ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, l’Europa e noi
di Maria Rosaria Marella
1. Roe v. Wade[1] appartiene alla storia americana, ma non solo. È stato come l’epicentro di un movimento tellurico che ha cambiato (per sempre) la vita delle donne e la cultura giuridica occidentali. Attorno e in seguito a quella decisione si sono prodotte svolte nel diritto europeo – dalla sentenza della Corte costituzionale italiana del 1975[2] alla parziale depenalizzazione realizzata dalla legge tedesca del 1976, fino alla nostra legge 194/78 - che hanno riguardato tutte noi. E dunque Roe è anche parte della nostra storia. E il suo overruling non ci riguarda solo come mero fatto di cronaca e neppure come un episodio (infelice) nella storia della cultura giuridica americana.
D’altra parte che Dobbs minacci di proiettare la sua ombra lugubre sulle vite delle donne di larga parte del nord globale è dimostrato dalla pronta reazione del Parlamento europeo, che in una risoluzione approvata con una larga maggioranza pochi giorni dopo la pubblicazione di Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization ha chiesto che l’accesso all’aborto sia garantito dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea con la seguente formula “ogni persona ha diritto all’aborto sicuro e legale”[3]. Le preoccupazioni del Parlamento europeo non nascono peraltro solo dalla sortita della Corte Suprema statunitense, ma sono ingenerate anche dal deterioramento della salute e dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne in alcuni paesi dell’Unione.
E dunque, proprio a partire da Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, o meglio, dall’overruling di Roe v. Wade, sarebbe interessante un esercizio di geopolitica del diritto che mappi il dislocarsi dei diritti e delle libertà, a cominciare da quelle concernenti la sfera della sessualità, nelle diverse regioni del globo.
In questo senso è utile, innanzitutto, inquadrare la vicenda Dobbs nella sua specificità di ‘storia americana’. E vale la pena di ricordare il contesto in cui l’overruling di Roe v. Wade si colloca, prima ancora di ricostruire il contesto in cui Roe, come precedente giurisprudenziale, era maturato. Poiché l’esito di questa storia americana si iscrive in un quadro di vera e propria secessione politica. Non è infatti solo l’autodeterminazione riproduttiva delle donne a essere in gioco. Anzi è possibile che l’aborto non sia altro che lo scalpo – il più prestigioso e il più caro al nemico - da esibire a chi si vuole sconfiggere su terreni ulteriori. Che riguardano i diritti civili ma non solo. La stessa Corte due giorni prima aveva dichiarato incostituzionale la legge dello stato di New York - uno stato blu, democratico - volta a limitare l’uso delle armi[4]. Una settimana dopo restringe i poteri presidenziali in tema di emissioni delle centrali elettriche a carbone, quasi a voler cancellare il tema del global warming dall’agenda politica nazionale[5]. Invero il quadro che superficialmente si avesse degli Stati Uniti quale realtà politica tendenzialmente unitaria non è affatto realistico, come la plastica distinzione, geografica innanzitutto, fra stati rossi e stati blu evidenzia. E la strategia della Corte Suprema sembra esattamente mirata a universalizzare l’orientamento politico degli stati rossi radicalizzatosi con l’avvento di Trump, estendendolo all’intera nazione. Il vero tema in Dobbs non è infatti una legge restrittiva del Mississippi da salvare, ma la risposta da dare a ben 26 stati – rossi – che espressamente chiedevano alla Corte l’overruling di Roe e Casey. E se è nota la divergenza fra stati rossi e stati blu in tema di aborto e di armi, è forse meno noto che i diritti di famiglia di stati rossi e stati blu divergono sensibilmente, tanto da legittimare la contrapposizione fra Red Families, maggiormente conformi a valori religiosi e patriarcali, e Blue Families, egalitarie e libertarie, e segnare una distanza profonda nello statuto della cittadinanza delle statunitensi a seconda di dove geograficamente locate[6]. Infine poco si sa in Europa delle legislazioni statali già in vigore o in corso di approvazione che vietano l’insegnamento nelle scuole statunitensi della Critical Race Theory – con questo termine intendendosi in realtà un resoconto accurato della storia americana della schiavitù, delle discriminazioni razziali e del razzismo nelle sue espressioni passate e presenti[7].
In questo scenario, già estremamente conflittuale e profondamente segnato in termini di genere, razza e classe (la stessa negazione del caos climatico ha e avrà un pesante impatto sociale sul terreno dell’environmental justice) l’agenda politica che la Corte Suprema sta riscrivendo avrà come saldo il sacrificio (ulteriore) dei diritti delle soggettività minoritarie.
A ben vedere un analogo schema, negli USA plasticamente reso dalla contrapposizione rossa/blu, è ravvisabile in Europa - come la risoluzione del Parlamento europeo del 7 luglio scorso evidenzia - e in altre parti del mondo. Che i diritti riproduttivi e l’autodeterminazione nella sfera sessuale siano sotto attacco è una realtà dimostrata anche dalle lotte femministe in corso in varie regioni del globo. L’intreccio fra libertà economiche, diritti del mercato e diritti fondamentali della persona, da una parte, e aspirazioni egalitarie e modernizzatrici v. pulsioni sovraniste, dall’altra, è un tema caldissimo, di cui Dobbs è un segnale importante ma non certo l’unico.
Come ha notato Paul B. Preciado, in gioco è innanzitutto il dominio delle tecnologie del corpo quale punta avanzata della libera costruzione della sfera di autodeterminazione di ciascun@, ovvero del controllo biopolitico sulle soggettività, in particolare minoritarie[8]. Ed è proprio questo il fronte di attacco di Dobbs. Che per la verità di corpo femminile neppure parla, seppellendolo sotto una fitta coltre di esasperato legalismo. Nulla della delicatezza, dell’umanità, a tratti del lirismo dell’argomentare di Roe è presente nell’opinione della Corte. Che è ormai nota. Rifacendosi alla dottrina dell’original intent il giudice Alito, estensore della decisione, rigetta l’operazione evolutiva posta in essere da Roe v. Wade qualificandola come clamorosamente sbagliata. L’argomento originalista è fondamentalmente che i diritti che nella costituzione americana non sono espressamente nominati - e il diritto ad abortire non lo è - hanno copertura costituzionale attraverso la clausola del due process ovvero l’equal protection clause del XIV Emendamento, solo laddove essi siano profondamente radicati nella storia e nella tradizione della nazione. Per dimostrare il contrario Alito percorre a ritroso il diritto americano fino a risalire Bracton (XIII secolo) cioè alle origini del common law (inglese) e giunge alla determinazione che l’aborto storicamente è sempre stato considerato un crimine; ed è stato tale fino, appunto, alla decisione, arbitraria, di Roe. Un risultato, questo, raggiunto nello specifico dopo una lunga rassegna delle leggi penali sull’aborto in vigore dall’epoca in cui il XIV Emendamento fu approvato, nel 1868, fino al 1973[9]. Che la profondità storica della ricostruzione di Alito sia fallace lo evidenzia non solo la considerazione che l’aborto fosse tendenzialmente vietato in osservanza di politiche demografiche allora in vigore in tutto l’Occidente e non per scelte d’ordine morale. Ma soprattutto non si tiene in alcun conto lo stretto legame tra la percezione della riproduzione umana e la condizione giuridica della donna in quella fase storica (poiché le donne, lo abbiamo detto, in Dobbs non esistono): nel common law tradizionale i coniugi erano considerati una sola persona e questa persona era il marito, nella cui sfera legale si dissolveva l’esistenza giuridica della moglie (coverture) [10]. Una condizione, questa, che muta assai lentamente, a cominciare dall’approvazione nel Regno Unito del Married Women’s Property Act del 1882 - che riconosce capacità di disporre alle donne coniugate - ma che permane in seno all’istituzione familiare per molti decenni in tutto l’Occidente, se solo si pensa che la Costituzione italiana del 1947 s’incarica di declamare all’art. 29 l’uguaglianza giuridica e morale (!) dei coniugi.
La conclusione cui per questa via giunge la Corte è che la questione dell’aborto non ha dignità costituzionale e deve tornare a essere decisa dai legislatori statali, anzi dal popolo, “the people of the various States”, come enfaticamente afferma Alito. Con ciò la controrivoluzione della Corte Roberts giunge al suo climax: è la “dittatura della maggioranza” che deve governare le vite; della costruzione della sfera intima e personale di ciascun@ devono ora decidere gli elettori. E con ciò in apparenza Dobbs porta a termine la sua missione, che è quella di ‘registrare’ il ruolo della Corte al fine di evitare l’arroganza del raw justice power di cui è accusato Roe, garantire la ‘sovranità’ popolare contro lo strabordare della funzione giurisdizionale, limare i tecnicismi dello stare decisis senza mai planare sulla materialità della vita che la questione dell’aborto involge.
Ma alla neutralità dei tecnicismi non è lecito credere. Il tentativo messo in campo – foriero di ulteriori, distopici sviluppi, come suggerisce il giudice Thomas nella sua concurring opinion – è quello di azzerare la rivoluzione democratica iniziata dalla Corte Warren nel 1965 con il caso Griswold v. Connecticut[11], quando l’autonomia riproduttiva e, più in generale, la sessualità fanno ingresso di prepotenza nella sfera di rilevanza costituzionale. Da allora l’uso del e il controllo sul proprio corpo si pongono al centro di alcune fondamentali decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti destinate ad avere ampia eco in Europa e nel resto dell’Occidente. È un’elaborazione condotta dalla Corte sin dai primi anni ’60, in virtù della quale la libera espressione della sessualità viene ad essere identificata con il nucleo duro di quel diritto all’autodeterminazione che si assume garantito dal XIV Emendamento, e la tutela della (constitutional) privacy, in tal modo realizzata, si tinge di caratteri apertamente countermajoritarian. Proprio quanto l’interpretazione originalista di Dobbs e la sua (possibile) onda lunga rischia di travolgere.
A partire da Griswold v. Connecticut, la Corte respinge sistematicamente i tentativi delle legislazioni statali di incidere sull’atteggiarsi delle relazioni personali a carattere sessuale. In Griswold, in particolare, è l’idea che lo stato possa decidere al posto dell’individuo che i rapporti sessuali che intrattiene all’interno del matrimonio debbano avere esclusivamente scopo riproduttivo ad essere rifiutata con forza dalla corte, la quale, pertanto, giudica illegittimo il divieto, penalmente sanzionato, di far ricorso alla contraccezione per le coppie sposate. Successivamente il principio sarà esteso anche alle relazioni sessuali fuori dal matrimonio[12]. L’orientamento giunge al suo culmine proprio con Roe v. Wade, quando la libertà di costruzione della sfera di libertà individuale si dilata fino a ricomprendere il diritto della donna di interrompere la gravidanza indesiderata. Come ha sottolineato Duncan Kennedy, con la giurisprudenza costituzionale che va da Griswold a Roe si produce un’accelerazione nella riscrittura dell’agenda politica in materia di family law voluta dalle élite liberal e femministe, particolarmente influenti negli stati roccaforte del partito democratico. Più precisamente la Corte Suprema in quella stagione asseconda e sostiene un cambiamento culturale che la forza della politica da sola non era in grado di imporre[13]. Ma nella giurisprudenza Warren e con Roe c’è di più. Il corpo e la sessualità si coniugano alla costruzione giuridica della sfera privata come ambito distinto e contrapposto alla sfera di dominio del pubblico potere; abitudini sessuali e scelte procreative individuali divengono il nucleo costituzionale del diritto di privacy e prendono il posto della proprietà privata nel ridefinire la dicotomia pubblico/privato propria dei regimi liberali. All’avere, perno del binomio proprietà/libertà, si sostituisce la sfera intima individuale e la sua libera costruzione.
La libertà di autodeterminazione diviene allora centrale nella grammatica dei diritti, baluardo contro le intromissioni dello stato nella sfera privata dei cittadini, e la sua tutela, nella veste di constitutional privacy, è giocata in funzione antiautoritaria contro ogni tentativo di imposizione al singolo di valori fatti propri dalla legislazione statale, quand’anche condivisi dalla maggioranza dei cittadini[14].
L’autodeterminazione in tal modo declinata, lungi dal riguardare aspetti considerati marginali nella vita e nel diritto, perché ‘intimi’, acquista un ruolo centrale nella dottrina della Corte: per essa la privacy è penumbra, vive cioè nella penombra di tutti i diritti e le libertà garantiti dalla costituzione americana, ne costituisce il presupposto necessario, poiché non si dà effettivo esercizio di un diritto se non è garantita la libertà di autodeterminazione[15]. E questa autodeterminazione passa appunto per il corpo.
Questo motivo sarà ulteriormente precisato In Planned Parenthood v. Casey una decisione successiva ancora in tema di aborto, quando la Corte affermerà a chiare lettere la sua missione, salvaguardare le libertà di ognun@, a prescindere dalle convinzioni morali che possono muovere i singoli componenti (della maggioranza) della Corte. Non è esattamente quanto pensa di dover fare ora la Corte Roberts. Al contrario l’operazione di smantellamento della libertà di autodeterminazione va ben oltre Roe, intende travolgere l’intero impianto dottrinale che la sostiene sino a Griswold, al principio, affermato con forza in quella sentenza, che la constitutional privacy sia sottaciuta nel Bill of Rights americano non in quanto estranea al tessuto costituzionale, ma al contrario in quanto “penumbra”, presupposto e condizione dell’esercizio di ogni altro diritto costituzionale. È piuttosto logico che rimuovendo quella pietra angolare l’intero edificio sia destinato a crollare.
Se ciò non avverrà sarà forse per ragioni di convenienza, ad esempio, perché far cadere la libertà costituzionale di autodeterminazione sui contraccettivi significherebbe mettersi in aperto conflitto con Big Pharma. O invece perché solide alleanze intersezionali fra le soggettività colpite o minacciate dalla controrivoluzione tentata con Dobbs saranno in grado di fermarla[16].
2. L’orientamento statunitense in tema di constitutional privacy ha fatto breccia anche di qua dell’oceano e sviluppi analoghi hanno caratterizzato l’applicazione da parte della Corte di Strasburgo dell’art. 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) sin dai primi anni Ottanta[17], con il risultato di garantire la tutela dell’autodeterminazione in materia di orientamento sessuale ben prima della Corte Suprema degli Stati Uniti[18]. Più di recente, la Corte di Strasburgo ha coniato il concetto di autonomia personale, di cui la libertà sessuale sarebbe parte integrante: su questa base è stata affermata l’illegittimità dell’interferenza statale, e, segnatamente, dell’intervento del diritto penale, anche rispetto a pratiche sadomasochiste estreme e particolarmente cruente, purché poste in essere in privato e con il consenso della ‘vittima’[19].
Vero è che l’irresistibile ascesa della constitutional privacy nel diritto statunitense aveva subito una pesante battuta d’arresto nella seconda metà degli anni ’80, di fronte allo scoglio del riconoscimento della libertà di coltivare pratiche erotiche connesse all’orientamento sessuale[20]. In quella circostanza la Corte affermò che la libertà di autodeterminazione non poteva prevalere sulla tradizione, sul comune sentire, ché la sodomia era tradizionalmente perseguita penalmente nella maggior parte degli Stati e non ricadeva sotto l’ombrello protettivo del XIV Emendamento. Tale scoglio sarà superato solo all’inizio del nuovo millennio, con una storica decisione che coniuga l’affermazione della libertà di autodeterminazione in materia sessuale al valore della dignità umana[21].
Il rispetto della dignità sarà un punto qualificante anche in Obergefell[22], la famosa decisione della Corte Suprema in tema di same sex marriage che accoglie l’idea, già fortemente affermata dall’ala pro-marriage del movimento LGBT+, che il matrimonio per le soggettività non eteronormate sia in sé dignifying. Ma un riferimento alla dignità è anche in Gonzales, primo temutissimo caso sull’aborto deciso dalla corte Roberts[23]. E qui la dignità è riferita al feto. Così come in vari passaggi in Dobbs, in cui la dignità sembra diventare una prerogativa della vita prenatale.
La svolta della Corte Suprema nella relazione che viene a determinarsi fra autodeterminazione e dignità, ancora nelle sue ultime sortite liberal, merita una breve riflessione conclusiva che gioverebbe ulteriormente sviluppare. Come si è detto, l’autodeterminazione sul corpo si è prefigurata da Griswold in poi nel diritto occidentale come un formidabile veicolo di emancipazione e liberazione sessuale perché, pur nei limiti del bilanciamento con altri interessi, nella constitutional privacy si iscrive una sostanziale insindacabilità delle scelte sul corpo. La matrice antiautoritaria di questa costruzione giuridica, come abbiamo detto, porta a una riscrittura dei rapporti pubblico/privato, cittadino/stato, dove i diritti riproduttivi e il controllo sul proprio corpo demarcano la sfera di intervento dello stato un tempo delimitata dal diritto di proprietà. Il principio del rispetto della dignità umana ha tutt’altra vocazione. La dignità è tale perché appartiene al genere umano e implica invece sempre una valutazione collettiva, una scelta di valore condivisa in merito alla stessa definizione di ciò che è degno[24].
Ma il dominio delle tecnologie del corpo, se deve essere architrave dello statuto della cittadinanza contro ogni montante autoritarismo, non può che comportare un margine individuale di insindacabilità. Ed allora sembra corretta la scelta del Parlamento europeo contenuta nella risoluzione del 7 luglio scorso, di reclamare il riconoscimento del diritto all’aborto legale, sicuro (e gratuito) all’interno dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dedicato al rispetto della vita privata e della vita familiare, nel Capo II, intitolato alla libertà.
3. Proprio a quest’ultimo proposito, appaiono necessarie alcune ulteriori considerazioni conclusive, di carattere generale, che investono direttamente il tema dell’autodeterminazione riproduttiva femminile per come esso potrebbe atteggiarsi sulla scorta di Dobbs anche di qua dell’oceano.
