ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’accesso civico e la reinterpretazione della trasparenza amministrativa. La funzionalizzazione dell’interesse conoscitivo e il suo ‘affievolimento’ (nota a Cons. St., sez. III, sent. non definitiva 10 giugno 2022, n. 4735)
di Flavio Valerio Virzì
Sommario: 1. Introduzione - 2. L’accesso civico generalizzato alla prova di alcune prassi interpretative - 2.1. La funzionalizzazione dell’interesse conoscitivo - 2.2. …il suo ‘affievolimento’ - 3. Il tentativo di reinterpretazione dell’accesso civico semplice - 3.1. La sentenza del TAR Lazio - 3.2 La sentenza del Consiglio di Stato - 4. Conclusioni.
1. Introduzione
La vicenda giuridica da cui scaturisce la sentenza in commento trae origine dal diniego opposto dal Ministero dell’interno all’istanza di accesso civico a un accordo di cooperazione, concluso tra Italia e Gambia nel 2010, e al Memorandum of Understanding, sottoscritto dalle stesse parti nel 2015. Tale istanza era stata presentata assumendo che si trattasse di documenti soggetti a pubblicazione obbligatoria, presupposto che però era stato ritenuto insussistente dal Ministero, nonché dal Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, intervenuto in sede di riesame ([1]).
L’accesso ai documenti rappresenta l’istituto d’elezione per l’attuazione del principio di trasparenza amministrativa ([2]); nelle sue diverse forme esso conferisce a tale principio funzioni di volta in volta diverse, che vanno dal rafforzamento dei diritti di partecipazione nel procedimento e di difesa nel processo, al rafforzamento del controllo democratico, al contrasto della corruzione ([3]). L’accesso civico, com’è noto, è disciplinato dal d.lgs. n. 33 del 2013, contenente il Testo unico sulla trasparenza, che finalizza il principio di trasparenza verso «forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche», prevedendo, all’art. 5, comma 1, l’accesso civico semplice, che consente «a chiunque» e senza alcuna limitazione di accedere ai documenti e ai dati oggetto di un obbligo di pubblicazione, al comma 2, l’accesso civico generalizzato, che consente invece di accedere ai documenti e ai dati ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ([4]). Tale ultima forma di accesso, introdotta dal d.lgs. n. 97 del 2016, è stata ispirata al Freedom of Information Act (FOIA), già da tempo vigente nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea e della gran parte degli altri Stati membri, oltre che degli Stati Uniti, dando ingresso a un vero e proprio diritto alla conoscibilità (right to know), il cui esercizio però non è illimitato ([5]).
La relativa istanza, infatti, può essere denegata, ai sensi dell’art. 5-bis, al ricorrere di un’eccezione “relativa”, correlata alla valutazione di un interesse pubblico o privato alla riservatezza, legislativamente individuato, ovvero al ricorrere di un’eccezione “assoluta”, correlata alla sussistenza di un segreto di Stato o di un altro divieto di accesso o di divulgazione previsto dalla legge ([6]).
L’intervento di riforma è stato accolto non senza riserve da una parte della scienza giuridica ([7]). Alcuni studiosi rimproverano allo stesso di aver puntato su una forma di accesso non del tutto effettiva, soprattutto in ragione della formulazione eccessivamente vaga e generica delle numerose limitazioni legislativamente previste. Altri, pur apprezzando l’importante passo in avanti compiuto, auspicano interventi correttivi, al fine di superare prassi interpretative che riducono l’effettività del nuovo diritto ([8]). Quella in base alla quale lo stesso incontrerebbe dei limiti di tipo soggettivo, desumibili dalla sua funzionalizzazione a un interesse pubblico alla conoscibilità. Quella in base alla quale i limiti di tipo oggettivo determinerebbero un ‘affievolimento’ di detto interesse ogni volta in cui vi sia esposizione a pregiudizio per l’interesse pubblico alla segretezza o per l’interesse privato alla riservatezza ([9]).
La sentenza in commento, tuttavia, sembrerebbe avvalorare posizioni più caute in merito alla portata del d.lgs. n. 97. Essa, infatti, pur vertendo sull’accesso civico semplice, consente di pervenire a conclusioni che, a maggior ragione, possono valere per l’accesso civico generalizzato: il fatto che il Ministero dell’interno, dinanzi a un’istanza poco gradita, estenda alla prima forma di accesso gli stessi limiti soggettivi e oggettivi finora sperimentati per la seconda, per un verso, conferma che la funzionalizzazione e l’affievolimento dell’interesse conoscitivo non vanno imputate alla volontà legislativa o alle lacune del testo di legge del 2016, ma a interpretazioni distorsive, per altro verso, informa del rischio che eventuali interventi correttivi restino esposti allo stesso tipo di interpretazioni, che sottendono una certa riluttanza a una piena adesione alla cultura della trasparenza.
2. L’accesso civico generalizzato alla prova di alcune prassi interpretative
La vicenda giuridica in commento, si diceva, trae origine dal diniego opposto dal Ministero dell’interno a un’istanza di accesso civico, avente a oggetto un accordo di cooperazione concluso tra Italia e Gambia in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare. Tale istanza, occorre ora precisare, era stata presentata ai sensi dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 33, e solo limitatamente all’ostensione di alcune parti dell’accordo, ai sensi del comma 2. L’opzione tra l’accesso civico semplice e generalizzato, operata dall’istante, rappresenta il primo aspetto saliente della vicenda, poiché, sottendendo una precisa valutazione in ordine alle possibilità di ottenere i documenti menzionati, sembrerebbe avvalorare le riserve manifestate nei confronti del FOIA. Il ricorso all’accesso civico generalizzato, infatti, è stato osteggiato in alcune vicende assimilabili e ciò potrebbe aver scoraggiato il ricorso allo stesso da parte dell’amministrato: viene in rilievo la sentenza del Consiglio di Stato n. 1121 del 2020, che, oltre a essere stata resa nei confronti della stessa ricorrente, è accomunata a quella qui in commento per l’oggetto dell’istanza di accesso (il contenuto di accordi conclusi con Paesi terzi) per gli interessi coinvolti (l’interesse alla conoscibilità dei documenti concernenti la politica di contrasto dell’immigrazione irregolare e l’interesse alla riservatezza a tutela delle relazioni internazionali coinvolte in detta politica) nonché per aver legittimato quelle prassi interpretative che fondano le tesi sulla funzionalizzazione e sull’affievolimento alle quali si è accennato. Ma queste ultime trovano riscontro nella volontà legislativa e nel dettato legale? ([10]).
2.1. La funzionalizzazione dell’interesse conoscitivo
Le prassi sopra descritte, è necessario sin d’ora segnalare, originano tutte dalla tendenza di una parte dell’amministrazione a valorizzare, sia pure, per così dire, al rovescio, la ratio delle previsioni contenute all’interno del l. n. 241 del 1990 per l’interpretazione del d.lgs. n. 33 del 2013. Così, se quella impone di opporre diniego alle istanze di accesso documentale funzionali a un controllo generalizzato sull’azione amministrativa, questa impone di denegare istanze di accesso civico, che, al contrario, non siano finalizzate a un controllo di tal tipo. Se quella prefigura per l’amministrato un interesse all’accesso in grado di far fronte agli interessi alla riservatezza contrapposti, questa non può che configurare un interesse conoscitivo, che, dinanzi alle esigenze di riservatezza, tende ad affievolire ([11]).
Le tesi della funzionalizzazione e dell’affievolimento, segnatamente, vengono giustificate, oltre che facendo leva sul dettato legale, proprio sull’esigenza di risolvere il problematico rapporto tra accesso documentale e accesso civico, come declinato nella formula stereotipata della «diversa profondità ed estensione» dei due istituti ([12]). Tale formula, non a caso, ricorre anche all’interno della sentenza del Cons. St. 2020/1121, in cui si afferma che la fondamentale differenza tra accesso documentale ed accesso civico consiste in ciò, «il primo consente […] un’ostensione più approfondita, in ragione della sua strutturale correlazione con un interesse privato del richiedente (generalmente a fini difensivi)»; il secondo invece «è funzionale ad un controllo diffuso del cittadino, al fine specifico, da un lato, di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa per l’ipotesi in cui non siano stati compiutamente rispettati gli obblighi al riguardo già posti all’amministrazione da una norma di legge, nonché – dall’altro – per operare un più incisivo e preventivo contrasto alla corruzione»; questo, in quanto tale, «consente sì una conoscenza potenzialmente più estesa rispetto a quella accordata dalla l. n. 241 del 1990 ai soggetti privati per la tutela dei propri interessi, ma d’altro canto meno approfondita, in quanto concretamente si traduce nel diritto ad un’ampia diffusione di dati, documenti ed informazioni, fermi però ed in ogni caso i limiti posti dalla legge a salvaguardia di determinati interessi pubblici e privati che in tali condizioni potrebbero essere messi in pericolo» ([13]).
La tesi della funzionalizzazione è stata fondata sul testo dell’art. 5, comma 1, specificamente nella parte in cui fa riferimento allo «scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico» ([14]). Tale riferimento, infatti, è stato sfruttato per giustificare la verifica sull’effettiva rispondenza dell’istanza di accesso generalizzato alle finalità legislativamente prescritte e, conseguentemente, l’eventuale diniego di accesso nei confronti di chi intende far valere un interesse di tipo ‘egoistico’ ([15]).
La tesi riportata è stata condivisa, di nuovo, nella sentenza del Consiglio di Stato n. 2020/1121. Il giudice, in tale occasione, rammentato che «uno solo è il presupposto imprescindibile di ammissibilità dell’istanza di accesso civico generalizzato, ossia la sua strumentalità alla tutela di un interesse generale» e che tale istanza dev’essere «disattesa ove tale interesse generale della collettività non emerga in modo evidente, oltre che, a maggior ragione, nel caso in cui la stessa sia stata proposta per finalità di carattere privato ed individuale», aveva ribaltato le conclusioni del TAR, che aveva ritenuto illegittimo il diniego, opposto dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, all’istanza di accesso a documenti contenenti informazioni su talune operazioni di Search and Rescue. Il collegio, infatti, aveva ritenuto non fosse dato ravvisare nella stessa «gli specifici interessi generali – ossia, direttamente riferibili alla comunità dei cittadini o ad una parte significativa di essi – alla cui promozione e tutela sarebbero state preordinate le istanze medesime», arrivando, per tale via, a negare ciò che pure era stato conclamato nella sentenza di primo grado, vale a dire, che l’interesse generale all’accesso ai documenti sulle operazioni di ricerca e salvataggio in mare dei migranti, può essere di per sé rinvenuto nell’indubbio rilievo civico e nell’ampio risalto sociale del fenomeno migratorio ([16]).
La funzionalizzazione, nella prospettiva esposta, deriverebbe dalla previsione legislativa. Tuttavia, se è vero che il legislatore all’interno del comma 2 fa espresso riferimento alla funzione propria dell’accesso civico generalizzato, è altrettanto vero che lo stesso legislatore all’interno del comma 3 si preoccupa di specificare che la presentazione dell’istanza non può essere sottoposta «ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente», ma anche di far venir meno le condizioni per un’eventuale verifica sul rispetto di dette finalità, affermando che tale istanza «non richiede motivazione» ([17]).
I due commi, pertanto, andrebbero letti coordinatamente, in maniera tale da conciliare la prospettiva solidaristica dell’uno con la prospettiva individualistica dell’altro: le istanze di accesso potranno pure essere poste a presidio delle garanzie democratiche, ma di detta funzione – come precisato dal legislatore – non deve farsi carico il singolo istante, poiché ciò sarà il fine ultimo cui l’ordinamento vuole tendere attraverso la sommatoria di molteplici condotte individuali. Tale lettura è stata condivisa anche dalla Adunanza plenaria nella sentenza 10/2020, secondo cui il riferimento legislativo alla necessità di favorire forme diffuse di controllo sull’azione dell’amministrazione varrebbe a evidenziare la volontà di superare il limite funzionalistico previsto per l’accesso documentale e non a sottoporre a verifica le finalità per cui viene richiesto l’accesso civico generalizzato. Essa, pur definendo tale ultimo accesso come «dichiaratamente finalizzato a garantire il controllo democratico sull’attività amministrativa», rinviene sotteso allo stesso «un interesse individuale alla conoscenza […] protetto in sé» ed esorta a non confondere «la ratio dell’istituto con l’interesse del richiedente, che non necessariamente deve essere altruistico o sociale né deve sottostare ad un giudizio di meritevolezza, per quanto […] certamente non deve essere pretestuoso o contrario a buona fede» ([18]).
2.2. …il suo ‘affievolimento’ ([19])
La tesi dell’affievolimento, fondata sull’art. 5-bis, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 33, si manifesta sotto un duplice e diverso profilo ([20]). Il primo inerisce all’opzione tra l’harm test e il public interest o public interest ovveride test, da effettuarsi in vista dell’eventuale diniego di accesso ([21]). L’amministrazione, infatti, tende a rappresentare l’interesse alla conoscibilità dell’amministrato come necessariamente recessivo dinanzi alla valutazione sull’esposizione a pregiudizio concreto dell’interesse pubblico o privato alla riservatezza, escludendo di dover dare luogo a un bilanciamento. Il secondo inerisce proprio a tale valutazione. L’amministrazione tende a ritenere l’interesse alla conoscibilità recessivo dinanzi all’interesse alla riservatezza, a prescindere dalla sua esposizione a un pregiudizio concreto ([22]).
La tesi, in entrambi i suoi profili, viene anch’essa condivisa nella sentenza n. 1121 del Consiglio di Stato, che, riconosciuto al diniego di accesso civico natura «eminentemente discrezionale, che non di rado può involgere […] insindacabile merito politico», circoscrive il suo sindacato alla mera «logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria», salvo poi rinunciare di fatto persino allo stesso ([23]). Il collegio, infatti, ritiene «adeguatamente motivata e coerente con l’assolvimento delle loro funzioni istituzionali» la motivazione con cui il Ministero, senza preoccuparsi di attribuire rilievo all’interesse alla conoscibilità, si limita a valutare l’esposizione a pregiudizio dell’interesse pubblico alla riservatezza, reputando sufficiente l’apodittica affermazione per cui «l'eventuale accesso alle comunicazioni/documentazioni relative agli eventi SAR di cui trattasi, comporterebbe un pregiudizio concreto ai rapporti che intercorrono tra Stati ed alle relazioni tra soggetti internazionali, in particolare con il Governo libico e quello maltese» ([24]). Lo scostamento rispetto alla sentenza del TAR Lazio è evidente. Il giudice di primo grado, infatti, si era fatto apprezzare proprio per aver spostato l’attenzione sull’interesse alla conoscibilità, prospettando un vero e proprio bilanciamento con il contrapposto interesse alla riservatezza: per esso, «L’importanza e la frequenza delle operazioni [di salvataggio in mare], nonché la natura dei diritti fondamentali coinvolti non possono risultare esclusi dall’attuazione del principio di trasparenza, come concepito e disciplinato dalla normativa vigente»; l’istanza di accesso, pertanto, può pure porre ragioni di ordine pubblico, difesa militare o repressione di reati, ma «l’eventuale concorso di fattori, meritevoli di riservatezza» non possono di per sé «soverchiare totalmente il principio di trasparenza, in un settore di indubbio rilievo civico e ampio risalto, peraltro, anche nei mass-media» ([25]).
Ma la tesi dell’affievolimento trova veramente riscontro nel testo legislativo? L’art. 5-bis, in effetti, sembrerebbe avvalorare l’harm test, per la mancanza nel dettato legale della clausola tipica del public interest test, esemplificata nella formula europea «a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione» ([26]). Tale previsione, tuttavia, nel disporre che l’accesso civico «è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto», sembrerebbe introitare un principio di proporzionalità, la cui applicazione logicamente presuppone un balancing test, da intendersi rettamente, non già nel senso che l’interesse all’accesso possa prevalere dinanzi all’interesse alla riservatezza, bensì nel senso – proprio della «regola del mezzo più mite» – che il primo interesse non debba soccombere del tutto allorché non sia strettamente necessario per evitare un pregiudizio al secondo, ciò che, peraltro, trova riscontro nella definizione dell’accesso parziale e dell’accesso differito, di cui ai commi successivi ([27]). Essa, soprattutto, non depone in alcun modo nel senso di far ritenere l’interesse all’accesso come recessivo dinanzi all’astratta prospettazione di un interesse alla riservatezza; in disparte l’insinuazione di chi ritiene che l’affievolimento deriverebbe di per sé dalla sua formulazione, per prevedere essa un’elencazione di interessi-limite eccessivamente vaga e generica, apparendo invece tale elencazione perfettamente in linea con i FOIA europei e internazionali, occorre sottolineare che la stessa attribuisce rilievo all’interesse alla riservatezza non già di per sé, ma in ordine al pregiudizio «concreto» che a esso ne potrebbe derivare ([28]).
L’Adunanza Plenaria sembrerebbe dello stesso avviso. Il collegio, infatti, soffermandosi sul «delicato bilanciamento tra il valore, fondamentale, dell’accesso e quello, altrettanto fondamentale, della riservatezza» afferma che «la circostanza che l’accesso possa prevedibilmente soccombere di fronte alle ragioni normativamente connesse alla riservatezza dei dati dei concorrenti non può condurre a un’aprioristica esclusione dell’accesso». Esso, soprattutto, sia pure sovrapponendo i termini dei due test descritti, conferma che «Tutte le eccezioni relative all’accesso civico generalizzato implicano e richiedono un bilanciamento da parte della pubblica amministrazione, in concreto, tra l’interesse pubblico alla conoscibilità e il danno all’interesse-limite, pubblico o privato, alla segretezza e/o alla riservatezza, secondo i criteri utilizzati anche in altri ordinamenti, quali il cd. test del danno (harm test) […] o il c.d. public interest test o public interest override […], in base al quale occorre valutare se sussista un interesse pubblico al rilascio delle informazioni richieste rispetto al pregiudizio per l’interesse-limite contrapposto»; per poi specificare che tale valutazione debba essere svolta di volta in volta sulla base del principio di proporzionalità ([29]).
Le considerazioni che precedono inducono a ritenere che le interpretazioni che fondano la funzionalizzazione e l’affievolimento dell’interesse conoscitivo vanno non già imputate alla volontà legislativa o alla scarsa perspicuità del dettato legale, bensì addebitate a una deliberata scelta dell’interprete e a una certa riluttanza da parte dello stesso ad aderire alla cultura della trasparenza. Tanto pare a maggior ragione avvalorato dalla vicenda da cui origina la sentenza in commento, su cui occorre ora tornare.
3. Il tentativo di reinterpretazione dell’accesso civico semplice
L’opzione per l’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33, da parte dell’istante, non vale a evitare gli atteggiamenti ostruzionistici del Ministero, che tenta di riparare in un’operazione interpretativa inedita, volta a estendere gli stessi limiti soggettivi e oggettivi sperimentati nell’ambito del comma successivo.
L’istante, segnatamente, si rivolgeva al Ministero, assumendo che l’accordo di cooperazione dovesse considerarsi oggetto di un obbligo di pubblicazione ai sensi dell’art. 4 della l. n. 839 del 1984, che pone in capo al Ministero degli affari esteri, Servizio del contenzioso diplomatico, trattati e affari legislativi, l’onere di trasmettere tutti gli atti internazionali cui la Repubblica italiana si obbliga nelle relazioni estere, ivi compresi i trattati, le convenzioni, lo scambio di note, gli accordi e gli altri atti diversamente denominati, per la loro pubblicazione trimestrale. Il Dipartimento della pubblica sicurezza – Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere, tuttavia, rifiutava di esibire i menzionati documenti, giustificando la propria determinazione in ragione della carenza di un interesse pubblico all’accesso e della prevalenza dell’interesse alla riservatezza, derivante dalla necessità di evitare un pregiudizio alla sicurezza pubblica e all’ordine pubblico, nonché alle relazioni internazionali. Esso, in altre parole, giustificava il proprio rifiuto facendo leva proprio sulla tesi della funzionalizzazione e dell’affievolimento dell’interesse conoscitivo, ai sensi dell’art. 5-bis.
Tali tesi neppure stavolta trovano riscontro, eppure, come si sta per vedere, vengono condivise in sede giurisdizionale.
3.1. La sentenza del TAR Lazio
Il TAR Lazio, il cui intervento viene sollecitato dall’istante, infatti, considera sufficientemente motivato il rifiuto del Ministero dell’interno e lo fa rinviando proprio alla sentenza n. 1121/2020, dalle cui statuizioni il collegio «non ravvede ragioni per discostarsi»; ragioni, che, però, a uno sguardo più attento, avrebbero potuto agevolmente essere rintracciate nella diversa causa petendi, l’illegittimità del diniego di accesso civico semplice qui, l’illegittimità del diniego di accesso civico generalizzato lì ([30]).
Quanto alla tesi della funzionalizzazione, innanzitutto, il TAR, assumendo che l’istanza debba essere finalizzata alla tutela di un interesse pubblico, conclude nel senso della mancanza di tale carattere: «L’interesse della ricorrente è – per sua stessa ammissione – un interesse legato alla sua attività professionale di difensore di cittadini gambiani trattenuti presso di centri di rimpatrio. Pertanto, non si ravvisa – né è stato allegato – un interesse proprio della generalità dei cittadini al riguardo». Esso, tuttavia, così argomentando, commette tre errori contemporaneamente, trascurando, in primo luogo, che il dettato dell’art. 5, comma 1, appare chiaro nel correlare all’obbligo di pubblicare i documenti e i dati previsti dalla normativa vigente, il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, allorché sia stata omessa la loro pubblicazione; in secondo luogo, che la giurisprudenza menzionata si è formata con specifico ed esclusivo riferimento all’art. 5, comma 2; quindi, che detta giurisprudenza deve ritenersi comunque inammissibile, tanto più che, come detto, l’art. 5, comma 3, prevede che «L'esercizio del diritto di cui ai commi 1 e 2 non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente» e che l’istanza di accesso civico «non richiede motivazione» ([31]).
Quanto alla tesi dell’affievolimento, invece, occorre osservare che il TAR, anziché verificare la riferibilità dei documenti oggetto dell’istanza agli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 4 della l. n. 839 del 1984, al fine di stabilire la sussistenza o meno del diritto di richiedere gli stessi, si sofferma sui limiti che a tale diritto deriverebbero dall’art. 5-bis, comma 1, lett. a) e d), nonché dall’art. 24, comma 2, l. n. 241 del 1990 e dagli artt. 2, comma 1, lett. a), b) e 3, comma 1, lett. a) e d), del D.M. 415/94, peraltro, senza preoccuparsi di attribuire rilievo all’interesse alla conoscibilità e ritenendo sufficiente una motivazione superficiale, in cui il pregiudizio all’interesse pubblico alla riservatezza, per come prospettato, appare tutt’altro che concreto. La premessa del suo ragionamento è che «l’articolo 5-bis, comma primo del d.lgs. n. 33 del 2013, […] il legislatore individua una serie di interessi – di rilievo costituzionale – la cui tutela è imprescindibile per la funzionalità dell’apparato dello Stato, in quanto attenenti all’essenza stessa della sua sovranità (interna ed internazionale)» e che «la valutazione che l’Amministrazione è tenuta a fare sulla prevalenza di tali interessi rispetto all’interesse all’accesso, ha natura discrezionale e come tale è sindacabile solo ove manifestamente illogico o irragionevole, affetto da difetto di istruttoria o travisamento». La conclusione è che il diniego risulta adeguatamente motivato, rappresentando la circostanza per cui «La pubblicazione dell’accordo di cui sopra andrebbe a minare l’integrità dei rapporti internazionali intrattenuti dal nostro Paese con il Gambia, su quello che è il tema del contrasto all’immigrazione illegale, la lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata ed al traffico di esseri umani (cooperazione internazionale operativa di Polizia)» e correlativamente per cui «L’ostensione degli atti richiesti, […] oltre a minare la sicurezza di una attività operativa di cooperazione di polizia, produrrebbe un concreto e diretto pregiudizio all’integrità dei rapporti con un paese che rappresenta uno snodo fondamentale per gli equilibri euro-mediterranei, anche in ragione dei flussi migratori all’interno del continente africano»; per il giudice, la motivazione deve ritenersi legittima, pur prospettando solo dei «possibili pregiudizi concreti» ([32]).
