ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La testimonianza scritta nel processo tributario riformato
di Francesco Pistolesi
Sommario: 1. Premessa. - 2. I limiti di ammissibilità della prova. - 3. La disciplina dell’assunzione della testimonianza scritta. - 4. Conclusioni.
1. Premessa.
Una significativa novità della riforma del processo tributario è rappresentata dall’introduzione della prova testimoniale in forma scritta ad opera del nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, applicabile ai giudizi introdotti con ricorsi notificati dopo l’entrata in vigore della L. n. 130/2022 (ossia dal 16 settembre 2022 in poi)[1].
Anzitutto, è apprezzabile, di per sé, la rimozione del divieto di prova testimoniale che finora ha limitato il diritto di difesa e violato il principio, di rilevanza costituzionale ed europea, del giusto processo.
Infatti, nel giudizio tributario hanno sempre trovato ingresso elementi probatori aventi natura analoga alla prova testimoniale ma non acquisiti con le cautele e le garanzie del rispetto del contraddittorio che invece caratterizzano, nel processo civile, l’assunzione della prova finora vietata.
Si tratta delle dichiarazioni di terzi sulle vicende di causa raccolte – generalmente prima e comunque fuori del giudizio – essenzialmente dall’ente impositore e talora pure dal contribuente.
La giurisprudenza[2] ritiene che tali dichiarazioni siano meri indizi, dovendosi perciò a esse affiancare prove ulteriori per dimostrare quanto ne forma oggetto; inoltre, occorre che il giudice ne disponga la verificazione se sorgono contestazioni in proposito.
Pertanto, il giudice, che se ne voglia servire per risolvere la lite, deve riscontrarne l’attendibilità, nel rispetto del contraddittorio: per l’esattezza, stando alla sentenza n. 18\2000 della Corte Costituzionale, ove le dichiarazioni introdotte dall’ente impositore siano messe in discussione, la Commissione tributaria – se non reputi la pretesa controversa confortata da altri mezzi di prova – “potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del D.L.vo n. 546 del 1992, rinnovando e, eventualmente, integrando – secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità – l’attività istruttoria svolta dall’ufficio”.
Tuttavia, siamo ben lungi dall’acquisizione di una prova che offra le garanzie di quella testimoniale. Basta pensare che solo il giudice individua i soggetti da sentire e formula le richieste di chiarimenti.
Non può, quindi, che essere salutata con favore la possibilità per le parti del processo tributario di avvalersi della prova testimoniale: esse vedono così significativamente rafforzato il loro diritto di tutela giurisdizionale.
Non v’era alcun motivo, d’ordine sistematico o logico, che sorreggesse il divieto di assunzione della prova per testi.
Non solo, al posto di questo mezzo istruttorio se ne è sempre impiegato un altro – la dichiarazione del terzo, appunto – che ne è una sorta di succedaneo, del tutto inadeguato alla luce dei ricordati valori del diritto di difesa e del giusto processo.
Se poi si considera quanto è diffuso nella prassi il ricorso alle presunzioni semplici, ci si avvede facilmente che la prova testimoniale potrà essere utilmente impiegata dalla parte – di regola, il contribuente – contro cui dette presunzioni vengono fatte valere per contrastarne la valenza probatoria.
Resta ferma, invece, l’inammissibilità del giuramento, nelle varie forme che può assumere nel processo civile. E ciò è ben comprensibile, siccome incompatibile con la natura non disponibile – per la parte pubblica – del credito tributario controverso.
Inoltre, la scelta per la forma scritta è adatta al giudizio tributario in cui manca una vera e propria fase istruttoria, stante la natura spiccatamente documentale dell’istruttoria processuale medesima.
Va altresì condivisa l’eliminazione del limite, presente nel disegno di legge di iniziativa governativa che ha condotto all’adozione della L. n. 130/2022, rappresentato dall’ammissibilità della prova qualora la pretesa tributaria fosse “fondata su verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso”.
Ora, questa prova può trovare ingresso in ogni giudizio. Ed è corretto, potendo essa risultare necessaria anche nelle cause che non traggano origine dall’impugnazione di atti basati sui menzionati verbali.
Vero è che, nella gran parte dei casi, la necessità della prova testimoniale emerge allorché nell’istruttoria condotta dall’ente impositore o dalla Guardia di Finanza vengono rese dichiarazioni da parte di soggetti terzi rispetto al contribuente, recepite nei menzionati verbali e atti facenti fede fino a querela di falso.
Tuttavia, l’esigenza di assumere una testimonianza può sorgere anche in altre circostanze.
Si faccia il caso in cui l’Agenzia delle Entrate contesti la fittizietà di determinate fatture adducendo – come di frequente avviene – la mancanza di struttura organizzativa del venditore dei beni o servizi e/o la non congruenza dei prezzi praticati. In un contesto del genere, potrebbe avere rilevanza decisiva chiamare a teste il dipendente dell’acquirente che ha seguito le operazioni contestate e/o l’agente che ha messo in contatto i contraenti e/o un esperto operatore del settore merceologico cui sono riconducibili dette operazioni. Oppure si pensi alla controversia relativa alla determinazione sintetica del reddito, nel cui ambito potrebbe risultare essenziale la testimonianza del familiare del contribuente che ha provveduto a sostenerne determinate spese o gli ha elargito denaro contante. O, ancora, si consideri la causa vertente sulla pretesa di collocare in Italia la residenza fiscale di una persona fisica, traente origine – come, di nuovo, l’esperienza insegna – da corrispondenza o documenti che ne collocherebbero nel nostro Paese il centro dei relativi interessi personali e/o economici: anche qui potrebbero assumere dirimente rilievo le testimonianze di coloro che hanno avuto continuativi rapporti all’estero con tale individuo.
Gli esempi potrebbero proseguire, ma è agevole rendersi conto che, una volta intrapresa la meritoria strada della soppressione del divieto di acquisizione della prova testimoniale, sarebbe stato contraddittorio porre una limitazione del genere di quella che si leggeva nel ricordato disegno di legge.
In sintesi, si è soppresso un limite di esperibilità della prova che sarebbe stato in contrasto con i ricordati valori della tutela giurisdizionale e del giusto processo.
2. I limiti di ammissibilità della prova.
Residuano, invece, due limiti oggettivi, uno processuale e l’altro sostanziale.
In virtù del primo, la Corte di giustizia tributaria può ammettere la prova “ove lo ritenga necessario ai fini della decisione”.
Nel disegno di legge, ciò sarebbe potuto accadere solo se la prova fosse stata ritenuta “assolutamente” necessaria.
Adesso, si è opportunamente soppresso l’avverbio “assolutamente”, evitando così le difficoltà interpretative che avrebbe suscitato ed elidendo altresì un palese e ingiustificato indice di ostilità nei riguardi di questa prova.
L’attuale versione coincide con quella recepita dall’art. 58, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, per cui “il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione”.
Cosicché, per ammettere la prova testimoniale, si potrà fruire dell’interpretazione offerta all’art. 58, comma 1 e ritenere, quindi, che il giudice possa avvalersene ove essa sia l’unica – poiché non surrogabile con altri mezzi istruttori – idonea a dirimere l’incertezza sui fatti decisivi per risolvere la lite.
In sostanza, in difetto di questo mezzo istruttorio, il giudizio sul fatto imporrebbe il ricorso alla regola dell’onere della prova.
Pertanto, la prova testimoniale può dirsi “straordinaria” poiché ammissibile solo in mancanza di altri elementi istruttori.
Sarebbe stato preferibile consentirne l’impiego senza il limite della “necessità”, ossia quando il Giudice l’avesse ritenuta semplicemente rilevante per provare il fatto controverso. Detta “necessità” può comprendersi nell’istruttoria in appello per evitare che le parti riservino indebitamente al secondo grado l’esercizio delle facoltà esperibili nel primo, ma non per rendere più ardua l’ammissibilità della prova testimoniale.
Il secondo limite, sostanziale, consiste nell’ammettere la prova “soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale” quando “la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso”.
Si tratta di una previsione ovvia. Per superare l’efficacia probatoria dei fatti attestati dal pubblico ufficiale occorre la querela di falso.
Né può ipotizzarsi che la norma intenda altro.
È impensabile – poiché sarebbe eversivo della disciplina delle prove legali nel nostro ordinamento – che questo precetto, circoscrivendo la prova testimoniale ai fatti diversi da quelli attestati dal pubblico ufficiale, possa assegnare valore probatorio privilegiato al contenuto intrinseco di quanto il pubblico ufficiale afferma di aver compiuto.
Per esemplificare, il processo verbale di constatazione fa prova fino a querela di falso della veridicità del rinvenimento di un documento, di cui dà conto il pubblico ufficiale, ma non della veridicità del relativo contenuto. Potrà quindi ammettersi ogni prova, compresa quella testimoniale, per contrastare quanto rappresentato in tale documento.
Da segnalare, per terminare, che il nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 impiega, in termini innovativi, l’espressione “pretesa tributaria”.
Ciò potrebbe indurre a pensare che il legislatore abbia inteso assecondare l’interpretazione per cui il processo tributario ha quale oggetto il rapporto sostanziale dedotto in giudizio, a meno che il contribuente non abbia dedotto uno o più vizi di legittimità del provvedimento impugnato.
Tale indicazione ermeneutica, tuttavia, è smentita da un’altra norma introdotta dalla L. n. 130/2022.
Si tratta del secondo periodo del nuovo comma 5-bis dello stesso art. 7, D.Lgs. n. 546, in base al quale “Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.
Questa disposizione, pur menzionando nuovamente la “pretesa impositiva”, prevede che il giudice annulli l’atto impugnato quando difetta la prova della pretesa medesima. E questo contraddice l’idea che l’oggetto del giudizio sia il rapporto sostanziale, assecondando invece la diversa impostazione secondo cui il provvedimento opposto rappresenti, sempre e comunque (ossia anche quando non vengano dedotti motivi di sua illegittimità), l’oggetto del processo tributario.
Infatti, non ravvisando vizi dell’atto impugnato e ritenendo non provata la contestazione ivi recepita, il giudice, lungi dall’annullare l’atto, dovrebbe limitarsi a dichiarare priva di fondamento la pretesa con esso avanzata, disattendendola a ogni effetto.
Quanto precede dimostra come sia, il più delle volte, arduo trovare puntuale conferma nel dettato normativo di determinate impostazioni teoriche.
Ciò non toglie che il complessivo e sistematico apprezzamento della disciplina processualtributaria conduca alla riconduzione del nostro giudizio fra quelli di “impugnazione – merito”, per usare un’efficace espressione di frequente impiegata dalla giurisprudenza, “in quanto non diretto alla mera eliminazione dell’atto impugnato ma alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria”[3].
3. La disciplina dell’assunzione della testimonianza scritta.
Ora, merita esaminare le modalità di assunzione di questa prova.
In proposito, il comma 4 dell’art. 7 richiama l’art. 257-bis cod. proc. civ[4].
Tale rinvio va inteso in termini compatibili con il regime processualtributario.
In particolare, la Corte di giustizia tributaria potrà ammettere la testimonianza, pur in difetto dell’accordo delle parti previsto dall’art. 257-bis: infatti, nel processo civile la testimonianza scritta è alternativa rispetto a quella orale, mentre nel nostro giudizio essa è l’unica forma in cui risulta ammessa.
Ben ha fatto, quindi, il legislatore – nel riformare il comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 – a precisare che non occorre l’accordo delle parti affinché questa prova sia ammessa.
Né si può pensare che il mancato accordo dei contraddittori possa pregiudicare la legittimità della disciplina testé introdotta dal punto di vista del rispetto del diritto di difesa e del principio del giusto processo.
Sebbene il contraddittorio sia attenuato nella fase di formazione della prova in ragione delle relative modalità di assunzione (sulle quali fra breve ci soffermeremo), è indubbio che il contraddittore possa opporsi all’ammissione del mezzo istruttorio invocato dall’altra parte e, nel caso in cui la deposizione testimoniale sollevi dubbi, possa chiedere al giudice di convocare il teste affinché renda oralmente le risposte ai quesiti postigli. Si aggiunga, come subito vedremo, che la controparte può chiedere che il medesimo teste si pronunci sugli stessi o su altri fatti, necessitanti di prova.
Vuol dire, allora, che il contraddittorio è posticipato, ma non disatteso. Ed è innegabile come sia ben più conforme ai menzionati principi della tutela giurisdizionale e del giusto processo la testimonianza scritta disciplinata dal comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 rispetto all’invalsa consuetudine di immettere nel processo tributario dichiarazioni di soggetti terzi, rese in difetto del benché minimo controllo da parte del giudice e senza alcun coinvolgimento dei contraddittori.
Sempre con riferimento alle parti, occorre segnalare che, rispetto alla proposta dello scorso anno della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria (ma non al disegno di legge di iniziativa governativa), questa prova può essere invocata da ciascun contraddittore e non solamente dal ricorrente in primo grado, ossia dal contribuente.
Vi è da chiedersi se, tramite la testimonianza, l’ente impositore possa sviluppare la propria attività istruttoria nella fase processuale, contravvenendo la regola, che si ritrae dal vigente quadro normativo, per cui l’avviso di accertamento rappresenta – in linea di principio e con le eccezioni dell’atto “parziale” e della sopravvenuta conoscenza di elementi precedentemente non conoscibili, che ammette l’adozione dell’avviso “integrativo o modificativo” – l’espressione compiuta e tendenzialmente definitiva della funzione di controllo degli adempimenti fiscali dei contribuenti.
Non solo, se si riconoscesse questa facoltà all’ente impositore, si violerebbe il principio, di rilevanza costituzionale, di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa di repressione degli illeciti tributari.
Viene così da pensare che tale ente possa chiedere l’assunzione della testimonianza solo nei giudizi di rimborso per provare fatti impeditivi, estintivi o modificativi della domanda avanzata dal privato, indicati nelle proprie controdeduzioni. E ciò a condizione che non li abbia già dedotti nell’eventuale provvedimento di diniego del rimborso, dovendo in tal caso aver previamente svolto la relativa attività istruttoria.
In casi eccezionali, nei processi generati dall’impugnazione di atti impositivi, l’ente impositore potrebbe invocare questa prova solo per dimostrare fatti dedotti a fronte di quelli impeditivi, estintivi o modificativi addotti dal contribuente per respingere la pretesa tributaria, purché essi non siano qualificabili come costitutivi di detta pretesa. Difatti, la deduzione dei fatti costitutivi della pretesa si “cristallizza” nell’atto impugnabile e non può esserne più consentita l’introduzione e la prova.
Questo mezzo istruttorio non potrà essere acquisito d’ufficio dal giudice, cui non è consentito svolgere un ruolo di supplenza o di assistenza della parte che non si è adeguatamente difesa.
L’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio è ristretto ai casi nei quali le parti abbiano almeno fornito, oltre ai fatti rilevanti per la decisione, pure i relativi temi di prova.
In tali occasioni, prima di risolvere la lite ricorrendo alla regola di giudizio dell’onere della prova, il giudice deve acquisire d’ufficio i mezzi istruttori ai quali le parti abbiano fatto riferimento e che non siano in grado di fornire.
Quindi, i poteri istruttori d’ufficio sono utilizzabili solo quando (a) sia impossibile o assai difficile acquisire, da parte di chi vi è tenuto, la prova, (b) quest’ultima sia stata indicata e (c) si prospetti un’oggettiva incertezza sui fatti di causa.
Un esempio è quello del contribuente che ha dedotto un fatto risultante da un documento che non rientra nella sua disponibilità e tale fatto non sia accertabile grazie ad altre prove acquisite agli atti di causa. In tale evenienza, la Corte può ordinare, d’ufficio, l’acquisizione di siffatto documento.
Emerge, quindi, come sia da escludere l’assunzione d’ufficio della prova testimoniale. Anche ove la parte abbia indicato il potenziale testimone, il giudice non può sostituirsi ad essa, superandone inerzia, per acquisire la relativa deposizione scritta.
Una conferma in tal senso si ritrae dalla formulazione letterale del nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546. Ivi si legge che la Corte di giustizia tributaria “può ammettere” la prova di cui trattasi. L’espressione, diversa da quelle che si rinvengono nei precedenti commi 1 e 2 (ove, rispettivamente, si prevede che le Corti di giustizia tributaria “esercitano” le facoltà istruttorie e “possono richiedere” determinati mezzi probatori), lascia chiaramente intendere che debba essere la parte a promuovere l’assunzione della prova per testi e spetti, poi, al giudice deciderne l’ammissibilità.
Per altro verso, la scelta della Corte di non ammettere questa prova è censurabile sia in appello che nel giudizio di legittimità.
Applicando l’art. 257-bis, il giudice, ritenuta ammissibile la prova e individuati con ordinanza i relativi capitoli, disporrà che la parte istante predisponga il modello di testimonianza sui fatti necessitanti di essere accertati e lo notifichi al testimone.
Tale modello dovrà precisare gli elementi identificativi del processo e dell’ordinanza, nonché il termine entro cui la risposta dovrà essere resa.
Il Giudice indicherà alla parte istante un termine per la notifica del modello al teste unitamente – è ragionevole ritenere – all’ordinanza di ammissione della prova. Il mancato rispetto di detto termine comporterà la decadenza – pronunciabile d’ufficio dal giudice – dal diritto di acquisire questa prova, a meno che la controparte dichiari di volerla comunque assumere o la Corte reputi giustificata – si pensi a un impedimento legittimante la remissione in termini – tale omissione. Si deve, infatti, applicare anche nel processo tributario l’art. 104 disp. att. cod. proc. civ., che sancisce quanto precede.
Il teste, poi, compilerà il modello, rispondendo separatamente a ciascuno dei quesiti ammessi dal giudice e indicando, chiarendone la ragione, a quali non potrà rispondere.
Nel processo civile, la disciplina del modello di testimonianza e delle relative istruzioni di compilazione si rinviene nell’art. 103-bis disp. att. cod. proc. civ. e nel d.m. 17 febbraio 2010: occorrerà adattare tali disposizioni attuative al giudizio tributario con un apposito regolamento.
Nel rispetto del principio del contraddittorio e come poc’anzi anticipato, se più parti intendano rivolgere diversi quesiti al medesimo teste (anche su circostanze di fatto diverse), ognuna di esse dovrà notificare un apposito modello di testimonianza recante le domande, previamente ammesse dal giudice, di rispettiva pertinenza. Non solo, potrà accadere che la richiesta di assunzione della prova testimoniale ad opera di una parte induca l’altra o le altre a formulare analoga istanza affinché siano acquisite le deposizioni di altri soggetti.
Ciò, ovviamente, avendo riguardo ai limiti, sopra evidenziati, entro i quali l’ente impositore può valersi di questo strumento istruttorio.
Il teste, poi, sottoscriverà la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ogni facciata del modello di testimonianza e lo spedirà in busta chiusa con plico raccomandato o lo consegnerà alla segreteria della Corte.
Laddove intenda astenersi, ai sensi dell’art. 249 cod. proc. civ. (che, a sua volta, richiama gli artt. 200, 201 e 202 cod. proc. pen., relativi alla facoltà di astensione dei testimoni nel processo penale), il teste dovrà comunque compilare il modello di testimonianza, indicando le proprie complete generalità e i motivi di astensione.
Secondo il comma 7 dell’art. 257-bis, se la testimonianza avrà ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, l’assunzione avverrà in termini semplificati. Ossia mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al menzionato modello. Trattasi, peraltro, di un’ipotesi che sembra di ardua verificazione nella nostra materia, essa concernendo la deposizione testimoniale volta a confermare i menzionati documenti di spesa, per tali dovendosi intendere i documenti che rappresentano l’esborso di somme di denaro sostenuto da una parte processuale e formante oggetto della materia del contendere.