Una prima notazione muove dal registro prescelto da Dobbs. Nell’opinione della corte – come accennato – non si fa mai diretto riferimento alle donne, come se non fosse di un loro diritto che si discetta e come se il tenore del decisum non fosse destinato ad avere un impatto enorme sulle loro vite. Women compare nella intestazione del caso (Dobbs v. Jackon’s Women Health Organization), nient’altro. Ricorre invece il riferimento all’unborn human being e largo spazio nell’argomentare è dedicato al tema della vitalità del feto, il c.d. quickening. Ciò che ha una sua suggestività, al di là del registro della decisione, marcatamente tecnico sul piano sia medico sia giuridico. Tanto non stupisce. Come sempre nelle posizioni antiabortiste, la donna o è l’antagonista, l’avversaria da neutralizzare, o non esiste affatto. E in Dobbs, in effetti, non esiste. Ora, sulle ricadute di questo approccio è opportuno un chiarimento, anche a beneficio del dibattito che va prefigurandosi in Italia e in Europa sotto il vessillo dei movimenti pro-life. Il diritto funziona secondo meccanismi suoi propri che tendono a emanciparsi dai codici morali che possano eventualmente ispirarlo. Se la lezione di Casey[25] (“Our obligation is to define the liberty of all, not to mandate our own moral code”) non è (più) nelle corde della Corte Suprema e dei suoi possibili epigoni overseas, resta il fatto che personificare il feto (o l’embrione, o il concepito, o il nascituro a seconda della terminologia invalsa nel dibattito pro-life) o attribuire alla vita prenatale dei diritti, indefettibilmente configura la gestazione come un potenziale conflitto fra due soggetti, la madre e il concepito. Anche in considerazione della forza dirompente acquistata negli ultimi decenni dal principio del best interest of the child in tutte le giurisdizioni del nord globale, nazionali e sovranzionali, non solo l’interruzione volontaria della gravidanza, ma lo stesso controllo sul proprio corpo sarebbero per motivi evidenti sottratti alla gestante. Quali comportamenti potenzialmente ‘a rischio’ per il feto (fumo, sesso, guida di autoveicoli, sport, ecc.) sarebbero da considerare leciti? Quali dovrebbero essere inibiti alla futura madre? Letta con gli occhi del diritto, la quotidianità di una gravidanza si risolverebbe in una sequela di ipotesi di conflitto d’interessi fra la gestante-donna e la gestante-madre. E chi allora dovrebbe rappresentare gli interessi del feto? L’istituto del curator ventris tornerebbe improvvisamente d’attualità[26]. Non c’è dubbio che in questa direzione portino iniziative recenti, come l’ICE enfaticamente intitolata “Uno di noi”, che la Commissione europea ha sostanzialmente respinto[27].
Un secondo ordine di considerazioni discende dall’approccio originalista che si dispiega in Dobbs e che – come Justice Thomas preannuncia nella sua concurring opinion - finirà per travolgere l’intera costruzione della constitutional privacy inaugurata con Griswold v. Connecticut nel 1965. Alla luce di quanto abbiamo detto sin qui, è necessario chiedersi se sia possibile e se sia opportuno espungere la libertà individuale di autodeterminazione sul proprio corpo dalla costituzione. E se sia possibile e opportuno che ciò avvenga in un sistema federale, con il dichiarato intento di restituire la competenza a deciderne agli stati, cioè alle maggioranze politiche contingenti che di volta in volta prendano corpo nei singoli parlamenti statali. Il punto ci riguarda da vicino poiché le analogie col caso italiano sono maggiori di quanto di primo acchito non sembri. Sin dalle anticipazioni circolate qualche mese addietro con riguardo alla c.d. bozza Alito, non poche voci si sono levate in Italia per reclamare una revisione della legge 194 del 1978[28]. Come ho premesso, l’ombra lunga di Dobbs non tarderà a dispiegarsi nel dibattito nostrano e con tutta probabilità avrà il sapore di uno sdoganamento delle posizioni più apertamente anti-abortiste. Una delle possibili prospettive in questa direzione è quella di negare alle donne il diritto all’accesso alla IVG, nei termini definiti dalla l. 194, attraverso una lettura restrittiva del bilanciamento salute della donna/tutela della vita prenatale contenuto nella legge o, più probabilmente, con la modifica della legge stessa, per lasciare ai singoli servizi sanitari, regione per regione, la decisione sul se e come garantire la prestazione. Uno scenario non troppo dissimile da quello attuale, come noto caratterizzato da un’accentuata disomogeneità di garanzie fra regione e regione, dovuta tanto alla diversità di regimi nella somministrazione della pillola abortiva RU 486, quanto alla differente incidenza dell’obiezione di coscienza. Ma la sua formalizzazione in una legge nazionale è altra cosa. E proprio in Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization sembra ora cercare la sua legittimazione.
[1] 410 U.S. 113 (1973). Si veda anche il caso gemello Doe v. Bolton, 410 U.S. 179 (1973).
[2] Corte cost., 18 febbraio 1975, n. 27.
[3] Risoluzione del Parlamento europeo del 7 luglio 2022 sulla decisione della Corte suprema statunitense di abolire il diritto all'aborto negli Stati Uniti e la necessità di tutelare il diritto all'aborto e la salute delle donne nell'UE (2022/2742(RSP)).
[4] New York State Rifle & Pistol Association, Inc. v. Bruen, 597 U.S., (2022).
[5] West Virginia v. Environmental Protection Agency, 597 U.S., (2022).
[6] Cfr. N. Cahn e J. Carbone, Red Families v. Blue Families. Legal Polarization and the Creation of Culture, Oxford University Press, 2010.
[7] Cfr. Du. Kennedy et al., Sostieni la libertà accademica negli Stati Uniti. Fermiamo gli attacchi alla Critical Race Theory, Riv. crit. dir. priv., n. 1/2022, p. 109 ss.
[8] V. G. Merli, Preciado: «Fanno di tutto per fermare la rivoluzione in atto», ne Il manifesto, 26 giugno 2022.
[9] In realtà nel 1959 l’American Law Institute elaborò uno schema di legislazione per depenalizzare l’aborto in determinati casi, per esempio i casi di aborto terapeutico, che già venivano praticati in molti ospedali. Almeno 13 stati accolsero questo schema di legislazione già prima del 1973 e in alcuni di essi le leggi adottate erano più permissive di quanto prescritto in Roe.
[10] Questa doctrine è ben esplicata da W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England, 1770, Vol.I, p. 442: “the very being or legal existence of the woman is suspended during the marriage, or at least is incorporated and consolidated into that of the husband: under whose wing, protection, and cover, she performs every thing; and is therefore called in our law-french a feme-covert, femina viro co-operta; is said to be covert-baron or under the protection and influence of her husband, her baron, or lord; and her condition during her marriage is called her coverture. Upon this principle, of an union of person in husband and wife, depend almost all the legal rights, duties, and disabilities, that either of them acquire by the marriage”.
[11] Griswold v. Connecticut, 381 U.S. 479 (1965).
[12] Eisenstad v. Baird 405 U.S. 438 (1972).
[13] Du. Kennedy, Consciousness, Doctrine, and Politics in the History of American Family Law. Harvard Public Law Working Paper No. 21-40.
[14] Sia consentito il rinvio a M.R.Marella, I diritti civile fra laicità e giustizia sociale, in Diritto e Democrazia nel pensiero di Luigi Ferrajoli, a cura di S. Anastasia, Torino, Giappichelli, 2011, p. 45 ss.
[15] Antonio Baldassarre, divenuto giudice della Corte costituzionale italiana dopo aver studiato l’elaborazione dottrinale della privacy ad opera della Corte Suprema statunitense, importa quello stesso modello con una serie di sentenze in cui si riproduce l’idea della penumbra (Corte cost., 14 gennaio 1991, n. 13, in Foro It., 1991, 1, 365; Corte cost., 19-12-1991, n. 467, in Giur. It., 1992, I,1, 630; Corte cost., 22 giugno 1992, n. 290, in Foro It., 1992, I, 3226 con nota di Colaianni; Corte cost., 11 marzo 1993, n. 81, in Foro It., 1993, I, 2132; Corte cost., 28 luglio 1993, n. 343, in Giur. It., 1994, I, 176; Corte cost., 31 marzo 1994, n. 108, in Giur. It., 1994, I, 362.). Della constitutional privacy all’italiana non è altrettanto chiara, tuttavia, la vocazione antimaggioritaria: dalla giurisprudenza Baldassarre emerge piuttosto l’idea che l’autodeterminazione si nutra dell’insieme dei valori che sottendono la carta costituzionale e sia dunque tale da far emergere ciò che in essa è implicito. Ma altre voci in dottrina individuano più chiaramente nella privacy un argine contro l’imposizione di valori dominanti (cfr. A. Cerri, voce Riservatezza, Enc. giur. Treccani, Roma, 1995).
[16] L’influenza dei movimenti sociali sugli orientamenti della Corte Suprema è messa a tema in una ricca letteratura statunitense. Cfr. fra gli altri: Reva B. Siegel, Constitutional Culture, Social Movement Conflict and Constitutional Change: The Case of the De Facto ERA, 94 CALIF. L. REV. 1323 (2006); Jack M. Balkin, How Social Movements Change (or Fail to Change) the Constitution: The Case of the New Departure, 39 SUFFOLK U. L.REV. 27, 52 (2005)
[17] Cfr. G. Marini, La giuridificazione della persona. Ideologie e tecniche nei diritti della personalità, in Riv. dir. civ., 2006, I, p. 359 ss.
[18] Dudgeon c. Regno Unito, decisione del 22 ottobre 1981, serie A n. 45, 18, § 41.
[19] Corte Europea dei diritti dell’uomo, 17 febbraio 2005, K.A. e A.D. c. Belgio, di cui può leggersi il commento - decisamente critico, ancora una volta giocato sul rispetto della dignità umana – di M. Fabre-Magnan, Le sadisme n’est pas un droit de l’homme, Dalloz, 2005, 2973.
[20] Bowers v. Hardwick, 478 U.S. 186 (1986).
[21] Lawrence v. Texas, 539 U.S. 558 (2003), su cui v. da noi V. Barsotti, Privacy ed orientamento sessuale. Una storia americana, Torino, Giappichelli, 2005.
[22] Obergefell v. Hodges, 576 U.S. 644 (2015).
[23] Gonzales v. Carhart, 550 U.S. 124 (2007) su cui cfr. A. D’Angelo, Ai confini della libertà. La !Corte Roberts” e un principio da erodere, in RCDP, 2007, p. 713.
[24] C. M. Mazzoni, Quale dignità? Il lungo viaggio di un’idea, Firenze, 2019; G. Resta, La disponibilità dei diritti fondamentali e i limiti della dignità (note a margine della Carta dei Diritti), in Riv. dir. civ., n. 6/2002, p. 801 ss.; M. R. Marella, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo di contratti, in Riv. cri. dir. priv., n. 1/2007, p. 67 ss.
[25] Planned Parenthood v. Casey, 505 U.S. 833 (1992).
[26] Fra le proposte di modifica dell’art. 1 del codice civile volte a estendere la capacità giuridica al concepito si veda ad es. PDL Volontè del29 aprile 2008.
[27] COM (2014) 355 final. In tema cfr. M. Mori, La 3° Marcia per la Vita e l’iniziativa “Uno di noi”: risveglio del prolifeismo o segno di passatismo?, in Bioetica, 1/2013, p. 5. Sulla comunicazione della Commissione si è innestata poi una vicenda giudiziaria conclusasi con la condanna alle spese dei cittadini promotori: Patrick Grégor Puppinck e a. contro Commissione europea, Causa C-418/18 P (Corte di Giustizia Ue, Grande Sezione, sentenza del 19 dicembre 2019).
[28] Si veda ad es. G. Razzano, A proposito della bozza Alito: l’aborto è «una grave questione morale» e non un diritto costituzionale, in Giustizia Insieme, 24 giugno 2022, al link https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2379-a-proposito-della-bozza-alito-l-aborto-e-una-grave-questione-morale-e-non-un-diritto-costituzionale.
Brevi osservazioni sulla tutela penale del credito garantito dallo stato in occasione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 (cd. Decreto liquidità)
di Giuseppe Sepe
Sommario: 1. Inquadramento del tema - 2. La posizione assunta dalle Corte di Cassazione, Sezione sesta - 3. Qualche considerazione critica - 4. Considerazioni di chiusura.
1. Inquadramento del tema
In due recenti pronunce[1] la Corte di Cassazione, sezione sesta, attrae nell’orbita dell’art. 316 ter cod. pen. la condotta di colui il quale acceda al credito garantito dallo Stato sulla base di dichiarazioni infedeli.
Con una terza decisione la sesta sezione della S.C. ha invece escluso che lo sviamento delle somme dalle finalità cui il finanziamento è destinato per legge, configuri il reato di cui all'art. 316 bis cod. pen. [2].
Si ricorderà che con il cd. decreto liquidità (d.l. 23/2020) [3] il Fondo di Garanzia per le Piccole e Medie imprese era stato convertito in uno strumento capace di garantire la erogazione di prestiti bancari allo scopo di favorire imprese, artigiani, autonomi e professionisti danneggiati dall’emergenza sanitaria causata dal covid 19 [4].
L’accesso alla garanzia concessa dal fondo era stato sburocratizzato e semplificato, tanto da non richiedere la valutazione del merito creditizio per i prestiti di importo fino a 25.000 euro non superiori al 25% dei ricavi dell’impresa.
In particolare, l’art. 13 co. 1 lett. m) del d.l. 23/2020, conv. in l. n. 40/2020, aveva previsto l’ammissione alla garanzia del Fondo per le PMI di “nuovi finanziamenti” concessi da banche, intermediari finanziari di cui all'articolo 106 del TUB e dagli altri soggetti abilitati alla concessione di credito in favore di piccole e medie imprese… la cui attività d'impresa sia stata danneggiata dall'emergenza sanitaria da covid-19.
Tale congegno normativo prevede che il finanziamento sia materialmente erogato da un Banca o società di leasing o altri intermediari finanziari, con la garanzia del Fondo per le PMI, sostenuto dal Ministero per lo Sviluppo Economico, che, però, non interviene direttamente nel rapporto tra banca e cliente (tassi di interesse, condizioni di rimborso ecc., sono lasciati alla contrattazione tra le parti).
In concreto si tratta di una garanzia pubblica, finalizzata a sostituire le onerose garanzie normalmente richieste per ottenere un finanziamento cui, eventualmente, imprese in difficoltà non potrebbero accedere.
Alla data del 15 giugno 2022, secondo i dati del Mef, le richieste di garanzia per i nuovi finanziamenti bancari ammontano a 251,6 miliardi (su 738,205 richieste).[5]
Data l’ampiezza del fenomeno e il suo impatto sulle finanze pubbliche, ci si poteva attendere, in concomitanza alla messa in piedi del potente meccanismo di sostegno economico alle imprese, l’introduzione di un’apposita normativa penale atta a prevenire e reprimere abusi e comportamenti scorretti e/o decettivi in senso ampio. Cosa che, invece, non è avvenuta[6].
La giurisprudenza è dunque chiamata a chiarire se ed in che modo eventuali comportamenti finalizzati a conseguire illegittimamente il finanziamento garantito dallo Stato rientrino nelle ipotesi incriminatrici codicistiche posto che, come si è visto, il finanziamento è rilasciato da un soggetto privato, con la garanzia pubblica.
2. La posizione assunta dalle Corte di Cassazione, Sezione sesta
Ebbene, la sentenza della sezione sesta della Cassazione, n. 2125 del 24/11/2021 Cc. (dep. 18/01/2022) Rv. 282675, imp. Bonfanti, stabilisce che la condotta di colui che ottenga un finanziamento garantito dallo Stato, giovandosi di dichiarazioni mendaci, integra l’ipotesi di reato di cui all’art. 316 ter c.p.
Osserva la Corte che, sebbene il finanziamento venga rilasciato da un istituto di credito privato, la garanzia a carico dello Stato si risolve nella erogazione di un apporto avente un “valore economico” che rientra nel concetto di “erogazioni…comunque denominate” menzionate dall’art. 316 ter c.p.
Il ragionamento della Corte, come si vedrà, è incentrato sulla ricostruzione della “ratio” della disposizione incriminatrice, che è quella di fronteggiare il grave e crescente fenomeno della devianza economico finanziaria [7].
La nozione di “erogazione” viene ampliata fino a ricomprendere la concessione di una garanzia, ossia l’impegno assunto dallo Stato nei confronti del soggetto concedente il finanziamento, a farsi carico dell’obbligazione restitutoria in caso di inadempimento, eventuale, del contraente.
Sulla scorta di quanto già osservato da Cass. Sez. Un., Sent. n. 7537 del 2011, il linguaggio adoperato dal legislatore nell’art. 316 ter cp non sarebbe “tecnico”, ma generico. Alla nozione di “contributo” e di “ogni altro atto ad esso assimilato” non sarebbe “coessenziale” una “elargizione in danaro”, trattandosi di un “apporto per il raggiungimento di una finalità pubblicamente rilevante e tale apporto, in una prospettiva di interpretazione coerente con la ratio della norma, non può essere limitato alle sole elargizioni di danaro” (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 7537 del 2011).
In altre parole, qualsiasi “aiuto pubblico” che, pur non concretandosi nella dazione di una somma di denaro, sia diretto ad agevolare un soggetto economico, rientrerebbe nel concetto di “erogazione, dello stesso tipo, comunque denominate”.
Evidente, dunque, lo slittamento verso una lettura estensiva del concetto di “contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate” laddove la prestazione della garanzia è ricondotta al rilascio di una “erogazione”, comunque denominata.
Dal canto suo, la seconda sentenza che qui si commenta (Cass. Sez. 6, n. 11246 del 13/01/2022 Cc. (dep. 28/03/2022) Rv. 283106, imp. Pressiani), dopo aver ricostruito la natura pubblica del fondo di garanzia, si spinge più avanti e assume il “complessivo carattere pubblico dell'erogazione del prestito garantito”. In particolare la decisione afferma che “l’unitario contenuto dell'erogazione pubblica non si presta ad essere scisso (da un lato il prestito e dall'altro la garanzia dello Stato)” giacché il finanziamento “trova la sua causa” proprio “nella garanzia” che lo Stato assegna alla finalità pubblica di impulso all'economia privata. Nel senso che “senza la garanzia il prestito non sarebbe stato concesso”. Quindi il prestito assume “una funzione propriamente pubblicistica”.
La ricostruzione in termini unitari dell’operazione economica e la sua ritenuta natura pubblicistica, nonostante le perspicue argomentazioni del giudice di legittimità, sono però resistite dalla considerazione che, in realtà, l’assunzione di garanzia statale è finalizzata proprio a favorire il rilascio di prestiti da parte delle banche senza che l’esborso sia sopportato direttamente dallo Stato[8]. Poiché le banche, in assenza di adeguate garanzie, non avrebbero concesso i prestiti necessari a sostenere il tessuto economico, ecco che lo Stato si è fatto garante, per il caso di inadempimento. Dedurne però la complessiva natura pubblicistica e considerare pubblica l’erogazione di capitali privati comporta, a nostro avviso, un “salto” logico abbastanza importante.
Come si è anticipato, inoltre, la stessa Sesta Sezione della S.C. (Sez. 6 - , sent. n. 22119 del 15/04/2021 Cc. (dep. 04/06/2021) Rv. 281275, imp. Rainone) ha escluso che lo sviamento del finanziamento garantito da SACE spa (per le finalità previste dall’art. 1 d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020, n. 40) integri il reato di cui all’art. 316 bis c.p. con argomentazioni basate sulla circostanza che “il finanziamento, sebbene connotato da onerosità attenuata e destinato alla realizzazione delle finalità di interesse pubblico… non viene erogato direttamente dallo Stato o da altro ente pubblico, bensì da un soggetto privato”. La Corte ha poi osservato che la garanzia pubblica diventa operativa solo con l’inadempimento dell’obbligazione restitutoria “cosicché, in assenza di tale presupposto, ogni onere connesso all'erogazione del finanziamento rientra esclusivamente nel rapporto principale tra l'impresa ed il soggetto finanziatore” Si tratta, in sostanza, di una ratio decidenti diametralmente opposta a quella che sorregge gli altri due pronunciamenti sopra commentati.