L’errore in cui incorre il TAR stavolta è duplice, posto che esso estende all’accesso civico semplice dei limiti legislativamente previsti per il solo accesso civico generalizzato e lo fa facendo recedere l’interesse conoscitivo dinanzi all’astratta prospettazione di un interesse pubblico alla riservatezza. Il primo errore, invero, è talmente grave da offuscare il secondo, facendo sorgere il dubbio che si tratti di un vero e proprio travisamento dei fatti processuali, anche perché il giudice non si preoccupa neppure di esporre le ragioni che lo inducono a reinterpretare il combinato disposto tra l’art. 5, comma 2, e l’art. 5-bis, del cui significato non pare potersi affatto dubitare. Tali ragioni, che forse il Ministero rappresenta in atti, ma che non vengono riprodotte dal collegio, tuttavia, saranno esternate nell’ambito del giudizio di secondo grado, per essere finalmente censurate.
3.2 La sentenza del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, torna sui limiti soggettivi e oggettivi che il Ministero dell’interno pretende di opporre all’accesso civico semplice, ribaltando le conclusioni del tribunale.
Sotto un primo profilo, il collegio si sofferma sulla pretesa funzionalizzazione dell’accesso civico semplice e lo fa riferendosi anche al riflesso che la stessa provocherebbe sul piano dell’identificazione dei documenti ostensibili. Per un verso, infatti, il collegio si limita a rammentare il dettato del d.lgs. n. 33 e l’interpretazione dello stesso fornita dall’Adunanza plenaria per accogliere il motivo di gravame: «Sulla base dei riferiti dati normativi, che hanno completato l’evoluzione, nel nostro ordinamento, “della visibilità del potere” pubblico, segnando il “passaggio dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere”, l’Adunanza plenaria di questo Consiglio – con affermazioni relative all’accesso civico “generalizzato” di cui all’art. 5, comma 2, citato, ma valevoli, a fortiori, per quello “semplice” di cui all’art. 5, comma 1 – ha chiarito che esso “non è sottoposto ad alcun limite quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente e senza alcun onere di motivazione circa l’interesse alla conoscenza”» ([33]). Per altro verso, esso si premura, sia pure per il tramite di un obiter dictum, a escludere che la finalità propria dell’accesso civico, identificata nel controllo sulle funzioni amministrative, possa valere a estromettere i documenti aventi natura politica, in considerazione del fatto che il Testo unico «nell’enucleare i principi di trasparenza e conoscibilità sottesi all’intero decreto» fa riferimento «non già agli atti amministrativi ma ai dati, alle informazioni e ai documenti detenuti dalla pubblica amministrazione» ([34]). Sotto il secondo profilo, il giudice si sofferma invece sul tentativo di far ‘affievolire’ l’accesso civico semplice, sia pure a seguito di un riposizionamento strategico, di tipo metodologico, che gli consente di affrontare il problema della sussumibilità degli accordi tra Italia e Gambia negli obblighi legali di pubblicazione, per censurare il tentativo di riqualificazione degli stessi effettuato dall’amministrazione ministeriale, secondo la quale la natura tecnico-amministrativa del loro contenuto avrebbe dovuto indurre a escludere la loro natura di accordi internazionali e con ciò l’obbligo di pubblicazione ai sensi della l. n. 839 del 1994 ([35]).
Il Consiglio di Stato, infatti, rilevato l’obbligo di pubblicazione, passa a verificare che non sussistano altre ragioni ostative all’accesso, soffermandosi specificamente «sui rapporti tra gli obblighi di pubblicazione degli accordi internazionali, l’accesso civico semplice e quello generalizzato, e le cause di esclusione di quest’ultimo» e specificamente sull’opzione interpretativa secondo cui all’accesso civico semplice sarebbero estensibili le cause di esclusione che l’art. 5-bis del d.gls. n. 33 riferisce espressamente al solo accesso civico generalizzato ([36]). Il collegio finalmente palesa il fondamento dell’anzidetta opzione, che approfitterebbe di un’incongruenza generata dalla riforma dello stesso Testo unico della trasparenza a opera del d.lgs. n. 97 del 2016 e, segnatamente, del fatto che, mentre l’art. 5, comma 1, definisce il suo ambito di applicazione facendo riferimento agli obblighi di pubblicazione previsti «ai sensi della normativa vigente», l’art. 5, comma 2, definisce il suo ambito applicativo facendo invece riferimento agli atti ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione «ai sensi del presente decreto». Tale incongruenza, secondo il Ministero, ridurrebbe la portata operativa dell’accesso civico semplice, facendo così rispandere quella dell’accesso civico generalizzato e quindi delle clausole di esclusione per esso prescritte all’interno dell’art. 5-bis, comma 1; questo perché tale ultima forma di accesso opererebbe non soltanto rispetto agli atti non oggetto di pubblicazione obbligatoria, ma anche rispetto a quegli atti oggetto di pubblicazione obbligatoria in forza di norme esterne al Testo unico e, tra questi, degli atti assoggettati a pubblicazione dalla l. n. 839 del 1994 ([37]).
Il giudice, tuttavia, ritiene di dover avversare tale interpretazione, ritenendola del tutto incompatibile sia con il tenore letterale dell’art. 5, comma 1, sia con la ratio sottesa all’art. 5, comma 2, che introduce l’accesso civico generalizzato «per ampliare e non per ridurre la trasparenza dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni». La presa di posizione, del resto, trova conforto anche nell’art. 5-bis, comma 4, nella parte in cui si fanno salvi gli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, la cui «unica funzione logica» non potrebbe che essere «di ulteriormente segnalare all’interprete che le cause di esclusione dall’accesso civico generalizzato – e quindi lo stesso accesso civico generalizzato – riguardano atti e documenti non oggetto di pubblicazione obbligatoria»([38]).
L’accesso civico semplice, in definitiva, deve intendersi esteso a tutti gli atti oggetto di un obbligo di pubblicazione, a prescindere dal fatto che la fonte che lo preveda sia interna o esterna al Testo unico. Tale accesso, soprattutto, non può essere in nessun caso negato; l’unica possibilità che residua in capo all’amministrazione per sottrarre allo stesso un documento oggetto di pubblicazione obbligatoria è l’apposizione del segreto di Stato, ovvero, si potrebbe forse aggiungere, la classificazione delle informazioni in esso contenute, ai sensi della l. n. 124 del 2007: «[n]onostante infatti, il d.lgs. n. 33 del 2013 non indichi espressamente il segreto di Stato quale clausola d’esclusione dall’accesso civico semplice (a differenza di quanto avviene per quello generalizzato), il principio di trasparenza, sotteso ad entrambe le forme di accesso, non può certamente rendere inoperante l’istituto del segreto, che resta strumento irrinunciabile per tutelare supremi ed insopprimibili interessi dello Stato […] quali la “integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali”, la “difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento”, la “indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi” e “la preparazione” e “la difesa militare dello Stato”» ([39]).
Il Consiglio di Stato accoglie così anche il secondo motivo gravame, ma le conclusioni cui perviene in generale, non gli consentono di definire la sua pronuncia in merito alla sussistenza del diritto di accesso civico semplice nel caso di specie. Tanto perché il giudice ritiene di non essere in grado di appurare se con gli accordi internazionali oggetto di accesso l’Italia si sia effettivamente impegnata nei confronti del Gambia, ciò che, in linea con i passaggi argomentativi riportati, diviene indispensabile determinare, per poi poter affermare la riferibilità di tali accordi alla l. n. 839. La ricorrente, infatti, riporta una serie di circostanze che farebbero deporre per l’assunzione di impegni di tal tipo. Il Ministero dell’interno, dal canto suo, affermato che gli accordi sarebbero stati stipulati da un organo della pubblica amministrazione «che non rappresenta un soggetto di diritto internazionale», non prende poi una specifica posizione a riguardo, anche in ragione delle dedotte esigenze di tutela della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico e delle relazioni internazionali con la controparte gambiana.
Il collegio, pertanto, emette una sentenza non definitiva, che veicola l’ordine, rivolto al Ministro dell’interno, di produrre, entro sessanta giorni, una relazione a firma congiunta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, in cui si chiariscano tutti i pertinenti profili di interesse, anche in merito all’opposizione del segreto di Stato.
4. Conclusioni
La vicenda giuridica da cui scaturisce la sentenza commentata, si diceva in apertura, verte essenzialmente sull’accesso civico semplice, ma consente di pervenire a conclusioni, che, a maggior ragione, possono valere per l’accesso civico generalizzato. L’estensione alla prima forma di accesso degli stessi limiti soggettivi e oggettivi sinora sperimentati per la seconda conferma, infatti, che la tesi della funzionalizzazione e dell’affievolimento dell’interesse conoscitivo non vanno imputate alla volontà legislativa o alla scarsa perspicuità del d.lgs. 97/2016. Tali tesi, infatti, sono state riferite pure all’art. 5, comma 1, della cui portata testuale non pare potersi dubitare, a meno di non voler rimettere in discussione, accanto all’art. 5, comma 2, e all’art. 5-bis, l’intero disegno legislativo e il significato proprio delle parole in esso contenute. La sentenza commentata, soprattutto, conforta le riserve in ordine all’efficacia di eventuali interventi correttivi, non perché il Testo unico non sia perfettibile, ma per l’impossibilità di prevedere le effettive ricadute di detti interventi a fronte delle descritte prassi interpretative; ebbene, proprio su dette prassi, nelle ultime battute del presente scritto, si propone di agire ([40]).
La riforma del 2016 esprime un sicuro favor per la trasparenza amministrativa. Tale favor potrebbe essere valorizzato proprio nell’interpretazione delle sue previsioni normative, come fa l’Adunanza Plenaria in molti passaggi della sentenza sopra riportati, e come fa altresì lo stesso Ministero per la pubblica amministrazione all’interno della circolare n. 2/2017, che, nell’enunciare ciò che esso stesso definisce come principio della tutela preferenziale dell’interesse conoscitivo, esorta a dare prevalenza a tale ultimo interesse ogni volta in cui emergano dubbi in ordine alla portata delle suddette previsioni. Esso, si intende dire, potrebbe valere a risolvere i contrasti interpretativi in ordine al dettato legale, avvalorando, tra due o più letture plausibili, la soluzione che maggiormente conviene alla realizzazione del right to know. Il principio della tutela preferenziale, elevato a vero e proprio canone interpretativo, vanificherebbe in origine i tentativi di rilettura del Testo unico, costringendo le amministrazioni più riluttanti a recepire il cambio di paradigma culturale veicolato dallo stesso e proteggendo gli amministrati dai rivolgimenti giurisprudenziali ([41]).
([1]) Cfr. Cons. St., sez. III, sent. (non definitiva) 10 giugno 2022, n. 4735, resa su ricorso avverso TAR Lazio, sez. I-ter, sent. 22 luglio 2021, n. 8838.
([2]) Sulla rilevanza e sull’evoluzione storico-giuridica del principio di trasparenza nell’ordinamento italiano, cfr. almeno M. D’ALBERTI, La trasparenza amministrativa tra progressi e incertezze, in Lo sguardo del giurista e il suo contributo all’amministrazione in trasformazione. Scritti in onore di Francesco Merloni, Torino, 2021; A. CORRADO, Il principio di trasparenza, in M.A. SANDULLI, (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 104; M. OCCHIENA, I principi di pubblicità e trasparenza, in M. RENNA - F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, p. 141 ss.; E. CARLONI, La “casa di vetro” e le riforme. Modelli e paradossi della trasparenza amministrativa, in Dir. Pubbl., 2009, n. 3, p. 779 ss.; F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in Id. (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, 2008, p. 9 ss.; G. ARENA, Trasparenza amministrativa, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, vol. VI, Milano, 2006, e Id., Trasparenza amministrativa, in Enc. Giur., vol. XXX, Roma, 1995.
([3]) Sulla declinazione del principio di trasparenza in relazione ai diversi istituti dell’accesso ai documenti amministrativi, cfr. F. MANGANARO, Evoluzione ed involuzione delle discipline normative sull’accesso a dati, informazioni ed atti delle pubbliche amministrazioni, in Dir. Amm., 2019, n. 4, p. 793 ss.; C.E. GALLO, S. FOA, Accesso agli atti amministrativi, in Dig. Disc. Pubbl., Torino 2011; M. D’ALBERTI, La “visione” e la “voce”: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2000, n. 1, p. 5 ss.; M.A. SANDULLI, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enc. dir., IV agg., 2000.
([4]) L’introduzione dell’accesso civico semplice all’interno del nostro ordinamento è stata commentata da G. GARDINI, Il codice della trasparenza: un primo passo verso il diritto all’informazione amministrativa?, in Giornale di diritto amministrativo, 2014, n. 8-9, 875 e M. SAVINO, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa, in Giornale di diritto amministrativo, 2013, n. 8-9, 801 ss.
([5]) Il FOIA dell’Unione europea è disciplinato dal Reg. CE n. 1049 del 30 maggio 2001; sullo stesso D.U. GALETTA, La trasparenza, per un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione: un’analisi storico-evolutiva, in una prospettiva di diritto comparato ed europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2016, n. 5, 1019 ss.; G. SGUEO, L’accessibilità ad atti e informazioni nell’Unione europea: un percorso in divenire, in A. NATALINI, G. VESPERINI (a cura di), Il big bang della trasparenza, Napoli, 2015, 163 ss; sull’esperienza degli ordinamenti europei e internazionali, in prospettiva comparata, cfr. B.G. MATTARELLA - M. SAVINO (a cura di), L’accesso dei cittadini. Esperienze di informazione amministrativa a confronto, Napoli, 2018.
([6]) Il d.lgs. n. 97 del 2016 è stato commentato, tra gli altri, da E. CARLONI, Se questo è un FOIA. Il diritto a conoscere tra modelli e tradimenti, in Rassegna Astrid, 2016, n. 4, D.U. GALETTA, Accesso civico e trasparenza della Pubblica Amministrazione alla luce delle (previste) modifiche alle disposizioni del Decreto Legislativo n. 33/2013, in federalismi.it, 2016, n. 5, G. GARDINI, Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici, in federalismi.it, 2017, n. 1, M. SAVINO, Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, in Giornale di diritto amministrativo, 2016, n. 5, p. 593; S. VILLAMENA, Il c.d. FOIA (o accesso civico 2016) ed il suo coordinamento con istituti consimili, in federalismi.it, 2016, n. 23. L’accesso civico generalizzato, si noti, sottende il riconoscimento di una vera e propria libertà individuale, che rinviene copertura costituzionale nel combinato disposto tra l’art. 117, comma 1, Cost. e l’art. 10 CEDU. La rappresentazione dell’accesso civico generalizzato come libertà induce a ritenere che esso non possa essere funzionalizzato e che, pertanto, il suo esercizio non possa essere denegato in ragione del fine precipuo perseguito (cfr. però infra § 2.1.). La rappresentazione di tale libertà come fondamentale indica invece che tale diniego possa essere opposto soltanto in ragione di eccezioni legislativamente previste, nel rispetto del principio di riserva di legge (cfr. però infra 2.2. e nota 17 e 40).
([7]) Per una ricostruzione del dibattito, cfr. M. SAVINO, Il FOIA italiano e i suoi critici: per un dibattito scientifico meno platonico, in Dir. Amm., 2019, n. 3, p. 453 ss.; per un’analisi delle tendenze giurisprudenziali, cfr. invece A. MOLITERNI, La via italiana al “FOIA”: bilancio e prospettive, in Giornale di diritto amministrativo, 2019, n. 1, p. 23 ss.
([8]) Le due prassi sono analizzate in A. CORRADO, Il tramonto dell’accesso generalizzato come “accesso egoistico”, in federalismi.it, 2021, n. 11.
([9]) Il termine “affievolimento” riporta alla mente dell’amministrativista la nota teoria con cui una parte della scienza giuridica e della giurisprudenza spiega la natura delle situazioni giuridiche soggettive. Tale termine, è allora necessario precisare, nel presente scritto non vuole alludere in alcun modo all’anzidetta teoria, né connotare l’accesso civico come diritto soggettivo o interesse legittimo. Esso, più semplicemente, viene inteso come sinonimo di “recessività” e utilizzato per rappresentare la tendenza ad applicare le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis, assumendo che l’interesse alla conoscibilità debba necessariamente recedere dinanzi alla mera prospettazione di un pregiudizio per l’interesse alla riservatezza.
([10]) Cons. St., sez. V, sent. 12 febbraio 2020, n. 1121, resa su TAR Lazio, sez. III, sent. 1° agosto 2019, n. 10202.
([11]) Cfr. A. MOLITERNI, La natura giuridica dell’accesso civico generalizzato nel sistema di trasparenza nei confronti dei pubblici poteri, in Dir. Amm., 2019, n. 3, p. 577 ss., e in particolare p. 597 ss.: «L’istituto dell’accesso civico generalizzato è stato […] letto e interpretato attraverso le tradizionali e consolidate “lenti di osservazione” dell’accesso documentale» e proprio in ragione del confronto con tale disciplina, si è, tra l’altro, «eccessivamente valorizzato l’elemento teleologico volto ad assicurare un “controllo generalizzato sull’attività amministrativa” (poiché invece espressamente escluso dalla l. n. 241 del 1990)» e «sottolineata l’assenza di una posizione giuridica qualificata in grado di fronteggiare “ad armi pari” gli interessi pubblici e privati contrapposti (in quanto vero asse portante di tutta la disciplina sull’accesso documentale)».
([12]) Il problema inerente al coordinamento tra le diverse forme di accesso presenti nel nostro ordinamento è stato approfondito da F. FRANCARIO, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in federalismi.it, 2019, n. 10, che avverte come «per il principio dell’eterogenesi dei fini, il moltiplicarsi degli interventi legislativi, anziché aumentare l’effettività della garanzia di trasparenza, abbia finito o potrebbe finire con il ridurre a mera declamazione il diritto di accesso». Lo stesso A. si sofferma proprio sulla formula della “diversa profondità ed estensione” delle due forme di accesso, denunciando la tendenza della scienza giuridica «a descrivere esteriormente la differenza e a parlare di maggiore o minore profondità dell’accesso nell’uno e nell’altro caso, senza attribuire alcun preciso significato giuridico alla suddetta diversa profondità». Sullo stesso problema si sofferma anche G. GARDINI, Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici, in federalismi.it, 2017, n. 1 e S. VILLAMENA, Il c.d. FOIA (o accesso civico 2016) ed il suo coordinamento con istituti consimili, in federalismi.it, 2016, n. 23.
([13]) Cons. St., 2020/1121, cit.
([14]) La tesi della funzionalizzazione può essere fatta risalire alla sentenza del TAR Lazio, sez. II-bis, 2 luglio 2018, n. 7326, ove per la prima volta si afferma che «per quanto la legge non richieda l’esplicitazione della motivazione della richiesta di accesso, deve intendersi implicita la rispondenza della stessa al soddisfacimento di un interesse che presenti una valenza pubblica e non resti confinato ad un bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale, egoistico o peggio emulativo che, lungi dal favorire la consapevole partecipazione del cittadino al dibattito pubblico, rischierebbe di compromettere le stesse istanze alla base dell’introduzione dell’istituto»; da allora alcuni giudici amministrativi si sono espressi nello stesso senso, cfr. TAR Lazio, sez. I, 23 luglio 2018, n. 8302-8303, TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 22 novembre 2018, n. 347, TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 6 marzo 2019, n. 2019; TAR Lazio, sez. I-quater, 28 marzo 2019, n. 4122. La sua prospettazione, si noti, era stata anticipata da E. CARLONI, Se questo è un FOIA, cit. e F. FRANCARIO, Il diritto di accesso, cit., p. 5, ove si avvertiva come la confusione tra le diverse forme di accesso avrebbe potuto «portare a riferire anche all’accesso civico, e non solo all’accesso procedimentale, l’affermazione per cui il diritto di accesso non si sostanzierebbe in un’azione popolare e neppure potrebbe tradursi in un controllo generalizzato sulla legittimità dell’azione amministrativa, con l’effetto di consentire la introduzione di filtri della più varia natura finalizzati a circoscrivere, comunque sotto il profilo soggettivo, l’interesse ad agire nelle forme dell’accesso civico»; sulla funzionalizzazione dell’accesso civico cfr. altresì G. GARDINI, L’incerta natura della trasparenza amministrativa, in G. GARDINI e M. MAGRI (a cura di), Il FOIA italiano: vincitori e vinti. Un bilancio a tre anni dall’introduzione, Santarcangelo di Romagna, 2019, p. 54 ss.
([15]) La funzionalizzazione è alla base del tentativo di assimilazione del diritto di accesso civico alla c.d. azione popolare; in merito, oltre a G. GARDINI, L’incerta natura della trasparenza amministrativa, cit., p. 19 ss., cfr. G. TROPEA, Forme di tutela giurisdizionale dei diritti d’accesso: bulimia dei regimi, riduzione delle garanzie?, in Il Processo, 2019, n. 1, p. 20 ss., e V. PARISIO, La tutela dei diritti di accesso ai documenti amministrativi e alle informazioni nella prospettiva giurisdizionale, in federalismi.it, 2018, n. 11.
([16]) Cfr. Cons. St. 2020/1121, cit., secondo cui «Lo strumento in esame può […] essere utilizzato solo per evidenti ed esclusive ragioni di tutela di interessi propri della collettività generale dei cittadini, non anche a favore di interessi riferibili, nel caso concreto, a singoli individui od enti associativi particolari». Il collegio, peraltro, consapevole del fatto che il tentativo di funzionalizzazione esperito non trova riscontro all’interno del d.lgs. n. 33 del 2013, tenta di giustificare la propria presa di posizione sul piano processuale; secondo lo stesso «non si tratterebbe di imporre per via ermeneutica un onere non previsto dal legislatore, bensì di verificare se il soggetto agente sia o meno legittimato a proporre la relativa istanza. Nel giudizio amministrativo la sussistenza dell'interesse e della legittimazione ad agire è infatti valutabile d'ufficio in qualunque momento del giudizio. La mancanza dei presupposti processuali o delle condizioni dell'azione è rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo (art. 35, comma primo, Cod. proc. amm.), poiché essi costituiscono i fattori ai quali la legge, per inderogabili ragioni di ordine pubblico, subordina l'esercizio dei poteri giurisdizionali». Il giudice, tuttavia, così trascura che la titolarità della situazione giuridica soggettiva ai sensi – e alle condizioni – di cui all’art. 5, comma 2 e 3, è strettamente correlata alla legittimazione ad agire in giudizio a cui egli stesso fa riferimento.
([17]) La funzionalizzazione, peraltro, in mancanza di un fondamento legislativo, sarebbe incompatibile con il right to know, oltre che ontologicamente, per la natura di tale diritto, che, in quanto fondamentale, ai sensi del combinato disposto tra l’art. 117, comma 1, Cost. e l’art. 10 CEDU, non tollererebbe limitazioni finalistiche, giuridicamente, perché violerebbe la riserva di legge, che, proprio ai sensi del suddetto combinato disposto, dovrebbe presiedere alle anzidette limitazioni.