Qualora il testimone non spedisca o non consegni le risposte scritte nel termine stabilito, la Corte potrà condannarlo alla pena pecuniaria non inferiore a euro 100 e non superiore a euro 1.000, contemplata dall’art. 255, comma 1, cod. proc. civ.
Se il teste non risponderà nel termine indicato dal giudice, non vi sarà alcuna conseguenza sulla possibilità di acquisirne la deposizione scritta. Il mancato rispetto del termine da parte di un soggetto terzo, infatti, non può pregiudicare la posizione della parte che ha fatto istanza per l’acquisizione del mezzo istruttorio.
Se la Corte, a seguito dell’esame delle risposte, lo riterrà opportuno, potrà sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre oralmente dinanzi a essa: ciò potrà verificarsi ove le risposte appaiano ambigue, contraddittorie o incomplete oppure se sussistano elementi che facciano sospettare dell’attendibilità del teste o dell’integrità o veridicità della deposizione resa per scritto.
Dunque, l’introduzione della testimonianza scritta tramite il richiamo all’art. 257-bis non esclude che la Corte, seppur nella sola (eccezionale) evenienza descritta, possa assumere questo mezzo istruttorio attraverso la diretta audizione del testimone, applicando – per quanto di ragione – gli artt. 244 e ss., cod. proc. civ.
L’istanza per l’acquisizione della testimonianza scritta potrà essere contenuta nel ricorso introduttivo della lite tributaria, nelle controdeduzioni della parte resistente o anche in un successivo atto difensivo, non ostandovi alcuna preclusione.
Peraltro, qualora tale istanza venga avanzata con la memoria di cui all’art. 32, comma 2, d.lgs. n. 546 o in occasione della discussione in pubblica udienza e la controparte non abbia la possibilità di svolgere i conseguenti rilievi o iniziative istruttorie, il giudice dovrà disporre un differimento della trattazione della controversia, onde consentire l’adeguato svolgimento del contraddittorio.
Nel caso in cui la parte non formuli l’istanza nel primo grado del processo, bisogna tener presente che l’art. 58, comma 1, d.lgs. 546 permette l’assunzione della nuova prova in appello solo se si dimostri di non averla potuta fornire nella precedente fase per causa non imputabile oppure qualora il giudice la ritenga “necessaria” per decidere la lite.
In ragione della coincidenza della “necessità” della prova nell’art. 7, comma 4 e nell’art. 58, comma 1, si potrebbe pensare che la condizione di ammissibilità della testimonianza sia identica nei due gradi del giudizio.
Però, se così fosse, si tradirebbe la ratio dell’art. 58, comma 1, che ha inteso comprimere lo svolgimento dell’istruttoria in appello.
Pertanto, non solo la testimonianza in appello dovrà risultare l’unica prova in grado di risolvere le incertezze sussistenti su un fatto decisivo per risolvere la causa, ma occorrerà anche dimostrare di non averla potuta invocare in primo grado per un motivo scusabile.
In pratica, si può ipotizzare che le due condizioni poste dall’art. 58, comma 1 in via alternativa per ammettere nuove prove in appello debbano, per la sola testimonianza e in via eccezionale, ricorrere congiuntamente.
Ancora, nel giudizio di rinvio cosiddetto “prosecutorio”, a seguito dell’annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza impugnata per i motivi enunciati dall’art. 360, comma 1, n. 3) (violazione o falsa applicazione di norme di diritto) e n. 5) (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio formante oggetto di discussione tra le parti) cod. proc. civ., la testimonianza scritta non richiesta nelle pregresse fasi di merito non potrà essere acquisita. Lo si ritrae dall’art. 63, comma 4, D.Lgs. n. 546, che preclude nel processo di rinvio la formulazione di richieste diverse da quelle prese nel giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza cassata. Unica eccezione può essere rappresentata dal caso in cui la Corte Suprema fornisca una diversa impostazione giuridica della controversia che renda rilevanti fatti diversi da quelli precedentemente allegati dalle parti nelle fasi di merito. In tale peculiarissima circostanza potrebbe ipotizzarsi l’assunzione della testimonianza scritta non richiesta precedentemente.
Diverso è il discorso per il giudizio di rinvio cosiddetto “restitutorio”, allorché la sentenza impugnata sia stata cassata per uno degli altri motivi di ricorso per cassazione, ossia per ragioni attinenti alla giurisdizione, per violazione delle norme sulla competenza e per nullità della sentenza o del procedimento. In questo caso, le parti possono avvalersi di tutte le facoltà di cui non hanno potuto fruire nel giudizio di merito a causa del vizio riscontrato dalla Corte di Cassazione. Pertanto, volendo fare un esempio, se – a seguito dell’esame preliminare del ricorso in primo grado – fosse stato rilevato il difetto di giurisdizione del giudice tributario e la Corte di secondo grado lo avesse confermato, la cassazione della sentenza di appello non escluderebbe, nel conseguente giudizio di rinvio, la proposizione dell’istanza di acquisizione della testimonianza scritta.
4. Conclusioni.
In conclusione, la prova testimoniale è senz’altro benvenuta, sia pur con l’evidenziata nota critica sulla “necessità” della relativa assunzione.
Si tratta di una previsione avente il deliberato fine di circoscrivere la facoltà delle parti di disporre di questo mezzo istruttorio, di cui non si avvertiva l’esigenza.
Le cause nelle quali si porrà la concreta possibilità di ammettere la testimonianza saranno relativamente poche. Saranno, però e con ogni probabilità, quelle più complesse da decidere – per la molteplicità e la complessità dei fatti controversi – e, come l’esperienza insegna, quelle aventi ad oggetto le pretese impositive o le richieste di rimborso più cospicue.
Perché, allora, ostacolare il pieno esercizio delle facoltà difensive delle parti nelle liti più delicate prevedendo il menzionato limite processuale?
Oltretutto, tale eccessiva parsimonia nel consentire l’ingresso di questa prova può essere letta come un messaggio di sfiducia nelle capacità del giudice di discernere i mezzi istruttori ammissibili e di apprezzarne correttamente gli esiti. Messaggio contraddittorio se si tiene presente che, nel contesto del medesimo disegno riformatore, ha finalmente trovato spazio l’istituzione di una Magistratura tributaria professionale.
Ad ogni modo, l’esperienza dimostrerà se e in quale misura la prova per testi sarà apprezzata dal giudice tributario nel perseguire la doverosa aspirazione di appurare la verità reale delle vicende controverse in una materia di così decisiva rilevanza economica e sociale qual è quella su cui è chiamato a statuire.
Se questa esperienza sarà positiva, non potrà escludersi l’estensione, in via pretoria o grazie a un intervento legislativo, delle maglie troppo strette di ammissibilità della prova in oggetto.
Da ultimo, con l’introduzione della prova per testi, quale sarà la sorte delle dichiarazioni dei terzi, da tempo ammesse nel giudizio tributario?
Nulla osterà alla loro acquisizione e non potrà che trovare conferma il rammentato indirizzo giurisprudenziale che ad esse assegna valore indiziario, stante la piena efficacia probatoria che invece avrà la testimonianza scritta.
Questa, in ultima istanza, è la profonda e incolmabile differenza fra la prova testimoniale e tali dichiarazioni: la prima, a differenza delle seconde, non necessiterà di altre risultanze istruttorie per consentire al giudice di accertare la verità dei fatti controversi.
In sostanza, grazie alla riforma, si arricchisce la platea dei mezzi istruttori utilizzabili dai contraddittori senza comprimere alcuna delle facoltà finora esperibili.
[1] Sull’argomento, v. G. Melis, Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio, in Giustizia Insieme, 30 giugno 2022 e A. Giovanardi, La riforma della giustizia tributaria nel disegno di legge di iniziativa governativa AS/2636: decisivo passo avanti o disastrosa iattura?, in Riv. dir. trib., 8 luglio 2022.
[2] Cfr. Corte Cost. 21 gennaio 2000, n. 18 e, più di recente, Cass., sez. V, 2 ottobre 2019, n. 24531 e Cass., sez. V, 27 maggio 2020, n. 9903.
[3] V. Cass., sez. V, 6 agosto 2008, n. 21184; questo indirizzo ha trovato costante conferma nella giurisprudenza successiva.
[4] Sulla testimonianza scritta nel processo civile, fra gli altri, v. G. Balena, Commento all’art. 257-bis cod. proc. civ., in AA.VV., La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della Legge sul processo civile n. 69/2009, Milano, 2009, pp. 77 ss.; G. Palmieri – M. Angelone, La testimonianza scritta nel processo civile, in Judicium 2009; U. Berloni, Commento all’art. 257-bis cod. proc. civ., in AA.VV., Codice di procedura civile commentato. La riforma del 2009, a cura di C. Consolo e M. De Cristofaro, Milano, 2009, pp. 175 ss.; R. Crevani, L’istruzione probatoria, in AA.VV., Il processo civile riformato, diretto da M. Taruffo, Bologna, 2010, pp. 325 ss.; E. Fabiani, Note sulla nuova figura di testimonianza (c.d. scritta) introdotta dalla legge n. 69 del 2009, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, pp. 823 ss.
Prime riflessioni sulla nuova conciliazione proposta dalla Corte di giustizia tributaria
di Antonio Perrone
Sommario: 1. La disciplina normativa del novello istituto. - 2. La matrice processualcivilistica, il riferimento all’art. 185-bis cod. proc. civ. e le questioni problematiche del novello istituto. - 3. La veste giuridica ed il ruolo del giudice tributario nella sua funzione conciliativa. – 3.1. (segue) iudex statutor e iudex mediator. - 4. Il criterio della «facile e pronta soluzione» nella conciliazione del giudice tributario. - 5. Il criterio del «giustificato motivo» nel rifiuto della proposta conciliativa. - 6. Il riferimento al comportamento tenuto dalle parti in mediazione come strumento del giudice per valutare il canone della ragionevole accettabilità della proposta conciliativa. - 7. Due questioni conclusive.
1. La disciplina normativa del novello istituto
A trent’anni dalla promulgazione dei decreti delegati n. 545 e n. 546 del 1992, e dopo diversi interventi sezionali e parziali modifiche del loro impianto normativo, la legge 31 agosto 2022, n. 130, ha operato una riforma del rito fiscale che, seppur sotto il limitato profilo della professionalizzazione del giudice tributario, non dovrebbe esitarsi a definire epocale[1], atteso che, a regime, esso sarà togato, a tempo pieno, selezionato per pubblico concorso ed equiparato al giudice ordinario. E, del resto, la circostanza che si tratti di riforma, non solo di sostanza, ma anche di sistema, traspare, semanticamente, dalla diversa denominazione degli organi che saranno chiamati d’ora innanzi ad amministrare la giustizia tributaria: non più commissioni tributarie provinciali e regionali, ma corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado.
Se, indubbiamente, il maggior precipitato della riforma è ordinamentale poiché attiene, per l’appunto, alla figura ed alla natura del giudice tributario, non poche sono però le innovazioni che attengono al processo in sé e financo al regime della prova all’interno di esso[2]. Fra tali innovazioni un ruolo di spessore assume il nuovo istituto della «Conciliazione proposta dalla corte di giustizia tributaria», previsto dall’art. 4, comma 1, lett. g), della legge del 2022, che inserisce – nel corpo del novellato d.lgs. n. 546 del 1992 - l’art. 48-bis.1 e che, d’ora innanzi, per brevità verrà indicato come “conciliazione del giudice”.
La scelta della nomenclatura dell’articolo è già indicativa di una volontà del conditor legum di creare una sorta di fil rouge con i precedenti istituti (tutt’ora vigenti) della conciliazione “fuori udienza”, prevista dall’art. 48, e della conciliazione “in udienza”, prevista dall’art. 48-bis. E’ una scelta che, però, lascia perplessi, poiché – come vedremo – la novella conciliazione ha tratti peculiari e caratteristici che, se non sotto il profilo procedurale, soprattutto in ragione del ruolo che in essa vi gioca il giudice, ne avrebbero suggerito una configurazione in termini di maggiore autonomia che non in linea di continuità con i precedenti istituti.
Quanto all’impianto normativo, trattandosi di norme dal recentissimo conio, e non potendosi quindi dare per scontato che il lettore le conosca, si ritiene utile riportare i tratti salienti dell’art. 48-bis.1.
Indubbiamente la norma di maggiore importanza (così come di maggiore impatto) è il comma 1, il quale prevede che «[p]er le controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis la corte di giustizia tributaria, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione».
La nuova conciliazione del giudice, dunque, non riguarda tutte le controversie fiscali, ma solo quelle reclamabili e soggette a mediazione, che – allo stato – sono le liti di valore non superiore a cinquantamila euro. Atteso, però, l’espresso richiamo all’art. 17-bis (del medesimo decreto) nella sua interezza, e non al solo valore della controversia che esso definisce al primo comma, saranno escluse dal nuovo istituto della conciliazione del giudice anche le liti che non rientrano nel perimetro di applicazione di quella norma e cioè quelle di valore indeterminabile (fatta eccezione per quelle di cui all’articolo 2, comma 2, d.lgs. n. 546/92), quelle in tema di aiuti di stato (di cui all’art. 47-bis del d.lgs. n. 546 del 1992) e quelle aventi per oggetto i tributi costituenti risorse proprie tradizionali di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione 2014/335/UE, Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014.
La novella conciliazione, poi, non è obbligatoria, poiché la littera legis dispone che la proposta può essere dal giudice (id est: dalla corte di giustizia tributaria) formulata; e tale formulazione è soggetta ad una, non meglio precisata, condizione di fattibilità («ove possibile») ed è subordinata alla ricorrenza di (invero assai vaghi) criteri (che verranno più compitamente analizzati nel prosieguo del presente scritto) di cui il giudice dovrà tener conto: l’«oggetto del giudizio» e l’esistenza di «questioni di facile e pronta soluzione».
Quanto alla procedura, essa, mutatis mutandis, richiama quella del vigente art. 48-bis. I commi da 2 a 5 dell’art. 48-bis.1, in particolare, prevedono:
- che la proposta del giudice può essere formulata in udienza o fuori udienza. Nel primo caso è comunicata alle parti, nel secondo è comunicata alla sola parte (o alle sole parti) non comparsa in udienza;
- nel caso di formulazione della proposta, che la causa sia rinviata alla successiva udienza per il perfezionamento dell’accordo conciliativo e, ove l’accordo non si perfezioni, la trattazione della controversia nella stessa udienza (a cui la causa è stata rinviata per consentire la conciliazione);
- che la conciliazione si perfeziona con la redazione del processo verbale, nel quale sono indicate le somme dovute nonché i termini e le modalità di pagamento, aggiungendo che il processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento delle somme dovute al contribuente. Disposizioni, queste, identiche a quelle già previste per la conciliazione “fuori udienza” (art. 48-bis);
- che, nel caso di intervenuta conciliazione, il giudice dichiara con sentenza l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere (anche in questo caso le previsione è identica a quella contenuta nell’art. 48-bis).
Il novello articolo si chiude poi con la previsione del comma 6, il quale stabilisce che «[l]a proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice». Norma che, come del resto il primo comma dell’articolo, ha radice processualcivilistica e che (al pari del primo comma) merita gli approfondimenti ulteriori che appresso vi dedicheremo.
Il recentissimo impianto normativo non si compone, però, del solo art. 48-bis.1. Difatti, la legge n. 130 del 2022, all’art. 4, comma 1, lett. d), ha previsto altresì di inserire nell’art. 15 del d.lgs. n. 546/92, il comma 2-octies, che, invero, non riguarda soltanto il novello istituto della conciliazione giudiciale, ma la conciliazione in genere. La norma prevede, infatti, che, se la proposta conciliativa del giudice, o di una della parti (e cioè una proposta che rientra negli attuali artt. 48 e 48-bis), non sia accettata dall’altra parte «senza giustificato motivo», la parte rifiutante subirà una maggiorazione del 50 per cento delle spese del giudizio quante volte «il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata». Dunque, se il giudice o alcuna delle parti formula una proposta conciliativa ed essa non è accettata (senza giustificato motivo), il rifiutante subirà l’indicato aggravio di spese qualora, poi, il contenuto della sentenza dovesse, per esso, essere maggiormente sfavorevole rispetto al contenuto della proposta.
Quest’ultima disposizione, ispirata dall’evidente scopo di indurre le parti a ben meditare un eventuale rifiuto della proposta, rivela – invero – qualche imprecisione terminologica che, tuttavia, non sembra inficiarne più di tanto la portata esegetica (se si fa eccezione per l’inciso «senza giustificato motivo», di cui si cercherà di seguito di ben comprendere il significato).
In primo luogo, la mancata accettazione è letteralmente riferita all’altra parte; il che è corretto allorché la proposta sia formulata dal contribuente o dall’Amm. fin. Ma se la proposta sia di matrice giudiciale (proprio in base al novello istituto qui in commento) la mancata accettazione non andrebbe riferita all’altra parte, ma ad “una delle parti”, atteso che possono rifiutare tanto il contribuente quanto l’amministrazione.
In secondo luogo, la previsione dell’aggravio di spese è letteralmente riferita alle «pretese» che in sentenza siano dal giudice riconosciute in misura inferiore rispetto alla proposta conciliativa (rifiutata). Il soggetto destinatario dell’aggravio, dunque, dovrebbe essere il pretendente, è cioè nella stragrande maggioranza dei casi l’Amm. fin, atteso che, nel rito tributario, il contribuente pretende alcunché solo nelle liti di rimborso. Se così fosse, la norma risulterebbe evidentemente sbilanciata a sfavore della parte pubblica, poiché una rigida esegesi della stessa, ancorata al dato letterale, indurrebbe a ritenere che laddove la sentenza rigetti in tutto la pretesa o determini l’ammontare di tale pretesa in misura superiore a quanto previsto nella proposta conciliativa rifiutata (provenga essa dalla parte o dal giudice), l’aggravio di spese opererà solo se ciò riguardi la parte pretendente, e quindi, nella maggior parte dei casi, l’Amm. fin. Non riteniamo, però, che l’imprecisione terminologica conduca a siffatto, invero irragionevole, risultato. Forse l’intendimento del legislatore, nell’utilizzare il termine “pretese”, era quello di fugare ogni dubbio circa l’applicabilità del nuovo istituto anche alle liti di rimborso. In ogni caso, il termine di cui si discute, nella logica e nella ratio della disposizione dovrebbe essere inteso non solo con riferimento alle pretese avanzate dall’amministrazione nell’atto impositivo, di irrogazione delle sanzioni o nel provvedimento di riscossione (o alle pretese avanzate dal contribuente nella richiesta di rimborso), ma anche con riguardo alle “richieste” delle parti in genere. Talché, laddove sia stata formulata una proposta conciliativa di parte e l’altra l’abbia rifiutata (senza giustificato motivo), se la sentenza disporrà a sfavore del rifiutante in misura deteriore rispetto al contenuto della proposta, quest’ultimo subirà l’aggravio di spese. Analogamente, laddove sia la corte di giustizia tributaria a formulare la proposta, e una delle due parti (contribuente o amministrazione) l’abbia rifiutata (senza giustificato motivo), qualora la sentenza risulti, per essa, di contenuto maggiormente sfavorevole rispetto alla proposta, opererà l’aggravio di spese.