3. Qualche considerazione critica
Può svolgersi, a questo punto, un tentativo di ragionata critica dell’indirizzo di legittimità che ammette la configurabilità dell’art. 316 ter c.p., sulla scorta della dottrina che, già all’indomani dell’approvazione del cd. decreto liquidità, ha espresso dubbi sulla riconducibilità dei comportamenti decettivi in materia al campo di operatività di tale fattispecie.[9]
Pur ammettendo il legittimo ricorso alla interpretazione teleologica (che, cioè, guardi allo scopo, agli interessi, ai “valori” che la norma mira a proteggere) [10], ne avvertiamo i limiti che derivano dal necessario “self restraint” che il giudice deve osservare in campo penale. In questo ambito, com’è noto, occorre evitare letture omnicomprensive capaci di minare, svuotandone il senso, i principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, che a loro volta presidiano certezza del diritto, conoscibilità, prevedibilità, autonomia e responsabilità personale.
La prima obiezione ruota intorno alla interpretazione linguistica della fattispecie di cui all’art. 316 ter cp e consiste in questo, che i richiamati concetti di “contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui” rimandano ad esborsi, dazioni, apporti che lo Stato o l’ente pubblico “eroga” direttamente in favore del soggetto richiedente.
Semanticamente, può anche ammettersi che il contributo non sia necessariamente pecuniario, sebbene la massima parte dei contributi, sovvenzioni, finanziamenti e mutui consistano proprio nell’attribuzione, agevolata o a fondo perduto, di somme di denaro.
Tuttavia, nel richiamare altre “erogazioni del medesimo tipo”, il legislatore fa riferimento a un “tipo comune”, ossia un modello, uno schema comune, nel quale, con qualche difficoltà può rientrare anche la prestazione di garanzia, che sembra sfuggire alla richiamata tipologia. Non solo perché la prestazione di garanzia non comporta, nell’immediato, alcun esborso pecuniario a carico dello Stato, che assume l’impegno verso il finanziatore in caso di inadempimento, futuro ed eventuale, dell’obbligazione restitutoria; ma perché la garanzia è prestata in favore di un terzo, la banca finanziatrice, sebbene sia legata all’inadempimento del soggetto richiedente il prestito.
In altre parole, la prestazione di una garanzia può anche legittimamente ritenersi alla stregua di un “contributo” o di una “erogazione”, ma di tipo diverso dai contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui elencati nella norma incriminatrice.
Il fatto che, richiamando l’autorevole precedente delle S.U. del 2010, n. 7532, la Cassazione ribadisca che i concetti espressi dal legislatore siano generici e non tecnici, non è di per sé tranquillizzante in punto di sufficiente tassatività della fattispecie né può bastare a orientare l’interprete nel ponderato bilanciamento tra opposte esigenze e cioè, da un lato, la necessità di reprimere le aggressive forme di devianza economico-finanzaria, e dall’altro quella di evitare di cadere nell’analogia in malam partem.
In secondo luogo, potremmo domandarci se la lettura estensiva di “erogazioni del medesimo tipo” salvaguardi la chiarezza e conoscibilità soggettiva del comando legale. Se, cioè, il soggetto richiedente la garanzia sia persuaso di mirare a una “erogazione del medesimo tipo” di quelle menzionate nella norma incriminatrice. Il richiedente, infatti, si impegna contrattualmente con un soggetto privato con lo scopo di ottenere un finanziamento bancario, mentre il rilascio della garanzia pubblica è un passaggio strumentale a tale risultato.
Bisognerebbe, in terzo luogo, interrogarsi sul “valore economico” della garanzia su prestiti di ammontare limitato (nel caso esaminato dalle sentenze citate i prestiti ammontavano a 25.000 e 13.000 euro; a 20.000 euro nel caso esaminato dalla sentenza Rainone) poiché se il valore non supera la soglia di rilevanza penale (fissata a 3.999 euro), il fatto va derubricato a illecito amministrativo.
Al riguardo, il valore della garanzia personale non coincide, a nostro avviso, con l’importo del finanziamento. Con la decisione di garantire prestiti per oltre duecento miliardi di euro, si è ipotizzato che solo una quota, ridotta, dei finanziamenti non sarà restituita in tutto o in parte, dando luogo all’escussione della garanzia da parte dei finanziatori.[11] Le amplissime dimensioni dell’operazione di aiuto di Stato fanno propendere per l’assimilazione della prestazione di garanzia a un fatto latamente assicurativo, sicché il concreto valore economico di ciascuna prestazione coinciderà con il premio di rischio calcolato e assunto dallo Stato con riferimento al complesso e a ciascuna delle garanzie prestate. In breve, il danno all’erario non coincide necessariamente con l’importo del finanziamento ottenuto.
Questo tema è però affrontato dalla sentenza Bonfanti distinguendo il profilo del danno arrecato al Fondo di garanzia, che si realizza con “l'attivazione della garanzia da parte dell'ente che ha erogato il finanziamento” da quello del profitto del reato, inteso come “arricchimento patrimoniale conseguito in rapporto di immediata e diretta derivazione causale dalla condotta illecita contestata”. In merito la Corte osserva che il prodursi del danno “non condiziona l'insorgenza del profitto ingiusto che si verifica con il conseguimento del prestito da parte del beneficiario grazie all'erogazione della garanzia fideiussoria non dovuta”.
Ora, che il finanziamento costituisca una conseguenza “diretta e immediata” dal reato è già opinabile, in quanto, per l’appunto, la prestazione della garanzia statale “media” il rilascio del prestito[12].
Ma anche a voler includere il finanziamento nel profitto del reato (così giustificando sequestro e confisca della somma di denaro), ciò non basta per discriminare il superamento della soglia di rilevanza penale fissata dall’ultimo comma dell’art. 316 ter c.p. poiché, nel riferirsi a “somma indebitamente percepita”, la norma fa riferimento esclusivamente agli aiuti erogati “dallo Stato, da altri enti pubblici e dalle Comunità europee” lasciando fuori, con ogni evidenza, gli importi ottenuti da soggetti diversi dallo Stato.
Ragionare diversamente e considerare l’ammontare del finanziamento per definire il superamento o meno della soglia di rilevanza penale, è fuori dalla stretta interpretazione dell’art. 316 ter c.p., a scapito, stavolta, della stessa ratio della disposizione incriminatrice, la quale non si occupa della tutela degli aiuti prestati da soggetti privati focalizzandosi esclusivamente sugli aiuti di Stato.
Andrebbe, in quarto luogo, valutato se la repressione penale della condotta decettiva sia compatibile con il principio di offensività. In caso di restituzione del finanziamento, nei tempi e nei modi pattuiti, la pubblica finanza non viene messa concretamente a repentaglio, giacché il finanziatore non escuterà la garanzia statale, lo Stato non verrà chiamato a risponderne economicamente e l’operatore privato non avrà subito pregiudizi di sorta (anzi avrà lucrato sugli interessi versati dall’impresa finanziata). Sotto altra prospettiva, la repressione dell’acquisizione, in forma abusiva, di una garanzia statale dà evidentemente luogo a una anticipazione della tutela, giacché, per l’appunto, si incrimina e si sanziona non già il comportamento da cui origina il danno per le finanze pubbliche, ma la sola acquisizione di una garanzia personale, la quale, semmai, non verrà escussa e non opererà mai. Se l’attentato alle pubbliche finanze è futuro ed eventuale, ancor meno si giustifica l’interpretazione estensiva della disposizione incriminatrice.
4. Considerazioni di chiusura
La prima considerazione riguarda la costante difficoltà del legislatore nell’approcciare la regolamentazione di materie settoriali e “tecniche”, affiancandovi una sapiente normativa penale, che soddisfi i canoni di tipicità, determinatezza, conoscibilità, prevedibilità, offensività.
Se in occasione di gigantesche operazioni economiche capaci di movimentare ingenti capitali privati con la garanzia della finanza pubblica, ci si “dimentica” di affinare i tradizionali strumenti preventivi e repressivi, non può sorprendere che delle finalità di politica-criminale si faccia carico, poi, la giurisprudenza, con le incertezze e i pericoli interpretativi sopra evidenziati.
D’altro canto, la giurisdizione non dovrebbe essere chiamata a “stampellare” impropriamente il legislativo, affiancandolo nell’opera ricostruttiva e delimitativa dei fenomeni criminosi, se non a costo di assumere, nella sostanza, un ruolo di “supplenza” e di condivisione dell’indirizzo politico in materia criminale (judge made law).
Ancora, bisognerebbe riflettere sul ruolo della repressione penale e sulla congruità dello strumento sanzionatorio rispetto allo scopo da perseguire. Se infatti la finalità dell’intervento pubblico nell’economia, mediante i ricordati strumenti di garanzia di operazioni economiche private, è quella di supportare la vitalità degli operatori economici ed imprenditoriali in un momento di grave emergenza sanitaria ed economica, bisognerebbe poi disegnare modi e limiti dell’intervento repressivo penale, affinché questo non assuma una connotazione perfino eccedente lo scopo e risulti rispondente al principio della extrema ratio[13].
Ragionevolmente, la criminalizzazione andrebbe ristretta alle più gravi ipotesi di appropriazione e distrazione dei capitali privati oggetto di erogazione, con negative ricadute sulla finanza pubblica, lasciando fuori i casi di minore gravità e quelli in cui le obbligazioni contrattuali, pur generate in assenza dei presupposti, siano poi correttamente e tempestivamente adempiute (salvo, beninteso, a procedere penalmente per le eventuali falsità accertate [14]).
Seppure non si hanno, ancora, dati concreti sull’entità del fenomeno di illecito conseguimento del credito garantito dallo Stato, si può immaginare che, a fronte dei cospicui flussi di capitali richiesti ed erogati, esso si rivelerà di ampia portata, tanto da rischiare di sovrastare le forze – non illimitate – della giustizia penale. E questo giustifica forse qualche ulteriore riflessione sull’affidarsi alla tutela penale come unico strumento di contrasto a tali fenomeni.
[1] Cass. Sez. 6, n. 2125 del 24/11/2021 Cc. (dep. 18/01/2022) Rv. 282675, imp. Bonfanti; Cass. Sez. 6, n. 11246 del 13/01/2022 Cc. (dep. 28/03/2022) Rv. 283106, imp. Pressiani.
[2] Cass. Sez. 6, n. 22119 del 15/04/2021 Cc. (dep. 04/06/2021) Rv. 281275, imp. Rainone, in materia di crediti assistiti dalla Garanzia della SACE Spa (cd. Garanzia Italia).
[3] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/04/08/20G00043/s
[4] Glauco Zaccardi, Il bazooka di liquidità contro il Covid 19, in questa rivista (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1023-il-bazooka-di-liquidita).
[5] https://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/comunicati/2022/Credito-e-liquidita-per-famiglie-e-imprese-oltre-251.6-miliardi-il-valore-delle-richieste-al-Fondo-di-Garanzia-PMI-raggiungono-i-36.4-miliardi-di-euro-i-volumi-complessivi-dei-prestiti-garantiti-da-SACE/
[6] Si veda, “Emergenza coronavirus e crisi economica: i Procuratori di Milano e Napoli sul "decreto credito" e i rischi connessi all'immissione di liquidità nel mercato delle imprese. Necessaria una correzione di rotta” in https://www.sistemapenale.it/it/documenti/francesco-greco-giovanni-melillo-repubblica-su-decreto-credito-crisi-economica-covid-19-coronavirus
Cfr. anche: Andrea Pantenella, Il diritto penale della crisi d’impresa alla prova della sindemia. Tra modelli di falso e ritorno allo stellionato, in Cassazione Penale, fasc.6, 1 giugno 2021, pag. 2244.
[7] L’art. 316 ter cod. pen. è posto a presidio degli interessi finanziari della Amministrazione (interna o comunitaria) e ai fini di un corretto, efficiente ed equo funzionamento del sistema delle sovvenzioni pubbliche finalizzate al perseguimento di determinati obiettivi di politica economica, sociale o culturale nell’ambito delle scelte programmatiche pubbliche.
[8] V. A. Bell-A. Valsecchi, Finanziamenti garantiti dallo stato: la disciplina dell’emergenza ridisegna (riducendola) l’area del penalmente rilevante per le imprese e per le banche in Sistema Penale, 2020,6, i quali osservano che “il sistema della garanzia pubblica sul finanziamento erogato dalla banca o da altro intermediario finanziario, infatti, è stato adottato dal Governo italiano proprio per evitare che fosse lo Stato a farsi carico dell’insostenibile peso economico di interventi di finanziamento diretto a favore delle imprese colpite dalla crisi economica da Covid-19. Si tratta, in altre parole, di un meccanismo che esclude che sia lo Stato a “elargire” le immense somme di denaro necessarie al sostegno del tessuto economico nazionale, affidandosi, invece, alla capacità del sistema bancario di far fronte alla domanda di liquidità che proviene dalle imprese”.
[9] A. Bell-A. Valsecchi, Finanziamenti garantiti dallo stato: la disciplina dell’emergenza ridisegna (riducendola) l’area del penalmente rilevante per le imprese e per le banche in Sistema Penale, 2020,6, https://www.sistemapenale.it/it/articolo/bell-valsecchi-finanziamenti-garantiti-dallo-stato-emergenza-covid19-riduzione-area-del-penalmente-rilevante-per-imprese-e-banche
Contra, L. Orsi, La tutela penale del credito garantito dallo Stato alle imprese colpite dalla pandemia Covid- 19, in Sistema Penale, fascicolo 6/2020, https://www.sistemapenale.it/it/articolo/orsi-tutela-penale-credito-garantito-stato-covid-19-conversione-decreto-liquidita
In materia, v., anche Mucciarelli, Finanziamenti garantiti ex d. l. 23/2020: profili penalistici, in Sist. pen., 4 maggio
2020.
[10] Sulla giurisprudenza degli interessi che fa capo a Philipp Heck si vedano: Pier Giuseppe Monateri, Alessandro Somma, Il modello di civil law, Giappichelli, Torino, p. 120; Mauro Barberis, Giuristi e filosofi, una storia della filosofia del diritto, Il Mulino, 136 e ss.
[11] Sul punto G. Zaccardi precisa che “il costo dello Stato è dato solo dall’accantonamento necessario a fare fronte alla garanza, poiché i finanziamenti garantiti sono erogati concretamente dal sistema bancario e finanziario. Tale costo, in ossequio al regolamento SEC 2010, è pari all’ammontare delle risorse che il Tesoro stima essere pari a ciò che si prevede sarà necessario accantonare per far fronte alle escussioni; nel caso di specie è stata ritenuta prudenziale una percentuale di accantonamento del 6%” (G. Zaccardi, Il bazooka di liquidità…cit.)
[12] Si richiamano, qui, le osservazioni della dottrina sul “gross gross revenue method” (ricavo complessivo del reato), metodo utilizzato dalle corti inglesi nel caso di contratti acquisiti con modalità corruttive. In questi casi, siccome il profitto è stato ottenuto con mezzi illeciti, l’intero corrispettivo andrebbe acquisito al patrimonio dello Stato. Cfr. Vincenzo Mongillo - Il Libro dell'anno del Diritto 2016, https://www.treccani.it/enciclopedia/profitto-del-reato-e-confisca_%28Il-Libro-dell'anno-del-Diritto%29/ L’autore cita: OECD-StAR, Identification and Quantification, 30, 50 s.
[13] Sul punto, Nello Rossi osserva che andrebbero penalmente perseguite le indebite percezioni di maggior importo, in ossequio al carattere di “ultima istanza” tipico dello strumento penale (Nello Rossi, L’emergenza economica e sociale. Le prime risposte del diritto penale, in Questione Giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/l-emergenza-economica-e-sociale-le-prime-risposte-del-diritto-penale_15-04-2020.php).
[14] A. Pantanella, Il diritto penale della crisi d’impresa alla prova della sindemia.., cit. il quale osserva che “lo stesso Decreto Liquidità, al primo comma dell’art. 1-bis, fa espresso riferimento al fatto che le richieste di nuovi finanziamenti debbano essere integrate da una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà di cui all’art. 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445”. Si veda anche Siena, Problemi vecchi e nuovi delle false dichiarazioni sostitutive, in
Dir. pen. cont., 3/2020, p. 237 ss, citato da Pantanella.
Corpo Pasolini. Brevi riflessioni sull’ordine giuridico sadiano
di Mauro Balestrieri
Sommario: 1. Semiologia del corpo - 2. L’abiura - 3. Il teatro-Salò - 4. L’ordine sadiano - 5. La parola - 6. Usus e proprietas - 7. Macchina, corpo, legge.
1. Semiologia del corpo
Si può provare a descrivere il cinema di Pasolini come una dettagliata, estrema, diligente figurazione delle potenzialità sovversive del corpo. La fisicità degli arti, la melodia della voce, la fisionomia perfetta o beffardamente esibita delle carni hanno assunto, nello sguardo attento del suo Autore, la funzione di luoghi di riflessione eminentemente politici, di pietre d’inciampo attraverso cui misurare il rapporto conflittuale tra “individuo” e “potere”[1].
L’operazione pasoliniana non è certamente priva di aporie o di difficoltà: il corpo, come è noto, confonde i codici e mette in crisi ogni separazione netta. Per usare due termini cari al discorso antropologico-filosofico, esso oscilla perennemente tra “natura” e “cultura” costituendo una sorta di tertium genus capace di eccepirsi da ogni disciplina o da ogni rigido formalismo concettuale[2].
Il corpo è incatturabile, si può dire, e proprio per questo è oggetto di infinite catture. Esso fluttua all’interno degli universi simbolici prestandosi costantemente a nuove scoperte o a nuove antropologie[3]. Di più, esso ambisce a venire messo in scena, a mostrarsi su un palcoscenico. Visibilità e corporeità agiscono quali termini medi di un unico gesto significante che mira a sintetizzare in un’unica forma l’universo dei suoi infiniti particolari[4].
2. L’abiura
Dopo aver realizzato la celebre “Trilogia della vita” (composta tra il 1971 e il 1974 e includente Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte), in un articolo apparso postumo 15 giugno 1975 sul Corriere della Sera Pasolini abiurò sorprendentemente l’intero progetto che ne aveva determinato la creazione[5].