([18]) Cfr. Cons. St., Ad. Plen., sent. 2 aprile 2020, n. 10. La pronuncia è stata commentata da F. MANGANARO, La funzione nomofilattica dell’Adunanza plenaria in materia di accesso agli atti amministrativi, in federalismi.it, 2021, n. 20 A. CORRADO, L’accesso civico generalizzato, diritto fondamentale del cittadino, trova applicazione anche per i contratti pubblici: l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato pone fini ai dubbi interpretativi, in federalismi.it, 2020, n. 16; A. MOLITERNI, Pluralità di accessi, finalità della trasparenza e disciplina dei contratti, in Giornale di diritto ammnistrativo, 2020, n. 4
([19]) Il termine “affievolimento”, occorre ribadire, nel presente scritto è inteso come sinonimo di “recessività”, ed è utilizzato esclusivamente per rappresentare la tendenza ad applicare le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis come se l’interesse alla conoscibilità dovesse necessariamente recedere dinanzi alla mera prospettazione di un pregiudizio per l’interesse alla riservatezza (cfr. supra nota 9).
([20]) Cfr. A. MOLITERNI, La natura giuridica dell’accesso civico generalizzato, cit. La tesi dell’affievolimento interroga l’effettività dell’accesso civico generalizzato di fronte alla tendenza dell’amministrazione alla segretazione di “diritto” o di “fatto” dei documenti e dei dati da essa detenuti; in proposito, sia consentito rinviare a F.V. VIRZÌ, L’effettività dell’accesso civico generalizzato: il caso degli accordi in forma semplificata, in Giornale di diritto amministrativo, 2019, n. 5, p. 641 ss.
([21]) L’harm test, segnatamente, richiede che, in vista dell’eventuale diniego, si valuti soltanto se l’accesso danneggi uno degli interessi-limite; il public interest o public interest ovveride test richiede di considerare, in aggiunta, il danno che il diniego comporterebbe per l’interesse all’accesso, nell’ambito di una valutazione comparativa (c.d. balancing test).
([22]) L’opzione tra l’harm test e il public interest test, peraltro, reca con sé un ulteriore riflesso, inerente alla qualificazione dell’accesso generalizzato quale “diritto soggettivo” in senso stretto. La questione, a lungo dibattuta, non può essere qui adeguatamente trattata, è d’uopo però sottolineare che il test dell’interesse pubblico, postulando un bilanciamento di interessi e quindi l’esercizio di un potere discrezionale, sembrerebbe prefigurare una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo, che peraltro, occorre precisare, non sarebbe di per sé incompatibile con la connotazione fondamentale del right to know.
([23]) TAR Lazio, 2019/10202, cit.
([24]) Cons. St. 2020/1121, cit.
([25]) TAR Lazio, 2019/10202, cit.
([26]) Cfr. Reg. CE n. 1049/2001, art. 4, par. 2.
([27]) La sentenza del Cons. St. 2020/1121, cit., in proposito, appare tutt’altro che isolata. La giurisprudenza di recente è intervenuta sul tema dell’accesso generalizzato alle politiche migratorie con le pronunce del Consiglio di Stato, Sez. III, sent. 2 settembre 2019, n. 6028 e del TAR Lazio, Sez. I ter, sent. 7 agosto 2018, n. 8892, rese sul diniego di accesso al Memorandum d’intesa con lo Stato della Libia, e del TAR. Lazio, Sez. III ter, sent. 16 novembre 2018, n. 11125, resa sul diniego di accesso all’accordo di cooperazione con la Repubblica del Niger, su cui cfr. F.V. VIRZÌ, L’effettività dell’accesso civico generalizzato, cit. L’accesso civico generalizzato nei suddetti casi era volto a rendere conoscibile il contenuto di accordi bilaterali, la cui sottoscrizione in forma semplificata (o semi-semplificata) aveva consentito al Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale di mantenere il riserbo su alcune pratiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Le tre sentenze lasciano tutte trapelare una certa superficialità da parte del giudice nella valutazione della motivazione allegata al diniego, che – in linea con l’art. 5-bis, commi 1, 4 e 5, del d.lgs. n. 33 del 2013 – dovrebbe rendere conto non soltanto della rilevanza dell’interesse alla riservatezza, ma anche della rilevanza dell’interesse all’accesso e della prevalenza dell’uno interesse sull’altro, all’esito di una valutazione comparativa condotta nel rispetto del principio di proporzionalità. Nel caso del Memorandum libico, il giudice non censura il diniego nonostante nella motivazione non si facesse alcun riferimento all’interesse all’accesso. Nel caso dell’accordo nigerino, si accontenta invece di una motivazione in cui ci si limita ad affermare di aver tenuto in considerazione tale interesse. L’atteggiamento di deferenza del giudice dinanzi alle esigenze di riservatezza, probabilmente, può essere spiegato in ragione della sensibilità degli interessi pubblici che l’accesso generalizzato, nell’ambito delle politiche migratorie, può esporre a pregiudizio (nelle sentenze citate si richiama l’interesse sotteso alle relazioni internazionali, alla difesa, alle questioni militari, all’ordine e alla sicurezza pubblica). Tale atteggiamento, tuttavia, reca con sé il rischio di legittimare, nella prassi, l’integrale sottrazione delle suddette politiche al principio di trasparenza e la surrettizia introduzione, in luogo del diritto di accesso generalizzato, di un diniego generalizzato di accesso rispetto ai documenti che le riguardano.
([28]) Cfr. A. CORRADO, Il tramonto dell’accesso generalizzato come “accesso egoistico”, cit., p. 8, «Deve considerarsi che il richiamo normativo al “pregiudizio concreto”, da scongiurare da parte dell’amministrazione, impone che si proceda a valutare il rischio del pregiudizio non come astratta possibilità, ma come conseguenza realistica dell’ostensione», nonché F. FRANCARIO, Il diritto di accesso, cit., p. 16 ss., «[è]l’amministrazione che deve decidere se la conoscenza pregiudichi un contrapposto interesse, pubblico o privato che sia; il che significa apprezzare e ponderare i diversi interessi per giungere alla conclusione che il diniego è necessario per evitare il pregiudizio dell’interesse ritenuto prevalente dal legislatore». Il ruolo attivo dell’amministrazione nella valutazione sul pregiudizio dell’interesse, pubblico o privato, alla riservatezza, peraltro, secondo l’A., non può non retroagire sulla tesi della funzionalizzazione, confermandone la sua inadeguatezza: «Il fatto che l’interesse alla conoscenza venga fatto dipendere dall’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione ha conseguenze significative sulla comprensione della natura di un tale interesse e delle modalità e dei limiti della sua protezione. Spiega e si correla al fatto che non è necessario vantare la titolarità di una situazione soggettiva qualificata per poter agire e che si può agire uti cives perché le forme e i limiti della protezione di tale interesse sono quelle consentite e riconosciute nei confronti del merito delle decisioni amministrative, ovvero quelle proprie dell’interesse semplice. Salva sempre la possibilità che nello specifico del caso concreto il mancato rispetto delle garanzie procedimentali o la violazione dei limiti intrinseci alla spendita della discrezionalità amministrativa consentano di sostanziare la situazione in termini d’interesse legittimo, in presenza di interessi sufficientemente differenziati».
([29]) L’Ad. Plen., 2020/10, facendo riferimento all’interesse privato alla riservatezza, afferma in particolare che la tutela dello stesso «può e deve essere conseguito appunto, in una equilibrata applicazione del limite previsto dall’art. 5-bis, comma 2, lett. c), del d. lgs. n. 33 del 2013, secondo un canone di proporzionalità, proprio del test del danno (c.d. harm test), che preservi il know-how industriale e commerciale dell’aggiudicatario o di altro operatore economico partecipante senza sacrificare del tutto l’esigenza di una anche parziale conoscibilità di elementi fattuali, estranei a tale know-how o comunque ad essi non necessariamente legati, e ciò nell’interesse pubblico a conoscere, per esempio, come certe opere pubbliche di rilevanza strategica siano realizzate o certi livelli essenziali di assistenza vengano erogati da pubblici concessionari».
([30]) TAR Lazio, sent. 2021/8838, cit., «Il Collegio non ravvede ragioni per discostarsi da quanto statuito dal Consiglio di Stato, Sezione III, in altro caso sovrapponibile a quello sub judice e deciso con sentenza n. 1121/2020, cui rinvia ai sensi e per gli effetti dell’art. 88, comma 2, lett. d) c.p.a.», ove, com’è noto, è previsto che la sentenza del giudice amministrativo debba contenere una concisa esposizione in fatto e in diritto della decisione «anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi».
([31]) TAR Lazio, sent. 2021/8838, cit. La prospettazione della tesi della funzionalizzazione rispetto all’accesso civico semplice, si diceva, appare inedita essendosi la stessa formata con specifico riferimento all’accesso civico generalizzato. Tale esito, tuttavia, era stato pronosticato da F. FRANCARIO, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva, cit., sulla scorta della sentenza della Corte costituzionale n. 20 del 2019: «la motivazione di una decisione sostanzialmente giusta, laddove garantisce e limita l’obbligo di trasparenza alla conoscenza di come vengano impiegate le risorse pubbliche, scivola sul terreno del sindacato sulle finalità perseguite dall’accesso civico, avallando la possibilità di limitazioni d’ordine generale sotto questo profilo. Apprezzamento della possibile esposizione al rischio corruttivo e effettiva utilità dell’informazione diventano in tal modo presupposti che condizionano l’esercizio del diritto di accesso civico». Lo stesso A., in proposito, non manca di ribadire come sia «indubbio che in ambedue i casi il diritto d’accesso venga configurato come diritto civico, azionabile cioè da qualsiasi cittadino uti cives». La sentenza della Corte Costituzionale citata è stata commentata, tra gli altri, da F. CAPORALE, La parabola degli obblighi di pubblicazione, in Riv. trim. dir. pub., 2021, n. 3, pag. 853.
([32]) TAR Lazio, sent. 2021/8838, cit.
([33]) Cons. St., 2022/4735, §7 ss. e in particolare §7.3., ove si conclude statuendo che «L’impugnata sentenza del Tar Lazio, che ha ritenuto necessarie l’allegazione e la prova di un interesse “proprio della generalità dei cittadini”, non essendo in linea con il dato normativo e con la riferita interpretazione dell’Adunanza plenaria, va pertanto riformata in parte qua».
([34]) Cons. St., 2022/4735, § 8.1. La tesi della funzionalizzazione è stata sfruttata in tal senso dal TAR Lazio, sez. III-bis, 30 marzo 2018, n. 3598, in cui, facendo leva sull’art. 5, comma 2, dlgs. n. 33/2013, si è ritenuto illegittimo il diniego all’istanza di accesso sulle «relazioni, appunti, informative ecc. che non hanno assunto natura provvedimentale né si sono trasfusi in atti ufficiali, neppure in fase istruttoria», poiché tali atti «non esprimono attività di gestione dell’amministrazione»; contra, TAR Emilia-Romagna, sez. I, 28 novembre 2018, n. 325: «non è possibile sostenere che le finalità identificate dall’art. 5, comma 2, […] debbano trovare diretta declinazione nella tipologia di documenti richiesti, innanzitutto perché è arduo individuare un atto pubblico che, in un regime di trasparenza e democraticità delle istituzioni, debba restare interno e non conoscibile – al di fuori dei limiti di tutela riconosciuti agli interessi pubblici e privati ‘sensibili’».
([35]) Cons. St., 2022/4735, § 8.2. Il collegio censura proprio tale tentativo, sottolineando come ai sensi della l. n. 839, «ciò che rileva ai fini dell’obbligo di pubblicazione degli accordi internazionali, compresi quelli in forma semplificata, non è […] la loro natura amministrativa o politica, quanto piuttosto l’assunzione, da parte dello Stato italiano, di impegni nei confronti di uno Stato estero»; e come tale interpretazione letterale possa trovare riscontro nella stessa ratio della l. n. 839, con cui il legislatore «ha inteso perseguire il duplice obiettivo di consentire il controllo democratico, dei cittadini e delle Camere, sulla politica estera del Governo e, per tale via, di contrastare il fenomeno, ben noto alla dottrina costituzionalistica, della “fuga” dall’autorizzazione parlamentare alla ratifica prevista dall’art. 80 della Costituzione per il caso di trattati “di natura politica”». La conclusione che ne deriva è che ove si ravvisi l’obbligo di pubblicazione ai sensi della menzionata previsione normativa, il suo inadempimento comporta che gli accordi in discussione possano essere oggetto di accesso civico semplice.
([36]) Cons. St., 2022/4735, § 8.3.
([37]) Cons. St., 2022/4735, § 8.3.
([38]) Cons. St., 2022/4735, § 8.3.
([39]) Cons. St., 2022/4735, § 8.4.
([40]) L’intervento legislativo, d’altra parte, è auspicabile rispetto a un’altra causa di affievolimento dell’accesso civico, vale a dire, l’identificazione dell’interesse alla riservatezza all’interno delle previsioni regolamentari, adottate per escludere determinate categorie di atti dall’accesso documentale. L’art. 5-bis, comma 3, in effetti, tra le cause di esclusione dell’accesso civico generalizzato annovera i «casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990». Tale previsione andrebbe modificata al fine di rafforzare il suddetto interesse, anche in considerazione del carattere fondamentale del diritto alla conoscibilità, che, ai sensi dell’art. 10 CEDU, è coperto da riserva di legge; è significativo, infatti, come lo stesso Ministero per la pubblica amministrazione, all’interno della circolare n. 2/2017, Attuazione delle norme sull’accesso civico generalizzato (c.d. FOIA)– su cui cfr. infra nel testo e in nota successiva – si appunti su tale riserva di legge per tentare di mitigare le conseguenze dell’incauto riferimento contenuto nel Testo unico: per essa «ciascuna amministrazione può disciplinare con regolamento, circolare o altro atto interno esclusivamente i profili procedurali e organizzativi di carattere interno. Al contrario, i profili di rilevanza esterna, che incidono sull'estensione del diritto (si pensi alla disciplina dei limiti o delle eccezioni al principio dell'accessibilità), sono coperti dalla suddetta riserva di legge» di modo che «diversamente da quanto previsto dall'art. 24, comma 6, legge n. 241/1990 in tema di accesso procedimentale, non è possibile individuare (con regolamento, circolare o altro atto interno) le categorie di atti sottratti all'accesso generalizzato».
([41]) Il principio della tutela preferenziale dell’interesse conoscitivo è enunciato nella circolare del Ministero della pubblica amministrazione n. 2/2017, cit., al § 2.2., let. i), ove si legge «Nei sistemi FOIA, il diritto di accesso va applicato tenendo conto della tutela preferenziale dell’interesse a conoscere. Pertanto, nei casi di dubbio circa l’applicabilità di una eccezione, le amministrazioni dovrebbero dare prevalenza all’interesse conoscitivo che la richiesta mira a soddisfare». Lo stesso principio, peraltro, è condiviso anche all’interno delle Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2013, adottate dall’A.N.A.C. con delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016, che al § 2.1. sollecitano a valorizzare i principi delineati dal Testo unico come «canone interpretativo in sede di applicazione della disciplina dell’accesso generalizzato da parte delle amministrazioni e degli altri soggetti obbligati, avendo il legislatore posto la trasparenza e l’accessibilità come la regola rispetto alla quale i limiti e le esclusioni previste dall’art. 5-bis del d.lgs. 33/2013, rappresentano eccezioni e come tali da interpretarsi restrittivamente».
Il riparto di giurisdizione in materia di sanzioni amministrative non pecuniarie
di Antonella Manzione
Sommario: Premessa. - 1. Il quadro normativo. - 2. La natura sanzionatoria di un provvedimento. -3. La decadenza. - 4. La stratificazione normativa in materia di occupazione di suolo pubblico. - 5. Le sanzioni di natura non pecuniaria - 6. La rimozione dell’occupazione di suolo pubblico nella normativa a tutela della sicurezza della città. - 7. Problematiche di ne bis in idem. - Conclusioni.
Premessa.
La tematica del riparto di giurisdizione in materia di sanzioni amministrative non pecuniarie costituisce una delle questioni più dibattute nell’ambito del c.d. diritto punitivo, malgrado l’apparente chiarezza della norma che da tempo ne declina in maniera esplicita i confini. L’art. 6 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, infatti, nel riprendere l’elencazione delle materie per le quali la sanzione è opponibile al tribunale civile, per lo più già contenuta nell’art. 22-bis della l. 24 novembre 1981, n. 689, contestualmente riscrivendone l’art. 22, continua a demandare all’interprete sia il compito di tracciare l’esatto confine della natura sanzionatoria del provvedimento, sia quello, ancor più arduo, di collocarne con precisione il regime delle tutele laddove lo stesso sia intervenuto autonomamente, quale unico rimedio avverso il comportamento del destinatario ovvero in aggiunta ad altro, di natura pecuniaria o meno, finanche a carattere penale.
La lacuna di disciplina che interessa le sanzioni non pecuniarie, infatti, accessorie o meno, consegue alla formulazione letterale della richiamata l. 24 novembre 1981, n. 689, ambiziosamente riferita dal legislatore dell’epoca a tutto l’illecito amministrativo, ma letteralmente riferibile solo a quello conseguito al corposo intervento di decriminalizzazione di originarie fattispecie di reato operato dalla stessa.
Il successivo sviluppo delle legislazioni speciali ha determinato poi il proliferare di rimedi alternativi, aggiuntivi o meno, al pagamento di una somma di danaro per lo più ricompresa in una forbice edittale predeterminata, di ancor più difficile inquadramento proprio in ragione del loro “reagire” ad un comportamento lato sensu illecito sostanzialmente identico, seppure astrattamente lesivo di una pluralità di interessi pubblici diversi[1]. Ciò chiama in causa l’ulteriore tematica, alternativa a quella del concorso formale di illeciti e del relativo regime, del rispetto del principio del ne bis in idem, a maggior ragione laddove il provvedimento limitativo dell’altrui sfera giuridica sopraggiunga a distanza di tempo dalla commissione del presunto illecito, con riferimento al quale sono già stati adottati altre e più tempestive misure, con quanto ne consegue in termini di potenziale pregiudizio del diritto di difesa. In taluni casi addirittura il contenuto della “sanzione” o comunque la si voglia denominare, si palesa esso stesso identico, tanto da rendere difficile l’individuazione del procedimento da seguire, spesso rimessa alla scelta discrezionale dell’Amministrazione procedente, in una logica di ricercata efficacia del provvedimento, ovvero, al contrario, di diluizione dei suoi tempi di attuazione[2].
Le esigenze di semplificazione da sempre invocate in primo luogo a livello di riduzione delle fonti non può non passare dunque dalla razionalizzazione delle stesse anche con riferimento alla fase per così dire patologica delle reazioni dell’ordinamento a condotte ritenute “scorrette” degli operatori economici, a maggior ragione laddove le stesse si risolvano in provvedimenti ablatori o interdittivi della relativa attività. Speculari cioè alle lamentate difficoltà di avvio di un’attività produttiva correlate alla proliferazione dei titoli di legittimazione, e tuttavia meno scrutinate dall’interprete, si palesano infatti quelle riconducibili alla pluralità dei “rimedi” a fronte di accertate violazioni delle singole discipline di settore[3]. Emblematico al riguardo il tentativo di imporre a livello normativo un coordinamento delle attività di controllo, essendo indubbio il danno all’attività economica, finanche in termini di immagine e tutela dell’avviamento, riconducibile alla loro atomistica reiterazione. Con l’art. 14 del d.l.9 febbraio 2012, n.5, convertito, con modificazione, dalla l. 4 aprile 2012, n. 35, recante «Semplificazione dei controlli sulle imprese», vennero dunque individuati i criteri ispiratori comuni all’attività di vigilanza, statuendo che «fermo quanto previsto dalla normativa dell’Unione europea», essa si attenga «ai principi della semplicità, della proporzionalità dei controlli stessi e dei relativi adempimenti burocratici alla effettiva tutela del rischio, nonché del coordinamento dell’azione svolta dalle amministrazioni statali, regionali e locali» (comma 1), demandandone la concreta declinazione ad apposite Linee guida, da adottare in sede di conferenza unificata per quanto attiene agli enti locali. La mancanza di sanzioni ovvero di qualsivoglia tipologia di deterrenza o, al contrario, di incentivo al coordinamento, ha fatto sì che l’intento sia rimasto sostanzialmente sulla carta, dopo che peraltro ciascuna amministrazione aveva tentato in via ermeneutica di svuotare la portata precettiva della norma in difesa della rivendicata specificità di competenze connotante l’intervento di ogni singola forza di polizia.
1. Il quadro normativo.
La cornice normativa in materia di riparto di competenze giurisdizionali sulle sanzioni è dunque oggi contenuta nel d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, recante «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69». In particolare, l’art. 34 ha riscritto l’art. 22, comma 1, della l. 24 novembre 1981, n. 689, abrogando gli ulteriori commi della norma, nonché l’art. 22-bis, che era stato introdotto dal d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, così da adeguare il sistema all’avvenuta soppressione della figura del pretore, cui la normativa originaria faceva necessariamente riferimento. Con l’art. 6 del d.lgs. n. 150/2011, dunque, è stata ripresa la ripartizione di competenze contenuta nell’art. 22-bis della l. n. 689/1981 tra giudice di pace e tribunale in composizione monocratica, cui ci si rivolge in opposizione all’ordinanza-ingiunzione secondo le regole del rito del lavoro. Da un lato, quindi, il novellato art. 22 continua a rappresentare la norma cardine all’interno della legge sull’illecito amministrativo, con un’attribuzione in termini generali della competenza a conoscere delle sanzioni amministrative pecuniarie e della confisca al giudice ordinario, fatti salvi i casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133 del c.p.a. nel frattempo approvato; dall’altro, il nuovo art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, cui l’art. 22 della l. n. 689/1981 fa espresso rinvio, in una cornice sistematica più ampia, si appropria della precedente ripartizione tra tribunale e giudice di pace, estendendola a qualsivoglia sanzione, anche chiaramente estranea al contesto di decriminalizzazione, replicando la metodica dell’elencazione analitica dei soli casi di spettanza del primo, con individuazione in via residuale di quelli attribuiti all’altro. In maggior dettaglio, rispetto al previgente art. 22-bis della l. n. 689 del 1981, che operava il medesimo distinguo, l’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011 elimina alcune materie. Spiccano, per il tema odierno, l’urbanistica ed edilizia (lett. c), ma anche società e intermediari finanziari (lett. f), nonché il diritto tributario (lett. g, prima parte). Si ritiene di poter escludere che si tratti di una dimenticanza del legislatore, poiché dal combinato disposto delle norme citate si evince chiaramente, ad esempio, che con riferimento alle espunte sanzioni in materia urbanistico-edilizia si è inteso fare espresso riferimento con la clausola di salvaguardia della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo contenuta nell’art. 22 della l. n. 689 del 1981. E’ indubbio quindi, ad esempio, che le sanzioni amministrative previste dal d.P.R. n. 380 del 2001 (si pensi a quanto previsto dagli artt. 24 in materia di agibilità, 31, comma 4-bis, per il caso di inottemperanza all’ingiunzione a demolire un abuso edilizio, 37, per gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla s.c.i.a.), rientrando nella materia edilizia ed urbanistica in quanto ulteriore strumento afflittivo per la tutela dell’ordinato sviluppo del territorio, sono soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo[4].
2. La natura sanzionatoria di un provvedimento.
La disciplina del c.d. diritto punitivo amministrativo o, secondo altra denominazione, del diritto penale amministrativo, distinto dal diritto amministrativo della prevenzione e da quello disciplinare, ha trovato nella l. 24 novembre 1981, n. 689 una sua prima organica razionalizzazione, sia sostanziale che processuale. Tuttavia l’art.12 della stessa, concernente il relativo ambito di applicazione, include nel proprio perimetro solo le sanzioni (e conseguentemente, gli illeciti puniti con le stesse) pecuniarie, con ciò rischiando di svuotare sensibilmente la portata della riforma, finalizzata anche a dar vita ad un vero e proprio “codice” dell’illecito amministrativo.