Sul punto non è superfluo sottolineare che, se la proposta conciliativa del giudice non è obbligatoria, lo è invece la condanna alle spese maggiorate per la parte che l’eventuale proposta abbia rifiutato senza giustificato motivo. Il novello comma 2-octies dell’art. 15, infatti, non dà facoltà al giudice di maggiorare le spese, ma prevede che esse, incrementale del 50 per cento, «restano a carico» del rifiutante senza giustificato motivo. Dunque, ricorrendo le condizioni già analizzate (rifiuto della proposta e contenuto della sentenza maggiormente sfavorevole rispetto a quello della proposta stessa), il giudice non sembra abbia facoltà nell’addebito delle spese maggiorate, salvo che non ricorra quel «giustificato motivo» di cui dovrà ben intendersi la portata.
La stessa norma prevede, invece, che laddove la conciliazione vada a buon fine, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.
L’ultima previsione dell’art. 4 della legge n. 130/2022, con riferimento al nuovo istituto della conciliazione del giudice, è contenuta al primo comma, lett. h), il quale prevede che nell’art. 48-ter del d.lgs. n. 546/92, in tema di definizione e pagamento delle somme dovute, al comma 2, è inserito il rifermento anche all’art. 48-bis.1. In sostanza, quindi, anche per la conciliazione del giudice il versamento delle somme dovute, ovvero, in caso di rateizzazione, della prima rata, deve essere effettuato entro venti giorni dalla data di redazione del relativo processo verbale.
A riguardo si rammenta che il primo comma dell’art. 48-ter stabilisce la misura di applicazione delle sanzioni ridotte in caso di conciliazione tanto nel primo quanto nel secondo grado di giudizio. Pertanto, la circostanza che nel secondo comma di tale articolo sia stato inserito il riferimento all’art. 48-bis.1, dovrebbe deporre nel senso che le modalità di pagamento ivi disciplinate si riferiscono alla conciliazione del giudice tanto nel primo quanto nel secondo grado di giudizio. Se a ciò si aggiunge la sedes materie di tale ultima disposizione (che, come detto, segue gli articoli 48 e 48-bis) e la circostanza che il primo comma di essa si riferisca alla «corte di giustizia tributaria», non altrimenti aggettivata con riferimento al primo o al secondo grado, ne consegue che il nuovo istituto della conciliazione del giudice, al pari delle altre forme conciliative allo stato vigenti, si applica anche in grado di appello.
2. La matrice processualcivilistica, il riferimento all’art. 185-bis cod. proc. civ. e le questioni problematiche del novello istituto.
Così analizzata la novella normativa, non può sottacersi che essa suscita diverse questioni problematiche, che pertengono non solo lo studioso del processo tributario ma anche l’operatore pratico e, soprattutto, la neo istituita corte di giustizia tributaria, che quella norma sarà chiamata ad applicare.
Intanto va detto che l’art. 48-bis.1 rivela una chiara matrice processualcivilistica, essendo fondamentalmente modellato sull’istituto previsto dall’art. 185-bis cod. proc. civ., rubricato «proposta di conciliazione del giudice», ed il cui primo comma dispone: «[i]l giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice».
Com’è evidente un quasi testuale richiamo alla formulazione della norma del codice di rito è presente nel comma 1 e nel comma 6 del novello art. 48-bis.1 del d.lgs. n. 546/92. Vi è, invero, una sensibile differenza, poiché la conciliazione del giudice nel processo civile si applica alle sole questioni di facile e pronta soluzione «di diritto»; limite – che aveva indotto attenta dottrina processualcivilistica ad affermare che «la ricostruzione dei fatti, come ben vedesi, non interessa più a nessuno»[3] - non presente nella norma tributaria, talché è da ritenersi che quest’ultima possa riguardare anche le questioni di fatto.
La norma del codice di rito, poi, nel circoscrivere il perimetro delle liti conciliabili, raccomanda al giudice di tener conto della «natura del giudizio» e del «valore della controversia», senza identificare, in quest’ultimo caso, una soglia ben precisa. Il parametro del valore è invece – come già detto – ben identificato dalla norma tributaria che, nel richiamare l’art. 17-bis del d.lgs. n. 546/92, lo circoscrive (con scelta, a mio sommesso avviso, opinabile) ai cinquantamila euro. Di contro, sostanzialmente sovrapponibile, nella vaghezza dell’espressione, a quello del codice di rito ci sembra il primo criterio che pone la norma tributaria, che in luogo della “natura” fa riferimento all’“oggetto” del giudizio. Nell’un caso e nell’altro, non è ben chiaro in quale misura il criterio che ne occupa possa influenzare (recte: indirizzare) la scelta del giudice di proporre o meno la conciliazione. Cosa vuol dire, infatti, che – nel valutare la possibilità di formulare una proposta conciliativa – il giudice dovrà tenere conto, nell’un caso (rito civile) della “natura” del giudizio, e nell’altro (rito tributario) dell’“oggetto” del giudizio, se non che questa valutazione è sostanzialmente rimessa alla sua discrezionalità? Altrimenti detto: in che modo potrebbe sindacarsi la scelta della corte di giustizia tributaria di proporre la conciliazione assumendo che l’oggetto del giudizio non la consentiva? Ci sembra, invero, di essere in presenza di una disposizione “in bianco” che né vincola (che forse sarebbe stato eccessivo), né indirizza (che invece sarebbe stato auspicabile) la scelta del giudicante. Per non dire, poi, che il concetto e l’ampiezza dell’“oggetto” del giudizio tributario è questione così tanto dibattuta ancor oggi nella dottrina[4], che forse sarebbe stato meglio evitare del tutto ogni riferimento normativo al tema, piuttosto che adattare al processo tributario una disposizione che già nel codice di rito lasciava gli interpreti insoddisfatti.
Se a ciò si aggiunge la genericità dell’espressione «questioni di facile e pronta soluzione» (che nel nostro processo, come già detto, a differenza di quanto avviene nel rito civile, attiene al fatto come al diritto), che è l’altro criterio che il giudice dovrà valutare nel formulare (ove possibile) la proposta conciliativa, è difficile non condividere, e rilanciare in materia fiscale, il tranciante giudizio che la dottrina processualcivilistica ha dato dell’art. 185-bis, primo comma, cod. proc. civ.: non si tratta, invero, di una norma effettuale, ma di un «suggerimento al giudice»[5]. Talché, verrebbe da chiedersi se effettivamente v’era la necessità di modellare la conciliazione del giudice tributario su quella del giudice civile o non sarebbe stato, invece, più opportuno tener conto degli strali critici che quell’istituto aveva suscitato negli operatori della giustizia civile per confezionarne, nel rito tributario, uno di miglior finitura. Ciò, soprattutto, ove si considerino taluni emendamenti (che successivamente analizzeremo) che pur erano stati proposti per migliorarne la fattibilità.
Ciò posto, il presente contributo non vuole però limitarsi alla critica, ma avere un intendimento propositivo per cercare di comprendere se e come le evidenziate problematiche possano essere risolte.
3. La veste giuridica ed il ruolo del giudice tributario nella sua funzione conciliativa
La circostanza che il primo comma dell’art. 48-bis.1 restituisca la posizione di un giudice le cui coordinate di indirizzo per la formulazione della proposta non possono essere, se non in maniera estremamente vaga, ravvisate nella legge, ci sembra impatti sulla questione, di massima importanza, della concreta attuabilità del novello istituto e quindi della sua reale efficacia. Altrimenti detto: quale condizionamento (e quale utilità) potrà trarre il giudice dal sapere che la sua proposta potrà essere formulata soltanto laddove essa sia compatibile con l’oggetto del giudizio e laddove si verta su questioni di facile e pronta soluzione? In particolare, cosa la corte di giustizia tributaria dovrà intendere con quest’ultima espressione? Sebbene, infatti, la formula sia stata tralaticiamente riportata dal rito civile a quello fiscale, essa dovrà certamente essere adattata alle particolarità di quest’ultimo e, prima fra esse, la circostanza che una delle parti è pubblica ed è portatrice delle funzione istituzionale di attuare la norma tributaria e di amministrare i tributi[6].
Invero, le risposte a tali quesiti parrebbero a portata di mano. Facile e pronta soluzione, infatti, altro non dovrebbe significare se non che è chiaro chi abbia ragione e chi torto o che (in diritto) si tratta di una questione che ha una tale sedimentazione giurisprudenziale (magari in un costante orientamento della Corte di cassazione) – da cui il giudice non ravvisa ragioni per discostarsi – che la soluzione della controversia non potrà che ancorarsi alla stessa, o che ancora – ma ci sembra un’ipotesi di difficile fattura – una delle parti abbia ipotizzato l’applicazione di una norma palesemente inconferente con la fattispecie o abbia dato una valutazione palesemente errata di una disposizione. Insomma, la locuzione in esame, nella sua forma letterale, indurrebbe a ritenere che la corte di giustizia tributaria abbia facoltà di formulare la proposta conciliativa quante volte risulti indubbiamente evidente, al di là di ogni dubbio, come la controversia debba essere decisa perché è chiaro dove sta la ragione e dove il torto.
A questo punto, però, l’inevitabile domanda che sorge nella mente dell’interprete è perché mai un giudice, che abbia così chiara contezza su come la controversia debba essere decisa, dovrebbe formulare una proposta conciliativa. Ma soprattutto occorre chiedersi come potrebbe quegli formulare la proposta senza, di fatto, anticipare la sua decisione, così compromettendo quell’imparzialità che non è solo principio di civiltà giuridica ma è anche canone di rilevanza costituzionale (art. 111 Cost.)[7]. Pertanto, se si dovesse attribuire all’inciso facile e pronta soluzione il significato letterale che ha tale espressione, non solo si porrebbe un’evidente questione di legittimità costituzionale della norma, ma si dovrebbe ammettere che il novello istituto della conciliazione del giudice è stato introdotto nel rito fiscale con il solo scopo di scoraggiare liti temerarie, in cui il ricorrente (recte: il suo difensore) è conscio della scarsa probabilità di successo, ma impugna per prender tempo. Un istituto che opererebbe quindi a senso unico e di cui, a mio sommesso avviso, non si sentiva davvero il bisogno.
Le superiori riflessioni rimandano, invero, alla questione, di ben ampio spessore, di quale sia la funzione della conciliazione del giudice e di quale veste egli assuma nel formulare la proposta.
È indubbiamente vero che funzione precipua del novello istituto è quella di deflazionare il contenzioso tributario, ma il perseguimento di tale obiettivo non sembra possa spingersi fino a sacrificare il ruolo che è istituzionalmente (e costituzionalmente) proprio del giudice: amministrare giustizia (in nome del popolo). Pertanto, nessuna proposta conciliativa dovrebbe il giudicante formulare ove gli sia oltremodo chiaro chi abbia (anche parzialmente) torto e chi (anche parzialmente) ragione, poiché in quel caso egli dovrebbe subordinare l’obiettivo della deflazione delle liti al compito che primariamente gli compete, attribuendo giustizia a chi (evidentemente) merita di averla.
Ciò, peraltro, si intreccia con la questione del ruolo che il giudice assume allorché formuli una proposta conciliativa in un giudizio che egli è chiamato dirimere con sentenza. Questione che investe l’amplissimo tema della imparzialità del giudicante, che è stata già dibattuta dalla dottrina processualcivilistica a fronte del richiamato art. 185-bis cod. proc. civ. e che, in questa sede, può essere richiamata solo per sommi capi[8].
3.1. (segue) iudex statutor e iudex mediator
Alla sua radice il complesso tema si riduce nello stabilire se il giudice che formula la proposta di conciliazione vesta i panni di un iudex statutor (decisorio), di un iudex mediator o una via di mezzo fra i due[9]. E cioè se quegli, in sede conciliativa, possa adottare lo stesso habitus mentale e la medesima intime convinction che caratterizzano il suo ruolo decisorio e la sua funzione di dispensare giustizia, o – (parzialmente) svestiti i panni del decidente – debba invece operare con funzione mediatoria per trovare una soluzione che possa essere accettata da entrambe le parti, poiché ognuna di essa avrebbe più da perdere nel rifiutarla che nell’accettarla (o, in altri termini, avrebbe più da perdere seguitando nel giudizio).
Diversi sono gli argomenti che inducono ad escludere che il giudice della conciliazione possa essere un iudex statutor, ma il primo e più importante di essi attiene a quel principio generale di giustizia, riconnesso al canone dell’imparzialità, che impedisce a colui che sia chiamato a dirimere una controversia con sentenza di formulare, in corso di causa, “anticipazioni di giudizio”.
La dottrina processualcivilistica, nel commentare l’art. 185-bis del codice di rito, con il precipuo scopo di escludere che il giudice “conciliatore” possa operare in qualità di iudex statutor, ha cercato, in primo luogo, un appiglio normativo nell’art. 51, comma 4, cod. proc. civ., che notoriamente individua una serie di circostanze – che rappresentano altrettanti obblighi di astensione del giudice – che dimostrano una sua “precognizione” dei fatti di causa[10]. L’aver quegli dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o l’aver deposto in essa come testimone, l’avere conosciuto della stessa come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o, infine, l’aver prestato assistenza come consulente tecnico, impongono al giudice di astenersi dal decidere poiché sono circostanze che dimostrano che egli ha avuto aliunde conoscenza dei fatti di causa – donde l’elemento della “precognizione” – e su essi si è espresso, in un modo o in un altro. Ciò che inevitabilmente pregiudica l’imparzialità del suo operato.
E tuttavia le ipotesi dell’art. 51, comma 4, cod. proc. civ. attengono ad elementi “esterni” al giudizio[11] e quindi configurano casi in cui il giudice ha avuto una previa conoscenza dei fatti di causa per averli acquisiti in una veste diversa da quella di giudicante nel medesimo processo (consulente, perito, testimone, arbitro, ecc.), tant’è che l’obbligo di astensione, qualora la conoscenza dei fatti di causa sia avvenuta nella qualità di “magistrato”, opera soltanto laddove sia avvenuta in altro grado del giudizio[12].
Ben diversa è l’ipotesi in cui sia la legge stessa a prevedere la possibilità per il giudice di aver contezza dei fatti di causa alla scopo di formulare una proposta conciliativa all’interno del processo[13], come avviene nelle ipotesi disciplinate tanto dall’art. 185-bis del codice di rito, quanto dal novello art. 48-bis.1 del rito fiscale. E, d’altro canto, è ben noto che, per il naturale progredire del processo, è giocoforza necessario che il giudicante conosca, in via interinale, questioni di rito e di merito[14]. Così come, laddove sia la stessa legge a prevederlo, il giudice potrà pronunciarsi in via cautelare e provvisoria (come notoriamente avviene nel rito tributario, ai sensi dell’art. 47 del d.lgs. n. 546/92), senza che ciò comporti forme di indebita anticipazione di giudizio[15].
Se vuol sostenersi che il giudice “conciliatore” non possa operare in funzione decisoria, anticipando, attraverso la formulazione della proposta, quale sarà l’esito del giudizio, non sembra dunque possa trovarsi appiglio normativo nel richiamato art. 51, comma 4, cod. proc. civ.
Forse quell’appiglio lo si può invece trovare nella stessa disciplina normativa della conciliazione del giudice. Di fatti, l’art. 48-bis.1 (così come, del resto, l’art. 185-bis cod. proc. civ.), pur nella sua vaghezza formulatoria, sembra dettare talune coordinate di riferimento. Segnatamente, l’ultimo comma dell’articolo, nello stabilire che la proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice, non pare abbia solo portata precettiva ma di indirizzo (e monito) nei confronti del giudicante.
Indubbiamente la norma è stata dettata dal pur lodevole intento di evitare che ogni proposta conciliativa possa paralizzare il rito, determinando una richiesta di ricusazione operata dalla parte che, rifiutata la proposta, assuma che il giudice non è più parziale perché, mercé la formulazione della stessa, ha già chiarito come intenderà decidere. Tale comprensibile premura, però, non sembra possa spingersi fino a paralizzare del tutto un’eventuale azione di ricusazione di parte quale che sia il contenuto della proposta. Se quest’ultima è una chiara anticipazione del giudizio e quindi un abuso del potere del giudice, alle parti (recte: a quella che dovesse risultare sfavorita dalla proposta) dovrà pur essere consentito di censurare tale operato.
La norma di cui si discute, dunque, va avvolta nella sua ratio di conformità al principio generale, di civiltà giuridica, che impedisce al giudice di formulare “anticipazioni” del suo decidere in corso di causa (pena la sua ricusabilità). Essa, dunque, è comprensibile (e costituzionalmente accettabile) solo in quanto si sia disposti ad ammettere che dice più di quanto non appaia, operando come un monito per il giudice: la sua proposta conciliativa non costituisce motivo di ricusazione o di suo obbligo di astensione proprio perché (e nella misura in cui) essa non è, e non deve essere, anticipazione di giudizio. La norma che ne occupa, dunque, andrebbe letta come disposizione che, al contempo, conferisce il potere (conciliativo) e ne sottintende il limite che deriverebbe dal suo abuso. Limite che, in altro contesto processuale, il legislatore ha sentito la necessità di esplicitare, affermando – all’art. 37, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. – che il giudice è ricusabile se nell’esercizio delle funzioni e prima che sia pronunciata sentenza, abbia manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione.
Mutatis mutandis, nel rito fiscale, l’avverbio indebitabimente, e con esso la ricusabilità del giudice, dovrebbe ricorrere quante volte quegli abbia sconfinato dal suo potere, formulando una proposta conciliativa che in effetti tale non è, perché lasica chiaramente intendere come egli deciderà (o come, di fatto, ha già deciso).
È allora proprio questa lettura ragionevolmente (e costituzionalmente) orientata dell’ultimo comma del novello art. 48-bis.1, che può chiarire quale debba essere il ruolo e la natura del giudice “conciliatore” nel rito fiscale. Quando egli formula la proposta, dovrebbe parzialmente svestire gli abiti del decisore per operare, altrettanto parzialmente, come mediatore (altamente) “qualificato” che, avendo la sua guida pure e sempre nella legge, valuta se, in conformità alla stessa, e iuxta alligata et probata partium, vi sia lo spazio per una composizione delle reciproche posizioni. E’ per questa ragione che la collocazione sistematica dell’art. 48-bis.1 lascia perplessi, poiché non sembra che esso possa allinearsi a quell’ideale fil rouge che vorrebbe accomunarlo alla conciliazione “fuori udienza” (art. 48) e alla conciliazione “in udienza”, (art. 48-bis) ove non v’è alcun giudice che, almeno per un momento, veste l’habitus mentale del mediatore.
Se così è, allora, dovrebbe conseguirne che nessuna proposta conciliativa il giudicante può formulare ove gli sia oltremodo chiaro chi abbia torto e chi ragione, poiché in quel caso sarà per lui arduo esprimersi senza formulare anticipazioni di giudizio. Piuttosto, ove le condizioni (in fatto ed in diritto) del contendere lo consentano, poiché torti e ragioni si dividono fra i due contendenti, egli dovrà (recte: potrà) cercare di trovare quel punto di giuntura che accontenta (o che troppo non scontenta) le parti. Si condivide, quindi, quanto affermato da attenta dottrina processualcivilistica, la quale ha ritenuto che allorché il giudice formuli la proposta, deve «mediare tra le posizioni delle parti e ispirarsi, anche solo per un istante, alla logica dell’aliquid datum et aliquid retentum propria d’ogni amichevole accordo su lite pendente, giudiziale (come la conciliazione) o stragiudiziale (come la transazione) che sia»[16].
È in questi termini, che a mio sommesso avviso, dovrebbe intendersi il ruolo del giudicante nel neo-introdotto istituto dell’art. 48-bis.1.
