ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Stranezza. Recensione di Dino Petralia
In questo film della maturità Roberto Andò, non a caso regista pure di opere musicali e di teatro, realizza un prodotto che, per cast e trama prescelti, potrebbe dirsi all’apparenza ardito, ma che poi a luci spente si sostanzia nettamente come artificio vincente per spiegare con abile alchimia scenica il senso e l’efficacia del teatro.
E così, chiamando in campo uno dei geni della drammaturgia moderna, Luigi Pirandello, alle prese con l’ispirazione dei Sei personaggi in cerca d’autore, e affidando la trama al connubio recitativo composto dalla nota coppia comica Ficarra e Picone e dalla tempra interpretativa ugualmente nota di Toni Servillo, quest’ultimo nei panni del Maestro agrigentino, prende forma un accattivante mosaico narrativo, esso stesso a carattere teatrale, in cui il dominio degli eventi scenografici, a cavallo tra commedia degli equivoci e reality show, risiede tutto nel contrasto tra umorismo e tragicità.
Ed infatti, è proprio tra l’istintiva vis comica di Salvatore Ficarra e Valentino Picone - rispettivamente nel film Onofrio Principato e Sebastiano Vella - e l’elegante e meditabondo profilo scenico di Servillo (Pirandello) che prende vita un mix indistinto capace di illuminare di divertente ironia la severità di un tema così caro e irrisolto, l’ispirazione vitale dello scrittore, quella ricerca interiore che nei panni di un ormai maturo Pirandello, gravato nella vita familiare dalla condizione di squilibrio mentale della moglie Antonietta, aveva assunto i termini di una vera estenuante ossessione.
E il migliore spunto giunge al Maestro proprio dall’incontro con i due becchini - Sebastiano e Nofrio della ditta girgentana Vella & Principato - per via di un servizio funebre loro affidato in occasione della morte della sua vecchia balia. Il paradosso - che è poi la bizzarra e geniale trovata del film, ben potendo essa stessa fondare la stranezza propria del titolo - si compie nel dialogo a tre sul tema del teatro e nell’enfasi con cui i due comici, teatranti per diletto e animatori a loro volta del pittoresco contesto paesano, garbatamente arringano l’ignoto e (ai loro occhi) sprovveduto cliente, accusandolo con altrettanta ironica bonomia e cordiale presunzione di saperne davvero poco di teatro.
Paradosso che raggiunge infine il suo culmine quando Pirandello, invitato ad assistere alla scalcagnata e sostanzialmente fallita esibizione dell’altrettanto raffazzonata compagnia paesana, personalmente coinvolta in sala in uno scambio di accuse/difese col pubblico, conquista invece l’illuminazione che cercava e che darà vita al capolavoro dei Sei personaggi; un’ispirazione suscitata dall’ormai compiuta consapevolezza che il vero teatro è quello che vive nella coscienza della sua finzione, frantumando l’immaginaria quarta parete che lo separa dal pubblico e interagendo con questo in una realistica e suggestiva combinazione scenica.
Da inconsapevoli suggeritori di quel prodotto di visionaria drammaturgia, Nofrio e Sebastiano, invitati a spese di Pirandello alla prima romana al teatro Valle, non sapranno mai che la “fantasia” che aveva sollecitato il Maestro, e alla quale questi darà poi veste burlesca di “servetta” nella straordinaria prefazione che anni dopo premetterà al testo per renderne più agevole la comprensione, si agitava già nei palchi del rudimentale teatro paesano e che proprio il loro goffo insuccesso era stata occasione e ragione di una rivoluzionaria stranezza dello scrittore, fonte di un capolavoro in grado di condizionare l’intera poetica letteraria e teatrale del novecento.
Ritornati in sala a fine commedia per sfuggire alla turbolenta calca di un pubblico inferocito per ciò che era apparsa come un’insulsa e cervellotica messinscena, i due becchini si ritrovano da soli in teatro al cospetto di un palcoscenico ormai spoglio. Ed è lì che con sottile ironia si consuma la terza e ultima stranezza del film: quella scalcinata coppia non esiste né è mai esistita e lo stupefatto e perplesso Pirandello - in un Servillo al culmine della sua magistrale espressività - ne prende atto facendo consultare invano la lista degli invitati.
Erano anch’essi personaggi in cerca d’autore, fantasmi vaganti nella tormenta creativa dello scrittore che, all’unisono col vero Pirandello - cosi ne scrive nella sua fenomenale prefazione - “posso soltanto dire che, senza sapere d’averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro…”.
Un film colto, dallo spunto geniale, sapientemente intrecciato nella sua stessa iperbole rappresentativa; un film siciliano, scritto da un siciliano e con veri siciliani, nel dialetto, nelle attraenti tortuosità e funamboliche intelligenze dei siciliani.
Intervista a Ciro Sesto a cura di Valentina Busiello
L’Avvocato Ciro Sesto, civilista, ex Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Nola. Consigliere e Segretario del COA di Nola, è stato Assessore agli Affari Sociali del Comune di Ottaviano.
Benvenuto Avvocato Ciro Sesto, ci illustra nel suo percorso professionale di Avvocato civilista, e dopo la sua carica da Presidente dell’Ordine, il suo impegno costante al servizio dei colleghi, soprattutto in termini di formazione?
Sono Avvocato Civilista a tutto tondo. Dopo la mia carica da Presidente dell’Ordine degli Avvocati del foro di Nola, continuo ad impegnarmi nella politica forense, costantemente al servizio dei colleghi per ciò che posso dare all’avvocatura. Sono Consigliere dell’Ordine degli avvocati di Nola, ed intendo continuare a mettere il mio impegno e soprattutto la mia esperienza nell’ambito della formazione, che è fondamentale per i giovani avvocati, al servizio dell’avvocatura. La mia è una visione aperta verso la politica forense, non soltanto verso il Consiglio dell’Ordine, ma soprattutto verso gli altri organi ai quali si può comunicare in sinergia, dare il proprio contributo per l’esperienza acquisita in questi anni.
Parlando della formazione, è fondamentale per i nostri giovani colleghi aggiornarsi su temi della giurisdizione che solo fondamentali. Ho ottenuto, con la mia Presidenza, il riconoscimento della Fondazione forense per la quale mi sono molto impegnato considerandola uno strumento fondamentale per la formazione non solo per gli avvocati, ma anche per la società, poiché come avvocati possiamo dare molto. Immaginiamo la formazione soprattutto dei dipendenti, degli enti locali, ecc., credo che gli avvocati possano e debbano fornire il loro contributo per la crescita sociale. La Fondazione è uno strumento importante ed il riconoscimento ottenuto è motivo di grande soddisfazione.
Avvocato Ciro Sesto, ci parla della Giustizia Civile, le varie problematiche, e le soluzioni secondo lei per arrivare ad una risoluzione?
Nel settore della giustizia civile c’è bisogno di investire risorse. Abbiamo delle difficoltà enormi. Un esempio; ad oggi nel nostro circondario ci sono situazioni di uffici del Giudice di Pace come quello di Sant'Anastasia, che sono stati chiusi per oltre 3 mesi poiché mancava il personale, una situazione inaudita, un fatto gravissimo, un diniego di giustizia. È inaccettabile che al Giudice di Pace di Sant'Anastasia ci siano oltre 1000 sentenze da pubblicare, il che significa, che sono state già redatte dal Giudice, ma che manca il cancelliere che le sottoscriva per poi pubblicarle. È una situazione che è stata portata da parte del, e come Consiglio dell’Ordine all’attenzione del Ministro della Giustizia, e del Presidente della Corte D’Appello.
Per quanto riguarda la funzionalità, si sarebbero dovute investire maggiori risorse sui cancellieri e sui giudici soprattutto, e non sul contorno, come l’ufficio del processo; so che circa 2 miliardi sono stati investiti per i neo assunti che ne fanno parte, e che probabilmente saranno anche stabilizzati, ma non credo che sia questo che possa risolvere i problemi della giustizia civile. Magari una Riforma diversa che investisse maggiormente nella digitalizzazione e nell’informatizzazione sarebbe la migliore soluzione.
Avvocato Sesto, il futuro è una evoluzione proprio nella digitalizzazione del processo sia civile che penale. Cosa ne pensa delle Riforme, e soprattutto della Riforma Cartabia?
Penso che sia uno degli elementi positivi, soprattutto quando parliamo della Riforma Cartabia. Per parlare di situazioni negative, invece, che vengono alla luce, un esempio; abbiamo un processo civile che, soprattutto nella prima fase che porta a fissare il thema decidendum, si è consolidato ed è collaudato nel tempo perché le Norme sono state passate al vaglio della Giurisprudenza. Le nuove Norme porteranno inevitabilmente al rallentamento di tutto il sistema, poiché tutte le volte che si introduce una Norma nuova c’è bisogno che passi tempo affinché possa avere applicazione uniforme ed omogenea. Ad oggi, con la Riforma del processo si addossano nuove responsabilità, nuovi adempimenti alle parti e agli avvocati, per lasciare poi ai Magistrati l’onere successivo di fare le sentenze. Quello che non è stato previsto, è il fatto che ad oggi abbiamo il cosiddetto “collo di bottiglia”, nel senso che, arriviamo all’ultima udienza in cui ci sono le conclusioni, e il Magistrato magari non è pronto per fare la sentenza poiché ha tanti fascicoli e non riesce ad incamerarli tutti, quindi cosa fa? Dispone un nuovo rinvio per la sentenza dando precedenza ai fascicoli più antichi. Un esempio: una causa dell’anno 2017 pronta per la sentenza già nell’anno 2019, ha avuto 4 lunghi rinvii perché il Magistrato aveva molte altre sentenza da emettere per fascicoli più datati, e così, probabilmente, sarà decisa solo nel 2023.
