ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il D.L. 162/2022 e il nuovo 4-bis: un percorso a ostacoli per il condannato e per l’interprete di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. Le richieste della Corte Costituzionale. - 2. Il decreto - legge 162/2022. - 3. L’ampliamento dell’ostatività. - 4. Lo scardinamento del meccanismo dell’ostatività assoluta ed il suo alto prezzo. - 5. L’ampia istruttoria per consentire di esercitare correttamente la discrezionalità.- 6. Il 41-bis e l’ultimo periodo del nuovo 4-bis co. 2. - 7. L’apporto del pubblico ministero. - 8. Le modifiche in tema di lavoro all’esterno e permesso premio: il rischio di uno snaturamento degli istituti. - 9.Le novità in materia di liberazione condizionale. - 10. Le disposizioni transitorie, ultimo habitat della collaborazione impossibile e inesigibile.
1. Le richieste della Corte Costituzionale.
Il Governo ha dunque varato, tra i suoi primissimi atti, un decreto - legge (pubblicato nella G.U. del 31.10.2022), che contiene una modifica ampia e complessa dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Lo ha fatto nel termine di ulteriori sei mesi concesso al legislatore dalla Corte Costituzionale, dopo un precedente termine annuale, rimasto privo di riscontri. In effetti si tratta di una sostanziale riproposizione del disegno di legge licenziato dalla Camera dei Deputati il 31 marzo 2022, che non fu poi approvato dal Senato anche a causa del termine anticipato della legislatura.
Come noto, la Consulta, con l’ordinanza 97/2021, aveva spiegato, pur senza dichiararla, l’incostituzionalità del meccanismo ostativo contenuto nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., che collega la concedibilità di permessi premio, autorizzazione al lavoro all’esterno, misure alternative disciplinate nella legge penitenziaria e liberazione condizionale (attraverso il rimando contenuto nel d.l. 152/1991, poi convertito in L. 203/1991), per gli autori dei reati contenuti nell’elenco ivi leggibile, soltanto all’avvenuta collaborazione con la giustizia.
Era stata chiamata, a valle di importanti precedenti sentenze della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e della stessa Corte Costituzionale, a pronunciarsi con riferimento alla situazione di un condannato alla pena dell’ergastolo per fatti di mafia, che si vedeva preclusa, in quanto non collaborante, una valutazione di merito circa la sua istanza di liberazione condizionale.
Temi ritenuti dalla Corte di così apicale importanza, a differenza di quanto avvenuto quando era stata chiamata a pronunciarsi da un condannato in una posizione analoga ma in materia di permesso premio, da meritare che fosse il Parlamento a dare organicità agli interventi da compiere, pur nel solco tracciato dalla Consulta. Doveva essere necessariamente superata la collaborazione con la giustizia come presunzione legale di recisione del vincolo con i gruppi criminali di riferimento, dovendo piuttosto darsi spazio a meccanismi che, senza dimenticare la centralità della collaborazione e la giusta premialità con cui è riguardata dall’ordinamento, tuttavia consentissero all’interessato di dimostrare altrimenti il superamento della propria pericolosità sociale, mediante allegazioni perspicue sulla insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e sull’assenza di pericolo di ripristinarne in futuro (requisiti già imposti con la sent. Corte Cost. 253/2019, ma appunto in relazione esclusivamente ai permessi premio).
Non mette conto, in questa sede, diffondersi sull’ampio dibattito suscitato in dottrina, e sugli arresti giurisprudenziali cui si è giunti negli anni di applicazione della disciplina dopo la sentenza del 2019 in materia di permessi premio, basta però dire che non era certo parso ai commentatori, né emergeva dai provvedimenti emessi, che si trattasse di requisiti semplici da soddisfare.
Da ultimo poi la stessa Corte Cost., con la sent. 20/2022, aveva ribadito la necessità di conservare un istituto, contenuto nell’art. 4-bis co. 1-bis ord. penit., ma nato proprio dalla sua giurisprudenza, e cioè la collaborazione impossibile o inesigibile (oppure irrilevante in certi casi individuati dalla normativa), che fotografa la condizione di chi pur volendo collaborare non possa farlo, poiché interamente già accertati i fatti di cui alla condanna che lo riguarda, o per via del ruolo marginale ricoperto nella vicenda. Per queste ipotesi, surrogatorie della collaborazione attiva con la giustizia, oggi già è previsto il superamento dell’ostatività, perché la mancata collaborazione non può considerarsi in termini negativi, ed è consentito l’accesso ai benefici, in presenza degli altri requisiti di legge ed a fronte di una valutazione di meritevolezza in concreto, quando sussista prova della recisione del vincolo associativo con il gruppo criminale organizzato.
La Consulta, nella sent. 20/2022, chiariva che, anche all’indomani della sent. 253/2019, restava necessario distinguere la posizione di chi non collabora perché non può (il collaboratore impossibile o inesigibile) da quella di chi non collabora perché non vuole (per ragioni anche di comprensibile timore, ma comunque esercitando la propria libertà di non collaborare).
A fronte di questo complesso quadro, dunque, il Parlamento non è riuscito a rispondere in tempo alle richieste della Consulta, che gli aveva domandato, entro il maggio 2022 e, dopo un ulteriore termine, entro l’8.11.2022, di elaborare una novella organica, che evitasse interventi chirurgici, come quelli che sarebbero derivati da una pronuncia della Corte Costituzionale, con il rischio di squilibri e vuoti in un settore così cruciale come quello del contrasto alla criminalità organizzata.
2. Il decreto - legge 162/2022.
Interviene ora il Governo, a pochi giorni, ormai, dall’8 novembre, utilizzando lo strumento del decreto - legge, con l’esplicito intento di anticipare la decisione, scontata nel merito, della Consulta. Colpisce il ricorso alla decretazione d’urgenza, posto che l’esigenza di una riforma sul tema era ben nota già a partire dalla sentenza CEDU Viola c. Italia del 2019, tanto che la ragione giustificatrice dello strumento finisce per apparire soltanto il mero ritardo del legislatore. Avrebbe forse destato qualche dubbio in meno, invece, la scelta di un decreto – legge che avesse fatto seguito alla decisione della Consulta, ove l’eventuale intervento del Giudice delle leggi si fosse rivelato produttivo di lacune o incongruenze di sistema che potessero in ipotesi minare la solidità dei meccanismi di contrasto alla criminalità organizzata, che sono alla base della disciplina dell’art. 4-bis ord. penit.
Ci si deve ora domandare, anzi, come la Corte Costituzionale intenderà procedere, avendo testualmente fatto riferimento, nell’ordinanza 97/2021, al compito di valutare, all’esito dell’intervento normativo, la disciplina risultante.
Come si diceva, il testo del decreto - legge riproduce quello licenziato dalla Camera dei Deputati a marzo scorso. Nel corso dei lavori parlamentari svoltisi già dal 2021 furono auditi numerosi esperti, si sono confrontate varie proposte di modifica, si è passati attraverso diversi testi, anche francamente lontani dagli orizzonti costituzionali che orientavano la giurisprudenza del Giudice delle leggi.
Il testo che ora possiamo leggere porta le tracce di questo travaglio e, a fianco di riformulazioni che hanno attenuato profili di perplessità significativa, rispetto ad alcune precedenti versioni, non mancano purtroppo tratti di criticità.
Ci viene consegnato un testo ipertrofico, che per altro incide su una disposizione normativa già di abnorme complessità e di difficile lettura. In alcuni passaggi si leggono formule che appaiono duplicare gli stessi concetti, con un approccio che inevitabilmente costringerà l’interprete a ricercarne le ragioni: quale differenza tra adempimento “delle obbligazioni civili” e “degli obblighi di riparazione pecuniaria”? oppure quale tra la nozione di “collegamento indiretto” e quello di “collegamento tramite terzi”?
In altri casi si ricalcano requisiti anche altrove utilizzati, ma con rafforzativi, che pongono analoghi interrogativi: quale differenza intercorre tra l’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili, prevista dall’art. 179 ult. co. per la riabilitazione, e la “assoluta impossibilità” di adempiere di cui alla formulazione del nuovo 4-bis co. 1?
Nel drafting normativo, ancora, si ricorre in alcuni casi alla numerazione dei commi con “1-bis.1” e “1-bis.2”, acuendo la sensazione di trovarsi all’interno di un labirinto di dettagli e precisazioni che, lungi dall’offrire linee chiare di azione, moltiplica gli spigoli in cui il ragionamento rischia di incepparsi.
3. L’ampliamento dell’ostatività.
Nonostante non fossero mancate voci in dottrina che invitavano il legislatore a cogliere l’occasione offerta dalla necessità di rispondere alle indicazioni della Corte Costituzionale, per snellire il lungo elenco di reati compresi nel disposto dell’art. 4-bis co. 1, ed ormai all’evidenza non più conferenti agli obbiettivi originari della disposizione, il decreto - legge non si muove in questa direzione. Anzi, introduce un inciso nel predetto comma volto ad estenderne la portata. Si prevede infatti che anche reati comuni non inseriti nell’elenco vengano attratti nella fattispecie ostativa, laddove legati ai delitti di prima fascia da nesso teleologico riconosciuto dal giudice di cognizione o di esecuzione (commessi per eseguire od occultare uno dei reati di cui al medesimo primo periodo ovvero per conseguire o assicurare al condannato o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di detti reati).
Si tratta di una tecnica già adoperata, ad esempio, nella legislazione dell’emergenza da COVID19, quando la si leggeva, in una forma comunque diversa, nell’art. 30 del Dl Ristori. A differenza di quel caso, però, e per ragioni non immediatamente rintracciabili, la disposizione determina l’effetto attrattivo per i reati avvinti dal nesso teleologico (art. 12 co. 1 lett. c c.p.p.) ma non anche per quelli in cui sia riconosciuta la continuazione (art. 12 co. 1 lett. b). E’ vero che, almeno per i delitti commessi in continuazione a quelli di associazione a delinquere di stampo mafioso, è lo stesso disposto già vigente dell’art. 4 bis co. 1 a prevedere la loro ricomprensione nel perimetro dell’ostatività, ma resta escluso il resto dell’elenco.
Ad ogni modo, e nella consapevolezza che questa aggiunta amplia la portata della prima fascia del 4-bis, con le conseguenze ostative ivi leggibili, l’art. 3 del decreto - legge, contenente disposizioni transitorie, opportunamente chiarisce che la nuova formulazione non trova applicazione per chi ha commesso il reato prima dell’entrata in vigore della legge. Una soluzione conforme all’insegnamento della Consulta con la sent. 32/2020, circa il divieto di retroattività delle disposizioni (peggiorative) in materia di requisiti di accesso alle misure alternative, ma che va anche lodevolmente oltre poiché, come noto, in quella pronuncia permessi premio e autorizzazione al lavoro all’esterno non erano stati ricompresi tra quelle e dunque, in assenza della disposizione transitoria, per quei benefici si sarebbe subito applicata la disciplina ostativa.
4. Lo scardinamento del meccanismo dell’ostatività assoluta ed il suo alto prezzo.
Il cuore della novella, costituito dal superamento dell’ostatività assoluta anche per i condannati non collaboranti, è compreso nel nuovo art. 4-bis co. 1-bis, che viene sostanzialmente riscritto, e nel seguente co. 1-bis.1. Innanzitutto si coglie l’eliminazione dal testo degli istituti della collaborazione impossibile e inesigibile, che vengono recuperati, parzialmente, per come vedremo, attraverso la normativa transitoria.
Vengono poi differenziati due elenchi di reati, scelti tra quelli compresi all’interno della c.d. prima fascia. Il primo sottogruppo comprende i delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso o commessi con finalità di terrorismo anche internazionale, o ancora di associazione a delinquere volta al traffico di sostanze stupefacenti, ma anche i reati già compresi nel 4-bis co. 1 in materia di immigrazione clandestina e commercio di tabacchi lavorati esteri, un coacervo dunque tutt’altro che omogeneo. Per gli autori di questi delitti si prevede che il condannato che non collabori con la giustizia potrà accedere ai benefici previsti nel co. 1 purché dimostri l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di adempiere (si vedano i rilievi sub 2 su queste espressioni). Si tratta di un requisito severo e impegnativo, che sino ad oggi era connesso in questi termini soltanto al beneficio della liberazione condizionale o della riabilitazione, che intervengono al termine dei percorsi penitenziari. L’anticipazione al momento in cui, ad esempio, si richieda un permesso premio, appare così da un lato poco conferente alla natura del beneficio che si richiede e dall’altro decisamente prematura.