E, d’altro canto, una conferma, ancora una volta normativa, di tale soluzione parrebbe trarsi dalla circostanza – propria della disciplina fiscale – che il perimetro di applicazione della conciliazione del giudice coincide con quello del reclamo e mediazione (art. 17-bis d.lgs. n. 546/92).
Si badi, con ciò non si intende sostenere l’identità giuridica dei due istituti, né che il giudice possa qualificarsi quale mediatore “esterno”, ma che, in sede conciliativa, la sua attitudine dovrebbe essere parzialmente diversa da quella usuale e che gli è connaturale per legge. Egli, conscio che la lite non ha certa soluzione unilaterale (a favore del contribuente o dell’Amministrazione), che ragioni e torti possono distribuirsi fra le parti, e che – soprattutto – il suo convincimento è ancora fluido, dovrebbe far prevalere, anche sol per un attimo, l’aninums mediandi sull’aninums decidendi e formulare quindi quella soluzione che, ragionevolmente, gli sembra possa essere accettata da entrambi.
Quanto ciò sia praticabile non è preconizzabile, poiché attiene né alla norma, né (almeno per il momento) alla prassi, ma alla sensibilità dell’uomo giudice.
4. Il criterio della «facile e pronta soluzione» nella conciliazione del giudice tributario
L’aver tracciato il perimetro del ruolo e delle funzioni della corte di giustizia tributaria in sede conciliativa dovrebbe ora consentire di gettar maggior luce sulla vaga formula facile e pronta soluzione, che – come anticipato – sebbene identica a quella contenuta nell’art. 185-bis cod. proc. civ., deve essere adattata alla specificità del rito fiscale.
Chiarito, allora, che essa (a mio sommesso avviso) non descrive le ipotesi in cui il giudice tributario ha assoluta certezza di come, ed a favore di chi, la lite possa essere integralmente definita, poiché in questi casi il iudex statutor deve prendere il sopravvento (ed amministrare giustizia) e la formulazione della proposta si ridurrebbe inevitabilmente (ed indebitamente) nell’anticipazione del suo giudizio (poiché egli ha già deciso), si dovrebbe riconoscere, quasi paradossalmente, che facilità e prontezza di soluzione attengono ad una lite che è ancora fluida nella mente del giudicante, nel senso che egli non ritiene di essere in possesso di una verità certa, puntuale, ma di una verità suscettibile di composizione[17].
Si badi, con ciò non si intende dire che il giudice non sa cosa decidere, poiché in tal caso (ed ovviamente) non sarebbe neanche in grado di formulare una (ragionevole) proposta conciliativa, ma che la sua decisione si può muovere all’interno di un intervallo in cui la verità dei fatti (id est: delle ricostruzioni e delle allegazioni di parte) non è né A né B, ma un punto fra A e B che non è suscettibile di immediata e certa individuazione. In questo senso, e solo in questo senso, deve essere intesa la fluidità del decidere.
La materia tributaria è ricca di siffatte ipotesi. Per voler fare soltanto alcuni esempi, si pensi agli accertamenti induttivi in cui la ricostruzione dell’imponibile, per assenza delle scritture contabili o inattendibilità delle stesse, è basata su elementi presuntivi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza; si pensi all’utilizzo di percentuali di ricarico, di redditività, di stime di settore, ecc.; o agli accertamenti redditometrici, alle ipotesi di ricostruzione delle rimanenze di magazzino ed alla loro incidenza sul costo del venduto, alla determinazione della percentuale di incidenza dei costi sui maggiori ricavi accertati, all’accertamento di maggior ricavi attuato mediante l’utilizzo dei dati di acquisto delle materie prime, percentuali di sfrido, prezzi medi praticati, ecc.
Si tratta, per lo più di questioni in fatto che evidenziano quel grado di incertezza che è tipico della ricostruzione del fatto fiscale: un accadimento del passato su cui l’Amm. fin. opera delle enunciazioni fattuali, scontando un’inevitabile inferiorità conoscitiva (poiché essa non sa come sono andati i fatti che deve ricostruire) che è la ragione prima del diffuso utilizzo delle presunzioni nella materia tributaria[18].
E, d’altro canto, il concetto di incertezza è ben noto al legislatore tributario che individua proprio nella «incertezza delle questioni controverse» uno dei criteri che l’amministrazione deve valutare in sede di mediazione, ai sensi dell’art 17-bis, comma 5, d.lgs. n. 546/92; norma, peraltro, espressamente richiamata dal novello art. 48-bis.1 e che può, dunque, influenzarne l’esegesi.
Sono queste ipotesi di incertezza sul (indeterminatezza del) fatto che maggiormente sembrano abbisognare della figura di un giudice con funzione conciliativa[19] ed è quindi a tali ipotesi che, in prima battuta, dovrebbe riferirsi il criterio della facile e pronta soluzione nella misura in cui circoscrive il perimetro delle fattispecie suscettibili di conciliazione giudiciale. Ipotesi che certamente rientrano nello spazio di applicazione dell’art. 48-bis.1, opportunamente non limitato dal legislatore fiscale alle questioni in diritto, ma che, per paradosso, non sembrano recare né il requisito della facilità né quello della prontezza di soluzione.
Come dovremmo intendere allora il criterio di cui si discute?
A mio sommesso avviso la lite di facile e pronta soluzione è quella in cui il giudice possa ragionevolmente ritenere di comporre una verità processuale all’interno di quell’intervallo di incertezza di cui si è detto. Altrimenti detto, quegli potrà formulare la proposta allorché ritiene che, stante un certo grado di indeterminatezza che impedisce la certezza, si possa comunque addivenire ad una composizione della lite poiché, sulla base delle allegazioni e delle prove fornite, è ragionevolmente giusto che ciascuna parte possa rinunciare ad una porzione della sua “pretesa” (nel senso sopra indicato); nel far ciò il giudice dovrà altresì, specificare quanta e quale parte della pretesa ciascuna parte dovrà essere disposta a rinunciare.
Ma non è tutto. Poiché la corte di giustizia tributaria non dovrà limitarsi soltanto a stabilire in che misura sia ragionevolmente giusto che ciascuna parte rinunci ad una porzione della sua pretesa, ma dovrà altresì valutare, nel formulare la proposta, in che misura quest’ultima possa essere ragionevolmente accettata dalle parti. E’ in ciò che, probabilmente, si richiede al giudice uno sforzo maggiore, poiché tale modus operandi implica che, per almeno un momento, egli non agisca secondo il suo naturale ed istituzionale habitus di amministratore giustizia ma ponendo innanzi a sé anche valutazioni di economia processuale (che sono tipiche di un mediatore), sforzandosi di conciliare il giusto con l’accettabile. A poco servirebbe, infatti, quantomeno nell’ottica deflattiva che è propria dell’istituto che ne occupa, una proposta che si sa non potrà essere ragionevolmente accettata da una delle parti (a meno che non si ritenga possibile formulare la proposta non perché essa sia accettata, ma per valutare successivamente il comportamento della parte rifiutante, così ricadendo, però nel vizio di anticipazione del giudizio).
In sintesi, dunque, lite di facile e pronta soluzione (e quindi la lite suscettibile di proposta giudiciale) dovrebbe essere quella in cui il giudicante, all’interno di un intervallo di incertezza, individua una composizione delle antagoniste pretese ritenendo: (i) che possa essere ragionevolmente giusto che ciascuna parte rinunci ad una porzione delle stesse e (ii) che ciascuna parte possa ragionevolmente accettare la misura della riduzione proposta.
Bilanciando siffatte istanze, il giudice non anticiperà la sua decisione, poiché, qualora una o entrambe le parti dovessero non accettare la proposta conciliativa, quegli sarà comunque e sempre libero, nell’emettere sentenza, di muoversi all’interno di quell’intervallo, modificando, re melius perpensa, i propri convincimenti anche in ragione di ciò che le parti addurranno ed allegheranno nel rigettare la sua proposta. Per cui, sino al termine della lite, e cioè sino a quando non depositerà la sua sentenza, il giudicante potrà liberamente formarsi un convincimento diverso rispetto al contenuto della proposta, ritenendo ragionevolmente giuste le osservazioni e le allegazioni di una o di entrambe le parti.
In ultima analisi, gli aggettivi facile e pronta non dovrebbero essere sinonimo di certezza nella soluzione, ma descrivere quella condizione in cui il giudice riesce a ravvisare una composizione della lite che ritiene ragionevolmente giusta e ragionevolmente accettabile, salva la possibilità di mutare il proprio intendimento (allorché la proposta non sia accettata) sulla base delle successive allegazioni e argomentazioni di parte.
5. Il criterio del «giustificato motivo» nel rifiuto della proposta conciliativa
La soluzione prospettata, se condivisa, ci sembra getti luce su quell’altra (eccessivamente generica) formula che è contenuta nel novello comma 2-octies dell’art. 15 del d.lgs. n. 546/92 e cioè quel «giustificato motivo» nel rifiuto della proposta alla cui mancanza è collegato l’aggravio di spese nella misura del cinquanta per cento.
Letteralmente giustificato motivo (che deve accompagnare il rifiuto) altro non dovrebbe significare se non che la parte rifiutante ritiene la proposta non confacente ai propri interessi e che essa rimane convinta di meglio poterli soddisfare in giudizio. Anche qui par di essere in presenza di una norma “in bianco”, poiché – in assenza di maggiori coordinate di indirizzo – ogni allegazione ed osservazione della parte rifiutante potrebbe, al contempo, essere o meno un giustificato motivo.
La vaga formula, però, potrebbe ricondursi a concretezza laddove si ritenga che il giudice debba (recte: possa) formulare la proposta conciliativa nelle sopra richiamate ipotesi in cui egli cerca di comporre la lite all’interno di quell’intervallo di incertezza (o incertezza “intervallare”) di cui si è detto, lasciandosi guidare dai criteri della ragionevole giustezza della misura delle rinunce proposte alle parti e della ragionevole accettabilità della proposta da parte delle stesse.
In questo caso, il “non accettante” (quale che egli sia: parte pubblica o privata) non potrà limitarsi ad addurre che la proposta non si confà ai propri interessi (che ritiene di poter meglio perorare in giudizio), ma dovrà ben spiegare i motivi per cui la porzione di rinuncia alle proprie pretese che il giudice gli prospetta non è ragionevolmente giusta, adducendo e dimostrando altresì che non vi è alcun grado di incertezza “intervallare” nella soluzione della controversia che possa indurlo ad accettare, poiché è assolutamente chiaro dove sta la ragione (evidentemente dalla sua parte) ed il torto (evidentemente dall’altra parte). Si osservi, infatti, che la littera legis sembra consentire alla parte soltanto di “non accettare” la proposta, ma non di “rilanciare” con una proposta modificata (a meno che, poi, nella prassi e nella concreta applicazione dell’istituto si ammetta la possibilità per le parti in udienza di chiedere modifiche alla proposta conciliativa del giudice); per cui la parte che rifiuta dovrebbe in primo luogo sostenere che la lite non è di facile e pronta soluzione (nel senso sopra prospettato) poiché non vi è alcun intervallo di incertezza e dunque la prospettazione della “corte” non può essere ragionevolmente giusta. Il rifiutante, poi, potrebbe rigettare la proposta non perché essa non sia ragionevolmente giusta, ma perché la misura della rinuncia prospettata dal giudice non è ragionevolmente accettabile.
Peraltro, qualora la corte di giustizia tributaria dovesse ritenere fondate tali doglianze, potrebbe in sentenza adeguarsi (in tutto o in parte) alle stesse, poiché - come detto - se essa utilizza i parametri in questa sede ipotizzati (ragionevole giustezza e ragionevole accettabilità) non rimane ancorata alla propria proposta, ma ha piena libertà di modificare i propri intendimenti fino al deposito della sentenza.
Insomma, se si condivide che il criterio della facile e pronta soluzione ricorra quante volte il giudice sia in grado di ipotizzare una composizione della lite utilizzando i canoni del ragionevolmente giusto e del ragionevolmente accettabile, dovrebbe conseguirne un più chiaro significato della locuzione «giustificato motivo». Una volta formulata la proposta, il giustificato motivo nel rifiuto della stessa dovrebbe consistere nel dispiegare convincenti argomentazioni atte a dimostrare che essa non è ragionevolmente giusta o non è ragionevolmente accettabile. Laddove il giudicante riterrà le argomentazioni di parte non convincenti, disporrà l’aggravio di spese a carico del rifiutante.
6. Il riferimento al comportamento tenuto dalle parti in mediazione come strumento del giudice per valutare il canone della ragionevole accettabilità della proposta conciliativa
La soluzione dianzi prospettata sembra però prestare il fianco ad almeno una critica puntuale: se la corte di giustizia tributaria, mercé l’analisi delle allegazioni e probazioni di parte, può essere in grado di individuare quel punto di composizione della lite per cui è ragionevolmente giusto che ciascun contendente rinunci ad una porzione delle proprie pretese (in fatto o in diritto), come farà invece a stabilire che la rinuncia richiesta è ragionevolmente accettabile?
La norma dell’art. 48-bis.1, infatti, non prevede la possibilità per il giudice di “sentire” previamente le parti allo scopo di comprendere se alcuna o entrambe ravvisino alcunché a cui siano disposte a rinunciare, perché lo ritengono accettabile. Certo, potrebbe anche sostenersi che, allorché il proponente (nel nostro caso il giudice) ritenga ragionevolmente giusta la prospettata composizione della lite, possa altresì ritenere ragionevolmente accettabile la rinuncia che detta (giusta) composizione comporta. I due criteri della ragionevole giustezza e ragionevole accettabilità finirebbero così con il compendiarsi. Ma come si è cercato di argomentare nelle pagine precedenti, se si vuol attribuire reale efficacia al nuovo istituto, non può ritenersi soddisfacente che il giudice formuli una proposta “al buio”, anzi lo sforzo maggiore che gli è richiesto dovrebbe consistere proprio nel cercare di comprendere se la proposta che egli formulerà abbia dei margini di accettabilità. Il canone della ragionevole accettabilità, dunque, non dovrebbe compendiarsi con quello della ragionevole giustezza, ma godere di una sua autonomia.
Ritengo, quindi, che sarebbe stata indubbiamente d’aiuto al gravoso compito del giudice, ed elemento di propulsione della concreta efficacia dell’istituto, la proposta di emendamento 2.36 (del 19 luglio 2022, a firma De Bertoldi, Balboni, Calandrini) al d.d.l. A.S. 2636, che prevedeva la possibilità per il giudice di “esplorare” gli intendimenti delle parti, chiedendo d’ufficio alle stesse di «tentare un accordo conciliativo», prima di formulare la sua proposta (pur sempre limitata a questioni di facile e pronta soluzione). Mercé tale richiesta “d’ufficio”, il giudice avrebbe potuto desumere dal comportamento tenuto dalle parti, non elementi valutabili ai fini del giudizio (come prevede l’art. 420, primo comma, c.p.c., in sede di rito del lavoro), ma informazioni circa il margine di disponibilità delle stesse a conciliare e quindi elementi di valutazione del criterio della ragionevole accettabilità.
L’emendamento, tuttavia, non ha avuto buon sorte, per cui si dovrà analizzare la vigente normativa per comprendere se sussistano disposizioni che consentano alla corte di giustizia tributaria di reperire aliunde i necessari elementi di valutazione del canone dell’accettabilità.
Forse una soluzione si può trovare, ancora una volta, nel richiamo che l’art. 48-bis.1 opera all’art. 17-bis. Le liti conciliabili, come detto, sono quelle “reclamabili”. Orbene, in sede di reclamo il contribuente può prospettare una mediazione, l’Amm. fin. è tenuta ad esaminare il reclamo (e l’eventuale proposta di mediazione) e, ove ritenga di non accoglierlo, deve d’ufficio formulare una propria proposta, avuto riguardo ai ben noti criteri dell’eventuale incertezza delle questioni controverse (già sopra richiamato), del grado di sostenibilità della pretesa e del principio di economicità dell’azione amministrativa.
Giova, peraltro, ricordare che, con la stessa legge n. 130 del 2022, il legislatore è intervenuto anche sull’art. 17-bis, introducendovi il comma 9-bis, a mente del quale se il reclamo o la proposta di mediazione (formulata dall’Amm. fin. ai sensi del comma 5) non è accettata e la parte rifiutante risulterà poi soccombente sulla base di una sentenza che accoglierà «le ragioni già espresse in sede di reclamo o mediazione», essa subirà la condanna alle spese. La norma, peraltro, si spinge a statuire che siffatta condanna potrà «rilevare ai fini dell’eventuale responsabilità amministrativa del funzionario che ha immotivatamente rigettato il reclamo o non accolto la proposta di mediazione». Anche se non è questa la sede per commentare siffatta ulteriore novella, è comunque da ritenere che, d’ora innanzi, le parti (soprattutto quella pubblica) ben mediteranno l’eventuale rifiuto di una proposta di mediazione.
Ciò posto, seppur il giudice non gioca alcun ruolo, né può in alcun modo intervenire nella fase della mediazione, può comunque trarre argomenti dal comportamento delle parti, non certo ai fini del decidere, ma ai fini della formulazione della proposta conciliativa, nel senso che la novella “corte” potrà dall’analisi del comportamento dei contendenti stabilire se vi è un margine di rinuncia alla proprie pretese che essi possano considerare ragionevolmente accettabile.
7. Due questioni conclusive
In conclusione di queste brevi riflessioni, appare opportuno quantomeno accennare a due ulteriori questioni: una specifica, rivolta al novello istituto, e l’altra di sistema.
La pima questione, quella specifica, attiene ancora una volta al ruolo del giudice nella conciliazione.
Non può sottacersi, infatti, che allorché venne introdotto l’art. 185-bis nel codice di rito (su cui, come detto, si modella il neo-introdotto art. 48-bis.1 del d.lgs. n. 546/92), la dottrina processualcivilistica ebbe ad osservare che «il cumulo di funzioni facilitative, valutative e aggiudicative a un tempo in capo alla medesima persona, come avviene nell’art. 185 bis c.p.c., non è mai un buon metodo per ricercare un’equa composizione della lite»[20]. Ed, invero, tutte le considerazioni dianzi fatte in ordine al complesso equilibrio che il giudice deve cercare di mantenere nel formulare una proposta conciliativa che sia, al contempo, idonea a suscitare la composizione della lite senza però manifestare anticipazioni del suo giudizio, dimostrano che in effetti il ruolo di conciliatore si addice maggiormente ad un organo “terzo”, diverso dal giudicante. Per cui - probabilmente - la soluzione migliore sarebbe stata quella di ipotizzare la figura di un giudice “conciliatore” esterno al giudizio che avrebbe così goduto di un più ampio margine di manovra senza avere il timore di compromettere la sua imparzialità.
Soluzione – questa – che pure era stata prospettata con la proposta di emendamento 2.38 all’A.S. 2636 (del 19 luglio 2022, a firma Pittella, Comincini, Mirabelli), che prevedeva di aggiungere dopo l’art. 48-bis.1, il 48-bis.2, a mente del quale le parti avrebbero potuto presentare al giudice una richiesta di apertura di una procedura conciliativa che, se accolta, sarebbe stata «curata da un apposito collegio giudicante» (composto da un presidente magistrato, da un membro designato dell’Amm. fin. e da un membro individuato dal contribuente fra gli avvocati e i commercialisti iscritti in un apposito albo).
