ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nel proseguire l’approccio multidisciplinare al tema della violenza di genere, la Rivista oggi propone la recensione di Donatella Palumbo del romanzo “Il mio nome è Aoise” scritto da Marta Correggia, attualmente giudice del lavoro presso il Tribunale di Napoli.
Recensione al romanzo “Il mio nome è Aoise” di Marta Correggia
a cura di Donatella Palumbo
Sommario: 1. L’autrice – 2. I luoghi – 3. Il romanzo – 4. Per trovare la salvezza, bisogna solo desiderarla.
1. L’autrice
Marta Correggia attualmente presta servizio presso il Tribunale di Napoli con le funzioni di giudice del lavoro. In precedenza, si è occupata per molto tempo di reati predatori e di sfruttamento della prostituzione in qualità di sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. L’esperienza di quegli anni ha messo in contatto l’autrice con la realtà della prostituzione vissuta nelle periferie, con il suo carico di violenze e sopraffazioni. Da qui l’idea di scrivere un libro che, attraverso la forma del romanzo, potesse restituire un’anima e un’identità a quei “corpi da marciapiede”. Del resto, se è vero che il mestiere del magistrato è analizzare vicende, studiarle ed esprimere giudizi, allo stesso tempo un magistrato non può non tenere conto dell’umanità nascosta dietro le carte e questa umanità porta inevitabilmente le sue vicende, anche infernali, chiede di essere ascoltata e vuole giustizia.
È l’inferno dei viventi de “Le città Invisibili” di Italo Calvino: “L’’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
L’autrice ha scelto il secondo modo. Così è nata Aoise, così è cresciuta Erabon.
La prefazione è di padre Alex Zanotelli.
2. I luoghi
Gli anni di lavoro come sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere hanno ispirato l’autrice per l’ambientazione del romanzo a Castel Volturno, in provincia di Caserta, uno dei luoghi chiave della tratta del sesso e scenario principale della narrazione dei fatti avvenuti in Italia. Ma, come precisa l’autrice, il romanzo potrebbe essere immaginato in ogni luogo poiché “la scelta è ricaduta su Castel Volturno in quanto parte di un territorio che conosco e che perciò avevo un certo agio a descrivere. Di fatto la città vera e propria non c’è, come non ci sono i suoi abitanti. Questo romanzo avrebbe potuto essere ambientato ovunque ci siano donne oggetto di tratta, ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi”. La protagonista si ritrova in una casa fatiscente a Castel Volturno “un posto nella terra dei bianchi ma popolato da neri che l’avevano occupata e se n’erano impossessati per farne la loro terra, con la complicità dei bianchi che quella terra l’avevano venduta e si servivano dei neri per i loro affari”.
Il degrado e la violenza dei luoghi riflettono così la condizione misera della protagonista, costretta a prostituirsi, senza alcuna possibilità di scelta. Il mondo fuori si dipana lungo dedali di strade, rifiuti, ruderi sgangherati privi di sistema fognario, buche e avvallamenti ovunque; eppure, in mezzo all’inferno, ad un tratto si diffonde la musica e una speranza emerge.
Il compito dell’autrice è stato, dunque dare voce a una coraggiosa ragazza nigeriana e concedere spazio a Castel Volturno, terra tanto bellissima quanto sfortunata.
3. Il romanzo
Il romanzo “Il mio nome è Aoise” è un’opera di fantasia che s’ispira, dunque, a storie vere, a situazioni reali, anche se non esattamente nel modo in cui sono state raccontate dall’autrice, la quale ha riadattato storie e personaggi tratti dalla propria esperienza e li ha resi puramente rappresentativi del complesso e variegato universo della prostituzione descritto come “un dissennato arcipelago di isole umane”.
Il romanzo si snoda alternando la dimensione del ricordo dell’infanzia e dell’adolescenza vissute dalla protagonista in Nigeria - ove prevalgono, nonostante la condizione di estrema povertà, immagini dolci e accoglienti di vita familiare felice e tenera con i fratellini e il padre Yusuf e immagini bucoliche del villaggio e del paesaggio africano - con la cruda realtà della schiavitù in Italia, che esplode con tutta la sua violenza anche linguistica. La lettura restituisce sensazioni di estrema dolcezza, legate al passato, e agghiaccianti momenti di brutalità legati al presente.
Perché partire? Di certo per il desiderio di una vita migliore. Le fanno credere che l’Italia è il paradiso e poi le ripetono di continuo: “Peggio di come stai, che ci può essere?”. Il padre e il nonno sono morti, la famiglia versa nel momento di maggior bisogno economico e, dunque, il fratello si mette in contatto con Nadir, un apparente intermediario che in realtà è un procacciatore di prostitute. Così, una volta scoperto l’inganno, la protagonista arriva a pensare che “era meglio morire di fame in Nigeria che diventare una schiava, un corpo a disposizione di tutti fuorché di sé stessa”.
Viene descritto in modo dettagliato il meccanismo della tratta delle donne africane - tema principale del romanzo - che, attingendo alle paure e alle credenze più recondite, è collegato in modo inscindibile al momento del giuramento con Priest Wami, eseguito prima di partire per l’Italia. Difatti il giuramento è dotato di una forza vincolante dirompente, radicata in modo profondo, risiedendo nella supposta esistenza di spiriti maligni che causano disgrazie irreversibili a coloro che ne violano i precetti, di talchè il terrore per gli effetti che ne conseguono riecheggia ogni volta nella mente della protagonista allorquando tenta di sottrarsi ai suoi aguzzini: “Se non adempi alla promessa fatta al mio santuario ci servirà il tuo sangue e quello dei tuoi cari. Posso usare il mio potere per distruggere qualunque cosa io voglia. Sono in grado di generare qualsiasi malattia in una persona. Se prometti, devi farlo, altrimenti il semidio Eshu manderà gli spiriti dei morti a uccidere te e la tua famiglia. Nel tempio di Eshu sono riposti i tuoi peli e le tue unghie, in questa scatola la tua biancheria intima, c’è il tuo nome, se non obbedirai agli ordini della madame verranno utilizzati per scatenare gli spiriti contro di te”.
L’assoluta mercificazione della donna, trattata solo come oggetto da cui gli aguzzini Sammy e Sonia pretendono denaro ogni settimana, esplode in tutta la sua crudeltà nel cambio di nome che viene imposto alla protagonista: Aoise diventando Erabon deve rinnegare il suo vissuto, le sue origini, il suo essere più profondo. Il denaro da versare periodicamente alla madame diventa più importante della vita umana.
Altri temi si stagliano sullo sfondo e si intrecciano con la storia della protagonista: l’aborto coatto (la gravidanza di Prudence costretta all’interruzione in modo clandestino nonostante il desiderio di tenere il figlio - “l’unica cosa mia” - che finirà per suicidarsi in quanto non sopravvissuta al dolore), storie di caporalato, il traffico di droga e di armi la cui scoperta viene punita con la violenza sessuale di Sammy ai danni della protagonista, il pregiudizio per il colore della pelle, la sparatoria a Castel Volturno che riecheggia la strage del 18 Settembre del 2008 (c.d. strage di Castel Volturno).
4. Per trovare la salvezza, bisogna solo desiderarla
Tuttavia, anche nei luoghi più cupi, anche nell’inferno in cui sembra non ci sia alcuna via d’uscita, emergono sentimenti positivi che non possono essere soffocati dalla maman e dai suoi metodi violenti e che prima o poi, anzi, prendono il sopravvento.
Dapprima la solidarietà e l’amicizia tra le sisters, con momenti di convivialità e di leggerezza, che offrono al lettore una sensazione di apparente gioia, che svanisce quando la protagonista nutre sensi di colpa per la difficoltà di proteggere le ragazze più fragili, e poi l’amore, fino a quel momento solo idealizzato nelle favole raccontate dal nonno in Nigeria, assume il volto di Francis: “Erabon non aveva bisogno di complimenti, ma di un’amorevole forma di considerazione. La tenerezza dei corpi rimpiccioliva le difese e si vedevano per ciò che erano: due giovani ragazzi africani che si volevano bene”. L’amore, un sentimento così profondo che consente alla protagonista di riappropriarsi di sé stessa, del suo destino e, finalmente, del suo nome: “Fu in uno di questi momenti che lui prese a chiamarla Aoise”.
Dall’amore alla salvezza: Francis presenta ad Aoise Ciccio, un volontario del centro di accoglienza per migranti, per il tramite del quale la protagonista intravede spiragli di cambiamento nella propria vita attraverso la prospettata denuncia alle forze dell’ordine. Per la prima volta Aoise viene trattata come un essere umano e non viene vista come una “cosa”: “Non è colpa tua, tu sei solo una vittima… tutte quelle storie sul rito ju-ju e sugli spiriti dei morti sono storie inventate, credimi” e le strinse la mano ancora più forte. “Devi denunciarli, sarai protetta dalla polizia, ci sono molti posti dove accolgono le ragazze come te; sono gestiti da donne che hanno avuto la tua stessa esperienza di prostituzione, devi solo decidere. Ai tuoi parenti in Nigeria si può dire di andare via dalla città per un po’, una soluzione la si trova.”.