Gli organi sessuali e la fisicità lo disgustavano. Sottomesso alla falsa tolleranza del potere consumistico asservito al capitale e alla logica del profitto, il piacere dell’erotismo diveniva insulsa merce di scambio, oggetto da baratto su un mercato apparentemente tollerante proprio perché spinto alla massimizzazione del commercio[6]. Agli occhi di Pasolini, il corpo e le menti dei giovani italiani apparivano ormai degradati a un borghesismo schizzinoso e complessato, nuova veste per un asservito e infelice perbenismo, spietatamente lontano dalla liberazione sessuale così intensamente desiderata.
La celebrazione del corpo pasoliniana, inizialmente concepita e vissuta nella sua nudità felice e fremente, si trasformava così nell’esatto opposto: in un canto funebre della fisicità ridotta a pura merce per il profitto. In questo revirement radicale e brusco, Pasolini voleva certamente denunciare l’ennesimo impoverimento della società italiana, il suo scacco morale e culturale, eppure è forse possibile leggere a contrario tale abiura intendendola meno come un atto di denuncia verso una realtà politica, e più come l’estremo tentativo di fare i conti – ancora una volta – con l’enigma insolubile del corpo.
Corpo come problema filosofico, politico, giuridico, quindi; corpo come laboratorio della potenzialità e dell’effettualità storico-sociale. Pasolini consente di osservare le mille declinazioni che si sovrappongono alla sua struttura, alla sua singolarità, fino a intravvederne in filigrana il nucleo sovversivo, indomabile, incancellabile.
Prendendo a prestito il celebre interrogativo che Deleuze rivolgeva agli scritti di Spinoza, è allora necessario chiedersi ancora “cosa può un corpo?”[7]. Se una risposta soddisfacente a tale domanda è forse ancora ben lungi dall’essere possibile, allo stesso tempo essa non può essere elusa da chiunque osservi il campo lungo della produzione intellettuale pasoliniana.
3. Il teatro-Salò
Come è noto, l’ultima opera che Pasolini ha lasciato prima della sua morte è il celebre e non meno contestato Salò o le 120 giornate di Sodoma (1957) [8]. Seppur oggetto di una virulenta censura e di un ostracismo che ne è valso per alcuni anni la messa al bando, esso rappresenta il punto di tensione massima tra potere, legge e corpo nell’universo artistico pasoliniano[9]. Nei suoi fotogrammi è inscritto il carattere sovversivo e tirannico del piacere, il gusto crudele per l’oscenità, l’intensità acuta del piacere frammisto al dolore. Guida fedele in questa vertigine negli abissi della psiche umana fu ovviamente il Divin Marchese de Sade e il suo Le 120 giornate di Sodoma, a cui Pasolini si ispirò largamente nella realizzazione della pellicola[10].
In questo affratellamento tra modello letterario sadiano e gesto pasoliniano (non privo di aporie o di difficoltà, come si è poc’anzi notato), una caratteristica eloquente vale tuttavia ad avvicinarne le pur differenti morfologie. Sia nella letteratura di Sade sia nel cinema di Pasolini la vita pulsante e il fremito della carne sembrano fuoriuscire dal linguaggio e sfuggire alla sua inesorabile cattura, componendo un differente universo normativo che è insieme “estetico” e “politico”.
Di fronte a quelli che appaiono solo come brandelli di corpo se descritti nelle loro minuzie, nei loro tormenti o nei loro spasmi di piacere, Sade e Pasolini cooperano al contrario verso una diversa strategia: la produzione di una vera e propria scenografia del corpo e dei suoi piaceri. Come nota Roland Barthes nel suo celebre studio su Sade, c’è invero un modo del tutto perspicuo attraverso cui il ritaglio spezzettato del corpo, ostaggio della pratica feticista, trova invece una specifica rappresentazione figurale e concettuale:
[q]uesto mezzo è il teatro (cosa che l’autore di queste righe ha capito assistendo a uno spettacolo di travestiti in un cabaret parigino). Preso nella sua scialbezza, nella sua astrazione («il seno più sublime, particolari vezzosissimi nelle forme, scioltezza nelle masse, grazia, mollezza negli attacchi delle membra», ecc.), il corpo sadiano è in realtà un corpo visto da lontano nella luce piena del palcoscenico; è solo un corpo molto ben illuminato[11].
Il frazionamento del corpo è dunque la premessa della strategia visuale impiegata da Sade e, in parte, da Pasolini per ridare senso alla sua stessa forma-deformata. Osservare realmente il corpo significa porlo di fronte a un palcoscenico, illuminarlo accuratamente, ri-anatomizzarne le parti[12]. Significa, in breve, mostrarne l’unità smembrandolo, la sua plasticità frazionandolo, il suo desiderio feticizzandolo. In questo circolo paradossale teso tanto al raggiungimento di un corpo unico, unitario, totale quanto alla sua dissoluzione, il gesto sadiano-pasoliniano diviene quello di esacerbare il particolare fino a farlo esplodere in una differente cornice di senso.
Come si può suggerire in altri termini, è l’occhio della Legge (o del Padrone) che trasforma il piacere del libertino in uno spettacolo teatrale: nelle sue diottrie, ciò che è organico diventa materia vivente e il vivente oggetto di punizione/godimento[13].
L’enigma di Salò non è, allora, soltanto quello dell’iscrizione del corpo nelle maglie di un’istituzione totalitaria: è soprattutto quello della sua visibilità, del modo attraverso cui esso viene messo a fuoco, isolato dallo sfondo, fissato su un piedistallo e da lì contemplato, misurato, seviziato, sacrificato. Il teatro-Salò incarna la cifra di uno sguardo normativo e performativo insieme, di un gesto che allo stesso tempo istituisce e fagocita l’ordine erotico del vivente.
4. L’ordine sadiano
Nel 1793, anno in cui il Marchese de Sade finiva prigioniero presso una delle numerose “case di cura” predisposte dalla Repubblica giacobina, Jean-Étienne-Marie Portalis, il padre intellettuale del Code Napoléon, veniva improvvisamente catturato nelle medesime circostanze dai rivoluzionari del Terrore e rinchiuso in un analogo istituto.
È una circostanza storica altamente singolare, e se si vuole altrettanto ironica, che l’ispiratore del futuro ordine giuridico francese giacesse fianco a fianco con colui che avrebbe voluto vigorosamente ribaltarlo. Portalis veniva accusato di tradimento a causa di alcune lettere pubbliche veementemente rivolte contro gli abusi del Terrore e schierate a favore della Monarchia; Sade, al lato opposto, pur analogamente considerato nemico della Repubblica per motivazioni filomonarchiche non vide mai del tutto chiarite le circostanze alla base dell’accusa. Entrambi, ad ogni modo, dovettero la loro miracolosa salvezza alla caduta improvvisa di Robespierre, avvenuta proprio pochi giorni dopo la loro incarcerazione (27 luglio 1794).
In un testo dedicato allo studio delle implicazioni giuridiche dell’opera di Sade, François Ost si è opportunamente soffermato sul concetto di “legge” evocato così spesso negli scritti sadiani[14]. Quale idea di “ordine” emerge dall’universo sadiano? Di quale Repubblica si parla? E soprattutto, quali caratteristiche essa avrebbe dovuto possedere?
Michel Foucault ha opportunamente notato come il senso del grande esperimento sadiano sia consistito nell’inserimento del “disordine” del desiderio all’interno di un mondo del tutto dominato dall’idea di ordine e di classificazione[15]. Non è difficile notare come il gesto sadiano risieda precisamente in questo gesto estremo e “costituente”: il suo essere “fuori-legge” si traduceva nell’ambizione di disapplicare la legge civile a favore di un’altra legge, un certo tipo di legge, eterogenea e anticonvenzionale, fondata sull’io desiderate, sul piacere della prostituzione, sulla libertà erotica dei corpi.
Se però è inaccettabile fare di Sade un “bandito”, e se è altrettanto erroneo vedere nei suoi scritti un’apologia tout court del crimine, occorre allora inquadrare con maggiore precisione il sottile gioco linguistico e concettuale che ruota intorno all’identità dell’individuo, al suo principio di piacere, e alla sua identità regolata dal diritto. Nella lettura di Barthes (anche in questo caso, di particolare valore per la ricostruzione dell’ordine giuridico sadiano), legge e pratica sessuale appaiono legati da un doppio vincolo di fatto ineludibile:
La pratica sadiana è dominata da una grande idea di ordine: le «sregolatezze» sono energicamente regolate, la lussuria è senza freno ma non senza ordine (a Silling, per esempio, ogni orgia termina irrevocabilmente alle due del mattino)[16].
Ciò conduce Barthes ad ammettere l’esistenza di un vero e proprio regime “panico” del libertinaggio in cui ogni funzione è meticolosamente prevista, organizzata, attuata («[i]l libertino è modellista, così come è dietista, architetto, arredatore, regista»[17]). La prassi del libertino è propriamente un insieme di regole, di patti, di contratti, financo di consuetudini: essa incorpora un senso normativo che trascende e include il soggetto, e senza il quale l’ordine dell’atto sessuale non potrebbe tout court avverarsi[18].
In una celebre intervista rilasciata poco tempo dopo la diffusione di Salò, Foucault intervenne criticando aspramente il ritratto cinematografico concepito da Pasolini[19]. Secondo Foucault, Sade non era riconducibile alla dimensione filmica, al contrario ne fuoriusciva a causa della sua costante eccedenza e irrappresentabilità. Sorprendentemente, tuttavia, l’assimilazione tra Sade e il fascismo troverà una parziale riconferma nella seconda parte dell’intervista, dove Foucault stesso ammetterà che l’erotismo sadiano è in effetti quello tipico di una società puramente disciplinare, o in altri termini di una «société réglementaire, anatomique, hiérarchisée, avec son temps soigneusement distribué, ses espaces quadrillés, ses obéissances et ses surveillances»[20].
In qualche forma, questo regime totalizzante della vita del libertino, tale come si è visto da necessitare di una zelante e instancabile osservazione e predisposizione, si ritrova in modo implicito nello stesso lessico giuridico sadiano. Secondo Jacques Lacan, in un testo tanto affascinante quanto enigmatico in cui la morale kantiana viene posta direttamente a contatto con l’universo di Sade, il desiderio del libertino si sostituisce propriamente alla legge morale, diventa la legge stessa, ossia un principio universale e sempre operante del suo funzionamento. La realizzazione dell’imperativo del desiderio è una sorta di principio di una legislazione universale, il corrispettivo cioè della stessa legge morale esplicitata dalla tensione costantemente operante e attiva verso il godimento[21].
Si può allora dire che non esistono tempi di pausa o vacatio legis nella gestione giuridica dei corpi, così come non ne esistono nella pratica criminale del libertino. Il diritto à la Sade non può conoscere “interruzioni” perché è la vita stessa a non incontrarle.
Nessun aspetto sfugge alla disciplina giuridica e alle sue categorie: la vita stessa è inclusa e qualificata dalle forme catturanti dei suoi concetti e delle sue definizioni. Del tutto analogamente, l’imponente sceneggiatura scritta e concepita dal libertino si alimenta della medesima continuità biologica del corpo umano, della successione dei suoi stati fisiologici, del suo fluire incessante. Legge e pratica sadiana conoscono una singolare fratellanza che è tutta nel tentativo di scrutare i corpi e di gestirne ogni forma di godimento senza incorrere in alcuno iato. Nessuna di queste attività può interrompersi o paralizzarsi – pena: la perdita di senso dell’intera scenografia.
5. La parola
In questa architettura perfettamente eretta, in questo palcoscenico della norma e dell’imperativo categorico, la parola e il linguaggio asurgono a istituti fondanti:
al difuori dell’assassinio, c’è solo un tratto che i libertini possiedono in proprio e non spartiscono mai, sotto nessuna forma: la parola. Il padrone è colui che parla, che dispone del linguaggio nella sua interezza; l’oggetto è colui che tace, resta separato, per una mutilazione più assoluta di tutti i supplizi erotici, da ogni accesso al discorso, perché non ha nemmeno il diritto di ricevere la parola del padrone.[22]
Il Codice e il Padrone sono modelli della perfezione denotativa della parola nella sua più assoluta purezza e chiarezza: tutto dispongono, tutto amministrano[23]. È il grado zero della legge, si può dire, il piacere feticistico del testo giuridico, la pura espressività quale strumento perfetto di esposizione della volontà e del desiderio. Un culto del linguaggio del tutto rinvenibile tanto nella diegesi sadiana quanto nell’esegesi giuridica, dove il testo della legge deve essere appunto contemplato, studiato, osservato fino a coglierne la sua più alta pienezza.
Come ha potuto scrivere uno dei più alti rappresentati dell’École de l’Exégèse francese: «[u]n bon magistrat humilie sa raison devant celle de la loi: car il est institué pour juger selon elle, et non pas pour la juger»[24].
Il testo del Code “umilia” perché rappresenta lo specchio del corpo consacrato e perfetto del legislatore davanti alla cui algida compiutezza occorre di fatto sottomettersi. Sorprendentemente, è proprio quanto accade nel rapporto libertino, in cui le gerarchie non vengono discusse, in cui il ligio rispetto dell’ordine non collassa, ma diviene funzionale all’accrescimento del piacere stesso. L’umiliazione, specularmente, sancisce e incorona il momento più intenso del rapporto sessuale.
C’è una tensione “erotica” tra fonte e interprete, tra “testo” e “piacere del testo”, dunque, che si accresce maggiore è la freddezza, il distacco e il rigore del testo stesso. Non c’è niente di casuale o di arbitrario nel codice giuridico, esattamente come non vi è nulla di discrezionale e di anarchico nella puntigliosa e meticolosa organizzazione del boudoir del libertino. Il linguaggio di Sade, così efficace e chirurgico come quello di una formula matematica, costituisce la mimesi paradossale del linguaggio giuridico del Code, della sua imponente chiarezza, della sua capacità assoluta di disciplinare e disporre del corpo e delle forme della persona.
Ma il paradosso è solo apparente: in entrambi i casi, ciò che rende possibile la pratica libertina e giuridica è la potenza del linguaggio quale mezzo per disporre cose e persone, fino alla sua ineluttabile trasgressione. A testimoniarlo nel modo più efficace è ancora una volta il conio del linguaggio sadiano, la sua crudezza, il suo andare dritto al punto.
6. Usus e proprietas
La fenomenologia dei rapporti giuridici rappresentati così provocatoriamente nelle opere di Sade dispiega tutta la propria forza nella singolare confusione tra diritto di proprietà (ius in re propria) e diritto di godimento (ius in re aliena) che tradizionalmente si incontrano nel sapere giuscivilistico. Formalmente separati, oggetto di un’ontologia differente e incompatibile, essi tuttavia sembrano confondersi e sovrapporsi nella pratica sessuale del libertino.
I personaggi sadiani usano il corpo delle proprie vittime, ma nella peculiare declinazione in cui l’uso diventa “abuso per il godimento”. In qualche modo, è la definizione della parola res, “cosa”, nella sua multiforme manifestazione (res propria; res aliena) a divenire il termine medio di uno slittamento di significato tra proprietà e possesso.
Il libertino non ha nei confronti della propria vittima un rapporto di “pura proprietà” (poiché invero non ha alcun tipo di obbligo che da ciò sembra discendere), né di “puro uso” (perché può spingersi fino alla abuso, ossia fino alla distruzione materiale, fisica ed esistenziale della propria vittima eccedendo quindi la nozione tecnica di uso), e allo stesso tempo, in modo quasi paradossale, sembra però realizzare entrambe le circostanze contemporaneamente, stravolgendone quindi il senso e confondendone il perimetro.
In questa zona di reciproca indistinzione, i testi di Sade divengono il laboratorio giuridico di una sperimentazione del corpo del tutto inedita e provocatoria: un luogo in cui il codice sussiste, è presente, opera fattivamente, ma in tutto questo è ridotto a mero simulacrum della legge stessa[25].
È stato giustamente sottolineato come tale nuova configurazione anatomica del corpo prodotta da Sade vada di pari passo con la disarticolazione dello stesso processo narrativo: i racconti sadiani non offrono una narrazione tradizionale, scandita dai canoni di tempo e di luogo classici, ma stravolgono la forma estetica del romanzo a favore di un sistema riduzionistico caratterizzato da frammenti di corpo meticolosamente quantificati e misurati, da un’ars combinatoria di incastri fisici e funzioni da espletare, da porzioni di un tutto ordinate in griglie e tabelle[26]. Una disarticolazione – si può aggiungere ancora – che è tanto “poetica” quanto “giuridica”: il crimine del libertino, questa sorta di vitae necisque potestas fuori da ogni circuito formalmente legittimo e declinato al puro fine del godimento, mette in crisi le categorie tradizionali del diritto, occupando i poli estremi della sovranità dell’individuo sul proprio corpo e della sua dissoluzione.
Come è stato notato, tale peculiare oscillazione tra uso e proprietà possiede un indubbio riferimento sarcastico alle vicissitudini della Francia contemporanea di Sade[27]. Così, l’epoca in cui gli individui come tali divenivano portatori di una nuova sovranità ancorata al proprio corpo e alla propria persona, di un’inviolabilità soggettiva espunta dal circolo del potere monarchico e incapsulata nella volontà e nella privatezza di ogni singolo individuo, si trasforma in Sade nello specchio rovesciato di tale autonomia: in una celebrazione del boudoir quale spazio “a parte” del politico. In ultima istanza, in una vertigine senza fondo in cui la saturazione dell’uso del corpo si confonde con il suo annichilimento.
7. Macchina, corpo, legge
In un celebre brano dei suoi Passages, Walter Benjamin ha notato come la tendenza sadiana all’esposizione ostentata del particolare e del dettaglio anatomico risulti tutt’uno con una strategia finalizzata ad attribuire all’organismo stesso un’immagine meccanica, al corpo la funzione di un ingranaggio, alla totalità una figura di automa:
[v]olere scoprire gli aspetti meccanici dell’organismo è una tendenza persistente nel sadico. Si può dire che il sadico miri ad attribuire all’organismo umano surrettiziamente l’immagine dell’ingranaggio. Sade è figlio di un’epoca che si entusiasmava per gli auto mi[28].
Come aveva scritto anche l’abate Sieyès nel suo saggio sul Terzo Stato, «[j]amais on ne comprendra le mécanisme social, si l’on ne prend pas le parti d’analyser une société comme une machine ordinaire»[29].
Forse, anche questo aspetto può essere inserito all’interno di una riconfigurazione dei rapporti tra corpo individuale e istituzioni giuridiche attraverso la mediazione della funzione del codice quale testo finalizzato alla disciplina del soggetto.
In un importante studio sui presupposti antropologici della codificazione francese, Xavier Martin ha posto enfasi sulla natura tutt’altro che ottimistica dei ragionamenti che hanno guidato gli estensori del Code verso la sua storica promulgazione[30].
