giustiziainsieme.it, 4 ottobre 2019, § 3; ID., Giudice o giudici nell’Italia postmoderna? La scelta del tema, in www.giustiziainsieme.it, 10 aprile 2019. Infine, sia consentito rinviare al mio La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, Milano 2017, XIII.
[8] In argomento, la letteratura è ormai sterminata; riferimenti possono aversi, se si vuole, dal mio La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, cit.
[9] G. Sorrenti, Il giudice soggetto alla legge, cit., 24.
[10] A. Pizzorusso, Fonti del diritto, II ed., Bologna-Roma 2011, 538. In argomento, dell’illustre A., v. Uso ed abuso del diritto processuale costituzionale, in AA.VV., Diritto giurisprudenziale, a cura di M. Bessone, Torino, 1996; R. Romboli, Il diritto processuale costituzionale: una riflessione sul significato e sul valore delle regole processuali nel modello di giustizia costituzionale previsto e realizzato in Italia, in Studi in onore di F. Modugno, IV, Napoli 2011, 2995 ss.
[11] In argomento, cfr. almeno A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., n. 2/2019, 251 ss.; Id., Suprematismo giudiziario II. Sul pangiuridicismo costituzionale e sul lato politico della Costituzione, in www.federalismi.it, n. 12/2021, 170 ss.
[12] Come osserva A. Pizzorusso, Magistrature e nuove domande di giustizia, cit., 1095, nel XX secolo l’uso delle sentenze manipolative, unitamente all’annullamento degli atti legislativi e all’interpretazione adeguatrice, hanno contribuito a mettere in crisi il positivismo giuridico.
[13] In argomento, per tutti, v. A. Pizzorusso, Uso ed abuso del diritto processuale costituzionale, in AA.VV., Diritto giurisprudenziale, a cura di M. Bessone, Torino 1996. Nella giurisprudenza costituzionale i casi sono numerosi; si pensi, ad es., alla sent. n. 10 del 2015.
[14] Cfr. G. Moschella, Magistratura e legittimazione democratica, Milano 2009, 169.
[15] Di recente, in argomento, cfr. E. Lamarque, I poteri del giudice comune nel rapporto con la Corte costituzionale e le Corti europee, in Questione giustizia, n. 4/2020, 89 ss.
[16] Per tutti, v. R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011; Id., Il ruolo del giudice comune nell’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in AA.VV., Tra diritti fondamentali e principi generali della materia penale. La crescente influenza della giurisprudenza delle Corti europee sull’ordinamento penale italiano, a cura di G. Grasso-A.M. Maugeri-R. Sicurella, Pisa 2020, 337 ss.
[17] V., di recente, A. Fusco, Il mito di Procruste. Il problema dell’interposizione delle norme generative di
obblighi internazionali nei giudizi di legittimità costituzionale, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), n. 4/2020, 23 ottobre 2020, 250 ss., e Id., Il caleidoscopio normativo. La categoria dell’interposizione nell’esperienza del Giudice delle leggi, in Quad. cost., n. 1/2021, 153 ss.
[18] Corte cost. n. 311 del 2009; v., inoltre, n. 93 del 2010, n. 80 del 2011.
[19] I. Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale, in Pol. dir. 1/2010, 76 ss. e 80 ss.
[20] Ovviamente si immagina il caso che il conflitto sia rispetto ad una certa lettura della CEDU fornita dalla Corte di Strasburgo in relazione ad una specifica vicenda processuale.
[21] Verosimilmente, nella ipotesi ora fatta, il giudice farebbe congiuntamente applicazione sia della norma convenzionale che di una norma costituzionale, nell’assunto della loro sostanziale coincidenza e della insussistenza di una lacuna della Carta fondamentale della Repubblica. Com’è noto, il giudice delle leggi è restio a riconoscere l’esistenza delle lacune in parola, specie con riferimento alla prima parte della Costituzione (ma v. quanto osserva A. Ruggeri, Lacune costituzionali, in Rivista Aic, 2/2016).
[22] … come rileva R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari, in AA.VV., Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, a cura di R. Cosio e R. Foglia, Milano 2013, 249 s.
[23] Si pensi alla sent. Popescu c. Romania del 26 aprile 2007, richiamata da P. Tanzarella, I diritti della Corte europea dei diritti: Europa e America a confronto, in Quad. cost., n. 2/2009, 113 s.
[24] Al fine di chiarire meglio “la nozione stessa di giurisprudenza consolidata”, la Corte rimanda all’art. 28 CEDU (p. 7 del cons. in dir.).
[25] P. 6.1 del cons. in dir.
[26] P. 7 del cons. in dir.
[27] P. 7 del cons. in dir.
[28] P. 7 del cons. in dir.
[29] Cfr. A. Ruggeri, Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno. A prima lettura di Corte cost. n. 49 del 2015, ora in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XIX, Studi dell’anno 2015, Torino 2016, 169.
[30] Cfr. p. 7 del cons. in dir.
[31] La Consulta fa riferimento ai seguenti: «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano» (p.to 7 del cons. in dir.).
[32] Cfr., da ultimo, A. Ruggeri, La CEDU e il gioco degli specchi deformanti alla Consulta, in Rivista Oidu, 2021, 271.
[33] P. 7 del cons. in dir. della dec. del 2018 appena citata nel testo.
[34] In ispecie si trattava della sent. della Grande Camera, A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016.
[35] Cfr. R. Romboli, Vincolatività della interpretazione della Cedu da parte della Corte Edu, in Giur. cost., 2018, 866 ss.
[36] È comunque da precisare che nel caso ora richiamato si trattava di un procedimento tributario e di uno penale.
[37] P. 7 del cons. in dir.
[38] Cfr. A.F. Triprodi, Il nuovo volto del ne bis in idem convenzionale agli occhi del giudice delle leggi. Riflessi sul doppio binario sanzionatorio in materia fiscale, in Giur. cost., 2018, 536.
[39] … come mette in rilievo A. Ruggeri in molti scritti, tra i quali v., ad es., più di recente, Tecniche decisorie dei giudici e “forza normativa” della Carta di Nizza-Strasburgo, in www.forumcostituzionale.it, 8 aprile 2020, 524.
[40] V. p. 7 del cons. in dir.
[41] P. 7 del cons. in dir.
[42] P. 7 del cons. in dir. (c.vo aggiunto).
[43] Degna di nota è poi la sent. n. 25 del 2019 (p. 13 del cons. in dir.), nella quale la Consulta ha osservato che la Costituzione e la CEDU offrono una «concorrenza di tutele» non sempre «sovrapponibili»; potrebbe infatti esservi uno «scarto di tutele rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte EDU riconosca, in determinate fattispecie, una tutela più ampia». Lascia perplessi, però, il riferimento ad un «predominio assiologico» che la Costituzione eserciterebbe – a dire del giudice delle leggi – sulla CEDU (passaggio, quest’ultimo, ripreso dalla sent. n. 49 del 2015).
[44] Corte cost. n. 317 del 2009, p. 7 del cons. in dir.
[45] P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna 1984, 41.
[46] Al riguardo, ci si permette di rinviare al mio Il “metaprincipio” della massimizzazione della tutela dei diritti, in www.dirittifondamentali.it, n. 2/2020, 689 ss.