Chiaramente il percorso non è semplice e l’autrice offre al lettore tutta la confusione emotiva di Aoise, dilaniata da sentimenti contrastanti: da un lato il desiderio di andare via da quel posto infernale, dall’altro la paura che gli spiriti dei morti si vendichino sulla madre e sui fratelli, in virtù del giuramento officiato da Priest Wami. La protagonista è totalmente prigioniera delle sue credenze, terrorizzata, incapace di credere che possa esserci una vita migliore per lei e la sua famiglia, che la sua sorte possa essere volta al meglio. Aoise allora decide di svelare tutta la verità alla madre, la quale tuttavia resta silente al telefono: mancanza di comprensione nei confronti della figlia o totale consapevolezza della situazione? Per la prima volta la protagonista realizza che l’unica cosa che importava alla madre era il denaro mandato in Nigeria, indipendentemente da come lo guadagnasse.
Da questa amara scoperta la protagonista comincia a vincere le resistenze, a superare le paure, e finalmente a pianificare la fuga. “Ecco, io ci sono. Venite a prendermi, spiriti maligni. Forse esistete, o forse no, ma io non ne posso più!” E quando, in un antro limpido della sua mente, scandì queste parole, la paura divenne meno odiosa. Tirò fuori una voce immensa e gridò: «Basta!!!” (…) “In quel momento non si sentì sola, perché avvertiva la presenza dei suoi cari accanto a lei. E fu insieme a Prudence che salì sulla macchina di Ciccio, con i sedili bucati e la puzza di tabacco; fu insieme a papà Yusuf e a Daren che salutò Francis dal vetro posteriore della Fiat Punto, mentre la città di Castel Volturno, il mare, le case, i cumuli di rifiuti lungo le strade si dissolvevano esangui sotto il suo sguardo”.
Una volta al sicuro, sfuggita al controllo anche psicologico dei suoi aguzzini, decide di denunciare Sonia e Sammy, collaborando con le forze dell’ordine, trovando così il coraggio di diventare una donna finalmente libera: “Io non mi chiamo più Erabon, mi chiamo Aoise”.
L’accesso alla magistratura
Tra le riforme che hanno interessato a vario titolo il microcosmo in cui operano gli operatori del diritto negli ultimi mesi su impulso dell’ex Ministro della Giustizia Marta Cartabia, una delle più importanti riguarda la modifica delle norme sul concorso in magistratura (art. 33 decreto-legge 23 settembre 2022, n. 144, in attuazione della direttiva di cui all'art. 4 legge 17 giugno 2022 n. 71) tornato dopo un lungo periodo ad essere accessibile anche ai neolaureati.
La scelta di eliminare l’obbligo di frequentazione di tirocini o scuole specializzate, come è stato scritto recentemente, “corrisponde ad esigenze di maggiore equità sociale”[1].
Non può infatti trascurarsi che il tentativo di elevare la professionalità degli aspiranti magistrati imponendo loro una rilevante spendita di tempo, risorse e denaro, ha presentato criticità difficilmente superabili.
Il ritorno all’antico sistema del concorso di primo grado è immediatamente operativo mentre non altrettanto lo sono le previsioni “di sistema” che dovrebbero accompagnare questa importante modifica, lasciate per il momento ad una delega legislativa di ampio contenuto.
Per evitare ricadute negative occorrerà dunque considerare con attenzione lo stato attuale delle modalità di accesso al concorso, gli aspetti migliorabili del sistema e l’organizzazione del futuro assetto della selezione, tutti temi solo parzialmente abbozzati (o del tutto assenti) nel disegno di legge delega consegnato dal precedente Governo a quello attuale.
Giustizia Insieme intende pertanto dedicare al tema dell’accesso in magistratura una serie di approfondimenti che, dopo le testimonianze rese dai Presidenti di due delle ultime Commissioni di concorso sulla loro esperienza, prenderà in disamina in primo luogo i diversi canali di accesso al concorso.
In particolare, saranno oggetto di specifico approfondimento la formazione universitaria, il ruolo – passato e futuro - delle SSPLL e il tirocinio formativo ex art. 73; sarà poi pubblicato un monitoraggio statistico dei percorsi pre-concorsuali dei MOT (i Magistrati in tirocinio, ovvero i vincitori del concorso) per una verifica sul campo dei percorsi compiuti dai giovani neo-magistrati negli ultimi anni.
Dedicheremo poi ampio spazio alle esperienze comparate di accesso alla magistratura presso altri Stati europei e non, per concludere con un riflessione sul futuro ruolo della Scuola Superiore della Magistratura, destinata dalla predetta legge delega ad affiancarsi o a sostituirsi ai corsi privati di preparazione al concorso.
Anche per questa iniziativa, come già accaduto in occasione di precedenti analoghi, ciascun approfondimento sarà numerato, preceduto da un’intestazione comune e accompagnato da un link ai precedenti articoli [2]
[1] A.COSTANZO, “Verso un nuovo concorso per la magistratura con una formazione comune dei giuristi forensi?”, Il Dubbio, 22.12.22.
[2] In tema di accesso, su questa rivista, v. Ritorno alle vecchie regole per il concorso in magistratura. Ma anche pensando al futuro? di Angelo Costanzo, in tema di concorso, su questa rivista, v. Concorso in magistratura: istruzioni per l’uso da una (ex) insider. Intervista di Enrico De Santis a Elisabetta Pierazzi
Errare è umano, travisare diabolico. Ovvero, di un problema (di nuovo) attuale della cassazione civile*
di Luigi Cavallaro
1. Desidero innanzi tutto ringraziare le colleghe e i colleghi della Formazione decentrata della Corte per aver pensato di dedicare un’occasione di studio a questo tema e ancor più per avermi invitato a prendere la parola nell’ambito di un consesso così autorevole: me ne sento davvero onorato.
Troppo onore, però, mi si fa quando si individua in una sentenza di cui sono stato estensore (menzionata perfino nella brochure di presentazione di questo incontro)[1] la capostipite di un orientamento dissonante rispetto alla tradizione della giurisprudenza di legittimità in materia di denunciabilità del travisamento della prova.
In effetti, leggendo la relazione sullo stato della giurisprudenza che il Massimario ha pubblicato sul nostro tema nello scorso mese di settembre[2], l’impressione che si ritrae è proprio questa: c’è un orientamento consolidato che, distinguendo fra travisamento del fatto e travisamento della prova, ritiene denunciabile per revocazione il primo e ricorribile per cassazione il secondo; improvvisamente, quasi un fulmine a ciel sereno, appare una sentenza della Sezione Lavoro della Corte che invece afferma tutt’altro, che il travisamento del fatto e il travisamento della prova non sono cose differenti, ma sono la stessa identica cosa, che dopo la novella dell’art. 360 n. 5 c.p.c. non è praticamente più censurabile per cassazione, nemmeno per violazione dell’art. 115 c.p.c., potendo se del caso dar luogo a revocazione; e c’è infine un riesame critico di questa voce dal sen fuggita, che – muovendo dal presupposto che essa condurrebbe al paradosso di confermare una sentenza di merito chiaramente illegittima – torna opportunamente a distinguere (come l’orientamento tradizionale) tra fatto e prova e, facendo leva sull’art. 115 c.p.c., giunge nuovamente a ritenere censurabile per cassazione la sentenza di merito che abbia ricostruito i fatti avvalendosi di informazioni probatorie che sia assolutamente impossibile ricondurre alle fonti o ai mezzi di prova a cui il giudice ha viceversa inteso riferirle.
Quest’impressione di cui vi dicevo, di un’improvvisa (e improvvida) deviazione dal corso delle cose, si accentua se – come siamo soliti fare nelle nostre ricerche – andiamo a verificare che seguito hanno avuto certe massime nelle massime successive: la massima elaborata sulla sentenza di cui sono stato estensore non indica alcun precedente conforme, ma solo successive difformi, mentre la massima elaborata sulla sentenza che avrebbe riportato la questione nel suo alveo naturale[3], oltre ad avere numerose precedenti dello stesso tenore, annovera già ben due successive conformi[4]. E difforme, naturalmente, nessuna.
Se le cose stessero così, questo nostro incontro di studio vedrebbe insomma “uno contro tutti”, come in alcune famose serate del “Maurizio Costanzo Show”: salvo che chi vi parla non è né Carmelo Bene né Aldo Busi (e nemmeno Pietro Taricone o Fabrizio Corona) e dunque non varrebbe la pena di perdere tempo ad ascoltarmi.
Ma le cose – giusto perché parliamo di travisamento – non è detto che stiano proprio così come sembrano. Ed è per ciò che, piuttosto che raccontarvi cosa c’è scritto nella sentenza di cui sono stato estensore, vorrei approfittare del breve spazio che mi è stato concesso per offrirvi un’altra versione dei fatti: se volete, un’altra storia, che riguarda ciò che ha preceduto e ciò che, sia pure silenziosamente, ha seguito la sentenza di cui sono stato estensore.
2. La storia della denunciabilità per cassazione del travisamento è in effetti una storia antica: le prime sentenze che ne ammettono la possibilità sono infatti della Cassazione di Torino, sul finire dell’Ottocento. A darle la stura, come ricorda Calamandrei, fu il tentativo di censurare in sede di legittimità l’erronea interpretazione dei negozi giuridici “compiuta dal giudice di merito coll’attribuire a una dichiarazione di volontà un significato palesemente contrario a quello resultante dalle parole di cui la dichiarazione stessa è composta”[5]: anche allora, infatti, si diceva che, se un errore del genere non rivestiva gli estremi della revocazione, la possibilità di un’impugnazione per cassazione doveva ritenersi circoscritta alla violazione delle norme sull’interpretazione dei contratti oppure ad un errore sulla qualificazione giuridica del negozio, e anche allora, per sfuggire alla tagliola dell’inammissibilità del ricorso (ricordiamoci che la deducibilità del “vizio di motivazione” come censura rivolta giudizio di fatto era ancora piuttosto controversa), si era inventato un artificio per trasformare quel vizio, che atteneva chiaramente alla corretta ricostruzione del fatto, in un vizio di violazione di legge: siccome il contratto ha forza di legge tra le parti, si diceva, il travisamento della volontà delle parti equivale a travisamento della volontà della legge.