Nei Travaux préparatoires du Code civil, a emergere è invero una credenza per nulla “spiritualista” nei confronti della natura umana e al contrario profondamente consapevole dell’inscindibilità di interessi e bisogni, di regola e comando. L’uomo è solo un meccanismo diviso tra desideri e inclinazioni, per loro natura effimeri e cangianti; è incostante, non suscettibile di esprimere una volontà duratura; infine, è perennemente sottomesso a stimoli esterni ed interni. La natura umana è quindi incapace di seguire una volontà propria e si riduce a proiezioni di soggettività istantanee, temporanee, che non superano il gesto immediatamente ordinato da un appetito o da un desiderio.
Ribaltando un’intera tradizione che vedeva nell’Illuminismo francese la matrice più diretta della svolta legislativa napoleonica, Martin intravede invece il vero referente del Code non tanto in Rousseau, quanto in Hobbes. È su questo terreno che prende dunque forma il progetto codicistico: se la persona umana appare unicamente sotto la forma di un meccanismo di appetiti legislativamente orientabili, allora è proprio la funzione normativa ad assurgere a ruolo centrale nell’organizzazione dell’ordine sociale. Dal lato opposto, la logica meccanicistica è ciò che consente meglio e più efficacemente di sfruttare le potenzialità del corpo e raggiungere il piacere della carne[31].
Segreta corrispondenza con Sade-Pasolini: l’organismo meccanicamente ordinato dal codice e disciplinato dalle sue disposizioni si frammenta in brandelli di corpo estraibili, seviziabili, deformabili gratuitamente. In un certo senso, tanto nell’universo sadiano quanto in quello pasoliniano non si fuoriesce mai dallo “stato di natura”. Le istituzioni civili, pur con le loro raffinate prescrizioni giuridiche e le loro apparenti garanzie, ne replicano al contrario la brutale logica di dominio e di sopraffazione. Lo Stato, questo essere astratto inesistente in natura e frutto di artificio e ingegno, commette l’orrore più grande di tutti: legittimare l’omicidio con il nome di pena di morte[32].
Ancora una volta, legalità contro legittimità; cultura contro natura. O forse, “istinti” contro “istituzioni”[33]. Il sorriso beffardo di Sade, così come la macchina da presa sapiente di Pasolini, indicano che anche la più perfetta delle costruzioni può essere infine smontata. Ciò che ne resta sono solo i frammenti nudi del suo meccanismo, privi di qualunque direzione, esibiti unicamente per ciò che realmente sono: parti smembrate di un tutto.
[1] Così da ultimo M. Recalcati, Pasolini. Il fantasma dell’Origine, Feltrinelli, Milano, 2022.
[2] U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 11.
[3] Cfr. in questo senso, D. Le Breton, Antropologia del corpo, Meltemi, Milano, 2022.
[4] Così J.-L. Nancy, Corpo teatro, Cronopio, Napoli, 2010.
[5] P.P. Pasolini, “Abiura della «Trilogia della vita»”, in Id., Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976, p. 71.
[6] Sulla trasposizione dell’opera di Pasolini e i suoi intrecci con Sade, il fascismo e i meccanismi del potere consumistico si veda anche A. Naze, “De Silling à Salo. Usages pasoliniens de Sade”, in Lignes, Vol. 14, 2004/2, pp. 113-114.
[7] G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, ombre corte, Verona, 2013, p. 43 e ss.
[8] Si vedano ampiamente S. Murri, Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma, Lindau, Torino, 2007; A. Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
[9] Sul destino giudiziario che spesso ha accompagnato le opere di Pasolini, cfr. F. Aliberti, A. Di Nuzzo, E. Lavagnini, Il Libro Bianco di Pasolini, Compagnia editoriale Aliberti, Reggio Emilia, 2022.
[10] La liaison Pasolini-Sade, nonché la correlazione tra sadismo e fascismo, è stata oggetto di accese discussioni da parte di critici letterari e cinematografici. Per un resoconto del dibattito, cfr. N. Greene, Pier Paolo Pasolini. Cinema as Heresy, Princeton University Press, Princeton, 1990, p. 197 e ss. Ben nota è la reazione (non del tutto entusiasta) di Italo Calvino (in Id., “Sade è dentro di noi [Pasolini, Salò]”, in Saggi, vol. II, a cura di M. Barenghi, Meridiani Mondadori, Milano, 2007, p. 1933), così come quella – altrettanto critica – di Roland Barthes (Id., “Sade-Pasolini”, in Sul cinema, a cura di S. Toffetti, il melangolo, Genova, 1997, p. 159).
[11] R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, Einaudi, Torino, 1971, pp. 115-116.
[12] Si veda su questo aspetto E. Marty, “Foucault et la folie sadienne. Retour sur une relation énigmatique (Sade à Charenton)”, in Fabula / Les colloques, Sade en jeu, disponibile al link: http://recherche.fabula.org/colloques/document5874.php.
[13] Sull’immagine dell’occhio scrutatore della legge, cfr. M. Stolleis, L’occhio della legge. Storia di una metafora, Carocci, Roma, 2007.
[14] F. Ost, Sade et la loi, Odile Jacob, Paris, 2005.
[15] M. Foucault, “I problemi della cultura. Un dibattito Foucault-Preti”, in Il Bimestre, Voll. 22-23, 1972, pp. 1-4; cfr. anche J. Miller, The Passion of Michel Foucault, Simon & Schuster, New York, 1992, p. 278.
[16] Barthes, Sade, cit., p. 19.
[17] Ibid., p. 10.
[18] Cfr. P. Mengue, L’ordre Sadien. Loi et narration dans la philosophie de Sade, Editions Kimé, Paris, 1996.
[19] M. Foucault, “Sade, sergent du sexe (1975)”, in Dits et écrits, vol. I, Gallimard, Paris, 2001, p. 1686.
[20] Ibid., pp. 1689-1690.
[21] J. Lacan, “Kant con Sade” (1963), in Id., Scritti, Vol. II, Einaudi, Torino, 1974, p. 764.
[22] Barthes, Sade. cit., pp. 19-20.
[23] Come opportunamente notato anche da G. Deleuze, Presentazione di Sacher-Masoch, Bompiani, Milano, 1978, p. 6: «[i]nfatti il potere delle parole è totale nell’ordinare la ripetizione dei corpi».
[24] M.F. Mourlon, Répétitions écrites sur le Code civil (1846), vol. 1, Garnier, Paris, 1896, p. 62. Per un commento in proposito, cfr. M. Vidal, “La propriété dans l’Ècole de l’Exégèse en France”, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, Vol. 5-6, Nº 1, 1976-1977, p. 10.
[25] Così G. Bennington, “Sade: Laying down the Law”, in Oxford Literary Review, Vol. 6, N. 2, 1984, p. 40.
[26] M. Hénaff, Sade.The Invention of the Libertine Body, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1999, p. 17 e ss.
[27] Come scrive G. Agamben (L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza, 2014, p. 129): «[s]e il soggetto sovrano è innanzitutto sovrano sul proprio corpo, se l’intimità – cioè l’uso di sé in quanto inappropriabile – diventa qualcosa come la so stanza biopolitica fondamentale, si comprende allora che in Sade essa possa presentarsi come l’oggetto del primo e inconfessato diritto del cittadino: ciascun individuo ha diritto di condividere a suo piacimento l’inappropriabile dell’altro. Comune è innanzitutto l’uso dei corpi».
[28] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, in Id., Opere complete, vol. ix, Einaudi, Torino, 2000, p. 408.
[29] E. Sieyès, Qu’est-ce que le Tiers État?, PUF, Paris, 1982, p. 65.
[30] X. Martin, “Nature humaine et Code Napoléon”, in Droits, Vol. 2, 1985, pp. 117-128.
[31] Sulla teoria del “fluido elettrico”, cfr. l’analisi di A. Longo, “Sade, animalità e materialismo”, in N. Sansone, La filosofia del Marchese De Sade, Mimesis, Milano-Udine, 2014, pp. 31-48.
[32] Aspetto su cui si sofferma H. Jallon, Sade. Le corps constituant, Michalon, Paris, 1997, pp. 53-83.
[33] Seguendo in tal senso, G. Deleuze, Istinti e istituzioni, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
Il ritorno del diritto di classe
di Vittorio Gaeta
L'evoluzione sociale dell'inizio di questo secolo mostra una tendenza alla legittimazione degli ostacoli di fatto all'uguaglianza, che si manifesta nei diversi settori del diritto, sia sostanziale che processuale, sia civile che penale. L'occultamento della questione sociale dietro la retorica dei “nuovi diritti” ha finora impedito un'approfondita riflessione su questa trasformazione.
Sommario: 1. Introduzione – 2. L'inibitoria e i poveri – 3. Le astreintes di classe – 3.1. Segue: conseguenze sui licenziamenti – 4. Intermezzo: la data della procura dei richiedenti asilo per la cassazione – 4.1. La data della procura: segue – 5. La violenza e il diritto penale: il reato di resistenza – 6. Fattispecie di blocco stradale – 7. La violenza e l'abuso delle misure di prevenzione – 8. L'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11 e il dissenso politico-sindacale – 9. Le misure di prevenzione per i neofascisti e l'art. 1 lett. c) – 10. L'art. 1 lett. c) e il foglio di via per i sindacalisti – 11. L'associazione per delinquere mediante attività sindacale – 12. Le norme ad logisticam per i dipendenti dell'appaltatore - 13. Una tendenza di lungo periodo – 14. Finale: il rovesciamento delle priorità.
1. Introduzione
La realizzazione dell'uguaglianza tra i cittadini sancita dall'articolo 3 della Costituzione anche mediante norme di diritto disuguale, dirette a riequilibrare il potere di soggetti di diversa forza economica sociale o culturale, è sempre stata un principio fondante della nostra storia repubblicana, ben prima della nascita delle affirmative actions americane.
Dall'inizio di questo secolo, invece, si sono diffuse norme e prassi di diritto disuguale, che non intendono rimuovere determinati ostacoli di fatto all'uguaglianza (come vorrebbe il secondo comma dell'art. 3) bensì legittimarli, trasformandoli in ostacoli di diritto.
In questo studio si individueranno alcune manifestazioni di tale tendenza, agevolmente definibile classista, la quale appare egemone anche se non irreversibile né univoca.
2. L'inibitoria e i poveri
Modificando l'articolo 283 del c.p.c. sulla sospensione in appello dell'esecutorietà della sentenza civile di primo grado – già divenuta la regola, a fronte dell'opposto principio originario del codice di rito -, il legislatore ha previsto nel 2005 la possibilità di inibitoria in presenza non più di “gravi motivi”, come nel precedente testo dell'art. 283, bensì di “gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”.
In teoria, il riferimento alla possibilità di insolvenza, riguardando il pericolo nel ritardo, potrebbe rilevare solo una volta accertata la probabile fondatezza dell'appello. In pratica, invece, la riluttanza di molti giudici di appello a motivare in modo non apparente sul fumus boni iuris rende centrale la motivazione sul periculum in mora, senza che decisioni di indubbia rilevanza pratica come quelle sull'inibitoria possano mai finire all'esame della Cassazione o della stessa dottrina.
Da ciò consegue l'effetto, segno dei tempi anche se forse non voluto dal legislatore, che oggi non di rado l'appellante economicamente forte chiede l'inibitoria allegando le modeste condizioni se non la povertà della controparte, dipinta come tendenzialmente insolvente se richiesta di restituzione in caso di accoglimento dell'appello, perché pronta a spendere al più presto per i bisogni primari il denaro da ricevere con l'esecuzione provvisoria.
Nell'introdurre la regola dell'esecutorietà provvisoria, l'intento del legislatore degli scorsi decenni era esattamente quello opposto, di consentire l'immediata soddisfazione dei bisogni del soggetto impoverito dal mancato riconoscimento dei diritti accertati in primo grado, scoraggiando nella controparte la proposizione di impugnazioni dirette solo a procrastinare quella soddisfazione: si pensi che, nella riforma del 1973 del processo del lavoro, la sentenza di primo grado era esecutiva solo se favorevole al lavoratore. Tutto ciò sembra dimenticato con la nuova equivoca formulazione dell'art. 283 c.p.c., che pare legittimare richieste di “inibitoria dei ricchi”. Che poi molte sospensive vengano accordate su tali presupposti, è difficile dirlo; ma intanto si è consentito l'ingresso massiccio nelle Corti di prospettazioni difensive classiste, che in passato sarebbero stati sconvenienti ex art. 89 c.p.c. ma oggi non lo sono più.
3. Le astreintes di classe
Nessun dubbio può sussistere sulla natura classista dell'esclusione dell'applicabilità alle controversie di lavoro subordinato o parasubordinato della coercizione indiretta per le condanne all'adempimento di obbligazioni non pecuniarie, introdotta nel 2009 dall'articolo 614-bis c.p.c., il cui precedente immediato era costituito dalle sanzioni ex art. 709-ter cpv. nr. 4 c.p.c. in caso di inadempimento di provvedimenti sulla responsabilità genitoriale.
Tale coercizione, realizzata imponendo il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o ritardo nell'esecuzione di quelle condanne, intende favorirne l'adempimento evitando modalità dirompenti (come ad es. l'intervento dei Carabinieri per garantire il diritto di visita del genitore separato non affidatario dei figli minori).
Ora, i tipici obblighi lavoristici tutelabili in astratto con la coercizione indiretta, ma in concreto non tutelati per l'attuale formulazione dell'articolo 614-bis c.p.c., sono quello di far svolgere le mansioni superiori in precedenza non riconosciute, e soprattutto quello di reintegrare nel posto di lavoro il dipendente ingiustamente licenziato e assistito da tutela reale.
3.1. Segue: conseguenze sui licenziamenti
Alla fine del secolo scorso si iniziò una lunga battaglia politico-mediatica contro l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la tutela reale del posto di lavoro, da alcuni considerata fonte di una forma di apartheid[1] di lavoratori garantiti troppo in danno di lavoratori garantiti troppo poco: si proclamava di voler equiparare le tutele, in apparenza verso una sorta di media tra le maggiori e le minori, in realtà indiscriminatamente verso il basso. I progetti di riforma dell'art. 18 dei governi di inizio secolo si arenarono però di fronte alla decisa opposizione popolare, specie dei sindacati e della base operaia della Lega Nord.
La volontà di depotenziare la tutela trovò allora una prima concreta attuazione nel 2009 attraverso l'esclusione della coercizione indiretta nei rapporti di lavoro, senza incontrare apprezzabili resistenze. Il terreno così reso fertile produsse poi le controriforme dell'art. 18 del 2012 e nel 2015, approvate senza una significativa opposizione parlamentare o sindacale.
I licenziamenti sono così divenuti più facili e meno onerosi per il datore di lavoro, venendo persino celebrati per alcuni anni come fonte di nuova occupazione (c.d. flessibilità in entrata), asseritamente incentivata dalle minori difficoltà della c.d. flessibilità in uscita.
Che ciò abbia realmente favorito gli investimenti e fornito alle imprese certezza del diritto e decisioni rapide e prevedibili nei declamati tempi brevi del rito speciale c.d. Fornero, oggi ingolfato proprio dalle aumentate impugnazioni degli aumentati licenziamenti, è tutto da dimostrare, tanto più al cospetto delle ripetute pronunce di illegittimità costituzionale delle nuove norme. D'altro canto, proprio l'imprenditore preso a modello dalle riforme garantistiche del secolo scorso - quello che, avendo investito nella qualificazione dei dipendenti e nell'innovazione del lavoro e del prodotto, considera il licenziamento come l'extrema ratio - vede ora allungarsi i tempi di definizione delle rare controversie contro i suoi rari licenziamenti, con un effetto di selezione al ribasso del ceto datoriale orientata dall'ossessiva volontà di comprimere il costo del lavoro.
4. Intermezzo: la data della procura dei richiedenti asilo per la cassazione
Il D.L. nr. 13/17 in materia di immigrazione (c.d. Minniti), convertito in legge 46/17, ha abolito – pur con diverse eccezioni sfuggite al legislatore - il doppio grado di merito per le cause dei richiedenti protezione internazionale. Questa modifica, intesa a scoraggiare gli appelli pretestuosi, ha inevitabilmente prodotto un enorme aumento dei ricorsi in cassazione, i quali, per una specifica norma dello stesso D.L. come interpretata dalle Sezioni Unite civili (sentenza nr. 15177/21), si considerano ritualmente proposti solo se il difensore certifichi, oltre all'autografia del ricorrente, anche la data della procura alla lite e la sua posteriorità alla comunicazione del decreto impugnato. Si tratta dell'unico caso in cui la procura per il ricorso per cassazione è sottoposta a tali requisiti.
La norma ha resistito al vaglio di costituzionalità, avendo Corte Costituzionale nr. 13/22 ritenuto “la non manifesta irragionevolezza di tale regola differenziata” anche per la “considerazione che, soppresso il grado di appello, il numero di ricorsi per cassazione è cresciuto esponenzialmente fino a rappresentare, in percentuale, una parte molto ampia di tutti i ricorsi civili (...). Questo accesso così diffuso, al quale non è estraneo il maggiore ricorso al patrocinio a spese dello Stato rispetto ad altre tipologie di contenzioso, rende non irragionevole il rafforzamento della regola della posteriorità della procura mediante l’onere a carico del difensore della certificazione della data del suo rilascio da parte dello straniero richiedente la protezione internazionale. (…) Il rafforzamento indiretto dell’osservanza di una regola processuale, in sé non posta in discussione (quella della necessaria posteriorità della procura speciale), non restringe gli spazi di tutela giurisdizionale, né ridonda in un adempimento solo formale che possa inficiare la garanzia del giusto processo (…) Proprio la presenza di una finalità non irragionevole, nei termini indicati, sottesa alla norma censurata (…) comporta che la prescrizione espressa dalla stessa, di natura strettamente processuale, non integra un’illegittima disparità di trattamento tra i richiedenti protezione internazionale e altri soggetti ricorrenti quanto ai requisiti della procura speciale a ricorrere per cassazione”.
4.1. La data della procura: segue
Di fatto, la Consulta ha così ragionato: a) il doppio grado di merito non ha copertura costituzionale; b) il legislatore può liberamente sopprimere l'appello per taluni tipi di controversie; c) avendo tale soppressione generato un imponente contenzioso di legittimità per la protezione internazionale, il legislatore può liberamente modulare in senso restrittivo i requisiti del ricorso in cassazione.
Ora, l'assenza di copertura costituzionale del doppio grado di merito non dovrebbe implicare l'insindacabilità delle singole ipotesi di soppressione dell'appello. Un'intuitiva esigenza di bilanciamento, poi, dovrebbe indurre a compensare quella soppressione con una tutela in cassazione maggiore (ad es., mediante un più ampio sindacato della motivazione) e non minore, attraverso l'unicum della trasformazione del difensore in certificatore di date.