[47] Corte cost. n. 348 del 2007, p. 4.7 del cons. in dir.
[48] R. Conti, Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2019.
[49] A. Ruggeri, Integrazione sovranazionale e democrazia parlamentare, in www.dirittifondamentali.it, n. 1/2020, 777.
[50] Cfr. G. Moschella, Ruolo dei giudici e ruolo del legislatore, cit., 1486 ss.
[51] In tal senso lo ha definito molte volte A. Ruggeri: ad es., in La oscillante “forza normativa” della CEDU, vista dalla Consulta, in www.rivistaoidu.net, n. 1/2020, 205 s.
[52] Così, quasi testualmente, G. Laneve, Legislatore e giudici, cit., 446.
[53] A. Pizzorusso, Magistrature e nuove domande di giustizia, cit., 1096.
[54] Cfr. G. Moschella, Ruolo dei giudici e ruolo del legislatore, cit., 1486 ss. (e spec. 1502).
[55] G. Laneve, Legislatore e giudici, cit., 443.
[56] Cfr. G. Sorrenti, Il giudice soggetto alla legge, cit., 38.
[57] AA.VV., Il mestiere del giudice, a cura di R. Conti, Padova 2020.
[58] G. Laneve, Legislatore e giudici, cit., 429, discorre di un “riposizionamento che il potere giurisdizionale ha portato a termine nell’assetto complessivo dei poteri e, dunque, in primis nei confronti del potere legislativo”.
[59] Cfr., di recente, B. Nascimbene, La tutela dei diritti fondamentali in Europa: i cataloghi e gli strumenti a disposizione dei giudici nazionali (cataloghi, arsenale dei giudici e limiti o confini), in Eurojus (www.rivista.eurojus.it), 3/2020.
[60] Il riferimento è al noto intervento di R. Livatino, Il giudice nella società che cambia, in Id., Non di pochi, ma di tanti. Riflessioni intorno alla Giustizia, Caltanissetta-Roma 2012, 17 ss.
[61] G. Laneve, Legislatore e giudici, cit., 439.
[62] Cfr. E. Malfatti, I “livelli” di tutela dei diritti fondamentali nella dimensione europea, Torino 2015, 283.
[63] R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, II ed., Roma 2015, 112 (c.vo testuale).
[64] A. Pizzorusso, Magistrature e nuove domande di giustizia, cit., 1107 s.
Il curatore speciale del minore nel conflitto e nella “relazione di cura”: prospettive di riforma
di Sebastiana Ciardo
Sommario: 1. Il curatore speciale della persona minore di età: inquadramento generale - 2. Il curatore speciale della persona minore di età nella conflittualità - 3. Il curatore speciale della persona minore di età nella “relazione di cura” - 4. Prospettive di riforma.
1. Il curatore speciale della persona minore di età: inquadramento generale
La figura del curatore speciale, nella materia processuale, è disciplinata dall’art. 78 c.p.c.: “se manca la persona cui spetta la rappresentanza o l’assistenza, o vi sono ragioni di urgenza, può essere nominato all’incapace un curatore speciale con il compito di rappresentarlo o assisterlo finché non subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l’assistenza. Si procede altresì alla nomina di un curatore speciale al rappresentato quando vi è conflitto di interessi con il rappresentante”.
Nel del diritto di famiglia numerose sono le previsioni specifiche che richiamano la necessità di procedere alla nomina del curatore della persona minore di età, in una serie di situazioni nelle quali si ipotizza, ex ante ed in via presuntiva, l’esistenza del conflitto di interessi con l’esercente la responsabilità genitoriale. Ciò vale nei procedimenti di adottabilità, nelle azioni di stato e nei procedimenti c.d. “de potestate”, vale a dire quelli che conducono alla sospensione e/o alla decadenza della responsabilità genitoriale per gravi inadempimenti[1].
In particolare, nei giudizi “de potestate” costituisce ormai principio cristallizzato e ribadito costantemente dalla giurisprudenza di legittimità che la posizione del figlio risulta sempre contrapposta a quella di entrambi i genitori ed è ravvisabile il conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale - con conseguente necessità della nomina d'ufficio di un curatore speciale che rappresenti ed assista l'incapace[2]. D’altra parte, ai sensi dell’art. 336 c.c., comma 4, «per i provvedimenti di cui ai commi precedenti - ovvero adottati ai sensi degli artt. 330, 333 c.c. - i genitori e il minore sono assistiti da un difensore»; ciò postula, per un verso, l’attribuzione della qualità di parti del procedimento con diritto ad averne notizia ed a parteciparvi attivamente e, per altro verso, che la rappresentanza processuale investa non solo i genitori ma anche il minore, il quale è portatore di diritti personalissimi anche contrapposti a quelli dei genitori[3].
In ultimo, il Giudice di legittimità ha ancora ribadito che in tali giudizi, nei quali il minore è parte formale e sostanziale del procedimento con diritto ad essere ivi rappresentato, la mancata nomina del curatore speciale configura una nullità dell’intero procedimento, ai sensi dell’art. 354 c.p.c., comma 1, con rimessione della causa al primo giudice, ai sensi dell'art. 383 c.p.c., comma 3, perché provveda all'integrazione del contraddittorio[4].
2. Il curatore speciale della persona minore di età nella conflittualità
Altra e diversa questione attiene alle ipotesi nelle quali, senza giungere ad una pronuncia limitativa o ablativa della responsabilità genitoriale, l’elevata conflittualità esistente tra i genitori raggiunge livelli di tale “malsana” esasperazione da minare, al contempo, anche la relazione genitoriale rendendo, di fatto ed in concreto, difficoltosa l’adozione di scelte di ordinaria ma anche straordinaria amministrazione per il figlio pur senza pervenire ad una valutazione di loro totale inadeguatezza.
Sicché, sebbene debba ribadirsi che, in linea generale, la persona minore di età nei procedimenti giudiziari che li riguardano, non possa essere considerata parte formale del giudizio ancorché portatore di diritti ed interessi veicolati all’interno del processo attraverso l’”ascolto”, la cui omissione costituisce violazione del principio del contraddittorio e dei diritti del minore quando non sia sorretta da un'espressa motivazione sull'assenza di discernimento, tale da giustificarne l’omissione, tuttavia, allorquando l’elevata conflittualità dei genitori ne pregiudichi “in concreto” la rappresentanza potrebbe risultare necessario procedere alla nomina di un curatore.
La conflittualità innescata nel rapporto di coniugio mette anche a rischio l’operato del singolo genitore al punto da offuscare le finalità delle singole azioni, se eseguite nell’interesse del minore o nell’interesse proprio e può costituire, quando appunto raggiunge livelli di seria esasperazione, un difetto di funzionamento dello strumento di rappresentanza e dell’amministrazione. In questi casi il conflitto genitoriale legittima l’intervento del giudice che, procedendo alla nomina, consente al terzo di ingerirsi nella intimità della famiglia, per porre al riparo il bambino dalle conseguenze pregiudizievoli generate dallo scontro in atto tra i genitori.
Allo stato l’ordinamento giuridico interno non contempla una normativa specifica che ne consenta la nomina che però può essere certamente rinvenuta, in primo luogo, nello stesso art. 78 c.p.c., interpretato come norma di carattere generale applicabile in tutti i casi di conflitti di interessi tra rappresentante e rappresentato e, in secondo luogo, nella normativa sovranazionale.
La Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo in data 25 gennaio 1996 e ratificata dall’Italia con la legge 20 marzo 2003, n. 77, richiama i procedimenti relativi alla responsabilità genitoriale che coinvolgono i minori prevedendo che, allorché sussista un conflitto di interessi tra il minorenne ed i suoi genitori, o comunque tra il minorenne e chi esercita la responsabilità genitoriale sullo stesso, si prevede che il giudice possa nominare al minore un rappresentante (art. 5 lett. b e art. 9 l. 20 marzo 2003, n. 77), le cui norme hanno immediata valenza precettiva anche al di fuori dei procedimenti espressamente contemplati nell’elenco delle controversie formulato dallo Stato italiano (C. cost., 12 giugno 2009, n. 179). Sul punto, la Corte Costituzionale ha precisato che il giudice può procedere, anche ex officio, alla nomina del curatore speciale per il minorenne, ogniqualvolta ricorrano casi di conflitto di interessi con i genitori o comunque con i soggetti che lo rappresentano e che sul medesimo esercitano la responsabilità genitoriale, ciò anche senza necessità di istanza di parte o di iniziativa da parte del PM come invece previsto dall’art. 79 c.p.c.[5]. Peraltro, già l’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 (ratificata dall’Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176) aveva previsto il diritto del minore ad essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo riguarda, o personalmente o tramite un rappresentante o un organo appropriato.
Negli ultimi anni si è fatta strada nella giurisprudenza delle corti di merito e di legittimità l’idea che anche nei casi non espressamente previsti dalle norme del diritto di famiglia e, in particolare, nelle ipotesi sempre più frequenti di “recisione” del vincolo genitoriale determinato, in concreto, dal conflitto dei genitori, il giudice possa procedere alla nomina di un curatore speciale anche d’ufficio, al quale conferire intanto la rappresentanza processuale ma, in alcuni casi, anche la rappresentanza sostanziale da esercitare al di fuori del processo con attribuzione di specifici poteri e competenze, anche nel rapporto con i terzi (si pensi per es. alla necessità di prestare il consenso per sottoporre il minore a psicoterapia o a cure sanitarie o nell’interlocuzione con i servizi sociali).
Così mutuando il principio autorevolmente espresso dalla giurisprudenza della Corte costituzionale si è affermato che allorché il minore possa essere ritenuto centro di imputazione di interessi giuridicamente rilevanti, non adeguatamente tutelati da parte dei genitori, allo stesso debba essere garantita una rappresentanza processuale mediante la nomina del curatore speciale, anche nel caso di esasperata conflittualità (C. cost., 11 marzo 2011 n. 83). Nei giudizi di separazione, nel quale vengono adottati provvedimenti che concernono il minore, non viene in rilevo automaticamente, nel caso di rilevante conflittualità tra le parti in causa, una situazione di conflitto di interesse fra i genitori e figli”, dovendo piuttosto ritenersi che tale conflitto possa “determinarsi in concreto in relazione a comportamenti processuali delle parti che tendano a impedire al giudice una adeguata valutazione dell'interesse del minore ovvero a frapporsi alla libera prospettazione del punto di vista del minore in sede di ascolto da parte del giudice [6].
3. Il curatore speciale della persona minore di età nella “relazione di cura”
A questo punto dell’elaborazione giurisprudenziale, considerato il ricorso sempre più frequente dei giudici della famiglia alla figura del curatore speciale a protezione dei bisogni e degli interessi del minore, fortemente pregiudicati dal comportamento inadeguato dei genitori, è necessario, tuttavia, chiedersi se, al di fuori dell’area di applicazione dell’art. 78 c.p.c., che è una norma processuale coniata per far fronte ai casi di conflitti di interessi che si manifestano nel processo, tale norma possa costituire una base giuridica valida in tutti i casi delicatissimi di tutela dei diritti personalissimi della persona minore quando i genitori non siano in grado di apprestare loro un’idonea protezione.
Il dubbio posto prelude ad una tematica particolarmente controversa e dibattuta che è quella della “relazione di cura” [7], così come disciplinata dalla legge 219/2017, tra medico e paziente e della prestazione del consenso per il minore, la cui disciplina è rinvenibile nell’art. 3 comma 1, per il quale “La persona minore di età o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacita di comprensione e di decisione, nel rispetto dei diritti di cui all'articolo 1,comma 1. Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacita per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà”. Viene quindi specificato che il consenso informato ai trattamenti sanitari dovrà essere espresso o rifiutato, a seconda dei casi, dall’esercente la responsabilità genitoriale o tutoria “tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua eta e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità”.
La norma, pertanto, pur valorizzando la capacità di autodeterminazione del minore, destinatario di una adeguata informazione su ogni aspetto del trattamento sanitario o dell’intervento cui deve essere sottoposto ad opera del personale medico, tuttavia attribuisce al solo esercente la responsabilità genitoriale il potere di prestare un valido consenso alla cura, e ciò, si badi bene, anche in contrasto con la volontà dello stesso minore pur dotato di capacità di discernimento.
D’altra parte analoga disciplina è rinvenibile nell’art. 6 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina del 4.4.1997, la cui firma per l’Italia è stata autorizzata con Legge 28.3.2001 n. 145 – Cap. II (regola generale, protezione delle persone che non hanno la capacità di dare il loro consenso, tutela delle persone che soffrono di un disturbo mentale, situazioni d’urgenza, desideri precedentemente espressi), che parimenti attribuisce il potere di prestare il consenso al trattamento sanitario per il minore ad un “suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge”.
L’art. 5 comma 5 della legge 219/2017 prevede che “nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l'amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all'articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione e' rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria”, così consentendo un controllo dell’autorità giudiziaria in tutti i casi in cui si venga a creare un conflitto tra la scelta del legale rappresentante, di autorizzare o di rifiutare le cure, e il medico.
La normativa in esame non si occupa però di disciplinare i casi di conflitti tra il destinatario dell’intervento incapace e il suo rappresentante e, per il minore, tra quest’ultimo e il genitore il quale è facoltizzato anche di rifiutare cure “salva-vita”, quali l’idratazione o l’alimentazione artificiale (specificamente menzionati dalla norma), e ciò anche in contrasto con l’interesse del fanciullo.
Se è vero che l’art. 3 contiene una espressa disciplina delle modalità di prestazione del consenso valorizzando la capacità del paziente minore di età, nel nostro ordinamento non è consentito un procedimento nel quale, perlomeno nei casi di c.d. grandi minori, potrebbe essere accertata la capacità di consapevole discernimento - c.d “capacità di Gillick”[8], di esercitare una propria consapevole determinazione ancorché non in possesso di una piena capacità di agire, anche in contrasto con quella dell’esercente la responsabilità genitoriale.
Si pensi al delicato tema delle trasfusioni di sangue non ammesse in alcune confessioni religiose che potrebbero essere rifiutate dai genitori ancorché indispensabili per la sopravvivenza del figlio, con incidenza pregiudizievole sulla stessa esistenza del minore (è il caso trattato dal libro di Ian McEwan). L’assenza di una norma che preveda un intervento dell’autorità giudiziaria negli ambiti in esame finisce per confliggere con il principio della stessa indisponibilità della vita e della autodeterminazione della persona minore di età.