Che si trattasse di un paralogismo fu rilevato già da Mattirolo, nel suo Trattato[6]; e talmente isolata rimase la Cassazione torinese che, scrivendo nemmeno quindici anni dopo l’unificazione della Corte di cassazione, Guido Calogero poteva tranquillamente affermare che il travisamento (inteso come un’interpretazione “la cui erroneità è così manifesta, da presumere che essa possa essere rilevata anche da un organo giurisdizionale normalmente non deputato all’esame del fatto”)[7] non costituiva in alcun modo violazione di legge, né sostanziale né processuale, ma poteva semmai rientrare nel “controllo della logicità” della motivazione, cioè in quel vizio che di lì a poco, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile, sarebbe stato definito nel n. 5 dell’art. 360 c.p.c. E a sostegno di questa conclusione citava una decisione della Corte del 1934, dove leggiamo testualmente: “Questo S.C. ha tante volte riconosciuto che l’interpretazione degli atti della causa è compito insindacabile del giudice di merito, e che per tanto il travisamento del loro contenuto non può costituire motivo di ricorso per cassazione”[8].
Insomma, già a metà degli anni ’30 dello scorso secolo, la Cassazione era ben attestata sull’impossibilità di denunciare in sede di legittimità il “travisamento”, se non nei ristretti limiti del vizio di motivazione. E a sanzionare di correttezza questo orientamento, trent’anni dopo, fu nientemeno che Satta, nonostante la sua ben nota propensione ad allargare l’orbita del giudizio di legittimità fino a ricomprendervi il vizio plateale del giudizio di fatto: “il travisamento – scrisse nel Commentario – poggiava su un presupposto arbitrario, e cioè che esistano cose chiare, o che esista un fatto distinto dal giudizio di fatto, cioè fuori dalla sola interpretazione giuridicamente rilevante, quella del giudice”, e proprio per ciò doveva ormai considerarsi “un ricordo storico”[9]; l’unica possibilità di denunciarlo rimaneva quella scolpita nell’ennesima massima resa dalla Cassazione sull’argomento, citata adesivamente nel Commentario, secondo cui “il travisamento dei fatti può costituire motivo di ricorso per cassazione soltanto se si risolva in mancanza di motivazione su un punto decisivo della controversia, e cioè su un elemento della fattispecie che, se esaminato, avrebbe potuto determinare una diversa soluzione della causa”[10].
E siamo così agli anni ’60. Una banale ricerca su Italgiure, utilizzando come parole chiave “travisamento” e “cassazione”, evidenzia come la nostra Corte resti assolutamente ferma, per tutti i successivi cinquant’anni, nel negare che il travisamento sia denunciabile per cassazione se non nei limiti dell’art. 360 n. 5, non senza precisare, peraltro, che non c’è differenza alcuna fra travisamento del fatto e travisamento delle prove[11]; persino l’avere il giudice ritenuto come pacifico un fatto che invece si pretende essere stato contestato non può dar luogo a ricorso per cassazione, precisano le Sezioni Unite[12], perché se l’apprezzamento del giudice di merito è frutto di un travisamento di fatti soccorre comunque il rimedio della revocazione. E qui si capisce che, nell’opinione della Corte, delle due l’una: o il travisamento è frutto di una svista (di un “errore di percezione”, diremmo noi) e allora c’è solo la revocazione, o è frutto di un giudizio, sia pure viziato dalla distorsione della realtà processuale, e allora c’è solo lo strumento dell’art. 360 n. 5 c.p.c. Tertium non datur: nemmeno per violazione dell’art. 115 c.p.c., perché – precisa la Corte – il principio secondo cui il giudice deve decidere iuxta alligata et probata non può certo dirsi violato quando le prove siano state valutate in un modo piuttosto che in un altro[13].
3. Questa è dunque la situazione fino all’alba del nuovo millennio[14] e anzi fino a pochi, pochissimi anni fa: talmente consolidata che il Massimario nemmeno si preoccupa più di confezionare le massime delle sentenze conformi al trend, ma si limita a dichiarare la loro conformità a questo o quell’altro precedente (personalmente, ho censito almeno duecentocinquanta conformi tra il 1962 e il 2012). E così stando le cose, capirete bene che la modesta sentenza di cui sono stato estensore non può certo meritare quell’attributo di assoluta novità di cui l’ha insignita la Relazione del Massimario di cui vi ho detto prima[15]: perché non faceva altro che ripetere quello che da oltre un secolo la Cassazione ha sempre detto sulla possibilità di denunciare in sede di legittimità il “travisamento”, sia esso del fatto o della prova o di tutt’e due insieme!
Come nasce, allora, l’equivoco? Sospetto che la risposta vada cercata nella draconiana modifica che, nel 2012, subisce il n. 5 dell’art. 360 c.p.c. La vicenda è nota: nel tentativo di arginare la marea di ricorsi per cassazione che si propongono in realtà di richiedere un riesame del fatto, il legislatore torna alla più restrittiva nozione del vizio che era stata formulata nella prima versione del codice di procedura del 1942, per di più introducendo, all’art. 348-ter c.p.c., la previsione secondo cui il vizio del n. 5 non è più deducibile in caso di doppia conforme di merito.
Per la possibilità di veicolare in sede di legittimità un qualche “travisamento”, sembra a quel punto suonare la campana a morto, specialmente quando le Sezioni Unite, con le notissime sentenze gemelle del 2014, chiudono ogni varco alla possibilità di denunciare per cassazione la semplice “insufficienza” della motivazione[16], che era poi il paravento dietro il quale, ad onta delle radicali affermazioni di principio, molte sentenze della Corte attingevano in realtà al fatto a piene mani: se la possibilità di censurare il giudizio di fatto deve reputarsi limitata al solo caso in cui il giudice di merito abbia omesso di esaminare un fatto decisivo, è evidente che il travisamento, che non è mai un “omesso esame” ma tutt’al più un “cattivo esame”, non può più essere denunciato per cassazione, ma può essere, se del caso, soltanto motivo di revocazione della sentenza di merito.
Ed ecco, allora, la reazione. Si comincia col riprendere un innocuo obiter di una sentenza del 2006, circa la possibilità di distinguere fra travisamento del fatto e travisamento della prova[17], e di bel nuovo, nonostante decine e decine di sentenze anteriori avessero detto il contrario, si torna a sostenere che quest’ultimo implicherebbe non già una “valutazione”, ma la “constatazione” che quella informazione probatoria utilizzata dalla sentenza è contraddetta da uno specifico atto processuale, e sarebbe dunque denunciabile per cassazione[18]. Poi si riesuma nuovamente l’art. 115 c.p.c. e, nonostante anche qui numerose sentenze anteriori di segno contrario, se ne “inventa” (ma lo diciamo senza offesa: à la Grossi, per capirci)[19] una interpretazione tale per cui esso consentirebbe di denunciare per cassazione l’errore di percezione compiuto dal giudice quando abbia avuto ad oggetto un fatto controverso[20]. E finalmente si chiude il cerchio, affermando che il divieto di ricorrere per cassazione ex art. 360 n. 5 in caso di doppia conforme non varrebbe quando si denunci un vizio di travisamento della prova[21].
Sono tentativi che ricevono grande attenzione dall’Ufficio del Massimario: che per di più, nel massimarli, dimentica completamente di segnalare all’ignaro utente le decine (anzi, centinaia) di precedenti di tenore assolutamente contrario. Un redivivo Hobsbawm certo sorriderebbe di fronte ad un caso così eclatante di “invenzione della tradizione”[22], ma di fatto è proprio ciò che accade: un secolo di giurisprudenza della Cassazione sul travisamento viene silenziosamente rimosso e si forma repentinamente una nuova tradizione, rispetto alla quale, ovviamente, chi si prova a ricordare ciò che la Corte ha affermato per decenni è semplicemente “difforme”.
Il problema è che ogni tradizione inventata deve soffrire, almeno fintanto che non si consolida, la concorrenza di quella più antica che intende soppiantare. Dopo la massimazione della sentenza di cui sono stato estensore, assistiamo perciò al dipanarsi di un contrasto latente tra il vecchio e il nuovo (e lascio a voi di stabilire quale sia l’uno e quale l’altro): da una parte, facendo leva sulla recente rivisitazione dell’istituto del travisamento, si continua a sostenere la possibilità di denunciarlo per cassazione sub specie di violazione dell’art. 115 c.p.c.[23]; dall’altra parte, si obietta che, a seguito della modifica dell’art. 360 n. 5 c.p.c. e del conseguente venir meno della possibilità di censurare l’insufficienza della motivazione, ogni possibilità di denunciare per cassazione un travisamento del fatto o della prova deve reputarsi venuta meno[24]. E sebbene del perdurare di questo contrasto nulla si legga nella Relazione del Massimario di cui più volte vi ho fatto cenno, la sua esistenza effettiva non è sfuggita alle colleghe e ai colleghi più attenti e almeno due ordinanze interlocutorie (una della Sezione Tributaria e una della Terza Civile)[25] lo hanno denunciato apertamente per giustificare la rimessione della causa alla pubblica udienza[26].