Seppur l’intendimento dell’emendamento era in linea di massima condivisibile, la procedura prevista appariva però troppo complessa ed eccessivamente articolata. La conciliazione dell’apposito collegio giudicante (organo terzo), infatti, non era alternativa a quella del giudice, ma ad essa si cumulava (come detto l’emendamento prevedeva di aggiungere l’art. 48-bis.2 e non di sostituire il 48-bis.1), compromettendo eccessivamente il necessario requisito della celerità del giudizio. D’altro canto è difficile comprendere il motivo per cui, una volta che sia prevista l’apposita figura di un collegio di conciliazione esterno, debba essere mantenuta la funzione conciliativa anche in capo al iudex statutor.
Meglio sarebbe stato, forse, escludere la figura del “giudicante-conciliatore”, attribuire esclusivamente ad organo terzo la funzione conciliatrice e mantenere soltanto la previsione per cui, laddove la sentenza finale fosse risultata per la parte non accettante più sfavorevole rispetto alla proposta conciliativa, il giudicante avrebbe ad essa addebitato le spese in misura maggiorata.
La seconda questione attiene al valore-soglia delle liti conciliabili.
Le riflessioni versate in queste pagine (se condivise) ci convincono che il valore della lite poco ha a che fare con la sua conciliabilità. Un lite di modico valore, infatti, potrebbe non avere alcun grado di incertezza solutoria, essendo immediatamente chiaro chi abbia torto e chi ragione. Di contro una lite di valore elevato potrebbe avere tutte quelle caratteristiche, dianzi individuate, che comportano la necessità per il giudice di cercare una composizione adottando i canoni della ragionevole giustezza e della ragionevole accettabilità.
La questione, pertanto, si riduce ancora una volta all’individuazione del corretto perimetro delle liti conciliabili.
Se si ritiene che liti di facile e pronta soluzione siano quelle in cui il giudicante ha ben chiaro dove sta la ragione (anche parziale) e dove il torto (anche parziale), può avere un senso fissare un valore-soglia, poiché l’intendimento del legislatore sarebbe stato esclusivamente quello di concepire un istituto che possa sveltire la soluzione di queste ultime controversie, con esclusivo scopo deflattivo del contenzioso. Altrimenti detto, per le liti di modico valore, o comunque di valore contenuto (entro i cinquantamila euro), l’esigenza di amministrare giustizia cederebbe il passo all’esigenza deflattiva, per cui il giudice, anche se ha chiaro come decidere, può formulare una proposta conciliativa con il solo scopo di indurre la parte che riterrà (in tutto o in parte) soccombente ad accettarla, con l’obiettivo di chiudere la lite quanto prima. Rimane, però, il pesante fardello del vulnus al principio costituzionale d’imparzialità – che non viene certamente meno in ragione del valore contenuto della lite – poiché una siffatta proposta conciliativa suonerebbe più o meno come una vera e propria anticipazione di giudizio.
Viceversa, se si ritiene, come pensiamo debba farsi, che la conciliazione debba riguardare tutte le liti che presentano le caratteristiche che abbiamo cercato di descrivere in queste pagine (fluidità del decidere, margine di incertezza all’interno di un intervallo che è suscettibile di essere composto mediante una proposta che il giudice considera ragionevolmente giusta e ragionevolmente accettabile, ecc.), il valore della lite non sembra parametro che possa impattare su quelle caratteristiche, per cui la conciliabilità o meno della controversia non dovrebbe dipendere da un valore-soglia.
Invero, mutatis mutandis, analoghe considerazioni potrebbero farsi per l’istituto della mediazione, soprattutto in ragione del collegamento che il legislatore del 2022 ha creato fra la novella conciliazione del giudice e (l’ormai tradizionale) istituto del reclamo-mediazione. Considerazioni che, però, non attengono all’oggetto del presente contributo e che si rimandano pertanto ad ulteriori riflessioni.
[1] Di «storica introduzione di una magistratura tributaria di ruolo costituita da giudici a tempo pieno» parla M. BASILAVECCHIA, Riforma del processo tributario. Adesso ci siamo! (quasi)…, in IPSOA Quotidiano, 3 settembre 2022. Con toni fortemente critici avverso il disegno di legge di riforma si era invece espresso C. GLENDI, Riforma della giustizia tributaria. PNRR a rischio?, in Ipsoa Quotidiano, 4 giugno 2022, definendolo come «mini controriforma» con un contenuto che «risulta improntato, nell’insieme, in una proiezione di stampo ideologicamente verticistico ed autoritaristico, se non addirittura, vagamente totalitaristico e illiberale o, comunque, nient’affatto democratico».
[2] G. MELIS, Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio, in questa rivista, 30 giugno 2022, definisce il d.d.l. AS 2636 (sostanzialmente recepito nella legge n. 130 del 2022) come «una riforma “ordinamentale” con talune innovazioni processuali». Anche A. GIOVANARDI, La riforma della giustizia tributaria nel disegno di legge di iniziativa governativa AS/2636: decisivo passo in avanti o disastrosa iattura?, in Riv. telematica di dir. trib., 8 luglio 2022, definisce il d.d.l. in questione come una «riforma ordinamentale» che contiene la «riscrittura di alcune regole del processo». Sulle innovazioni in tema di prova apportate dalle riforma si veda S. MULEO, Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario, in questa rivista, 20 settembre 2022.
[3] Così A. TEDOLDI, Iudex statutor et iudex mediator: proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c., precognizione e ricusazione del giudice, in Riv. dir. proc., 2015, 983 ss.
[4] Sul tema la letteratura tributaria è ricchissima e non è possibile, in questa sede, indicarla compiutamente. Si richiamano, dunque, due recenti interventi in materia, rimandando all’amplia bibliografia ivi citata. In particolare si veda C. GLENDI, La “speciale” specialità della giurisdizione tributaria, in Specialità delle giurisdizioni ed effettività delle tutele (a cura di A. Guidara), Torino, 2021, 424 ss.; A. GUIDARA, Gli “oggetti” del processo tributario, in Specialità delle giurisdizioni ed effettività delle tutele cit., 436 ss.
[5] Così A. TEDOLDI, Iudex statutor et iudex mediator cit., 985.
[6] Proprio in ragione ciò è da ritenere che il nuovo art. 48-bis.1 avrà un notevole impatto sulla vexata quaestio (che in questa sede non può essere esaminata) della natura giuridica della conciliazione in ambito fiscale e dei suoi rapporti con il principio di indisponibilità del tributo. Per un essenziale riferimento a tale questione si veda G. CORASANITI, Mediazione e conciliazione nel processo tributario: lo stato dell’arte e le prospettive di riforma, in Dir. prat. trib., n. 3/2020, 965 ss., e la bibliografia ivi richiamata.
[7] Sul tema dei rapporti fra imparzialità del giudice e conciliazione giudiziale nel rito civile, senza alcuna pretesa di esaustività, si veda V. CAVALLONE, «Un frivolo amor proprio». Precognizione e imparzialità del giudice civile, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, Milano 2005, 45 ss; L. BREGGIA, Il tentativo di conciliazione e l’imparzialità del giudice, in Giur. merito, 2008, 571 ss.; A. TEDOLDI, op. cit., 987 ss.
[8] Per qualche essenziale riferimento al tema nella dottrina processualcivilistica, si veda F. FERRARI, sub art. 185 bis, in Consolo (diretto da), C.p.c. commentato, I, Milano, 2013; P. BONETTI, Nuovi orizzonti applicativi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. dopo l’introduzione della conciliazione giudiziale ex art. 185 bis c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ. 2015, 1047 ss.; A. TEDOLDI, op. e loco cit. Si vedano anche i riferimenti bibliografici della nota precedente.
[9] Il tema è ampiamente trattato da A. TEDOLDI, op. cit. 983 ss.
[10] Cfr. A. TEDOLDI, op. cit. 990 ss. ed i richiami bibliografici ivi citati.
[11] Come osserva A. TEDOLDI, op. cit., 994, «[i]n ogni caso, la “precognizione” impediente un secondo giudizio, come gli altri motivi di astensione obbligatoria e di ricusazione, nasce di regola ab extra rispetto al singolo processo assegnato a quel giudice-persona, per aver egli conosciuto aliunde del thema decidendum sottoposto al suo giudizio, in una delle molteplici vesti che il n. 4 dell’art. 51 c.p.c. individua, nel solco di ultrasecolare tradizione».
[12] A riguardo, la dottrina processualcivilistica ha chiarito che il divieto di «precognizione» ha la medesima ratio ispiratrice del divieto di scienza privata. In tal senso V. CAVALLONE, Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, in Riv. dir. proc. 2009, 861 ss.
[13] Cfr. ancora TEDOLDI, op. cit., 994, il quale osserva che «[l]a cognizione acquisita all’interno del processo, di regola, non può esser causa di astensione o di ricusazione, salvo che il giudice, abusando dei proprii poteri, non abbia manifestato un anomalo pregiudizio verso una parte, tale da far sorgere in questa un fondato timore di prevenzione […]».
[14] Come osserva F. CIPRIANI, Come si istruisce senza conoscere e come si giudica senza istruire (l’istruttore, il collegio e le sezioni distaccate di tribunale), in Foro it. 1999, I, 3376 ss., «non vi è ostacolo, anzi è perfettamente logico, che il giudice il quale ha pronunziato nella causa un provvedimento preparatorio o di istruzione, o una sentenza interlocutoria, conosca anche delle questioni incidentali successive e del merito; poiché la pronunzia dei detti provvedimenti è parte di attuazione di quel potere giurisdizionale che a lui compete di esercitare sulla controversia; e quand’anche il contenuto del provvedimento anteriore vincoli il giudizio, in tutto o in parte, ciò avviene per conseguenza legale e naturale dell’esercizio della funzione giudiziaria e non può dar luogo a ricusazione».
[15] Sul punto cfr. C. GLENDI, La tutela cautelare del contribuente nel processo tributario riformato (articolo 47 del d.lgs. n. 546 del 1992 e norme complementari), in dir. prat. trib., 1999, I, 99 ss.
[16] Così A. TEDOLDI, op. cit., 985.
[17] Su queste tematiche, quanto alla dottrina tributaria, il riferimento non può che correre a M. VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano, 2007; ID. Contributo allo studio dell’attuazione consensuale della norma tributaria, Perugia, 1996; Id., Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001.
[18] Su questi temi sia consentito il riferimento ad A. PERRONE, Fatto fiscale e fatto penale: parallelismi e convergenze, Bari, 2012.
[19] Con ciò non si intende sostenere che, nel rito tributario, l’istituto in commento sia applicabile alle sole questioni in fatto, ma che esse, proprio in ragione delle modalità di ricostruzione del fatto fiscale, sono quelle che maggiormente si prestano all’applicazione della conciliazione del giudice.
[20] Così A. TEDOLDI, op. cit., 988.
Il rinvio pregiudiziale come strumento di sviluppo degli ordinamenti
Convegno del Dottorato di ricerca in «Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali»
Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Giurisprudenza – Sede di Rovigo, Palazzo Angeli, c.so del Popolo 149, Rovigo 13 e 14 ottobre 2022
Ai sensi dell'art. 19, par. 3, del Trattato istitutivo dell'Unione europea, la Corte di giustizia dell'Unione europea è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale «sull'interpretazione del diritto dell'Unione europea o sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni [dell'Unione]». I relativi procedimenti, disciplinati dall'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e comunemente designati con l'espressione «rinvio pregiudiziale», possono (o debbono) essere attivati su domanda di una giurisdizione di uno degli Stati membri.
Nelle parole della Corte di giustizia, il rinvio pregiudiziale è «la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai Trattati», che permette all’ordinamento dell’Unione di mantenere la propria autonomia e peculiarità.
Per la Corte costituzionale italiana, il rinvio pregiudiziale «concorre ad assicurare e rafforzare [quel]l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali», ovvero il primato stesso del diritto dell’Unione.
La rilevanza del rinvio pregiudiziale, dunque, lungi dall’esaurirsi nel perimetro dei profili squisitamente “comunitari”, investe il sistema giuridico nazionale nella sua interezza. Esso costituisce il meccanismo che ha permesso, e tutt’ora permette, di sancire i più importanti principi dell’ordinamento dell’Unione europea, nonché di tutelare i diritti dei singoli attraverso un continuo adattamento e dialogo tra le legislazioni nazionali e quella dell'Unione europea.
A dimostrazione del suo rilievo “sistemico”, la dottrina è arrivata a definire il rinvio pregiudiziale una «procedura di infrazione dei cittadini», «un élément sacro-saint de l’héritage juridique européen», nel contempo però non esitando a considerarlo «victime de son succès», alla luce delle tensioni di cui la sua proposizione è sovente espressione, tensioni che vengono ora superate e sopite, ora acuite ed accentuate, dalle sentenze pronunciate dalla Corte di giustizia per rispondere ai quesiti che i giudici nazionali le sottopongono.
Si dice che la Corte di giustizia temesse che la procedura pregiudiziale – nata sulla scorta di diversi modelli, ma certamente su forte impulso della delegazione diplomatica italiana, almeno con riguardo al rinvio interpretativo – potesse risolversi in un fallimento, rimanendo sostanzialmente disapplicata; e che il timore fosse così forte e sentito che il deposito del primo quesito, proposto da un giudice olandese nel 1961, fu festeggiato commissionando l'acquisto di una cassa di champagne. Vero o falso che sia l’aneddoto, quel che è certo è che, da allora, il contenzioso pregiudiziale non si è più fermato, con oltre 11.000 procedimenti complessivamente instaurati su iniziativa di giudici appartenenti a tutti gli Stati membri dell’Unione (di cui più di 1.400 promossi da giudici italiani), costituenti attualmente il 67% del carico di lavoro della Corte di giustizia.
A sessant’anni esatti dalla sentenza che si pronunciò su quel primo, storico, rinvio, il Dottorato ferrarese in Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali dedica il convegno annuale al rinvio pregiudiziale e all'impatto che esso ha avuto e continua ad avere sull’ordinamento italiano, in ossequio alle proprie salde radici “comunitarie” e alla sua vocazione a indagare i diversi settori dell’ordinamento nazionale e le loro intersezioni con il diritto dell’Unione europea.
L’evento congressuale è stato preceduto da un’ampia attività di ricerca e catalogazione di tutti i rinvii pregiudiziali italiani dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona (1° dicembre 2009) al 31 dicembre 2021, compiuta dalle dottorande e dai dottorandi attualmente iscritti.
Esso vede la partecipazione di accademici, giudici e professionisti e mira a riflettere, in termini interdisciplinari, sulla disciplina presente e futura del rinvio pregiudiziale, nonché sulla sua capacità di far evolvere i diversi settori del diritto interno.
La prima sessione sarà dedicata allo studio dell’istituto giuridico, dalle sue origini ai suoi più recenti (e futuri) sviluppi, con particolare attenzione alla sua attitudine a stimolare il dialogo ed il confronto tra Corti supreme, nonché ad ispirare la creazione di analoghi modelli a livello nazionale.
La seconda sessione volgerà lo sguardo ai singoli settori del diritto interno, per misurare in concreto il suo impatto sistematico e la sua influenza sull'interpretazione e sull'applicazione giurisprudenziale dei principi, degli istituti, delle disposizioni normative che tali settori concorrono a comporre, nonché la sua effettiva capacità di vincolare l’agire di giudici, dell’Amministrazione, del legislatore e, più in generale, di cittadini e imprese.
La Corte di giustizia europea torna ancora sulla data retention
di Federica Resta*
La CGUE riafferma che la conservazione dei dati di traffico, a fini di contrasto dei reati, non può essere generalizzata, preventiva e indifferenziata ma soltanto “mirata” sulla base di criteri specifici. Esclude la possibilità del giudice di limitare gli effetti della declaratoria di invalidità della disciplina interna e prospetta le conseguenze invalidanti dell’acquisizione di elementi probatori sulla base di norme nazionali incompatibili con la disciplina europea. Si ribadisce, inoltre, la distinzione tra gli interessi relativi alla sicurezza nazionale e le esigenze di contrasto dei reati, anche gravi.
Sommario: 1. La sentenza VD – 2. La sentenza Space Net – 3. Le implicazioni delle pronunce.
1. La sentenza VD
Con le due sentenze in commento, la Corte di giustizia torna a occuparsi della disciplina della data retention, consolidando ulteriormente i principi affermati, in particolare, con la pronuncia del 5 aprile 2022, Commissioner of An Garda Síochána e a. (C‑140/20, EU:C:2022:258; in questa Rivista).
Con tale ultima sentenza, in particolare, la Corte di giustizia aveva chiarito che:
1) l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58/CE come modificata dalla direttiva 2009/136/CE non consente, a fini di contrasto della “criminalità grave e di prevenzione delle minacce gravi alla sicurezza pubblica” la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, ma ammette:
– la conservazione mirata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione che sia delimitata, sulla base di elementi oggettivi e non discriminatori, in funzione delle categorie di persone interessate o mediante un criterio geografico, per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario, ma rinnovabile;
– la conservazione generalizzata e indifferenziata degli indirizzi IP attribuiti all’origine di una connessione, per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario;
– la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi all’identità civile degli utenti di mezzi di comunicazione elettronica, e
– il ricorso a un’ingiunzione rivolta ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, mediante una decisione dell’autorità competente soggetta a un controllo giurisdizionale effettivo, di procedere, per un periodo determinato, alla conservazione rapida dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione di cui dispongono tali fornitori di servizi,
sempre che tali misure garantiscano, “mediante norme chiare e precise, che la conservazione dei dati di cui trattasi sia subordinata al rispetto delle relative condizioni sostanziali e procedurali e che le persone interessate dispongano di garanzie effettive contro il rischio di abusi”;
2) l’articolo 15, paragrafo 1, della citata direttiva 2002/58 è incompatibile con una “normativa nazionale in forza della quale il trattamento centralizzato delle domande di accesso a dati conservati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, provenienti dalla polizia nell’ambito della ricerca e del perseguimento di reati gravi, è affidato a un funzionario di polizia, assistito da un’unità istituita all’interno della polizia che gode di una certa autonomia nell’esercizio della sua missione e le cui decisioni possono essere successivamente sottoposte a controllo giurisdizionale”;
3) il diritto dell’Unione non consente la limitazione temporale, da parte del giudice, degli effetti di una declaratoria di invalidità di una normativa nazionale che impone ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, in quanto incompatibile con l’articolo 15, paragrafo 1, della citata direttiva 2002/58, pur essendo l’ammissibilità degli elementi di prova così ottenuti soggetta al principio di autonomia procedurale degli Stati membri, sempreché nel rispetto, in particolare, dei principi di equivalenza e di effettività.
Entrambe le sentenze del 20 settembre scorso (VD e Space Net rese nelle cause, rispettivamente, C-339 e 397/20 e C-793 e 794/19), riaffermano e sviluppano ulteriormente questi principi, ciascuna per un aspetto peculiare.
La prima sentenza (VD, C-339 e 397/20), muove da un rinvio pregiudiziale proposto dalla Corte di Cassazione francese, in un caso riguardante l’acquisizione- nell’ambito di un procedimento penale per i reati di abuso di informazioni privilegiate, abuso secondario di informazioni privilegiate, favoreggiamento, corruzione e riciclaggio- di dati di traffico conservati, per un anno, sulla base della disciplina nazionale rilevante. I quesiti sollevati dalla Corte di cassazione francese concernevano, in particolare:
– l’interpretazione della direttiva e del regolamento sugli «abusi di mercato» (artt. 12, par.2, lett.a) e d), direttiva 2003/6/CE e 23, par. 2, lettere g) e h), regolamento (UE) 596/2014), in combinato disposto con l’art. 15, par.1, della direttiva 2002/58/CE, letta alla luce della Cdfue e la compatibilità, con tale quadro normativo, delle misure legislative nazionali che impongono agli operatori di servizi di comunicazione elettronica, una conservazione generalizzata, preventiva e indiscriminata dei dati relativi al traffico per un anno a decorrere dal giorno della registrazione, a fini di contrasto dei reati di abuso di mercato;
– l’ammissibilità della provvisoria efficacia della normativa interna, laddove ritenuta incompatibile con la disciplina europea, per evitare un’eccessiva incertezza del diritto e consentire l’utilizzazione, a fini probatori, dei dati conservati in forza di tale normativa.