Il legislatore descrive poi il requisito fondamentale, già dettato dalla Consulta, ma che qui viene espresso in termini assai più dettagliati, ottenendo però un paradossale effetto di minor determinatezza. Si impone infatti che l’interessato alleghi all’istanza “elementi specifici, diversi ed ulteriori” rispetto alla regolare condotta, alla partecipazione al percorso rieducativo e alla dissociazione dall’organizzazione, grazie ai quali possa escludersi l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata “o con il contesto nel quale il reato è stato commesso”, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, “anche indiretti o tramite terzi”.
La formula adoperata si espone a perplessità, soprattutto perché, mentre è piuttosto chiaro cosa il legislatore ritenga insufficiente, omessa tuttavia una esplicita indicazione circa la necessità di quegli elementi, non è chiaramente detto cosa possa il condannato, magari dopo molti anni di detenzione, allegare a sostegno della sua istanza. Dovrà qui farsi uso dell’insegnamento della S.C. che, già con la sentenza 33743/2021, ha iniziato a fornire indicazioni importanti, che sembra possano essere ora adoperate anche per questo nuovo istituto, che replica quanto sostanzialmente richiesto dalla Corte Cost. con la sent. 253/2019.
E’ invece un’assoluta novità la comparsa sulla scena della nozione di “contesto nel quale il reato è stato commesso”, segnata da una genericità che soltanto la giurisprudenza di merito, e poi di legittimità, potrà tentare di colmare e che, per il momento, lascia davvero dubbiosi, a fronte di formule già molto ampie che impongono di rinvenire elementi idonei ad escludere l’attualità, ma anche il pericolo di ripristino, di collegamenti, persino indiretti, con i gruppi criminali di riferimento.
La disposizione indica che il giudice potrà pervenire ad una valutazione di insussistenza di tali rischi tenendo conto di circostanze personali e ambientali, ma anche delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione possibile.
Si tratta di espressioni che opportunamente affidano alla discrezionalità prudente ed informata della magistratura di sorveglianza il vaglio di una serie di elementi individualizzanti, che consentiranno di tener conto del percorso di osservazione sviluppato in contesto penitenziario in favore del condannato. E’ ripreso anche il riferimento alle ragioni della mancata collaborazione, per come richiesto dalla stessa ordinanza Corte Cost. 97/2021, ma opportunamente in una formula che non obbliga a farle emergere, ma consente di apprezzarle quando ciò accada. Si tratta di un contemperamento significativo, poiché è evidente come i timori di subire ritorsioni, indicati dalla CEDU e dalla Consulta, come alcune delle possibili ragioni di una mancata collaborazione, spesso non possono essere detti, senza con ciò far scoprire ciò che si voleva, per paura, tenere nascosto.
Ultimo requisito richiesto per l’accesso ai benefici è che l’interessato abbia assunto iniziative in favore delle vittime, sia di tipo risarcitorio, sia nelle forme della giustizia riparativa. La formula usata richiama il giudice al dovere di “accertare” che ciò sia accaduto e dunque sembra che la sussistenza di questo requisito (l’assunzione di iniziative, non certo gli eventuali proficui risultati) costituisca una vera e propria condizione di ammissibilità dell’istanza. Si pensi alla soluzione differente, adottata nell’art. 4-bis co. 1-quinquies in cui la partecipazione a trattamento psicologico per i condannati per reati sessuali in danno di minori ed altri “è valutata” dalla magistratura di sorveglianza, dunque elemento tra altri che, nel merito, può deporre per la concessione.
Si tratta, dunque, di una serie così ampia di requisiti indispensabili per arrivare ad una pronuncia favorevole, anche per il più limitato dei benefici previsti, e per tutti allo stesso modo, che la strada per l’istante può ben rappresentarsi come un percorso a ostacoli, che non ha il pregio di una difficoltà crescente all’ampliarsi della richiesta, e che perciò corre il rischio di non incentivare quei progressi successivi che sono il proprio di una esecuzione penale che, come tante volte ha ribadito la Corte Costituzionale, ha il suo proprio nel dipanarsi in un tempo, spesso assai lungo.
Nel comma 1-bis.1 vengono inseriti i delitti residui della prima fascia: si tratta essenzialmente di quelli contro la p.a. che furono introdotti nell’art. 4-bis con la legge spazzacorrotti del 2019, ma anche dei reati di tratta, di violenza sessuale di gruppo ed ancora di sequestro di persona a scopo di estorsione. Per questi delitti il legislatore non ha optato, come invece suggerito dalla dottrina, per un declassamento alla seconda fascia, facendo venir meno un’ostatività che trae la sua ragion d’essere dalla necessità di indagare circa i collegamenti del condannato con i gruppi criminali, e che dunque mal si adatta a reati che sono normalmente al di fuori di quel contesto, o addirittura monosoggettivi. Neppure ha trovato spazio l’insegnamento della sent. Corte Cost. 253/2019 che già consentiva al giudice di valutare le istanze di permesso premio dagli stessi provenienti, senza indagare su collegamenti con la criminalità organizzata insussistenti in re ipsa. Si è invece deciso di distinguerli dal primo sottogruppo, prendendo atto che non vi è ragione di ricercarne i collegamenti con i gruppi criminali, ma mantenendo fermi tutti gli altri requisiti richiesti dal nuovo co. 1-bis per accedere ai benefici penitenziari. Si impongono dunque l’adempimento delle obbligazioni civili (o la dimostrazione dell’assoluta impossibilità) e le iniziative risarcitorie o di giustizia riparativa, e poi si prevede l’obbligo di allegazioni perspicue che consentano di escludere i collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, dell’interessato con “il contesto nel quale il reato è stato commesso”. Questa espressione, di cui già si è evidenziata la genericità, appare in questo caso specialmente difficile da decodificare e foriera del rischio che si richieda all’interessato uno sradicamento dalla propria vita anteatta, un approccio della cui valenza risocializzante non può che dubitarsi. Potrà valorizzarsi, ad esempio, per chi abbia commesso un reato in connessione con una certa attività lavorativa, l’abbandono di un certo incarico o ruolo, ma non sembra che possa invece ritenersi sussumibile in questa nozione anche lo sganciamento dall’ambito territoriale in cui ad esempio il reato è stato commesso. Si imporrebbe infatti, in quest’ultimo caso, al condannato una scelta che può rivelarsi drammatica, non solo per sé ma per il suo nucleo familiare.
5. L’ampia istruttoria per consentire di esercitare correttamente la discrezionalità.
Dettagliata e specifica è l’indicazione dell’istruttoria che l’autorità giudiziaria è chiamata a svolgere. Il decreto - legge prende spunto, all’evidenza, dalle prassi già formatesi in materia, nonché dagli strumenti, per alcuni versi analoghi, già introdotti ad esempio con il d.l. 28/2020 poi convertito in L. 70/2020, con riferimento a benefici penitenziari diversi.
Si prevede quindi un parere da richiedersi al pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado (eventualmente dunque più procure, ove le sentenze siano più d’una, e comunque, ma non è ben chiaro il perché, anche se in primo grado la persona sia in ipotesi risultata assolta, e non condannata) e, per i condannati per delitti compresi nel disposto dell’art. 51 co. 3-bis e 3-quater cod. proc. pen., della DDA e della DNA, una informativa della Direzione dell’istituto penitenziario, un approfondimento sulle condizioni patrimoniali, il tenore di vita e le attività lecite svolte dal nucleo familiare e “dalle persone ad esso collegate” (con ulteriore tuziorismo ampliativo), nonché su eventuali misure di prevenzione personali o patrimoniali a loro riferibili.
Realistica appare la previsione di un termine di sessanta giorni dalla richiesta per l’ottenimento delle risposte, eventualmente prorogabile in ragione della complessità dell’accertamento di ulteriori trenta giorni. In difetto l’autorità giudiziaria deve decidere comunque.
Circa le risposte pervenute deve darsi all’interessato la possibilità di fornire “idonei elementi di prova contraria”. Lo richiedeva già la sent. Corte Cost. 253/2019, ma in questa sede opportunamente si precisa una scansione procedimentale secondo la quale viene fornito un congruo termine alla parte per assolvere a tale onere. Si tratta di un appesantimento istruttorio, tuttavia decisamente giustificato per consentire alla parte di prendere contezza dei contenuti delle informative pervenute ed approntare repliche.
Il decreto - legge utilizza, infine, espressioni a dir poco solenni nel richiedere che la decisione indichi “specificamente le ragioni dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza medesima, tenuto conto dei pareri acquisiti”, ma si tratta di rimettere nero su bianco ciò che in effetti costituisce il cuore del mestiere del giudice, segno non troppo velato di una qualche diffidenza rispetto ai contenuti normali delle pronunce della magistratura di sorveglianza. Volendo però cogliere costruttivamente il richiamo contenuto nelle espressioni riportate, le stesse imporranno una motivazione scevra da formule generalizzanti, prevedendo invece che il giudice si impegni in una lettura sempre critica delle note pervenute, sia quando deciderà per l’accoglimento, sia quando invece propenderà per il rigetto. Per come si diceva è qualcosa che la magistratura di sorveglianza fa da sempre, cercando ad esempio di sceverare le note i cui contenuti forniscano elementi concreti, ed attuali, in ordine ai collegamenti dell’interessato con i gruppi criminali, da quelle che si limitano a comunicare dati già tutti rinvenibili nelle sentenze di condanna, magari ormai molto datate.
Negli ultimi anni si è apprezzato un particolare impegno delle Procure nella cura delle note trasmesse alla magistratura di sorveglianza e non v’è dubbio che, sotto questo profilo, un onere importante è loro attribuito nel fornire elementi verificati e descritti in termini specifici, pertanto utilmente spendibili da parte del giudice, nel motivare i propri provvedimenti.
6. Il 41-bis e l’ultimo periodo del nuovo 4-bis co. 2.
Viene introdotta, con una formula un po’ tautologica, la previsione che i benefici indicati nell’art. 4 bis co. 1 non siano concedibili al detenuto o internato sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’articolo 41-bis se non “dopo che il provvedimento applicativo di tale regime speciale sia stato revocato o non prorogato”. In sostanza sono inammissibili le richieste di beneficio che pervengano da detenuti sottoposti al regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis co. 2 ord. penit.
La soluzione normativa non appare esente da possibili critiche. Non v’è dubbio che, nel merito, sia logicamente assai più che improbabile che la magistratura di sorveglianza possa concedere un beneficio penitenziario ad un condannato sottoposto al regime speciale, e ciò perché quest’ultimo presuppone la sussistenza di collegamenti attuali della persona interessata con i gruppi criminali all’esterno, e dunque una pericolosità sociale qualificata ed attuale.
Dal punto di vista della ricostruzione degli istituti giuridici, però, resta il fatto che il regime differenziato è imposto mediante un atto amministrativo, il decreto del Ministro della Giustizia, e non anche mediante un provvedimento giurisdizionale. E’ ammesso un reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma, chiamato a vagliare la legittimità dei presupposti applicativi, ma si tratta di uno strumento eventuale, e la decisione interviene per altro anche ad una significativa distanza di tempo dall’emissione del decreto.
Il decreto - legge qui fa derivare una conseguenza dirimente in termini di qualità della pena detentiva da un provvedimento amministrativo, con una frizione forse non trascurabile con l’art. 13 co. 2 Cost.
La Corte Costituzionale, pronunciandosi all’indomani dell’introduzione dell’art. 41-bis co. 2 ord. penit., con la sent. 349/1993, aveva chiarito infatti che il decreto impositivo avrebbe potuto contenere limitazioni alle ordinarie regole di trattamento intramurario, purché funzionali agli scopi del regime, ma non avrebbe potuto, invece, incidere in alcun modo sulla determinazione della quantità e della qualità della pena.