Si vuole velocizzare la prima fase del processo, per poi rimanere sempre bloccati poiché il Magistrato non riesce ad emettere le sentenze. Questo per quanto riguarda il processo di cognizione. Nel processo esecutivo, invece, vediamo delle Norme abbastanza positive, tipo la sburocratizzazione. Ad esempio: oggi per ottenere la cosiddetta “formula esecutiva”, che sarebbe il visto del Magistrato e del cancelliere per potere mettere in esecuzione il provvedimento, occorrono oltre 30 giorni. Quindi, con la Riforma, sarà l’avvocato a poter attestare la conformità ed andare avanti con le esecuzioni. È vero che la prima soluzione è maggiormente garantista a favore dell’esecutato. Però bisogna mettere sulla bilancia anche la possibilità che i tempi di esecuzione debbano essere altrettanto veloci e accessibili, per chi magari vede il suo diritto essere negato, il cittadino in questo caso.
Sulla Riforma Cartabia, credo ci potranno essere degli effetti positivi, ma come tutte le Riforme non si è tenuto conto dei pareri dell’avvocatura, anche se questo c’era stato promesso. Il punto è, quando capita che non vengono digerite le Riforme, non vengono concertate, poiché anche la Magistratura è stata critica su certi versi su queste Riforme, e quando non c’è la volontà, o meglio non vengono ben accolte da chi deve poi applicarle, le Riforme spesso lasciano irrealizzato quel progetto che le aveva ispirate. Ritornando come esempio all’ufficio del processo introdotto con la Riforma possiamo verificare che, se non c’è la collaborazione massima della Magistratura, questi nuovi addetti all’ufficio del processo probabilmente saranno utilizzati per far le fotocopie, gli effetti della loro attività ancora non li vediamo, e speriamo che magari con il passare del tempo possano integrarsi e dare dei risultati maggiormente positivi di quelli che abbiamo avuto fin ora. È soprattutto un problema burocratico, ma il punto è, se abbiamo cause che durano 8-9 anni, non si può pensare di ridurre questi tempi con la modifica del Codice di procedura civile, c’è bisogno di investire in risorse, informatizzazione, cancellieri, ma soprattutto magistrati che possano arrivare a ridurre i tempi, distribuendosi i ruoli.
La digitalizzazione, l’informatizzazione è fondamentale nella giurisdizione, cosa ne pensa è favorevole?
La mia generazione è quella che ha imparato ad usare i sistemi informatici, e sono pienamente favorevole alla digitalizzazione nella giustizia. Da quando ho iniziato da Segretario dell’Ordine degli Avvocati di Nola, ho sempre guardato con attenzione e animo favorevole alla digitalizzazione che ci permette di guadagnare tempo e risultati nel processo ma anche nel lavoro. Se la società va verso la digitalizzazione, certamente il sistema giustizia non può rimanere indietro, anzi noi avvocati dovremo governare il cosiddetto cambiamento, cioè prevenire quello che sarà. Quindi, guardo sempre di più con favore ad un digitalizzato sistema informatico nella giurisdizione. Una ricognizione della digitalizzazione del processo civile e penale e della transizione digitale del Ministero della giustizia per i sistemi informativi automatizzati, soprattutto l’intelligenza artificiale come tecnologia abilitante nel processo giurisdizionale. Ci sono cose che ovviamente non possono essere digitalizzate, ma per il resto poi credo che sia importante soprattutto per noi avvocati avere una visione aperta ad una giustizia digitalizzata.
Nella Giustizia civile una causa si sviluppa dopo anni, pensi nella Giustizia Penale, una prima udienza per esempio si celebrerà nel 2026 in alcuni Tribunali?
Sono situazioni assurde, poiché questo significa negare la giustizia. Allora se pensiamo a casi come questi, dovremmo ripensare anche alle risorse da destinare. Magari non in un’unica direzione ma verificare caso per caso quali sono i Tribunali, o gli uffici giudiziari che hanno bisogno di risorse, attraverso un monitoraggio che comporti la distribuzione di queste risorse nei posti in cui sono maggiormente necessari.
Le diverse stagioni dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: dal paradigma della reintegrazione al disincanto della tutela economica. Quasi un racconto
Recensione di Vincenzo Antonio Poso a Giovanni Amoroso
1. Il libro di Giovanni Amoroso (ARTICOLO 18 STATUTO DEI LARORATORI. Una storia lunga oltre cinquant’anni, Cacucci Editore, Bari, 2022), pubblicato nella prestigiosa Collana “Biblioteca di cultura giuridica”, diretta da Pietro Curzio, ci consente di ripercorrere le tappe fondamentali, anche delle politiche sociali ed economiche del nostro paese, della norma più amata e più contestata del nostro diritto del lavoro, guidati, come in un inedito viaggio sentimentale, da un osservatore non fazioso, studioso e magistrato rigoroso, ora giudice costituzionale.
Ma parlare, con riferimento al libro recensito, solo di articolo 18 è riduttivo, perché l’Autore, con la filigrana di questa norma, ha scritto un piccolo “trattato” sulle tutele dei lavoratori contro i licenziamenti illegittimi, diverse nel tempo, un tempo lungo oltre cinquant’anni, e nelle situazioni date, che il nostro legislatore ha costruito, talvolta con evidenti compromessi e sbavature, non sempre nel rispetto della grammatica costituzionale ( artt. 3, 4 e 35) ed europea ( art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e art. 24 della Carta sociale europea).
Mai come in questo caso, torna molto utile leggere il libro dalla fine, dalla « Nota conclusiva » ( pagg. 299 e ss.), dove l’Autore individua tra i punti fermi, oltre al principio della «necessaria causalità del licenziamento che, salvo le residuali ipotesi di libera recedibilità ad nutum, deve essere assistito da giusta causa o giustificato motivo, soggettivo o oggettivo» ( da cui consegue la giustiziabilità delle ragioni del licenziamento), la « “reintegrazione” nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato quale fattispecie tipica e paradigma speciale delle conseguenze dell’inefficacia o dell’invalidità dell’atto datoriale di recesso», nonostante la ridotta area di applicazione della c.d. tutela reale e la differenziazione, per presupposti e caratteristiche, delle tutele.
Mentre molti studiosi si attardano a individuare il “peccato originale” dell’articolo 18, Giovanni Amoroso, senza enfasi, ma con una chiara opzione interpretativa, che si percepisce sin dalla ricostruzione del contesto storico e politico-sociale in cui è nato lo Statuto dei Lavoratori ( cap. I, pagg. 19 e ss.), riconosce nell’articolo 18 degli anni ’70 e nella tutela reale dallo stesso delineata l’archetipo iniziale dal quale non si può prescindere, nonostante il ridimensionamento della sua applicazione dopo la c.d. riforma Fornero e il Jobs Act, in una linea di continuità della legge sulla giusta causa e sul giustificato motivo che ha sostanzialmente retto negli anni, dichiarando ( come del resto ha fatto in più occasioni la Corte Costituzionale, da ultimo con la sentenza n. 183 del 22 luglio 2022), in chiusura del volume (pag. 304) « che c’è ormai una ( non più procrastinabile) esigenza di coerenza intrinseca, che chiama il legislatore a rivedere la disciplina dei licenziamenti, individuali e collettivi, in termini globali per assicurare organicità e sistematicità della regolamentazione».
Corsi e ricorsi storici.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 27 gennaio 1958, n. 7, dichiarando non fondata la q. l. c. di una legge della regione siciliana che, in contrasto con la norma statale dell’art. 2118 cod. civ., aveva previsto la stabilità dell’impiego in caso di licenziamento illegittimo dei dipendenti delle esattorie comunali, aveva affermato, con un monito al legislatore rimasto senza risposta per molti anni, la tendenziale estensione del principio della stabilità del rapporto di pubblico impiego anche ai dipendenti privati il cui licenziamento doveva essere giustificato e non arbitrario.
Sempre la Corte Costituzionale, con la sentenza 9 giugno 1965, n. 45 ( sempre richiamata dalla giurisprudenza costituzionale, anche recente),pur dichiarando non fondata la q. l .c. dell’art. 2118 cod. civ., sollevata con riferimento all’art. 4, Cost, riconobbe il diritto al lavoro come « fondamentale diritto di libertà della persona umana », invocando l’intervento del legislatore per tutelare i lavoratori incisi da illegittimi licenziamenti, così aprendo la strada alla l. 15 luglio 1966, n. 604.
Con la sentenza 20 novembre 1969, n. 143 ( specificamente richiamata dalla sentenza della Corte di Cassazione 6 settembre 2022, n. 26246 – confermata dalla recente pronuncia 20 ottobre 2022, n. 30957 - che, a seguito delle riforme in materia di licenziamento del 2012 e del 2015, ha affermato il principio della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi solo a far data dalla cessazione del rapporto), la Corte Costituzionale ha evocato la «particolare forza di resistenza » del pubblico impiego, che assicura normalmente la continuità del rapporto di lavoro.