Nelle more della decisione della Corte di giustizia, peraltro, era sopravvenuta la sentenza del 21 aprile 2021 del Conseil d’État (French Data Network e altri: nn. 393099, 394922, 397844, 397851, 424717, 424718), con cui sono state dichiarate illegittime le disposizioni nazionali sulla conservazione generalizzata dei dati di connessione a fini di giustizia, ad eccezione della parte relativa alla conservazione degli indirizzi IP e dei dati relativi all’identità anagrafica degli utenti delle reti di comunicazione elettronica, in linea con la sentenza Cgue 6 ottobre 2020, La Quadrature du Net e a. (C‑511/18, C‑512/18 e C‑520/18, EU:C:2020:791).
Con la sentenza VD la Corte di giustizia dichiara oggi incompatibile, con l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce degli articoli 7, 8, 11 e 52, paragrafo 1, CDFUE, una normativa nazionale, quale quella considerata, che imponga agli operatori di servizi di comunicazione elettronica -a fini di contrasto dei reati di market abuse- - la conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati di traffico di tutti gli utenti dei mezzi di comunicazione elettronica, “senza che sia operata alcuna distinzione al riguardo o che siano previste eccezioni e senza che il rapporto richiesto, ai sensi della giurisprudenza menzionata al punto precedente, tra i dati da conservare e l’obiettivo perseguito sia dimostrato” (punto 94). Il richiamo alla giurisprudenza precedente (e, in particolare, alla sentenza del 5 aprile 2022) vale, dunque, a ribadire, sia pur indirettamente, i parametri di ammissibilità della conservazione dei tabulati lì delineati, ovvero criteri soggettivi, geografici o di altra natura (purché oggettivi e non discriminatori) tali da sottendere una relazione funzionale tra le esigenze investigative e il dato da acquisire.
La Corte ribadisce, peraltro, l’inammissibilità di una limitazione, nel tempo, della declaratoria di invalidità della normativa interna che imponga, agli operatori di servizi di comunicazione elettronica, la conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati di traffico e ne consenta la comunicazione all’autorità competente, senza previa autorizzazione di un organo giurisdizionale o di un’autorità amministrativa indipendente. Ne risulterebbero, altrimenti, minati il primato e l’esigenza di applicazione uniforme del diritto dell’Unione.
Riprendendo quanto affermato nella sentenza del 2 marzo 2021, H.K. c. Prokuratuur (C 746-18), la Corte precisa, inoltre, che la questione relativa all’ammissibilità degli elementi di prova ottenuti in applicazione delle disposizioni legislative nazionali incompatibili con il diritto dell’Unione è di competenza interna, conformemente al principio di autonomia procedurale degli Stati membri, ferma restando, comunque, l’osservanza dei principi di equivalenza ed effettività.
Relativamente a quest’ultimo principio, la Corte ricorda che esso impone al giudice nazionale di escludere informazioni ed elementi di prova ottenuti mediante la conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati di traffico e dei dati relativi all’ubicazione, sulla base di norme incompatibili con il diritto dell’Unione, o anche mediante un accesso dell’autorità competente a tali dati incompatibile con la disciplina europea, laddove la parte nei cui confronti siano utilizzati quegli elementi probatori non possa “svolgere efficacemente le proprie osservazioni in merito alle informazioni e agli elementi di prova suddetti, riconducibili a una materia estranea alla conoscenza dei giudici e idonei a influire in maniera preponderante sulla valutazione dei fatti” (punto 106).
2. La sentenza Space Net
Con la sentenza Space Net (C-793/19 e C-794/19), su rinvio pregiudiziale della Corte amministrativa federale tedesca, la Corte conferma l’incompatibilità, con il diritto dell’Unione, di una disciplina interna che preveda, per fini di “contrasto della criminalità grave e di prevenzione delle minacce gravi alla pubblica sicurezza”, la conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, a titolo preventivo .
In linea con il precedente del 5 aprile 2022, la Corte ribadisce anche la conformità, al diritto dell’Unione, di una disciplina nazionale che, per esigenze di salvaguardia della sicurezza nazionale, ammetta l’ingiunzione, nei confronti dei fornitori di servizi di comunicazione elettronica, della conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, “in situazioni nelle quali lo Stato membro interessato affronti una minaccia grave per la sicurezza nazionale che risulti reale e attuale o prevedibile” (dispositivo.).
Tale ingiunzione – precisa la Corte- deve poter essere oggetto di sindacato, con efficacia vincolante, da parte di un giudice o di un organo amministrativo indipendente diretto ad accertare l’esistenza dei presupposti legittimanti e delle condizioni e delle garanzie necessarie. Essa può, peraltro, essere emessa solo per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario, ma rinnovabile in caso di persistenza dei requisiti.
Parimenti conforme al diritto dell’Unione sarebbe una disciplina interna che, con la previsione di garanzie adeguate a contrastare il rischio di abusi:
a) a fini di salvaguardia della sicurezza nazionale, di contrasto dei “reati gravi e di prevenzione delle minacce gravi alla pubblica sicurezza”, legittimi:
– la conservazione mirata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione che sia delimitata, sulla base di elementi oggettivi e non discriminatori, in funzione delle categorie di persone interessate o mediante un criterio geografico, per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario, ma rinnovabile sussistendone i presupposti;
– la conservazione generalizzata e indiscriminata degli indirizzi IP attribuiti all’origine di una connessione, per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario;
– la conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati relativi all’identità anagrafica degli utenti di mezzi di comunicazione elettronica;
b) a fini di contrasto dei reati gravi e di salvaguardia della sicurezza nazionale, consenta di ingiungere ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, di procedere, per un periodo determinato, alla conservazione rapida dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione di cui dispongono.
Anche questa sentenza, dunque, ribadisce e sistematizza le conclusioni della pronuncia del 5 aprile scorso, ivi inclusa la distinzione (rilevante anche in termini di “gerarchia assiologica”) tra “criminalità particolarmente grave” e minacce “per la sicurezza nazionale”, la cui importanza “è maggiore rispetto a quella degli altri obiettivi di cui all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58” (punto 72) . In replica a un’eccezione della Commissione europea tesa ad equiparare i due presupposti, la Corte ha ribadito (punti 92-94) che la salvaguardia della sicurezza nazionale corrisponde “all’interesse primario di tutelare le funzioni essenziali dello Stato e gli interessi fondamentali della società, mediante la prevenzione e la repressione delle attività tali da destabilizzare gravemente le strutture costituzionali, politiche, economiche o sociali fondamentali di un paese, e in particolare da minacciare direttamente la società, la popolazione o lo Stato in quanto tale, quali le attività di terrorismo”. La Corte nota inoltre come, diversamente dalla criminalità, anche particolarmente grave, una minaccia per la sicurezza nazionale debba caratterizzarsi per requisiti di concretezza ed attualità o, quantomeno, prevedibilità, desumibili dalla ricorrenza di “circostanze sufficientemente concrete da poter giustificare una misura di conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, per un periodo limitato”. Tali diversità inducono la Corte a rigettare la tesi della Commissione volta ad equiparare la criminalità particolarmente grave alle minacce per la sicurezza nazionale, così introducendo, ad avviso dei giudici, una categoria intermedia tra la sicurezza nazionale e la pubblica sicurezza, applicando alla seconda i requisiti inerenti alla prima.
Confermato, rispetto alla giurisprudenza precedente, risulta anche l’ambito di ammissibilità della conservazione dei dati di traffico a fini di “giustizia”, possibile:
– in misura generalizzata e preventiva per gli indirizzi IP attribuiti all’origine di una connessione (per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario) e i dati relativi all’identità anagrafica degli utenti di mezzi di comunicazione elettronica;
– in forma “mirata” rispetto ai dati di traffico ed ubicazione, nel rispetto di criteri selettivi obiettivi e non discriminatori, di ordine soggettivo o geografico (tali cioè da evidenziare un nesso funzionale tra i dati e il reato da accertare), per un periodo temporalmente commisurato secondo stretta necessità;
– nella forma del “quick freeze” dei dati di traffico e di ubicazione.
3. Le implicazioni delle pronunce
Come già il precedente del 5 aprile 2022, anche le sentenze del 20 settembre hanno delle implicazioni rilevanti sulla disciplina vigente della data retention, già novellata (per esigenze di conformità alla citata pronuncia Cgue del 2 marzo 2021) dal d.l. 132 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla l. 178 del 2021.
La maggiore distanza tra la disciplina vigente e i principi affermati con la giurisprudenza, ormai consolidata, della Cgue, riguarda il criterio di selettività tale da escludere la massività della misura. La disciplina nazionale riferisce, infatti, il criterio selettivo al solo momento acquisitivo, concependo il criterio della gravità del reato come idoneo a modulare diversamente la profondità cronologica dell’acquisizione processuale, senza tuttavia incidere ex ante sulla conservazione. Si tratta di una soluzione certamente coerente con la natura “retrospettiva” di questo mezzo di ricerca della prova, che presuppone una conservazione indistinta in vista di un’acquisizione solo eventuale. Inoltre, essa rispecchia la posizione tenuta dalla Corte costituzionale in relazione alla diversa ingerenza, sulla privacy, della data retention, rispetto a quella propria delle intercettazioni, tale da giustificarne in quella prospettiva la differente disciplina (cfr., in particolare, sent. 81 del 1993, che ravvisava nell’acquisizione dei tabulati un’incidenza solo marginale sul diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni di cui all’art. 15 Cost.; posizione che, certo, si inseriva in un contesto sociale assai diverso da quello attuale e si riferiva a ben altre tecnologie).
La posizione della Corte di giustizia è, tuttavia, profondamente diversa e accentua l’impatto significativo della data retention sulla riservatezza di tutti i cittadini (nell’ipotesi, appunto, di una conservazione generalizzata, preventiva e indifferenziata) a prescindere da alcuna connessione con possibili reati.
La disciplina interna sembra, dunque, da rivedere, nella parte in cui, pur a fronte di una differenziazione per titolo di reato in fase acquisitiva presuppone, comunque, la conservazione preventiva e generalizzata dei dati di traffico relativi alla generalità indistinta dei cittadini, a fini di “giustizia”.
Si dovrà, dunque, ipotizzare una distinzione fondata sulla categoria dei dati, con un regime differenziato e meno rigido (tale dunque da ammettere, anche a fini di giustizia, la conservazione preventiva, sia pur per un tempo proporzionato) per quelli relativi all’identità anagrafica degli utenti e agli indirizzi IP.
Dovranno, poi, essere introdotti parametri di ordine soggettivo, spaziale e se del caso di altra natura (purché, appunto, oggettiva e non discriminatoria) tali da far presumere un nesso funzionale del dato con le esigenze investigative, sulla base dei quali procedere alla conservazione mirata dei dati di traffico e relativi all’ubicazione, da utilizzare a fini di contrasto di reati gravi (categoria da definire sempre secondo il principio di proporzionalità).
Si dovrà, inoltre, disciplinare la conservazione rapida e il relativo accesso con la previsione dei presupposti legittimanti e delle relative garanzie, ivi inclusi, probabilmente, procedimenti di convalida di provvedimenti urgenti, adottati per impedire che il decorso del periodo massimo di memorizzazione a fini commerciali vanifichi elementi probatori.
Rientra, invece, nella sfera di legittimità delineata dalla Corte la conservazione dei tabulati ai sensi dell’art. 4 d.l. 144 del 2005, convertito con modificazioni dalla l. 155 del 2005, in quanto funzionale a fini di sicurezza nazionale. Sul punto resta, tuttavia, da riflettere sull’opportunità di una giurisdizionalizzazione piena anche di questo procedimento acquisitivo, valorizzando la nozione di “giudice” e di indipendenza dell’organo deputato al controllo sulle operazioni conservative cui ricorre la Corte. Tale nozione dovrebbe, infatti, essere coerentemente letta alla luce dell’esigenza di terzietà richiesta, per l’organo titolare del potere autorizzatorio, dalla pronuncia H.K. del 2 marzo 2021 (punto 108, in particolare).
La revisione della disciplina interna della data retention, in senso conforme alle indicazioni ormai consolidate ed univoche della Corte di giustizia europea, rappresenta, dunque, un obiettivo importante che il prossimo Parlamento dovrebbe perseguire.
*Dirigente del Garante per la protezione dei dati personali-Le opinioni contenute nel presente contributo sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’Autorità).
Incertezza normativa e principio di autoresponsabilità degli operatori economici: sempre più verso una “Italia immobile”? (nota a Cons. Stato, IV, 19 aprile 2022, n. 2915)
di Clara Napolitano
Sommario: 1. I fatti. – 2. I limiti dell’affidamento riposto nell’atto illegittimo e la loro traslazione sull’atto normativo. – 3. Affidamento e attività normativa: itinerari di un conflitto. – 4. Affidamento, proporzionalità e ragionevolezza. – 4.1. Quando la norma peggiorativa può essere retroattiva: interessi pubblici, affidamento non legittimo, effetto ripristinatorio del giudicato. – 5. Cenni conclusivi.
1. I fatti
Un complesso appello, quello proposto al Consiglio di Stato da una società che contesta la legittimità di un atto ministeriale ritenuto lesivo dei propri interessi.
La vicenda sottesa alla pronuncia qui annotata si sviluppa nel giro di qualche anno, passiamone in rassegna i punti salienti.
Agli inizi degli anni 2000 sono predisposti tre programmi di agevolazione fiscale di durata pluriennale al fine di favorire l’avviamento del mercato nazionale di biodiesel: i programmi, ricevuta l’approvazione preventiva della Commissione europea circa la loro compatibilità con il divieto di aiuti di Stato di cui all’art. 108, par. 3, TFUE, sono disciplinati con due d.m. rispettivamente del 2003 e del 2008.
Con due sentenze del Consiglio di Stato – la n. 812/2012[1] e la n. 1120/2012[2] – sono poi annullate, in quei d.m., disposizioni concernenti i criteri di assegnazione ai produttori di biodiesel dei quantitativi di prodotto esenti dall’accisa prevista dalla legislazione vigente.
Nel vuoto normativo venutosi a creare, il Consiglio di Stato si pronuncia nuovamente – con sentenza n. 998/2014[3] – ordinando al Ministero di concludere il procedimento di adozione della nuova disciplina regolamentare: la quale, infine, è approvata col d.m. n. 37/2015.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, col nuovo decreto, nel dichiarato intento di conformarsi ai giudicati, prevede all’art. 3 la rideterminazione delle quote alle ditte precedentemente ammesse all’agevolazione, tenuto conto dei nuovi criteri individuati. La rideterminazione, ovviamente, vale “ora per allora” in ossequio agli effetti retroattivi dell’annullamento giurisdizionale.
Nasce qui la vicenda giurisdizionale che impegna il Consiglio di Stato: una società beneficiaria di quelle agevolazioni, nella consapevolezza di subire, con i nuovi criteri, una rideterminazione retroattiva in pejus delle quote di biodiesel esonerato dall’accisa, impugna il d.m. n. 37/2015 innanzi al Tar Lazio, sede di Roma.
Il Giudice amministrativo di prime cure rigetta il ricorso, respingendone integralmente i motivi: tra tutti, quello secondo il quale la società ricorrente avrebbe sofferto la lesione del suo legittimo affidamento stante la rimodulazione in pejus delle quote di biodiesel con norma retroattiva.
Per il Tribunale, l’irretroattività dei provvedimenti normativi costituisce invero un principio inderogabile soltanto con riferimento alla legge penale, mentre – relativamente al d.m. n. 37/2015 – non emergono profili di irragionevolezza o di violazione del principio di proporzionalità; inoltre, non v’è alcun legittimo affidamento ab origine, non vi sarebbe alcun legittimo affidamento tutelabile, in ragione della situazione di incertezza giuridica originata dai numerosi contenziosi intentati avverso i regolamenti poi annullati.
La pronuncia pone dunque nuovamente in luce la vexata quaestio della tutela dell’affidamento del privato nei confronti del potere amministrativo: non provvedimentale, stavolta, bensì regolatorio. Il tema ha risvolti di natura sostanziale, ovvero i limiti di legittimità dell’affidamento e le condizioni affinché questo possa ricevere protezione rispetto a un atto amministrativo restrittivo; e ricadute di tipo processuale, che investono la retroattività dell’annullamento giurisdizionale, i suoi effetti conformativi e ripristinatorii, nonché la vincolatività del giudicato rispetto all’Amministrazione che deve darvi esecuzione.
Non si può, infine, prescindere da un rilievo generalissimo: ovvero l’affermazione del principio di certezza giuridica, i suoi limiti e le sue concrete modalità di protezione in capo a operatori del mercato che sempre più sono responsabilizzati nel dialogo con l’Amministrazione pubblica[4].
2. I limiti dell’affidamento riposto nell’atto illegittimo e la loro traslazione sull’atto normativo
La pronuncia qui annotata si colloca nel solco di una corposa giurisprudenza in materia di tutela dell’affidamento riposto dal privato rispetto all’esercizio di un potere amministrativo per sé vantaggioso.
La tematica è stata da poco oggetto di due sentenze dell’Adunanza plenaria – la n. 19 e la n. 20 del 2021[5] – le quali hanno costruito il rapporto tra privato e p.A. in termini di correttezza e buona fede reciproci, sicché l’affidamento del privato nei confronti dell’attività amministrativa rileva – sì – ma solo laddove esso possa considerarsi oggettivamente e soggettivamente legittimo e incolpevole[6].
Deve precisarsi che il tema dell’affidamento emerge soprattutto quando il privato chieda tutela per aver ragionevolmente confidato nella legittimità di un provvedimento vantaggioso rivelatosi, poi, illegittimo e annullato dal Giudice amministrativo o in via di autotutela da parte della stessa Amministrazione. In quell’occasione, la Plenaria ha così individuato alcune condizioni al sussistere delle quali deve escludersi in radice la legittimità dell’affidamento del privato e, dunque, la sua protezione da parte dell’ordinamento. Due, in particolare, escludono il ragionevole affidamento sulla legittimità dell’atto: l’esistenza di vizi ictu oculi emergenti nell’atto e l’avvenuta impugnazione del medesimo da parte di un terzo, impugnazione della quale il privato abbia avuto conoscenza.
Ciò perché l’affidamento è meritevole di tutela solo quando esso sia, appunto, sorretto da un convincimento ragionevole rispetto alla correttezza della condotta dell’Amministrazione: la pura consapevolezza che quella condotta sia – o possa essere – tacciata d’illegittimità, o appaia ictu oculi illegittima, esclude la buona fede e dunque impedisce che l’ordinamento protegga colui che – in qualche misura – poteva ben avvedersi di star confidando su un atto illegittimo.
Ora, siffatta lettura è solo parzialmente utile, in questo caso.
Ciò in quanto la giurisprudenza della Plenaria si è appunto pronunciata, sì, sull’affidamento del privato: ma solo relativamente all’ipotesi nella quale costui, avendo erroneamente confidato nella conservazione di un vantaggio arrecatogli da un provvedimento illegittimo, pretenda tutela risarcitoria per l’avvenuto annullamento di quel provvedimento e il conseguente ripristino della legalità. Parliamo, insomma, dell’affidamento su provvedimento amministrativo vantaggioso illegittimo, annullato.