E’ vero che l’ordinanza 97/2021 della Corte Costituzionale, in un passaggio, che ha soprattutto la funzione di rassicurare il lettore circa il fatto che i benefici di cui si parla non attingeranno persone dalla elevata pericolosità sociale, come i condannati in regime differenziato, afferma che è “impossibile” che gli stessi li ottengano. Tuttavia la formula adoperata dalla Consulta appare sapientemente scelta per evocare una decisione che, nel merito, non consente un accoglimento, ma che non è preclusa sotto il profilo dell’ammissibilità (una soluzione per altro anche di recente ribadita dalla S.C. sent. 42723/2021).
7. L’apporto del pubblico ministero.
Il nuovo co. 2-ter prevede che, quando il tribunale di sorveglianza deve decidere in ordine ai benefici di cui al co. 1 dell’art. 4-bis, ma solo se a richiederli sono condannati per delitti compresi nell’art. 51, co. 3-bis e 3-quater, le funzioni di pubblico ministero, ordinariamente svolte dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, possano essere assunte dal pubblico ministero presso il capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado.
La previsione ha di certo il pregio di offrire al Tribunale di sorveglianza la possibilità di attingere un parere particolarmente e direttamente informato circa i fatti che hanno condotto alla condanna, anche se da un lato si è già rilevato come il collegamento con il PM del primo grado, non necessariamente significa: con il PM del grado in cui è stata definita la responsabilità della persona, e dall’altro è inevitabile che ci si riferisca ad un ufficio, e non certo alla persona che in una data epoca ha seguito le indagini, trattandosi spesso, in particolare se si ragiona di condannati alla pena dell’ergastolo o a lunga pena temporanea, di fatti processualmente accertati anche venti o più anni prima.
La previsione di tale presenza, solo eventuale, consentirà per altro alle Procure interessate, cui occorrerà dare notizia della fissazione dell’udienza, di valutare caso per caso se non sia sufficiente fornire pur dettagliate note informative oppure se si preferisca essere presenti all’udienza che il Tribunale di sorveglianza fisserà.
8. Le modifiche in tema di lavoro all’esterno e permesso premio: il rischio di uno snaturamento degli istituti.
Il lavoro all’esterno ed i permessi premio sono due strumenti essenziali nella costruzione dei percorsi risocializzanti delle persone condannate. Svolgono entrambi, ciascuno a proprio modo, un fondamentale ruolo, che la Corte Costituzionale a proposito dei permessi premio riassunse come “pedagogico-propulsivo”. Non sono misure alternative, ma aprono finestre sull’esterno e consentono di sperimentare la capacità di chi ne fruisca di rispettare le prescrizioni, anche semplici, che sono loro connaturate.
Con un confine che non è rimasto esente da critiche in dottrina, la sent. Corte Cost. 32/2020, escludeva tali strumenti dal novero di quelli che, comportando una vera e propria fuoriuscita dall’ordinaria vita detentiva, debbono essere considerati disciplinati da norme sostanziali, dunque non applicabili, se peggiorative, in modo retroattivo.
La competenza naturale per questo genere di misure è individuata nell’ordinamento penitenziario nel magistrato di sorveglianza, che approva l’apertura al lavoro all’esterno, quando autorizzata dal Direttore dell’istituto penitenziario, e che concede i permessi premio.
Il decreto - legge prevede, per una sottocategoria di condannati per reati ex art. 4-bis co. 1, ancora una volta diversa dalle altre via via elaborate, costituita dai soli responsabili di reati di mafia e di terrorismo, che la competenza passi al Tribunale di sorveglianza per l’approvazione del lavoro all’esterno e per la concessione dei permessi premio.
La scelta del legislatore d’urgenza ha certamente il pregio di porre in primo piano l’importanza che riveste l’apertura a queste misure, di fatto le prime che lasciano affacciare il condannato all’esterno. D’altra parte, però, per ragioni solo parzialmente sovrapponibili, entrambe hanno senso non tanto in sé, ma nello sviluppo che nel tempo i percorsi che si intraprendono lasciano intravedere.
Le rigide forme che si impongono al Tribunale di sorveglianza nel momento in cui decide per tutti i benefici di cui all’art. 4 bis co. 1 (per come deducibile anche dal nuovo co. 2-ter, che parla della presenza in udienza del pubblico ministero), ma che anche necessariamente si connnettono alla speciale importanza attribuita al contraddittorio con la difesa, nel ragionamento della Corte Costituzionale, imporranno scansioni temporali inevitabilmente dilatate ed è più che un rischio che non possano concretizzarsi veri percorsi di permessi premio che, in tanto hanno un significato, in quanto mantengano una cadenza regolare e forniscano dati aggiornati frequentemente sui progressi del reo.
Allo stesso modo c’è da attendersi che anche le variazioni al programma di lavoro all’esterno, normali, anche per profili di dettaglio della quotidianità, andranno allo stesso modo portati dinanzi al Tribunale collegiale riunito in udienza.
Il mutamento di rito in relazione a questi benefici, soltanto connesso alla tipologia di reato commesso, finisce per determinare un doppio binario processuale, sul quale è necessario senz’altro riflettere più lungamente. A fronte della maggior garanzia rappresentata dal Collegio, non v’è dubbio che, proprio per i condannati per i reati tra i più gravi che l’ordinamento conosca, la valutazione sulla concessione “perde” un grado di giudizio.
C’è da immaginare che, almeno per i condannati che possano già accedere a più ampie misure alternative, questo strumento, invece così importante per riempire di contenuti i giudizi di prognosi della sorveglianza, perda nettamente di appeal, e si impoverisca di significato, ridotto a mero episodio (ad es. un permesso premio l’anno).
Occorrerà inoltre che si presti attenzione anche in questi casi alla regola generale che impone la presenza nel collegio del Tribunale che si pronuncia, del magistrato di sorveglianza cui è affidata la giurisdizione sull’istituto di pena di appartenenza dell’istante (art. 70 co. 6 ord. penit.), poiché è appunto il percorso risocializzante a dover essere posto al centro dei ragionamenti dell’a.g.
Un risultato meno tranciante si sarebbe potuto ottenere se, ad esempio, si fosse confinata la sola prima valutazione in merito all’apertura al lavoro all’esterno o ai permessi premio alla competenza del Tribunale di sorveglianza, lasciando poi che fosse il magistrato di sorveglianza a seguire la progressione trattamentale del condannato, continuando ad operare quel lavoro prudente e certosino che sempre su questi benefici svolge. Non è per altro indicato neppure che il Tribunale di sorveglianza possa provvedere sui permessi premio successivi al primo in modo più spedito, omettendo almeno alcuni degli approfondimenti istruttori previsti per la prima concessione, rimettendo ogni volta in piedi una macchina istruttoria molto impegnativa, quando invece avrebbe potuto basarsi su oculate richieste di aggiornamento mirato, che sono appunto il proprio dell’ordinario lavoro del magistrato di sorveglianza.
9. Le novità in materia di liberazione condizionale.
La riforma della quale si prova a parlare, a primissima lettura, viene legata strettamente all’ergastolo ostativo anche se, per come si è visto, il suo raggio d’azione è decisamente più vasto. Ad ogni modo i casi che l’hanno originata nascono in quel contesto. Da ultimo si trattava proprio di liberazione condizionale, una misura divenuta, dopo la legge penitenziaria del ’75, sempre più appannaggio esclusivo dei condannati alla pena dell’ergastolo, essendo l’unica che, garantendo con ciò la compatibilità costituzionale della pena perpetua nel nostro ordinamento, consenta al condannato di essere sottoposto ad una valutazione di merito da parte dell’a.g. circa l’eventuale conclusione del percorso risocializzante intrapreso, in caso di esito positivo potendo ciò comportare la sospensione della pena per il tempo in cui gli viene imposta una libertà vigilata quinquennale.
Anche per questa misura, dunque, non disciplinata nell’ordinamento penitenziario, ma ancora nel codice penale, il decreto - legge prevede l’applicazione di tutte le novità individuate per la concessione dei benefici previsti nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., incidendo sulle disposizioni contenute nel d.l. 152/1991 poi conv. in L. 203/1991.
Viene tuttavia inasprito, per il solo condannato alla pena dell’ergastolo per delitti compresi nel disposto dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., il quantum di pena che consente l’accesso al beneficio, che passa da ventisei anni a trenta. Un incremento di rilievo, sol che si pensi a come fosse ormai risalente nel tempo il movimento inverso che, con la legge Gozzini, aveva sancito l’abbassamento di due anni da ventotto a ventisei per tutti i detenuti. Restano fuori dall’innalzamento i collaboratori e, grazie alla norma intertemporale di cui al successivo paragrafo, chi vanti impossibilità/inesigibilità della condotta collaborativa.
Si prevede inoltre che si allunghi sino a dieci anni il termine durante il quale, a concessione avvenuta, la pena resta solo sospesa, prima dell’estinzione. Da ciò dovrebbe derivare, ex art. 230 co. 2 cod. pen., che la libertà vigilata duri per tutto questo tempo. Si tratta di una scelta che dovrà tra l’altro confrontarsi anche, seppur al momento indirettamente, con una recente questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze in relazione alla imposizione obbligatoria della libertà vigilata e alla sua durata fissa, quando in relazione alla liberazione condizionale (ord. Trib. Sorv. Firenze 15.02.2022).
La misura della libertà vigilata, infine, prevede in ogni caso un divieto di incontrare o mantenere contatti con soggetti condannati per delitti di cui all’art. 51 co. 3-bis e 3-quater o sottoposti a misura di prevenzione in casi tassativamente indicati: opzione che segue la richiesta della Corte Cost. ord. 97/2021, di diversificare gli effetti della concessione della liberazione condizionale per i condannati per delitti di criminalità organizzata.
La previsione di un quantum di pena più elevato per accedere alla liberazione condizionale, che operi retroattivamente, interpella circa la congruità all’insegnamento di cui alla sent. Corte Cost. 32/2020. Se da un lato è vero che, rispetto alla assoluta ostatività prevista per i condannati all’ergastolo per delitti di cui all’art. 4-bis co. 1 ord. penit., (ad eccezione dei collaboratori e di chi si veda riconosciuta l’impossibilità/inesigibilità della condotta collaborativa), l’attuale meccanismo, di speciale difficoltà all’accesso alla liberazione condizionale, è comunque un miglioramento, dall’altro la soluzione qui offerta appare particolarmente severa e critica, incidendo in termini certamente negativi proprio sul requisito basico, di immediata percettibilità per il condannato, della quantità di pena espianda per poter accedere ad una valutazione di merito.
Si sarebbe potuta allora approntare almeno una disposizione intertemporale che non peggiorasse la percezione intanto formatasi nei condannati all’ergastolo non collaboranti, che hanno sin qui raccolto l’inequivoco tenore del filone giurisprudenziale apertosi con la sent. CEDU Viola c. Italia.
10. Le disposizioni transitorie, ultimo habitat della collaborazione impossibile e inesigibile.
Nell’art. 3 del decreto - legge sono state, infine, dettate alcune disposizioni di diritto intertemporale, che appaiono rispettare, nel minimo indispensabile, le richieste della sent. Corte Cost. 32/2020.
Come già anticipato, in tal senso, non è innanzitutto applicabile retroattivamente l’ampliamento del numero di delitti compresi nel disposto dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., che deriva dall’introduzione della disposizione di cui al nuovo ultimo periodo del predetto comma.
Di particolare significato, poi, è la disposizione transitoria di cui al co. 2, che garantisce la persistenza nell’ordinamento degli istituti della collaborazione impossibile, inesigibile e irrilevante, soltanto in favore di condannati e internati che abbiano commesso i delitti di cui all’art. 4-bis co. 1 ord. penit. prima della data di entrata in vigore del decreto - legge. Nei loro confronti, per altro, ove venga accertata la condizione, continuano ad applicarsi i limiti di pena ordinari (26 anni per l’ergastolano), mentre la libertà vigilata dovrà comunque comprendere tra le prescrizioni anche il divieto di frequentare taluni soggetti, cui si è già fatto riferimento nel paragrafo precedente.
Non del tutto comprensibile è il disfavore mostrato dal legislatore d’urgenza circa il mantenimento nel sistema, e non soltanto transitoriamente, degli istituti della collaborazione impossibile e inesigibile che, come si è già accennato, sono ipotesi surrogatorie della collaborazione via via introdotte proprio sulla base di pronunce della Consulta, e in ordine alle quali di recente la stessa Corte Costituzionale aveva ribadito l’autonomia logica rispetto alla situazione di chi voglia esercitare la propria libertà di non collaborare (sent. 20/2022), poiché appunto sono diverse le posizioni dei non collaboranti per impossibilità e per scelta.