Si tratta di considerazioni[2], che dovrebbero prescindere dall'eventuale favore o disfavore verso l'immigrazione, perché l'eventuale riluttanza a riconoscere ampi diritti ai migranti[3] non dovrebbe comportare il disincentivo alla tutela giurisdizionale dei diritti che la legge in concreto riconosca. Ciò che invece accade per i requisiti della procura per il ricorso in cassazione del richiedente asilo, di certo un soggetto debole sul piano economico e socio-culturale, che subisce una discriminazione processuale di natura in ultima analisi classista.
5. La violenza e il diritto penale: il reato di resistenza
Si assiste nel discorso pubblico odierno a una forte sopravvalutazione della violenza dei comportamenti, considerata sempre un male: affermazione in sé ineccepibile, ma che sembra sottintendere l'auspicio irrealistico di una società in cui la violenza sia assente, anziché essere contenuta e regolata - e questo in un tempo nel quale neppure la minaccia atomica appare remota. In tal modo, però, diventa inevitabile che l'incapacità di conformarsi ai vagheggiati standard irenici sia rimproverata, anzitutto mediante il diritto penale, ai soli soggetti privi di potere, gli unici le cui propensioni violente sono sempre mal tollerate[4].
La materia è stata oggetto della discutibile sentenza nr. 30/21 della Consulta, che ha ritenuto legittima l'esclusione dell'esimente della tenuità del fatto e della conseguente non punibilità per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, perché corrispondente “alla peculiare complessità del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, peraltro rimarcata anche dalla sentenza nr. 40981/18 delle sezioni unite della Corte di cassazione, laddove hanno osservato che il normale funzionamento della pubblica amministrazione tutelato dall’art. 337 c.p. va inteso «in senso ampio», poiché include anche «la sicurezza e la libertà di determinazione» delle persone fisiche che esercitano le pubbliche funzioni (...) Già dopo la sentenza n. 341 del 1994, con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 341 c.p. laddove prevedeva il minimo edittale il di sei mesi di reclusione per il reato di oltraggio in riflesso di una «concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini», questa Corte ha avuto modo di evidenziare come l’elemento costitutivo della violenza o minaccia finalizzata ad alterare il regolare funzionamento dell’attività della pubblica amministrazione impediva di estendere tale ratio decidendi sia al reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale di cui all’art. 336 c.p. (sentenza n. 314 del 1995), sia a quello di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. (ordinanza n. 425 del 1996)”.
Suscita perplessità la deduzione, dalla giusta esigenza di non lasciare vuoti di tutela per episodi violenti o minacciosi idonei ad alterare il funzionamento della P.A., dell'impossibilità di ritenere particolarmente tenue l'offensività di singole concrete condotte. Per la Consulta, lo scatto d'ira di un incensurato verso un vigile urbano è imperdonabile quanto l'aggressione di tifosi ultras alle forze di polizia, anche se il primo non altera in concreto il funzionamento della pubblica amministrazione mentre la seconda crea gravi problemi di ordine pubblico.
In tal modo, che lo si voglia o no, l'assoluta imperdonabilità della resistenza diventa il veicolo del ripristino della centralità del prestigio della pubblica amministrazione nel suo aspetto repressivo: la concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini rimane dietro l'angolo, e non è resa meno nociva dal riferimento al carattere plurioffensivo del reato.
6. Fattispecie di blocco stradale
Per la severità delle pene previste, i reati di blocco stradale previsti nel dopoguerra dal d.lgs. 66/48 costituivano una tipica espressione autoritaria dello Stato, ma trovavano un temperamento nei negoziati tra dimostranti e forze dell'ordine che di solito precedevano gli ordini di scioglimento degli assembramenti, nonché nell'inclusione in periodiche amnistie se commessi nell'ambito di manifestazioni sindacali o sociali – con una tipica discriminazione volta al riequilibrio dei rapporti di potere.
Ridotta nel 1999 ai soli casi di deposito o abbandono di “congegni o altri oggetti di qualsiasi specie” in una strada ordinaria o ferrata, l'incriminazione originaria è stata sostanzialmente ripristinata dal primo dei decreti sicurezza c.d. Salvini (D.L. 113/18 convertito in legge 231/18) e affiancata dall'illecito amministrativo - che si potrebbe chiamare di blocco stradale mediante resistenza passiva - previsto dal nuovo art. 1-bis del d.lgs. 66/1948, per il quale “chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo, e' punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.000 a euro 4.000. La medesima sanzione si applica ai promotori ed agli organizzatori”.
Tale stretta normativa, che ha colpito massicciamente centinaia di militanti sindacali di tutta Italia e persino i pastori sardi le cui proteste del febbraio 2019 erano state “benedette” dal ministro intestatario (e anche alcuni amministratori locali della Lega), ed è intesa a ostacolare soprattutto il diritto di manifestare nel conflitto di classe, non ha ricevuto - a conferma dell'invisibilità della questione sociale per gran parte dei commentatori - neppure una minima parte dell'attenzione riservata alle disposizioni restrittive dell'immigrazione contenute in quel decreto-legge, né è stata oggetto di alcuna proposta di abrogazione o attenuazione.
Il suo effetto, specie nella figura dell'illecito amministrativo, è di trasformare un comportamento collettivo politicamente rilevante in un coacervo di atti di devianza, mediante i quali singoli individui (sanzionati separatamente, e non nell'ambito di un comune procedimento) usano il proprio corpo per ostruire il passaggio su strada dei flussi di merci che il sistema produttivo richiede di far circolare il più possibile indisturbati. Corpi contro flussi, la sintesi dell'attuale conflitto sociale[5].
7. La violenza e l'abuso delle misure di prevenzione
Dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell'ipotesi di pericolosità prevista dall'art. 1 lett. a) d.lgs. 159/11 per i soggetti dediti a “traffici illeciti”, pronunciata da Corte Cost. nr. 24/19, si assiste a un crescente ricorso all'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11, che prevede quella che in precedenza era la meno applicata delle tre figure di pericolosità generica poste a fondamento delle misure di prevenzione. Si ha la sensazione che parte delle Questure e della magistratura vogliano tenersi le mani libere per applicare restrizioni della libertà personale e di circolazione in assenza di rigorosi presupposti normativi.
Eppure il testo dell'art. 1 lett. c), che si riferisce a “coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, comprese le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all'articolo 2, nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”, non sembrerebbe autorizzare prassi disinvolte.
Di fatto, tuttavia, mentre non si ha notizia di applicazioni di misure di prevenzione a imprenditori o faccendieri dediti alla commissione di reati (anche contravvenzionali) contro l'ambiente, che pure offendono la sanità pubblica, è sempre più frequente la tutela di “sicurezza o tranquillità pubbliche” mediante l'applicazione di fogli di via obbligatori e sorveglianze speciali a persone denunciate o condannate (solo o anche) per violenza privata, lesioni, resistenza/minaccia a pubblico ufficiale[6].
Già la dottrina[7] aveva indicato come “sempre più attuale” il rischio della dilatazione della fattispecie dell'art. 1 lett. c) mediante l'applicazione “nei confronti di persone che esprimono il dissenso o il disagio sociale”, facendo l'esempio di richieste di sorveglianza speciale, giustamente rigettate, relative a c.d. disoccupati organizzati napoletani o ad anarchici bolognesi.
8. L'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11 e il dissenso politico-sindacale
In uno Stato democratico, il dissenso anche radicale o aggressivo verso gli orientamenti politici dominanti viene colpito con il diritto penale, se si concretizza in reati, e non con misure di prevenzione: questo principio, assioma della giurisprudenza costituzionale sin dalla seminale sentenza nr. 2/56 della Consulta (per la quale “la pericolosità in riguardo all'ordine pubblico non può consistere in semplici manifestazioni di natura sociale o politica, le quali trovano disciplina in altre norme di legge”), rischia di essere dimenticato. Si tende oggi a credere, in modo più o meno irriflesso, che la contestazione radicale del sistema si giustifichi solo nei confronti di regimi autoritari e non in uno Stato democratico che garantisce i diritti fondamentali, nel cui ambito sarebbe intrinsecamente antigiuridica.
Sia sul piano concettuale che su quello storico, tuttavia, il discrimine tra dittatura e democrazia non è sempre netto ed evidente, e viene ridefinito ogni giorno nella vita pubblica[8]; che lo si voglia o no, un sistema politico che espella preventivamente tutte le forme radicali di contestazione si trasforma inevitabilmente in una più o meno soave dittatura. La tesi dell'inconcepibilità in democrazia del dissenso radicale ricorda peraltro il paralogismo sul quale i Paesi del socialismo reale fondavano il divieto di sindacati autonomi: a seguito della presa del potere e del farsi Stato della classe operaia, la protesta del sindacato contro lo Stato sarebbe stata una protesta contro la classe operaia.
Queste considerazioni, in altri tempi ovvie, trovano riscontro nell'interpretazione sistematica della normativa, alla quale fa sempre meno ricorso una dottrina-prassi tutta tesa all'inseguimento pulviscolare dei frammenti normativi.
9. Le misure di prevenzione per i neofascisti e l'art. 1 lett. c)
L'art. 4 lett. f) d.lgs. 159/11 ha trasfuso la norma dell'art. 18 co. 1° nr. 3 legge c.d. Reale nr. 152/75, che prevedeva misure di prevenzione per “coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista (…), in particolare con l'esaltazione o la pratica della violenza”, aggiungendo gli atti “esecutivi” diretti a quella ricostituzione.
La sua esistenza è la riprova del carattere arbitrario dell'uso dell'art. 1 lett. c) per la prevenzione del dissenso politico e sindacale.
La ricostituzione del partito fascista, infatti, è l'unica attività politica che nel nostro Paese sia vietata anche se non esercitata con metodi terroristici o apertamente eversivi. L'esaltazione e la pratica sistematica della violenza che la caratterizzano, anche se prive di carattere terroristico, consentono quindi di impedirne e/o prevenirne l'attuazione, in ossequio all'origine storica della Costituzione e nel timore di rigurgiti. Nessun'altra espressione politica in quanto tale è fatta oggetto di divieto o di prevenzione da parte di specifiche norme, fatta salva la punizione degli autori di singoli reati.
La stessa attività preparatoria della ricostituzione del partito fascista, poi, è soggetta a misure di prevenzione solo se svolta con l'esaltazione o la pratica della violenza che risultino obiettivamente rilevanti, non bastando quindi condotte apologetiche o violente non finalistiche, né tanto meno manifestazioni nostalgiche come saluti romani e simili.
Neppure il legislatore degli anni della guerra civile strisciante, quindi, ritenne di sottoporre i picchiatori neofascisti, da singoli o in gruppi, oltre che a processo penale per specifici reati, a misure di prevenzione in assenza di concreta idoneità a preparare la ricostituzione del partito fascista.
La prassi applicativa di tale figura criminologica è stata poi saggiamente misurata e ha riguardato soprattutto soggetti attivi tra gli hooligan del calcio; di recente, si è parlato di sorvegliati speciali neofascisti in occasione dell'assalto squadristico romano dell'ottobre 2021 alla CGIL.
Se quindi la denuncia/condanna per reati di violenza privata, lesioni, resistenza/minaccia a pubblico ufficiale, ecc. (o magari, secondo la novità torinese, di invasione di edifici), non costituisce motivo per l'applicazione di misure di prevenzione a soggetti neofascisti che non intendano o non siano in grado di preparare la ricostituzione del partito fascista, non si vede come possa giustificarsi l'applicazione di misure di prevenzione a soggetti denunciati/condannati per tali reati che non perseguano una finalità politica intrinsecamente antigiuridica come quella ricostituzione.
10. L'art. 1 lett. c) e il foglio di via per i sindacalisti
Negli ultimi anni si è diffusa la prassi di polizia, contraria al sistema normativo, dell'applicazione di misure di prevenzione nei conflitti di lavoro, specie nel settore della logistica dove hanno grande seguito i sindacati di base che si definiscono conflittuali (per distinguersi dai confederali e da quelli più o meno “gialli”). Si fa ricorso soprattutto al foglio di via obbligatorio, che, pur essendo impugnabile davanti al giudice amministrativo, consente l'immediato allontanamento del sindacalista dai luoghi di lotta, senza il passaggio attraverso l'autorità giudiziaria che è necessario per la sorveglianza speciale.
La giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente censurato tale prassi, annullando i fogli di via applicati agli attivisti sindacali.
L'orientamento, iniziato con la sentenza del CdS nr. 7579/19, ha trovato conferma nella recente sentenza nr. 3108/22, e muove dalla definizione del picchettaggio come “un complesso di comportamenti materiali di diversa natura, aventi come carattere comune la tendenza a rafforzare la partecipazione, la riuscita, l’efficacia di uno sciopero e, più specificamente, (…) tutte quelle attività e quei metodi posti in essere dagli scioperanti per indurre i lavoratori dissenzienti a non accedere nei luoghi di lavoro per fornire la prestazione lavorativa”.
Tale attività “tende ad assumere connotati tanto più energici quanto maggiore è l’asprezza del conflitto sindacale in corso e viene notoriamente praticata per contrastare il fenomeno del crumiraggio e, cioè, il comportamento tenuto dai lavoratori dipendenti dall’azienda ovvero esterni, i quali ultimi concludono in occasione dello sciopero un contratto di lavoro – cosiddetti crumiri – stipulato dall’imprenditore al fine di attenuare od eliminare il pregiudizio economico derivante dallo sciopero e, quindi, vanificare gli intenti perseguiti dagli scioperanti”.
Nel caso esaminato, il giudice amministrativo rilevava che “dalla lettura del foglio di via non si comprende se l’odierno appellante abbia usato in senso proprio violenza nei confronti delle forze dell’ordine, al di là del vago riferimento ad una “energica” contrapposizione tra manifestanti e dette forze non infrequente in questo tipo di conflitti sindacali (…) La semplice presenza in un picchetto di molte persone finalizzato ad ostacolare gli automezzi in entrata o in uscita dallo stabilimento industriale, non connotata da elementi fattuali che consentano di rintracciare specifici e individuali condotte di violenza o minaccia da parte di un determinato soggetto, non può integrare da sola sintomo di pericolosità sociale a carico di questo, se non si vuole trasformare il diritto della prevenzione e, in particolare, il foglio di via obbligatorio in un surrettizio, indebito, strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero e, in ultima analisi, in una misura antidemocratica”.
All'evidenza, l'auspicato rifiuto di trasformare il diritto della prevenzione e il FVO in un surrettizio strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero e in una misura antidemocratica, non ispira il perdurante attivismo antisindacale di alcune Questure.
11. L'associazione per delinquere mediante attività sindacale
Un'ordinanza del 12.7.2022 del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Piacenza ha portato all'arresto di sei dirigenti di sindacati di base operanti nel settore, particolarmente sviluppato tra la Lombardia meridionale e l'Emilia, della logistica.
Oltre che di circa 140 reati-fine[9], gli arrestati sono accusati di promozione o partecipazione a due distinte associazioni per delinquere finalizzate a commettere reati di violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e sabotaggio. La descrizione delle condotte, che consta in ciascuno di tali due capi di imputazione di ben 67 righe, assomiglia più a un'argomentata sentenza di condanna che alla contestazione di un'ipotesi di reato dalla quale difendersi.
Non è questa la sede per un'analisi[10] del provvedimento, che quanto alle ipotesi associative ha già trovato una prima smentita da parte del Tribunale del Riesame di Bologna.
Sconcerta tuttavia la scarsa capacità di parte della magistratura di distinguere fenomeni sociali da fatti criminali, delimitando le rispettive aree: nonostante i ripetuti distinguo tra attività sindacali lecite che non si intendono colpire (excusatio non petita?) e attività penalmente illecite, mai si riesce a comprendere quale ambito del sindacalismo conflittuale sarebbe davvero esente da repressione penale. Il che, alla lunga, non giova neppure alla “tenuta” in giudizio delle imputazioni che siano effettivamente fondate.
Che tutto ciò dipenda da precisa volontà antisindacale, oppure da pregiudizi inconsci radicati nello spirito del tempo, oppure da deficit di riflessione[11], è evidente che simili iniziative inducono a temere che, in importanti settori della nostra vita pubblica, il sentimento della democrazia e dell'uguaglianza come conquiste da rinnovare e ridefinire ogni giorno sia esso stesso un obiettivo da raggiungere, più che un dato acquisito[12].
Tanto più che non emerge analoga efficacia repressiva nei confronti dei metodi adoperati dai “padroncini” del logistico per rompere i cordoni. Resa ormai impervia dal dominante garantismo di classe la contestazione di omicidio volontario con dolo eventuale agli imprenditori che violino regole cautelari a costo di provocare la morte di dipendenti, dei camionisti che feriscono o uccidono gli scioperanti che picchettano è ardua ormai anche la condanna per reato colposo[13].
12. Le norme ad logisticam per i dipendenti dell'appaltatore
L'articolo 1676 del codice civile, intitolato ai “Diritti degli ausiliari dell'appaltatore verso il committente”, prevede che “coloro che, alle dipendenze dell'appaltatore, hanno dato la loro attività per eseguire l'opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l'appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.
Si tratta di una regola di consolidata tradizione, che protegge da sopraffazioni (salari non conformi all'art. 36 della Costituzione, salari indicati nei prospetti paga ma corrisposti solo in parte, mancato pagamento di contributi o TFR, ecc.) i dipendenti dell'appaltatore, consentendo loro di rivolgersi per il dovuto non pagato anche al committente, e anche i dipendenti del subappaltatore nei confronti del subcommittente. Regola che, sollecitando la responsabilità del committente nella scelta del contraente, favorisce indirettamente la buona qualità dell'opera (i cui margini di profitto non possono giovarsi oltre misura della compressione del costo del lavoro) e, naturalmente, la prevenzione delle infiltrazioni negli appalti e subappalti delle organizzazioni mafiose, capaci con la loro forza intimidatrice di imporre salari illegali ai dipendenti.
A questa regola si è ritenuto di derogare con l'introduzione mediante l'art. 1 co. 819 della l. 234/21 (legge finanziaria, che ormai si discute solo nelle Commissioni di uno solo dei due rami del Parlamento, e mai nell'aula, e sempre viene approvata con voti di fiducia) di un articolo 1677-bis del codice civile, vigente dall'1.1.2022, che recita: “Se l'appalto ha per oggetto, congiuntamente, la prestazione di più servizi relativi alle attività di ricezione, deposito, custodia, spedizione, trasferimento e distribuzione di beni di un altro soggetto, alle attività di trasferimento di cose da un luogo a un altro si applicano le norme relative al contratto di trasporto, in quanto compatibili”.
Articolo poi sostituito a decorrere dal 30.6.2022 dall’art. 37-bis co. 1° D.L. nr. 36/22, convertito con modificazioni dalla l. 79/22 (con voto di fiducia), per il quale: “Se l'appalto ha per oggetto, congiuntamente, la prestazione di due o più servizi di logistica relativi alle attività di ricezione, trasformazione, deposito, custodia, spedizione, trasferimento e distribuzione di beni di un altro soggetto, alle attività di trasferimento di cose da un luogo a un altro si applicano le norme relative al contratto di trasporto, in quanto compatibili”.