In tutti questi casi, come anche per la tutela del soggetto incapace, in assenza di espressa disciplina del conflitto, discutendo del diritto alla vita della persona e permanendo i dubbi di costituzionalità già peraltro sollevati[9], potrà ipotizzarsi il ricorso alla figura del curatore speciale al quale conferire espressamente poteri di rappresentanza “sostanziale” e, precipuamente, il potere di autorizzare il trattamento ovvero di rifiutarlo.
4. Prospettive di riforma
Le direttrici tracciate e la consapevolezza che le norme processuali (artt. 78-80 c.p.c.) non consentano pienamente di “adeguare” la figura del curatore speciale alle molteplici esigenze dianzi esposte, hanno indotto la Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumento alternativi, presieduta dal Prof. Francesco Paolo LUISO, di recente istituzione presso il Ministero della Giustizia[10], ad intervenire sulle norme processuali con ampliamento della portata applicativa a tutti i casi in cui, in conseguenza dell’”esasperata conflittualità o per altre gravi ragioni” i genitori “sono temporaneamente inadeguati a rappresentare gli interessi del minore e si trovano con lo stesso in conflitto di interessi”( art. 78).
Si legge così nella relazione di accompagnamento alla proposta di modifica dell’art. 78 c.p.c.: “Esistono, tuttavia, tutta una serie di casi gravi, di elevatissima conflittualità tra i genitori, che assume riflessi di forte pregiudizio del minore al punto da minare lo stesso suo sviluppo psico-fisico e, in alcuni casi più gravi, anche la sua salute, che però non necessariamente sfociano nell’avvio di un procedimento de potestate, integrando solo una sostanziale ma graduale recisione del vincolo genitoriale nei confronti di un solo genitore ovvero neutralizzando, nella pratica, ogni provvedimento adottato dal giudice. In questi casi, il giudice del merito è tenuto a verificare in concreto l’esistenza potenziale di una situazione d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentante e quello preminente del minore rappresentato e, sebbene non prevista normativamente, la figura del curatore speciale dei minori si rende, invero, necessaria quando i genitori siano (magari anche temporaneamente) inadeguati a tutelare la posizione del figlio in un processo in cui vengano discussi i suoi diritti, o sussista un conflitto di interessi tra il medesimo ed i genitori (cfr. Cass., sent. n. 11554/2018). In questi casi, dunque, “si impone la necessità di inserire nelle norme generali in materia di nomina di un curatore speciale, una disposizione che consenta al giudice di vagliare la possibilità, in tutti questi casi gravi non necessariamente configuranti un procedimento de potestate che però pongono i genitori in concreto in una situazione di conflitto di interessi con il figlio, di ricorrere alla figura del curatore speciale per consentire al minore di divenire parte processuale e come tale portatore dei propri interessi[11].
Per altro verso, proprio nella prospettiva di consentire al giudice di dotare il curatore speciale di maggiori poteri, anche di “rappresentanza sostanziale” degli interessi del minore da esercitare parimenti al di fuori del processo, per es. nel delicato campo della tutela della sua salute e del suo benessere pisico-fisico, è stato previsto che “All’articolo 80 del codice di procedura civile è aggiunto il seguente comma: “Al curatore speciale del minore il giudice può attribuire nel provvedimento di nomina ovvero con decreto non impugnabile adottato nel corso del giudizio, specifici poteri di rappresentanza sostanziale”.
Il curatore, dunque, diventa strumento di veicolazione degli interessi del minore, il soggetto che agisce con il minore per suo conto e nel suo interesse previo suo ascolto e costante interazione. Ciò impone però una selezione accurata dei professionisti che possono rivestire tale delicata funzione, da formare adeguatamente ed iscrivere in appositi albi istituiti presso i tribunali.
Diventa essenziale modulare il contenuto degli incarichi ditalché giudice possa conferire alla persona nominata precisi compiti, in relazione alle condizioni sottoposte al suo vaglio, e ne possa monitorare continuamente l’operato, nel processo, specialmente quando il curatore abbia assunto anche la rappresentanza sostanziale del minore. E’ stato, infatti, previsto, sempre ad integrazione dell’art. 80 c.p.c. che “Il minore, i genitori che esercitano la responsabilità genitoriale, il tutore o il pubblico ministero possono chiedere con istanza motivata al presidente del tribunale, che decide con decreto non impugnabile, la revoca del curatore per gravi inadempienze.”
Infine, il progetto di riforma ha previsto la integrazione e parziale modificazione della disciplina dell’art. 336 c.c., per i procedimenti “de potestate” così recependo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità con una importante precisazione: dovrà procedersi alla nomina del curatore speciale “quando è necessario”, anche nel corso del giudizio, con facoltà di non provvedervi in tutti i casi di ricorsi manifestamente infondati o pretestuosi o strumentali, che produrrebbe solo un appesantimento del processo ed un inutile aumento della spesa pubblica in ragione della liquidazione dei compensi, in genere posti a carico dello Stato con ammissione del minore al gratuito patrocinio. Per converso, sarà necessario procedere alla nomina sempre e ciò a pena di nullità del procedimento per difetto di contraddittorio, nei casi in cui le domande siano fondate e conducano ad una pronuncia di decadenza della responsabilità genitoriale.
Le prospettive di riforma, dunque, oggi al vaglio del parlamento ove è in discussione la legge delega per la riforma del processo civile (d.d.l. n. 1662/S/XVIII), hanno conferito all’istituto del curatore speciale del minore un veste nuova, di maggiore efficacia, competenza e garanzia di effettiva tutela dei diritti ed interessi della persona minore di età, supportata da un adeguato fondamento normativo necessario in ragione dei delicatissimi ambiti nei quali si troverebbe ad operare.
[1] art. 244 c.c., comma 6; art. 247 c.c., commi 2, 3 e 4; art. 248 c.c., commi 3 e 5; art. 249 c.c., commi 3 e 4; art. 264 c.c. Art. 250 comma 4 c.c., artt. 330 e 333 c.c.
[2] Cass. civ. 12.11.2018, n. 29001
[3] Cass. civ.6.3/.2018, n.5256; Corte cost. 1.2002
[4] Cass. civ. 25.1.2021, n. 1471
[5]Corte Cost., 11 marzo 2011 n. 83; Corte cost., ord., 10 novembre 2011, n. 301
[6] Cass. 24.5.2018 n. 12957; Tribunale Torino, 21/12/2018; Tribunale di Milano, 15/5/2014
[7] L’art. 2 precisa, infatti, che “è valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale e la responsabilità del medico”. Dalla disposizione emerge una sorta di “alleanza terapeutica” che deve caratterizzare il rapporto medico-paziente di cui sono, da una parte, soggetti attivi obbligati l’equipe sanitaria e la stessa struttura sanitaria, secondo un approccio organizzativo analogo a quello predisposto dalla legge 24/2017, e, dall’altra parte, soggetti destinatari dell’obbligo vale a dire il paziente e, solo qualora questi lo voglia, anche i familiari o una persona di fiducia incaricati di ricevere le relative informazioni.
[8] Dal libro “La Ballata di Adam Henry” di Ian McEwan da cui è tratto il film “Il Verdetto” di Richard Eyre.