Questo, al momento, è lo stato dell’arte. Non mi resta, a questo punto, che dispormi insieme a voi all’ascolto degli illustri relatori e scusarmi per il tempo che vi ho sottratto: sono consapevole che, in coerenza con la tesi che ho sostenuto nella sentenza di cui sono stato estensore, la denuncia di questo travisamento dei fatti di cui vi ho raccontato non può che essere dichiarata inammissibile.
*Testo dell’intervento tenuto all’incontro di studi “Errare humanum… travisare diabolicum. La questione del travisamento nel ricorso per cassazione”, organizzato dalla Struttura di Formazione decentrata della Corte di cassazione (Roma, 14 marzo 2023).
[1] Cass. 3 novembre 2020, n. 24395.
[2] Corte di cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, Relazione n. 93 del 28 settembre 2022.
[3] Si tratta di Cass. 26 aprile 2022, n. 12971, con cui si chiude la Relazione del Massimario cit. alla nota prec.
[4] Cass. 3 maggio 2022, n. 13918, nonché Cass. 21 dicembre 2022, n. 37382.
[5] Calamandrei, La Cassazione civile, Torino, Fratelli Bocca, 1920, II, p. 369.
[6] Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario italiano, Torino, Fratelli Bocca, 1902-1909, IV, § 1053.
[7] Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, Cedam, 1937 (rist. 1964), p. 259.
[8] Ibid., p. 217 (si tratta di Cass. 25 maggio 1934, n. 1781).
[9] Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, Vallardi, 1959-1962, II, 2, p. 202.
[10] Ibid. Si tratta di Cass. 6 febbraio 1962, n. 222 (erroneamente indicata con l’anno 1961, ma riportata nei suoi esatti estremi a p. 210).
[11] Così già Cass. 16 maggio 1968, n. 1536, e prima ancora, a proposito del travisamento del contenuto di un documento, Cass. 17 giugno 1964, n. 1767.
[12] Cass., S.U., 30 maggio 1966, n. 1412.
[13] Cass. 5 luglio 1971, n. 2093.
[14] Lo stato dell’arte viene così riassunto da Cass. 3 febbraio 2000, n. 1195, e da Cass. 1° agosto 2001, n. 10475: il ricorso per cassazione fondato sull’affermazione che il giudice del merito abbia erroneamente presupposto fatti inesistenti o comunque contrastanti con le risultanze testimoniali oppure abbia erroneamente ritenuto non contestata una circostanza di causa, è inammissibile, configurando ipotesi di travisamento dei fatti, contro cui è esperibile solo il rimedio della revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c.; e la denuncia di travisamento di fatto, quando attiene non alla motivazione della sentenza impugnata, ma ad un fatto che sarebbe stato affermato in contrasto con la prova acquisita, costituisce motivo non di ricorso per cassazione ma di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., importando essa un accertamento di merito non consentito al giudice di legittimità. Ribadisce infatti una sentenza di pochi anni dopo che il vizio di motivazione denunziabile ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., postula che il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento, nel senso che, dopo aver percepito un fatto di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo o lo abbia valutato in modo insufficiente o illogico; se invece l’omessa valutazione dipende da una falsa percezione della realtà, nel senso che il giudice, per una svista, ritiene inesistente un fatto o un documento, la cui esistenza risulti incontestabilmente accertata dagli stessi atti di causa, è configurabile un errore di fatto deducibile esclusivamente con l’impugnazione per revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c. (Cass. 27 luglio 2005, n. 15672). In termini pressoché analoghi si era espressa, poco più di cinquant’anni prima, Cass. 24 giugno 1954, n. 2178, sulla cui motivazione (“nitida” e “da leggere con cura”) aveva richiamato l’attenzione Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli, Jovene, 1956, II, p. 630.
[15] Cfr. supra, nota 3.
[16] Cfr. Cass., S.U., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054.
[17] Cass. 24 maggio 2006, n. 12362, la cui parte motiva, sul punto, vale la pena di riportare per intero: “sembra che, piuttosto che un travisamento delle prove, i ricorrenti vogliano sottolineare un travisamento del fatto, del quale, peraltro, non forniscono alcun elemento. In tal caso, comunque, la denuncia di travisamento del fatto sarebbe incompatibile con il giudizio di legittimità perché implica la valutazione di un complesso di circostanze del caso concreto che comportano il rischio di una rivalutazione del fatto. In ogni caso tale denuncia costituirebbe motivo, non di ricorso per Cassazione, ma di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c. […]. L’ipotesi apertamente formulata dai ricorrenti di travisamento delle prove, poi, è supportata da argomenti che riguardano la diversa ipotesi di mancata valutazione di elementi decisivi della controversia. In tale contesto deve, infatti, rilevarsi che il travisamento della prova implica non una valutazione, ma una constatazione od accertamento che quella specifica informazione probatoria utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale. Ciò che, nel caso di specie, non solo non è stato provato, ma non risulta neppure allegato”. Come si vede, non soltanto la sentenza esclude che si verta in specie in ipotesi di “travisamento delle prove”, ma nemmeno sostiene apertamente che codesto travisamento sarebbe denunciabile per cassazione.
[18] Cass. 25 maggio 2015, n. 10749, che tuttavia decide su un ricorso avverso una sentenza di merito del 2007, dunque nel vigore della formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. anteriore alla modifica apportata dall’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134).
[19] Cfr. Grossi, L’invenzione del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2017.
[20] Cass. 12 aprile 2017, n. 9356.
[21] Cass. 5 novembre 2018, n. 28174.
[22] Si allude ovviamente a Hobsbawm, Come si inventa una tradizione, in Hobsbawm e Granger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987, p. 3 ss. (ed. orig.: The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983).
[23] Alle sentenze già citate supra, note 4 e 5, adde, tra le più recenti, Cass. 7 luglio 2022, n. 21565, e Cass. 15 luglio 2022, n. 22352.
[24] Si vedano, tra le numerose, Cass. 15 novembre 2021, n. 34210, Cass. 17 maggio 2022, n. 15777, Cass. 29 dicembre 2022, n. 38014, e Cass. 6 febbraio 2023, n. 3581.
[25] Cfr. Cass. 17 maggio 2022, n. 15753, e Cass. 24 giugno 2022, n. 26207.
[26] Vale la pena aggiungere che, in occasione della udienza pubblica tenuta a seguito della rimessione disposta da Cass. n. 26207 del 2022, cit. alla nota prec., il Pubblico ministero aveva chiesto la rimessione della questione alle Sezioni Unite, ma la richiesta è stata disattesa dal Collegio decidente, che ha poi deciso la causa con sentenza n. 37382 del 2022, cit. supra, nota 5.
Note minime sulla questione del travisamento della prova nel ricorso per cassazione*
di Marco Dell’Utri
È a me affidato il compito di presentare o illustrare, in termini sintetici, il tessuto o le linee di ragionamento che possono riconoscersi nelle diverse pronunce della Corte di cassazione civile che hanno ammesso la rilevabilità, come vizio di legittimità, del travisamento della prova.
Cercherò di assolvervi sottraendo solo pochi minuti della vostra attenzione.
È stato rappresentato, in modo che a me pare molto brillante ed efficace, il perimetro entro il quale si muovono le questioni su cui siamo chiamati a riflettere.
Si tratta, dunque, di esaminare, dalla prospettiva del giudice di legittimità, il rapporto tra il giudice di merito e la prova e, in modo più specifico, quel particolare impegno, cui il giudice di merito è chiamato, di ricavare, dai mezzi di prova acquisiti al processo, le informazioni probatorie destinate a sostenere la decisione che verrà assunta.
La regola sulla quale il giudice di legittimità misura il senso della propria diversità, rispetto al giudice di merito – ed è una regola sulla quale non mette conto più di discutere, a scanso di ogni possibile equivoco – è quella per cui deve escludersi alcuna possibilità, per il giudice di legittimità, di porre a oggetto del proprio esame il modo attraverso il quale il giudice di merito ha discrezionalmente operato le proprie scelte sul significato da attribuire ai mezzi di prova esaminati: si tratta di una prerogativa propria del giudice di merito, rispetto alla quale la Corte di cassazione, quale giudice di legittimità, difetta di alcuna attribuzione.
Il tema della denunciabilità, in sede di legittimità, del travisamento della prova, nella misura in cui si situa all'interno di questo rapporto tra il giudice di merito e il mezzo di prova, è propriamente chiamato a dirimere questa apparente aporia: se al giudice di legittimità è inibita la possibilità di sindacare il modo attraverso il quale il giudice di merito ha valutato la prova; e se il travisamento della prova è propriamente un giudizio sul modo in cui il giudice di merito ha assunto le sue determinazioni sul significato da attribuire alla prova, come sarà mai possibile, per il giudice di legittimità riconosce rilevanza a detto travisamento?
Nel porre questa domanda, non a caso ho inteso contrapporre all'impossibilità, per il giudice di legittimità, di sindacare la valutazione della prova fatta propria dal giudice di merito, l'eventuale rilevanza, come vizio di legittimità, del travisamento come giudizio sul modo in cui il giudice di merito ha assunto le sue determinazioni sul significato da attribuire alla prova.
Lo spazio che si apre al tema del travisamento della prova in sede di legittimità sta proprio qui: ossia, nell'assumere, da parte del giudice di merito, talune determinazioni sul significato di una prova che non sono una valutazione della prova.
Credo che questo punto costituisca propriamente il cuore della divisione su cui le diverse sensibilità o attitudini della Corte di cassazione civile faticano a incontrarsi.