A seguito di questo doppio passo del legislatore, fonte di una vera e propria deep law, in caso di trasferimento di cose (rectius, merci) da un luogo a un altro non vi è più appalto di servizi bensì contratto di trasporto con esenzione del settore della logistica, espressamente richiamato nell'ultima versione della norma, dalla garanzia fornita dall'art. 1676 c.c. ai dipendenti dell'appaltatore. Anche se le imprese addette al trasferimento di merci per il logistico, finora appaltatrici e d'ora in poi vettrici, sono spesso costituite, in forma talvolta cooperativa, da entità precarie e alquanto fantasmatiche, dalle quali risulta arduo ottenere piena soddisfazione dei diritti patrimoniali[14].
Rivelatore risulta allora il compiacimento espresso per tale controriforma da “Assologistica”, associazione dei già committenti ed ora mittenti”[15].
13. Una tendenza di lungo periodo
Alla fine di questa sintetica illustrazione delle forme del ritorno del diritto classista, diventa inevitabile la domanda sul perché tutto ciò che è accaduto ed evidentemente accade non sia mai stato oggetto di una seria riflessione scientifica.
Anche se incompleta, una qualche risposta deve essere abbozzata in questa sede.
All'inizio della modernità capitalistica, che ne gettava gli esponenti sul mercato delle idee sradicandoli dal mondo della tradizione, il ceto intellettuale cercò di ritrovare un fondamento alla propria attività attraverso la ricerca e l'individuazione dei nessi di causalità sottostanti all'evoluzione sociale: il tentativo più riuscito fu quello marxista, con la distinzione tra struttura economica e sovrastruttura ideologico-politica.
Distinzione divenuta sempre meno efficace nel secolo scorso, sia per la constatata retroazione (indagata ad es. da Gramsci o da Adorno) della sovrastruttura sulla struttura, sia per il dato ovvio che proprio la pretesa di detenere e spiegare la verità sul nesso di causalità proiettava in primo piano la sovrastruttura, di cui gli intellettuali erano espressione. Una volta raggiunto e consolidato un proprio senso di sicurezza, il ceto intellettuale (definitosi talvolta, in tempi recenti, “ceto medio riflessivo”) ha in seguito potuto fare a meno dello schema marxista e di ogni spiegazione causale alternativa e, con tipico gesto postmoderno, ha considerato mera convenzione ogni causalità, sì che ciascun fenomeno sociale avrebbe la stessa dignità e rilevanza di un altro.
In questa prospettiva, i desideri più individualistici sono diventati per gran parte di quel ceto un oggetto di “nuovi diritti civili”, che riguardino le forme del morire, oppure la procreazione, i vincoli familiari, l'uso di droghe, ecc. Anche il tema angosciante dell'immigrazione di massa, in cui è così difficile tenere insieme il giudizio complessivamente negativo sullo sradicamento dei migranti e delle comunità di accoglienza con l'esigenza di accoglienza e di tutela delle persone che ne sono protagoniste, diventa oggetto di formulazioni estremiste sul preteso illimitato “diritto di migrare”, spesso accompagnate da inutili giaculatorie sulla presunta ristrettezza mentale di coloro che, appartenendo di solito alle classi subalterne sulle quali più impatta il fenomeno, non riescono a condividere questi discorsi.
Ora, se i desideri del ceto medio riflessivo tendono a diventare diritti, è pressoché inevitabile che i diritti dei ceti subalterni tendano a diventare meri desideri. Questo rovesciamento dialettico, sul quale Karl Marx avrebbe avuto molto da dire, è una realtà di fatto[16].
14. Finale: il rovesciamento delle priorità
Può in conclusione richiamarsi quanto ha scritto in tema il politologo Alessandro Colombo[17]:
“Sia che la si interpreti come uno smantellamento dello Stato sociale o, invece, come una liberazione dell'efficienza del mercato dall'invadenza dello Stato, la trasformazione cominciata alla fine degli anni Settanta è stata resa possibile dal riflusso della lunga stagione di rivoluzioni e guerre civili (reali o potenziali) del Novecento. Sollevati dalla paura del contagio rivoluzionario, gli Stati liberali si sono affrettati a disfarsi delle protesi sociali che (anche a prezzo di un calo di efficienza economica) erano stati costretti a impiantare per prevenirlo (…) Il contesto storico nel quale si consumava questa regressione materiale è stato proprio quello nel quale si imponeva, sul piano del linguaggio, la retorica delle “pari opportunità”, tra soggetti e identità di ogni tipo (sessuali, etniche, religiose, ecc.), ma non più o sempre meno tra le classi sociali. Non che ci sia qualcosa, sia ben chiaro, che imponga di sacrificare l'eguaglianza di opportunità di queste ultime alla promozione delle altre. Ma è un fatto che proprio questo è ciò che concretamente è avvenuto nell'ultimo trentennio; tanto che ci sarebbe almeno da chiedersi se si sia trattato di una mera coincidenza o di uno spregiudicato (e ipocrita) rovesciamento delle priorità”.
Sembra che le cose stiano proprio così.
[1] cfr. https://www.pietroichino.it/?p=19273
[2] In tema, cfr. Caporusso, La procura speciale in materia di protezione internazionale: alla ricerca di una legalità costituzionale perduta v, in Foro it., 2022, I, 1993 ss.
[3] Un simile atteggiamento si rinviene ad es. in Contro la sinistra neoliberale (Fazi ed., 2022) di Sahra Wagenkchnet, importante esponente della sinistra radicale tedesca (die Linke).
[4] Non vi è necessaria coincidenza tra soggetti privi di potere e soggetti antagonisti inclini alla protesta: è evidente, ad es., che la resistenza a pubblico ufficiale della nota militante no-border Carola Rackete ha più chance di essere scriminata (come poi avvenuto) rispetto a quella di un lavoratore della logistica che partecipi a picchettaggi.
[5] Profeticamente, nel 1967 in La società dello spettacolo (in http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiacritica/debord_spettacolo.pdf ), Guy Debord scrisse: “ Lo sforzo di tutti i poteri costituiti, dopo le esperienze della Rivoluzione francese, per accrescere i mezzi di mantenimento dell'ordine nelle strade, culmina finalmente con la soppressione delle strade stesse”.
[6] Un unicum sembra costituito dalla recente massiccia applicazione di FVO ad attivisti ambientalisti che il 25.7.2022 hanno scalato il palazzo della Regione Piemonte per esporre uno striscione e incatenarsi, perché dediti (con unico episodio!) a reati che mettono in pericolo la sicurezza/tranquillità pubbliche. A seguire tali criteri, chissà quali misure si sarebbero prese nei confronti degli attivisti guidati dalla cantante Gianna Nannini che nel 1995 scalarono l'ambasciata di Francia (vedi https://www.youtube.com/watch?v=sOtDHE3T-bo ) per protestare contro degli esperimenti nucleari. Alcuni di quei fogli di via sono stati poi revocati dalla stessa Questura, secondo https://www.torinoggi.it/2022/08/19/leggi-notizia/argomenti/cronaca-11/articolo/revocati-i-primi-fogli-di-via-agli-extinction-rebellion-gli-attivisti-la-decisione-era-illegittim.html
[7] Menditto, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali, volume I, pagg. 133-134, ed. Giuffré
[8] Si pensi alla democratura turca, nella quale pesanti misure repressive della minoranza curda e di certe opposizioni politiche coesistono con l'amministrazione delle principali città da parte di sindaci avversi al presidente Erdogan.
[9] Tra i quali violenza privata, sabotaggio, turbata libertà dell’industria o del commercio, interruzione di servizio pubblico o di pubblica necessità, resistenza a pubblico ufficiale, rifiuto di indicazioni sulla propria identità e inottemperanza all’ordine di esibire il documento di identità e il permesso di soggiorno.
[10] Già efficacemente svolta da D'Ancona in https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-piacenza-sindacati-o-associazioni-a-delinquere?idn=108&idx=29293&idlink=5 ove è anche reperibile il testo del provvedimento.
[11] In proposito riveste un qualche interesse la particolare lettura dei dati processuali fornita tra luglio e agosto 2022 sulla pagina https://www.facebook.com/francesco.floris.7564
[12] Un'utile sintesi delle lotte sindacali della logistica e della loro repressione è contenuta negli articoli “L'indagine che azzera picchetti e scioperi nell'inferno logistica” e “L'offensiva penale sta travolgendo i sindacati di base”, pubblicati nel Fatto (quotidiano) economico del 25.7.2022.
[13] Cfr. https://www.capacitafinanziaria.net/blog/sentenza-incidente-mortale-alla-gls-assolto-lautista/ e https://contropiano.org/news/politica-news/2020/07/10/omicidio-abdelsalam-il-tribunale-assolve-lautista-del-tir-familiari-e-usb-annunciano-ricorso-sia-fatta-giustizia-0129888 . Un più recente episodio ha provocato il cordoglio dell'allora premier Draghi: cfr. https://www.huffingtonpost.it/entry/investe-uomo-col-camion-durante-manifestazione-sindacale-poi-fugge_it_60cc4773e4b0b50d622bdaea/ e, sullo stato dell'indagine penale, https://www.rosarossaonline.it/2022/06/18/in-ricordo-di-adil-e-di-abd-elsalam/
[14] Comprensibilmente, quindi, si parla in http://sicobas.org/2022/07/18/contributo-con-la-scusa-del-pnrr-padroni-e-governo-draghi-allattacco-dei-lavoratori-non-solo-della-logistica/ di circa un milione di lavoratori a cui è stato detto “è legale rubarvi lo stipendio”. In tema, cfr. gli articoli https://transform-italia.it/la-manina-la-frode-e-il-dispotismo/ e https://www.editorialedomani.it/economia/con-la-scusa-del-pnrr-il-parlamento-cancella-i-diritti-dei-lavoratori-della-logistica-ye20mgvq
[15] https://www.assologistica.it/la-figura-della-logistica-entra-nel-codice-civile.htm con i ringraziamenti agli autori della riforma.
[16] A tale proposito, risulta illuminante la visione del recente film E' andato tutto bene del regista francese François Ozon, il cui 85enne protagonista, in ottima salute ed illimitatamente ricco ed egoista, desidera morire, ma non già suicidandosi bensì pagando dei sicari di origine proletaria per la dolce morte in Svizzera: il suicidio di classe con autore mediato. Che con i soldi si possa pagare tutto, anche la fatica di uccidersi, è cosa che forse non interessa ai sostenitori della depenalizzazione dell'omicidio del consenziente, anche se persona in salute - purché solvibile.
[17] In Tempi decisivi, Feltrinelli ed., 2014.
Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario
di Salvatore Muleo
Sommario: 1. Una norma improvvisa. - 2. La disciplina dell’onere della prova. - 3. Il raffronto con altri settori dell’ordinamento. - 4. Il superamento di alcune derive giurisprudenziali. - 5. Il giudizio secondo gli “elementi di prova che emergono in giudizio”. - 6. I criteri di valutazione degli elementi di prova. - 7. I profili probatori non affrontati.
A prima lettura
1. Una norma improvvisa.
Con mossa inaspettata il legislatore della mini riforma della giustizia e del processo tributari del 2022 ha inserito all’art. 7 d. lgs. 546 del 1992 un comma 5bis, il quale si incarica di disciplinare espressamente, e per la prima volta, l’onere della prova ed i criteri di valutazione degli elementi di prova emersi nel processo, intervenendo altresì sugli elementi che il giudice deve porre a base della propria decisione.
La formulazione, va detto subito, appare poco lineare ed, anzi, particolarmente contorta, distaccandosi in tal modo dai canoni classici enucleabili dalle previsioni codicistiche.
Considerata la sofferta evoluzione della c.d. mini riforma del processo e della giustizia tributaria, si può forse immaginare che le modalità di redazione siano dovute ad una repentina inserzione di queste regole nel testo in discussione (non si trova, difatti, riferimento alcuno ad esse nella relazione parlamentare) e di un compromesso tra le forze politiche. Si ha quasi la suggestione che si sia trovato l’accordo per un’unica disposizione; e che si sia redatto, pertanto, un solo articolo nel quale sono stati inseriti più precetti, anche fortemente eterogenei, in parte rivenienti da taluni emendamenti proposti. Anzi, le modalità di redazione suggerirebbero addirittura una sorta di inserimento a sorpresa delle regole poste al secondo periodo. Ma ovviamente le considerazioni storiche circa la genesi dell’addizione normativa costituiscono argomento interpretativo debolissimo; le illazioni poi, appena accennate, rappresentano un argomento nullo. Giacché è evidentemente con il testo di legge positivo che occorre confrontarsi.
2. La disciplina dell’onere della prova.
Le statuizioni sulla regola di giudizio dell’onere della prova sono riportate nel primo e nel terzo periodo del neonato comma 5bis, racchiudendo in una sorta di sandwich le altre disposizioni in tema di prova, di cui si dirà in seguito.
Le regole sono quindi le seguenti:
- l’amministrazione finanziaria “prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”;
- “spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.
Dissolvendo la formulazione ellittica, la più probabile esegesi della norma è nel senso che incombe sull’amministrazione finanziaria l’onere della prova dei fatti, la cui sussistenza fonda la legittimità della pretesa fiscale portata dall’atto impugnato.
Ed in tal senso pare muoversi entro conosciutissime, pienamente condivisibili, posizioni dottrinarie. Sembra dar difatti attuazione al precetto alloriano secondo cui l’amministrazione deve dare a se stessa la prova della fondatezza dell’atto impositivo, prima della sua emissione[1]. Come è stato sottolineato[2], a siffatta conclusione l’insigne Autore era giunto essenzialmente sulla scorta della considerazione dell’ampio numero di presunzioni poste a favore della stessa amministrazione finanziaria.
Peraltro, l’osservazione delle previsioni normative aggiuntesi nell’ordinamento hanno indotto a ritenere che la stessa conclusione potesse esser raggiunta riflettendo in particolare sull’ingigantimento dei poteri previsti a favore dell’amministrazione finanziaria, e così prendendo le mosse dal criterio della vicinanza della prova[3].
Vicinanza della prova che assurge a criterio di rilievo costituzionale ed europeo, alla luce del quale dev’esser verificata la tenuta del sistema e dev’esser orientata l’interpretazione di eventuali norme sull’onere della prova[4].
Seguendo questa impostazione, quindi, il legislatore ordinario non è libero di disporre dell’onere della prova ad libitum, essendogli senz’altro precluso di valicare il limite della vicinanza della prova.
In altri termini, non può addossare ad una delle parti un onere (della prova) che essa non riesce facilmente a soddisfare se in uno specifico caso concreto i mezzi di prova sono maggiormente disponibili per l’altra parte. E tanto meno lo è il giudice[5].
Se queste impostazioni sono condivisibili, la regola appena scolpita nell’art. 5bis deve confrontarsi con quel criterio, al fine di non provocare difetti di tenuta del sistema, massimamente sotto i profili del diritto di difesa, dell’effettività della tutela e del giusto processo.
In tal senso, la previsione secca dell’addossamento perenne dell’onere della prova in capo all’amministrazione finanziaria – che pure, oltre ad essere chiara, è convincente poiché in genere rispettosa del principio della vicinanza della prova - può finire per provocare problemi allorquando i suoi poteri siano affievoliti. Ad esempio, poiché tutta o parte della fattispecie si è realizzata all’estero, nel caso in cui i fatti, anche eventualmente legittimanti presunzioni, siano di difficile prova da parte dell’amministrazione finanziaria utilizzando i propri poteri[6].
Ancora, la statuizione netta sull’addossamento dell’onere della prova in capo al contribuente in tutte le cause di rimborso dev’esser stemperata (o disapplicata) in relazione alla prova dei fatti la cui disponibilità non sia del contribuente.
Non si vuole, in tal modo, estendere alla fase processuale il principio procedimentale di non aggravamento, stabilito dall’art. 6, quarto comma, dello Statuto dei diritti del contribuente. Quella, infatti, è una regola che incide sui poteri dell’amministrazione finanziaria, precludendone alcune modalità di esercizio allorquando gli elementi di prova siano nella disponibilità dell’amministrazione in genere, al duplice fine di garantire la genuinità delle prove e di non porre inutili pesi al contribuente. La non addossabilità al contribuente dell’onere della prova nella fase processuale nel caso in cui gli elementi di prova non siano in suo possesso, ma egli ne indichi il punto di reperimento, è invece una applicazione, proprio, del criterio della vicinanza della prova.
In altri termini, l’art. 5bis esprime la ricaduta positiva, ed un indiretto riconoscimento, del criterio di vicinanza della prova, addossando l’onere alla parte che ordinariamente ha maggiore disponibilità degli elementi di prova. Ma, nei casi eccezionali in cui detta disponibilità non coincida con la regola generale, se ne dovranno trarre le conseguenze.
Ad avviso di chi scrive, difatti, il criterio di vicinanza della prova, in quanto strumentale rispetto all’effettività della tutela ed al diritto di difesa, è principio generale, come già detto, a valenza costituzionale ed europea. Il giudice domestico, pertanto, qualora nel singolo caso il precetto posto dal comma 5bis si ponga in conflitto con la regola superiore, dovrà non applicarlo[7] per violazione dell’art. 47 della Carta europea dei diritti fondamentali dell'Unione europea e dell’art. 6 § 1 CEDU o denunciarne la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.
La novella non è in realtà sconvolgente, poiché l’atto impositivo è, non a caso, il prodotto finale dell’istruttoria procedimentale, che, a sua volta, si interfaccia con l’attività svolta dal contribuente, che, a seconda delle varie leggi d’imposta, ha vari obblighi ed oneri[8].
Come detto, il procedimento amministrativo è connotato da obblighi ed oneri del contribuente (che si configurano anche prima del suo inizio e dai quali discendono le relative preclusioni), da un lato, ed esercizi di potere dell’amministrazione finanziaria, dall’altro. Profili, questi, non toccati dalla novella.
La permanenza di un impianto così articolato induce ad escludere che la novella di per sé, tranne i casi limite ai quali ci si riferiva, possa comportare un vulnus all’attività difensiva dell’amministrazione finanziaria.
3. Il raffronto con altri settori dell’ordinamento.
L’occasione più recente in cui il legislatore era intervenuto sull’onere della prova è costituita dal codice del processo amministrativo introdotto con il d. lgs. 104 del 2010, in attuazione della legge n. 69 del 2009, ed ispirato dal principio di vicinanza della prova.
Nell’art. 64 c.p.a., difatti, è stato indicato al primo comma che spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano “nella loro disponibilità” riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni. Sebbene nei commi successivi sia stato mantenuto il riferimento al principio acquisitivo, con la previsione di poteri officiosi per il giudice, pare a chi scrive che il criterio della vicinanza della prova rivesta in quell’ordinamento un ruolo decisamente primario.