[9] Il Giudice tutelare del Tribunale ordinario di Pavia, con ordinanza del 24 marzo 2018 ha sollevato la questione di costituzionalità degli artt. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n. 219, rigettata con sentenza della Corte Costituzionale del 13/06/2019, n. 144 in materia di amministrazione di sostegno.
[10] Commissione istituita con D.M. del 12.3.2021 presso l’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia.
[11] Si legga la relazione di accompagnamento alla proposta di modifica degli artt. 78 – 80 c.p.c.
L’intervento della Cassazione a Sezioni Unite n. 8500/2021 sui confini dell’applicazione del termine di decadenza dell’attività impositiva in presenza di oneri pluriennali
di Giuseppe Ingrao
Le Sezioni Unite intervengono sul problema della rettifica delle quote di ammortamento o dei ratei annuali relativi a beni durevoli o ad oneri pluriennali qualora sia ormai definitiva la dichiarazione relativa all’annualità di prima iscrizione in bilancio. La pronuncia, in modo del tutto prevedibile, sconfessa la tesi restrittiva sostenuta da Cassazione n. 9993/2018 e n. 2899/2019, legittimando la piena rettificabilità delle dichiarazioni di periodo, per ragioni attinenti sia al calcolo matematico di ripartizione dell’onere, sia all’esistenza ab origine dei presupposti di deducibilità.
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’ordinanza di rimessione n. 10701/2020. - 3. Le argomentazioni prospettate dalle Sezioni Unite. - 4. La questione della conservazione dei documenti contabili - 5. Conclusioni.
1. Premessa
La sentenza a Sezioni Unite della Cassazione 25 marzo 2021, n. 8500, risolve una questione molto delicata nel settore del diritto tributario specificamente riferito alla decadenza dell’azione impositiva prevista dall’art. 43, Dpr n. 600/73. La questione specifica riguarda l’applicabilità dell’istituto della decadenza qualora il reddito dichiarato compendi fatti economici a carattere pluriennale che si manifestano tramite la deduzione di quote di ammortamento o di ratei annuali. Si è, invero, affermata una possibile preclusione della rettifica delle quote annuali, qualora siano inutilmente decorsi i termini per l’esercizio del potere di accertamento relativamente all’annualità in cui è stata rilevata in bilancio la spesa da dedurre in modo frazionato nei periodi di imposta successivi ([1]).
Il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite è il seguente: “Nel caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni diverse dall’errato computo del singolo rateo dedotto e concernenti invece il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, ex art. 43 d.P.R. n. 600/1973, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente reddituale è indicato, non già in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio”.
Tale conclusione viene supportata da una moltitudine di argomentazioni giuridiche, tra cui un ruolo centrale assume l’affermazione (contenuta nel par. 4.5) secondo cui “la definitività, in conseguenza del mancato accertamento, della dichiarazione di prima emersione del componente pluriennale non porta in sé il diverso effetto della ‘preclusività’ di sindacato per un periodo di imposta successivo; anzi, per meglio dire, non produce proprio alcun effetto di accertamento, il quale può derivare solo dalla positiva rispondenza alla realtà di quanto dichiarato” ([2]).
2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n. 10701/2020
In termini provocatori, possiamo da subito evidenziare che il problema interpretativo su cui si è chiesto l’intervento delle Sezioni Unite non esisteva.
D’altra parte, ove ci fossero state forti criticità in merito all’applicazione dell’art. 43, Dpr n. 600/1973, in presenza di oneri pluriennali, queste sarebbero emerse già da qualche decennio vista la amplissima rilevanza concreta della questione.
Invero, prima delle sentenze della Cassazione del 2018 e 2019, il dibattito sulla possibilità per l’Ufficio di sindacare qualsiasi profilo attinente alla deducibilità delle quote di ammortamento o dei ratei annuali dei componenti reddituali a rilevanza pluriennale, anche se erano ormai decorsi i termini per accertare l’annualità nella quale le spese pluriennali erano state per la prima volta rilevate in bilancio e in dichiarazione, vi erano solo alcune pronunce contrastanti della giurisprudenza di merito ([3]). Il problema interpretativo è stato, quindi, creato proprio da questi due precedenti della Cassazione.
Le sentenze della Cassazione n. 9993/2018 e n. 2899/2019 hanno affermato che una interpretazione costituzionalmente orientata (art. 24 Cost.) delle norme sulla decadenza del potere impositivo esige che si tenga conto della pronuncia della Corte costituzionale n. 280/2005, secondo cui il contribuente non può essere esposto all’azione del Fisco per termini eccessivamente dilatati; pertanto, aderendo alla soluzione della possibilità di contestare un costo pluriennale o una quota di ammortamento oltre il termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo di imposta di concreto sostenimento della spesa si arriverebbe a violare il dictum della citata sentenza della Corte costituzionale, atteso che i presupposti per il diritto della deduzione nel suo complessivo valore (e non della singola quota) si realizzano appunto nel momento di acquisizione del bene o di sostenimento della spesa ad utilizzo pluriennale. Peraltro, si è rilevato che il principio di autonomia dell’obbligazione tributaria per singolo periodo di imposta non consente nuove ed autonome valutazioni tutte le volte in cui il presupposto per la deduzione di una spesa si rinnova annualmente in termini identici rispetto al passato, come dimostra quell’orientamento della giurisprudenza secondo cui è ammessa l’efficacia espansiva del giudicato su annualità diverse da quelle oggetto della decisione definitiva in relazione a situazioni geneticamente unitarie, destinate a ripercuotersi su annualità successive ([4]).
In questa cornice, la Cassazione ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, al fine di offrire un indirizzo certo, che potesse evitare di alimentare prevedibili futuri contenziosi.
L’ordinanza di rimessione sottopone ad una puntuale critica gli argomenti giuridici evocati dalle due citate sentenze per negare la possibilità di sindacare i ratei dell’onere pluriennale quali: a) il principio di autonomia dell’obbligazione tributaria, che ad avviso dei giudici opera solo sul piano sostanziale e non procedurale e come tale risulta inidoneo a risolvere la questione controversa; b) la regola dell’efficacia espansiva del giudicato esterno su fatti aventi efficacia permanente o pluriennale, ritenuta anch’essa estranea alla questione controversa perché l’inoppugnabilità di un componente reddituale conseguente a vaglio giudiziale consolidatosi nel giudicato è cosa diversa dall’inoppugnabilità della dichiarazione per effetto di mancato accertamento; c) il riferimento alla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 280/2005 in tema di apposizione di una termine di notifica alla cartella di pagamento, che - chiariscono i giudici - non è riferibile all’istituto della decadenza in generale, ma esclusivamente alla riscossione dei tributi.
Su un piano più generale, l’ordinanza precisa che l’amministrazione finanziaria ha il potere di contestare i bilanci di esercizio successivi rispetto a quello di prima imputazione della spesa, non manifestandosi alcun aspetto di consolidamento e che la tesi che consente di sindacare pienamente la deducibilità della quota di ammortamento o del rateo della spesa pluriennale non confligge con la tutela del contribuente al quale la legge consente di disfarsi della documentazione contabile relativa alla dichiarazione una volta decorsi i termini dell’accertamento e comunque decorsi dieci anni dalla formazione della stessa, perché “il regime dell’art. 22 andrebbe ricollegato a ciascuno dei successivi periodi di imposta nei quali il componente reddituale assuma rilievo, sicché per ognuno di tali periodi dovrebbe decorrere un nuovo termine dell’obbligo di conservazione documentale fino allo spirare del termine di decadenza dell’ultima dichiarazione rilevante”.