Sono, queste, solo alcune delle pronunce della Consulta, che l’Autore prende in considerazione, per descrivere, insieme alle leggi precedenti, il contesto in cui nasce, nell’epoca delle grandi riforme - quelle possibili – nel periodo che va dalla seconda metà degli anni ’60 alla prima metà degli anni ’70 (che vide in Gino Giugni la mano ferma dello scultore, in una stagione politica favorevole), la l. 20 maggio 1970 e l’art. 18 che disciplinava la reintegrazione nel posto di lavoro e l’integrale risarcimento del danno in conseguenza di un illegittimo licenziamento (cap. I, pagg. 33 e ss.).
Particolarmente significative sono le pagine (cap. I, pagg. 36 e ss.) che Giovanni Amoroso dedica alla portata innovativa dell’art. 18, st. lav., che fa «sistema» con la disciplina introdotta dalla l. n. 604/1966 (lo dice anche la Corte Costituzionale nella sentenza 12 dicembre 1972, n. 174, che riconobbe alla stabilità reale dello statuto dei lavoratori la forza di resistenza tipica del regime di pubblico impiego, tale da consentire la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi dei dipendenti privati in costanza di rapporto), alla natura dell’ordine di reintegrazione ma anche alla garanzia del diritto al lavoro e alla non indefettibilità, sul piano costituzionale, del regime della reintegrazione, in base agli apporti della giurisprudenza costituzionale ( v., tra le tante, le sentenze n. 46 del 7 febbraio 2000; n. 303 dell’11 novembre 2011; n. 194 dell’8 novembre 2018; n. 125 del 19 maggio 2022).
Con riferimento specifico a quest’ultimo profilo, l’Autore certamente riconosce che la reintegrazione non costituisce l’unico paradigma attuativo dei principi e dei valori costituzionali, ma per un corretto bilanciamento degli stessi deve essere realizzato un equilibrato sistema che assicuri tutele adeguate ai lavoratori illegittimamente licenziati e dissuasive della commissione di atti illeciti o comunque illegittimi da parte dei datori di lavoro.
2. La prima fase di applicazione dell’art. 18, sino alla fine degli anni ’80, viene analizzata (cap. II, pagg. 45 e ss.) sulla base dei significativi arresti delle Sezioni Unite che hanno disegnato il perimetro della tutela reintegratoria, in chiave estensiva, con riferimento al limite dimensionale dell’azienda ( prevalenza del criterio dimensionale dell’unità produttiva, senza dare rilievo anche al concorrente criterio dell’organico complessivo oltre i 35 dipendenti: interpretazione non conforme al dato testuale delle norme, che però anche l’Autore condivide per l’impatto sociale della tutela); e, soprattutto per gli apporti della giurisprudenza costituzionale, sempre in chiave estensiva ( con interpretazione adeguatrice al canone costituzionale dell’eguaglianza ), con riferimento all’applicazione della tutela reintegratoria in ogni caso di licenziamento illegittimo ( pur nel rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi).
La specialità del vizio del licenziamento arretra di fronte al regime delle tutele, generalizzate; mentre è la differenziazione delle tutele la cifra identificativa delle riforme del 2012 e del 2015.
Non mancano approfonditi riferimenti alle problematiche riguardanti l’esecuzione dell’ordine di reintegrazione (che rappresentava il banco di prova della effettività della tutela apprestata dalla norma statutaria); l’autonomia della tutela risarcitoria (che si affianca, senza sostituirla, alla tutela reintegratoria); la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto (ma solo in ragione della sua stabilità reale).
3. Le cinque iniziative referendarie, dal 1981 al 2017, che dimostrano l’interesse suscitato dall’art. 18 - sia per l’estensione della sua applicazione, che per la sua abrogazione - sono rimaste tutte senza esito, tranne quella del 1989 che porterà il legislatore a recepire le modifiche proposte con i quesiti referendari adottando, con una forte accelerazione dei lavori parlamentari, la l. 11 maggio 1990, n. 108, così impedendo la consultazione popolare.
L’Autore, che affronta tutti questi temi nel cap. III, pagg. 71 e ss. ( esaminando anche alcuni aspetti tecnici del referendum e delle sentenze in punto di ammissibilità pronunciate dalla Corte Costituzionale), mette bene in evidenza che la tutela reintegratoria fu ampliata in maniera significativa dalla l. n. 108/1990, con una impronta di complessiva razionalizzazione del sistema – coniugando il limite dimensionale complessivo dell’azienda con le minime unità produttive – anche se l’obiettivo del Comitato promotore era molto più ambizioso, perché mirava ad imporre una generalizzazione della tutela statutaria ( in questa stessa direzione, peraltro, si era mossa la precedente iniziativa referendaria del 1981, relativa a tre diverse norme – art. 28, comma primo; art. 35, comma primo; art. 37 – che però fu bocciata dalla Corte Costituzionale non essendo omogeneo il quesito proposto).
Le vicende che contrapposero il Comitato promotore del referendum all’Ufficio Centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione ( che videro, anche, dopo la seconda decisione negativa, un inedito conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale) dimostrano quanto fosse rilevante la questione che avrebbe potuto portare – e l’Autore (pagg. 81-82) sembra propendere per questa soluzione – l’organo centrale per il referendum a spostare sulle nuove disposizioni normative il quesito referendario, in applicazione dell’art. 39, l. 25 maggio 1970, n. 352.
In un mutato contesto politico - e in controtendenza rispetto al passato -, si inserisce l’iniziativa referendaria del 1999 per l’abrogazione tout court dell’art. 18, disattesa dall’elettorato l’anno successivo. In questo caso Giovanni Amoroso (pagg. 83 e ss.) si dilunga sulla sentenza di ammissibilità pronunciata dalla Corte Costituzionale, 7 febbraio 2000, n. 46, che affermò con nettezza che la garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 della Costituzione può essere attuata anche con strumenti diversi dalla reintegrazione, secondo una scelta affidata alla discrezionalità del legislatore.
Resta indefettibile, quindi, anche per l’Autore (pagg. 84-85) il controllo giurisdizionale delle ragioni del licenziamento e la tutela indennitaria od obbligatoria in caso di licenziamento illegittimo, quale «nucleo costituzionalmente irrinunciabile» della tutela del lavoratore illegittimamente licenziato.
Tralasciando, qui, l’esame del referendum del 2002, diretto, nuovamente, ad ampliare l’area di applicazione dell’art. 18, Giovanni Amoroso prende più diffusamente in considerazione l’iniziativa referendaria del 2016 per contrastare gli effetti della riforma c.d. Fornero, con riferimento all’art. 18 novellato, utilizzando la tecnica del ritaglio e dell’intero Jobs Act (pagg. 87 e ss.), entrando nel merito della sentenza 27 gennaio 2017, n. 26 ( condivisa dall’Autore, pagg. 87 e ss.) che si era pronunciata per l’inammissibilità del quesito referendario che da una parte manifestava un carattere parzialmente propositivo ( con riferimento alla riforma del 2012), che contraddiceva la funzione meramente abrogativa affidata dal legislatore all’istituto di democrazia diretta; e dall’altra difettava dei necessari requisiti di univocità e omogeneità.
In buona sostanza, come scrive Giovanni Amoroso (pag. 91): «La saldatura in un unico quesito ha comportato l’inammissibilità della complessiva richiesta referendaria».
4. Nella trattazione della seconda fase, dal 1990 al 2012 (cap. IV, pagg. 93 e ss.) l’Autore descrive puntualmente le novità introdotte dalla l. n. 108/1990, che, con la riscrittura dell’art. 18, ha comportato una più ampia applicabilità della tutela reale, ma ha anche riformulato il testo dell’art. 8, l. n. 604/1966, nei termini che conosciamo.
Come abbiamo già detto, l’intervento del legislatore ha evitato lo svolgimento dell’iniziativa referendaria del 1989.
Gli aspetti rilevanti in questa fase, secondo l’Autore, sono tre.
Innanzitutto, una chiara affermazione, a partire dall’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 12 aprile 1976, n. 1268, degli oneri probatori delle parti con riferimento al requisito dimensionale del datore di lavoro, rilevante anche ai fini della sospensione della prescrizione dei crediti retributivi nei rapporti di lavoro caratterizzati dalla stabilità reale, nei termini descritti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 174 del 12 dicembre 1972; con una successiva presa di posizione sempre delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 4 marzo 1988, n. 2249, che ha posto a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza del requisito occupazionale per l’applicazione del regime di tutela reale che consentiva la decorrenza della prescrizione in corso di rapporto, comunque restando a carico del lavoratore l’onere della prova dello stesso requisito ai fini della invocata tutela reintegratoria ( o dello stesso datore di lavoro, per escluderla).