La dottrina pressoché unanime ha tentato da subito in vario modo di svalutare la portata delimitatrice dell’art. 12, seppur di difficile lettura, sottolineandone la pluralità di interpretazioni possibili, per addivenire ad una diversa ricostruzione in via interpretativa della rilevanza ratione obiecti della legge.
In particolare, si sono individuati all’interno dell’articolato normativo tre nuclei fondamentali: a) i principi in materia di tutela giurisdizionale (originariamente contenuti negli artt. 22-25, oggi riconducibili, come sopra detto, all’art. 6 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, che si occupa in maniera esplicita anche delle sanzioni non pecuniarie; b) i principi sul procedimento (artt. 13-21); c) i principi sostanziali sull’illecito e la sanzione. Mentre le regole procedimentali, con l’esclusione secondo taluni dell’art. 13, invocato come modello generale per ogni caso di applicazione di una sanzione amministrativa, paiono attagliarsi solo a quelle pecuniarie; quelle sostanziali, pur con talune eccezioni (si pensi alla previsione della forbice edittale di cui all’art. 10 ovvero alle regole sulla prescrizione, che peraltro sono collocate nella sez. II del capo I, all’art. 28), non possono non trovare applicazione ad ogni sanzione amministrativa in senso stretto, ancorché non pecuniaria[5]. La giurisprudenza amministrativa ha da subito ricondotto alle norme di principio anche quelle procedurali relative all’immediatezza della contestazione o comunque ad una non irragionevole dilatazione dei suoi tempi. Ciò riconoscendo quale intento del Legislatore «quello di assoggettare ad un statuto unico ed esaustivo (e con un medesimo livello di prerogative e garanzie procedimentali per il soggetto inciso) tutte le ipotesi di sanzioni amministrative, sia che siano attinenti a reati depenalizzati sia che conseguano ad illeciti qualificati “ab origine” come amministrativi, con la sola eccezione delle violazioni disciplinari e di quelle comportanti sanzioni non pecuniarie»[6]. La preventiva comunicazione e descrizione sommaria del fatto contestato con l’indicazione delle circostanze di tempo e di luogo (idonee ad assicurare, già nella fase del procedimento amministrativo anteriore all’emissione dell’ordinanza-ingiunzione, la tempestiva difesa dell’interessato), viene ricondotta ai principi del contraddittorio, e per tale ragione si ritiene pacificamente che il termine per la contestazione delle violazioni amministrative abbia natura perentoria.
La l. n. 689/1981, dunque, finisce per avere un ambito di applicazione elastico, in quanto investe un genus di sanzioni (principalmente, ma non esclusivamente pecuniarie) comprensivo di una pluralità di species, solo in alcuni casi dotate di una disciplina speciale (si pensi, ad esempio, alle già ricordate sanzioni pecuniarie in senso stretto in materia urbanistico-edilizia).
Una lettura sistematica e costituzionalmente orientata, non può tuttavia non condurre all’estensione applicativa dei principi fondamentali di cui agli artt. 1, 2, 3 e 4 della l. 689/1981 ad ogni sanzione amministrativa in senso stretto e quindi ad ogni illecito amministrativo, anche se la sanzione prevista non è pecuniaria. Restano fuori dall’applicabilità degli stessi solo quei provvedimenti che, seppur pregiudizievoli per il destinatario, assumono carattere primariamente riparatorio, tra i quali, come è evidente, non può rientrare la chiusura temporanea di un’attività commerciale quale conseguenza (ulteriore) dell’avvenuto accertamento della commissione al suo interno di specifiche ipotesi di illecito, anche penale[7]. Solo integrando, pertanto, il dato testuale dell’art. 12 con considerazioni ispirate in ambito sanzionatorio ad ineludibili esigenze di garanzia, emerge chiaramente tutta l’importanza di sistema dei principi sostanziali e procedimentali fissati nella l. n. 689/1981, intorno alla quale è possibile costruire l’edificio della repressione amministrativa[8].
La problematica sopra delineata vale, ovviamente, per le sanzioni diverse da quelle pecuniarie, vuoi che le si possa qualificare come “accessorie” ad altre, di regola consistenti nel pagamento di una somma di danaro, ma talvolta anche di natura penale[9]; vuoi che intervengano in via autonoma.
La l. n. 689/1981 si occupa delle cd. Sanzioni “accessorie” diverse dalla confisca all’art. 20, prevedendone la possibile applicazione da parte dell’autorità amministrativa competente qualora esse già conseguissero al reato soggetto a depenalizzazione ad opera della medesima legge. Anche in questo caso, dunque, il dato letterale è legato al contesto di generalizzata decriminalizzazione di precedenti illeciti operata dalla normativa sulla base della tipologia di pena per gli stessi prevista. Sotto tale profilo, quindi, solo nel caso in cui un reato, divenuto illecito amministrativo, già prevedesse l’applicazione, in via accessoria, di sanzioni consistenti nella privazione o sospensione di diritti e facoltà derivanti da provvedimenti dell’amministrazione, esse possono facoltativamente essere applicate dall’amministrazione con l’ordinanza ingiunzione che commina anche la sanzione amministrativa pecuniaria.
La lacunosità del riferimento letterale spiega dunque il tentativo di alcuni autori di sottrarre dall’ambito sanzionatorio le misure consistenti nella privazione o nella sospensione di diritti e facoltà (le sanzioni interdittive, appunto) che non siano accessorie rispetto ad un illecito amministrativo da depenalizzazione, individuandone la ratio nella protezione e realizzazione diretta degli interessi dell’Amministrazione in quanto permetterebbero l’ “interdizione” di un soggetto o di una sua attività in ragione della ritenuta inidoneità a soddisfarli, avuto riguardo alla condotta preventivamente tenuta[10].
L’art. 20, co.2, della l. 689/1981 prevede che le sanzioni accessorie ad una sanzione amministrativa pecuniaria non siano applicabili - rectius, esecutive - fino a che sia pendente il giudizio di opposizione contro il provvedimento di condanna o, nel caso di connessione con un reato, fino a che il provvedimento stesso non sia divenuto esecutivo. Ciò da un lato ne conferma la natura afflittiva e la funzione deterrente, dall’altro evidenzia l’attenzione del legislatore al principio - sebbene fortemente temperato- di colpevolezza del destinatario del provvedimento. L’applicazione della sanzione accessoria, infatti, avviene, almeno di regola solo al momento in cui il soggetto è riconosciuto responsabile, a seguito di un giudizio a cognizione piena, della violazione amministrativa[11].
La normativa consente invece l’immediata esecuzione della sanzione pecuniaria, che per la sua fungibilità comporta effetti pregiudizievoli più facilmente rimediabili, nonché, si ritiene, delle sanzioni amministrative non pecuniarie autonome, quanto meno in assenza di un’esplicita deroga di legge. Per contro, proprio nell’immediatezza del rimedio può ravvisarsi un indice della sua natura cautelare o riparatoria, giusta la necessità, cui esso fa fronte, di cauterizzare nel più breve tempo possibile la lesione che l’ordinamento giuridico ha subito a causa del comportamento del presunto trasgressore[12].
La natura sanzionatoria di un provvedimento va ricercata anche nei confini delineati dal diritto europeo. La Corte di Strasburgo ha infatti elaborato propri e autonomi criteri (i notissimi cd. Engel criteria) al fine di stabilire la portata “penale” o meno di un illecito e della relativa sanzione, laddove il relativo termine ha una connotazione diversa rispetto a quella attinta dal diritto nazionale. A ciò consegue che essi non si risolvono affatto in un’indebita ingerenza nella scelta di politica criminale tra qualificazione di un fatto illecito come amministrativo o penale, rimessa al legislatore nazionale (di particolare interesse il dialogo tra le Corti sviluppatosi al riguardo in tema di confisca, quale tipica sanzione amministrativa accessoria al reato di lottizzazione abusiva, su cui v. da ultimo Corte Cost., 26 marzo 2015, n. 49). Ma impongono una valutazione estensiva del concetto per non sottrarre l’applicazione di vere e proprie “sanzioni” ad ineludibili requisiti sostanziali, prima ancora che a precise garanzie procedurali.
Perché possa parlarsi di sanzione “sostanzialmente penale”, dunque, i requisiti vanno ricercati: nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta comunque la valenza “intrinsecamente penale” della misura; nella natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo perseguito; nel grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014, r. n. 18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio 2009, ric. n. 1439/03, resa nella causa Zolotoukhine c. Russia; si v. anche Corte di giustizia UE, Grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10), che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non a quella concretamente applicata. La Corte EDU, dunque, per evitare la c.d. “truffa delle etichette”, impone di guardare al di là dell’inquadramento formale e ricercare la «realtà della procedura in questione» (Corte EDU, 27 febbraio 1980, caso 6903/75, Deweer v. Belgium, par. 44). In tale ottica, assume rilievo la circostanza che la previsione sanzionatoria si rivolga ad una generalità di soggetti –il che è escluso, ad esempio, per la sanzione disciplinare- e che abbia un contenuto afflittivo e una funzione deterrente, requisiti questi che secondo la costante giurisprudenza di Strasburgo sono tra loro alternativi e non cumulativi. Sicché, da un lato, la gravità (severità) può non rilevare, ove la sanzione abbia in sé stessa una inequivoca funzione deterrente e punitiva; dall’altro, entro certi limiti, anche una misura nella quale il carattere afflittivo non sia prevalente (o addirittura manchi), ma che comporti conseguenze di una certa gravità per il destinatario, può essere considerata di natura penale e, quindi, rientrare nel perimetro di applicazione dell’art. 6 CEDU, che costituisce la cartina di tornasole alla stregua della quale è stata evidentemente delineata la cornice sopra tratteggiata. Pertanto, anche provvedimenti di carattere interdittivo o ripristinatorio comunemente ritenuti espressione di un generico potere ablatorio possono, a certe condizioni, ricadere nella nozione di «accusa penale» di cui a ridetto art. 6 della Carta EDU (Corte EDU, 24 aprile 2012, caso n. 1051/06, Mihai Toma v. Romania, par. 26; id., 30 maggio 2006, caso n. 38184/03, Matyjec v. Polland, par. 58)[13].
Di particolare sensibilità il tema della necessità dell’elemento psicologico dell’illecito, ovvero della necessaria colpevolezza del suo autore o comunque del soggetto individuato come destinatario della sanzione, affinché la stessa possa essergli legittimamente imposta.
La questione ha assunto un notevole rilievo ancora una volta in materia di illecito urbanistico-edilizio, con riferimento in particolare alla confisca quale conseguenza della lottizzazione abusiva, ma non solo.
Attingendo ancora ai suggerimenti della Corte EDU riferiti, questa volta, all’art. 7 della Convenzione, va ricordato come pronunciandosi sull’affaire di Punta Perotti, si sia fatta leva sulla presenza del sintagma «persona colpevole» nelle versioni inglese e francese della norma per richiedere comunque un criterio d’imputabilità soggettiva dell’illecito laddove soggetto a sanzione penale (Corte EDU, sez. II, 20 gennaio 2009, caso n. 75909/01, Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, par. 116).
La natura “reale” delle sanzioni amministrative edilizie[14]ha tuttavia portato la giurisprudenza nazionale a prescindere dallo scrutinio dell’elemento psicologico, ritenendo, ad esempio, che la fattispecie di lottizzazione abusiva rilevi in modo oggettivo e indipendentemente dall’animus dei proprietari interessati, i quali, sussistendone i presupposti, potranno far valere la propria buona fede nei rapporti interni e di natura civilistica con i propri danti causa (cfr., ex multis Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2019, n. 4320). Si è così arrivati a distinguere sul piano sistematico tra ablazione della proprietà che consegua alla decisione del giudice penale ovvero ai provvedimenti dell’autorità comunale, relegando l’applicazione dei principi costituzionali e sovranazionali di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai trasgressori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito contestato solo alla prima, ovvero all’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 (che in base alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Chambre, 28 giugno 2018, n. 1828 viene ritenuta in ogni modo compatibile con l’art. 7 CEDU). L’argomento medesimo non è stato invece ritenuto utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio del Comune, contemplata dall’art. 30, comma 1 e 8, ovvero dall’art. 31 del medesimo T.U.E., in quanto atti vincolati[15]. I profili sollevati riguardano le garanzie inerenti alla titolarità del diritto di proprietà e, in particolare, all’aspetto dell’acquisizione della titolarità delle aree dei privati in capo all’Amministrazione quale conseguenza delle misure sanzionatorie previste dall’art. 30, comma 1 ed 8, del D.P.R. n. 380/2001, con un effetto sostanzialmente espropriativo per il proprietario inciso. La Corte Costituzionale con sentenza 24 luglio 2009, n. 239 (riguardante la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 44, co. 2, del medesimo d.P.R. n. 380/2001, sollevata in riferimento agli art. 3, 25, comma 2, e 27, comma 1, della Costituzione, nonché ai principi dettati dalla CEDU, nella parte in cui la norma impone al giudice penale, in presenza di accertata lottizzazione abusiva, di disporre la confisca dei terreni e delle opere abusivamente costruite anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei confronti di persone estranee ai fatti) ha dichiarato l’inammissibilità della questione anche sotto il profilo dell’omissione da parte del giudice a quo della sperimentazione della possibilità di un’interpretazione conforme alla disposizione internazionale, quale interpretata dalla predetta Corte europea dei diritti dell’uomo. Spetta infatti «agli organi giurisdizionali comuni l’eventuale opera interpretativa dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 che sia resa effettivamente necessaria dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo; a tale compito, infatti, già ha atteso la giurisprudenza di legittimità, con esiti la cui valutazione non è ora rimessa a questa Corte. Solo ove l'adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l'eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge».
Non osta, dunque, al disposto della norma in questione un’interpretazione che tenga conto, in linea con i principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dei profili soggettivi di assenza di colpa e buona fede, che, anzi, si impone alla luce della natura di sanzione amministrativa della misura acquisitiva prevista dai suddetti comma in quanto nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione o omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.
A ben guardare in effetti mentre l’accertamento dell’ipotesi di reato, nella sua forma materiale o negoziale, presuppone necessariamente la prova dell’elemento psicologico, l’acquisizione al patrimonio del Comune consegue al decorso di 90 giorni senza avere ottemperato all’ingiunzione di sospensione dei lavori, evidentemente ancora in corso, ovvero di non cedere il bene con atto tra vivi.
L’indifferenza in ordine alla sussistenza o meno di un comportamento colposo è stata interpretata nel senso di porre una presunzione iuris tantum di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che l’abbia commesso, spettando allo stesso l’onere della prova della propria incolpevolezza[16]. L’aspetto relativo alla necessità della sussistenza di un elemento soggettivo, quale indice di rimproverabilità, può recedere dinanzi alla funzione concretamente ripristinatoria della sanzione che in quanto tale «ha l’attitudine di imporsi, per il suo carattere reale, anche nei confronti di soggetti in stato di incolpevole buona fede, in quanto misura necessaria al ripristino del bene. In base a tale interpretazione, che tiene conto del profilo soggettivo di responsabilità nella condotta, la sanzione acquisitiva di cui all’art. 30 (commi 1, 7 e 8) si palesa in linea con i principi espressi dalla Corte di Strasburgo ed a quest’ultimo riguardo, il dovere di dare all'ordinamento interno una interpretazione conforme alla CEDU, come esplicitata dalla Corte di Strasburgo, deriva dall'art. 117 Cost., comma 1, ed è stato affermato in modo generale dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e 349 del 2007 e, con riferimento specifico al citato art. 44, comma 2, con la sentenza 24 luglio 2009 n. 239» (v. Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7380).
3. La decadenza.
Con il termine “decadenza” si può intendere sia un provvedimento di natura sanzionatoria, sia più in generale un atto di esercizio del potere di autotutela, sia un distinto istituto di natura rimediale che fa cessare gli effetti dell’atto precedente con effetto ex nunc o per il venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto, o per inadempimento di obblighi imposti dal provvedimento o per mancato esercizio per un determinato periodo di tempo delle facoltà che derivano dallo stesso[17].
La distinzione ha trovato implicita consacrazione nelle affermazioni dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che ha così perimetrato “in negativo”, evidenziando gli elementi di affinità e quelli di divergenza, il provvedimento con il quale il Gestore Servizi Energetici (GSE), a conclusione di un procedimento di verifica condotto ai sensi dell’art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011 e del D.M. 31 gennaio 2014 in relazione ad un impianto fotovoltaico, ha dichiarato la decadenza, appunto, dal diritto alle tariffe incentivanti fruite da un operatore economico, con conseguente recupero integrale degli incentivi percepiti. Ciò essendo emerso nel caso di specie dall’istruttoria, con riferimento all’attestazione dell’origine dei pannelli fotovoltaici, che era stato presentato un documento (Factory Inspection Attestation) non conforme a quello che lo stesso ente aveva originariamente emesso. Secondo l’Adunanza plenaria, dunque, la decadenza, intesa quale vicenda pubblicistica estintiva, «ex tunc (o in alcuni casi ex nunc)»[18], di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio) se rientra nell’esercizio dell’autotutela, si connota per la sottoposizione ai presupposti, condizioni ed effetti statuiti a livello generale dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990; se ha carattere sanzionatorio, richiede l’elemento soggettivo del dolo o della colpa e l’effetto ablatorio prodotto al massimo coincide con l’utilità concessa attraverso il pregresso provvedimento ampliativo sul quale viene ad incidere; se istituto autonomo (quale ritenuto quello in esame non presenta alcun tratto comune con il diverso istituto della sanzione, della quale non condivide i due richiamati requisiti, ma «pur presentando tratti comuni col più ampio genus dell’autotutela, ne deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente: a) per l’espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall’art. 21 nonies della legge 241/90 […];b) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; c) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti;[…]»[19]. La giurisprudenza ha già avuto modo di confermare tale distinzione tra decadenza e autotutela avuto riguardo ai provvedimenti del G.S.E. anche dopo la modifica dell’art. 42, comma 3, d.lgs. 28/2011 introdotta dall’art. 56, comma 8, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, il quale ha esteso alla prima i presupposti di cui all’art. 21 nonies l. 241/1990, anche allo scopo di circoscriverne nel tempo l’irrogazione, ma non ha mutato la natura del potere (che rimane di decadenza), né il carattere vincolato dello stesso. La titolarità del potere di verifica e controllo, pertanto, non consente l’indiscriminata rimessa in discussione dei presupposti iniziali, senza il rispetto delle necessarie garanzie e degli affidamenti in capo alle imprese direttamente coinvolte, in quanto una volta che il procedimento si è concluso con il vaglio positivo degli elementi forniti dal privato, il riesame dei medesimi elementi deve seguire i canoni ed i presupposti del potere di autotutela, sotto tutti i punti di vista. Ne discende che «anche l’esercizio di poteri di revisione del precedente assenso regolatorio debbano essere esercitati nel rispetto dei principi dettati, in generale per le tradizionali autorità, con riferimento al potere di autotutela. Ciò non solo con riferimento al formale rispetto dei presupposti, ma anche relativamente alla verifica istruttoria e motivazionale degli elementi forniti dai soggetti passivi, sia in relazione ai presupposti iniziali sia rispetto alle alternative che le stesse società avrebbero potuto perseguire, in specie dinanzi al mutamento di interpretazione dell’autorità». (Cons. Stato, sez. VI, 29 luglio 2019, n. 5324, nonché, più di recente, sez. II, 17 giugno 2022, n. 4983)[20]. Sotto il profilo del regime delle tutele non si pongono a tale riguardo particolari problematiche giusta la riconducibilità della materia ad una di quelle di competenza esclusiva del giudice amministrativo.
Ma traslando le relative affermazioni al più generale quadro delle decadenze previste nell’ordinamento, si viene così ad imporre all’interprete un distinguo, appunto, su funzione “punitiva” della stessa e funzione meramente ripristinatoria, di non sempre agevole individuazione.
A titolo di esempio, la previsione nominativa, nonché la finalità di tutela di prescrizioni amministrative imposte dalla legge per giustificare il perdurante godimento del beneficio parrebbe attrarre nella sfera di competenza del giudice amministrativo la decadenza di cui all’art. 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (a vario titolo riprodotta nelle discipline regionali di settore) che consegue al mancato utilizzo del posteggio in concessione per un lasso di tempo predeterminato[21]. Né pare condurre a soluzione opposta la circostanza che della stessa si faccia menzione in una norma rubricata “sanzioni”, stante che la sanzione ivi prevista consegue alla decadenza (revoca del titolo), laddove la stessa, proprio in quanto non sanzionatoria, non consente giustificazioni alternative rispetto a quelle tassativamente individuate dal legislatore (malattia, gravidanza e servizio militare).
4. La stratificazione normativa in materia di occupazione di suolo pubblico.
Il “suolo pubblico” è quella porzione di territorio non coperta da edificazioni suscettibile di occupazione per varie finalità, per lo più economiche[22], previa concessione o autorizzazione da parte dell’Ente proprietario. Trattandosi per lo più di strade o piazze, esso è riconducibile alla nozione di demanio stradale, la cui disciplina è rinvenibile ancora oggi negli artt. 822 e 824 c.c., a seconda che appartengano allo Stato, ovvero a Province e Comuni. La richiamata sistematica ha assunto oggi connotazioni più sfumate, laddove il suolo (e più in generale il bene pubblico) sia utilizzato da una specifica collettività, sì da essere ancorato alla tutela dell’interesse pubblico che fa capo alla stessa. Emblematica al riguardo la vicenda giuridica delle lagune venete, che non solo in quanto non menzionate come tali nell’elencazione dei beni demaniali (che contempla spiagge, rade dei porti, lidi) sono state ricondotte alla più moderna dizione di “bene comune” da due ormai famose sentenze “gemelle” della Corte di Cassazione, che hanno fornito lo spunto per lo sviluppo di una teoria giuseconomica della proprietà pubblica laddove affermano che «il solo aspetto della demanialità non appare esaustivo per individuare beni che, per loro intrinseca natura, o sono caratterizzati da un godimento collettivo o [..] risultano funzionali ad interessi della stessa collettività», di fatto valorizzando l’utilizzo, piuttosto che la titolarità [23].
Ciò ha consentito nel tempo la valorizzazione di istituti, quali il c.d. ‘baratto amministrativo”, che fondano il rapporto sinallagmatico tra privato e pubblica amministrazione proprio sul coinvolgimento dei cittadini, singoli o associati, nella gestione del “bene comune”, in un’ottica di recupero di contenitori degradati, politiche di sicurezza delle periferie, ovvero più semplicemente perequazione tra diretta presa in carico di servizi pubblici, quali il mantenimento del verde o la pulizia e assunzione dell’onere economico degli stessi[24].