Per comprendere questo aspetto (ossia la domanda se “ci sono attribuzioni di significato a una prova, che non sono una sua valutazione?”) credo che occorra porsi la seguente domanda: può il giudice di merito legittimamente attribuire, a un mezzo di prova, qualunque significato? Può il giudice di merito, ad esempio, pretendendo con ciò di operare una valutazione discrezionale legittima, affermare che una fotografia che riproduce un'automobile fornisca (non già l’immagine di un trattore, di un quad, di un trabiccolo a quattro ruote, etc., dunque di qualcosa che mantiene un legame razionalmente spiegabile con la figura di partenza, bensì) la riproduzione di un fiume?
Il carattere banale o paradossale dell’esempio – per cui occorre che mi scusi, per quanto la stilizzazione aiuti a semplificare o schematizzare il ragionamento – varrà ad evidenziare (come sotto la lente di un microscopio) uno spazio che, seppur minimo, purtuttavia si apre, tra la valutazione discrezionale del significato di un testo (genericamente inteso) e ciò che, di quello stesso testo, non può più costituire, giuridicamente, una valutazione.
Si sostiene: si tratterebbe di una ricostruzione dei fatti incontrastabilmente contraddetta da quanto risultante dagli atti e, dunque, suscettibile di essere censurata in sede di revocazione (art. 395 n. 4 c.p.c.); a patto, tuttavia, (lo afferma lo stesso art. 395 n. 4 c.p.c.) che il giudice non abbia espressamente giudicato sul contrasto eventualmente insorto tra le parti circa il significato di quella fotografia automobile/fiume.
Se, infatti – si osserva – il giudice di merito avesse espresso la propria valutazione su tale contrasto, decidendo sul rapporto automobile/fiume, (verosimilmente, il 999 per mille delle volte riconoscendo l'automobile, l'1 per mille delle volte continuando imperterrito a riconoscere il fiume) avrebbe comunque valutato la prova e, dunque, tale valutazione sarebbe in ogni caso non più censurabile, in sede di legittimità, sulla base della regola che abbiamo inizialmente posto come indiscutibile; e ciò, soprattutto, a seguito della soppressione del vizio di motivazione (se non nel caso-limite della motivazione non costituzionalmente giustificabile).
Dobbiamo, dunque, affermare che la parte che si sia vista dar torto dal giudice di merito che avesse riconosciuto espressamente, nella fotografia dell'automobile (e nel contrasto sul punto intervenuto tra le parti), la riproduzione fotografica di un fiume, non possa più contestare questa decisione, poiché in sede di legittimità la valutazione della prova fatta propria dal giudice di merito non è consentita; quella decisione, quindi, non sarebbe affatto illegittima (la motivazione infatti, avrebbe una sua logica interna, non denunciabile ai sensi dell’art. 132 n. 4 c.p.c.), dovendo ritenersi, semmai, o al più, una decisione ingiusta.
Ma siamo proprio sicuri di dover riconoscere come legittima l'assoluta e piena libertà del giudice di merito di attribuire a una prova tutti i significati che ritiene arbitrariamente di potergli attribuire? Il potere di valutazione del giudice di merito è una libertà assoluta o è, invece, un potere discrezionale? (non dimentichiamoci che l’art. 116 c.p.c., proprio con riguardo alla valutazione delle prove, parla di ‘prudente apprezzamento’).
Esiste una distinzione tra la libertà interpretativa che riconosciamo, ad esempio, all’interprete di un'opera d'arte, rispetto al potere (discrezionale) interpretativo che il giudice di merito ha nell'attribuire un significato a un mezzo di prova?
Il riferimento al tema dell’interpretazione artistica non deve suonare eccentrico, o dominato da intenti d’indole puramente retorica, rispetto al discorso che si viene svolgendo, se solo si pensi alla ricchezza e alla fecondità delle pagine dedicate da Emilio Betti al tema dell’ermeneutica artistica nei passaggi che si ascrivono alla sua teoria generale dell’interpretazione, sovente proprio nel contrasto con Hans Georg Gadamer proprio a proposito dell’interpretazione artistica come ‘modello’ di approccio conoscitivo.
L’interprete di un'opera d'arte avrebbe buon gioco, ad esempio, dinanzi alla nostra fotografia dell'automobile, a vedere rappresentata mirabilmente, attraverso il mezzo inventato dalla scienza e dalla tecnologia contemporanee, l'idea (magari di stampo futurista) del ‘movimento’, del fluire dello spirito delle cose, di quell'antico ‘tutto scorre’ (proprio come un fiume) che il presocratico Eraclito aveva intuito quale essenza profonda delle cose, e che aveva esemplificato nell'impossibilità di bagnarsi due volte nella stessa acqua di uno stesso fiume.
Dunque, la rappresentazione di quell’automobile null’altro sarebbe se non la (simbolica) rappresentazione del ‘fiume eracliteo’.
E, tuttavia, per arrivare a questa conclusione, l’interprete dell'opera d'arte deve necessariamente avvalersi dell'uso della metafora, della libertà dell’associazione simbolica; deve introdurre, nel rapporto con il testo artistico (o, meglio, interpretato in chiave artistica), il libero gioco (necessariamente ‘arbitrario’) del proprio mondo interiore e delle proprie esperienze intellettuali.
Ma il giudice di merito alle prese con un testo probatorio dispone della medesima libertà? Potrebbe davvero usare liberamente la metafora, l'associazione simbolica, arricchire la lettura del testo con l’introduzione arbitraria del proprio mondo interiore e di proprie particolari esperienze intellettuali?
La risposta negativa a questo interrogativo (di per sé evidente, per la radicale diversità di prospettive e di finalità dei due approcci ermeneutici) ci riporta a voci di un vocabolario o a nozioni elementari più consuete del linguaggio giuridico: la discrezionalità, che è il tratto di ogni ‘funzione’ regolata da norme giuridiche, non è (e non può essere) la libertà dell’arbitrio; e dunque, la valutazione discrezionale di un testo probatorio ha dei confini, che sono propriamente identificabili con il perimetro di tutti i significati possibili di un testo che rispondano a una logica spiegabile (meglio sarebbe dire ad una logica ‘aperta alla condivisione collettiva’), ossia (per tornare al nostro testo probatorio), con il perimetro all’interno del quale trovano posto tutte le informazioni probatorie della cui congruità, rispetto al mezzo di prova esaminato, è possibile rendere conto in termini logico-razionali (naturalmente, di una logica e di una razionalità aperte alla condivisione collettiva e orientate in termini argomentativi).
Al di fuori di quel perimetro (disegnato, occorre ripetere, dagli imperativi della logica e del ragionamento argomentativo), le scelte del giudice (nell’attribuzione di significati al testo) non costituiscono più l’esercizio di una valutazione discrezionale, ma sono solo l’esplicazione di un imprevedibile e incontrollabile arbitrio (ossia di un arbitrio destinato a seguire una logica del tutto interna e autoreferenziale); un arbitrio in forza del quale sarebbe possibile inventare qualunque significato dei testi probatori disponibili; testi che, da ‘base’ di un ragionamento logico, diverrebbero mero ‘pretesto’ di un sogno intellettuale: si tratterebbe, né più né meno, di ‘inventare prove’.
E quando il giudice ‘inventa’ una prova, non sta più valutando il mezzo probatorio sottoposto al suo esame: lo sta ‘creando’ (si vorrebbe dire d'ufficio), non avvedendosi dell’evidente errore che stravolge completamente, travisandola, la ricognizione del contenuto (che ambisce a porsi come) oggettivo del mezzo di prova esaminato.
E quando il giudice ‘crea’ una prova (d'ufficio) contro la legge sembrerebbe proprio porsi in contrasto con la regola per cui: "Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”: si tratta della regola (giuridica) contenuta nell’art. 115 c.p.c.
Si tratterebbe, dunque, di una decisione radicalmente e irriducibilmente infedele al processo per effetto della violazione di una norma giuridica.
La decisione del giudice di merito fondata sul presupposto che la fotografia di un'automobile ritragga un fiume, dunque, non è (solo) una decisione ingiusta: è propriamente una decisione illegittima, ossia resa in violazione di una specifica norma processuale; e al giudice di legittimità deve riconoscersi il potere di rilevarlo.
Le sentenze della Corte di cassazione che hanno ragionato secondo questo schema, credo si siano limitate al rilievo di questo vizio elementare (per quanto verosimilmente molto raro), aggiungendo unicamente, ai fini della rilevanza della censura, la necessità che l’istante che denunci tale vizio, oltre a dimostrare l’impossibilità di ricondurre al testo probatorio (neppure in modo indiretto) l’informazione che il giudice di merito ha ritenuto di trarne (secondo i termini di quella logica argomentativa prima descritta), dimostri altresì che l'errore denunciato, ove corretto, valga a condurre a una decisione certamente allo stesso favorevole: si tratta, in tal senso, di conferire rilievo a quel carattere di decisività della censura di legittimità, più volte richiamato anche a proposito di temi processuali di diversa natura.
Le massime che l’analisi critica dei colleghi dell’ufficio del Massimario hanno tratto, dalle nostre sentenze che si sono diffuse secondo il paradigma che ho cercato rapidamente di sintetizzare, mi pare restituiscano fedelmente il senso di quanto sin qui riportato.
Il timore – del tutto ragionevole e realistico – che l’adozione di tale prospettiva possa generare un uso strumentale del vizio del travisamento della prova, con il malizioso obiettivo di condurre il giudice di legittimità a tornare indebitamente sulla valutazione nel merito dei fatti di causa – e, dunque, la conseguente legittima preoccupazione di una moltiplicazione artificiosa dei ricorsi in sede di legittimità, non devono (né possono) indurci a legittimare un’obiettiva (ulteriore) limitazione del diritto delle persone di difendere le proprie ragioni nel processo, al solo scopo di sopperire alle sperimentate difficoltà del legislatore di governare e proporzionare, in modo più ragionevole, i flussi abnormi delle controversie condotte all’esame di una Corte Suprema.