3. Le argomentazioni prospettate dalle Sezioni Unite n. 8500/2021
La sentenza a Sezioni Unite, nell’approcciarsi al problema interpretativo, ha ribadito la grande rilevanza della questione, segnalando che, oltre il problema della svalutazione dei crediti, investe questioni eterogenee quali le quote di ammortamento dei beni strumentali materiali e immateriali, la rateizzazione delle plusvalenze, i crediti di imposta di cui il contribuente può beneficiare in modo frazionato, nonché le perdite d’impresa. La questione - avvertono i giudici – impatta, peraltro, non solo sui soggetti Ires, ma anche sulle persone fisiche, con diluizioni che non sempre sono frutto di una pura ripartizione matematica, ma a volte presuppongono per ogni singola annualità una nuova valutazione che adegui la rata di competenza all’evolversi di situazioni fattuali considerate dalla legge come rilevanti. In ogni caso, i giudici ritengono di poter prospettare una soluzione unitaria.
La Corte innanzitutto richiama alcuni precedenti della Cassazione sulla questione controversa, dai quali si può in qualche modo ricavare la possibilità per l’Ufficio di contestare senza limiti i ratei di spesa pluriennale nel periodo di imposta di relativa imputazione. In dette pronunce si precisa che è una mera facoltà, e non un obbligo sancito da preclusione, quella di contestare la componente pluriennale sin dalla sua prima dichiarazione (anche quando dalla contestazione d’origine non possa scaturire alcuna immediata imposizione).
L’orientamento in questione muove dall’applicazione del principio di autonomia di ciascuna annualità, ma - rilevano le Sezioni Unite - questo principio viene utilizzato a volte per sostenere la distinta e piena potestà di accertamento su ogni singola annualità, a volte per la definitività e successiva immodificabilità di quanto inizialmente dichiarato ([5]). Pertanto, la sentenza n. 8500/2021 chiarisce che la novazione anno per anno dell’obbligazione tributaria incide in primo luogo sulla dichiarazione, nel senso che la mera indicazione di un fatto fiscalmente rilevante per quel periodo d’imposta non può di per sé esplicare alcun effetto preclusivo sulla contestazione di quel medesimo fatto qualora venga dichiarato ex novo in una dichiarazione di altra annualità. Il principio in questione rileva poi sull’accertamento nella misura in cui l’atto impositivo deve essere notificato a pena di decadenza entro i termini di cui all’art. 43, Dpr n. 600/73, che decorrono dalla presentazione della dichiarazione. Da quest’ultimo punto di vista - si sottolinea - la predetta norma non pone espressi limiti, e quindi, atteso che la decadenza è materia di stretta interpretazione, non è praticabile una lettura tale da ingenerare un’ipotesi di decadenza anticipata o ultrattiva a carico del Fisco, perché maturata a causa dello spirare del termine di accertamento relativo non alla dichiarazione oggetto di verifica, ma ad una precedente dichiarazione. Pertanto, l’accertamento si rinnova di anno in anno, anche con riguardo al fatto costitutivo dell’elemento pluriennale dedotto, e non solo guardando alla correttezza della singola quota annuale. La dichiarazione definitiva per mancato accertamento non esplica effetti preclusivi di sindacato per quelle componenti che si riproducono in anni successivi.
Dopo questo fondamentale inquadramento del problema, i giudici provvedono ad esaminare le due sentenze del 2018 e del 2019, che - come detto - hanno determinato l’emersione del dubbio interpretativo. Sul punto si nota che l’argomento dell’efficacia esterna del giudicato, che impedisce accertamenti successivi, non è dirimente, in quanto “la preclusione del giudicato tributario ultrannuale attiene al merito dell’imposizione, cioè alla sussistenza o insussistenza sostanziale dei suoi presupposti fattuali o di qualificazione giuridica, non già alla potestà impositiva dell’Ufficio, ostando infatti quel giudicato non all’accertamento in sé, ma ad un suo determinato esito sul fondo della pretesa”. Peraltro, come già rilevato dall’ordinanza di rimessione, si puntualizza che l’intangibilità della dichiarazione per semplice inerzia dell’amministrazione è cosa diversa da una sentenza passata in giudicato.
In merito all’argomento rappresentato dal richiamo al principio evocato dalla Corte costituzionale secondo cui il contribuente non può essere esposto all’azione del Fisco per termini eccessivamente dilatati (Corte cost. n. 280/2005), le Sezioni Unite ribadiscono la tesi dell’ordinanza di rimessione secondo cui il principio, peraltro forgiato in un’epoca in cui la fase di riscossione della notifica della cartella di pagamento non era soggetta a termini di decadenza, non può essere utilmente impiegato per l’accertamento. Ed infatti, quando un componente reddituale pluriennale viene riportato in dichiarazione ne vengono al contempo richiamati tutti i fatti presupposti e gli elementi costitutivi, e quindi non si tratta di attribuire all’amministrazione un potere di controllo per un tempo indeterminato così da violare quanto prescritto dal giudice delle leggi.
4. La questione della conservazione delle scritture contabili
Sin qui la ricostruzione delle Sezioni Unite è perfettamente in linea con quanto sostenuto dall’ordinanza di rimessione.
Vi è, però, un ulteriore aspetto sul quale la sentenza in rassegna, al pari del provvedimento di rimessione, poteva spendere qualche ulteriore riflessione. Ci riferiamo in particolare alla puntualizzazione delle differenze, nella prospettiva della conservazione dei documenti contabili probatori oltre il periodo decennale, delle ipotesi in cui: a) un elemento viene imputato esclusivamente nello stato patrimoniale del bilancio di un determinato periodo e si trasforma in modo graduato in componente reddituale degli esercizi successivi; b) un elemento viene imputato al conto economico del bilancio e gli effetti reddituali si esauriscono all’interno di quel singolo esercizio ([6]).
Le Sezioni Unite ribadiscono quanto asserito nell’ordinanza di rimessione secondo cui la circostanza che l’amministrazione contesti il fatto generatore e il presupposto costitutivo dell’elemento anche a molti anni di distanza dal suo insorgere potrebbe determinare la lesione di posizioni giuridiche tutelate in capo al contribuente, quali i profili dell’affidamento (art. 10 della legge n. 212/2000) e dei limiti all’obbligo di conservazione della documentazione probatoria (art. 2220 Cod. civ. e art 8, comma 5, legge n. 212/2000) relativa alle spese pluriennali.
In merito al profilo dell’affidamento, tuttavia, i giudici chiariscono che non può farsi rientrare la mera inerzia dell’amministrazione che sia incorsa in decadenza nell’accertare la dichiarazione nella quale è stato indicato per la prima volta il componente di reddito con valenza pluriennale. Dalla mancata sottoposizione a verifica di una annualità pregressa, il contribuente non può quindi trarre alcun convincimento tutelabile circa la correttezza della propria condotta e la legittimità dell’operato negli anni successivi ([7]).