La fruizione del suolo pubblico, sottraendolo all’uso della collettività, è soggetta a concessione[25], per l’attribuzione della quale operano i principi di evidenza pubblica come ormai definitivamente chiarito nell’organica evoluzione normativa, dottrinaria e giurisprudenziale della materia, diretta a ricondurre l’attribuzione di tutte tali fattispecie al rispetto dei principi di matrice comunitaria di imparzialità e di trasparenza[26]. In sintesi, pur avendo avuto la vicenda minore risonanza, anche mediatica, le medesime affermazioni riferite alla sottrazione all’uso collettivo di aree del demanio marittimo si attagliano anche alla mera concessione di “preselle” di suolo pubblico (posteggi e simili), tanto che l’affermazione della diretta applicabilità dei principi eurounitari da parte anche del singolo funzionario chiamato a gestire la normativa di settore ha da tempo determinato la preoccupazione degli operatori economici e l’inerzia degli uffici comunali competenti. Non a caso, nel parere espresso dall’AGCOM in sede di audizione parlamentare, si richiamano la giurisprudenza nazionale e comunitaria in materia di concessioni demaniali marittime per evocarne i principi anche con riferimento alle concessioni per l’esercizio del commercio su aree pubbliche[27]. La materia peraltro è stata ulteriormente complicata dal fatto che in alcune Regioni molti Comuni hanno comunque provveduto ai rinnovi delle concessioni in base alla legislazione in vigore, “sfruttando” le norme emergenziali relative all’epidemia da Covid-19 che consentono la conclusione dei procedimenti entro novanta giorni dalla cessazione dello stato di emergenza[28]. Quanto detto mentre cominciano a farsi strada le prime sentenze nelle quali si riconosce espressamente la riferibilità della disciplina comunitaria al settore del commercio in aree pubbliche sulla base del percorso argomentativo dell’Adunanza Plenaria laddove afferma che «la tutela della concorrenza (e l’obbligo di evidenza pubblica che esso implica) è, d’altronde, una “materia” trasversale, che attraversa anche quei settori in cui l’Unione europea è priva di ogni tipo di competenza o ha solo una competenza di “sostegno”: anche in tali settori, quando acquisiscono risorse strumentali all’esercizio delle relative attività (o quando concedono il diritto di sfruttare economicamente risorse naturali limitate), gli Stati membri sono tenuti all’obbligo della gara, che si pone a monte dell’attività poi svolta in quella materia. Altrimenti, si dovrebbe paradossalmente ritenere che anche le direttive comunitarie in materia di appalti e concessioni non potrebbero trovare applicazione ai contratti diretti a procurare risorse strumentali all’esercizio di attività riservate alla sovranità nazionale degli Stati». In altri termini, la direttiva impone l’indizione di gare pubbliche a tutela della concorrenza per il mercato, materia “trasversale” che è suscettibile di trovare applicazione in vari settori dell’ordinamento nazionale, tra cui deve senz’altro farsi rientrare quello delle concessioni di parcheggi a rotazione per l’esercizio del commercio su aree pubbliche per altro caratterizzati anch’essi, come già detto, dalla scarsità delle concessioni assentibili[29].
In linea di massima, le controversie che attingono alle concessioni di suolo pubblico sottostanno alle regole generali individuate dalla giurisprudenza per il riparto di giurisdizione. Spettano dunque al giudice ordinario quelle concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, in quanto a contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere d’intervento della P.A. a tutela di interessi generali (ex plurimis, Cass., SS.UU., ord. 30 luglio 2020, n. 16459).
Con riferimento al canone, solo quando venga in contestazione - come, nel caso dell’impugnazione del regolamento – l’esercizio di poteri valutativo-discrezionali nella sua determinazione «sia in punto di an debeatur sia in punto di individuazione dei criteri di determinazione del quantum debeatur, e non già il suo mero calcolo aritmetico sulla base di criteri già predeterminati», la competenza è del giudice amministrativo[30].
Giova rammentare il quadro normativo: l’art. 42 del d.lgs. n. 507 del 1993, concernente la «Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei Comuni e delle Province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale Ecologia», ha introdotto la distinzione tra occupazioni di spazi ed aree pubbliche “permanenti” o meno, considerando tali quelle «di carattere stabile, effettuate a seguito del rilascio di un atto di concessione, aventi, comunque, durata non inferiore all’anno, comportino o meno l’esistenza di manufatti o impianti» (comma 1, lett. a), per le quali era dovuta una tassa, a tariffa - variabile - «graduata a seconda dell’importanza dell’area sulla quale insiste l’occupazione» e«commisurata alla superficie occupata»; l’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n.446, in attuazione della delega, conferita al Governo dalla legge del 23 dicembre 1996, n. 662, ha demandato alle Province ed ai Comuni il potere di adottare un regolamento per assoggettare il titolare della concessione di occupazione, permanente o temporanea, appunto, di strade, aree e relativi spazi soprastanti e sottostanti appartenenti al demanio o patrimonio indisponibile dell’ente, comprese le aree destinate a mercati, anche attrezzati, all’obbligo del pagamento di un canone «con riferimento alla durata dell'occupazione» e maggiorabile «di eventuali oneri di manutenzione derivanti» dall’occupazione stessa, commisurato alle esigenze del bilancio dell’ente, al valore economico delle aree e all’entità del sacrificio imposto alla collettività con la rinuncia all’uso pubblico generalizzato degli spazi occupati. Inizialmente, era stata prevista anche l’abolizione, con decorrenza dal primo gennaio 1999, delle tasse per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo II del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 50 (TOSAP), ma l’art. 31, comma 14, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 ha poi ripristinato il precedente assetto normativo, anche ai fini della giurisdizione, sicché si è stabilito che l’obbligo del pagamento del canone (COSAP) poteva coesistere con l’obbligo del pagamento della tassa per l’occupazione di aree pubbliche (TOSAP), stante la diversità della natura delle prestazioni dovute dal concessionario, essendo il canone COSAP, per l’appunto, non un tributo ma il corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici. La medesima norma, infine, al comma 20, nel modificare il comma 1 dell’art. 63 del d.lgs. n. 446 del 1997, stabilì che «i comuni possono», adottando appositi regolamenti, «escludere l’applicazione nel proprio territorio della TOSAP», e in alternativa «prevedere che l’occupazione, sia permanente che temporanea, degli spazi e delle aree», elencati nella norma sostituita, sia assoggettata ad un canone di concessione (COSAP) determinato in base a tariffa, con relativa giurisdizione in capo al giudice ordinario e non tributario, anche a seguito della sentenza della Corte costituzionale sull’art. 3-bis, comma 2, lett. b), della legge 2 dicembre 2005, n. 248, intervenuto a novella, dato atto della diversa natura giuridica del COSAP rispetto alla TOSAP. Al fine di evitare che le scelte concessorie dipendessero da decisioni estemporanee degli Enti territoriali contrarie anche ad un ordinato governo del territorio, l’art. 63 del d.lgs. 446 del 1997 demandava al regolamento comunale anche la disciplina delle condizioni di rilascio e di rinnovo delle autorizzazioni, nonché degli ambiti sanzionatori, facendo salve peraltro le previsioni del sopra richiamato art. 20 del Codice della strada. Tale principio ha trovato consacrazione in numerose pronunce dei giudici di legittimità e amministrativi, in particolare a far data dalla decisione del 7 gennaio 2016, n.61, delle Sezioni Unite della Cassazione, che ha ribadito la natura di corrispettivo del Cosap per la concessione dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici, e non per la sottrazione al sistema della viabilità di un’area o spazio pubblico. Da ultimo, il Capo I del d.lgs. n. 507 del 1993 è stato formalmente abrogato con l’art. 1, comma 847 della legge 27 dicembre 2019, n. 160, salvo essere ripristinato dal d.l. 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni dalla l. 28 febbraio 2020, n. 8, che all’art. 4, comma 3-quater ha disposto che l’abrogazione non operi per l’anno 2020. E’ stato infatti introdotto un “canone unico” di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria, che assorbe anche quello di cui all’art. 27, commi 7 e 8, del Codice della Strada, limitatamente alle strade di pertinenza dei comuni e della province, con portata comprensiva di qualunque canone ricognitorio o concessorio previsto da norma di legge o di regolamento, fatti salvi quelli connessi a prestazioni di servizi. Il potere regolamentare dei Comuni resta tuttavia anche nella nuova cornice normativa, giusta le previsioni in tal senso contenute ai commi da 816 a 836 del richiamato art. 1 della legge di bilancio 2020, che ne demanda al Consiglio comunale, specificando tra i contenuti obbligatori anche le condizioni di rilascio della concessione e il regime sanzionatorio, il cui importo non può superare il 50 % del canone dovuto, ferme restando le sanzioni previste dal codice della strada stesso. Il canone può essere maggiorato di eventuali effettivi e comprovati oneri di manutenzione in concreto derivanti dall’occupazione del suolo e del sottosuolo che non siano, a qualsiasi titolo, già posti a carico dei soggetti che hanno effettuato le occupazioni. Il comma 822 pone a carico dell’Ente proprietario la rimozione dell’occupazione abusiva previa redazione di processo verbale di constatazione redatto da competente pubblico ufficiale, con oneri derivanti dalla rimozione a carico dei soggetti che hanno effettuato le occupazioni.
In relazione alle impugnative degli avvisi di pagamento, la loro contestazione dedotta in via derivata rispetto al regolamento Cosap (ora del canone unico), è stata fatta rientrare nella giurisdizione del Giudice amministrativo. Diverse considerazioni valgono, invece, in ordine a eventuali profili di censura in via autonoma (si veda, in proposito, Cass. SS. UU. Sentenza n. 21950 del 2015, ove si legge: «le controversie relative ai canoni per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, perché l’obbligo di pagamento di un canone per l'utilizzazione del suolo pubblico non ha natura tributaria, esulando dalla doverosità della prestazione e dal collegamento di questa alla pubblica spesa»)[31]. Si consideri, peraltro, che la stretta correlazione tra l’atto amministrativo generale presupposto "a monte" e l’atto applicativo "a valle" non ha una rilevanza circoscritta ai profili giurisdizionali; esso incide, altresì, sull’accertamento del momento in cui possa dirsi integralmente manifestata la lesività del medesimo regolamento.
Avuto riguardo al delicato settore delle concessioni demaniali marittime – ma il principio può essere esteso ad ogni ambito - si è altresì affermato che spetta al giudice amministrativo la giurisdizione sul contenzioso concernente i provvedimenti di rideterminazione del canone, adottati in applicazione dell’art. 1, comma 251, della legge finanziaria n. 296 del 2006, qualora non si tratti della sua mera quantificazione, ma la controversia riguardi anche altri aspetti comportanti una valutazione tecnico-discrezionale da parte dell’Amministrazione (es., l’integrale revisione previa ricognizione tecnico-discrezionale del carattere di pertinenze demaniali marittime delle opere realizzate in precedenza dal concessionario, anche in considerazione dell’inamovibilità o meno delle stesse; la questione se le opere realizzate sul suolo demaniale divenissero di proprietà dello Stato soltanto alla scadenza della concessione; l’applicabilità della normativa sopravvenuta alle concessioni in corso)[32].
5. Le sanzioni di natura non pecuniaria.
Individuare la natura sanzionatoria della misura applicata può non essere sufficiente a individuare anche il giudice competente in relazione alla sua impugnazione. Ciò nello specifico laddove essa venga irrogata autonomamente, ovvero costituisca l’unica conseguenza della condotta illecito oppure l’ulteriore conseguenza della stessa, già sanzionata in via amministrativa, pecuniaria e non solo, ovvero penale. L’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, infatti, con riferimento alla competenza del tribunale, parla di “sanzione di natura diversa” applicata “congiuntamente” a quella pecuniaria, ovvero “da sola”.
In passato, sulla base della formulazione letterale dell’art. 22 della l. n. 689 del 1981, si era affermata la giurisdizione amministrativa per tutte le sanzioni accessorie diverse dalla confisca, purché irrogate autonomamente. La questione è stata ancora di recente oggetto di una pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione (ordinanza 21 settembre 2020, n. 19664), che pronunciandosi sul regolamento di giurisdizione sollevato in relazione alla sanzione della chiusura per dieci giorni dell’esercizio destinato al gioco sportivo e alle lotterie irrogata dall’Agenzia delle Dogane e dei monopoli per l’accertata violazione, da parte della Questura, dell’art. 24, comma 21, del d.l. n. 98 del 2011, convertito con modificazioni dalla l. n. 11 del 2011, ha ritenuto di individuare l’elemento di discrimine nella mancanza di discrezionalità applicativa. In tal modo il giudice ha inteso discostarsi dal precedente orientamento che ravvisava, appunto, nell’autonomia della sanzione l’elemento diversificante, giusta la stretta connessione di quella irrogata contestualmente ad altra pecuniaria con i presupposti di quest’ultima. Al contrario, l’autonomia era considerata quasi ex se indizio di un contenuto conformabile dalla pubblica amministrazione, mediante l’esercizio del proprio potere discrezionale, alla violazione concretamente posta in essere ed espressione dell’esercizio del potere, anch’esso discrezionale, di vigilanza e controllo dell’autorità amministrativa.
Al contrario, il perno della questione viene ora a spostarsi propria sulla sussistenza o meno di discrezionalità applicativa, a prescindere dal momento in cui si addivenga alla scelta, rilevando caso mai lo stesso quale vizio del procedimento sanzionatorio in qualunque sede rilevato. La discrezionalità va dunque effettivamente accertata e costituisce la cartina di tornasole non della natura sanzionatoria o meno del provvedimento, ove comunque afflittivo, ma della sua portata doverosa nell’an e necessitata nel quomodo. Solo laddove, quindi, non vi è alcuna possibilità di scelta da parte della P.A. procedente, la giurisdizione in materia di sanzione di natura non pecuniaria è del giudice ordinario[33].
La natura esclusivamente afflittiva e il potere interamente vincolato della norma che definisce dettagliatamente il fatto che integra la violazione stabilisce l’obbligo di applicare la sanzione determinandone in via esclusiva e non alternativa il contenuto anche in relazione alla durata, con la prescrizione inderogabile del minimo e del massimo irrogabili. A quel punto l’applicazione della sanzione consegue ad un obbligo di legge, derivante dalla commissione del fatto illecito, accertata dall’autorità di polizia, e non costituisce il risultato di un’autonoma attività di vigilanza e controllo dell’autorità amministrativa irrogante.
Questo importante ripensamento giurisprudenziale ci consente oggi di azzardare qualche conclusione sulla giurisdizione, venendo a specificarsi (attraverso qualche grossa semplificazione) che, eccezion fatta per i casi di giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, le sanzioni non pecuniarie, comminabili in carenza di discrezionalità, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla loro specifica afflittività.
Una interessante applicazione dei ridetti principi è dato ravvisare nelle numerose pronunce di primo grado (inappellate) nelle quali il giudice amministrativo ha declinato la propria competenza avuto riguardo a talune sanzioni previste dalla legislazione emergenziale per fronteggiare l’epidemia da COVID-19. Con riferimento, ad esempio, alla disciplina di cui all’art. 4, comma 2, del d.l.ec n. 19 del 2020, convertito in l. n. 35 del 2020 – che prevede espressamente quale sanzione accessoria non alternativa la chiusura dell’esercizio da 5 a 30 giorni nei casi di cui all’art. 1, comma 2, lettere i), m), p), u), v), z) e aa) – si è infatti riconosciuto che trattasi indiscutibilmente di fattispecie in cui risultano predeterminate sia la condotta sia la sanzione minima e massima, così che «la sanzione accessoria ha natura esclusivamente afflittiva al pari di quella pecuniaria alla quale si aggiunge ancorché senza alcun collegamento causale o consequenziale». Ne discende «che non venga in tal caso, in rilievo alcun potere discrezionale, in quanto l’autorità è priva del potere di stabilire se applicare la sanzione, né può articolarne il contenuto come nelle sanzioni ripristinatorie della situazione modificata a causa della condotta illecita» e in considerazione del fatto che non risulta ascrivibile all’esercizio di un potere propriamente discrezionale la mera determinazione dei giorni di chiusura del locale aperto al pubblico, da effettuarsi dalla stessa tra un minimo e un massimo, rigorosamente predeterminati dalla norma[34]. A tutto ciò consegue che la afflittività della misura irrogata ne implica la portata “sanzionatoria” e le conseguenti garanzie anche procedurali nella irrogazione; ma è l’obbligo applicativo e contenutistico a sancirne il regime delle tutele.
6. La rimozione dell’occupazione di suolo pubblico nella normativa a tutela della sicurezza delle città.
Con la legge 15 luglio 2009, n. 94, è stato inserito un particolare tipo di rimedio avverso occupazioni abusive di suolo pubblico che va ad aggiungersi a quelli già previsti e che ha dato luogo a un interessante contenzioso che attinge i principi poco sopra enunciati. Trattasi dell’art. 13, commi 16, 17 e 18. La norma prevede dunque che fatta salva l’applicazione dei provvedimenti dell’autorità per motivi di ordine pubblico (per esempio, ordinanze contingibili e urgenti), in tutti i casi di indebita occupazione di suolo pubblico riconducibile o al reato di cui all’articolo 633 del codice penale o alla fattispecie di cui all’articolo 20 del codice della strada, il sindaco per le strade urbane e il prefetto per quelle extraurbane o per ogni luogo quando ricorrono motivi di sicurezza pubblica, possono ordinare il ripristino dello stato dei luoghi a spese degli occupanti[35].
In caso di accertamento di tali illeciti, peraltro, è prevista sempre la trasmissione di copia del verbale di accertamento alla Guardia di finanza (art. 1, comma 18), ai sensi dell’art. 36 della del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
Come affermato da subito dai primi commentatori, la tipologia di provvedimento previsto da questa disposizione non è riconducibile al genus delle ordinanze contingibili ed urgenti, pur nascendo da esigenze di sicurezza, lato sensu intesa. Con tale norma si generalizza caso mai una specifica sanzione accessoria riferita a due diverse tipologie di illecito, penale (art. 633 c.p.) e amministrativo (art. 20 Codice della strada), in quanto esplicitamente richiamati[36]. Il tema è stato affrontato nuovamente dal dal d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, convertito dalla l. 18 aprile 2017, n. 48, che ha inteso peraltro valorizzare in termini più generali la potestà regolamentare del comune in materia di “sicurezza delle città”, e dunque in una visione prospettica ben diversa da quella a carattere economico comunque sottesa alla riscossione del canone. Il legislatore dunque da un lato ha riscritto per l’ennesima volta il potere di ordinanza del sindaco per la tutela della “sicurezza urbana”[37]; dall’altro, ha delimitato inediti spazi di intervento per i regolamenti comunali. Si è cercato in tal modo di porre rimedio ad una delle principali contraddizioni sorte a seguito della novella dell’art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attuata con l’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito dalla legge 24 luglio 2008, n. 125. In primo luogo, mediante l’inserimento del comma 7-ter nell’art. 50, dunque, concernente il potere di ordinanza del Sindaco quale capo del governo locale, è stata attribuita ai comuni la potestà di dotarsi di appositi regolamenti nelle medesime materie per le quali gli è riconosciuto di provvedere in via d’urgenza. Si tratta delle «situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche». In secondo luogo, si è demandata ai regolamenti comunali di polizia urbana la possibilità di «individuare aree urbane su cui insistono scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli ovvero adibite a verde pubblico», nell’ambito delle quali applicare a chi ponga in essere condotte che ne impediscono l’accessibilità e la fruizione, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300 e il contestuale ordine di allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto[38]. Va peraltro precisato che l’art. 5, comma 1, lett. c) del decreto rimette ai patti per l’attuazione della sicurezza urbana la “valorizzazione” di forme di collaborazione interistituzionale tra le amministrazioni competenti quale tipico strumento di sicurezza partecipata anche l’eventuale supporto all’ente locale nell’individuazione delle aree urbane da sottoporre alla particolare tutela di cui all’articolo 9, comma 3 dello stesso.
Nel complicato gioco di rimandi riveniente dalle numerose clausole di rinvio agli illeciti previsti dalle varie norme richiamate (ad esempio, l’art. 29 del d.lgs. n. 114 del 1998 per quanto concerne il commercio su aree pubbliche, senza peraltro distinguere all’interno dello stesso le varie tipologie di violazioni), il richiamato comma 3 dell’art. 9 fa salva anche l’applicazione dell’art. 52, comma 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali) e dell’art. 1, comma 4, del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività -SCIA-, silenzio assenso e comunicazione di inizio lavori e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124)[39]. La prima di tali disposizioni, al fine di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini, avoca al livello statale (i competenti uffici territoriali del ministero per i beni e le attività culturali, id est le Soprintendenze), seppure d’intesa con la regione e i comuni, l’adozione di determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti –recte, itineranti - senza posteggio, nonché, ove se ne riscontri la necessità, l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico[40]. L’art. 1, comma 4, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222, egualmente prevede, a riprova della ribadita necessità di porre alcuni argini al processo di liberalizzazione delle attività economiche nell’ambito delle scelte di governo, un invertito assetto delle competenze, per cui è il comune, d’intesa con la regione, sentito il competente soprintendente del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, ad adottare le deliberazioni volte a individuare, sentite le associazioni di categoria, zone o aree aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico in cui è vietato o subordinato ad autorizzazione, l’esercizio di una o più attività, in quanto ritenuta non compatibile con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Come si vede da un’analisi comparata delle disposizioni richiamate, le finalità di tutela finiscono per essere sovrapponibili, laddove al Comune è consentito in maniera più ampia riservarsi l’imposizione del titolo abilitativo espresso, così da demandare al momento del relativo rilascio la verifica della compatibilità con l’assetto dei luoghi che si vogliono tutelare. La possibilità, cioè, di imporre un titolo di legittimazione che non sia la segnalazione certificata di inizio di attività, prevista in tutte le altre aree del territorio, anche per reintrodurre surrettiziamente il controllo della tipologia o categoria merceologica e valutarne la compatibilità con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, diviene strumento per controllarne l’insediamento. Ovviamente, affinché ciò non si risolva in una limitazione indiscriminata della concorrenza in dispregio delle disposizioni europee recepite nelle d.lgs. 59/2010, si prevede un costante monitoraggio da parte del ministero dei provvedimenti adottati. Allo scopo, le deliberazioni adottate sulla base di tale norma devono essere trasmesse alla competente soprintendenza del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e al ministero dello sviluppo economico per il tramite della regione. La digressione intrapresa, tuttavia, mette in luce la astratta sovrapponibilità di assetti regolatori diversi, anche a livello locale, giusta le variegate possibilità di intervento, in ragione dei diversificati interessi pubblici evidenziati, previste dal legislatore.
Limitandosi, dunque, ad alcuni dei possibili strumenti di eliminazione di un’occupazione abusiva, va rimarcato come il provvedimento (scritto) del Sindaco o del Prefetto previsto dalla normativa del 2009 è rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione; al contrario, l’ordine di allontanamento è doveroso al ricorrere delle condizioni date, come dimostrato dalla perentorietà dei termini utilizzati dal legislatore, al pari, del resto, dell’attivazione della sanzione accessoria del ripristino dello stato dei luoghi prevista dall’art. 20 del Codice della Strada e della rimozione dell’abuso cui fa riferimento, da ultimo, la legge n. 160 del 2019. Sicché a parità di effetto afflittivo, utilizzando il paradigma da ultimo fornito dalle Sezioni unite della Cassazione, le relative opposizioni vanno ricondotte alla competenza del giudice ordinario, salva la prima ipotesi richiamata, pur incidendo comunque la misura su diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà di movimento[41].
Le sentenze del Consiglio di Stato aventi ad oggetto il provvedimento di chiusura dell’attività commerciale che ha posto in essere un’occupazione abusiva di suolo pubblico sono moltissime, e per lo più già andavano nella direzione da ultimo tracciata dai giudici di legittimità: avendo il legislatore utilizzato il verbo “possono”, a sottolineare il discrezionale esercizio del potere, la competenza a decidere sui ricorsi va attribuita al giudice amministrativo.