Sta di fatto, però, che con le modifiche apportate dalla l. n. 108/1990, che avevano comportato anche una generalizzata tutela obbligatoria, sganciata dai requisiti dimensionali, il problema della ripartizione dell’onere della prova, che sembra sopito, si ripropone, con contrastanti opzioni interpretative assunte dalla Sezione Lavoro della Cassazione, che, con la pronuncia a Sezioni Unite 10 gennaio 2006, n. 141, ha riportato l’onere della prova del requisito dimensionale in capo al datore di lavoro - richiamando anche il principio della c.d. vicinanza della prova – affermando un principio di civiltà giuridica ribadito anche in successive pronunce.
L’Autore spiega bene il cambio di passo della giurisprudenza di legittimità (pag. 102): «Il risultato complessivo è stato quello di costruire la tutela reale come fattispecie generale, seppur condizionata alla ricorrenza del requisito dimensionale, e invece la tutela obbligatoria, come fattispecie speciale, applicabile come eccezione alla regola».
Il secondo profilo rilevante della riforma è l’unificazione, in chiave risarcitoria, del regime delle conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, dall’intimazione del licenziamento alla effettiva reintegrazione.
Il terzo profilo rilevante è rappresentato dalla indennità sostitutiva della reintegrazione., che giustamente l’Autore considera una novità assoluta, che ha trovato, peraltro, il giudizio positivo del legislatore anche dopo le riforme del 2012 e del 2015 (con piccole differenze, relative, essenzialmente, alla base di calcolo), che viene a qualificarsi come istituto di natura sostanziale e processuale.
Questa previsione, però, dimostra, ad avviso di chi scrive, lo scivolamento della tutela reale verso quella meramente indennitaria, compensativa e risarcitoria, con la previsione di un “prezzo”, uniforme, della reintegrazione.
Nel perimetro disegnato, dopo la sentenza della Corte Costituzionale 4 marzo 1992, n. 81, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 27 agosto 2014, n. 18353, l’Autore si dimostra favorevole alla monetizzazione della reintegrazione, risultando, comunque, del tutto evidente l’incoerenza del regime delineato dal legislatore con la costruzione dell’indennità sostitutiva, da parte della Corte Costituzionale, come obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, venendosi così a creare incertezza nella posizione del datore di lavoro, condizionato dalla scelta del lavoratore. È la richiesta della indennità sostitutiva che determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
L’Autore individua, anche, un problema, che potrebbe essere affrontato e risolto (in termini di ragionevolezza intrinseca ma anche di violazione del principio di eguaglianza) dalla Corte Costituzionale, perché, dopo la sua pronuncia n. 194 dell’8 novembre 2018, l’indennità compensativa del licenziamento ingiustificato in regime di Jobs Act è di importo pari, nella misura massima di 36 mensilità, ad oltre il doppio dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
5. Nella trattazione dei licenziamenti è la terza fase relativa alla c.d. riforma Fornero, introdotta dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, che assume importanza fondamentale, anche per l’attualità della norma rivisitata (cap. V, pagg. 113 e ss.), ormai applicata da un decennio.
La considerazione iniziale dell’Autore (pagg. 114 e ss.), che pone l’esordio di questa nuova fase nella l. 4 novembre 2010, n. 183, c.d. collegato lavoro (art. 30: limitazione della discrezionalità del giudice nella valutazione delle motivazioni dei licenziamenti: art. 31: agevolazione delle soluzioni conciliative e di arbitrato; art. 32: restrizione dei tempi di impugnazione dei licenziamenti) è del tutto lineare e condivisibile.
È una riforma, quella del 2012, che nasce prima – nelle intenzioni dei riformatori, dentro e fuori il Parlamento – del Governo Monti.
Meno condivisibile è la tesi dell’Autore che, seppure non espressamente così esplicitata, considera le due riforme del 2012 e del 2015 facce della stessa medaglia (pagg. 116 e ss.), perché esse, ad avviso di chi scrive, sono ispirate da diverse e non convergenti intenzioni del legislatore: non foss’altro perché con il Jobs Act si mette fine all’applicazione dell’art. 18 per come lo abbiamo conosciuto (anche se qualcosa della vecchia norma resta).
L’archetipo dell’art. 18 abbandona il suo ruolo (anche se non è del tutto rinnegato) di istituto normativo storicamente posto a tutela dei lavoratori illegittimamente licenziati e lascia il posto ad una diversa disciplina, che rompe con il passato, applicabile ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015. È il tempo che marca due tutele differenti.
Certamente, come scrive Giovanni Amoroso, resta confermato il principio del recesso causale, che marginalizza la libera recedibilità ad nutum, in base a quanto stabilito dalla l. n. 604/1966, che pone i presupposti del licenziamento giustificato e non arbitrario, rafforzati dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 24 della Carta sociale europea.
Con la c.d. riforma Fornero l’unitaria previsione della reintegrazione ( termine che scompare anche nella rubrica del novellato art. 18 a favore della «Tutela del lavoratore in caso di licenziamento», con una scelta lessicale che è la dimostrazione plastica della rilevante modifica sostanziale apportata) lascia il posto alla frammentazione delle tutele ( pagg. 120 e ss.); quattro distinti regimi – due di tutela reintegratoria e due di tutela indennitaria – senza una netta linea di demarcazione tra di loro, che secondo l’Autore rappresenta il vizio di origine di questa disciplina, tanto complessa, quanto ( inutilmente) complicata, perseguendo il legislatore della riforma il fine, nemmeno tanto celato, di rendere meno stabile il rapporto di lavoro in alcuni casi di licenziamento illegittimo, per rendere definitive ( ma non insindacabili) le scelte datoriali di risoluzione del rapporto di lavoro.
In controtendenza con quanto recentemente affermato dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 26246/2022 e n. 30957/2022, più sopra citate, l’Autore ( riprendendo un discorso svolto anche nelle pagine precedenti) propende per la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto, anche in caso di applicazione dell’art. 18 novellato, che, seppure nella forma attenuata, prevede in alcune ipotesi ( ma non in tutte) la reintegrazione, restando relegata la diversa soluzione solo all’area della tutela obbligatoria e della libera recedibilità ( pagg. 129-130).
Tralasciando, in questa sede, l’esame della questione ( con i tanti problemi, non tutti risolti) del rito speciale per l’impugnazione dei licenziamenti, messo da parte prima dal legislatore del Jobs Act e poi dalla recente riforma del processo civile, si passa alle specifiche tutele sostanziali, che l’Autore analizza puntualmente secondo lo schema differenziato e frammentato che prima abbiamo messo in evidenza: «tutela piena reintegratoria» ( pagg. 132 e ss.), «tutela reintegratoria attenuata» ( pagg. 139 e ss.), «tutela indennitaria attenuata» ( pagg. 146 e ss.), «tutela indennitaria ridotta» ( pagg. 149 e ss.).
Su questi temi, solo alcune brevi osservazioni di lettura.
Per quanto riguarda le tutele reintegratorie, l’Autore, mentre vede una netta linea di demarcazione tra il licenziamento nullo o inefficace per difetto di forma scritta nella sua comunicazione e licenziamento ingiustificato, individua ( pag. 135) «un punto di criticità essenzialmente nella contiguità tra il licenziamento nullo perché discriminatorio e il licenziamento ( disciplinare) annullabile per insussistenza del fatto contestato o per tipizzata non proporzionalità dell’addebito» con la conseguenza che: «Quando è radicalmente insussistente la ragione posta dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento disciplinare , o per colpa, il recesso datoriale si avvicina, come fattispecie, a quello qualificabile come discriminatorio».
Nella «tutela reintegratoria attenuata» di cui al quarto comma dell’art. 18, secondo l’Autore, lo scostamento dalla tutela reintegratoria piena è segnato dal fatto che l’indennità risarcitoria consegue non più all’ “ordine di reintegrazione” ( come nel primo comma), ma alla “condanna alla reintegrazione” ( pag. 139); mentre la limitazione dell’indennità risarcitoria per il periodo successivo alla pronuncia giudiziale si pone in controtendenza rispetto al precetto dell’art. 614- bis cod. proc. civ., che prevede misure di coercizione indiretta in caso di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro (pag. 141): rappresentando, comunque, questo limite una criticità perché «non dà rilevanza al protrarsi dell’inottemperanza del datore di lavoro alla condanna alla reintegrazione e, prima ancora, alla durata del giudizio, che potrebbe, esso solo, superare i dodici mesi» (sempre pag. 141).
È nelle ipotesi della tutela indennitaria ordinaria di cui al quinto comma dell’art. 18 (pagg. 146 e ss.) e della tutela indennitaria ridotta di cui al successivo sesto comma (pagg. 149 e ss.) che si riscontra il vero cambio di passo del legislatore della riforma del 2012 che riporta, nei confini della vecchia norma novellata, la tutela obbligatoria, sebbene con presupposti e limiti diversi rispetto a quella disciplinata dall’art. 8, l. n. 604/1966.
Sull’indennità risarcitoria, ma omnicomprensiva (quindi compensativa di ogni danno?) traspare l’opinione dell’Autore favorevole alla limitazione solo al danno patrimoniale, potendo non essere ricompresi anche i danni ulteriori di natura non patrimoniale (biologico, morale, all’immagine), che resterebbero risarcibili secondo i criteri ordinari, dando comunque conto dell’orientamento interpretativo restrittivo, anche recente, della Corte di Cassazione (pag. 148).