Con riguardo al tema della conservazione della documentazione contabile, il supremo collegio richiama la previsione contenuta nell’art. 22, comma 2, del Dpr n. 600/1973, la quale dispone l’obbligo di conservazione delle scritture contabili fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 del codice civile o dalle altre leggi tributarie. Questa normativa - secondo i giudici - depone chiaramente che “è il regime di conservazione documentale, per la sua evidente finalizzazione e strumentalità, a doversi per forza adeguare alla disciplina dell’accertamento ed alla sua tempistica, non il contrario”. L’assenza di una lesione del diritto di difesa per la predetta correlazione servente tra conservazione dei documenti contabili e accertamento degli uffici impositori è stata accertata dalla Corte Costituzionale (sent. n. 247/2011) a proposito della normativa sul raddoppio dei termini per l’accertamento.
Le Sezioni Unite, peraltro, valorizzando il principio di reciproca collaborazione espresso dallo Statuto del contribuente, ritengono superabile quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, con riguardo alle ipotesi in cui un bene a fecondità ripetuta partecipa alla formazione del reddito per un periodo temporale superiore al decennio, secondo cui l’ultrattività dell’obbligo di conservazione della contabilità oltre il termine di cui all’art. 2220 cod. civ. opera solo se l’accertamento, iniziato entro il decimo anno, sia stato definito a tale scadenza, altrimenti il contribuente non avrebbe altra difesa che conservare le scritture sine die (Cass. n. 9834/2016). Secondo quest’ultimo orientamento, in sostanza, in caso di ammortamenti ultradecennali, l’amministrazione mantiene il potere di accertamento anche dopo il decennio dall’acquisto del bene, in merito alle residue quote di ammortamento imputate in bilancio e in dichiarazione, ma la prova del contribuente circa i valori imputati originariamente può essere fornite con altre modalità rispetto all’esibizione di documenti di spesa e delle scritture contabili ([8]).
Per le Sezioni Unite, invece, il contribuente è tenuto alla conservazione delle scritture contabili non sine die, ma fino allo spirare del termine di rettifica della dichiarazione nella quale viene fatto valere l’ultimo rateo annuale della spesa pluriennale, anche se la fattispecie di ammortamento sia ultradecennale. E ciò fermo restando che l’imprenditore, qualora sia legittimamente privato oltre il termine decennale della documentazione contabile, deve essere ammesso a fornire in altro modo la prova a suo carico.
Orbene, come detto, il tema della conservazione della documentazione contabile probatoria poteva essere ulteriormente approfondito, evidenziando la differenza sostanziale che vi è tra i casi in cui l’elemento patrimoniale dell’attivo o del passivo si trasforma in modo graduato in elemento reddituale degli esercizi successivi, dall’ipotesi di elementi reddituali che si esauriscono puntualmente all’interno di un esercizio. Muovendo dalla circostanza che la conservazione dei documenti relativi alle spese pluriennali, ed in generale alle poste che confluiscono nello stato patrimoniale del bilancio, è innanzitutto una esigenza dell’azienda, posto che la determinazione del reddito di esercizio deriva anche dalla considerazione di eventi realizzati in periodi molto risalenti nel tempo, si sarebbe dovuto rimarcare che la questione del mancato rispetto delle norme civilistiche e fiscali in materia e la conseguente limitazione del diritto di difesa è destinato tendenzialmente a sfumare. Nel caso, invece, di spese afferenti esclusivamente ad un esercizio, che affluiscono direttamente nel conto economico di uno specifico anno e giammai si ripresentano in anni successivi, andava notato che non emerge né un esigenza sul piano gestionale, né un obbligo sul piano giuridico, di conservazione oltre i termini decennali civilistici ovvero di quelli previsti per l’accertamento tributario; pertanto, decorsi tali termini né l’azienda, né il Fisco hanno più interesse alla conservazione della documentazione probatoria contabile.
In definitiva, la conservazione della documentazione contabile ([9]) per un lungo periodo temporale in alcuni casi, come per gli oneri pluriennali, o anche per i componenti positivi di reddito ripartiti in più esercizi (es. rateizzazione quinquennale delle plusvalenze da cessione di azienda o di beni strumentali) è del tutto fisiologica.
D’altra parte, nemmeno le sentenze della Cassazione del 2018 e del 2019 hanno affermato che una volta decorsi i termini dell’accertamento relativi alla dichiarazione tributaria corrispondente al periodo di prima iscrizione in bilancio del bene durevole, il contribuente può disfarsi della documentazione probatoria contabile relativa al suo acquisto, solo perché le successive quote annuali di ammortamento non possono più essere rettificate dall’Ufficio impositore.
Ed invero - dobbiamo sottolineare – che, non conservando le scritture contabili, qualora l’impresa decidesse di vendere il bene, non potrebbe quantificare (e provare) il valore iniziale del bene ai fini del calcolo della plusvalenza o della minusvalenza. In altri termini, finché vi è un costo o un valore da “spendere” per abbattere materia imponibile che potrebbe emergere in futuro, il documento probatorio, a prescindere da quanti anni sono decorsi dalla sua formazione, va conservato fintato che non si esaurisce il potere di accertamento relativo all’annualità in cui l’elemento in questione assume concreta rilevanza ([10]).
Questa considerazione, che risponde ad una logica di esperienza comune, dovrebbe di per sé indurre a ritenere poco sostenibile l’argomentazione per cui la conservazione della documentazione contabile per un periodo “allargato” rispetto ai termini previsti in linea generale dal codice civile o dalla legislazione tributaria rappresenti sempre e comunque una condotta inesigibile. E ciò fermo restando che in tutte quelle ipotesi in cui emerge una situazione di buona fede in merito alla mancata detenzione delle scritture contabili, il contribuente che subisce la rettifica deve essere ammesso a fornire la prova circa la correttezza fiscale del proprio operato con altri mezzi probatori, come nel caso in cui i beni durevoli provengano da operazioni di conferimento di società o da altre operazioni straordinarie per cui vige il principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti.
5. Conclusioni
In conclusione, muovendo dalla circostanza che gli artt. 38 e 39 del Dpr n. 600/1973 non pongono limiti al contenuto delle rettifiche che gli Uffici possono apportare alla dichiarazione di periodo ([11]) e che l’art. 43 del medesimo decreto non lascia spazio a interpretazioni restrittive sui termini quinquennali di decadenza di notifica dell’atto impositivo, possiamo affermare che in merito al problema della rettifica dei ratei di oneri pluriennali, sia l’ordinanza di rimessione, sia la sentenza a Sezioni Unite sembrano disperdersi sulla ricostruzione di profili che non rivestono centralità rispetto al cuore del problema che, a nostro avviso, è quello della conservazione della documentazione probatoria contabile che ha dato origine al valore iscritto nel bilancio.
Era cioè necessario incentrare la motivazione sul fatto che qualora una spesa per l’acquisto di un bene durevole venga imputata nell’attivo patrimoniale, o qualora un elemento del passivo del bilancio sia in grado di ripercuotersi anche solo potenzialmente negli esercizi successivi, occorre sempre conservare la documentazione probatoria, anche oltre il decennio. Diversamente, per le spese che si esauriscono nell’esercizio, la conservazione è limitata al periodo di decorrenza dei termini per l’accertamento.