Converrà peraltro considerare come, attraverso una severa vigilanza sui ricorsi e, soprattutto, attraverso un accurato self-restraint delle proprie asserzioni, il giudice di legittimità potrà incidere in modo significativo sul costume del foro, opponendosi con rigore ad ogni pretesa delle parti di indulgere ancora, in sede di legittimità, su temi di merito; ma senza tuttavia perdere, tra le maglie del controllo, forme palesi e inaccettabili di ingiustizia non adeguatamente sorvegliate in sede territoriale.
Si tratterebbe – per richiamare la fortunata formula – di non buttare via il bambino (dell’ingiustizia inaccettabile) assieme all’acqua ‘sporca’ (delle valutazioni di fatto).
Credo che questo specifico atteggiamento di fermezza sul senso di giustizia sia una conclusione da esaminare, non tanto (o non solo) alla stregua degli impulsi della propria coscienza civile (di cittadini, prima ancora che di giuristi), quanto piuttosto in forza di un più misurato equilibrio, se non proprio di una più meditata saggezza, nell’affrontare il senso elementare delle cose.
*Il testo riproduce l’intervento svolto, il 14 marzo 2023, nell’Incontro di studi organizzato dalla Struttura di formazione decentrata della Corte di cassazione, dal titolo “Errare Humanum…Travisare Diabolicum. La questione del travisamento nel ricorso per cassazione”, tenutosi a Roma, nell’Aula Magna della Corte di cassazione.
Sommario: I. Introduzione - 1. Le riforme del 1997 e 2012 dell’amministrazione del sistema giudiziario e i tribunali ungheresi - 2. L’amministrazione degli organi giudiziari ungheresi - II. Percorso di accesso alla magistratura - 1. I requisiti prescritti dalla legge per l’ammissione al concorso - 2. Il procedimento del concorso per magistrato ordinario.
I. Introduzione
1. Le riforme del 1997 e 2012 dell’amministrazione del sistema giudiziario e i tribunali ungheresi
Negli anni ’90 per la riforma dei sistemi giudiziari nei paesi post-comunisti le circostanze erano favorevoli: con l’esperienza della dittatura appena passata e le intenzioni verso l'integrazione europea, tutti i legislatori dei paesi dell’Est Europa cercavano di creare un'organizzazione giudiziaria indipendente e istituire consigli giudiziari indipendenti, ponendo così la selezione dei giudici nelle mani dei giudici stessi.
L’Ungheria con la riforma del 1989 ha compiuto una transizione verso un regime democratico, tale riforma ha consentito al sistema ungherese di passare da un modello di amministrazione della giustizia di tipo ministeriale ad uno compiutamente consiliare. L’articolo 50 della Costituzione del 1989 ha previsto l’istituzione del Consiglio Giudiziario Nazionale[1], effettivamente introdotto dalla legge sull’Organizzazione e l’amministrazione delle corti del 1997[2]. Con la transizione ad un sistema democratico la titolarità delle competenze che hanno ad oggetto lo status dei giudici, ad. es. reclutamento, promozioni, retribuzione, responsabilità, sono state trasferite dall’esecutivo ad un organo indipendente a composizione mista di membri togati e laici. L’adesione al modello consiliare ha consentito al sistema ungherese di soddisfare gli standard internazionali ed europei relativi all’indipendenza della magistratura[3].
La seconda riforma generale della magistratura é avvenuta con l’entrata in vigore della nuova Costituzione, la Legge Fondamentale, nel 2012[4]. La riforma della magistratura ha rappresentato un elemento centrale del processo di mutamento con il quale é stato introdotto un sistema ’ibrido’[5]. Si prevede l’istituzione di un Ufficio Nazionale per la Magistratura[6], presieduto da un giudice nominato a maggioranza assoluta dal Parlamento, al quale la nuova Costituzione attribuisce 'le responsabilità fondamentali dell’amministrazione delle corti ordinarie’, limitando il ruolo del Consiglio Giudiziario Nazionale[7] ad una funzione di mero controllo dell’amministrazione centrale, di cui risulta titolare il Presidente dell’Ufficio Nazionale. Tale assetto costituzionale rivela la volontà politica di introdurre un sistema organizzativo ’ibrido’, caratterizzato dalla coesistenza tra un organo di nomina parlamentare e un rappresentante della magistratura, all’interno del quale le funzioni che più incidono sullo status dei giudici, e.g. decisioni su carriere, trasferimenti, nomine, giudizi disciplinari dei magistrati, siano attribuite in via esclusiva al primo, relegando il secondo a funzioni meramente consultive e di controllo[8].
La ridefinizione dell’assetto istituzionale avvenuta a livello costituzionale trova conferma anche a livello legislativo, al quale la ‘Costituzione nuova’[9] rinvia per la concreta attribuzione ai due organi citati delle funzioni in materia. Dalla legge organica n. 61 del 2011 è stata realizzata un’assoluta concentrazione in un organo monocratico – il Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura – di tutte le competenze relative allo status dei giudici, alla organizzazione e al budget degli uffici giudiziari. Allo stesso tempo, la legge declina la partecipazione all’amministrazione della giustizia da parte del Consiglio Giudiziario Nazionale in termini esclusivamente accessori rispetto alle funzioni attribuite al Presidente.
Rispetto a questa ultima riforma complessa del sistema giudiziario ungherese la Commissione di Venezia ha espresso valutazioni fortemente critiche[10]. In particolare, la Commissione ha affermato che la concentrazione di poteri in un organo monocratico e la contestuale compressione del ruolo del Consiglio non solo finiscono con il contraddire gli standard europei in materia di organizzazione della giustizia, relativi al rispetto dell’indipendenza dei giudici, ma risultano difficilmente compatibili anche con la tutela effettiva del diritto a un processo giusto garantito dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo[11]. L’indipendenza del sistema giudiziario e dei giudici ungheresi é ancora un oggetto molto importante del dialogo in corso relativo allo stato di diritto tra la Commissione Europea e il Governo ungherese.
2. L’amministrazione degli organi giudiziari ungheresi
L’amministrazione centrale dei tribunali è di competenza del Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura, coadiuvato dai vicepresidenti. L’operato amministrativo del Presidente è soggetto alla vigilanza del Consiglio Nazionale Giudiziario. Il Presidente dell’Ufficio è responsabile del funzionamento e dell’efficienza dell’amministrazione centrale, deve assicurare che quest’ultima, come previsto dalla legge, svolga le proprie mansioni nell’osservanza del principio costituzionale dell’indipendenza giudiziaria. Nell’esercizio delle sue funzioni il Presidente adotta decisioni, regolamenti e raccomandazioni. Il Presidente dell’Ufficio è eletto dal parlamento nazionale – a maggioranza dei due terzi dei deputati – su proposta del Presidente della Repubblica e la carica può essere rivestita soltanto da un giudice.
Il Consiglio Nazionale esercita la vigilanza sull'amministrazione centrale dei tribunali ed è composto da 15 membri. Ne fa parte d’ufficio il Presidente della Corte suprema mentre gli altri 14 giudici sono eletti da e tra i membri dell’assemblea dei giudici delegati.
In Ungheria la giustizia è amministrata dai seguenti organi giudiziari:
- la Corte suprema (Kúria),
- le corti d’appello regionali (5),
- i tribunali regionali (20),
- i tribunali locali (107) e distrettuali (secondo i distretti di Budapest (6))
La competenza giurisdizionale dei tribunali corrisponde in generale alle suddivisioni amministrativo-territoriali del paese. I tribunali locali in campagna e distrettuali a Budapest esercitano la loro giurisdizione in primo grado per i casi civili e penali, e giudicano in composizione monocratica. I tribunali regionali si occupano dei casi civili, penali, amministrativi e del lavoro in primo grado, ove previsto in tal senso dalla legge, e decidono sui ricorsi in appello presentati contro le sentenze dei tribunali locali e distrettuali. I tribunali regionali in primo grado giudicano in composizione monocratico e in secondo grado in composizione collegiale di tre giudici.
Le Corti d’appello regionali si occupano dei ricorsi in appello presentati contro le decisioni dei tribunali regionali, sono composte dalle divisioni penale, civile, amministrativo, lavoro e giudicano in composizione collegiale di tre giudici.
Il titolare dell’amministrazione dei tribunali e delle corti è sempre il presidente, e ogni tribunale regionale e corte d’appello ha il suo consiglio giudiziario e la seduta plenaria.
La Corte suprema, con sede a Budapest, è la massima autorità giudiziaria in Ungheria, che garantisce l’uniformità di applicazione del diritto da parte dei tribunali e, a tal fine, adotta decisioni di armonizzazione del diritto che sono vincolanti per tutti i tribunali. Il presidente della Corte suprema è eletto dal parlamento nazionale – a maggioranza dei due terzi dei deputati – su proposta del Presidente della Repubblica. La carica di presidente della Corte Suprema può essere rivestita soltanto da un giudice. La Corte Suprema esamina (nei casi previsti dalla legge) i ricorsi presentati contro le decisioni dei tribunali e delle corti di appello regionali, esamina le istanze di revisione, adotta decisioni di uniformità vincolanti, esamina la giurisprudenza che emerge dalle cause definitivamente chiuse, analizza e riesamina la prassi giurisprudenziale dei tribunali, pubblica decisioni e risoluzioni in materia di principi giuridici. É composta da collegi giudicanti e collegi preposti all’armonizzazione del diritto e da sezioni penale, civile e amministrativo.