Il legislatore mostra di sapere, però, che sempre alla luce della sent. 32/2020 non può determinarsi questa scomparsa senza incorrere nel divieto di retroattività, ove ci si riferisca all’accesso a misure alternative alla detenzione. Di qui la necessità della disposizione transitoria, che infatti consente ancora di utilizzare i meccanismi della collaborazione impossibile e inesigibile ai condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto – legge, ma solo quando ciò abbia la finalità di accedere alle misure alternative alla detenzione di cui al capo VI del titolo I della legge di ordinamento penitenziario e alla liberazione condizionale.
Restano dunque fuori da questo perimetro il lavoro all’esterno ed i permessi premio che, come abbiamo già visto, sono infatti fuori anche dal perimetro in cui il divieto di retroattività è salvaguardato dall’interpretativa della Consulta. L’effetto che si determina non è di poco momento. Di fatto chi oggi vanti posizioni di impossibilità o inesigibilità di collaborazione con la giustizia non potrà farle valere dinanzi alla magistratura di sorveglianza per ottenere un permesso premio, ma dovrà assoggettarsi al ben più corposo onere di allegazione pensato per i non collaboranti per scelta. Un significativo restringimento del pacchetto di opzioni sino ad oggi messo a disposizione di questa tipologia di condannati.
E’ dunque prevedibile che, salvo dubbi di costituzionalità, le istanze di permesso premio, già pendenti con richiesta incidentale di accertamento delle condotte collaborative impossibili o inesigibili, non supereranno il vaglio di ammissibilità, a meno che non vi siano elementi per consentire all’a.g. procedente una valutazione dei requisiti indicati ora nel nuovo co. 1-bis dell’art. 4-bis. In questo contesto forse potrà recuperarsi un significato all’impossibilità di collaborare come “ragione della mancata collaborazione” valutabile dall’a.g. Di certo non sarebbe però compatibile con il percorso giurisprudenziale che sta alle spalle dell’odierno intervento legislativo, che l’impossibilità o inesigibilità della collaborazione divenisse l’unica ragione di mancata collaborazione positivamente apprezzabile per accedere ai benefici, perché questo tradirebbe il senso complessivo dell’evoluzione normativa che, bene o male, recalcitranti o convinti, ha condotto a superare la definizione della collaborazione quale prova legale di recisione dei vincoli associativi.
Se invece i permessi premio, all’esito dell’avvenuto accertamento della condotta collaborativa impossibile o inesigibile, siano stati già intrapresi, può domandarsi come dovrà procedere il giudice competente.
Si tratta di una domanda che, d’altra parte, concerne anche i (non moltissimi) condannati che hanno ottenuto permessi premio con i requisiti richiesti dalla sent. Corte Cost. 253/2019.
In entrambi i casi, soccorrerà l’insegnamento della Consulta, non a caso ribadito proprio nella sent. 32/2020, a mente del quale è necessario che, in ossequio al principio di non regressione incolpevole del trattamento, i permessi possano proseguire in favore dei condannati che già prima dell’entrata in vigore della novità normativa abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio e cioè che ne abbiano fruito in termini positivi.
D’altra parte, però, ove dal decreto legge derivi una modifica della competenza (dal magistrato al Tribunale di sorveglianza, in correlazione con i delitti per i quali ciò è stato previsto), appare evidente che, pur fermo il principio di non regressione incolpevole, non sembra possa dirsi che lo stesso consenta una persistenza della vecchia competenza, ed occorrerà quindi che il magistrato di sorveglianza investito dell’istanza, oneri per la decisione il Tribunale di sorveglianza competente.
Recensione di Costantino De Robbio a “Diritto degli stupefacenti” di Lorenzo Miazzi
L’uscita di una monografia di Lorenzo Miazzi sul tema del diritto degli stupefacenti può certo destare sorpresa tra gli addetti ai lavori: l’estensore, magistrato di lunga esperienza, è a tutti noto per le sue acute riflessioni sul tema, espresse più volte sia in articoli e pubblicazioni (tra le quali quelle, fortunatissime, redatte per questa Rivista) nonché per le relazioni tenute ai corsi per la Scuola Superiore della Magistratura e in numerosi convegni.
Probabilmente queste riflessioni non avrebbero mai visto la luce in maniera sistematica se il suo autore non fosse stato costretto ad un “pit stop” che lo ha temporaneamente allontanato dalle aule giudiziarie.
È lui stesso ad accennare alla circostanza all’inizio del volume, rompendo il velo tra la dimensione tecnica e quella umana e dando al testo la prima di tante note di colore e umanità piuttosto insolie in uno scritto di carattere tecnico e che sono uno dei punti di forza del volume.
Questa pausa di riflessione in un “uomo del fare”, uno di quei magistrati che hanno affinato la propria competenza giuridica attraverso lo studio e la risoluzione quotidiana, per anni, di centinaia di processi, ha consentito al Lorenzo Miazzi di operare una sintesi tra prassi operative e approfondimenti dottrinari e giurisprudenziali che costituisce indubbiamente la cifra stilistica del testo.
“Alzare la testa” parlando di questioni altamente specialistiche è una delle sfide più difficili per chi si cimenta nella redazione di un manuale di diritto.
I testi giuridici sono infatti caratterizzati da un taglio tecnico, che comporta la disamina di norme giuridiche e l’analisi di sentenze di legittimità e di merito, alternate ai commenti e alle confutazioni dei contributi dottrinarie.
L’unica alternativa è data dalla scelta di adottare un registro sociologico o di filosofia del diritto, esaminando un fenomeno e le sue implicazioni: in questo tipo di testi si guadagna in profondità a scapito dell’aggancio alla realtà pratica e dell’utilità quotidiana per i lettori.
La scelta tra i due modelli sembra obbligata quando si tratta, come nel caso della disciplina degli stupefacenti, di legislazione speciale, ove si commentano testi normativi partoriti in uno specifico momento e collegati ad esigenze che risentono necessariamente delle più varie contingenze: in questo caso è davvero arduo lo sforzo per non appiattirsi in un taglio meramente tecnico.
Tanto più trattandosi di una materia così complessa da richiedere centinaia di articoli alcuni dei quali composti da numerosi commi, che affronta aspetti non solo penalistici ma anche processuali nonché di illecito amministrativo: uno di quei testi normativi in cui ci si perde e che difficilmente si conosce e si apprezza con uno sguardo di insieme.
Un mare magnum in cui è facile che l’autore finisca per somigliare a un compendiatore delle singole disposizioni, con il solo obiettivo di fornire una bussola per orientarsi in una specie di giungla che si affronta velocemente e malvolentieri sperando solo di uscirne prima possibile.
Eppure Lorenzo Miazzi è uno di quei giuristi che non riesce a non interrogarsi sul perché delle cose e dunque ad “alzare la testa”.
Il suo testo inizia con una dichiarazione programmatica: la constatazione che la disciplina giuridica delle droghe è tra le più soggette al fattore culturale; conseguentemente, ci avverte l’autore, “in questa materia la legge vigente è la verità del momento”.
Occorre dunque approcciarsi alla materia munendosi di occhiali bifocali, per vedere la realtà che ci sta attorno quotidianamente senza perdere di vista il contesto generale e lo sfondo.
Miazzi esplicita il suo punto di vista sin dalla copertina: l’autore ci offre un “manuale pratico”, una serie di regole da seguire per orientarsi nella partecipazione alle indagini ed ai processi in questo delicato settore della legislazione speciale.
Le norme di riferimento e la giurisprudenza sono menzionati come spunti e necessaria copertura per per costruire gli strumenti operativi con cui dovranno essere risolte le questioni pratiche.
È un testo rivolto non agli studiosi (per quanto non mancano approfondimenti e riflessioni di pregio) ma agli operatori del diritto, siano essi magistrati o avvocati, senza trascurare attenzione alla divulgazione delle regole del procedimento penale ai tecnici (tossicologi, medici legali, psichiatri) più che mai indispensabili per una proficua trattazione dei procedimenti.
Questa scelta di carattere operativo non va però a detrimento della capacità dell’autore di approfondimento né del suo gusto per lo sguardo materia “dall’alto”.
Il magistrato si concede anzi il lusso, alquanto raro nella nostra tradizione di giuridica di aprire il testo con uno sguardo divertito (e divertente) sulla storia degli stupefacenti, dalla preistoria ad oggi.
Un colpo d’ala iniziale necessario per bilanciare le contingenze politiche da cui è scaturito il D.P.R. 309 del 1990 (e le sue molteplici modifiche successive) con la consapevolezza che di avere a che fare con una storia - quella del rapporto tra uomini e sostanze psicotrope - che accompagna la nostra specie sin dai suoi albori.
Particolarmente brillante e originale in questo senso l’accostamento tra stupefacenti e conduzione della guerra, tema quest’ultimo che credevamo ormai lontano da noi ma che è tornato prepotentemente di attualità.
Dopo questo scoppiettante inizio, l’autore ci introduce nei meandri della legislazione attuale attraverso un’analisi dei numerosi mutamenti avvenuti nella disciplina legale degli stupefacenti.
Questa panoramica rende ben chiaro il concetto che la materia è tra le più volubili e magmatiche in quanto più di altre soggetta ad una ratio legis che muta con il mutare della sensibilità politica dei componenti delle maggioranze di governo che via via si alternano alla guida del Paese, oltre a risentire come poche altre della sensibilità sociale e dei suoi ondeggiamenti nel tempo.
Attento osservatore dell’attualità, proprio per il prezioso sguardo di chi ha un contatto diretto che deriva dalla trattazione quotidiana dei processi, Lorenzo Miazzi dedica grande spazio alla trattazione dei problemi connessi alla marijuana, evidenziandone il preoccupante aumento della percentuale di THC degli ultimi anni, tanto che i consulenti nei processi richiamano sempre più spesso l’attenzione sul superamento di fatto della distinzione tra droghe pesanti e leggere, essendo ormai anche le seconde divenute assai più dannose per l’organismo di quanto fossero venti o trenta anni fa.
Ulteriore, opportuno approfondimento è dedicato all’esplosione del fenomeno della cannabis light che ha affaticato la giurisprudenza negli ultimi due anni nel tentativo di cercare una soluzione a problemi inediti quali il trattamento sanzionatorio dei derivati del cannabidiolo.
Non mancano approfondimenti di temi classici come quello della coltivazione, su cui la Cassazione continua ad oscillare nonostante diversi pronunciamenti delle sezioni Unite, spia della irrisolvibilità di un contrasto che affonda le sue radici nella inconciliabilità di una scelta di fondo (ed eccoci ancora alla necessità di uno sguardo “dall’alto”).
L’affermazione che la coltivazione di piantine idonee alla estrazione di sostanze stupefacenti destinate ad uso personale è punibile e in che limiti discende infatti dalla visione che si ha del fenomeno della droga: per alcuni l’uso personale va tollerato (al pari di quello di alcol e fumo) in quanto non danneggia terzi e deve essere considerato espressione della libertà individuale; per altri esso danneggia comunque la salute e deve essere visto con disfavore e sanzionato penalmente.
Grande spazio è dedicato ancora alla disciplina del traffico di stupefacenti, con i suoi agganci al fenomeno della criminalità organizzata, e all’analisi di norme apparentemente minori ma di cruciale importanza per la comprensione del fenomeno come quella sui precursori” delle droghe.
Ai numerosi e preziosi approfondimenti tecnici, giuridici ma anche scientifici (come il concetto di “dose drogante”) si alternano considerazioni di insieme.
Il fil rouge rimane comunque, fedelmente alle premesse, quello di fornire un “manuale” e il testo ci accompagna seguendo il dipanarsi immaginario di un processo, dalla sua trattazione alla parte relativa alla esecuzione, ivi compresi i difficili rapporti tra tossicodipendenza e carcere.
La sintesi tra i due registri diviene naturale con il progredire delle pagine e riesce a rendere con efficacia la complessità di un settore del diritto penale in cui occorre non farsi travolgere dalla quantità degli affari trattati e mantenere, pur nel tecnicismo degli istituti manovrati uno sguardo lucido, attento e umano come quello dell’autore di questo volume.