Occorre se mai chiedersi se siano ancora attuali le stesse affermazioni ove riferite alla determina dirigenziale che dà attuazione ad una previsione regolamentare a monte, non impugnata, che ne ha imposto l’adozione a presupposti dati, addirittura indicando l’entità dei giorni di chiusura nell’ambito del tetto massimo fissato dal legislatore. Ciò laddove evidentemente, mutatis mutandis quanto richiamato a proposito degli avvisi di accertamento, non si intenda attraverso l’atto conseguente censurare vizi dell’atto regolamentare presupposto. Per contro, la giurisprudenza ha al riguardo affermato con riferimento alla scelta regolamentare attuata dal Comune di Roma Capitale: «La norma attributiva del potere conferisce al sindaco una facoltà discrezionale di chiusura dell’attività commerciale per un termine non inferiore a cinque giorni. Nella specie, il sindaco di Roma, in assenza di vincoli normativi in ordine alle modalità di esercizio del potere discrezionale, lo ha legittimamente esercitato, all’esito di una complessiva comparazione degli interessi rilevanti, mediante l’adozione di un atto di natura generale. In particolare si è ritenuto che per le ragioni indicate nell’atto in tutti i casi in cui fosse stata accertata l’occupazione abusiva di suolo pubblico, in determinate zone storiche della città di Roma, sarebbe stato necessario applicare anche la sanzione della chiusura dell’attività commerciale. La particolare situazione in cui versavano ampie zone della parte storica ha pertanto giustificato l’adozione di un provvedimento di valenza generale con il quale si è disposta l’applicazione delle sanzioni previste» (Cons. Stato, Sez. V, 23 marzo 2015, n. 1611). Per completezza, è interessante ricordare come in relazione alla potenziale violazione delle disposizioni in materia di liberalizzazione, si è comunque affermato che l’esercizio di un potere di tipo sanzionatorio può sempre legittimamente limitare l’iniziativa economica garantita dall’articolo 41 della Costituzione. Nel caso di specie, la sua riconducibilità al potere di ordinanza ordinario, oltre a renderlo rispettoso delle indicazioni rivenienti dalla sentenza della Corte costituzionale 7 aprile 2011, n. 115, che, come noto, ha inciso sul comma quattro dell’articolo 54 del T.u.e.l. laddove aveva inserito la possibilità di adottare anche provvedimenti ordinari per ragioni di sicurezza urbana, ben si concilia con la sua riconduzione allo strumento regolamentare tipicamente espressivo del potere normativo dell’organo elettivo del Comune. Viene infatti ritenuto «conforme a costituzione la previsione normativa attributiva di un potere sindacale ordinario che contenga sia il fine pubblico da raggiungere (cosiddetta legalità-indirizzo) sia contenuto in modalità di esercizio del potere (cosiddetta legalità-garanzia)». Ciò anche relativamente alla scelta di elevare a livello generale il potere sanzionatorio stabilito dalla norma, fissandone appunto i presupposti con apposito regolamento e con ciò trasformando in verità una mera facoltà, correlata alla valutazione dei singoli interessi in gioco, ivi compresa, si ritiene, la concomitante attivazione di diversi procedimenti sanzionatori, in obbligo di irrogazione[42]. Spetterebbe dunque al giudice ordinario valutare la legittimità della sopravvenienza del provvedimento a distanza di molto tempo dalla commessa violazione, laddove al contrario il giudice amministrativo ha ritenuto ininfluente finanche l’avvenuto ripristino della situazione di legalità, proprio in ragione della portata “ineludibile” della sanzione prevista. La cessazione dell’illegittima occupazione, il ripristino dei luoghi e il pagamento delle sanzioni irrogate da parte del contravventore non fanno venire meno, infatti, gli «indefettibili presupposti» per l’adozione del provvedimento di chiusura dell’esercizio, «dal momento che quei fatti sopravvenuti all’accertato abuso non possono avere natura di eliminazione dell’abuso stesso, laddove il provvedimento di chiusura ha natura sanzionatoria e va comunque adottato, la chiusura dell’esercizio per un periodo di cinque giorni rappresentando la misura minima della sanzione in caso di occupazione indebita di suolo pubblico per fini commerciali »[43].
7. Problematiche di ne bis in idem.
La astratta applicabilità di una pluralità di sanzioni impone di domandarsi anche se le stesse concorrano tra di loro ovvero si elidano a vicenda, giusta la applicabilità del principio del ne bis in idem, che costituisce il limite negativo alla disciplina del concorso formale di illeciti, seppure mitigato in termini di proporzionalità dal regime del cumulo giuridico[44].
Va ricordato brevemente come il principio del ne bis in idem ha subito negli ultimi anni una radicale trasformazione, perdendo la propria connotazione – esclusivamente processuale – di baluardo contro la sottoposizione, per il medesimo illecito, a due distinti procedimenti, originariamente penali, e divenendo garanzia sostanziale di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio.
Preliminarmente, esso si declina dunque nel divieto di instaurare o proseguire un nuovo procedimento sugli stessi fatti o circostanze già oggetto di un precedente giudizio ovvero di un diverso procedimento. La ratio tutela, quindi, l’autorità della cosa giudicata e la certezza del diritto.
Tale divieto è codificato, nell’ordinamento interno, dall’art. 649 c.p.p., con implicita copertura costituzionale negli artt. 24 e 111 Cost. A livello internazionale, invece, il principio in esame è stato positivizzato dall’art. 4 p. 1 del VII Protocollo addizionale della CEDU e dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (dotata di efficacia vincolante al pari dei Trattati).
Astrattamente, tuttavia, come si evince dalle statuizioni delle Corti EDU e UE e dalle conclusioni della Suprema Corte di Cassazione, esso non si pone in contrasto con la tendenziale legittimità del c.d. doppio binario sanzionatorio[45].Una recente pronuncia dei giudici di legittimità aveva già tentato di mitigare la portata di tale ricostruzione, basata sulla sostanziale possibilità di duplicare i regimi sanzionatori. Si è dunque affermato che ai fini del divieto di bis in idem di cui all’art. 4, §1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, la natura (sostanzialmente) penale della sanzione qualificata come amministrativa dall’ordinamento interno deve essere valutata applicando i cd. “Engel criteria”, ma la violazione non sussiste nei casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti per il medesimo fatto storico e per l’applicazione di sanzioni formalmente o sostanzialmente penali, oppure quando tra i procedimenti vi sia una stretta connessione sostanziale e procedurale. In tali casi deve essere garantito un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata. Ne consegue che in caso di sanzione (formalmente amministrativa ma) sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU, irrevocabilmente applicata all’imputato successivamente condannato in sede penale per il medesimo fatto storico, il giudice deve commisurare la pena tenendo conto di quella già irrogata, utilizzando, a tal fine, il criterio di ragguaglio previsto dall’art. 135 c.p., applicando, se del caso, le circostanze attenuanti generiche e valutando le condizioni economiche del reo. Il meccanismo di compensazione non si applica se la sanzione amministrativa è stata precedentemente pagata da persona diversa dal reo[46].
La Corte costituzionale tuttavia si è spinta assai più avanti con la sentenza n. 149 del 10 maggio 2022, i cui effetti sul piano pratico nell’ambito del diritto punitivo sono ancora da scrutinare. I giudici della Consulta hanno dichiarato la illegittimità costituzionale proprio dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato, al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo non legato a quello penale da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, una sanzione avente carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dei relativi protocolli, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), apporta nuova linfa propulsiva alla tematica di riferimento. Nel caso di specie la Corte ha censurato la norma in quanto non impone al giudice di pronunciare una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsto dall’art. 171-ter della l. n. 633 del 1941, sulla tutela del diritto d’autore, il quale, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174-bis della legge medesima. Ciò si pone infatti in contrasto con la ratio del principio delne bis in idem, ovvero «quella di evitare che un soggetto sia sottoposto ad un’ulteriore sofferenza nonché a costi economici, ovvero a quelle che sono le conseguenze naturali di un nuovo processo a fronte di fatti per i quali esso sia già stato giudicato. Sono presupposti per la configurazione del ne bis in idem: la sussistenza di un medesimo fatto, la sussistenza di una previa decisione (che concerna il merito della responsabilità penale dell’imputato e che sia divenuta irrevocabile) nonché la sussistenza di un secondo procedimento o processo di carattere penale per quei medesimi fatti». Laddove tuttavia la nozione di sanzione “penale” attinge largamente all’elaborazione europea, piuttosto che alla codifica di diritto positivo nazionale.
La Corte conclude affermando la propria consapevolezza dell’insufficienza della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in parte qua, rivolgendo un monito in senso correttivo al legislatore «nel quadro di un’auspicabile rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio».
Conclusioni.
La necessità di realizzare in Italia una radicale semplificazione normativa, accompagnata da quella amministrativa, viene unanimemente indicata dagli analisti, da rapporti internazionali e nazionali, nonché dalle forze politiche e dai settori produttivi, come un elemento essenziale per il rilancio del Paese. E ciò, sia in termini di competitività delle imprese, sia in termini di qualità della vita dei cittadini, favorendo l’accesso ai servizi e la tutela dei diritti. L’efficienza e la competitività del sistema produttivo, la crescita economica e la stessa qualità della vita risentono della qualità della regolazione, non meno che della semplificazione amministrativa: la deflazione normativa, la migliore e più coerente produzione e manutenzione delle regole scongiurano infatti il rischio di un’incertezza del diritto che alligna nell’eccesso di norme, soprattutto se confuse e contraddittorie, la quale può condurre alla negazione del diritto stesso e a porre le premesse per comportamenti illegali.
Quanto detto, tuttavia, come vale necessariamente nella fase di avvio delle attività economiche, non può non valere anche con riferimento alla eventuale patologia del relativo esercizio, sì da rendere la sanzione afflittiva in maniera commisurata al comportamento tenuto, e comunque non radicalmente ostativa, per reiterazione e non per intensità, alla loro prosecuzione.
L’interprete dunque, nel dipanare la intricata matassa di norme, nazionali e locali mal coordinate e sovrapposte, deve comunque tenere conto di tali elementari principi di garanzia, evitando la duplicazione di procedimenti sanzionatori, volti a censurare sotto l’egida della apparente diversità del valore giuridico tutelato la medesima condotta, addirittura con sanzioni di identico contenuto. Evidenti ragioni di sintesi non consentono di attingere anche le problematiche urbanistico-edilizie, igienico-sanitarie, ovvero ambientali connesse alla realizzazione in ampliamento di locali preesistenti della superficie destinata alla vendita o alla somministrazione di alimenti e bevande[47].
Se si eccettuano i profili di natura tributaria, dunque, la consistenza dell’abuso, tale da farlo assurgere a edificazione sine titulo, con quanto ne consegue in termini di rispetto delle eventuali disposizioni vincolistiche vigenti, dovrebbe indurre a riflettere sulla sua riconducibilità anche a tutte le ulteriori fattispecie di illecito astrattamente configurabili, laddove non sia ravvisabile un elemento certo di specialità di ciascuna di esse. A titolo di esempio, l’avvenuta attivazione del procedimento di cui all’art. 211 del Codice della strada, dovrebbe essere valutato al fine dell’applicazione di ulteriori misure della rimozione immediata dell’illecito, a maggior ragione ove introdotta più volte e con distinte finalità in distinti regolamenti comunali, di fatto riproducendo a livello locale le brutte abitudini regolatorie che affliggono la legislazione nazionale. E comunque, ancora una volta, è la Consulta a farsi da propulsore verso una razionalizzazione normativa che guidi a maggior ragione le scelte di politica punitiva, evitando di affidarle a spinte emozionali del momento e comunque imponendo la consapevole messa a sistema di tutte le possibili conseguenze di una condotta astrattamente contra ius.
[1] Con riferimento al caso in cui la medesima condotta violi diverse disposizioni normative, l’art. 8 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ha introdotto nel sistema sanzionatorio amministrativo il cumulo giuridico corrispondente a quello previsto per le pene dall’art. 81 del codice penale, ossia il concorso formale al primo comma, e successivamente, al secondo comma, la continuazione, ma limitatamente alle violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatorie. L’introduzione dell’istituto del concorso formale omogeneo o eterogeneo nel testo della legge ha avuto un andamento altalenante, indice della complessità della materia e del dibattito conseguitone: previsto nel disegno di legge 339 approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 18 settembre 1980, venne poi soppresso dal Senato (v. il testo trasmesso alla Camera il 17 giugno 1981) essendo stato, a quanto si legge nel resoconto della seduta della IV commissione della Camera del 22 luglio 1981, ritenuto superfluo perché la disposizione era ricavabile dai princìpi generali; ma fu ripristinato dalla richiamata commissione della Camera, nella seduta del 10 settembre 1981. A livello di disciplina generale non è stato invece previsto un regime mitigato in caso di concorso materiale di illeciti, che comporta pertanto la sommatoria “aritmetica” delle sanzioni, salvo il ricordato regime della continuazione introdotto dall’art. 1-sexies della legge 31 gennaio 1986, n. 11, di conversione in legge del decreto-legge 2 dicembre 1985, n. 688, limitatamente alle violazioni in materia previdenziale e contributiva, nel quadro della lotta all’evasione, con la dichiarata finalità di evitare una pesantezza delle sanzioni che avrebbe potuto scoraggiare gli autori degli illeciti evasori a mettersi in regola (seduta della Camera del 24 gennaio 1986). Sul tema v. Cons. Stato, sez. I, 15 aprile 2014, n. 1264.
[2] Basti ricordare, a mero titolo di esempio, le varie disposizioni (legislazione tributaria, regolamenti comunali, a loro volta riferiti alle varie materie destinate ad impattare sulla tematica, Codice della Strada, normativa urbanistico-edilizia ovvero vincolistica), da ultimo conseguite anche all’esigenza di fronteggiare l’emergenza pandemica e gli obblighi di distanziamento sociale ad essa correlati, che prevedono la rimozione dell’occupazione di suolo pubblico abusiva strumentale allo svolgimento di un’attività economica, determinando di fatto la sovrapposizione di procedure, per lo più connotate da modalità e tempistiche diverse. Sulla sopravvenienza della sanzione della chiusura dell’attività commerciale a distanza di anni dall’illecito, v. Cons. Stato, sez. II, 4 giugno 2020, n. 3548, riferita alla previsione dell’art. 5, comma 2, della l. 18 gennaio 1994, n. 50, quale conseguenza dell’accertamento del reato (per il quale era peraltro intervenuta estinzione per oblazione) di cui agli artt. 291-bis e 291-ter del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, relativo alla detenzione di tabacchi lavorati di contrabbando. La sentenza affronta anche il tema degli effetti del subingresso nell’attività commerciale intervenuto medio tempore, che può comportare l’estraneità dell’acquirente all’illecito originario, non potendoglisi certo imporre un onere di informativa sui procedimenti sanzionatori, di qualsiasi tipologia, pendenti o pregressi, vuoi in ragione della inesistenza di un’effettiva banca dati al riguardo, vuoi per non incorrere in violazione del divieto di gold platingnelle transazioni commerciali.
[3] Alla logica di semplificazione nell’accesso agli uffici pubblici rispondono, come noto, l’art. 24 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, di istituzione dello sportello unico delle attività produttive (S.U.A.P.) - la cui concreta operatività non a caso è stata tuttavia oggetto di disciplina regolamentare solo a distanza di molti anni (si veda da ultimo il d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160) - nonché l’art. 5 del d.P.R. 30 giugno 2001, n. 380 (T.u.e.) concernente l’analoga struttura deputata all’istruttoria, anche informativa, delle sole pratiche edilizie di diversa natura. La prassi ha da subito evidenziato difficoltà di coordinamento finanche tra ridette articolazioni organizzative, in particolare negli Enti territoriali di dimensioni ridotte, anche laddove ci si avvalga dei previsti strumenti di gestione associata, per uno solo o per entrambi gli sportelli, con quanto ne è conseguito in termini di individuazione della effettiva titolarità delle competenze e, a cascata, delle conseguenti responsabilità). V. in proposito Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2020, n. 7773; sez. II, 27 febbraio 2020, n. 4774.
[4] L’elencazione delle sanzioni in materia urbanistico-edilizia riportata nel testo è volutamente limitata ad alcuni dei casi più frequenti di irrogazione di sanzioni pecuniarie individuate in una forbice edittale predeterminata. Più complesso l’inquadramento –ma di certo non il regime delle tutele, per quanto qui di interesse- delle medesime sanzioni pecuniarie, ove previste in alternativa alla demolizione, resa impossibile dal pregiudizio che ne deriverebbe alla parte “lecita” del manufatto (v. art. 34, comma 2, per il caso di realizzazione di un intervento in parziale difformità dal permesso di costruire), commisurate pertanto al valore venale del bene. Come è stato sottolineato dalla dottrina più rigorosa, il provvedimento che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva, infatti, non ha natura propriamente sanzionatoria, ma è finalizzato a ripristinare la legalità oggettiva violata dall’abuso, tant’è che finisce per operare in maniera necessitata a prescindere dai profili di colpevolezza del proprietario dell’immobile. La stessa finalità finirebbe per condizionare anche le misure pecuniarie previste, per alcune fattispecie, proprio in alternativa alla demolizione stessa. Queste misure patrimoniali, inaugurate dalla legge-ponte del 1967, costituirebbero cioè uno strumento di riequilibrio patrimoniale diretto ad evitare che la violazione di norme urbanistico-edilizie possa determinare, in assenza della demolizione, un vantaggio patrimoniale in capo al titolare dell’immobile interessato, assumendo pertanto una finalità più propriamente perequativa, che ontologicamente sanzionatoria. Sul punto v. A. Albé, Provvedimenti repressivi di abusi e onere di motivazione, in Urbanistica e appalti, 2013, 12, 1329 (nota a Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2013, n. 3182); D. Lavermicocca, Le sanzioni in edilizia. Atto vincolato e legittimo affidamento, in Urbanistica e appalti, 2019, 5, 641 (nota a Cons. Stato, sez. VI, 14 maggio 2019, n. 3133).
[5] Sul punto, v. ancora Cons. Stato, sez. II, n. 3548 del 2020, cit. sub nota 2. In dottrina, cfr. soprattutto gli studi di M.A. SANDULLI, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione. Studi preliminari, Napoli, 1981 (e ivi specifici capitoli sulla confisca e sulle sanzioni edilizie); Le sanzioni amministrative pecuniarie. Profili sostanziali e procedimentali, Napoli, 1983; Sanzione amministrativa, voce dell’Enc. giur. Treccani, Roma; Sanzioni non pecuniarie della P.A., in Libro dell’anno del dirittoTreccani, Roma, 2015; e di A. TRAVI, Sanzioni amministrative e pubblica amministrazione, Padova, 1984; Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, in Dir. amm. 2014.
[6] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 512, ove si è esclusa la portata precettiva del termine per la contestazione delle violazioni solo nel caso in cui esista una diversa regolamentazione da parte di fonte normativa pari ordinata che per il suo carattere di specialità si configuri idonea ad introdurre deroga alla norma generale e di principio. La fattispecie esaminata dai giudici di Palazzo Spada concerneva le sanzioni irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia antitrust, con riferimento alle quali la tesi propugnata trova conforto anche nella previsione dell’art. 31 della l. 10 ottobre 1990, n. 287, che richiama le norme generali di cui alla l. 24 novembre 1981, n. 689 «in quanto applicabili», laddove il d.P.R. 30 aprile 1998, n. 217 non reca alcuna indicazione alternativa sulla scansione temporale del procedimento sanzionatorio.
[7] In taluni casi, tuttavia, la chiusura dell’attività sembra assumere proprio tale carattere riparatorio. Si pensi a quanto previsto a livello generale dall’art. 17-ter del r.d. 18 giugno 1931 (T.U.L.P.S.) per talune violazioni quali l’attivazione di un pubblico esercizio in assenza di titolo (violazione art. 86, sanzionata ai sensi dell’art. 17-bis): la previsione della cessazione dell’attività da disporsi entro 5 giorni costituisce un tipico esempio di misura cautelare riparatoria, al pari della sospensione per il tempo necessario ad adeguarsi alle prescrizioni, la cui durata non a caso viene scomputata dalla analoga sanzione accessoria (art. 17-quater). Solo nel primo caso si prescinde da qualsivoglia verifica sulla colpevolezza dell’autore della violazione, stante la finalità cautelare dell’intervento. La circostanza che per talune tipologie di pubblici esercizi, quali quelli di somministrazione di alimenti e bevande, sia da tempo intervenuta una distinta legislazione di settore, anche a livello nazionale (l. n. 287 del 1991) rende a questo riguardo particolarmente sensibile la scelta del legislatore di non abrogare comunque il sistema sanzionatorio previsto dal T.u.l.p.s., per la evidente finalità di conservare una qualche rilevanza alla vecchia categoria della autorizzazioni di polizia, tipicamente riconducibili allo stesso: pretermettendo tuttavia le conseguenti problematiche di potenziale duplicazione di sanzioni, anche accessorie, in tal modo previste, in dispregio del principio del ne bis in idem.
[8] Si pensi al recente revirement della giurisprudenza amministrativa in materia di perentorietà dei termini dei procedimenti sanzionatori facenti capo all’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – ARERA. Se in linea generale, infatti, il carattere della perentorietà può essere riconosciuto a una scadenza temporale solo da un’espressa norma di legge, sicché, in assenza di una specifica disposizione che lo preveda come tale, esso va necessariamente inteso come sollecitatorio o ordinatorio e il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, la particolarità del procedimento sanzionatorio rispetto al paradigma del procedimento amministrativo ha opportunamente portato a diverse conseguenze, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del diritto di difesa, avente protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.). Difatti, nei procedimenti sanzionatori consentire l’adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, ex art. 28 della l. n. 689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per la sua adozione, equivarrebbe a esporre l’incolpato a un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa, non adeguatamente tutelate dal generico richiamo ai principi sul giusto procedimento di cui alla l. n. 241 del 1990. L’esercizio di una potestà sanzionatoria, di qualsivoglia natura, non può dunque restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta al procedimento, per elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei propri comportamenti (Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2021, n. 584; id., 17 marzo 2021, nn. 2307, 2308 e 2309, che hanno esteso i principi già affermati con riferimento ad altre Autorità - Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; id., 6 agosto 2013, n. 4113; 29 gennaio 2013, n. 542, con riferimento alla Banca d’Italia; sez. VI, 4 aprile 2019, n. 2289, per l’ANAC; sez. VI, 17 novembre 2020, n. 7153, per l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; sez. VI, n. 512 del 2010, cit. sub nota 6, con riferimento all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha tuttavia precisato come il termine di 90 giorni previsto dall’art. 14, comma 2, della l. n. 689 del 1981 per la contestazione dell’illecito, inizia a decorrere solo dal momento in cui è compiuta o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in ragione della complessità della fattispecie, l’attività amministrativa intesa a verificare l’esistenza dell’infrazione, comprensiva dei suoi elementi oggettivi e soggettivi.
[9] Il sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, c.d. Nuovo Codice della Strada, costituisce un caso paradigmatico di coesistenza di sanzioni accessorie ad illeciti penali e ad illeciti amministrativi, essendo previste condotte punite con sanzioni amministrative pecuniarie ed altre costituenti reato, con riferimento a ciascuna delle quali sono fornite anche importanti indicazioni procedurali per l’organo di polizia stradale chiamato ad intervenire.
[10] Sul punto v. G. Napolitano, Manuale dell’illecito amministrativo, Sant’Arcangelo di Romagna, 2021, p. 318 ss.; G. Crespaldi - E. Comi, Le sanzioni amministrative accessorie, in La sanzione amministrativa, principi generali, Torino, 2011.
[11] Costituiscono una generalizzata eccezione le già ricordate violazioni in materia di circolazione stradale, caratterizzate da una sorta di anticipazione immediata degli effetti della sanzione, che talvolta ne esauriscono la portata afflittiva, talaltra necessitano di formalizzazione nell’atto di concreta irrogazione da parte dell’autorità competente.
[12] Si pensi a quanto già detto sub nota 7 in ordine agli illeciti conseguiti alla depenalizzazione del T.U.L.P.S. ad opera del d.lgs. 13 luglio 1994, n. 480. In taluni casi peraltro l’inquadramento del provvedimento interdittivo in termini cautelari o sanzionatori è tutt’affatto agevole. Si pensi ancora a quanto previsto dall’art. 666 c.p. con riferimento alle attività di spettacolo senza autorizzazione (originario reato ora depenalizzato dal d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507) per le quali è prevista la cessazione, senza ulteriori esplicitazioni procedurali, sicché se ne può immaginare l’irrogazione anche con ordine verbale ovvero formalizzato nel relativo atto di accertamento. La sua obbligatorietà, per quanto sviluppato nel prosieguo nel testo, finirebbe per impattare anche sul regime delle competenze, laddove lo si inquadri quale sanzione e non quale misura cautelare, come invece ritiene chi scrive.
[13] Sul tema v. fra i tanti M. Allena, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e la prevedibilità, in federalismi, n. 4/2017..