La Corte Suprema è indipendente dall’amministrazione del Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura, la sua amministrazione compete al Presidente della Corte Suprema, nominato a maggioranza assoluta dal Parlamento.
II. Percorso di accesso alla magistratura
1. I requisiti prescritti dalla legge per l’ammissione al concorso
La garanzia della qualità e dell'efficacia del sistema giudiziario si ritrova, da un lato, nelle condizioni strutturali e, dall'altro, nelle caratteristiche del personale. Come condizioni strutturali si considerano la produzione legislativa (e.g. le procedure giudiziare, la situazione costituzionale dei tribunali, la gestione dei tribunali, la distribuzione dei poteri di controllo) e le condizioni di lavoro (e.g. la gestione del personale degli uffici giudiziari, il carico di lavoro del personale, le infrastrutture personali e materiali). Un fattore chiave nel funzionamento del sistema giudiziario é il fattore “umano", che significa il sistema di selezione, nomina e promozione dei giudici. Evidentemente il modo in cui si accede alla magistratura e il potere di decidere sulla carriera di un giudice possono avere un impatto fondamentale sulla qualità del giudizio[12].
Una parte importante della riforma giudiziaria menzionata precedentemente è stata la modifica sostanziale della procedura di selezione dei giudici introdotta dalla legge n. 162 del 2011[13]. Alla magistratura professionale si accede per concorso pubblico, che assicura un procedimento trasparente, sulla base di soli requisiti di capacità e merito. Per diventare giudice di livello superiore (corti d’appello e Corte Suprema) non esiste una procedura diversa, i giudici dei livelli inferiori della magistratura (tribunali distrettuali o tribunali regionali) accedono ai tribunali superiori mediante il concorso pubblico, secondo le regole generali applicati per tutti.
I requisiti previsti dalla legge e verificati insieme con la domanda per essere nominato magistrato sono i seguenti: il candidato (i) ha più di 30 anni; ii) ha la cittadinanza ungherese, iii) possiede la piena capacità giuridica e la capacità di agire definita dal codice civile, iv) é in possesso di una laurea in giurisprudenza; v) ha espletato il periodo di 3 anni di tirocinio forense vi) ha superato l’esame di specializzazione (in materia di diritto penale e procedura penale, diritto civile e procedura civile, diritto amministrativo, diritto del lavoro e della previdenza sociale e diritto comunitario), (vii) dopo l’esame di specializzazione ha svolto almeno 1 anno di esperienza lavorativa forense e.g. segretario di tribunale o avvocato, notaio, pubblico ministero o pubblico ufficiale, viii) ha presentato la dichiarazione sul proprio patrimonio richiesta dalla legge, ed (ix) risulta idoneo ad agire come giudice sulla base del risultato ‘dell’esame d’idoneità’.
ad v) Il periodo di tirocinio
Il percorso classico per diventare magistrato inizia con lo svolgimento di un tirocinio giudiziario, che al quale si accede tramite un altro concorso pubblico[14], diverso dal concorso in relazione a un posto vacante di magistrato ordinario. La selezione è attuata mediante esame scritto e orale in materie giuridiche. Il concorso é bandito periodicamente dal Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura nella Gazzetta Ufficiale. Il contenuto e la valutazione dell’esame spettano al Presidente[15], ma il candidato viene nominato tirocinante dal Presidente del tribunale nel cui territorio è stata presentata la domanda dell’applicazione.
I vincitori del concorso assumono la qualifica di ’tirocinante di tribunale’ e svolgono il periodo di tirocinio, della durata complessiva di 3 anni, articolato in corsi di approfondimento teorico-pratico e sessioni presso uffici giudiziari. I tirocinanti frequentano tutti gli uffici giudiziari, affiancando i magistrati tutor già in servizio nello svolgimento delle funzioni giudiziarie. I corsi teorici si tengono presso il tribunale regionale, nel cui territorio il tirocinante é stato nominato e la materia della formazione professionale dei tirocinanti é disciplinata dal decreto del Ministro della Giustizia. L’attività svolta durante il periodo di tirocinio é valutata dai tutor nominati dal Presidente del tribunale regionale. Il tirocinante di tribunale non esercita funzioni giudiziarie.
Si nota che sono ammessi a partecipare al concorso per un posto vacante di magistrato ordinario anche quelli che hanno espletato il loro tirocinio in un altro campo legale, e.g. studio legale di avvocati o notarile, ma durante la loro valutazione professionale dal consiglio giudiziario questo possa essere uno svantaggio.
ad vi) L’esame di specializzazione
Concluso il periodo del tirocinio e se la valutazione del tirocinante è positiva, il candidato puó presentare la domanda per l’esame di specializzazione organizzato dal Ministero della Giustizia[16]. L’esame si divide in tre parti secondo le materie dell’esame, che materie sono: 1. diritto penale, procedura penale, diritto penitenziario, diritto delle contravvenzioni, 2. diritto civile e di famiglia, diritto commerciale e fallimentare, procedura civile 3. diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto comunitario, diritto del lavoro e della previdenza sociale.
L'esame di specializzazione è uniforme per tutti i laureati in giurisprudenza che hanno completato i 3 anni di pratica forense (magistrati, avvocati, pubblici ministeri, notai, etc.). La commissione esaminatrice è composta da professionisti provenienti da tutti i campi legali (e.g. giudici, avvocati, professori universitari, pubblici ministeri, pubblici ufficiali) che hanno almeno dieci anni di esperienza professionale legale e hanno superato l’esame di specializzazione. I membri della commissione sono nominati dal Ministro della Giustizia per un periodo di cinque anni.
ad vii) Segretario di tribunale
Dopo il superamento dell’esame di specializzazione il percorso classico per diventare magistrato continua con la nomina del candidato a ‘segretario di tribunale’. Il segretario esercita certe funzioni giudiziarie previste dalla legge nel settore penale (e.g. nei casi delle contravvenzioni e, nel settore civile, nei casi relativi al registro delle imprese o degli enti civili9 in un modo autonomo, e aiuta anche il collabora anche al lavoro dei magistrati in tutti i settori. Il segretario di tribunale é nominato dal presidente del tribunale regionale nel cui territorio svolge la sua attività.
ad ix) L’esame d’idoneità
L’esame d’idoneità é un esame fisico e psicologico. Sono autorizzati a gestirlo solo gli esperti professionisti (medici, psicologi e psichiatri) affiliati agli Istituti di ricerca per gli affari giudiziari e il procedimento dell’esame è stabilito da un decreto[17] comune del Ministero della Giustizia e del Ministero della Sanità Pubblica. Le parti principali dell'esame sono: l’esame fisico, l’esame psicologico e l’esame neuropsichiatrico. In ogni caso la commissione composta da tre esperti decide all’unanimità in merito all'ammissibilità, deve elaborare un parere professionale motivato e la decisione della commissione è impugnabile.
2. Il procedimento del concorso per magistrato ordinario
Il concorso in relazione a un posto vacante di magistrato ordinario si apre con la pubblicazione del bando. In ogni caso compete al Presidente dell’Ufficio Nazionale di bandire un concorso per un posto vacante e la legge prescrive che il processo di nomina sia aperto, non discriminatorio, trasparente e deve fornire pari opportunità a ciascun candidato. Il bando del concorso è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Magistratura e sul sito web centrale dell'amministrazione della giustizia. Il candidato deve inviare la domanda e tutti i documenti di verifica dei criteri prescritti dalla legge direttamente al presidente del tribunale regionale, nel cui circondario il posto vacante si trova, indicato nel decreto di indizione. Dopo la scadenza del termine per la presentazione delle domande ogni candidato è ascoltato dal consiglio giudiziario del tribunale regionale o della corte di livello superiore.
Dopo aver ascoltato i candidati, il consiglio giudiziario valuta i documenti presentati e la capacità professionale del candidato assegnando punti e, secondo il numero totale dei punti in classifica, indica il miglior candidato. Nella valutazione dei candidati sono presi in considerazione i criteri determinati dal decreto ministeriale[18] in cui sono determinati anche i punti di valutazione assegnati ai singoli criteri:
- la durata dell’esperienza lavorativa in un campo legale (max. 26 punti),
- la valutazione del tirocinio e la valutazione del lavoro di segretario di tribunale (max. 20 punti) o per un posto di magistratura superiore la valutazione di professionalità (max. 24 punti),
- il risultato dell'esame di specializzazione (max.10 punti),
- il titolo scientifico (max. 20 punti),
- il risultato di una formazione post-laurea relativamente alla materia in cui il candidato svolgerà la sua funzione come giudice (max. 15 punti),
- i viaggi di studio all'estero (max. 5 punti),
- le competenze linguistiche (max. 10 punti),
- le pubblicazioni su argomenti giuridici (max. 5 punti) e altre attività professionali (max. 20 punti) che possono essere prese in considerazione sempre relativamente alla materia in cui il candidato svolgerá la sua funzione come giudice.
Nel caso di un concorso per la nomina a magistrato superiore, un ulteriore criterio di valutazione è il parere della divisione o sezione del tribunale o di corte d’appello o della Corte Suprema di cui diventerà giudice il candidato vincitore del concorso (max.20 punti). Dopo aver ascoltato il candidato anche il consiglio giudiziario del tribunale lo valuta (max. 10 punti).