Il colibrì
Recensione di Dino Petralia
Nel ritmo sincopato di un’alternanza di tempi e di età diverse dei personaggi, il film si sforza di riportare ad unità il racconto, quasi ad imitare il potente battito d’ali del colibrì capace di fermare il volo in un frammento statico di riflessione e contemplazione. Un frammento però, o al più una somma di frammenti che riconduce il volo - e il film - ad un’addizione che ne sottrae l’enfasi narrativa e ne allontana la meta, costringendo lo spettatore ad un’attenzione ricostruttiva non sempre agevole.
Marco Carrera, professionista affermato e borghese benestante, esporta in un’evasione sentimentale verso una deliziosa adolescente, figlia di una coppia di francesi vicini di casa, la dolorosa crudezza di un retroterra familiare d’origine, diviso e divisivo, traducendola nel tempo, da adulti e pur lontani, in assoluta ragione di vita, unione catartica non per superare ma per convivere con le dolenti fragilità della moglie Marina, resa isterica dall’indifferenza coniugale del marito, colpevole a suo dire di avere fin troppo creduto alla (inesistente) fedeltà della moglie; un’indifferenza neppure scalfita dai contemporanei drammi di casa, il confessato - e provocatoriamente reattivo - tradimento di lei e un probabile disturbo di crescita della figlia Adele.
Protagonista assoluta del film è dunque la placida quietezza di Marco (un formidabile Pierfrancesco Favino), transitata indenne anche ad un pericoloso scambio di persona con un terrorista al passaggio della frontiera francese, che non è flemma né apatia ma inconsapevole ingenuità del mondo, innocenza difensiva allenata nel singhiozzo esistenziale di un destino spesso avverso - da bambino e da ragazzo l’urlata reciproca incomprensione dei genitori, il suicidio della sorella, gli eterni dissapori con il fratello Giacomo, infine da adulto la morte dell’unica figlia - e che per paradosso lo favorisce nell’amicizia solo da lui affettuosamente offerta ad un coetaneo iettatore (l’Innominabile) che da giovane gli fa scansare morte sicura per la caduta dell’aereo sul quale avrebbe dovuto viaggiare, conducendolo poi da adulto ad una ricca vincita al poker.
Una sottomissione agli eventi, quella di Marco, capace tuttavia di generare una vibrazione vitalizzante grazie ad un eccentrico e generoso psicoanalista - un sempre credibile Nanni Moretti - che vien fatto irrompere “a freddo” nella sua vita col proposito di addestrarlo alla verità dei fatti e ai loro rischi. Un ravvedimento silenzioso sublimato poi nella scelta finale di Marco, ormai irrimediabilmente malato, di chiudere tutto in un’eutanasia di vita e d’indifferenza alla vita.
Dalle pagine del libro omonimo di Sandro Veronesi al film - come sempre accade, due opere distinte e autonome - transita ancora, delicatamente accennato e con tramite narrativo diverso, il tema del rapporto padre-figlia: il cordone materno trasfigurato nel filo immaginario che la piccola Adele avverte dietro di se e che adesso la lega al padre diverrà un beffardo antagonista che ne chiuderà per sempre la giovane esistenza precipitando la ragazza dalle montagne appesa al filo di caduta dei rocciatori.
E nel silenzio della morte che tutto chiude e tutti accomuna, nell’eco delle note avvolgenti di I’ll be seeing you di Billie Holiday e del ritmo rockeggiante di London calling (the Clash), un poetico finale fa dominare a schermo oscuro quel candido fischiettare che papà Marco aveva insegnato alla piccola Adele per scacciare i fantasmi del buio.
Fanno da sfondo al film, nel consueto stile di una regia da sempre attenta ai riflessi sociali dell’opulente banalità del vivere borghese, alcuni passaggi scenici - case, ville, auto e feste - appositamente innestati per marcarne l’intima debolezza esistenziale.
Riforma Cartabia. Principali questioni sul tappeto relative alla modifica del regime di procedibilità
di Giuseppe Amara
Nel presente contributo si esaminerà il contenuto della recente novella normativa di cui al d.lgs. 150/22, c.d. “Riforma Cartabia”, con peculiare riferimento alle modifiche apportate al regime della procedibilità a querela di cui agli artt. 1, 2, 3 e 85 del decreto ed alle principali questioni interpretative e di diritto intertemporale conseguenti.
Sommario: 1. Premessa. - 2. Modifiche normative. - 3. Natura giuridica della condizione di procedibilità e profili di diritto intertemporale. Preclusione del giudicato. - 4. Conseguenze in tema di procedimenti pendenti e misure cautelari e precautelari. - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Il 17 ottobre è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo n. 150/22 di attuazione della legge n. 134/21 di delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari.
A fronte del nobile – e consueto – dichiarato intento del Legislatore, gli operatori del diritto, oggi, si trovano di fronte ad una congerie di disposizioni idonee ad incidere profondamente sulle concrete prassi degli uffici giudiziari, introducendo meccanismi talvolta complessi e che non sembrano prima facie ricollegabili al suindicato intento.
Meccanismi che sottendono un’idea della Giurisdizione, specie quella esercitata dal Pubblico Ministero, centralizzata e, pertanto, con evidenti tensioni con i principi costituzionali. Si pensi, ad esempio, al testo del nuovo art. 415 ter c.p.p. con i correlati obblighi di deposito ed informazione alle parti e con il coinvolgimento del Procuratore Generale che può, con decreto motivato, autorizzare deroghe. Tale previsione comporterà, da un lato, un aumento esponenziale delle attività di notifica e di segreteria (ove la norma risulterà concretamente attuabile) e, d’altro lato, un ampliamento senza precedenti delle attribuzioni del Procuratore Generale, concretamente idoneo ad incidere sull’esercizio dell’attività dei singoli circondari.
Ancora, nel reticolato di istituti introdotti con la riforma se ne ravvisano taluni che, più che mirare all’efficienza del sistema processuale penale, sembrano sintomatici di una logica di sospetto sull’operato del Pubblico Ministero. Si pensi, ad esempio, all’introduzione di un nuovo rimedio per ottenere la declaratoria di nullità dei decreti di perquisizione con esito negativo (l’opposizione di cui all’art. 252 bis c.p.p.), ovvero la facoltà delle parti di richiedere al Giudice la retrodatazione delle iscrizioni nel registro delle notizie di reato da parte del Pubblico Ministero (Art. 335 quater c.p.p.) con individuazione di un criterio confinario (ritardo inequivocabile e non giustificato) la cui applicazione pratica presenterà indubbi profili di incertezza.
Nel presente contributo si tenterà di analizzare, con una rapida carrellata delle principali questioni interpretative che dovranno essere affrontate, la modifica del regime di procedibilità per talune fattispecie delittuose e contravvenzionali.
Ad una lettura complessiva ed aldilà di alcune osservazioni che verranno svolte sull’apparente disomogeneità delle norme interessate dalla riforma, traspare l’intento del legislatore di ridurre l’area dell’intervento penale, in assenza di querela di parte, in relazione a quelle fattispecie prive di una dimensione sovra individuale dell’offesa ed ove, a fronte di cornici edittali relativamente contenute, vengono in gioco beni giuridici individuali, quali per l’appunto il patrimonio e l’incolumità individuale e non vi sono condizioni di vulnerabilità del titolare del bene giuridico leso che ne minano la capacità di autodeterminarsi.
Come si legge nella relazione illustrativa questa scelta è stata adottata in quanto: “Si è ritenuto opportuno, in linea con gli obiettivi di efficienza del processo e del sistema penale, fissati dalla legge delega, estendere in modo significativo il regime di procedibilità a querela, in particolare per reati che si presentano con una certa frequenza nella prassi e che si prestano a condotte risarcitorie e riparatorie. Una delle linee di fondo della l. n. 134/2021 è infatti quella di incentivare tali condotte in vista della estinzione del reato prima della celebrazione del processo, a beneficio dell’imputato, della vittima e del sistema giudiziario. Estendere la procedibilità a querela a reati contro la persona e contro il patrimonio, di frequente contestazione, come ad esempio nel caso delle lesioni personali e del furto, rappresenta un forte incentivo alla riparazione dell’offesa nonché alla definizione anticipata del procedimento penale attraverso la remissione della querela o l’attivazione della causa estintiva di cui all’art. 162 ter c.p. (disposizione ad oggi scarsamente applicata, specie in sede dibattimentale, come si legge nella Relazione del Primo Presidente della Cassazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 – ivi, pag. 61)”[1].
2. Modifiche normative
Le disposizioni del decreto legislativo 150 che interessano il profilo della procedibilità a querela di parte sono gli artt. 1, 2, 3 ed 85.
Ed in particolare, l’art. 1, positivizzando alcuni arresti della giurisprudenza maggioritaria[2], riscrive l’art. 152 c.p., con peculiare riferimento alle ipotesi di remissione tacita della querela (“Vi è altresì remissione tacita quando il querelante, senza giustificato motivo, non compare all’udienza alla quale è stato citato in qualità di testimone. Vi è inoltre remissione tacita quando il querelante ha partecipato a un programma di giustizia riparativa concluso con un esito riparativo. Nondimeno, quando l’esito riparativo comporta l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la querela si intende rimessa solo quando gli impegni sono stati rispettati...”).
Gli artt. 2 e 3 disciplinano le ipotesi di estensione della procedibilità a querela di parte per taluni delitti e contravvenzioni mentre l’art. 85 detta una serie di disposizioni definite “transitorie” in materia di modifica del regime di procedibilità ma che in realtà mirano, esclusivamente, a disciplinare i termini concessi alle parti per integrare le dichiarazioni già rese, con un’eventuale richiesta di punizione in ordine a fattispecie che hanno visto mutare il loro regime di procedibilità.
In particolare, secondo quanto previsto dall’art. 2 divengono procedibili a querela di parte i delitti di: lesioni (582 c.p.), salva la ricorrenza delle aggravanti di cui all’art. 61 n. 11 octies, 583, 585 c.p. ad eccezione di quelle indicate nel primo comma, numero 1), e nel secondo comma dell’articolo 577 c.p., ovvero se il fatto ha comportato una malattia superiore a 20 giorni in danno di persona incapace per età o infermità; lesioni stradali (art. 590 bis comma 1 c.p.), ad eccezione delle ipotesi aggravate di cui ai commi successivi al primo; sequestro di persona nell’ipotesi base (art. 605 comma 1 c.p.) salvo che il fatto sia commesso in danno di persona incapace per infermità o età; violenza privata (art. 610 c.p.), salvo che il fatto sia commesso in danno di persona incapace per infermità o età, ovvero ricorrano le ipotesi aggravate di cui all’art. 339 c.p.; minacce (art. 612 c.p.), salvo che fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339, ovvero se grave e ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale diverse dalla recidiva, ovvero se la persona offesa è incapace, per età o per infermità; violazione di domicilio (art. 614 c.p.) salvo che il fatto è commesso con violenza alle persone, ovvero se il colpevole è palesemente armato o se il fatto è commesso con violenza sulle cose nei confronti di persona incapace, per età o per infermità; furto anche aggravato (art. 624 c.p.), salvo che la persona offesa sia incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorre taluna delle circostanze di cui all’articolo 625, numeri 7, salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede, e 7bis); danneggiamento (art. 635 comma 1 c.p.) per le sole ipotesi di cui al primo comma, salvo che il fatto sia commesso in occasione del delitto previsto dall’articolo 331 ovvero se la persona offesa è incapace, per età o per infermità; truffa (art. 640 c.p.), salvo che ricorra un’ipotesi aggravata di cui al secondo comma, con abolizione del riferimento all’aggravante di cui all’art. 61 primo comma n. 7) c.p.; frode informatica (art. 640 ter c.p.) salvo che ricorra taluna delle circostanze di cui al secondo e terzo comma o la circostanza prevista dall’articolo 61, primo comma, numero 5, limitatamente all’aver approfittato di circostanze di persona, anche in riferimento all’età. Infine, viene rivisto l’art. 649 bis c.p. che, con l’attuale formulazione, prevede che per i fatti perseguibili a querela preveduti dagli articoli 640, terzo comma, 640-ter, quarto comma, e per i fatti di cui all'articolo 646, secondo comma, o aggravati dalle circostanze di cui all'articolo 61, primo comma, numero 11, si procede d'ufficio qualora ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale, diverse dalla recidiva[3], ovvero se la persona offesa è incapace per età o per infermità o se il danno arrecato alla persona offesa è di rilevante gravità.