[14] In materia, da ultimi, in dottrina, S. Lucattini, Le sanzioni a tutela del territorio, Torino, 2022 e M.A. SANDULLI, voce Edilizia, in Funzioni amministrative, volume de “I tematici” dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 2022, leggibile anche, in versione più ampia e aggiornata, in Riv. giur. edil. 2022.
[15] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7380; id., 3 febbraio 2020, n. 864; in senso contrario, v. Cons. Stato, sez.VI, 20 settembre 2017, n. 4400. Sul tema dell’applicabilità delle misure sanzionatorie in materia edilizia e della buona fede del terzo acquirente o, più in generale, del proprietario non responsabile dell’attività illecita, si richiama l’orientamento giurisprudenziale, che trae spunto dalla sentenza di Corte Costituzionale del 15 luglio 1991, n. 345, sviluppatosi in materia di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area sulla quale insiste l'opera abusiva nel caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione, di cui all’art. 31 del D.P.R. 380/2001. Secondo l’indicata giurisprudenza amministrativa la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, a differenza di quella demolitoria volta al ripristino dello stato dei luoghi, non può essere comminata nei confronti del proprietario del fondo incolpevole, perché rimasto del tutto estraneo, dell’abuso edilizio. Da ciò discende la necessità per l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene, che non si palesino meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo almeno di carattere colposo da parte del soggetto proprietario che subisce la sanzione.
[16] Sul tema dell’applicabilità delle misure sanzionatorie in materia edilizia e della buona fede del terzo acquirente o, più in generale, del proprietario non responsabile dell’attività illecita, si richiama l’orientamento giurisprudenziale, che trae spunto dalla sentenza di Corte costituzionale del 15 luglio 1991, n. 345, sviluppatosi in materia di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area sulla quale insiste l'opera abusiva nel caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione, di cui all’art. 31 del d.P.R. n.380/2001. Secondo l’indicata giurisprudenza amministrativa la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, a differenza di quella demolitoria volta al ripristino dello stato dei luoghi, non può essere comminata nei confronti del proprietario del fondo incolpevole, perché rimasto del tutto estraneo, dell’abuso edilizio. Da ciò discende la necessità per l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene che non si palesino meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo almeno di carattere colposo da parte del soggetto proprietario che subisce la sanzione.
[17] Sulla distinzione tra revoca in senso proprio e le altre figure così impropriamente qualificate nella prassi delle amministrazioni pubbliche e negli stessi testi legislativi, che in realtà hanno carattere sanzionatorio o decadenziale, appunto, in quanto trovano la loro fonte nella disciplina propria del rapporto o comunque connessa al rilascio del titolo (norma di legge, o regolamento, capitolato, convenzione, disciplinare, ecc.), v. V. Domenichelli, La revoca del provvedimento, in Codice dell’azione amministrativa a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, con aggiornamento di M. Sinisi, in particolare p. 1062.
[18] A ben vedere la sistematizzazione della complessa materia della decadenza da parte dell’Adunanza plenaria risente forse dell’eccesso di sintesi con la quale si intende delimitare quella di specifico interesse, sicché non è da condividere il richiamo all’evenienza di una decadenza quale provvedimento di secondo livello con efficacia ex tunc, anziché ex nunc, come tipico della stessa. Per la distinzione tra tale ulteriore revoca in senso atecnico, meglio definita quale rimozione o caducazione, che tende a rimuovere con effetto ex tunc un atto inopportuno ab origine e abrogazione, con effetto ex nunc, avuto riguardo ai provvedimenti ad efficacia durevole, v. A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, p. 702 ss.; Benvenuti F., Appunti di diritto amministrativo, Padova, 1987, p. 157.
[19] L’esatto inquadramento delle misure adottate dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – ARERA e della disciplina ad esse applicabile è tutt’affatto che semplice e ne è riprova il recente – e condivisibile – revirement giurisprudenziale in materia di perentorietà dei termini del relativo procedimento “sanzionatorio”. Se in linea generale, infatti, il carattere della perentorietà può essere riconosciuto a una scadenza temporale solo da un’espressa norma di legge, sicché, in assenza di una specifica disposizione che lo preveda come perentorio, il termine va inteso come sollecitatorio o ordinatorio e il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, tuttavia la particolarità del procedimento sanzionatorio rispetto al paradigma del procedimento amministrativo conduce a diverse conseguenze, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del diritto di difesa, avente protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.). Difatti, nei procedimenti sanzionatori consentire l’adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, ex art. 28 della l. n. 689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per la sua adozione, equivarrebbe a esporre l’incolpato a un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa. L’esercizio di una potestà sanzionatoria, di qualsivoglia natura, non può dunque restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta al procedimento, per elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei propri comportamenti (Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2021, n. 584; id., 17 marzo 2021, nn. 2307, 2308 e 2309, che hanno esteso i principi già affermati con riferimento ad altre Autorità - Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; id., 6 agosto 2013, n. 4113; 29 gennaio 2013, n. 542, con riferimento alla Banca d’Italia; sez. VI, 4 aprile 2019, n. 2289, per l’ANAC; sez. VI, 17 novembre 2020, n. 7153, per l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni).
[20] Sui poteri di controllo del GSE cfr. da ultimo lo studio critico di A. Coiante, I poteri del GSE nell’ambito dell’erogazione degli incentivi per la produzione di energia da fonte rinnovabile, in Federalismi, n. 17/2022 e ivi ampi richiami di e di giurisprudenza.
[21] Vero è che nel caso di specie il legislatore finisce per attribuire rilievo all’inerzia protratta nel tempo dell’operatore economico, sì da attribuirle il significato di rinuncia implicita al titolo, al pari di quanto avviene, mutatis mutandis, in caso di mancato avvio dei lavori entro il termine normativamente dato dal rilascio del permesso di costruire. La stretta connessione, tuttavia, esistente fra titolarità della concessione di suolo pubblico e legittimazione all’esercizio della vendita fa sì che a tale decadenza/rinuncia consegua automaticamente la revoca/sanzione dell’autorizzazione, astrattamente riferibile, peraltro, anche ad altri posteggi ovvero all’esercizio dell’attività in forma itinerante.
[22] Ma non necessariamente: si pensi all’occupazione temporanea per l’effettuazione di un trasloco, o per l’installazione di un ponteggio funzionale all’effettuazione di lavori edilizi sull’immobile prospiciente.
[23] Cfr. Cass., SS.UU., 11 febbraio 2011, n. 3811 e 3813. Partendo dal richiamato assunto che supera ampiamente la tradizionale sistematica codicistica, i giudici di legittimità reinterpretano il concetto di demanialità e auspicano politiche amministrative di tipo orizzontale che coinvolgano i cittadini nella gestione dei beni funzionali al soddisfacimento degli interessi della collettività. A monte, sotto il profilo testuale, l’art. 822 c.c. ricomprende nel cosiddetto demanio marittimo il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti ma nulla dice delle lagune, ossia gli specchi d'acqua in immediata vicinanza al mare, la cui natura demaniale è stata riconosciuta ogni qual volta vi sia la libera comunicazione con esso. Per un approfondimento sulla tematica si veda G.P. Cirillo, Il diritto di accesso al mare, in www.giustizia.amministrativa.it.
[24]Cfr. art. 190 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 del 2016, Codice dei contratti pubblici, che ha assorbito, in particolare dopo il così detto “correttivo”, d.lg. 19 aprile 2017, n. 56, la disposizione già contenuta nell’art. 24 del d.l. 12 settembre 2014, n.133, cosiddetto ‘sblocca Italia’, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164. Al riguardo v. A. Manzione, “Dal baratto amministrativo al partenariato sociale e oltre nel solco della atipicità”, in AA.VV., La co-città, a cura di P. Chirulli e C. Iaione, Iovene ed., 2018.
[25] Per quanto, infatti, talvolta si utilizzi in maniera impropria il riferimento all’autorizzazione, correttamente la legislazione nazionale, anche tributaria, riconduce il relativo titolo a siffatta dizione, con quanto ne consegue in relazione all’applicabilità dei medesimi principi elaborati con riferimento alle concessioni demaniali marittime in applicazione della c.d. Direttiva Bolkestein.
[26] Sulla materia è ormai nota la ricostruzione dei principi comunitari, seppure con specifico riferimento al tema delle concessioni demaniali marittime, contenuta nelle sentenze della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 9 novembre 2021, n. 17 e 18, cui ha fatto seguito un corposo dibattito dottrinario (v. ex multis i contributi di M.A. Sandulli, F. Ferraro, G. Morbidelli, M. Gola, R. Dipace, M. Calabrò, E. Lamarque, R. Rolli - D. Sammarro, E. Zampetti, G. Iacovone, M. Ragusa, P. Otranto, B. Caravita di Toritto - G. Carlomagno. In Diritto e Società, n. 3 del 2021 dedicato a La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenza 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria. Per una valorizzazione della tutela storico-identitaria delle attività economiche ospitate nei relativi locali della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, v. ex multis Cons. Stato sez. V. 3 novembre 2021, n. 7340, nonché, nella stessa direzione, 3 settembre 2018, n. 5157, secondo cui «il principio della concorrenza deve recedere a fronte dell’interesse imperativo generale della tutela delle attività storiche e di tradizione che occupano immobili di proprietà pubblica, le quali contribuiscono a salvaguardare ed a conservare il patrimonio storico e artistico delle città». In tali circostanze si è ritenuto altresì legittimo il criterio oggettivo scelto dal Comune per la determinazione del canone, non determinato a seguito di una procedura concorsuale, ove l’offerente più forte avrebbe prevalso, ma « necessaria secondo le risultanze di una dinamica di mercato di cui non può non tenersi conto, anche nell’ottica di valorizzazione virtuosa dei beni pubblici, il rendimento dei quali contribuisce ad incrementare il bilancio dell’amministrazione». In tali fattispecie il Comune ha dunque garantito agli esercenti le attività storiche il rinnovo senza gara delle loro concessioni demaniali, applicando un canone più che equo e nettamente inferiore rispetto a quello che si sarebbe determinato in seguito ad una procedura concorsuale.
[27] Parere AS1721 del 15 febbraio 2021 dell’AGCOM, che opera anche un’accurata ricostruzione della normativa di settore, connotata, al pari di quanto avvenuto per le concessioni demaniali marittime, da un regime di reiterata proroga basato sull’assunto che la materia fosse estranea all’ambito di applicabilità della direttiva servizi. In particolare ha ricordato come con l’articolo 1, comma 686, della legge n. 145/2018 (c.d. legge di bilancio 2019) è stato modificato il d.lgs. n. 59 del 2010, di recepimento della Direttiva 2006/123/CE (c.d. Direttiva Servizi o Bolkestein), sottraendo espressamente l’intero settore del commercio al dettaglio su aree pubbliche dall’applicazione della stessa (artt. 7, lett. f-bis, e 16, comma 4-bis, del d.lgs. n. 59/2010, che escludono l’applicazione delle disposizioni normative che imponevano di individuare i prestatori all’esito di una procedura selettiva, secondo criteri trasparenti e non discriminatori, stabilendo una durata dei titoli autorizzatori limitata e non soggetta a rinnovo automatico). Il d.l. n. 34/2020 (c.d. decreto Rilancio), convertito in legge n. 77/2020, ha poi prorogato al 2032 le concessioni di posteggio per il commercio su aree pubbliche in scadenza (articolo 181, comma 4-bis), nonché previsto che eventuali posteggi liberi, vacanti o di nuova istituzione andassero assegnati «in via prioritaria e in deroga a qualsiasi criterio» agli aventi titolo, senza l’espletamento di alcuna procedura ad evidenza pubblica (articolo 181, comma 4-ter). Tali previsioni hanno poi trovato ulteriore conferma nei punti 6, 7 e 9 dell’Allegato A al Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 25 novembre 2020, recante le previste Linee Guida.
[28] Dell’intera materia si occupa l’art. 2 del d.d.l. concorrenza 2021, AS 2469.
[29] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 18 gennaio 2022, n. 530, ove peraltro si mutua anche il regime transitorio ideato dall’Adunanza plenaria, in quanto «consapevole del notevole impatto (anche sociale ed economico) che tale immediata non applicazione può comportare, specie in un contesto caratterizzato da un regime di proroga che è frutto di interventi normativi stratificatisi nel corso degli anni». Il giudice di prime cure ha dunque affermato che « Alla stessa stregua, il Collegio ritiene di dover modulare gli effetti di questa pronuncia di rigetto, precisando che le concessioni cui si riferiscono i provvedimenti impugnati mantengono efficacia fino al 31 dicembre 2023, previo accertamento degli ulteriori presupposti richiesti dalla normativa vigente, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E. e fermo restando che, nelle more, l’amministrazione ha il potere/dovere di avviare le procedure finalizzate all’assegnazione delle concessioni nel rispetto dei principi della normativa vigente, come delineati dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria n. 17 e n. 18 del 2021». In pari data vedi anche nn. 537 e 539. Cfr. altresì nella stessa direzione T.A.R. Sardegna, sez. II, 28 dicembre 2021, n. 865. Per tutte e quattro le sentenze è pendente appello.
[30] Cfr. Cons. Stato, sez. V. 12 maggio 2016, n. 1926.
[31] Cfr. Cass. Ord. Sez. 5 n. 2552 del 2018; Cass. Ord. SS.UU. n. 24967 del 2017; id. n. 61 e n. 11134 del 2016; id. n. 21950 del 2015; Corte Costituzionale n. 64/2008.
[32] V. Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 336.
[33] L’ordinanza richiama anche la assai più risalente Cass., n. 134 del 2001, che ha escluso la giurisdizione del giudice amministrativo in ragione del paradigma normativo applicabile, ovvero l’art. 22 della l.r. Emilia Romagna n. 17 del 1991, nonché n. 14633 del 2011, ove è precisato che in caso di sanzione alternativa o autonoma rispetto a quella pecuniaria è rilevante, ai fini della qualificazione della natura e funzione della sanzione, verificare se essa sia «il mezzo prioritario per attuare la legge violata».
[34] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 25 marzo 2021, n. 3699; id., 22 dicembre 2020, n. 13868; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 12 ottobre 2020, n. 2559.
[35] La disposizione opera un non del tutto chiaro distinguo tra le esigenze di “ordine pubblico”, che necessitano l’intervento dell’apposita Autorità preposta alla relativa tutela e quelle di “sicurezza pubblica”, che invece consente sempre al Prefetto di intervenire. Il concetto di ordine pubblico scompare peraltro con il d.l. n. 14 del 2017, (che viene richiamato solo nell’art. 11, ma limitatamente al settore delle occupazioni arbitrarie di immobili) a favore della diversa nozione di sicurezza pubblica, sub specie di sicurezza urbana. In passato la Corte costituzionale aveva più volte precisato come la sicurezza pubblica si riferisce all’integrità fisica e all’incolumità delle persone e si sostanzia in un concetto differente rispetto a quello più ampio di ordine pubblico, richiamato nell’art. 2 Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (la sicurezza pubblica si riferisce all’integrità fisica e all’incolumità delle persone e si sostanzia in un concetto differente rispetto a quello più ampio di ordine pubblico, richiamato nell’art. 2 Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza).
[36] Ragioni di sintesi inducono a non approfondire oltre la tematica del rapporto tra le due fattispecie, che la giurisprudenza penale ha talvolta ritenuto sussistere in concorso tra di loro, essendo diversa l’obbiettività giuridica delle due norme, la prima in quanto posta a tutela del patrimonio, l’altra della sicurezza della circolazione stradale.
[37] Per la ricostruzione della genesi e dei contenuti all’attualità della dizione di sicurezza urbana si veda A. Manzione, Potere di ordinanza e sicurezza urbana, in Fedarlismi.it, 13 settembre 2017, n. 17.
[38] La possibilità di applicare l’ordine di allontanamento alle aree destinate a fiere, mercati o pubblici spettacoli è stata inserita con il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla l. 1 dicembre 2018, n. 132. Per completezza va ricordato che l’ordine di allontanamento è previsto anche, senza necessità di apposita previsione regolamentare:
· quando lo stazionamento avviene nelle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze;
· in “aggiunta” alle sanzioni previste per le fattispecie di cui agli artt. 688 c.p. (Ubriachezza), 726 c.p. (Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio), 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (Violazioni in materia di commercio su aree pubbliche), 7, comma 15-bis, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (parcheggiatore o guardiamacchine abusivo), 1-sexies del d.l. 24 febbraio 2003, n. 28, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2003, n. 88 (c.d. “bagarinaggio”).
[39] Con il risultato che l’ordine di allontanamento “accede” a tutte le ulteriori fattispecie di illecito esplicitamente menzionate, ovvero a generici comportamenti impeditivi della fruizione collettiva del suolo, quale tipicamente la sua occupazione nei luoghi individuati a livello regolamentare, ove potrebbe addirittura trovare spazio una procedimentalizzazione operativa della relativa applicazione.
[40] La disposizione si completa con la riconosciuta possibilità di “riesame” ex art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990 delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico non ritenute più compatibili con le esigenze di tutela fatte proprie dalla norma, anche in deroga alla disciplina regionale.
[41] Diversa è la questione con riferimento al c.d. DASPO urbano, ovvero il divieto di accesso indirizzato ad una singola persona in alcune zone su ordine del Questore. Esso viene definito come fattispecie a formazione progressiva, nel senso che l’ordine man mano che passa il tempo assume caratteristiche diverse. Dopo una prima fase necessaria in cui il contravventore è raggiunto dal provvedimento di allontanamento dell’organo accertatore e dalla sanzione amministrativa irrogata dal sindaco, si apre una fase eventuale, con finalità preventiva e non punitiva, in cui il Questore, in presenza di determinati presupposti può confermare il divieto di ingresso in una zona urbana estendendolo fino a 2 anni. Si tratta di un provvedimento collegato strumentalmente con quello dell’organo accertatore ma autonomamente impugnabile perché autonoma è la sua natura.
[42] Cons. Stato, sez. V, 14 giugno 2017, n. 2892.
[43] Cons. Stato, sez. V, 11 maggio 2017, n. 2198.
[44] L’art. 8 della l. n. 689 del 1981, tuttavia, pare limitarlo ai soli casi di sanzioni amministrative pecuniarie, almeno secondo la lettura restrittiva dell’intero sistema dell’illecito amministrativo di cui ampiamente nel testo.
[45] V. A. Procaccino, Ne bis in idem: un principio in evoluzione- Assestamenti e osmosi nazionali sul bis in idem in Giur. It., 2019, 6, 1957; D.Cimadomo, Ne bis in idem: un principio in evoluzione-Illecito amministrativo e reato: un’apparente ipotesi di bis in idem, in Giur. It., 2019, 6, 1457; B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem; la crisi del “doppio binario”, in Dir. Pen. E Processo, 2014, 12, Supplemento, 82 (commento alla normativa).
[46] Cass., sez. III penale, 20 gennaio 2022, n. 2245.
[47] Per un’interessante ricostruzione della disciplina vigente con riferimento alle strutture lato sensu denominate dehors utilizzate per lo più per la somministrazione di alimenti e bevande all’aperto, v. Cons. Stato, sez. VI, 4 gennaio 2022, n. 32, relativo alle c.d. “pergotende”. L’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001 elenca una serie di opere eseguibili senza alcun titolo abilitativo, fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali: tale elencazione, consentendo la realizzazione di interventi edilizi che non comportano/consentono alcun tipo di controllo da parte dell’autorità pubblica, deve ritenersi in sé tassativo, ferma restando l’eventuale elasticità delle definizioni utilizzate, che può richiedere un’opera interpretativa del giudicante. In particolare va ricordata la definizione di opera stagionale (lett. e-bis), che presuppone un tempo di installazione correlato all’utilizzo e comunque non superiore a 180 giorni, incluso montaggio e smontaggio; lett. e-ter), consistenti in opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, che non può mai ricomprendere le strutture soprastanti una pedana, i cui elementi portanti sono costituiti da pilastri, travi e tetto; lett. e-quinquies), ovvero “area ludica senza fini di lucro” o “elemento di arredo” di area pertinenziale all’edificio, cui non è mai riconducibile un’area destinata ad ospitare la clientela dell’esercizio, perciò destinata ad un fine non ludico né di mero arredo, ma invece di lucro. Quanto sopra trova conferma nelle previsioni del D.M. 2 marzo 2018, pubblicato nella G.U. 7 aprile 2018 n.81, di “Approvazione del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell’articolo 1, comma 2 del citato d. lgs. 222/2016, il quale individua tra le principali opere di edilizia libera, riconducibili all’art. 6, comma 1, lett. e-quinquies), singoli arredi (quali barbecue, fioriere, fontane, muretti, panche), giochi per bambini, pergolati di limitate dimensioni, ricoveri per animali domestici e da cortile, ripostigli per attrezzi, sbarre d’accesso, separatori, stalli per biciclette, elementi divisori e “tende, tende a pergola, pergotende, coperture leggere di arredo”; e tra le opere riconducibili all’art. 6, comma 1, lett. e-bis), i gazebo, gli stand fieristici, i servizi igienici mobili, elementi di esposizione vari, aree di parcheggio, tensostrutture, pressostrutture e assimilabili. La norma va integrata con le previsioni dell’art. 3, comma 5, che definisce gli interventi di nuova costruzione, dai quali sono stralciati quelli volti ad edificare manufatti “diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”, nonché “tende” e “ unita' abitative mobili con meccanismi di rotazione in funzione, e loro pertinenze e accessori, che siano collocate, anche in via continuativa, in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, che non posseggano alcun collegamento di natura permanente al terreno e presentino le caratteristiche dimensionali e tecnico-costruttive previste dalle normative regionali di settore ove esistenti”.
La Corte di Giustizia sceglie tra tutela del consumatore e certezza del diritto
Riflessione sulle sentenze del 17 maggio 2022 della Grande Camera della CGUE
di Franco De Stefano
1. Si vuole prendere in considerazione, a titolo di riflessione senza pretesa di dignità dogmatica e scientifica ed in attesa degli opportuni approfondimenti in dottrina e giurisprudenza, l’impatto delle quattro sentenze del 17 maggio 2022 della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di rilievo dell’abusività delle clausole in danno del consumatore:
a) causa C-600/19 Ibercaja Banco
b) cause riunite C-693/19 SPV Project 1503, C-831/19 Banco di Desio e della Brianza
c) causa C-725/19 Impuls Leasing România
d) causa C-869/19 Unicaja Banco
Tutte queste, fermo il riconoscimento della valenza del giudicato anche in materia consumeristica (per tutte, vedi punti 57 e 58 di BancoDesio, ma anche i corrispondenti passaggi delle altre; e comunque occorrendo ribadire il punto anche in base ad altre pronunce della stessa CGUE), giungono alla conclusione che il giudicato non si forma sull’assenza di carattere abusivo di una clausola, se, in un procedimento sommario, non vi sia una anche solo sommaria motivazione e manchi l’indicazione della definitività di tale conclusione in caso di mancata contestazione: con la conseguenza, specificamente indicata per l’ordinamento italiano, che il giudice dell’esecuzione (così invadendo l’autonomia processuale del singolo Stato) possa rilevare l’abusività della clausola, non essendogli tanto precluso dalla definitività del decreto ingiuntivo non opposto.
2. Le pronunce della CGUE potrebbero essere sintetizzate nella formula che il giudicato – o l’analoga figura della preclusione pro iudicato pure avanzata in dottrina – derivante da mancata opposizione del decreto ingiuntivo continua a coprire quanto espressamente dedotto ma non copre più anche tutto il deducibile, poiché ne sono escluse, quanto a quest’ultimo, le questioni in tema di tutela del consumatore secondo la disciplina eurounitaria.
La tematica involge la c.d. cedevolezza del giudicato nazionale – non nuova nell’esperienza anche italiana, come dimostra il caso Olimpiclub di qualche anno fa, ma assurta ora ad un’importanza inusitata per l’ampiezza delle ricadute delle ultime affermazioni – dinanzi alla normativa eurounitaria e, stavolta, di quella a tutela del consumatore, qualificata inderogabile dalla CGUE.