Al consiglio giudiziario del tribunale non é consentito di discostarsi dalla graduatoria dei candidati, ma se due o più candidati raggiungono la stessa quantità di punti, il consiglio giudiziario stabilisce l’ordine tra i candidati con una decisione motivata. Il consiglio manda le domande e l’ordine dei candidati al presidente del tribunale regionale. Se il presidente del tribunale è d'accordo con la graduatoria dei candidati, trasmette le domande e la graduatoria al Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura. Nel caso in cui il presidente del tribunale non sia d'accordo con la graduatoria dei candidati, deve motivare la sua decisione di proporre un candidato diverso dal candidato arrivato al primo posto.
Il risultato del concorso alla fine è deciso dal Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura o, nel caso di un concorso per la Corte Suprema, dal Presidente della Kúria. Se il Presidente dell'Ufficio Nazionale per la Magistratura accetta il candidato arrivato al primo posto della graduatoria, presenta la domanda di nomina al Presidente della Repubblica. Il Presidente dell'Ufficio Nazionale per la Magistratura può discostarsi dalla graduatoria e proporre il secondo o il terzo classificato per la nomina al posto vacante, ma in questo caso deve motivare la decisione e inviare la sua proposta prima al Consiglio Giudiziario Nazionale per il suo accordo.
I candidati per la prima volta sono nominati magistrati dal Presidente della Repubblica. Nel caso di una domanda per un tribunale o corte superiore il vincitore del concorso è trasferito dal Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura e nel caso di un concorso per la Corte Suprema il vincitore é nominato dal Presidente della Corte Suprema. La decisione sulla nomina del candidato è sempre pubblicata nella Gazzetta Ungherese e il candidato deve prestare giuramento prima di iniziare l'attività giudiziaria. Per la prima volta il giudice è nominato per un periodo determinato di tre anni e dopo la prima valutazione positiva sarà nominato per un periodo indeterminato.
Nel 2019 è entrata in vigore una modifica[19] della legge n. 162 del 2011 sullo ‘Status e retribuzione dei giudici’ che prevede un’eccezione per i giudici della Corte Costituzionale, eletti a maggioranza assoluta del Parlamento, che sono nominati magistrati della Corte Suprema dalla Presidente senza partecipare al concorso generale. Questa recente modifica è stata fortemente criticata dalla Commissione Europea nelle Relazioni sullo Stato di diritto degli ultimi anni.
Infine, viene si evidenzia che la legge ungherese prevede seri requisiti per quanto riguarda la condotta sociale dei giudici. Secondo le esperienze relativamente recenti del passato socialista, l'attività politica dei giudici è generalmente proibita, ciò significa che la partecipazione ad attività politiche e l'appartenenza ad associazioni o organizzazioni politici sono vietati dalla legge. Oltre al loro lavoro professionale, i giudici sono autorizzati ad impegnarsi solo con le attività scientifiche, educative, di coaching, arbitraggio, artistiche, editoriali e tecnologiche, o altre attività protette dalla legge sulla proprietà intellettuale. La legge specifica che i giudici sono autorizzati a svolgere le attività sopramenzionate solo se tale attività non mette in pericolo la loro indipendenza e imparzialità e non ostacola l'adempimento dei loro obblighi giudiziari.
Un'altra caratteristica particolare del sistema giudiziario ungherese, che ha anche le sue origini nel passato socialista è, che diversamente che in molte altre parti del mondo, nei tribunali ungheresi tra i giudici le donne sono in maggioranza rispetto agli uomini. Poi secondo il rapporto annuale 2017 della Commissione Europea in Ungheria ci sono circa 30 giudici per ogni 100 mila ungheresi. La relazione annuale della Commissione Europea per l'Efficienza della Giustizia (CEPEJ) ha valutato i sistemi giuridici nel 2022 e ha comunicato una relazione rispetto a tutti i paesi europei sulla base dei dati del 2012 e del 2020.
In Ungheria la ripartizione dei posti tra i giudici donne e uomini secondo CEPEJ:

Source: European judicial systems CEPEJ Evaluation Report (2022: 65)
Per quanto riguarda i motivi storici e sociologici bisogna ricordare che prima della seconda guerra mondiale le donne non avevano la possibilità di studiare e laurearsi alle università. Dopo la guerra è diventata più comune che le donne studiassero e avessero più possibilità di fare carriera, ma in Ungheria per circa 40 anni la filosofia comunista determinava e limitava la libertà del pensiero, il che valeva anche per il sistema giudiziario. Nell’ambiente comunista i giudici tradizionalmente lavoravano più come pubblici ufficiali che come giudici indipendenti, e la formazione dei magistrati ovviamente non sosteneva l’approfondimento del principio dell'indipendenza della magistratura. Tradizionalmente sembra che le donne si adattino meglio a lavorare in un modo burocratico e, secondo alcuni autori[20] ungheresi, per le donne laureate è sempre stato più facile fare carriere nei campi in cui si guadagna meno, perché gli uomini semplicemente si ritirano dalle carriere mal pagate. Tra i laureati in giurisprudenza, la maggior parte delle donne lavora in campo giudiziario. Come sopra menzionato i giudici ungheresi hanno possibilità molto limitate di impegnarsi con altre attività e i loro stipendi tradizionalmente sono molto bassi rispetto alle altre carriere legali.
La situazione è migliorata dalla metà degli anni 90, e nel 2019 il Ministro della Giustizia ungherese ha annunciato l’aumento degli stipendi dei magistrati di oltre il 60%. Negli ultimi anni il numero di uomini è aumentato nel sistema giudiziario, ma rimane ancora inferiore rispetto al numero delle donne. Dobbiamo ancora aggiungere il vantaggio dell'orario flessibile del lavoro, la possibilità di 'home office’ che in Ungheria esisteva nel sistema giudiziario già in un'epoca in cui per altri campi di lavoro ancora non era assolutamente riconosciuta questo modo di lavoro, la chiusura estiva e invernale dei tribunali, e si capisce facilmente perché la carriera giudiziario fosse più attraente per le donne che per gli uomini.
Infine, si nota che diversamente dal sistema italiano in Ungheria il pubblico ministero non è un organo della magistratura ordinaria, non è un giudice. La Procura della Repubblica ungherese è un’autorità indipendente prevista dalla Costituzione, soggetta soltanto alla legge. È presieduta e amministrata dal Procuratore generale, nominato a maggioranza assoluta dal Parlamento. I procuratori sono nominati dal Procuratore Generale, ma i percorsi di accesso alla procura sono molto simili all’accesso alla magistratura[21].
*Giudice della sezione fallimentare della Corte Capitale di Budapest. Il suo contributo si inserisce nell'approfondimento del tema Accesso in magistratura, precedenti contributi Accesso alla magistratura - 1. Pensieri sparsi sul concorso in magistratura di Giacomo Fumu, Riflessioni sul concorso in magistratura di Mario Cigna Il tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 di Ernesto Aghina, Il procedimento per la nomina e selezione dei giudici e pubblici ministeri nella Repubblica Federale Tedesca di Cristiano Valle, sotto la voce della rivista Ordinamento giudiziario.
[1]Országos Igazságszolgáltatási Tanács (OIT)
[2]Legge n. 87 del 1997 sulla Organizzazione e l’amministrazione delle corti (artt. 34-59)
[3]S. Penasa: L’amministrazione della giustizia in Ungheria:un sistema istituzionale ’bicefalo’ di derivazione ’democratico-illiberale’, Gli organi di governo autonomo della magistratura:un’analisi comparativa, Saggi-DPCE online, 2020/4, ISSN:2037-6677
[4] La Legge Fondamentela di Ungheria (25 Aprile 2011)
[5]Ibid. S. Penasa
[6]Országos Bírósági Hivatal (OBH)
[7]Országos Bírói Tanács (OBT)
[8]I. Vörös, The Constitutional Landscape after the Fourth and Fifth Amendment of Hungarian Fundamental Law, cit. 2 ss, Commissione di Venezia, Parere sul Quarto emendamento della Legge Fondamentale, 14-15 giugno 2013, 16 ss.
[9]La Legge Fondamentela di Ungheria (25 Aprile 2011) Articolo 25
[10]Commisione di Venezia Parere n. 663/2012, Opinion on Act CLXII of 2011 on the Legal Status and Renumeration of Judges and Act CLXI of 2011 on the Organisation and Administration of Courts of Hungary
[11]Rule of Law Report 2020 capitolo dedicato all’Ungheria.
[12]Bencze M. – Badó A. (2016): A magyar bírósági rendszer hatékonyságát és az ítélkezés színvonalát befolyásoló strukturális és személyi feltételek, in: A magyar jogrendszer állapota, MTA-TKJTI, 2016, 14_Bencze_Matyas_Bado_Attila.pdf (tk.hu), 14_Bencze_Matyas_Bado_Attila.pdf (tk.hu)
[13]Legge organica n. 161 del 2011 in materia di ’Organizzazione e amministrazione delle corti’ e la legge organica n. 162 del 2011 in materia di ’Status e retribuzione dei giudici’
[14]Decreto del Ministro della Giustizia n.11 del 1999.
[15]3/2016. (II.29.) OBH utasítás
[16]Decreto del Ministro della Giustizia n. 5 del 1991
[17]Decreto comune del Ministero della Giustizia e del Ministero della Sanità Pubblica n. 1 del 1999.
[18]Decreto del Ministro della Giustizia (KIM) n.7 del 2011.
[19]Legge no.127 del 2019
[20] A.Laczó-A.Madarasi, Dominance of female judges in the courts of Hungary – A different path to the development of women’s equality, 2022.
[21] Legge no. 164 del 2011.
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