Ancora, l’art. 3 prevede la procedibilità a querela per le seguenti contravvenzioni: disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (art. 659 comma 1 c.p.), ad eccezione delle ipotesi in cui il fatto abbia ad oggetto spettacoli, ritrovi o trattenimenti pubblici, ovvero sia commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità; molestie (art. 660 c.p.), salvo che il fatto sia commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità.
Come anticipato, si ravvisano talune distonie nella sopra elencata lista di reati; a titolo esemplificativo, rimane procedibile d’ufficio l’ipotesi di danneggiamento aggravato dall’aver posto in essere il fatto su cose esposte alla pubblica fede (ipotesi di frequente applicazione pratica), allorquando la medesima aggravante è stata esclusa da quelle idonee a rendere procedibile d’ufficio il reato di furto; ancora, desta qualche perplessità, per la gravità delle vicende concrete che vengono all’attenzione, l’aver previsto la procedibilità a querela di parte per il reato di sequestro di persona quanto meno in relazione all’ipotesi base.
Ciò non di meno, la norma che desta maggiori dubbi interpretativi anche a mente i significativi ed immediati riflessi pratici è quella di cui all’art. 85, norma definita transitoria. Invero la disposizione non introduce un termine intertemporale di entrata in vigore della nuova previsione correlato, ad esempio, all’epoca del fatto (con prevalenza della natura sostanziale) ovvero al momento dell’iscrizione del procedimento (facendo prevalere la natura processuale della condizioni di procedibilità), bensì precisa esclusivamente che, per i reati perseguibili a querela commessi prima della data di entrata in vigore del decreto (2 novembre 2022), ma per i quali non sia ancora stata presentata denuncia, il termine per la presentazione della decorre dalla predetta data se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato. Al comma 2 si precisa inoltre che, se alla data di entrata in vigore del presente decreto è stata già esercitata l’azione penale, il Giudice informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata. Adempimenti cui provvede il Pubblico Ministero se l’azione penale non è ancora stata esercitata.
3. Natura giuridica della condizione di procedibilità e profili di diritto intertemporale. Preclusione del giudicato
Accertato l’iter procedimentale funzionale a raccogliere un’eventuale dichiarazione di punizione della persona offesa, ed in assenza di una specifica previsione normativa transitoria, si rende necessaria una celere riflessione sui profili di diritto intertemporale.
A tal proposito, in via interpretativa, sovvengono i principi di ordine generale.
In particolare, preliminarmente bisognerà valutare se attribuire alla condizione di procedibilità natura sostanziale (con applicazione delle regole di cui all’art. 2 c.p.), ovvero processuale (con applicazione del principio del tempus regit actum).
La questione è stata anche di recente affrontata dalla Suprema Corte, chiamata a decidere in tema di modifica della procedibilità del reato di appropriazione indebita; in parte motiva i giudici di legittimità hanno ribadito come l’istituto della procedibilità a querela abbia natura mista, sostanziale e processuale[4] e che “il principio dell' applicazione della norma più favorevole al reo opera non soltanto al fine di individuare la norma di diritto sostanziale applicabile al caso concreto, ma anche in ordine al regime della procedibilità che inerisce alla fattispecie dato che è inscindibilmente legata al fatto come qualificato dal diritto (Sez. 3, n. 2733 del 08/07/1997, Rv. 209188).
Pertanto, accertata la natura mista sostanziale-processuale della condizione di procedibilità, ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile in concreto, dovrà farsi riferimento ai principi di cui all’art. 2 c.p.[5]. Ne consegue, per i reati la cui procedibilità si è “attenuata” richiedendo la querela di parte, l’applicazione della lex mitior, ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p.
La legge più favorevole imporrà dunque che, anche per i fatti commessi anteriormente l’entrata in vigore della norma, ai fini della procedibilità, sarà necessaria la presenza di una querela validamente espressa, seppur a distanza di tempo dal fatto con le modalità individuate dall’art. 85 d.lgs 150/22.
Ancora, all’attribuzione della natura mista sostanziale-processuale della condizione di procedibilità seguirà l’altrettanto pacifica conseguenza per cui la modifica del regime per talune fattispecie non esplicherà effetti nei procedimenti per i quali è stata pronunciata sentenza irrevocabile, così come previsto dal comma 4 dell’art. 2 c.p. e come, peraltro, chiarito anche da recenti arresti della Suprema Corte nuovamente intervenuta nuovamente sui profili di diritto intertemporale per la procedibilità della fattispecie di appropriazione indebita[6]. In questo caso, infatti, troveranno applicazione le regole stabilite dall’art. 2 c.p., con relativo sbarramento del giudicato.
Non è infatti possibile assimilare il caso di specie né ad un’ipotesi di abolitio criminis con sequenziale applicazione del disposto di cui all’art. 673 c.p.p.[7], non trattandosi di una modifica idonea ad incidere su un elemento costitutivo della fattispecie, né ad una pronuncia di incostituzionalità potenzialmente idonea a travolgere gli effetti anche delle sentenze divenute irrevocabili ed in astratto anche se più favorevoli.
4. Conseguenze in tema di procedimenti pendenti e misure cautelari e precautelari
Ciò detto in punto di diritto intertemporale, ci si soffermerà su una delle questioni potenzialmente di maggior rilievo pratico, ovvero quella relativa alla sorte delle misure cautelari disposte per reati già procedibili d’ufficio e nei quali la persona offesa, per quanto occorrer poteva, non aveva mai espresso una volontà di punizione, reati che, a seguito della novella, sono divenuti procedibili a querela di parte (l’ipotesi non pare peregrina essendo sufficiente pensare alle ipotesi di sequestro di persona cui all’art. 605 comma 1 c.p. ovvero alle ben più frequenti ipotesi di furto aggravato di cui agli artt. 624 – 625 c.p. salvo che la persona offesa sia incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorre taluna delle circostanze di cui all’articolo 625, numeri 7, salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede, e 7bis).
Il dubbio interpretativo potrebbe riguardare l’efficacia della misura – presupposta l’esigenza di acquisire l’eventuale dichiarazione di procedibilità la cui successiva carenza renderebbe il reato improcedibile e la misura non applicabile – nel periodo intercorrente tra il prossimo 2 novembre e i tre mesi dall’informazione alla persona offesa.
Si ritiene che in questo “limbo di procedibilità” la misura perda efficacia e vada revocata.
Con l’entrata in vigore della riforma, infatti, viene meno uno dei requisiti di applicabilità della stessa, ovvero quello della sussistenza di tutti gli elementi del fatto tipico della fattispecie per cui si procede o meglio, aderendo ad una nozione più ampia, la sussistenza di tutti i presupposti materiali della punibilità del reato.
Diversamente opinando, ed in assenza di norme di sistema che consentono un’interpretazione diversa, risulterebbe applicata una misura cautelare per una fattispecie di reato in senso ampio non integrata.
Peraltro, a livello sistematico, si incontra una previsione affine a detta soluzione nell’ultima parte del comma 3 dell’art. 380 c.p.p. norma che prevede l’immediata liberazione dell’arrestato se l’avente diritto dichiara di rimettere la querela. In questo caso, un evento sopravvenuto di natura negativa per volontà della persona offesa (remissione di querela) mentre, relativamente alla novella che qui si commenta, un requisito positivo richiesto (querela), prima non previsto. In entrambe le ipotesi, dunque, una carenza della condizione di procedibilità della querela (sopravvenuta o introdotta) che non può che rendere inefficace qualsivoglia limitazione della libertà personale, anche solo in via provvisoria ed in attesa di comprendere quale sia la volontà del titolare del bene giuridico leso.
Nelle more, il Pubblico Ministero (o il Giudice se è già stata esercitata l’azione penale come, di frequente, potrà accadere per i riti direttissimi a seguito di arresto in flagranza per il reato di furto aggravato) richiederà alla persona offesa se intende – o meno – procedere nei confronti dell’indagato/imputato e, all’esito, il Pubblico Ministero si dovrà determinare nel richiedere una nuova misura cautelare.
Ancora, nella prassi quotidiana, dovrà essere prestata peculiare attenzione alla disciplina delle misure precautelari. Invero, il sistema già conosce la previsione di cui all’art. 380 terzo comma c.p.p. che consente, in caso di arresto in flagranza per reati procedibili a querela di parte, che la stessa possa essere resa oralmente all’ufficiale o all’agente di polizia giudiziaria presente nel luogo. Evidentemente, anche alla luce della casistica cui tener conto (si pensi, nuovamente, ai frequenti arresti per furto aggravato oggi procedibile a querela di parte), dovrà essere richiesto alla Polizia Giudiziaria l’ulteriore sforzo di acquisire, in tempo utile per la ristretta tempistica della convalida, una dichiarazione di querela validamente sporta da soggetto legittimato, eventualmente anche per conto della persona offesa persona giuridica.
5. Conclusioni
La novella normativa, nell’estendere le ipotesi di procedibilità a querela di parte a fattispecie ove sono chiamati in gioco beni giuridici privi di rilievo sovra individuale e la persona offesa risulta in grado di autodeterminarsi sulle proprie istanze punitive, persegue evidentemente una finalità deflattiva e di maggior efficienza della giustizia cui il complesso intervento del legislatore dichiara di ispirarsi. Ed in prospettiva ci si auspica possa raggiungere tale effetto potendo immaginare, nella prassi quotidiana, una concreta riduzione dei procedimenti per cui verrà esercitata l’azione penale.
Ciò non di meno, nel breve termine, la previsione di cui al menzionato art. 85 e la contestuale assenza di una disciplina di diritto transitorio ed intertemporale di dettaglio creerà notevoli disfunzioni nell’organizzazione tanto degli uffici giudiziari (indifferentemente giudicanti o requirenti in base alla fase processuale) che saranno chiamati a svolgere l’ulteriore adempimento di informare la persona offesa affinché possa reclamare – ove voglia – la sua istanza di punizione (pur a mente il disposto di cui all’art. 33 disp.att. c.p.p. che consente la più agile notifica al difensore) che in quelli delle forze dell’ordine territoriali che, nei tre mesi successivi alla data in vigore della riforma, saranno con buona verosimiglianza onerati di numerosissime deleghe in tal senso, con dispendio temporale e di risorse. Prospetticamente, andranno impartite specifiche direttive alla Polizia Giudiziaria al fine di aggiornare gli elenchi dei reati che richiedono, ai fini della procedibilità, la querela di parte, così da includere le nuove previsioni delittuose e contravvenzionali richiamate dalla riforma.
Desta doverosa attenzione, inoltre, il tema sopra esplorato delle misure cautelari che, in assenza di una dichiarazione di querela validamente espressa, sono destinate ad essere caducate dal prossimo 2 novembre. Sarebbe opportuno, pertanto, che nel breve arco temporale che residua sino a tale data, gli Uffici svolgano ricognizioni funzionali ad individuare le vicende processuali interessate, delegando in via prioritaria la Polizia Giudiziaria per acquisire l’eventuale condizione di procedibilità, eventualmente anche prima del prossimo 2 novembre, così da evitare la perdita di efficacia della misura in essere che, in quel caso, previa acquisizione della relativa dichiarazione di procedibilità, dovrà essere oggetto di nuova richiesta.
[1] Relazione illustrativa al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 in https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/10/19/22A06018/sg
[2] Fra tutte Sez. U, Sentenza n. 31668 del 23/06/2016 Ud. (dep. 21/07/2016) Rv. 267239 in base al quale:, “Integra remissione tacita di querela la mancata comparizione alla udienza dibattimentale (nella specie davanti al Giudice di pace) del querelante, previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l'eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela.”.