La conferma del potere acquisitivo da parte del giudice amministrativo, ad opera del terzo comma dell’art. 64 c.p.a., permetterebbe, secondo parte della dottrina[9], al giudice amministrativo di distribuire l’onere della prova a seconda dell’andamento del processo e provocherebbe, secondo altra parte[10], un certo sincretismo.
Pare preferibile l’impostazione di chi ha sostenuto che, a seguito della riforma del 2010, anche nel processo amministrativo è centrale il criterio della vicinanza alla prova”[11]. Essendo peraltro il metodo acquisitivo strumentale al depotenziamento della diseguaglianza di posizioni tra la p.a. ed i privati. Così come è condivisibile l’affermazione di chi ha sostenuto che nel processo amministrativo l’onere “sussiste nei limiti della disponibilità e non oltre”[12]; asserzione che conferma che l’onere di provare è in capo a chi ha la disponibilità della prova e che è evidentemente supportata anche dalla presenza di poteri officiosi in quello schema processuale.
Nel rito tributario, invece, la positivizzazione della regola sull’onere della prova non è stata accompagnata da eguale previsione, giacché il legislatore del 2022 non è intervenuto sui poteri officiosi del giudice tributario, rimasti inalterati ed in genere ritenuti limitatissimi a causa dell’inciso del primo comma dell’art. 7 d. lgs. 546/1992. Nessuna interferenza con la regola sul riparto dell’onere della prova è stata introdotta, quindi.
Più risalente la regola nel processo civile, prevista, come notissimo, nell’art. 2697 c.c., in cui l’onere della prova è addossato a colui il quale “dice” (i.e. allega) dei fatti. Regola, però, superata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che, a far data dalla ben nota sentenza n. 13533 del 2001, emessa a Sezioni Unite, ha superato il dato positivo, in nome del criterio della vicinanza della prova, fornendo, nei casi eccezionali in cui sia necessario, un’interpretazione esattamente contraria al testo.
Come si è già osservato[13], sebbene ciò non emerga dalla sentenza ricordata, una tale interpretazione presuppone, da un punto di vista tecnico-giuridico, la (condivisibile) disapplicazione della norma interna, siccome ritenuta in contrasto con una regola europea, che in tal caso è ravvisabile nel principio di effettività della difesa.
4. Il superamento di alcune derive giurisprudenziali.
Alla luce di quanto detto, l’addossamento dell’onere della prova all’amministrazione finanziaria avrà certamente ripercussioni sulla giurisprudenza che negli ultimi anni si è andata formando a proposito della deducibilità dei costi e della loro inerenza.
Adottando un criterio non condivisibile, sia in tema di costi in relazione alle imposte sui redditi sia in tema di detrazioni iva, è stata seguita una sorta di “esplosione” (o scomposizione) della fattispecie imponibile in elementi positivi ed elementi negativi, addossando al contribuente l’onere della prova della sussistenza e della deducibilità di questi ultimi, come se fossero fatti impeditivi od estintivi[14].
In tal senso si vedano, ad esempio Cass. 15 luglio 2022 n. 22449, per l’addossamento al contribuente dell’onere della prova della infondatezza o della irrilevanza dei movimenti bancari, Cass. 12.4.2022 n. 11737, in relazione alla fonte legittima della detrazione, Cass. 21 novembre 2019 n. 30366, in tema di esistenza e natura del costo nonché relativi fatti giustificativi e la concreta destinazione alla produzione (in senso conforme Cass. 2596 del 28 gennaio 2022, Cass. n. 450 del 11 gennaio 2018, Cass. n. 18904 del 17 luglio 2018, Cass. n. 902 del 17 gennaio 2020), Cass 17 gennaio 2020 n. 902, in relazione alla prova della correlazione tra i costi di un contratto di swap e le finalità di copertura di operazioni attinenti all’attività di impresa (in senso conforme Cass. n. 10269 del 26 aprile 2017, Cass. n. 450 del 11 gennaio 2018, Cass. n. 30366 del 21 novembre 2019, Cass. 18896 del 5 luglio 2021), Cass. n. 20303 del 23 agosto 2017, in tema di presupposti dei costi inclusa l’inerenza, e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi nonché la loro congruità rispetto ai ricavi.
È proprio questa (forzata) separazione degli elementi negativi da quelli positivi a non convincere.
La fattispecie impositiva è difatti molte volte consistente in un fatto complesso, qual è, per esempio, il possesso di un reddito d’impresa. In tali casi, è l’intera realizzazione del presupposto in capo al contribuente a dover esser provata. L’onere della prova di ogni modificazione delle prospettazioni di fatto desumibili dalla (e sottostanti la) dichiarazione del contribuente, ad avviso dello scrivente, andava già posto a carico dell’amministrazione finanziaria, contrariamente da quanto concluso dalla giurisprudenza prevalente sin qui formatasi[15].
La novella quindi induce ora a ridiscutere su molti temi che sembravano acquisiti ed a ritenere, in ogni caso di rettifica di imponibile o di imposta, che l’onere della prova sia a carico dell’amministrazione finanziaria, atteso che è venuta meno ogni possibilità di interpretazione differente. E perciò a concludere che non vi sono appigli per una prosecuzione di quell’orientamento giurisprudenziale.
5. Il giudizio secondo gli “elementi di prova che emergono in giudizio”. E l’art. 115 c.p.c.?
Per altro verso, occorre domandarsi se e quale possa essere il significato della frase, riportata nella prima proposizione del secondo periodo, per cui “il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio”.
In specie, bisogna chiedersi se il legislatore abbia voluto modificare l’intero impianto del sistema tributario sino al punto da rendere la fenomenologia probatoria come esclusivamente appartenente alla sfera processuale, e non più a quella procedimentale. Se, quindi, debba anche per l’ordinamento tributario, come già per quello penale, potersi dirsi che la prova si forma solo nel processo, con contraddittorio per la (ammissione e formazione della) prova e non semplicemente sulla prova. E se, ancora, persino le regole sulla motivazione degli atti tributari, di cui ad esempio all’art. 7 dello Statuto, debbano intendersi superate, essendo tenuta l’amministrazione finanziaria a fornire la prova solo nel giudizio e non nel procedimento, con l’ovvio corollario della caduta dell’obbligo della motivazione sulla parte che ricollega gli elementi di prova alla pretesa tributaria (oltre che, nel caso dell’iva, con l’implicita abrogazione della regola, posta dall’art. 56 d.p.r. 633 del 1972, a mente della quale devono esser indicati gli elementi di prova negli atti di rettifica).
La risposta è, ad avviso di chi scrive, negativa.
Anzitutto va valutato l’argomento letterale: la norma fa riferimento ad elementi di prova emersi nel giudizio e non generalmente alla formazione della prova in giudizio.
Il richiamo alla “emersione” nel processo degli elementi probatori appare, piuttosto, la modalità con la quale il legislatore può aver ripetuto, in modo invero non necessario, che il giudice deve decidere juxta probata, ribadendo e sottolineando l’impronta fortemente dispositiva del rito nonché l’inesistenza di poteri officiosi al fine di ottenere elementi probatori che non siano stati allegati ed offerti dalle parti. E gli elementi possono esser emersi nel procedimento (con l‘onere dell’amministrazione finanziaria di riversarli nel processo) ovvero, a seguito della novella del 2022, formarsi nel processo, e per tale via emergere (si pensi alla testimonianza scritta, appena introdotta). Una tale lettura sarebbe quindi tranquillizzante per quel che concerne la supposta rivoluzione dell’intero ordinamento tributario.
Peraltro, ed anche in correlazione con un’interpretazione sistematica, una rivoluzione così ampia – come sarebbe quella sopra tratteggiata – potrebbe fondarsi solo con un comando più chiaro ed inequivocabile. E, pure dal punto di vista storico, l’esser frutto di una inaspettata inserzione difficilmente appare compatibile con uno stravolgimento totale dell’ordinamento tributario ab imis.
Senonché, se è corretta tale lettura “minimale”, occorre anche chiedersi se la disciplina inerente a come il giudizio dev’essere fondato finisca per escludere l’applicazione (pure, a partire dal 2007, pacifica) dell’art. 115 c.p.c. al processo tributario.
Tale applicazione, difatti, riposava sulla mancanza di previsione espressa da parte del d.lgs. 546/1992 e sulla non incompatibilità della regola processualcivilistica.
Ma la previsione secca - secondo cui il giudice tributario deve fondare il giudizio sugli elementi probatori emersi - significa che il giudizio deve esser basato solo su quelli? E, ancora, significa che il principio di non contestazione ex art 115 c.p.c.[16] non è più applicabile? E che il giudice non può/non deve nemmeno tener conto delle nozioni di comune esperienza?
La risposta potrebbe esser ad avviso di chi scrive negativa, riflettendo sul contenuto e sulla struttura dell’art. 115 c.p.c.. Esso in realtà racchiude tre regole: la prima sulla corrispondenza biunivoca che si crea tra il materiale probatorio offerto dalle parti (e dal pubblico ministero) e quello che deve esser esaminato dal giudice; la seconda e la terza (seppur in tale ultimo caso con diversa gradazione, atteso che il giudice “può” e non “deve” attingere ai fatti notori) sull’esclusione dal thema probandum di taluni fatti, per via della mancata contestazione dalla parte costituita o dell’esser di comune conoscenza.
Sulla scorta di tale considerazione si potrebbe allora ritenere che il legislatore del 2022 abbia inteso intervenire sulla prima statuizione, ma non sulla seconda e la terza. Se questo è corretto, dovrebbe rilevarsi che l’effetto della novella sarebbe, quanto al contenuto del precetto normativo, “ultraminimale”, poiché la statuizione dell’art. 5bis non sarebbe significativamente differente da quella dell’art. 115 c.p.c. in parte qua (elementi probatori emersi nel giudizio in luogo di prove offerte dalle parti e dal pubblico ministero). La funzione della previsione normativa riportata nell’art. 5bis potrebbe esser, allora, quella di completezza; vale a dire, di riepilogo della regola generale in una sede, l’art. 5bis, in cui le norme sulle prove sono racchiuse. E non sarebbe, del resto, la prima volta che nel decreto legislativo n. 546 del 1992 le norme processualcivilistiche sono ripetute, nonostante l’insussistenza di una tale necessità grazie al rinvio contenuto nel secondo comma dell’art. 1.
L’effetto sostitutivo – della focalizzazione, con solo diversa prospettiva, sugli elementi probatori emersi in giudizio anziché sulle prove offerte dalle parti e dal pubblico ministero – non intaccherebbe quindi l’applicabilità delle regole sulla esclusione dal thema probandum dei fatti non contestati e dei fatti notori che il giudice ritenga utilizzabili. Regole la cui compatibilità con il processo tributario è stata da lungo tempo accettata.
6. I criteri di valutazione degli elementi di prova. E l’art. 116 c.p.c?
Più articolata è la previsione dei criteri di valutazione degli elementi di prova introdotta nell’art. 5bis, che obbliga il giudice all’annullamento dell’atto impositivo (e di quello sanzionatorio, ovviamente) “se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziale e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.
Qui il raffronto è, ovviamente, con l’art. 116 c.p.c., ai sensi del quale il giudice deve valutare gli elementi probatori in genere “secondo il suo prudente apprezzamento” (di cui poi deve dar conto in motivazione anche nel processo civile) e può desumere argomenti di prova dal comportamento processuale delle parti in relazione alle risposte fornite dalle stesse in sede di interrogatorio non formale, dal rifiuto alle ispezioni giudiziali disposte ed in genere dal contegno, processuale e non, tenuto dalle parti.
La novella sostituisce allora una valutazione rigorosa – in cui la dimostrazione probatoria dev’esser ben presente, non affetta da contraddizioni quanto all’inferenza dei vari elementi e raggiunga un livello di sufficiente attendibilità sulla scorta di riscontri circostanziali e puntuali – alla “prudente” ponderazione sancita dalla regola processualcivilistica.
Peraltro, l’inciso “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale” esprime la forte indicazione di non voler svellere l’intero impianto probatorio procedimentale tributario, che, come noto, ricorre spesso a presunzioni semplici e talora anche semplicissime, allontanandosi dagli ordinari canoni in tema di accertamento dei fatti. Qui la volontà del legislatore è chiara ed indica inesorabilmente che non sono smantellate le regole (e talora le micro-regole) previste per il procedimento di accertamento dei fatti rilevanti ai fini impositivi.
Come già era capitato proprio al primo comma dello stesso art. 7 a proposito dell’inciso “ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti”, l’inciso è veramente centrale, ai fini della comprensione della disciplina. E vale a depotenziare totalmente ogni velleità interpretativa radicalmente rivoluzionaria del sistema esistente.
Ed allora, preso atto di questo forte vincolo, i criteri di valutazione imposti al giudice dall’art. 5bis si risolvono, in fin dei conti, ad un richiamo all’obbligo di valutare gli elementi probatori in modo estremamente più prudente.
La “prudenza” dell’art.116 c.p.c. significa già, in realtà, rigore nella valutazione, affidamento a ponderazioni non avventate, ma in cui le probabilità di verificazione dei fatti siano superiori; e l’obbligo di scartare soluzioni accertative in cui le probabilità (che l’enunciazione di un fatto sia vera) siano minori di altre pure possibili.
Il richiamo alla dimostrazione “in modo circostanziato e puntuale” significa, non diversamente, che l’apprezzamento degli elementi probatori dev’esser basato su elementi riscontrati precisamente, mentre i lemmi precedenti obbligano ad un nesso inferenziale forte (tra gli elementi di fatto accertati e la prova da fornire).
Anche qui, quindi, vanno scartate soluzioni che raggiungano un livello di affidabilità non alto.
E pure questa disposizione non sembra rivoluzionaria[17], ma piuttosto appare finalizzata ad evitare derive giurisprudenziali, dettagliando le operazioni di valutazioni degli elementi di prova emersi nel processo. Ed, in tale ottica, innovativa. Sebbene, come detto, non rivoluzionaria.
7. I profili probatori non affrontati.
Se l’intento del legislatore era quello di intervenire sulla disciplina della prova in genere, non si può omettere di rilevare come diversi temi restino tuttora privi di disciplina espressa.
Valga solo accennare, ad esempio, alla mancanza di un catalogo probatorio (giacché l’art. 7 d.lgs. 546/1992 si limita a vietare alcuni mezzi di prova), con la conseguente difficoltà di configurazione di mezzi di prova atipici. In tal caso la mancata previsione normativa potrebbe non esser particolarmente problematica, esistendo la possibilità di ricostruire la disciplina[18].
Tuttavia, e soprattutto, difetta una regola espressa che disciplini la conseguenza delle patologie, come fa l’art. 191 c.p.p., certamente inapplicabile al processo tributario ed invece applicabile, ad avviso di chi scrive, alla sfera procedimentale per opera del rinvio simmetrico effettuato dagli artt. 70 d.p.r. 600/1973 e 75 d.p.r. 633/1972.
[1] Cfr. E. ALLORIO, Diritto processuale tributario, Milano, 1966, p. 363
[2] V. F. TESAURO, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, p. 81, ora in Scritti scelti di diritto tributario, vol. II, Torino, 2022, p. 272
[3] Sia consentito rinviare, in tal senso, a S. MULEO, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, p. 603 s., nonché a S. MULEO, Il principio europeo dell’effettività della tutela e gli anacronismi delle presunzioni legali tributarie alla luce dei potenziamenti dei poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 685 s.
[4] Ancora S. MULEO, Riflessioni sull’onere della prova, cit.
[5] L’idea che il giudice potesse fissare di volta in volta a chi addossare l’onere della prova era stata esposta da G. A. MICHELI, L’onere della prova, Padova, 1942, p. 243, ma poi è stata rigettata dallo stesso Autore nella prefazione alla ristampa del 1966.
[6] Come si dirà appresso, ad avviso di chi scrive, la previsione esplicita della regola sull’onere della prova ex art. 5bis dell’art. 7 d. lgs. 546/1992 non comporta un superamento delle copiose presunzioni, persino non qualificate, esistenti nell’ordinamento tributario.
[7] Similmente a quanto avviene nel processo civile e del lavoro, in cui l’art. 2697 c.c. è letto, nelle eccezionali ipotesi in cui sia necessario in ossequio al criterio della vicinanza della prova, in modo opposto rispetto alla norma positiva. Si veda, per sintetici riferimenti, nel paragrafo successivo.
[8] Come sottolineano F. TESAURO, L’onere della prova, cit., p. 276, e G. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 588 s.
[9] C. LAMBERTI, Disponibilità ed onere della prova, relazione al convegno su: La disponibilità della domanda nel processo amministrativo, Roma 10 – 11 giugno 2011, p. 22 s. del dattiloscritto
[10] A. ROMANO TASSONE, Poteri del giudice e poteri delle parti nel nuovo processo amministrativo, in AA.VV., Scritti in onore di P. Stella Richter, Napoli, 2013, I, p. 467
[11] F. SAITTA, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l’esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, p. 911 s.
[12] G. VELTRI, Gli ordini istruttori del giudice amministrativo e le conseguenze del loro inadempimento, in https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/gli-ordini-istruttori-del-giudice-amministrativo, 2013, § 2
[13] Sia consentito rinviare, ancora una volta, a S. MULEO, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. Trim. Dir. Trib., cit., ove anche riferimenti alla successiva giurisprudenza della Corte di cassazione, in diversi settori.
[14] Per la negazione della distinzione tra fatti costitutivi, modificativi, estintivi, etc. si veda ancora F. TESAURO, op. cit., p. 276 s., il quale ha negato l’applicabilità dell’art. 2697 c.c. al processo tributario, affermando che “esistono soltanto fatti, che giustificano l’emissione del provvedimento, il che ha un suo particolare rilievo in materia di prova delle componenti negative della situazione base (costi, in materia reddituale), di prova nei giudizi avverso dinieghi di esenzione ecc.“, e chiarendo ulteriormente, in nota, che “emanato che sia un atto, spetta all’amministrazione dimostrare in giudizio di averlo emanato legittimamente, sulla base d’una soddisfacente acquisizione dei mezzi istruttori relativi all’accertamento dei presupposti di fatto”.
[15] Per talune acute critiche v. A. MARCHESELLI, Onere della prova e diritto tributario: una catena di errori pericolosi e un “case study” in materia di “transfer pricing”, in Riv. tel. dir. trib., 2020, p. 213 s.
[16] Su cui, per tutti, cfr. I. DE PASQUALE, L’onere di contestazione specifica nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2013, I, p. 545 s.
[17] Per quanto il codice di procedura penale non sia norma applicabile al processo tributario, per mero raffronto valga solo ricordare che l’art. 192 c.p.p. obbliga il giudice a tener conto degli indizi solo se questi sono gravi, precisi e concordanti. Modificando così la regola antecedente la riforma del 1988 ed intervenendo sulla sua libertà di giudizio.
[18] Il tema, veramente interessante, non può esser qui che solamente accennato.
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