L’insussistenza del fatto contestato nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo (pagg. 152 e ss.) si deve misurare con l’osservazione, non di poco conto, dell’Autore secondo la quale «l’inadempimento – e con esso l’illiceità – sussiste sia se di “scarsa importanza” (art. 1455 c.c.), sia se, superata questa soglia, sia “notevole” (art. 3 legge n. 604/66)» (pag. 156).
Non meno problematica è l’ipotesi dell’insussistenza del fatto ( non più manifesta, dopo la sentenza della Corte Costituzionale 1° aprile 2021, n. 59) posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ( pagg. 157 e s..), che l’Autore correttamente riferisce, nei presupposti non solo materiali, ma anche giuridici, alla previsione dell’art. 3, l. n. 604/1966, considerando, comunque, la mancanza di un nesso causale tra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento sussumibile nella nozione di insussistenza del fatto.
Degna di segnalazione è l’osservazione ( da chi scrive condivisa) secondo la quale, dopo che l’insussistenza del fatto è stata depurata dalla sua natura manifesta, nella cui nozione si faceva rientrare anche il mancato assolvimento dell’onere del repêchage, questo orientamento interpretativo deve essere ripensato: «In realtà – scrive l’Autore – il repêchage viene in rilievo solo dopo che si sia esclusa la fattispecie dell’insussistenza del “fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”; quindi sembra essere esterno alla fattispecie stessa. Conseguentemente, una volta verificata la sussistenza di un fatto idoneo nel senso sopra specificato, il mancato assolvimento dell’onere probatorio del repêchage rende applicabile la tutela indennitaria e non già quella reintegratoria» (pagg.158-159).
Su questo punto l’Autore ritorna anche successivamente, a pag. 274, quando prende in esame, specificamente, la giurisprudenza costituzionale.
Acquisita come autonoma (per gli approdi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità) la fattispecie del licenziamento disciplinare, Giovanni Amoroso passa ad esaminarla (pagg. 161 e ss.), con dovizia di particolari (anche con riferimento al preventivo procedimento disciplinare), differenziandosi le tutele nei diversi casi di vizi sostanziali e vizi formali o procedurali.
L’Autore non sembra esprimere riserve sulla coerenza sistematica delle fattispecie che si riferiscono ai vizi sostanziali del licenziamento disciplinare (insussistenza del fatto contestato e previsione di condotte punibili per contratto collettivo o codice disciplinare con una sanzione conservativa), ritenuto, peraltro, positivamente recuperato il canone di proporzionalità tra inadempimento e sanzione.
Viene, in proposito, espressa, seppure indirettamente, adesione al recente orientamento interpretativo dei giudici di legittimità (Cass. n. 11 aprile 2022, n. 11665), che, proprio sul versante della proporzionalità, hanno affermato, in controtendenza rispetto a precedenti decisioni, che il giudice può procedere alla sussunzione della condotta addebitata al lavoratore nella previsione contrattuale della punizione con sanzione conservativa, anche nel caso di clausole elastiche o generali (pag. 170).
Una decisione, quella della Cassazione, discutibile, a parere di chi scrive, perché ci riporta al passato, senza tenere in debito conto la norma espressa e le intenzioni del legislatore che hanno valorizzato il perimetro di applicazione delle sanzioni conservative; e comunque impone alle parti sociali di procedere con maggiore accortezza e consapevolezza alla tipizzazione delle fattispecie disciplinari.
La frammentazione delle tutele si ripercuote anche sui licenziamenti collettivi illegittimi (pagg.183-184), che in questa sede non posiamo specificamente analizzare.
6. Alla riforma introdotta dal Jobs Act del 2015 (d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23), modificato, in parte, dal c.d. decreto dignità (d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv., con mod., dalla l. 9 agosto 2018, n. 96) è dedicato il capitolo VI (pagg. 185 e ss.).
Qui Giovanni Amoroso conferma la sua tesi, esposta anche nelle pagine precedenti, secondo cui, nonostante la disciplina derogatoria introdotta dal legislatore del 2015, non c’è una effettiva fuga dall’art. 18, anche se la nuova disciplina si affianca a quella precedente, dell’art. 18 novellato dalla c.d. riforma Fornero, applicandosi solo ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015.
Apprezzabile è la ricostruzione da parte dell’Autore del complessivo contesto riformatore in diretta applicazione delle deleghe poste con la l. 10 dicembre 2014, n. 183 (pagg. 188 e ss.).
Resta confermata la tutela differenziata nei quattro regimi, due reintegratori e due indennitari, secondo lo schema legislativo precedente, ma con alcune differenze che l’Autore mette bene in evidenza (pagg. 199 e ss.).
Solo alcune osservazioni.
Il riferimento all’art. 15, st. lav. (e non anche all’art. 3, l. n. 108/1990), caratterizza il licenziamento discriminatorio, per il quale vale la tutela reintegratoria piena.
In controtendenza con la precedente disciplina, che prevede la reintegrazione attenuata, è piena la tutela reintegratoria del lavoratore licenziato senza giustificazione per motivo di disabilità.
Nel perimetro della tutela solo indennitaria rientrano i licenziamenti economici, individuali o collettivi; mentre all’insussistenza del fatto materiale del licenziamento disciplinare consegue la reintegrazione attenuata (v., sul punto, pagg. 207 e ss.).
Per la tutela indennitaria è assorbente il richiamo delle c.d. tutele crescenti, con l’intervento demolitorio della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 e l’incremento della soglia minima e massima, da sei a trentasei mensilità, introdotto dal c.d. decreto dignità.
7. Degno di interesse è il Cap. VII che affronta il delicato tema della reintegrazione nell’impiego pubblico privatizzato (pagg. 217 e ss.), da ultimo prevista dalla c.d. riforma Madia del 2017 (pagg. 224 e ss.), a superamento della incerta applicazione dell’art. 18, st. lav., nel testo precedente alla c.d. riforma Fornero.
La disciplina speciale per i dipendenti pubblici, che assicura maggiore certezza per le conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, accentua, secondo l’Autore, la sensibile divaricazione rispetto al regime applicabile ai dipendenti privati (pagg. 228 e 229), essendo applicabile solo ai primi la stabilità reale assicurata dall’art. 18 anteriforma, sebbene mediante la previsione di una specifica norma che riprende il contenuto di quella statutaria ( art. 63, comma 2, d. lgs 30 marzo 2001, n. 165, così come modificato dall’art. 21, comma 1, lettera a), d. lgs. n. 75 del 25 maggio 2017).
A fondamento di questa differenziazione di trattamento, che l’Autore condivide (anche sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che da ultimo ha affrontato queste tematiche: v., ad es., le sentenze 30 luglio 2021, n. 180 e 3 ottobre 2019, n. 218), c’è il principio del buon andamento della pubblica amministrazione previsto dall’art. 97, comma 2, Cost., che, finalizzando ad esso l’attività del pubblico dipendente, lo tutela maggiormente in caso di licenziamento illegittimo.
Ma è sufficiente, il suddetto principio, a giustificare questa disparità di trattamento, che sembra contraddire anche le finalità perseguite dal legislatore che ha posto le basi della privatizzazione del lavoro pubblico, in aderenza alle norme che regolano il lavoro dei dipendenti privati espressamente richiamate?
È un punto di domanda che forse la Corte Costituzionale, se chiamata a decidere, potrebbe sciogliere, se non il legislatore.
8. Nel cap. VIII (pagg. 231 e ss.), l’Autore, da par suo, propone ai lettori un completo quadro della più recente giurisprudenza costituzionale che si è pronunciata sui licenziamenti dal 2018 al 2022, che, con alcune sentenze storiche, conseguenti alla c.d. riforma Fornero e al Jobs Act, hanno aumentato le tutele dei lavoratori licenziati senza giustificazione, entrando anche nel merito della ragionevolezza, in termini di coerenza del legislatore degli ultimi dieci anni.
Il problema non riguarda solo l’alternativa tra tutela reintegratoria e tutela indennitaria (significativamente valorizzata (soprattutto) dal d. lgs. n. 23/2015, ma anche come il legislatore è intervenuto sulla tutela indennitaria.
È il caso della sentenza 8 novembre 2018, n. 194 ( pagg. 233 e ss.), che ha severamente criticato, dichiarandolo illegittimo, il rigido criterio automatico, basato sull’anzianità di servizio, di determinazione della indennità risarcitoria previsto dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 ( anche nel testo migliorativo, per i limiti minimo e massimo, introdotto dal c. d. decreto dignità del 2018 a partire però, dalla data del 14 luglio 2018), posto a fondamento delle c. d. tutele crescenti, che comportava l’applicazione di una misura inadeguata e non dissuasiva del licenziamento illegittimo.
Si riespande, quindi, nella sua massima discrezionalità, il potere di valutazione della fattispecie del licenziamento e di determinazione dell’indennità compensativa da parte del giudice, privo di limiti quantitativi, fermi restando quello minimo e quello massimo (anche con riferimento ai lavoratori di considerevole anzianità di servizio).
Come è noto sono stati disattesi altri profili di illegittimità costituzionale per violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, che in questa sede non possiamo prendere in considerazione.