[3] A tal proposito superando l’orientamento giurisprudenziale consolidato in forza del quale: “Il riferimento alle circostanze aggravanti ad effetto speciale contenuto nell'art. 649-bis cod. pen., ai fini della procedibilità d'ufficio per i delitti menzionati nella stessa disposizione, comprende anche la recidiva qualificata - aggravata, pluriaggravata e reiterata - di cui all'art. 99, secondo, terzo e quarto comma, cod. pen. (In motivazione, la Corte ha precisato che la valutazione di equivalenza o di subvalenza della recidiva qualificata rispetto alle circostanze attenuanti, nell'ambito del giudizio di bilanciamento previsto dall'art. 69 cod. pen., non ne elide la sussistenza né gli effetti prodotti ai fini del regime di procedibilità, sicché non rende il reato perseguibile a querela di parte, ove questa sia prevista per l'ipotesi non circostanziata). (Vedi Sez. U, n. 3152 del 31/01/1987, Paolini, Rv. 175354; Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Rv. 187856).” cfr. Sez. U -, Sentenza n. 3585 del 24/09/2020 Ud. (dep. 29/01/2021) Rv. 280262”.
[4] Si pensa, per esempio, a Sez. 2 -, Sentenza n. 21700 del 17/04/2019 Ud. (dep. 17/05/2019) Rv. 276651: in base al quale. “A seguito della modifica del regime di procedibilità per i delitti di cui agli artt. 640 e 646 cod. pen., introdotta dal d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, nei procedimenti in corso per il delitto di appropriazione indebita aggravata ex art. 61, n. 11 cod. pen., l'intervenuta remissione della querela comporta l'obbligo di dichiarare la non procedibilità ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., ove non ricorrano altre circostanze aggravanti ad effetto speciale. (In motivazione la Corte ha richiamato la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, da cui discende la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti).”. Pronuncia che richiama un orientamento di cui ad un risalente precedente del ’70 che, invero, aveva statuito in maniera chiarissima sulla natura mista, con sequenziali riflessi in punto di diritto intertemporale: “La querela, quale atto di volontà del dichiarante, diretto, nei reati perseguibili a richiesta di parte, all'instaurazione del processo e alla persecuzione del reo, ha natura mista, sostanziale e processuale, in quanto e a un tempo condizione di punibilità e di procedibilità.”* cfr. Sez. 3, Sentenza n. 1359 del 24/11/1970 Ud. (dep. 08/04/1971) Rv. 117553.
[5] Ancora, in parte motiva della citata pronuncia n. 21700/19, si legge: “Nella successione delle leggi, pertanto, in considerazione della natura mista (sostanziale e processuale) dell'istituto della querela, deve applicarsi il disposto dell'art. 2 comma cod. pen., secondo il quale "se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo". 3.1. Più recentemente la corte di Cassazione (Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018 - dep. 07/09/2018, Salatino, Rv. 27355201) ha avuto modo di precisare, in linea con tale orientamento, come «la giurisprudenza, piuttosto, non dissimilmente, in questo, dalla dottrina, ha accreditato la querela come istituto da assimilare a quelli che entrano a comporre il quadro per la determinazione dell'an e del quomodo di applicazione del precetto, ai sensi dell'art. 2, quarto comma, cod. pen. (v., in tema di procedibilità d'ufficio per i reati di violenza sessuale, Sez. 5, n. 44390 del 08/06/2015, R., Rv. 265999 e Sez. 3, n. 2733 del 08/07/1997, Frualdo, Rv. 209188; in tema di procedibilità a querela introdotta per il reato di cui all'art. 642 cod. pen., Sez. 2, n. 40399 del 24/09/2008, Calabrò, Rv. 241862), giungendo per via interpretativa, quando non vi ha provveduto il legislatore con una specifica norma transitoria, alla conclusione della applicazione retroattiva dei soli mutamenti favorevoli (sostituzione del regime della procedibilità di ufficio con quello della procedibilità a querela), senza che possa valere la regola della cedevolezza del giudicato.”
[6] Sul punto, la Corte di Cassazione, ancora sul tema della recente modifica del regime di procedibilità del reato di appropriazione indebita, ha precisato che: “In tema di revisione, la sopravvenuta procedibilità a querela del reato di appropriazione indebita per effetto del d.lgs. 15 maggio 2018, n. 36 non costituisce prova nuova ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. nel caso in cui la modifica normativa sia intervenuta successivamente al passaggio in giudicato della sentenza della quale si chiede la revisione. (In motivazione la Corte ha evidenziato che, in ragione della natura mista - sostanziale e processuale - dell'istituto della querela, la sopravvenuta disciplina più favorevole deve essere applicata nei procedimenti pendenti, salva l'insuperabile preclusione costituita dalla pronuncia di sentenza irrevocabile, ai sensi dell'art. 2, comma quarto, cod. pen).” – cfr. Sez. 2 -, Sentenza n. 14987 del 09/01/2020 Cc. (dep. 13/05/2020) Rv. 279197.
[7] Chiarissima sul punto Sez. 1, Sentenza n. 1628 del 03/12/2019 Cc. (dep. 16/01/2020) Rv. 277925, in forza del quale: “Non costituisce causa di revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen. una modifica legislativa per effetto della quale un reato procedibile d'ufficio divenga procedibile a querela, in caso di mancata proposizione di questa, atteso che il regime di procedibilità non è elemento costitutivo della fattispecie e conseguentemente la sopravvenuta previsione della procedibilità a querela è inidonea a determinare un fenomeno di "abolitio criminis". (Fattispecie relativa al delitto di appropriazione indebita aggravato art. 61, comma primo, n. 11, cod. pen., divenuto procedibile a querela a seguito del decreto legislativo 10 aprile 2018, n. 36).”
L’accesso telematico al fascicolo processuale: legittimazione del terzo e rimedi impugnatori avverso la decisione di diniego (Nota a Cons. giust. amm. Reg. Siciliana, 22 settembre 2022, n. 963)
di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Il PAT e l’accesso telematico al fascicolo processuale da parte del terzo estraneo al processo. – 3. La (non) impugnabilità dell’ordinanza di rigetto dell’istanza di accesso. – 4. Osservazioni conclusive.
1. Il caso di specie.
La sentenza che si annota interviene su un aspetto molto particolare del processo amministrativo, ovvero l’accesso telematico al fascicolo processuale, in particolare da parte di un terzo estraneo al giudizio.
La questione in primo grado si concreta nell’ordinanza collegiale del T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 30 maggio 2022, n. 1788, che ha respinto l’istanza di accesso al fascicolo telematico avanzata da un terzo estraneo ad un giudizio peraltro già conclusosi con sentenza di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse.
L’istanza di accesso è intervenuta in un giudizio particolarmente complesso, nel quale la parte ricorrente, a seguito della dichiarazione di fallimento, ha proseguito con la curatela fallimentare, con conseguente preclusione di ogni ulteriore attività processuale spendibile, in relazione a tale fascicolo, del soggetto che ha presentato l’istanza e che agisce, peraltro, nella qualità di Commissario dell’Associazione che ne è stata parte.
L’istanza è stata motivata dalla volontà di presentare un’azione risarcitoria ai sensi dell’art. 30, cod. proc. amm. ma è stata respinta dal T.A.R. Sicilia, Palermo, tra l’altro, poiché “gli atti di tale causa ormai definita – peraltro nei termini su indicati – non potrebbero determinare alcuna conseguenza diretta o indiretta sulla posizione dichiarata dall’istante, in quanto la legittimazione processuale è esclusivamente in capo alla Curatela del fallimento, ai sensi dell’art. 43 del R.D. n. 267/1942”.
Avverso quest’ordinanza è stato interposto appello al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, giudicato inammissibile con sentenza n. 963 del 22 settembre 2022 in quanto l’istanza del terzo di accesso al fascicolo telematico non è un processo né un incidente del processo, e pertanto il provvedimento che decide su tale istanza non è soggetto ai mezzi di impugnazione di cui al libro III del cod. proc. amm.
Prima di interrogarci sull’eventuale possibilità di impugnare la decisione che rigetta l’istanza di accesso al fascicolo processuale, occorre far partire la nostra analisi proprio dalla natura giuridica di questa tipologia di accesso.
2. Il PAT e l’accesso telematico al fascicolo processuale da parte del terzo estraneo al processo.
Anzitutto, un’osservazione di carattere generale attinente alla fonte normativa di riferimento.
L’accesso telematico al fascicolo processuale non è disciplinato da alcuna norma del Codice del processo amministrativo, trovando invece la sua fonte nell’art. 17, allegato 1, decreto del Presidente del Consiglio di Stato 28 luglio 2021, recante, almeno dal punto di vista astratto, esclusivamente le regole tecniche sul PAT[i], il quale, per quanto qui di specifico interesse, dispone che: “1. L'accesso al fascicolo informatico dei procedimenti come risultanti dal SIGA, secondo le modalità stabilite dalle specifiche tecniche di cui all'articolo 19, è consentito al presidente o al magistrato delegato per i provvedimenti monocratici, a ciascun componente il collegio giudicante nonché, nei limiti di cui al comma 2, agli ausiliari del giudice.
2. Gli ausiliari del giudice accedono ai servizi di consultazione nel limite dell'incarico ricevuto e dell'autorizzazione concessa dal giudice.
3. L'accesso di cui al comma 1 è altresì consentito ai difensori muniti di procura, agli avvocati domiciliatari, alle parti personalmente nonché, previa autorizzazione del giudice, a coloro che intendano intervenire volontariamente nel giudizio.
4. In caso di delega, il SIGA consente l'accesso ai fascicoli dei procedimenti patrocinati dal delegante previa comunicazione, a cura di parte, di copia della delega stessa, o di dichiarazione del sostituto da cui risulti il conferimento di delega verbale, al responsabile dell'ufficio giudiziario, che provvede ai conseguenti adempimenti. L'accesso è consentito fino alla comunicazione della revoca della delega.
5. La delega o la dichiarazione, sottoscritta con firma digitale, è redatta in conformità alle specifiche tecniche di cui all'articolo 19”.
L’aver specificato la fonte normativa di riferimento è un aspetto di non secondario interesse, perché ci consentirà di comprendere la possibilità o meno di impugnazione dell’eventuale pronunzia giurisdizionale di rigetto dell’istanza di accesso.
È però, prima di tutto, interessante soffermarsi sulla natura di questa.
Non credo vi possa essere alcun dubbio sul fatto che l’accesso del terzo a un fascicolo processuale non è equiparabile all’accesso ai documenti amministrativi, non essendo il processo, per definizione, un procedimento amministrativo, ma res inter alios, in cui l’accesso a terzi è consentito solo in presenza di presupposti rigorosi.
In egual maniera, non è possibile affermare la sussistenza di un diritto soggettivo del terzo ad accedere ad un fascicolo processuale inter alios, dato che gli atti difensivi non hanno carattere pubblico e dunque sono accessibili solo dalle parti del processo, che siano costituite o che siano state evocate in giudizio[ii].
Ne consegue che l'accesso di terzi al fascicolo processuale deve essere autorizzato dal giudice, che nell'ambito della giustizia amministrativa non può che essere il collegio, essendo eccezionali i poteri di decisione attribuiti all'organo monocratico[iii].
Per quanto concerne la limitazione dell’accesso alle sole parti del processo vi sono certamente delle esigenze di sicurezza e privacy, in conseguenza delle quali non appare illogica l'introduzione di regole operative che, prendendo spunto dall'evoluzione tecnologica, limitino l'accesso ai fascicoli processuali alle sole persone direttamente interessate al contenzioso (parti e loro avvocati) e non anche a terzi[iv], ovviamente nel rispetto di un equo bilanciamento tra rispetto della privacy e la tutela dei diritti alla difesa ex art. 24 Cost.
L’accesso al fascicolo processuale presuppone la qualità di parte attuale o potenziale (chi aspira a diventare parte o interveniente).
È evidente, pertanto, che l’assenza di un diritto soggettivo del terzo ad accedere a un fascicolo processuale non reca al terzo alcun vulnus in quanto: a) eventuali documenti amministrativi contenuti nel fascicolo processuale sono accessibili secondo le regole ed i limiti del diritto di accesso a documenti amministrativi presso l’Amministrazione depositaria; b) gli atti processuali privati non sono suscettibili di accesso perché nessuna norma lo prevede, e il soggetto interessato può acquisirli dal privato che li ha formati solo con il suo consenso, secondo le regole proprie del diritto civile.
Si è detto che l’accesso al fascicolo processuale non è equiparabile all’accesso ai documenti amministrativi perché i documenti contenuti nel fascicolo non sono di per sé qualificabili come documenti amministrativi.