Qui, invece, il tema è sì l’affidamento nutrito nei confronti di un atto amministrativo: non di natura provvedimentale, però, bensì di natura normativa.
Gli appellanti, invero, non lamentano la lesione dell’affidamento per l’avvenuto annullamento degli atti illegittimi, bensì la loro sostituzione retroattiva con atti legittimi di diritto sopravvenuto.
Questo cambia il quadro.
Anzitutto è di immediato rilievo la distinzione tra provvedimento amministrativo e atto normativo – pur attribuibile alla p.A. – quale è il d.m. oggetto d’impugnazione.
Come affermato anche dallo stesso Consiglio di Stato[7] in uno dei giudizi che concernono la vicenda delle aliquote di biodiesel che qui interessano, il decreto ministeriale ha natura di atto normativo della p.A., iscrivendosi nella categoria degli atti regolamentari[8]: il regolamento è invero «definito atto amministrativo a contenuto normativo, poiché esso si presenta come atto formalmente amministrativo (in quanto adottato da una amministrazione pubblica), ma appartenente al novero delle fonti secondarie, stante il suo contenuto normativo, determinato dalla presenza di prescrizioni caratterizzate da generalità ed astrattezza, in grado di agire con carattere innovativo nell’ordinamento giuridico»; così, esso «si contraddistingue per i caratteri della generalità ed astrattezza delle proprie previsioni, poiché queste, per un verso, riguardano una pluralità indistinta e non determinabile di destinatari (potendosi, al massimo, circoscrivere pluralità o categorie di esse o collettività generali), il che ne determina, appunto, la “generalità”; per altro verso, tali previsioni si caratterizzano per la loro ripetibilità, e quindi applicabilità ad un numero indefinito di casi concreti (il che ne determina l’astrattezza). La caratterizzazione in termini di generalità ed astrattezza delle previsioni del regolamento ne determina anche l’ulteriore, necessario carattere della efficacia verso l’esterno delle sue norme».
D’altra parte, quel d.m., in quanto atto normativo attribuibile alla p.A., è distinguibile anche dagli altri atti amministrativi generali: «ciò che distingue i regolamenti dagli altri atti amministrativi generali (ad esempio, un bando di gara o di concorso) non è da rinvenirsi solo in aspetti formali (quali la autoqualificazione dell’atto come regolamento, ovvero il tipo di procedimento seguito per la sua adozione), ovvero nella circostanza che i destinatari di questi ultimi, in un primo tempo non determinabili, lo diventano in un momento successivo (e quindi nell’assenza di generalità); ma anche nella circostanza che gli atti amministrativi generali costituiscono espressione di potere della Pubblica Amministrazione volto alla cura di un interesse pubblico in riferimento ad un obiettivo concreto e determinato (la scelta del contraente, l’individuazione dei vincitori di un concorso da assumere), come tale destinato ad essere temporalmente circoscritto e strutturalmente esauribile».
Pertanto, i regolamenti si distinguono dagli atti amministrativi generali e dai provvedimenti amministrativi in quanto questi ultimi costituiscono espressione di una semplice potestà amministrativa e sono diretti alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati, ma determinabili.
Sicché, mentre nel caso dei regolamenti il fondamento del potere è individuabile nella predefinizione astratta della disciplina di un numero indefinito e non determinato nel tempo di casi rientranti nella fattispecie normativa, nel caso degli atti amministrativi generali esso è invece rappresentato dal concreto perseguimento di un interesse pubblico, programmaticamente circoscritto e temporalmente definito.
Il che determina l’ulteriore conseguenza (e distinzione) che, mentre l’efficacia dei regolamenti è temporalmente indefinita (e abbisogna, per la sua cessazione, di un ulteriore atto normativo), nel caso degli atti generali l’efficacia degli stessi si esaurisce con il concreto raggiungimento dell’interesse pubblico, la cui cura ha costituito la causa giustificatrice dell’esercizio del potere.
Così stanti le cose, il tema diventa non più l’affidamento sulla legittimità di un atto amministrativo poi annullato, bensì la confiance sulla conservazione dello status quo in ragione della sostituzione di quell’atto – di natura normativa – con uno jus superveniens peggiorativo avente efficacia retroattiva, in esecuzione di un giudicato.
3. Affidamento e attività normativa: itinerari di un conflitto
La protezione dell’affidamento in relazione a un’attività amministrativa di carattere sostanzialmente normativo è tematica che condivide profili di forte affinità con quella più generale del rapporto tra affidamento e legislazione.
Amplius, il rapporto tra cittadino e legislatore corre su più crinali parzialmente sovrapposti: la protezione dell’affidamento, il principio di continuità e quello di certezza del diritto.
Ora, mentre quest’ultimo innerva di sé gli ordinamenti democratici, costituendone il fondamento di riconoscibilità nella misura in cui garantisce la stabilità dei rapporti giuridici e la prevedibilità del dato normativo[9], l’affidamento e il principio di continuità hanno un ambito applicativo maggiormente circoscritto.
Mentre il principio di continuità viene in rilievo tutte quelle volte in cui si realizzi un mutamento normativo che segni una cesura rispetto al passato, il principio del legittimo affidamento emerge quando detto mutamento sia di segno retroattivo e incida su posizioni giuridiche ormai consolidate nel cittadino[10].
Il principio del legittimo affidamento è così posto a presidio di una situazione in cui il legislatore interviene con una norma o propriamente retroattiva – incidente in modo negativo su posizioni giuridiche soggettive consolidate – oppure impropriamente tale – poiché va a incidere su rapporti di durata modificandone l’assetto per il futuro[11].
Così letta, la tutela dell’affidamento costituirebbe un limite alla discrezionalità del legislatore – parliamo infatti di atti normativi – nell’elaborazione di norme sopravvenute regolatrici in senso peggiorativo: limite non di per sé assoluto, tale per cui v’è il divieto di normare in via retroattiva, seppur in pejus; bensì relativo, nel senso che quella retroattività, valutata come necessaria dal legislatore, dev’essere “governata”[12], magari con disposizioni transitorie, per proteggere quanto più possibile quei rapporti giuridici – ancora in itinere – nati nel regime normativo precedente di segno più favorevole.
La relatività del legittimo affidamento come limite alla retroattività degli atti normativi pregiudizievoli per i rapporti giuridici consolidati è, peraltro, sostenuta da una certa giurisprudenza costituzionale[13] che lo ha qualificato come limite cedevole rispetto ad altre esigenze giudicate inderogabili, per esempio di tipo finanziario.
Questo assetto sarebbe confermato – e per il vero lo afferma anche lo stesso Collegio nella sentenza qui annotata – dal fatto che la Costituzione sancisce il divieto di retroattività in riferimento alla sola legge penale[14]: lasciando così all’affidamento il ruolo, appunto, di “governatore” delle norme che dispongono anche per il passato.
4. Affidamento, proporzionalità e ragionevolezza
In questo suo momento applicativo, l’affidamento si accompagna necessariamente al principio di ragionevolezza: che può esser riletto, anzitutto, con lo strumentario del principio di proporzionalità.
In altre parole, stante una generale, ampia ammissibilità di norme retroattive peggiorative, tenendo conto del limite del legittimo affidamento, bisogna sempre verificare che la norma retroattiva non frustri irragionevolmente od oltremodo l’affidamento medesimo.
Entra, quindi, in gioco, come detto, lo «strumentario concettuale»[15] del principio di proporzionalità.
Per un verso, infatti, bisogna valutare che la norma retroattiva sia di per sé ragionevole, intesa la ragionevolezza quale sua idoneità a perseguire – o a favorire sensibilmente il perseguimento – dell’obiettivo del legislatore (primo step del c.d. test di proporzionalità); in secondo luogo, andrà valutata la sua necessarietà, ovvero l’idoneità in concreto, l’assenza di valide alternative di intervento per il legislatore, che siano meno negativamente incidenti sulle posizioni giuridiche soggettive che si oppongono al cambiamento normativo in parola (secondo step del c.d. test di proporzionalità). Infine, valutate la idoneità e la necessarietà, dovrà esser valutata la ragionevolezza specifica della norma, ovvero dovrà esserne esaminata la proporzionalità in senso stretto e, in particolare, delle sue componenti propriamente o impropriamente retroattive. Come ritenuto dalla dottrina, a questo punto, «se non vi è valida alternativa rispetto ad un intervento normativo, che appare idoneo e necessario per il raggiungimento di un fine inderogabile di diritto pubblico, allora non resta che valutare se il sacrificio che la nuova norma impone al privato – e, nello specifico, al suo legittimo affidamento – non sia tale da imporre di rinunciare comunque all’emanazione della nuova normativa, perché il peso dell’interesse pubblico non è tale da poter prevalere sugli interessi privati contrapposti. Ma, se così non è (come nella maggior parte delle ipotesi, per il vero), allora non resta che ragionare in termini di diritto intertemporale: valutando, cioè, l’adeguatezza delle misure transitorie a fungere da giusto contrappeso rispetto al sacrificio imposto al privato e, in particolare, al suo legittimo affidamento»[16].
L’accortezza dell’inserimento di disposizioni transitorie, di diritto intertemporale, è peraltro superflua e non necessaria laddove la successione di norme sia di per sé prevedibile; quando cioè l’affidamento maturi su atti normativi il cui esito abrogativo è oggettivamente prevedibile, esso non impedirà l’elaborazione di atti normativi sopravvenuti con efficacia retroattiva: «Quest’ultimo, infatti, non potrà invocarsi in ipotesi di reformatio in peius del trattamento giuridico nei casi in cui detto mutamento normativo di segno sfavorevole risultasse prevedibile o conoscibile potendosi configurare il sorgere di una situazione di vantaggio, idonea a ingenerare affidamento, esclusivamente nel caso in cui il mutamento sfavorevole per il cittadino non fosse prevedibile. In ragione di ciò, risulta di immediata evidenza come non si possano invocare affidamenti di fronte a forme di esercizio dell’attività legislativa che si caratterizzino naturaliter per un’intrinseca instabilità»[17].
La medesima ragionevolezza, in altre parole, consente la retroattività di norme che non siano di diritto penale, laddove un interesse pubblico la richieda; impone, al tempo stesso, che l’affidamento del cittadino costituisca un elemento di governo della retroattività, per esempio tramite l’imposizione di disposizioni transitorie; e però, lo impone solo allorché l’affidamento del cittadino possa ritenersi legittimo, dal punto di vista oggettivo e soggettivo.
4.1. Quando la norma peggiorativa può essere retroattiva: interessi pubblici, affidamento non legittimo, effetto ripristinatorio del giudicato
Orbene, quanto alla retroattività delle disposizioni successivamente intervenute, il Consiglio di Stato richiama il corposo excursus giurisprudenziale in materia di tetti di spesa, per il quale «la determinazione in corso d’anno dei “tetti di spesa”, che dispieghino i propri effetti anche sulle prestazioni già erogate, non può considerarsi, in quanto tale, affetta da illegittimità»[18].
Si tratta, come noto, di un tema sul quale è intervenuta una decina d’anni fa l’Adunanza plenaria, proprio per dirimere il contrasto tra due orientamenti opposti[19]: il primo escludente la legittimità della fissazione di tetti in via retroattiva, specie quando intervenga in un periodo avanzato dell’anno, poiché finisce per ledere l’autonomia e l’integrità delle scelte imprenditoriali, alterando gravemente le dinamiche concorrenziali tra erogatori pubblici e privati; il secondo che invece la riteneva legittima (anzi fisiologica, attesa la complessità del procedimento di quantificazione delle risorse disponibili, del quale essa costituisce solo l’atto terminale). Aderendo al secondo indirizzo, la Plenaria ha poi determinato un aggravamento dell’istruttoria da parte dell’Amministrazione in termini di contraddittorio e partecipazione specie per la tutela dell’affidamento degli operatori economici per esigenze di certezza e stabilità degli investimenti[20].
È evidente, insomma, che l’esistenza di un interesse pubblico specifico e concreto – spesso di matrice economico-finanziaria – legittima un intervento normativo retroattivo in grado di frustrare l’affidamento degli operatori, purché ne sussistano i requisiti di ragionevolezza e proporzionalità.
Intervento che, di per sé, risulta a questo punto ragionevole anche – anzi, soprattutto – laddove debba escludersi in radice la legittimità dell’affidamento riposto dall’operatore: laddove egli, cioè, potesse prevedere l’instabilità normativa e la successione di norme. Mentre nell’ambito del potere legislativo questo dato è generalmente riferito – come accennato – alle norme su decretazione d’urgenza o a quelle delegate, di per sé instabili, bisogna qui rammentare che ci si trova nell’ambito del potere normativo/regolatorio dell’Amministrazione.
La traslazione comporta un adattamento della ragionevolezza: qui si esclude l’affidamento dell’operatore quando – esattamente come accade con i provvedimenti amministrativi illegittimi – egli sia a conoscenza del contenzioso (o addirittura ne sia parte processuale) nel quale quell’atto regolatorio è impugnato e possa, dunque, prevedere il contenuto delle nuove disposizioni normative perché questo è già presente negli indirizzi ermeneutici della sentenza di annullamento pronunziata all’esito del medesimo contenzioso.
Così pronuncia il Collegio nella sentenza qui annotata: «la tutela del legittimo affidamento è ormai considerato un canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo. […] In linea generale, in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento” (Cons. Stato, Ad. pl., 29 novembre 2021, n. 21; sulla stessa linea in precedenza Ad. plen., n. 19 del 2021). […] 14.5. I principi suesposti sono chiaramente estensibili anche al giudizio di annullamento, nel quale si controverta dell’asserita illegittimità di una soluzione regolamentare o provvedimentale approntata dall’amministrazione, in quanto essi sono riferiti alla qualificazione dell’affidamento come “legittimo” e, dunque, al predicato (fondamentale, ai fini della tutela in giudizio) di ciò che costituisce oggetto della tutela accordata dall’ordinamento (non l’affidamento “in sé e per sé”, ma l’affidamento in quanto, soggettivamente ed oggettivamente, “legittimo”). […] 14.6. Ebbene, con riferimento al caso in esame, i giudizi di annullamento culminati nelle sentenze nn. 812/2012 e 1120/2012 si sono svolti anche nei confronti dell’odierna appellante, intimata in qualità di controinteressata e, dunque, pienamente a “conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento”».
All’interesse finanziario da perseguire e all’assenza in radice d’una legittimità dell’affidamento nutrito dall’operatore economico si aggiunge, poi, la ragione puramente processuale dalla quale scaturisce, per il Collegio, la legittimità della scelta normativa retroattiva.
V’è, infatti, «piena esplicazione degli effetti c.d. ripristinatori e quindi fisiologicamente retroattivi del giudicato di annullamento (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. nn. 5 del 2019, 1 del 2018, 4 e 5 del 2015; Corte di giustizia UE, sez. II, 14 maggio 2020, C-15/19), il quale, nei limiti del noto brocardo secondo cui factum infectum fieri nequit, tende a riportare la situazione “di fatto” a conformità con quella “di diritto”, la quale ultima, evidentemente, non era quella prefigurata» dai d.m. annullati nel 2012, bensì dal d.m. n. 37/2015, «attuativo dei principi formulati da questo Consiglio con i giudicati di annullamento del 2012 e ritenuti compatibili con la disciplina euro-unitaria dalla sentenza della Corte di giustizia».
In altre parole, anche se il precedente assetto normativo travolto dalla sentenza di annullamento ha indirizzato le scelte imprenditoriali e produttive degli operatori economici, non v’è per loro alcuna tutela e la nuova disciplina vale legittimamente “ora per allora”[21].
A questo proposito, il Collegio richiama una corposa mole di precedenti in base ai quali l’adozione di un atto amministrativo anche regolatorio “ora per allora” è legittima per conseguire gli effetti ripristinatorii della sentenza di annullamento, i quali si accompagnano a quelli eliminatorii dell’atto illegittimo e conformativi per il ri-esercizio del potere[22].
A ciò si accompagna un richiamo al principio di autoresponsabilità, per il quale «la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, anche processuale, contraria al principio di buona fede e al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati, recide il nesso causale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la presunta condotta antigiuridica alle conseguenze risarcibili (Cons. Stato, sez. V, 2 febbraio 2021, n. 962)».
In altre parole, secondo il Collegio, l’imprenditore che è a conoscenza dell’avvenuta impugnazione del regolamento e, in particolare, di quelle disposizioni che riguardano la ripartizione delle risorse (e, dunque, le quote spettanti e quelle che spetteranno) non può dolersi di aver “ragionevolmente” e “legittimamente” confidato (cioè “fatto affidamento”) sull’intangibilità di quelle risorse, potendo (ove lo ritenga opportuno) orientare la sua attività produttiva, tenendo conto delle conseguenze che potrebbero scaturire da un eventuale annullamento dell’atto regolatorio e dalla successiva individuazione di diversi criteri di ripartizione delle quote di aiuto di Stato erogate.
5. Cenni conclusivi
La sentenza qui annotata mostra il costante conflitto ormai esistente tra operatori economici e Amministrazioni. Un conflitto regolato dal Giudice amministrativo facendo richiamo ai principi generali del Diritto amministrativo: i quali, tuttavia, sembrano – ad avviso di chi scrive – non essere perfettamente attagliati alle vicende per le quali è causa.
I fatti, a questo punto, sono ben noti: si tratta di imprenditori che hanno operato le loro scelte strategiche nell’ambito di un quadro normativo non più attuale, nelle more sostituito – a seguito di giudicato – da una disciplina deteriore e retroattiva, pertanto lesiva dei loro interessi.
Qualora questa vicenda si fosse verificata con la successione nel tempo di norme di legge, espressione appunto del potere legislativo, è plausibile che l’affidamento degli operatori economici avrebbe ottenuto protezione – in quanto legittimo – tramite l’emanazione di norme di diritto intertemporale e transitorie.
Poiché però la cornice normativa di riferimento non era fornita da un atto di fonte legislativa, bensì da un atto di fonte amministrativa espressione di potere regolatorio, il parametro utilizzato dal Giudice nella definizione della controversia è stato quello della tutela dell’affidamento rispetto al provvedimento amministrativo favorevole illegittimo.
Con una inevitabile conseguenza derivata.
E cioè che, richiamando il principio di autoresponsabilità, è esclusa la legittimità dell’affidamento nutrito dall’operatore economico quando per costui sia prevedibile che il quadro normativo nell’ambito del quale sta compiendo le sue scelte strategiche sia precario a causa di un probabile annullamento giurisdizionale: conseguentemente, ne è esclusa la tutela.
Il punto, però, non pare centrato. Perché ciò che qui è messo in discussione non è la precarietà degli effetti del quadro normativo giurisdizionalmente annullato, bensì la retroattività “ora per allora” della regolazione amministrativa successiva.
Regolazione il cui sindacato sfugge – diversamente dalle pronunce di prime cure – ai parametri di ragionevolezza e proporzionalità: i quali, ove fossero stati applicati, avrebbero potuto condurre a una forma di tutela degli operatori economici – quanto meno indennitaria – derivante dalla successione di norme nel tempo.