L’Autore dimostra condivisione rispetto alla pronuncia costituzionale (con il richiamo dei criteri di cui agli articoli: 8, l. n. 604/1966, testo vigente e precedente; 30, comma 3, l. n. 183/2010; 18, c.5, st. lav., testo vigente), evocando il principio della personalizzazione del danno, ed esprimendo questo principio che , in sintesi, rappresenta bene la sua opinione : «L’incidenza multifattoriale sull’indennità risarcitoria costituisce, del resto, una costante della normativa di settore, avendo il legislatore sempre valorizzato la molteplicità dei parametri che rilevano al fine della determinazione dell’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente della misura del risarcimento».
Tra i parametri della normativa sovranazionale interposti trova rilievo solo l’art. 24 della Carta sociale europea (che, al primo comma, lettera b), prevede una tutela in termini di congruo indennizzo o altra adeguata riparazione), nel testo riveduto nel 1996 regolarmente ratificato dall’Italia con l. 9 febbraio 1999, n. 30, non essendo, comunque, configurabile, secondo l’Autore, una “fattispecie europea” del licenziamento individuale ingiustificato.
Con riferimento allo ius superveniens del 2018, la Corte avrebbe potuto emettere una pronuncia di illegittimità costituzionale conseguenziale; cosa che non ha fatto, accomunando, invece, nello stesso dispositivo, sia la norma direttamente applicabile nel giudizio a quo, sia quella sopravvenuta ad esso non applicabile, ritenendo rilevante il criterio di determinazione dell’indennità compensativa e non la sua diversa quantificazione nei limiti minimo e massimo.
A questa sentenza è conseguente la simmetrica sentenza n. 150 del 16 luglio 2020 relativa alle conseguenze del licenziamento disciplinare illegittimo per vizi formali e procedurali ( pagg. 247 e ss.) con riferimento all’art. 4, d.lgs. n. 23/2015, venendo meno, anche in questo caso, il rigido criterio dell’anzianità di servizio nella determinazione dell’indennità risarcitoria, che, tra il limite minimo di due mensilità e quello massimo di dodici mensilità, sarà quantificata dal giudice con ampia discrezionalità.
L’analisi di questa sentenza è l’occasione per Giovanni Amoroso di esaminare, in maniera approfondita, il perimetro dei vizi formali e procedurali incisi dalle riforme del 2012 e del 2015, optando per la costruzione di una fattispecie di licenziamento inefficace solo con riferimento alla mancanza di forma scritta nella sua comunicazione.
Mette bene in luce, l’Autore, il cambio di passo della legislazione delle ultime riforme che fa arretrare la rilevanza della violazione delle regole formali e procedurali rispetto ai vizi di sostanza, che comportano, comunque la risoluzione del rapporto di lavoro e chiarisce che la Corte, nel rispetto della q. l. c. sollevata dai giudici rimettenti, si è limitata a dichiara incostituzionale il criterio automatico dell’anzianità di servizio, senza potersi pronunciare sulle disparità del trattamento sanzionatorio conseguente ai vizi di forma e di sostanza.
Resta il carattere meramente residuale dell’indennità compensativa stabilita dal legislatore delle due riforme in questi casi.
Emerge, già in questa sentenza, il monito “ordinario” al legislatore a ricomporre, in maniera sistematica, le discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari, che troviamo ripetuto – con maggiore forza, in forma “pressante” - nella recente sentenza n. 183 del 22 luglio 2022 ( pagg. 257 e ss.), che abbiamo già richiamato nelle pagine precedenti, analizzata anche con una precisa ricostruzione della tutela, meramente indennitaria, a fronte dei licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese.
Oggetto di critica da parte del giudice rimettente è il limite massimo di sei mensilità dell’indennità risarcitoria, che riduce in maniera sensibile l’efficacia dissuasiva della sanzione, rendendo la tutela del tutto inadeguata, anche alla luce delle due precedenti pronunce della Corte Costituzionale che ha rimesso al legislatore la regolamentazione sistematica della materia, preannunciando, in difetto, un intervento additivo ( ma senza dettare, come in altre occasioni è stato fatto, un tempo per poter legiferare).
Con riferimento alla tutela reintegratoria, la prima sentenza costituzionale è la n. 59 del 1° aprile 2021 (pagg. 263 e ss., e, più specificamente, pagg. 268 e ss.) che ha reso dovuta e non discrezionale la reintegrazione in caso di accertata “manifesta insussistenza” del giustificato motivo oggettivo di licenziamento (art. 18, comma 7, st. lav.), con un dispositivo additivo di tipo sostitutivo.
Dei diversi profili di illegittimità rilevati dalla Corte Costituzionale, l’Autore individua, correttamente, l’intrinseca irragionevolezza della disposizione normativa censurata, come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, che, richiamando il criterio dell’eccessiva onerosità, di fatto ha comportato l’arretramento della tutela da reintegratoria attenuata a indennitaria, come tale inferiore e non certo equivalente rispetto alla prima. Scrive l’Autore (pag. 270): «La predicata riduzione di tutela del lavoratore non può dipendere da fattori contingenti o comunque determinati da scelte del datore di lavoro, responsabile dell’illecito, ossia di un licenziamento pretestuoso per essere (manifestamente) insussistente il fatto su cui si fonda».
L’Autore non fa velo che la discrezionalità di valutazione attribuita al giudice del caso concreto da questa sentenza contraddice con il pronunciato delle due precedenti sentenze n. 194/2018 e n. 150/2020; e tuttavia si tratta di una contraddizione solo apparente perché nei due precedenti casi «si trattava di riequilibrare il quantum dell’indennità al diverso e mai uniforme disvalore del licenziamento», mentre nel caso del licenziamento economico «la discrezionalità del giudice è priva di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento e guarda invece a scelte dello stesso datore di lavoro, autore dell’illecito, o a fattori contingenti» (pag. 271).
Conseguente a questa sentenza è la successiva pronuncia n. 125 del 19 maggio 2022 (derivata da una seconda, successiva, q. l. c. sollevata dal medesimo giudice rimettente, con una singolarità del caso, bene stigmatizzata dall’Autore), che ha eliminato anche il riferimento alla natura “manifesta” dell’insussistenza (pagg. 271 e ss.).
L’osservazione dell’Autore, su questo specifico punto, è tranchant, perché: «… il fatto, nella sua positiva esistenza, è tale in ogni caso in una logica inevitabilmente binaria: o sussiste o non sussiste; certo che il carattere manifesto tende ad indentificarsi con la prova e con l’apprezzamento che ne fa il giudice» (pagg. 272-273), in base al canone tradizionale dell’art. 116 cod. proc. civ.
Con questa sentenza, la Corte Costituzionale crea un parallelismo tra le tutele previste in caso di insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento disciplinare e del licenziamento economico, in un quadro di coerenza sistematica, che secondo l’Autore prescinde dal considerare o no la tutela reintegratoria come extrema ratio rispetto a quella indennitaria ritenuta “normale” (pag. 274).
Non del tutto convincente è invece l’opzione interpretativa dell’Autore che, in ossequio alle pronunce della Corte Costituzionale, considera legittimo il “doppio binario” in caso di licenziamento ingiustificato che differenzia i lavoratori in base alla data di assunzione, 7 marzo 2015, in regime di Jobs Act ( pagg. 275 e ss.), sul crinale del tempo, il cui fluire, ad avviso di chi scrive, non può giustificare uno spartiacque, denso di conseguenze ( sino ad oggi ritenuto legittimo), se si considera il sostanziale fallimento dello scopo perseguito dal legislatore del 2015 di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione ».
Tralasciando, qui, per evidenti ragioni, la trattazione delle due pronunce costituzionali in materia processuale ( n. 86 del 23 aprile 2018, sulle conseguenze dell’inottemperanza dell’ordine di reintegrazione nel corso del giudizio, e n. 212 del 14 ottobre 2020, sulla rilevanza della tutela d’urgenza al fine di evitare la decadenza dall’azione giudiziaria), la disciplina differenziata, in ragione del tempo di assunzione riferito alla data del 7 marzo 2015 (reintegrazione e tutela indennitaria limitata nel massimo a dodici mensilità, per i “lavoratori anziani”; tutela meramente indennitaria, secondo i criteri dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, come riformulata dalla sentenza costituzionale n. 194/2018, per i “lavoratori giovani”), dei licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta viene esaminata con riferimento alla sentenza n. 254 del 26 novembre 2020 (pagg. 283 e ss.).
La Corte Costituzionale, in perfetto parallelismo con la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea , 4 giugno 2020, causa C-32/20 (che aveva dichiarato manifestamente irricevibili le questioni proposte con rinvio pregiudiziale dalla Corte di Appello di Napoli, essendo la materia dei licenziamenti collettivi estranea alla direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998; in assenza, peraltro, di un collegamento tra un atto di diritto eurounitario e la disciplina nazionale, così da poter richiamare i principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), ha dichiarato inammissibile la q. l. c. sollevata non avendo il giudice rimettente individuato i vizi del licenziamento collettivo, per il quale si denunciava, in via principale, l’inosservanza dei criteri di scelta, e in via subordinata il mancato rispetto delle procedure.
A fronte di una corretta formulazione del quesito sarebbe stato interessante verificare, nel merito, la decisione della Consulta sulla differenziazione delle tutele in ragione del tempo di assunzione.