Le quattro sentenze del 17 maggio 2022 impattano in modo dirompente su consolidati principi, quali:
- La tradizionale ricostruzione del decreto ingiuntivo (definitivo o meno) in termini di titolo esecutivo giudiziale e non stragiudiziale
- La tradizionale ricostruzione in termini di giudicato formale e sostanziale del decreto ingiuntivo non opposto (o nella in tutto equivalente preclusione pro iudicato)
- La preclusione, ad opera del giudicato, non solo di quanto sia stato dedotto, ma pure di quanto sarebbe stato deducibile
- L’impossibilità radicale, per il giudice dell’esecuzione in sede esecutiva, di sindacare il merito del titolo esecutivo giudiziale
- L’intangibilità assoluta, da parte del giudice dell’esecuzione anche quale giudice dell’opposizione a quest’ultima, del titolo esecutivo giudiziale per fatti anteriori alla sua definitività, da farsi valere solamente davanti al giudice delle impugnazioni del titolo stesso.
L’intera riflessione può suddividersi in due grandi tematiche, cioè sulle ricadute de futuro e su quelle de praeteritu, con la notazione che quelle relative al passato si possono riproporre per il futuro ove nessuna soluzione si adotti dai richiedenti e dai concedenti i decreti ingiuntivi prossimi venturi.
3. Quale premessa ad ogni sforzo ricostruttivo, può anticiparsi che una soluzione può profilarsi de futuro, comunque non senza problemi per il caso in cui essa non fosse in concreto applicata, ma enormi sono le difficoltà de praeteritu, dinanzi ad un numero tendenzialmente indefinito di decreti ingiuntivi mai opposti che potrebbero implicare la relativa questione.
Prima di illustrare l’una e le altre, occorre però valutare quali reazioni potrebbero trovare luogo; e pare possibile individuare questi sviluppi:
a) La norma eurounitaria scardina principi processuali da qualificarsi di ordine pubblico o perfino connotanti la tradizione giuridica nazionale, quanto meno con riferimento alla certezza del diritto e al giudicato da provvedimento giurisdizionale definitivo, idonei a contrapporsi come tali al diritto eurounitario: sarebbe ipotizzabile investire la Corte costituzionale per invocare, se non l’attivazione dei controlimiti (ciò che finora è successo per situazioni obiettivamente eclatanti), quanto meno la verifica della tenuta della norma processuale così ridisegnata ai principi fondamentali dell’ordinamento nazionale;
b) La norma eurounitaria scardina principi processuali da qualificarsi di ordine pubblico o perfino connotanti la tradizione giuridica nazionale, idonei a contrapporsi come tali al diritto eurounitario: sarebbe necessario investire nuovamente la Corte di giustizia, chiedendole di puntualizzare la sua pronuncia in considerazione del valore irrinunciabile del giudicato (quanto meno quello implicito “consapevole”, cioè seguito ad una informata inerzia dell’interessato, la cui tutela non è incondizionata ed illimitata) per il nostro ordinamento;
c) La norma eurounitaria introduce un nuovo concetto di giudicato e di titolo esecutivo giudiziale, escludendo il giudicato implicito e l’estensione dell’esecutività del titolo quando si tratta di clausole abusive per il consumatore non sottoposte al suo contraddittorio: ed impone un adeguamento, per quanto complesso ed articolato, del nostro sistema processuale; e tuttavia questo sarebbe impossibile senza un intervento da parte della Consulta (ad esempio, intervenendo in via additiva sugli strumenti già a disposizione, di cui al punto successivo: artt. 650 o 654 o 656-395 cpc);
d) La norma eurounitaria introduce un nuovo concetto di giudicato e di titolo esecutivo giudiziale, escludendo il giudicato implicito e l’estensione dell’esecutività del titolo quando si tratta di clausole abusive per il consumatore non sottoposte al suo contraddittorio: ed impone un adeguamento, per quanto complesso, del nostro sistema processuale, possibile anche in via interpretativa da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, con intervento in via manipolativa – e lato sensu creativa – degli strumenti esistenti o, in ultima analisi, con la devoluzione ad un’ordinaria azione di accertamento.
Le prime tre opzioni hanno notevoli implicazioni sistematiche e ciascuna offre aspetti positivi e negativi, tuttavia tutti che trascendono l’aspetto tecnico-giuridico.
4. Ove si desse per scontata l’ineluttabilità di un adeguamento in via di interpretazione del sistema esistente (in accettazione – che, de iure condito ed allo stato attuale, appare doverosa – dei penetranti dicta della Corte di Giustizia), si dovrebbe poi operare un’altra scelta di principio sui valori da preservare, tra cui, soprattutto, i consolidati principi, che ben potrebbero dirsi di ordine pubblico processuale: quello dell’intangibilità del titolo esecutivo giudiziale definitivo e del giudicato, cui è funzionale la separazione tra cognizione (e titolo esecutivo giudiziale) ed esecuzione.
E deve poi ammettersi che nessuna delle opzioni ricavabili in via ermeneutica, se non altro di quelle su cui finora ci si è potuti soffermare, per l’adeguamento del sistema risulta appagante, pienamente compatibile con la lettera delle norme nazionali vigenti o perfino accettabile per le ricadute sul sistema attuale e di prossima evoluzione.
5. L’adeguamento puntuale alle pronunce del Kirchberg de futuro può forse risolversi con l’obbligo – derivante direttamente dalla normativa eurounitaria – per il giudice del monitorio dell’inserimento di una duplice clausola nel decreto ingiuntivo (che non risultano elementi in base ai quali reputare violata la normativa eurounitaria in materia di tutela del consumatore; che quest’ultimo sia espressamente avvisato che, in difetto di opposizione tempestiva, sarà definitivamente acquisito che non vi è stata violazione di tale normativa), se del caso mediante rinvio alle allegazioni che sul punto il creditore ingiungente è tecnicamente onerato di fare, o, in mancanza, su impulso del giudice ex art. 640 cpc anche a produrre la documentazione necessaria. Ove manchino tali menzioni, si potrebbe pensare ad un’opposizione ordinaria da parte del debitore, ma pure ad un’azione del creditore per integrare – soprattutto se era stata chiesta ed è mancata in concreto – l’ingiunzione con tale indagine specifica; in mancanza dell’una o dell’altra, si riproporrà anche per il futuro la problematica per il passato di cui appresso.
Le questioni della violazione della normativa a tutela del consumatore, pertanto, se non risulti che ve ne sia stata una delibazione anche sommaria o la loro sottoposizione al contraddittorio anche del consumatore mediante il chiaro avviso all’ingiunto che in mancanza di opposizione esse non potrebbero rimettersi in discussione, non solo NON sono coperte dal giudicato, ma neppure si estende ad esse l’accertamento del titolo esecutivo giudiziale. Anzi, il titolo esecutivo giudiziale costituito dal decreto ingiuntivo non opposto non copre tale questione, che quindi resta aperta e rilevabile anche successivamente.
Tanto significa che, se la questione è anche solo sommariamente motivata e vi è stato un monito sulla irretrattabilità della conclusione sul punto in mancanza di opposizione nel termine (sentenza Ibercaja, punti 51[1] e 56 e prima massima), non vi è più spazio per successive contestazioni.
6. E tuttavia, in mancanza di tanto, o comunque de praeteritu, il vero problema nasce dal fatto che la C-693/19 (SPV Project 1503, e C-831/19, Banco di Desio e della Brianza e a.) conclude espressamente nel senso che su di un decreto ingiuntivo che non abbia affrontato la questione dell’abusività delle clausole in danno del consumatore il giudice dell’esecuzione debba potere valutare, anche per la prima volta, il carattere abusivo, ove – deve ritenersi coordinando i principi espressi – ne sia mancato un anche solo sommario esame nel giudizio del merito con menzione dell’onere di tempestiva opposizione sull’esclusione dell’abusività; e tanto col solo limite che il bene sia stato già trasferito a terzi, nel qual caso deve residuare una tutela risarcitoria in altra sede (vedi C-600/19 Ibercaja, punto 59[2]).
L’applicazione pedissequa e non elusiva del principio devolverebbe al giudice dell’esecuzione la potestà (e quindi il potere-dovere) di esaminare per la prima volta l’abusività delle clausole; le sentenze parlano di giudice dell’esecuzione, ma al tempo stesso il principio di autonomia processuale (Banco di Desio, punto 55[3]) autorizza il mantenimento della linea del Piave della necessaria separazione tra esecuzione e cognizione e, quindi, consente una articolazione dei rimedi processuali all’ordinamento del singolo Stato membro.
Per raggiungere tale risultato dovrebbero coordinarsi:
- la necessità imprescindibile di mantenere la ferma distinzione tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione dinanzi ad un titolo esecutivo giudiziale, che può dirsi di ordine pubblico processuale;
- i principi generali di scissione tra allegazione, rilievo ed avvio dell’azione di cognizione indispensabile per vanificare il titolo esecutivo giudiziale.
7. Si potrebbe allora ipotizzare, fermo il limite preclusivo del già avvenuto trasferimento del bene (Unicaja punto 59, sicché in tali casi residuerebbe soltanto una tutela risarcitoria), un rilievo, da parte del g.e. in sede esecutiva, d’ufficio o su sollecitazione anche non formale (semplice ricorso, non necessariamente opposizione) del debitore, del mancato esame dell’abusività delle clausole.
Si apre, però, in tal modo uno scenario diversificato, essendosi pensato via via:
- Ad un’ipotesi di 656 c.p.c. e quindi di 395 extra ordinem: qui le perplessità derivano dalla conclamata necessità, ai fini dell’ampliamento di quel catalogo, di interventi legislativi (si veda la riforma ex lege 206/21 sulla nuova ipotesi di revocazione per contrarietà a sentenza CEDU) o almeno della Consulta (sentenze nn. 17/86, 36/91, 51/95, 558/99);
- Ad un’ipotesi di 650 c.p.c. del pari extra ordinem, in cui il termine decorra quanto meno dal rilievo da parte del g.e. e non sia ostacolato dalla preclusione dell’inizio dell’esecuzione da oltre dieci giorni; e qui le perplessità sono nel superamento dei detti termini, conseguibile con la creativa configurazione - quale causa di forza maggiore! - del rilievo del giudice;
- Ad un’ipotesi di 654 c.p.c. pure questa extra ordinem, in cui si onera di fatto il creditore di munirsi di un ulteriore accertamento per fare conseguire, definitivamente, l’esecutorietà al d.i., avverso il quale sarebbe però poi almeno riattivata la possibilità per l’ingiunto di dispiegare opposizione, stavolta ordinaria; e qui le perplessità derivano dalla natura meramente formale del controllo in genere esercitato in quella sede e dalla sua non azionabilità nei casi in cui il provvedimento sia già stato reso;
- Ad un’ipotesi di opposizione esecutiva (ai sensi dell’art. 615 cpc), in cui il debitore può rimettere in gioco un titolo esecutivo giudiziale definitivo, ma che sarebbe essa stessa extra ordinem: infatti, tanto è normalmente riservato al giudice della cognizione sul titolo stesso (a differenza del titolo esecutivo stragiudiziale, che può essere rimesso in discussione, proprio perché manca un preventivo accertamento giudiziale, appunto in sede di opposizione ad esecuzione), a meno di non volere stravolgere anche i principi in tema di decreto ingiuntivo e degradarlo, per questo, a titolo esecutivo stragiudiziale (come pare avere dato per presupposto la stessa CGUE, non appieno informata delle caratteristiche di quell’istituto processuale) o di ritenere che il controllo ufficioso del giudice dell’esecuzione sull’esistenza stessa del titolo possa spingersi al merito del medesimo ed al riscontro dei suoi vizi anteriori alla sua formazione, che, com’è noto, sono sempre stati rimessi al giudice della cognizione che avrebbe potuto o dovuto pronunciarsi sulla sua validità;
- infine, un’ordinaria azione di accertamento, che inizi dal primo grado e davanti al giudice ordinariamente competente per territorio, materia e valore, nel cui corso si accerti, siccome non coperto dal giudicato, il carattere abusivo di una o più clausole a danno del consumatore (la buona vecchia querela o actio nullitatis, ammessa per ossequio al dictum della CGUE): e nella quale la sospensione (esterna) del titolo giudiziale può conseguirsi almeno ex art. 700 c.p.c. con provvedimento vincolante per il singolo processo esecutivo ed il coordinamento con il quale potrebbe avvenire con un rinvio tecnico per consentire il dispiegamento di tale azione.
8. Deve dirsi preferibile, nonostante le aporie ma in considerazione di quelle più gravi delle altre soluzioni, la devoluzione ad altra sede della rimessione in discussione del titolo stesso con l’adduzione dei fatti impeditivi lasciati impregiudicati dalla CGUE in tema di abusività, ma davanti allo stesso giudice che lo ha pronunciato, che sarebbe pur sempre uno ed uno solo, come in ogni ipotesi eccezionale di rimessione in discussione di titoli esecutivi giudiziali; e tanto per salvaguardare la sottrazione al giudice dell’esecuzione di ogni ingerenza, anche a titolo di giudice di opposizione ad esecuzione, sul titolo giudiziale, a garanzia del giudicato su titolo esecutivo giudiziale e del resto in un sistema che altrimenti vedrebbe devoluto ad una pletora indefinita di potenziali giudizi – dinanzi a ciascuno dei giudici dei processi esecutivi potenzialmente avviabili in forza di quel titolo giudiziale e con esponenziale incremento del loro carico di lavoro – il rischio di interventi caotici e diversificati.
9. La provvisoria conclusione di tali modeste riflessioni è che, forse, in un caso come questo, sarebbe davvero inevitabile l’intervento del legislatore (introducendo un’ipotesi di revocazione straordinaria o di opposizione tardiva altrettanto straordinaria, semmai proprio con la prima legge europea a disposizione, a rimarcare la conseguenzialità della scelta rispetto alle pronunce europee), a disciplinare – non dissimilmente dalle iniziative in tal senso adottate da altri Paesi Membri dell’Unione – le ricadute di così ampia portata sull’ordinamento nazionale di queste importantissime pronunce del Kirchberg; ma, in attesa o in mancanza di questo, un importantissimo ruolo gioca la riflessione che l’Accademia, l’Avvocatura e la Magistratura, in ogni sua articolazione, potrà sviluppare sul punto, a difesa di valori comuni, quali la certezza del diritto, che costituiscono la ragione stessa della giurisdizione e la prima garanzia offerta all’ordinata convivenza dei consociati.
[1] Per contro, si deve ritenere che tale tutela sarebbe garantita se, nell’ipotesi di cui ai punti 49 e 50 della presente sentenza, il giudice nazionale indicasse esplicitamente, nella sua decisione di autorizzazione dell’esecuzione ipotecaria, di aver proceduto a un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole del titolo all’origine del procedimento di esecuzione ipotecaria, che detto esame, motivato almeno sommariamente, non ha rivelato la sussistenza di nessuna clausola abusiva e che, in assenza di opposizione entro il termine stabilito dal diritto nazionale, il consumatore decadrà dalla possibilità di far valere l’eventuale carattere abusivo di siffatte clausole.
[2] Di conseguenza, si deve rispondere alla quarta questione dichiarando che l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che non autorizza un organo giurisdizionale nazionale, che agisce d’ufficio o su domanda del consumatore, a esaminare l’eventuale carattere abusivo di clausole contrattuali quando la garanzia ipotecaria sia stata escussa, il bene ipotecato sia stato venduto e i diritti di proprietà relativi a tale bene siano stati trasferiti a un terzo, purché il consumatore il cui bene è stato oggetto di un procedimento di esecuzione ipotecaria possa far valere i suoi diritti in un procedimento successivo al fine di ottenere il risarcimento, ai sensi della direttiva in parola, delle conseguenze economiche risultanti dall’applicazione di clausole abusive.
[3] Se è vero che la Corte ha pertanto già inquadrato, in più occasioni e tenendo conto dei requisiti di cui all’articolo 6, paragrafo 1, e dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13, il modo in cui il giudice nazionale deve assicurare la tutela dei diritti che i consumatori traggono dalla direttiva in parola, ciò non toglie che, in linea di principio, il diritto dell’Unione non armonizza le procedure applicabili all’esame del carattere asseritamente abusivo di una clausola contrattuale, e che tali procedure rientrano dunque nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in forza del principio dell’autonomia processuale di questi ultimi, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza del 26 giugno 2019, Addiko Bank, C 407/18, EU:C:2019:537, punti 45 e 46 nonché giurisprudenza ivi citata).
Rosario Livatino oggi avrebbe compiuto settant’anni
di Fernando Asaro
Quando la Chiesa beatifica una vita intende consegnare alla memoria comune i percorsi umani e spirituali di persone che diventano Santi allo scopo di suscitare l’imitazione dei valori vissuti e delle azioni da loro compiute.
La beatificazione del magistrato Rosario Livatino è un modello che la Chiesa addita al mondo dei viventi, credenti e non; se ciò determina per la magistratura italiana un motivo di gaudio e stimolo nel quotidiano operare, impone altresì l’assunzione di una precisa responsabilità nel saper trarre ispirazione dal magistrato Livatino.
Il riconoscimento del martirio del Servo di Dio ripercorre i tratti salienti della sua vita professionale e dei suoi provvedimenti, da cui attingere insegnamenti di Diritto ed allo stesso tempo, Rosario Livatino diviene un riferimento di etica professionale che può guidare non solo la magistratura italiana ma tutti coloro – avvocatura compresa – che sono i costruttori del valore Giustizia.
La beatificazione del magistrato stride con gli scandali, i processi, le degenerazioni e gli abusi di chi ha indossato o indossa la toga al solo scopo di creare gruppi di potere dediti alla spartizione di ogni forma di esercizio della giurisdizione, premiando la fedeltà degli immancabili lacchè al padrone di turno; stride con la modestia etica a cui si assiste e che determina una crescente perdita di credibilità - cara a Livatino - della magistratura imponendo certamente una seria e costruttiva autocritica, ma anche un rispettoso recupero e riscatto dei principi costituzionali del nobile servizio del magistrato. Ed in tale tumultuoso contesto va respinta al contempo, ogni forma di strumentalizzazione, cavalcata da varie componenti della società, con l’unico scopo di ridimensionare l’autonomia e l’indipendenza da ogni forma di potere della magistratura così da controllarne e dirigerne le scelte.
Rosario Livatino si è reso credibile perché ha svolto scrupolosamente il suo servizio in favore dello Stato.
Egli diviene modello di etica professionale perché ha indossato la toga per presentarsi, preparato e puntuale, in udienza; per celebrare i processi senza rinvii pretestuosi o scansando la fatica del decidere; per redigere sentenze motivando, senza condizionamenti o vanità, la condanna o l'assoluzione nel rispetto dei termini processuali; per svolgere le indagini in modo completo nel rispetto della legge, con tempestività, privo di influenze, esitazioni o personalismi; per esercitare l’azione giudiziaria svelando sacche di impunità e facendo emergere reti di protezione o clientele locali; per abbattere "l'arretrato"; per essere presente in ufficio al mattino e al pomeriggio, ben distante dalla ricerca del lavoro “agile” o peggio, “agilissimo”; per essere magistrato autonomo e indipendente senza tatticismi o titubanze, senza contare il numero di udienze o processi o turni del collega della porta accanto per confrontarlo con il proprio ruolo.
Il magistrato Livatino non ha inopportunamente chattato (o comunicato coi mezzi di quei tempi); non ha frequentato salotti, circoli per tramare o per relazionarsi indebitamente con potentati estranei alla magistratura allo scopo di cercare vacui consensi.
Rosario Livatino è stato magistrato e non ha semplicemente "fatto" il magistrato.
“...L'indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività”.
Lo scorso anno una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha stabilito la legittimità del vincolo amministrativo posto alla “Casa di Famiglia del Giudice Rosario Livatino” in quanto bene di straordinario valore storico e culturale; in motivazione si legge “In quell’appartamento si è formato un ragazzo che con adamantina riservatezza ha interpretato i valori di rettitudine ed indipendenza che devono caratterizzare il lavoro del magistrato…nell’impegno etico e morale del giovane magistrato che, con la sua “normalità”, ha indicato ai giovani, non solo siciliani, la via del riscatto e della liberazione dal predominio mafioso”.
Il modello Rosario Livatino è fondamentale per ripristinare la credibilità della magistratura e tutelare il capitale reputazionale, patrimonio dell’essere magistrato, davanti a comportamenti che - prima ancora di integrare profili penali o disciplinari - intaccano la fiducia che i cittadini devono avere nei costruttori dell’amministrazione della Giustizia.
“È importante che egli (il magistrato) offra di se stesso l'immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire”.
Il suo vissuto ci invita a rifuggire dal magistrato-burocrate appiattito al formale rispetto delle ore lavorative, non un magistrato isolato nella sua torre eburnea ma neanche un magistrato che gareggia all'interno di una scenografica arena accogliendo o incoraggiando tifoserie, dimenticando di “essere” un servitore dello Stato.
I valori vissuti da Rosario Livatino sono fruibili da tutti coloro – non solo dai magistrati – che condividono la responsabilità di compiere il valore Giustizia ed è auspicabile, nel recupero dell’etica professionale, trovare la presenza convinta e consapevole dell’Avvocatura, voce autorevole e composta dei diritti violati e cardine tra le domande di giustizia e lo Stato; insieme, per non disperdere – ciascuno per la propria parte – i principi dei rispettivi codici deontologici nell’esercizio quotidiano della Giustizia che, ascoltando Livatino, richiede "persone serie, persone equilibrate, persone responsabili ma anche persone comprensive ed umane, capaci di capire".
Donne, vita e libertà di Maria Teresa Covatta
È questo lo slogan chiave delle proteste che in questi giorni stanno dilagando in tutto l'Iran, compreso il tormentato Kurdistan.
Gli arresti sono centinaia, almeno dalle notizie diffuse dalle Ong che indirettamente operano sul territorio (molte sono costrette ad aver sede all'estero) e che si battono per i diritti delle donne. Tra questi anche l'arresto di Niloufar Hamedin, la giornalista che per prima ha dato la notizia della morte di Mahsha Amini e da sempre si batte per i diritti delle donne.
Mahsha è solo la punta dell'iceberg. La denuncia di ragazze multate, arrestate, picchiate e "punite" per colpe connesse alla loro moralità, che comprende anche aver indossato il velo in modo "inadeguato", ci sono da anni, purtroppo inascoltate.
Tante sono anche le morti causate dalla protesta. L'ultima, diffusa oggi dalla stampa internazionale, è quella di Hadith Najafi, una giovano donna simbolo delle proteste. Gli attivisti e i giornalisti locali dicono che è stata freddata a colpi di pistola. Ma le notizie sono poche e arrivano con il contagocce.
Tutte le dittature hanno imparato (la guerra russo ucraina ce lo ha insegnato) che Internet è il loro nemico e che va bloccato.
E' accaduto anche in Iran, "per evitare il caos creato dalle proteste", anche se all'Assemblea Generale ONU il presidente iraniano aveva assicurato accurate misure per accertare le cause del delitto di Mahsha .
Bella ciao in lingua persiana. Una mattina mi sono alzata e ho trovato l'invasor...
Ma le proteste di questi giorni, i capelli rasati in pubblico e i veli bruciati in piazza, ci dicono che una mattina le donne iraniane si sono alzate e davanti al delitto efferato di una donna perchè velata inappropriatamente, davanti a questa ennesima invasione brutale delle loro esistenze, hanno deciso che per la libertà vale la pena di dare anche la vita.
E hanno deciso di urlarlo al mondo con ogni mezzo possibile.
E' questo il senso del video diffuso su Twitter. Questa la sua grandissima utilità.
Donne, vita e libertà. Non lasciamole sole
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