Invece quegli operatori sono stati richiamati all’ossequio al principio di autoresponsabilità, che ancora una volta viene utilizzato in modo tranchant: tanto da invitare l’operatore a non compiere alcuna scelta imprenditoriale se basata su una disposizione la cui legittimità è sub iudice. Non v’è dubbio che, qui, l’autoresponsabilità conduca a una sorta di estremo principio di precauzione: che tuttavia mal si sposa con il mondo imprenditoriale, sospinto verso continue scelte che – pur ponderate – non possono sospendersi a causa della perdurante incertezza del quadro normativo, la quale – a sua volta – diventa un bagaglio troppo pesante per cadere esclusivamente sulle spalle degli operatori economici[23].
[1] Cons. Stato, IV, 16 febbraio 2012, n. 812: «[…] il Collegio annulla l’art. 4, comma 2, del D.M. 25 luglio 2003 n. 256, ed i provvedimenti attuativi delle predette disposizioni […] di assegnazione del quantitativo di B. in esenzione e/o agevolato per le annualità 2006, 2007 e 2008 […]. Per effetto del disposto annullamento e del conseguente obbligo conformativo alla presente pronuncia gravante sull’amministrazione, quest’ultima dovrà procedere a rideterminare i criteri di assegnazione del quantitativo di B. in esenzione e/o agevolato, in luogo di quanto già disposto dall’annullato art. 4, co. 2 D.M. n. 256/2003, e, quindi, dovrà riprocedere ad assegnazione per gli anni 2006, 2007 e 2008».
[2] Cons. Stato, IV, 28 febbraio 2012, n. 1120, di tenore analogo alla n. 812: «in accoglimento dei motivi di appello ora considerati, e dei motivi (per il tramite di essi riproposti) di cui al ricorso instaurativo del giudizio di I grado, il Collegio annulla l’art. 3, comma 4, del D.M. 3 settembre 2008 n. 156. Per effetto del disposto annullamento e del conseguente obbligo conformativo alla presente pronuncia gravante sull’amministrazione, quest’ultima dovrà procedere a rideterminare i criteri di assegnazione del quantitativo di biodiesel in esenzione e/o agevolato».
[3] Cons. Stato, IV, 4 marzo 2014, n. 998: «[…] la Sezione ritiene di dover limitare la decisione di accoglimento dei ricorsi all’ordine all’Amministrazione di concludere il procedimento di adozione della nuova disciplina regolamentare in un termine perentorio, che si stima equo fissare in 120 giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza. Qualora questo termine dovesse infruttuosamente spirare, su richiesta di parte, potrà essere valutata l’opportunità di far ricorso all’ulteriore misura della nomina di un Commissario ad acta col compito di provvedere in sostituzione dell’Amministrazione».
[4] In proposito v. i numerosi appelli di M.A. Sandulli, la quale parla di “norme-trappola per i privati” (Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e PA o il Recovery è inutile, in Giustiziainsieme.it); di recente anche la sua intervista a Michele Corradino, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato e già Consigliere dell’Autorità Nazionale Anti Corruzione, nonché autore di «L’Italia immobile. Appalti, burocrazia, corruzione. I rimedi per ripartire», edito da Chiarelettere nel novembre 2020. L’intervista è sempre su Giustiziainsieme.it. Al titolo del libro è volutamente ispirato il titolo di questo piccolo contributo.
La sfiducia degli investitori e degli operatori economici nel nostro Paese trova, peraltro, terreno fertile nella confusione tra le categorie giuridiche: si pensi alla scarsa intellegibilità tra «falsità», «mendacio» e «non veridicità» dell’autocertificazione. In un’era nella quale, con progressive stratificazioni normative, il privato è stato investito di un sempre più gravoso principio di autoresponsabilità nel dichiarare fatti e stati all’Amministrazione, al fine di alleggerirne il percorso burocratico, di fatto costui è privo di idonee garanzie, poiché rischia di vedersi applicate sanzioni ex D.P.R. n. 445/2000 e di subire atti di autotutela amministrativa in deroga ai termini di legge. Ciò in quanto, se il sistema ordinamentale – condivisibilmente –non tutela l’affidamento di chi dichiara il falso alla p.A. (e quindi agisce con intento decettivo), al contrario dovrebbe evitare d’irrogare sanzioni per «qualsiasi, preteso, “errore” di ricostruzione e valutazione del quadro tecnico e normativo di riferimento imputabile all’interessato anche nella dichiarazione di circostanze (come il generico possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla normativa di riferimento) sulle quali (a differenza di quelle risultanti dagli atti di certazione) i poteri pubblici (legislativo, amministrativo e giurisdizionale) o la realtà fattuale (dati inconfutabili, come il peso, la misura, ecc.) non offrono certezza»: v. in proposito lo scritto di M.A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione «non veritiera», in Giustiziainsieme.it, 15 ottobre 2020, dal quale è tratta quest’ultima citazione.
[5] Sia qui consentito il rinvio a C. Napolitano, Potere amministrativo e lesione dell’affidamento: indicazioni ermeneutiche dall’Adunanza plenaria, in Riv. giur. ed., n. 1/2022, pp. 3 ss.
[6] Cons. Stato, ad. plen., n. 20/2021, cit.: «L’affidamento tutelabile in via risarcitoria deve essere ragionevole, id est incolpevole. Esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’Amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, in cui il privato abbia senza colpa confidato».
[7] Già citato Cons. Stato, IV, n. 812/2012.
[8] L’ambiguità delle fonti del diritto amministrativo, necessariamente flessibili e connotate da atipicità, è ben descritta nel suo contesto storico da M. Mazzamuto, L’atipicità delle fonti nel diritto amministrativo, in Dir. amm., n. 4/2015, pp. 683 ss.: «Un’altra vicenda significativa, ma specifica del nostro ordinamento, è, a cominciare dagli anni cinquanta dello scorso secolo, quella del confine intercorrente tra i regolamenti e i cd. “atti amministrativi generali”. Sono note le traversie che hanno toccato talune rilevanti fattispecie (dai provvedimenti che stabiliscono prezzi o tariffe ai piani urbanistici o ai bandi di concorso o di gara), ove si sono nuovamente riversate le incertezze concettuali della nozione di norma giuridica, questa volta coinvolgendo per lunghi anni la stessa giurisprudenza in un'alternanza di qualificazioni contrastanti. Per quanto, almeno al livello giurisprudenziale, certe vecchie questioni si siano sostanzialmente sopite, il confronto rimane sempre vivo col sopravvenire di nuove fattispecie, ed è ancora impregiudicato il versante degli atti regolativi delle autorità amministrative indipendenti. Non sorprende così che la giurisprudenza abbia ritenuto nella sua sede più autorevole di consolidare un (in verità sempre relativo) criterio generale di distinzione che, per l’atto amministrativo generale, collega in sostanza difetto di astrattezza e determinabilità a posteriori dei destinatari. Sullo sfondo di questa variegata concorrenza qualificatoria aleggia il problema del rispetto delle garanzie di competenza o di formazione dei regolamenti (ove previste, come nel caso dei regolamenti statali: L. n. 400/88) e più in generale del “fondamento” stesso del potere regolamentare. L'utilizzo di criteri sostanziali per l'individuazione di un regolamento lascia infatti di per sé impregiudicati i suddetti profili che potrebbero inficiare la validità dell'atto. Così, ad es., una circolare qualificata come regolamento viene annullata per difetto di competenza dell'Assessore regionale, spettando la potestà regolamentare alla Giunta regionale o un decreto ministeriale qualificato come regolamento viene annullato perché, in assenza di espressa deroga legislativa, doveva sottoporsi al procedimento previsto per i regolamenti ministeriali».
[9] V. in proposito P. Carnevale, I diritti, la legge e il principio di tutela del legittimo affidamento nell’ordinamento italiano. Piccolo divertissement su alcune questioni di natura definitoria, in Scritti in onore di Alessandro Pace, III, 2012, 1939.
[10] V. in proposito l’ampio affresco di F.F. Pagano, Il principio di affidamento nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, in Gruppodipisa.it, poi in Dir. pubbl., n. 2/2014, pp. 583 ss., per il quale il principio di continuità è «una fattispecie ben distinguibile dalla tutela di un legittimo affidamento, atteso che questi si radica in tutti quei casi in cui l’intervento legislativo, di segno retroattivo, incide in modo negativo su posizioni giuridiche soggettive ormai maturate dal cittadino. Oppure, in tutte quelle fattispecie di retroattività impropria in cui la norma incide su rapporti di durata modificandoli per il futuro e frustrando le aspettative maturate dalle parti. Benché, in siffatta ipotesi, le situazioni giuridiche soggettive siano solo in parte consolidate, atteso che il loro consolidamento definitivo è necessariamente proiettato nel futuro. Orbene, tanto in caso di retroattività propria quanto in quello di retroattività impropria, la condotta del cittadino si è conformata ad un’aspettativa giuridicamente rilevante, circostanza che rende netta la distinzione rispetto al più generale principio di continuità che, come già accennato, si sostanzia, invece, in una più generica esigenza di non discontinuità della normazione», p. 4.
[11] Così, D.-U. Galetta, Legittimo affidamento e leggi finanziarie, alla luce dell’esperienza comparata e comunitaria: riflessioni critiche e proposte per un nuovo approccio in materia di tutela del legittimo affidamento nei confronti dell’attività del legislatore, in Foro amm. Tar, n. 6/2008, pp. 1899, la quale prosegue: «Le posizioni giuridiche soggettive esistenti sono, in questa seconda ipotesi, solo in parte consolidate, poiché il loro definitivo consolidamento è necessariamente proiettato nel futuro. Comune ad entrambe le ipotesi è, in ogni caso, la circostanza che la condotta del cittadino si è conformata ad un’aspettativa giuridicamente fondata che è all’origine di una serie di disposizioni relative ai propri diritti di libertà (e, quindi, non solo di carattere patrimoniale) basate, appunto, sulla permanenza della situazione creata dalla norma che viene invece modificata. Sicché il principio di tutela del legittimo affidamento è posto a presidio stesso dei diritti di libertà del cittadino».
[12] F.F. Pagano, Il principio di affidamento, cit.: il principio del legittimo affidamento «attiene al rapporto fiduciario esistente tra governanti e governati e alla pretesa di stabilità della disciplina legislativa pregressa in base alla quale i governati abbiano maturato posizioni di vantaggio. In tal modo, questi divengono titolari di un interesse alla salvaguardia di dette posizioni nei riguardi dell’azione dei pubblici poteri, in specie del potere legislativo, rispetto alla discontinuità del legiferare. Circostanza, questa, che presuppone una stabilità già raggiunta; ossia un consolidamento e una stratificazione di posizioni soggettive che giustifichino una pretesa al perdurare di una stabilità ormai conseguita. Si badi bene, questo non significa che il principio di affidamento si appalesi come statico e quindi necessariamente votato alla conservazione e al mero mantenimento dello status quo. Piuttosto, questi si pone come espressione di un’istanza volta a realizzare una sorta di governo della trasformazione, ossia un’istanza finalizzata a governare il cambiamento e a circoscrivere gli effetti pregiudizievoli del mutamento, sia esso normativo o amministrativo, nei confronti della situazione pregressa ormai stratificatasi. Proprio in questa prospettiva di governo della trasformazione, si collocano quelle norme transitorie che accompagnano le leggi di reformatio in peius e che consentono un graduale passaggio dal vecchio al nuovo sistema con il fine, non sempre pienamente riuscito, di salvaguardare le posizioni di vantaggio maturate. In tal senso, il principio di affidamento, in quanto volto a regolare le problematiche sottese al passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, si presenta come dinamico e contrapposto ad una certezza del diritto che, come si avrà subito modo di dire, si caratterizza, invece, come rispondente ad un’esigenza di staticità e di resistenza al cambiamento», p. 5.
[13] Corte cost., 17 dicembre 1985, n. 349: «nel nostro sistema costituzionale non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.)»; pur tuttavia «Dette disposizioni [...] al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto ». V. anche Corte cost. n. 374 del 2000.
[14] F.F. Pagano, Il principio di affidamento, cit.: «se agli inizi del XX secolo si era soliti ammettere leggi retroattive esclusivamente in “circostanze eccezionali e per motivi di interesse pubblico e con le limitazioni richieste dall’equità” e per la tutela di “diritti sacri dell’uomo” scaturenti dalla “legge esterna e imprescindibile di natura”, dopo la costituzionalizzazione del divieto di retroattività con riferimento alla sola materia penale, chiarito come l’art. 25 non potesse rappresentare un limite alla discrezionalità del legislatore in ordine al ricorso a norme retroattive in materia non penale, le riflessioni di una parte degli studiosi, lungi dal continuare a ritenere eccezionale il ricorso a siffatte disposizioni, si sono concentrate, più semplicemente, sul tentativo di individuare i paletti di detta discrezionalità onde circoscriverla. In particolare, si è fatto riferimento al principio di ragionevolezza, che in alcune riflessioni è addirittura additato quale “unico limite alle leggi retroattive”. In questo contesto si inserisce il principio del legittimo affidamento inteso quale ulteriore limite alla possibilità per il legislatore di far ricorso a discipline che producano effetti per il passato».
[15] D.-U. Galetta, Legittimo affidamento, cit., dal quale pure sono ripresi i passi qui citati nel corpo del testo.
[16] D.-U. Galetta, Legittimo affidamento, cit.
[17] Sempre F.F. Pagano, Il principio di affidamento, cit., che si riferisce alle ipotesi di decretazione d’urgenza o delega legislativa con possibilità per il governo di emanare ulteriori atti modificativi o correttivi.
[18] Cfr. Cons. Stato, ad. plen., 12 aprile 2012 n. 3 e 4; Id., III, 7 marzo 2012, n. 1289; 23 dicembre 2011, n. 6811; 7 dicembre 2011, n.. 6454; 17 ottobre 2011, n. 5550; 29 luglio 2011, n. 4529; Id., V, 8 marzo 2011, n. 1431; 28 febbraio 2011, n. 1252; Id., ad. plen., 2 maggio 2006 n. 8.
[19] V. in proposito G. Fares, Sanità. La retroattività dei tetti di spesa dopo l’Adunanza plenaria, in Il libro dell’anno 2016, Treccani, in www.treccani.it.
[20] Cons. Stato, ad. plen., n. 3/2012, cit.: «la tutela di tale affidamento richiede che le decurtazioni imposte al tetto dell’anno precedente, ove retroattive, siano contenute, salvo congrua istruttoria e adeguata esplicitazione all’esito di una valutazione comparativa, nei limiti imposti dai tagli stabiliti dalle disposizioni finanziarie conoscibili dalle strutture private all’inizio e nel corso dell’anno. Più in generale, la fissazione di tetti retroagenti impone l’osservanza di un percorso istruttorio, ispirato al principio della partecipazione, che assicuri l’equilibrato contemperamento degli interessi in rilievo, nonché esige una motivazione tanto più approfondita quanto maggiore è il distacco dalla prevista percentuale di tagli. Inoltre, la considerazione dell’interesse dell’operatore sanitario a non patire oltre misura la lesione della propria sfera economica anche con riguardo alle prestazioni già erogate fa sì che la latitudine della discrezionalità che compete alla regione in sede di programmazione conosca un ridimensionamento tanto maggiore quanto maggiore sia il ritardo nella fissazione dei tetti».
[21] Queste le parole del Collegio: «Il quadro così delineato inclina a ritenere che l’amministrazione disponga di un ampio potere regolatorio anche sui profili di intervento più schiettamente collegati al parametro temporale, potendo tratteggiare una disciplina capace di retroagire nei suoi effetti giuridici e materiali senza che ciò comporti di per sé l’illegittimità della scelta compiuta».
[22] Questi i precedenti citati dal Collegio: «...è utile ribadire che il giudicato comporta effetti eliminatori, con cui l’atto illegittimo è eliminato dal sistema con effetti retroattivi; ripristinatori, per adeguare lo stato di fatto e di diritto successivo all’atto illegittimo, con l’adozione di un atto amministrativo retroattivo idoneo a consentire “ora per allora” il raggiungimento della finalità indicata nella sentenza; conformativi, con cui, valorizzando la motivazione della sentenza, si individua il modo corretto di ri-esercizio del potere a seguito dell’annullamento» (Cons. Stato, VI, 26 marzo 2014, n. 1742; Cons. Stato, V, 30 marzo 2021, n. 2670. E ancora: «In sede di esecuzione di una sentenza di annullamento, l’Amministrazione a volte deve e a volte può emanare un atto avente effetti “ora per allora”. Ad esempio [...] quando si tratti di colmare il “vuoto” conseguente alla sentenza amministrativa che abbia annullato con effetti ex tunc un atto generale, l’Amministrazione ben può determinare ovvero applicare “ora per allora” il sopravvenuto provvedimento, quando sia stato annullato un provvedimento impositivo di prezzi, di tariffe o di aliquote», cfr. ex plurimis, Cons. Stato, V, 21 ottobre 1997, n. 1145 e, tra le più recenti, Cons. Stato, III, 26 ottobre 2016, n. 4487; Cons. Stato, III, 7 marzo 2016, n. 927; Cons. Stato, VI, 6 aprile 2018, n. 2133.
[23] M.A. Sandulli, nella sua intervista a M. Corradino, L’Italia Immobile. Appalti, burocrazia, corruzione. I rimedi per ripartire”. Maria Alessandra Sandulli intervista Michele Corradino, cit., parla proprio di «errori di diritto che, in nome dell’incertezza normativa, giustamente si “affrancano” a chi istituzionalmente dovrebbe averla [la responsabilità, n.d.r.]» e che, però, vengono imputati alla responsabilità oggettiva dell’operatore. Il Pres. Corradino, alla domanda circa l’eccesso di responsabilità sugli operatori privati e la sua inevitabile ricaduta potenzialmente negativa sul tessuto economico-sociale, così risponde: «La responsabilizzazione del privato è strettamente legata alla liberalizzazione e alla rinuncia alla necessità del controllo preventivo della pubblica amministrazione per lo svolgimento di numerose attività. Di fronte all’impossibilità per la pubblica amministrazione di rispondere in tempi ragionevoli alle richieste del privato, la tendenza della legislazione è stata quella di ampliare i confini del silenzio assenso. La conseguenza è che attività in grado di incidere sulla salute pubblica, sull’ambiente, perfino sulla sicurezza sono sostanzialmente liberalizzate e l’esistenza in capo ai gestori dei requisiti minimi è rimessa a controlli sporadici e casuali. Il sistema può reggere solo se sono previste sanzioni certe ed interdittive per quanti abbiano fornito dati falsi o svolgano l’attività in assenza dei requisiti minimi. Chi tradisce la fiducia della comunità deve essere immediatamente e definitivamente espulso dal mercato. Ci sono due aspetti che però non vanno sottovalutati. Da una parte c’è l’esigenza di tutelare chi sbaglia in buona fede. In questo caso, credo, c’è anzitutto un problema di chiarezza delle regole e di possibilità di dialogo fluido con la pubblica amministrazione come avviene in altri Paesi. D’altra parte, desta preoccupazione la tendenza legislativa a trasferire la responsabilità dal pubblico al privato: ne è testimonianza il nuovo comma 2 bis dell’art. 20 della l. 241/1990, introdotto dal d.l. 71/21, che prima lega il silenzio assenso ad un’attestazione del decorso dei termini “e dell’intervenuto accoglimento della domanda” del privato da parte della pubblica amministrazione e poi, in ipotesi di mancato rilascio di tale documento, prevede inspiegabilmente che essa sia sostituita da una dichiarazione dell’interessato resa ai sensi dell’art. 47, d.P.R. 445/2000 che, com’è noto, è penalmente sanzionata in caso di falsità. Dietro l’alibi dell’accelerazione sembra annidarsi un trasferimento del costo e soprattutto del rischio dell’inefficienza della pubblica amministrazione sul soggetto privato richiedente».
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