9. Completa la rassegna la trattazione della sospensione e del blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo nel periodo dell’emergenza del Covid-19 (Cap. IX, pagg. 287 e ss.), tema particolarmente delicato e discusso nella giurisprudenza, che si è espressa con decisioni diverse e non sempre coerenti con i limiti della interpretazione letterale delle norme, anche per il succedersi di tortuosi interventi legislativi, con modifiche e nuove regolamentazioni a fatica sovrapponibili (pagg. 288 e ss.).
L’Autore, venendo in essere la violazione di una norma imperativa in caso di licenziamenti intimati durante il regime del blocco, non mette in discussione la tutela reintegratoria, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda (per i licenziamenti individuali: art. 18, comma 1, st. lav. e art. 2, d.lgs. n. 23/2015), nemmeno per i licenziamenti collettivi, in questo caso facendo riferimento alla nullità civilistica di diritto comune (pagg. 294 e ss.).
È degna di attenzione (e condivisione da parte di chi scrive) la tesi dell’Autore (pag. 295) che parla di inefficacia temporanea, piuttosto che di nullità, del licenziamento, «… perché il blocco dei licenziamenti è una circostanza esterna all’atto giuridico negoziale – il recesso datoriale – che condiziona l’efficacia dell’atto stesso in un determinato e limitato periodo di tempo». Siamo di fronte, pertanto, ad una «circostanza che opererebbe come condizione sospensiva del potere datoriale di recesso unilaterale».
Non viene affrontato, invece, il tema che ha molto diviso i giudici di merito, e anche la dottrina, sul campo di applicazione del divieto che, essendo ancorato testualmente alle ipotesi previste dall’art. 3, l. n. 604/1966, lascerebbe fuori i lavoratori esclusi dal perimetro di operatività di detta legge, come, ad es., i dirigenti.
10. Alla fine della (non facile) recensione del libro di Giovanni Amoroso, condotta, forse, con una esposizione lunga e particolareggiata (ma, ci auguriamo, non piatta), chi scrive, come capita ad ogni lettore d’occasione, ritorna padrone della materia trattata, quella dei licenziamenti, che (come spesso capita per i temi di notevole impatto sociale ed economico, che, per questo motivo, scontano anche una marcata caratterizzazione ideologica) resta assai controversa e soggetta a contrastanti interpretazioni, non sempre coerenti con i materiali delle leggi che la disciplinano e le intenzioni del legislatore delle riforme.
Il pregio di opere come quella recensita è l’occasione che viene offerta al lettore di rimeditare il tema dei licenziamenti, anche alla luce dei felici approdi (o derive, secondo alcuni) della giurisprudenza di legittimità e costituzionale, per come si è sviluppato in un tempo lungo oltre cinquant’anni.
Ulteriori considerazioni personali (oltre a quelle, essenziali, espresse nelle pagine precedenti) risulterebbero del tutto avulse dall’opera recensita, con il rischio di sovrapporre alle tesi dell’Autore, meritevoli di analisi e segnalazione, le opzioni interpretative di chi scrive.
L’unica osservazione, conclusiva, che sembra opportuno svolgere, va nella direzione di quanto espresso, anche da ultimo, dalla giurisprudenza costituzionale: è avvertita l’esigenza, concreta, che il legislatore provveda ad una generale rivisitazione della materia dei licenziamenti, portando a sistema le riforme, nel rispetto delle tutele differenziate – se questo è il definitivo intendimento da perseguire e realizzare – che devono, però, essere rese coerenti non solo tra di loro ma anche con riferimento alle diverse fattispecie di licenziamento e ai diversi tipi di rapporto di lavoro.
Il vento fa il suo giro ed ogni cosa, prima o poi, ritorna; ma la stagione dell’articolo 18, per come lo abbiamo conosciuto ed è stato applicato per oltre quarant’anni, sembra definitivamente tramontata. È una norma che non ha più l’attrazione fatale di una volta, anche se in molte occasioni viene rievocata.
Resta, comunque, la necessità di garantire, per tutti i licenziamenti illegittimi, una tutela adeguata e dissuasiva, secondo i principi ribaditi, a più riprese, anche dalla Corte Costituzionale.
Riuscirà la politica dei fatti ad imporre al legislatore nuove scelte di politica del diritto coerenti con questi principi?
Generazione Z: l’Iran e gli Zoomers, la generazione ignorata
di Maria Teresa Covatta
Nonostante le censure del sistema sappiamo tutti cosa sta accadendo in Iran.
La protesta, a un mese e mezzo dalla morte di Mahsa Amini per mano della polizia morale dilaga ovunque nel Paese, con manifestazioni in tutte le province e con più di 200 città coinvolte (1).
Le notizie delle percosse, delle morti e degli arresti si susseguono incessanti. Secondo la Bbc Persiana Hzana ci sono 248 vittime tra i manifestanti, tra cui 33 minori, migliaia di feriti, 12 mila arresti e più di 300 indagati per cospirazione contro la sicurezza morale (2).
Il 7 Novembre la stampa italiana ha dato notizia dell’ennesima morte provocata dalla polizia (3). Dopo Nika Shakan anche Nasrin Ghadri, secondo l’organizzazione per i diritti umani Hengaw, è morta a causa dei colpi di manganello ricevuti alla testa. Solita repressione e solita susseguente disinformazione per cui la donna in realtà sarebbe stata trovata morta in casa per cause sconosciute.
Si registrano manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo, Italia compresa, dove, oltre alle sfilate di piazza, ogni sabato gruppi di manifestanti si raccolgono a protestare davanti all’ambasciata iraniana di via Nomentana. Da ultimo a Berlino circa 80 mila persone hanno sfilato per le strade al grido di Donna, Vita, Libertà.
La morte di Mahsa ha dunque rappresentato una miccia che ha provocato un incendio che il regime degli Ayatollah non riesce a spegnere.
È stata definita la più forte sfida alla leadership clericale (4), ed evidentemente così viene percepita dal sistema visto che i numeri parlano di una repressione anch’essa senza precedenti.
L’Iran ha conosciuto in un passato anche recente altre rivolte ma mai, a quanto ritengono studiosi e osservatori, di tale entità e diffusione.
E dunque: perché? Perché ora e perché in queste proporzioni?
Ha provato a spiegarlo in modo che mi pare assolutamente convincente, Maysam Bizaer, iraniano, scrittore e analista di politica e economia del suo Paese, e collaboratore di mezzi di comunicazione iraniani e stranieri (5).
La differenza tra questa e le precedenti proteste sta nel ruolo preminente giocato nel Paese dalla Generazione Z, conosciuti come Zoomers e meglio ancora come i Dahe Hashitedi, i diciottenni, nati più o meno tra il 1997 e il 2010.
I conti tornano visto che anche fonti governative iraniane confermano che l’assoluta maggioranza dei manifestanti non ha più di 25 anni.
Benchè siano poco più di 6 milioni di ragazze e ragazzi, meno del 7% di una popolazione di 83 milioni di iraniani e quindi una parte assolutamente minoritaria della popolazione del Paese, sono senza dubbio, dice Biraen, gli indiscussi leaders della protesta attuale.
Le ragioni di questo fenomeno è già scritta nel loro nome: sono la generazione del collegamento interattivo e digitale con il mondo, sono i “digital natives” che grazie allo loro attiva presenza sui social media hanno pieno accesso all’informazione e sanno cosa succede nel mondo interno a loro e fuori dal Paese.
La presenza costante on line ha dato loro capacità analitiche maggiori di quelle mai avute dai loro genitori ma soprattutto ha dato loro un palcoscenico per dar voce ai loro problemi e il coraggio di parlarne chiaramente, esternando i loro interessi o ciò che disapprovano anche quando manifestare le loro idee impatta pesantemente contro la tradizione, il sistema in cui vivono e le red lines dettate da entrambi.
Il risultato sociologico e culturale di tutto questo è che gli Zoomers iraniani tendono a curarsi poco delle tradizioni, proprio come tanti della loro età, in tutte le parti del mondo.
A questo proposito mi viene da pensare al video che in questi giorni sta girando nel web: giovani iraniani, pantaloni stretti, maglietta, giaccone e zaino in spalla, vanno in strada facendo cadere i copricapo indossati da uomini abbigliati secondo tradizione.
Se sia vero che siano così tanti a ripetere questo gesto, come sembrerebbe far intendere il video, poco importa. Sono comunque immagini che traducono plasticamente il considerarsi parte di un mondo globale, il rifiuto di una tradizione opprimente, il diritto di contestare pacificamente l’autorità e la volontà di manifestare tutto questo.
Così come ne è testimonianza tagliarsi pubblicamente i capelli, scendere tutti in piazza, donne e uomini, radunarsi a centinaia davanti al cimitero di Saqqez dov’è sepolta Mahra Amini per commemorarne i 40 giorni dalla morte, continuando a protestare nonostante la repressione e le dichiarazioni dell’establishment sulla necessità di rafforzare i valori islamici anche attraverso il controllo dello Stato sull’Internet e sui social. L’emanazione del cosiddetto Internet Protection Bill , una sorta di manuale sull’uso “moralmente consentito” di internet ne è un esempio.
Come già detto, le pubbliche esternazioni dei giovani iraniane non sono nuove.