Invero, la conservazione dei documenti di spesa, prima che essere un obbligo giuridico, è una esigenza dell’azienda, posto che la determinazione del reddito di impresa deriva anche dalla considerazione di eventi realizzati in esercizi molto risalenti nel tempo.
Vi è poi da considerare che l’art. 110, comma 8, TUIR, in caso di constatazione di una deduzione anticipata di una spesa pluriennale (cioè di un errore nel piano di ammortamento), obbliga il Fisco a rettificare in melius anche le dichiarazioni degli esercizi successivi, evitando così che si possa alterare la considerazione unitaria del tributo e garantendo la continuità dei valori di bilancio ([12]). Anche da questo punto di vista, quindi, sembra ragionevole la tesi abbracciata dalle Sezioni Unite con specifico riguardo alle spese pluriennali.
Mettendo da parte il profilo giuridico della vicenda, non dobbiamo trascurare che l’esigenza di verificare prontamente la sussistenza dei presupposti per la deducibilità dell’onere pluriennale nel periodo di prima iscrizione in bilancio e in dichiarazione dovrebbe ricondursi non tanto al contribuente (che ha necessità di stabilizzare il rapporto fiscale e comunque di difendersi in modo più agevole), ma soprattutto al Fisco, il cui interesse è quello di acquisire il tributo corrispondente all’esatta fattispecie imponibile realizzata. Agire tardivamente vuol significare perdere la possibilità di rettificare i primi ratei della spesa pluriennale ([13]). Ma come è noto non vi sono le capacità operative degli Uffici di controllare tutti i soggetti titolari di partita Iva ([14]), i quali quasi sempre dichiarano elementi di carattere pluriennale.
Va ancora notato che la tesi sostenuta delle sentenze del 2018 e del 2019 non tiene conto del fatto che, a prescindere dalla decadenza, il contribuente potrebbe scegliere di non dedurre la quota della spesa relativa all’anno di prima iscrizione in bilancio (tramite una variazione in aumento in dichiarazione), facendo sì che il Fisco per quell’anno non possa rettificare la dichiarazione, pur ritenendo quella spesa pluriennale indeducibile. Questa condotta, ove si ritenesse che la mancata rettifica della dichiarazione abbia effetti preclusivi per le quote imputate e dedotte negli anni successive, potrebbe consentire al contribuente di beneficiare di deduzioni dal reddito di impresa in mancanza dei presupposti.
[1] Cfr. CASTALDI L., Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi e ai termini decadenziali di accertamento, in Riv. trim. dir. trib., 2019, p. 194 e ss., la quale sostiene che la tesi restrittiva, che fa leva sul criterio dell’autonomia dei periodi di imposta, risponde all’esigenza di salvaguardia della stabilità nel tempo di quei profili dell’obbligazione tributaria destinati a spiegare i loro effetti conformanti anche in periodi impositivi successivi a quelli di loro emergenza rispetto al quale sono rimasti incontestati; PEDROTTI F., Considerazioni intorno alla decadenza dal potere di accertamento in caso di componenti reddituali ad efficacia pluriennale, in Riv. dir. trib., 2021, II, p.53 e ss. L’autore ritiene che non giustificabile, alla luce del precetto costituzionale di uguaglianza, “la circostanza per cui il termine di decadenza relativo al controllo fiscale in merito al presupposto reddituale dichiarato dal contribuente possa essere diverso a seconda che il reddito di impresa comprenda componenti negativi concorrenti a formare la base imponibile in un unico periodo di imposta, ovvero componenti negativi deducibili in più periodi di imposta”.
In senso contrario cfr. SCHIAVOLIN R., Termini di decadenza per l’accertamento relativo a costi pluriennali: una sentenza opinabilmente garantista, in Riv. dir. trib., 2018, II, p. 280 e ss.
[2] La centralità di questa affermazione nel ragionamento della Corte è evidenziata da FRANSONI G., Le Sezioni Unite e la decadenza: una sentenza che farà danni, in Fransoni.it, 2021, il quale avverte che l’unico dato difficilmente controvertibile è che la decadenza appartenga alla categoria degli effetti preclusivi e che la preclusività è una vicenda stabilizzante: l’ordinamento valuta che, da un certo punto in poi, il costo sociale della verità sia maggiore dei suoi vantaggi.
[3] Si veda CTR Milano, 21 ottobre 2014, n. 5447; CTR Milano, 11 giugno 2015, n. 2597.
[4] Cfr. FERRANTI G., I costi pluriennali vanno contestati nell’anno in cui sono sostenuti, in, Corr. trib., 2018, p. 1927.
[5] Cfr. CASTALDI L., Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi, cit., p. 204, la quale evidenzia che la scelta legislativa di attribuire valenza decadenziale ai termini di accertamento si spiega con l’intento di preservare l’autonomia dei periodi di imposta, con ciò intendendo riferirsi all’effetto della immutabilità/insindacabilità successiva, e dunque di definitiva cristallizzazione della rappresentazione del modo di essere dell’obbligazione anche per quanto attiene ai profili di essa destinati a rilevare negli esercizi successivi.
[6] Sul tema della trasmissione fiscale dei valori nel tempo cfr. LUPI R. - CROVATO F., Il reddito d’impresa, Milano, 2002, p. 239.
[7] Questa affermazione andrebbe meglio precisata perché non vi è un automatismo tra lo svolgimento di una verifica senza rilievi e l’insorgenza di un affidamento del contribuente. Sussistono, invero, frequenti ipotesi in cui un imprenditore subisce un controllo generale, ma nulla gli viene contestato in merito alla deducibilità della spesa pluriennale. L’affidamento si forma certamente se dai verbali di verifica risulta uno specifico esame della sussistenza dei presupposti per la deducibilità della spesa. Qualora, invece, manchi un riferimento all’analisi dei presupposti di deducibilità dell’onere pluriennale, l’insorgenza dell’affidamento è subordinata alla dimostrazione del fatto che il verificatore, usando l’ordinaria diligenza ed in relazione alla dimensione quantitativa della spesa pluriennale, avrebbe dovuto accorgersi dell’esistenza di una violazione delle regole tributarie.
[8] Sul tema cfr. TRIVELLIN M., Il principio di collaborazione e buona fede nel rapporto tributario, Padova, 2008.
[9] Che non si esaurisce nelle fatture, ma include contratti, commesse, corrispondenza, etc.
[10] Non è infatti immaginabile un accertamento finalizzato alla mera riduzione del valore fiscale di un bene patrimoniale in vista di una futura ed eventuale incidenza sulla determinazione del reddito.
[11] Cfr. sul punto, con riguardo al tema della possibilità di notifica di un accertamento con cui si rettificano in diminuzione le perdite, FRANSONI G., Giudicato tributario e amministrazione finanziaria, Milano 2001, p. 308.
[12] Cfr. FICARI V., Reddito di impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, p. 207; NUSSI M., L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, p. 87; FRANSONI G., Giudicato tributario e amministrazione finanziaria, cit., p. 312.
[13] Nel caso di specie è stata persa la possibilità di riscuotere il maggior tributo conseguente al recupero della svalutazione dell’anno 2003.
[14] Le verifiche riguardano mediamente il 5% dei soggetti interessati.
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