Già in passato ve ne erano state in contesti del tutto straordinari per l’usuale modo di essere della società iraniana. Già nel 2014 avevano occupato la scena quando in decine di migliaia si erano riuniti per i funerali di una famosa pop star, con una partecipazione massiva che in Iran era concepibile solo per eroi nazionali o figure religiose di spicco; o quando, nel 2016, centinaia di studenti festeggiarono la fine della scuola superiore in un Mall di Teheran.
Anch’esse represse con violenza, queste manifestazioni, pur non avendo una chiara valenza politica, già palesavano la voglia di prendersi una libertà non consentita dal sistema.
In questo senso può dirsi le precedenti proteste rappresentano un antecedente logico della protesta attuale che, tuttavia, sembra essere qualcosa di più e portare profonde e interessanti novità.
Molti osservatori, sulla scorta di studi condotti sia da istituti accademiche stranieri sia da istituzioni politiche iraniane, avevano ammonito sui rischi che avrebbe comportato per il sistema sommare alla profonda, latente e mai sopita insoddisfazione politica, economica e sociale, un nuovo catalizzatore di tensioni e cioè il profondo gap generazionale. Come dicevamo, la miccia dell’incendio.
Diversamente dai loro genitori questi giovani, entrando in massa nelle università grandi o piccole del Paese, usando le loro diverse e nuove abilità per influenzare e portare cambiamenti, ponendosi domande differenti e condividendo tra loro punti di vista e modi di comportarsi, infine usando linguaggi e metri di giudizio diversi da quelli dei loro governanti, sono pronti per “trasformare tutto” e lo faranno (6)
La predizione potrebbe essere sul punto di avverarsi.
Persino la stampa conservatrice e filo governativa iraniana, già nel 2019, prevedeva che questi giovani, nella gran parte dei casi ignorati dal sistema, con le loro vedute pluralistiche, avrebbero presto potuto rappresentare una spina nel fianco per il sistema stesso che non avrebbe avuto la possibilità di controllarli come accaduto con le generazioni precedenti. Ed è quello che sta accadendo.
Ma c’è – persino- di più. Stando alle fonti citate la Generazione Z sta riuscendo a segnare un altro goal, assolutamente imprevedibile solo pochi anni fa, guadagnandosi la comprensione e, pare, la condivisione almeno di parte dei loro genitori e delle generazioni precedenti.
Se così fosse il danno temuto dal sistema sarebbe molto più grave del previsto.
Le reazioni dell’establishment a fronte della rivolta sono state più o meno quelle di sempre: l’abbiamo già detto, oltre a percosse talora mortali, arresti e incriminazioni il blocco dell’accesso a Internet, a molti social media quali Instagram e WhatsApp e persino ad alcuni giochi on line.
A ciò si aggiunge il tentativo di isolarli, descrivendoli come anarchici o unethical, portatori di valori antitetici a quelli della rivoluzione islamica.
Persino, si apprende dall’articolo di Bizaer, immettendo nel mercato musicale del Paese, una canzone pop dal titolo ben chiaro di Hello Commander.
Dimendicando o ignorando che il concetto di musica pop di regime è un ossimoro.
E che i segnali chiari e forti non vanno mai sottovalutati anche quando provengono da generazioni “ignorate”.
Nulla nasce dal nulla, meno che mai le rivoluzioni.
(1) Corriere della Sera 6.11.22
(2) Fonte ISPI 3.11.22
(3) Fabiana Magrì : un’altra Mahsa Amini a Teheran. La Stampa 7.11.22
(4) The Economist 12.10.22
(5) Iran’s rising Generation Z at the forefront of protest
(6) Saeed Razavi Faquir. Ensal News 7.12.2016 : The Eighties (Generation Z) will pass everyone.
Maternità surrogata. Le conclusioni della Procura generale all’udienza dell’8 novembre 2022.
Requisitoria dell'Avvocato generale Renato Finocchi Gherzi
In attesa di leggere la decisione delle Sezioni Unite in tema di riconoscimento dell'efficacia di provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata, si ritiene di rilevante interesse offrire alla lettura la requisitoria dell’Avvocato generale dott. Renato Finocchi Gherzi che, sul ricorso per cassazione avverso la sentenza di riconoscimento dell'efficacia del provvedimento straniero, ha concluso con la richiesta di accoglimento del quarto motivo del ricorso del Ministro degli interni, pro tempore, e del Sindaco, contenente censura di violazione degli artt. 16 e 65 della legge n. 218/1995 ovvero del limite dell’ordine pubblico ai fini della dichiarazione di efficacia di provvedimenti stranieri relativi all’esistenza di rapporti di famiglia.
Viene richiamato il principio di diritto delle Sezioni unite - sentenza n. 12193/2019 - secondo cui “Il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dall'art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l'istituto dell'adozione; la tutela di tali valori, (non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore), nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari, prevista dall'art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983”.
La questione posta dalla remittente Prima Sezione : “Se e come sia superabile in via interpretativa tale situazione di vuoto normativo non potendosi più il giudice, sia ordinario che di legittimità, riferire al diritto vivente prospettato dall’ordinanza di rimessione che, in base alla motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021, non è idoneo a impedire la lesione dei diritti fondamentali del minore a causa del mancato riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore d’intenzione e nello stesso tempo per l’inadeguatezza della soluzione offerta dall’istituto di cui all’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del 1983”, come chiarito dall’Avvocato generale, trova riposta nella medesima sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021 - richiamata nell'ordinanza- che, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell'art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), e dell'art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevate - in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), ha affermato, in modo inequivoco e dopo esauriente ricognizione delle possibilità e dei limiti insiti nel ricorso allo strumento dell’adozione in casi particolari ex art. 44 legge n. 184 del 1983 ai fini della tutela del best interest del minore, che “Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco. Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore”.
Le conclusioni sono dunque che, allo stato, l’unico riferimento normativo del quale deve tenersi conto per ritenere consentito il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero è quello della compatibilità con l’ordine pubblico, ai sensi della legge n. 218 del 1985, e che detta compatibilità va considerata alla stregua dell’interpretazione offerta dalla sentenza delle Sezioni unite n. 12193/2019.
La questione proposta dalla Prima Sezione, va dunque risolta, da un lato, escludendo la sussistenza di un vuoto normativo e, dall'altro, richiamando il principio statuito dalla sentenza delle Sezioni unite n.12193/2019, da riformularsi in ragione dei rilievi contenuti nella sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022 in tema di adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44 della legge n. 184 del 1983.
In tema di maternità surrogata si ritiene utile rinviare alla lettura degli interessanti articoli pubblicati su Questa Rivista: Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata. Brevi note a margine dell’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite n. 1842 del 2022 di Mirzia Bianca, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite. Le ragioni del dissenso di Gabriella Luccioli, Le persistenti ragioni del divieto di maternità surrogata e il problema della tutela di colui che nasce dalla pratica illecita. In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite di Arnaldo Morace Pinelli. Non si attende il legislatore. Lo spinoso problema della maternità surrogata torna all’esame delle Sezioni unite di Arnaldo Morace Pinelli; Maternità surrogata e trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero: il ruolo dei giudici di merito dopo l’intervento della Consulta. Nota a Trib. Milano 23.9.2021di Rita Russo; La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33 di Arnaldo Morace Pinelli; Maternità surrogata e status dei figli (G. Luccioli, M. Gattuso, M. Paladini e S.Stefanelli) Intervista di Rita Russo; Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione? di Gabriella Luccioli; Il caso Mennesson, vent’anni dopo. divieto di maternità surrogata e interesse del minore. Nota a Arrêt n°648 du 4 octobre 2019 (10-19.053) -Cour de Cassation - Assemblée plénière. di Rita Russo; Ricorso alla surrogazione di maternità da parte di una coppia di donne e condizione giuridica del nato. Commento a Trib. Bari, decr. 7 settembre 2022di Emanuele Bilotti; Il cambiamento della famiglia: aspetti psico-sociali e problemi giuridici di Santo Di Nuovo e Alessandra Garofalo ; Le sentenze della Corte costituzionale n. 32 e n. 33 del 2021 e l’applicabilità dell’art. 279 c.c.; L’Italia riconosce l’adozione straniera di minori da parte di una coppia maschile, ma solo in assenza di surrogacy (Nota a Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006) di Stefania Stefanelli; Il diritto alla cura dei nati contra legem di Alberto Gambino; Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021 di Gilda Ferrando; La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020 di Mirzia Bianca; Per un diritto che “non serve”. La cultura giuridica e le sfide della tecnologia di T. Greco; Gli incerti confini della genitorialità fondata sul consenso: quando le corti di merito dissentono dalla Cassazione di Rita Russo; Fecondazione post mortem di Remo Trezza; Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere. La lezione di Gabriella Luccioli: dalla discriminazione all’uguaglianza.
Su Questione giustizia si rinvia alla lettura degli articoli: Gestazione per altri: una concreta possibilità di dialogo tra Corti di Maria Acierno ; Sui nati da maternità surrogata si va verso la “fase 2”? di Antonio Scalera; Maternità surrogata e tutela del rapporto di filiazione di Silvia Albano; I giudici, i due papà e l'interesse del minore di Silvia Albano; La surrogazione di maternità tra responsabilità genitoriale ed interesse del minore di Silvia Albano.
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