Ciò non vuol dire che nel fascicolo di parte non vi possano essere documenti amministrativi, e rispetto a questi si applicheranno le ordinarie regole dell’accesso documentale o procedimentale di cui alla legge n. 241 del 1990[v], ma, al contempo, gli atti processuali di parte non sono documenti soggetti alla disciplina dell’accesso documentale[vi], essendo atti privati, e come tali acquisibili solamente tramite il consenso della parte.
Chiarito in generale che il documento è "una cosa che fa conoscere un fatto"[vii], occorre delimitare, quindi, che cosa si intenda per documento amministrativo.
La nozione di questo emerge chiaramente dal dettato normativo, in particolare dall’art. 22, co. 1, lett. d), legge n. 241 del 1990[viii] e dall’art. 1, co. 1, lett. a) del d.P.R. n. 445 del 2000, e su di essa non vi possono essere dubbi[ix].
Il primo, nel fornire le definizioni nel capo della legge generale sul procedimento amministrativo dedicato al diritto d’accesso, qualifica documento amministrativo “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
A sua volta, in modo sostanzialmente analogo, la seconda norma, inserita nel Testo Unico delle disposizioni in materia di documentazione amministrativa, dispone che documento amministrativo è “ogni rappresentazione, comunque formata, del contenuto di atti, anche interni, delle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell'attività amministrativa”.
La giurisprudenza amministrativa adotta queste qualificazioni in modo assolutamente estensivo.
Si ritiene anzitutto, in generale, che per documento amministrativo suscettibile di esibizione debba intendersi qualsiasi narrazione di fatti desumibile da supporti scritti, iconografici, elettronici o altro: non si tratta, quindi, della necessità di elaborare dei dati, quanto piuttosto di reperirli in modo congruo e di presentarli al richiedente che dimostra di essere in possesso di un titolo per visionarli e copiarli[x].
Inoltre, debbono essere considerati atti amministrativi soggetti alla disciplina dell’accesso anche gli atti interni concernenti un’attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale, allo scopo di assicurare l'imparzialità e la trasparenza dell'azione amministrativa[xi], con la conseguenza che la nozione di documento amministrativo ricomprende necessariamente tutti gli atti trasmessi o, comunque, presi in considerazione nell'ambito di un procedimento amministrativo, ancorché di natura privatistica, purché correlati ad un'attività amministrativa[xii].
Così, sulla base di questi orientamenti, a solo titolo esemplificativo, sono stati fatti rientrare nella nozione di documento amministrativo assoggettabile alla disciplina dell’accesso di cui all’art. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990 la registrazione sonora di sedute del Consiglio comunale[xiii], il codice sorgente del software della prova concorsuale informatizzata[xiv], le riproduzioni audio o audiovideo di una prova orale di un concorso pubblico[xv], la documentazione sanitaria relativa ad un ricovero ed eventuale intervento chirurgico con i relativi esami diagnostici richiesti dai parenti di una persona deceduta in ospedale[xvi], i documenti inerenti la fatturazione elettronica[xvii], nonché le comunicazioni relative ai rapporti finanziari e, in particolare, le dichiarazione dei redditi[xviii].
La nozione di documento amministrativo[xix] è ampia ma in questa non vi possono rientrare gli atti difensivi di parte contenuti in un fascicolo processuale.
A ciò si aggiunga che, nel caso di specie, il ricorrente in appello è da considerarsi terzo estraneo al processo in quanto non è stato parte del giudizio cui ha chiesto l’accesso né può diventarne parte perché il fascicolo è definito data la sentenza di improcedibilità intervenuta in primo grado.
Non si tratta di una regola stravagante, perché analoga disciplina è prevista per il processo civile.
Difatti, in questo non sussiste in capo al privato, ancorché parte processuale, il diritto di accedere ad un atto del fascicolo del giudizio innanzi al giudice, in quanto gli atti del processo civile non rientrano, al pari di tutti gli atti giudiziari o processuali, tra quelli ostensibili ai sensi della legge 7 agosto 1990 n. 241.
Invero, nel processo civile[xx], l'accesso documentale è regolato dall'art. 76 delle disposizioni attuative del codice di procedura civile, per il quale le parti o i loro difensori muniti di procura possono esaminare, oggi in via telematica[xxi], gli atti e i documenti inseriti nel fascicolo d'ufficio e in quelli delle altre parti e farsene rilasciare copia dal cancelliere, osservate le leggi sul bollo.
Ma, al di là di questa ipotesi, non sembra possibile ottenere l'ostensione documentale di atti processuali civili e, comunque, lo strumento per perseguire l'interesse alla conoscenza di atti del fascicolo del processo civile non può essere che interno allo stesso processo[xxii].
È, perciò, sempre la parte processuale (o il relativo difensore) e non il terzo estraneo che ha la facoltà di accedere al fascicolo d’ufficio o a quello delle altre parti costituite in giudizio.
La giurisprudenza amministrativa, al fine di chiarire i presupposti della legittimazione del terzo, ha cercato di elencare quali siano gli atti da cui desumere la volontà del terzo d'intervenire in giudizio e che quindi legittimano l'accesso al fascicolo processuale, rectius agli atti e documenti delle parti già costituite.
In particolare, ciò si verifica mediante un atto processuale di intervento nel processo o di impugnazione della decisione, ove essa vi sia; mediante un ordine di esibizione del giudice conseguente ad un ricorso giurisdizionale in cui si dimostri lo specifico interesse a conoscere gli atti di un giudizio cui si è estranei; ottenendo il previo consenso all'accesso di tutte le parti del processo ai cui atti si intende accedere[xxiii].
A questo punto si rende necessario compiere qualche breve riflessione sull’intervento del terzo nel processo amministrativo[xxiv].
In linea generale, l’intervento in giudizio è l’ingresso di un terzo in un processo pendente e può soggiacere a diverse classificazioni teoriche.
La ragione pratica dell’istituto consiste nell’interdipendenza delle posizioni giuridiche e dei rapporti giuridici; sebbene i terzi non possano essere pregiudicati formalmente dalla sentenza pronunciata tra altri, i rapporti giuridici di cui sono titolari possono sostanzialmente subire delle conseguenze indirette dalla sentenza altrui, determinando ciò la possibilità di un loro interesse all’esito di un processo di cui non sono parti[xxv].
Anzitutto, l’intervento può essere qualificato come volontario o coatto[xxvi] a seconda che l’ingresso del terzo in giudizio avvenga sulla base di una sua propria autonoma scelta o per scelta di una delle parti già costituite, qualora si ritenga la causa comune al terzo oppure si voglia essere garantiti dallo stesso, o ancora per ordine del giudice laddove sia necessario integrare il contraddittorio oppure qualora il giudice ritenga la causa comune al terzo e, dunque, opportuno lo svolgimento del simultaneus processus anche nei confronti di quest'ultimo[xxvii].
L'intervento volontario, a sua volta, può essere classificato in tre ulteriori categorie: occorre, difatti, distinguere tra intervento principale, intervento litisconsortile ed intervento adesivo dipendente.
Si parla di intervento principale (anche detto ad excludendum) allorquando l'interventore fa valere, nei confronti di tutte le parti, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo[xxviii], di intervento litisconsortile o adesivo autonomo allorquando il terzo interventore deduce in giudizio un rapporto connesso per l'oggetto o per il titolo nei confronti di alcune soltanto delle parti in causa[xxix], mentre l'intervento adesivo dipendente si ha quando il terzo, avendo un proprio interesse, interviene per sostenere le ragioni di una delle parti[xxx], al fine di ottenere una sentenza favorevole alla parte adiuvata[xxxi].
Se il codice di procedura civile disciplina compiutamente le diverse tipologie di intervento[xxxii], più complessa è la situazione nel processo amministrativo.
Diverse sono le problematiche sollevate nei confronti dell'ammissibilità dell'intervento nel processo amministrativo, causate, in primo luogo, dalla mancanza, sino al Codice del 2010, di un'organica disciplina dettata dal legislatore, circostanza che ha posto il problema dell'applicabilità per analogia della disciplina prevista dal codice di rito civile[xxxiii].
La risposta formatasi era nel senso di escludere una generalizzata trasposizione delle norme processualcivilistiche nel processo amministrativo[xxxiv], atteso che queste sono state concepite e dettate con riferimento ad un modello di processo da citazione mentre il processo amministrativo è un tipico esempio di processo da ricorso, che si instaura dunque con un atto che si dirige subito al giudice, contenendo l'editio actionis ma non la vocatio in jus[xxxv].
Ed infatti, sino al codice del 2010 la disciplina dell’intervento era contenuta in sole due disposizioni, ovvero nell’art. 22, legge 6 dicembre 1971, n. 1034 e nell’art. 37, r.d. 17 agosto 1907, n. 624, regolamento per la procedura dinnanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato[xxxvi].
Entrambe le disposizioni si limitavano a stabilire la possibilità di intervenire in giudizio per coloro che avessero un interesse nella contestazione[xxxvii] ed a disciplinare le modalità di notifica e del successivo deposito dell’atto di intervento[xxxviii].
Sulla base di questa sintetica quanto laconica disciplina, l’orientamento tradizionale, che, come anticipato, esclude una generalizzata applicabilità delle norme dettate per il processo civile, afferma che il processo amministrativo non dovrebbe conoscere l’intervento principale[xxxix] e quindi la proposizione di una domanda autonoma da parte del terzo, avente ad oggetto una situazione soggettiva propria, diversa rispetto a quella già dedotte dalle altre parti e con esse incompatibile[xl], in quanto è difficile individuare in questo tipo di giudizio soggetti che abbiano un interesse eterogeneo ed opposto rispetto a quello del ricorrente ed a quello della parte resistente[xli].
Questa conclusione ha trovato conferma nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, in specie nei propri arresti antecedenti al codice del 2010[xlii].
In particolare, i giudici amministrativi hanno ribadito che il terzo interventore, non potendo essere titolare di un interesse diretto nella controversia, non può assumere una posizione autonoma ma solo aderire alla posizione di una delle due parti principali, escludendo, pertanto, la possibilità di esperire un intervento principale o anche solo litisconsortile[xliii].
Esperibilità dell'intervento principale o litisconsortile che, secondo un autorevole orientamento formatosi in dottrina, risulterebbe esclusa anche perché, trattandosi di interventi finalizzati alla tutela diretta di interessi dei terzi, sarebbe incompatibile con la regola della perentorietà dei termini per agire nel giudizio amministrativo[xliv].
Non sembra potersi condividere tale conclusione, non soltanto perché, a seguito della emanazione del codice, la totale preclusione all'intervento principale ed a quello litisconsortile sembra essere venuta meno, pur continuando a rimanere perentori i termini per l'esercizio dell'azione nel giudizio amministrativo, ma anche in virtù del fatto che, se è vero che nel processo civile non vi sono termini di decadenza ma solo di prescrizione per l'esercizio dei propri diritti, bisogna altresì tenere in considerazione che l'intervento volontario e quello litisconsortile non sono consentiti ad libitumma soltanto sino a quando le parti originarie hanno la facoltà di svolgere attività assertoria, costituendo l'atto di intervento esperito in un momento successivo, e cioè sino al momento della precisazione delle conclusioni, un intervento tardivo, possibile solo in forma adesiva[xlv].
Il codice di procedura civile ed il codice del processo amministrativo, rispettivamente agli articoli 268 e 28, prevedono pertanto che il terzo potrà intervenire solamente accettando lo stato ed il grado in cui il giudizio si trova senza poter compiere alcun atto difensivo rispetto al quale sia già maturato un termine preclusivo nei confronti delle altre parti: la conseguenza è che nel processo civile il terzo non potrà intervenire oltre l’udienza di trattazione o nel termine eventualmente fissato dal giudice a’ sensi del sesto comma dell’art. 183, cod. proc. civ., ovvero sino a quando alle parti originarie è consentita attività assertoria, dovendosi tenere in considerazione la possibilità di emendatio[xlvi]ma non di mutatio libelli[xlvii], con la conseguenza che l’intervento successivo, ammesso dall’art. 268, comma 1, cod. proc. civ. sino alla precisazione delle conclusioni, deve considerarsi, secondo l’orientamento prevalente, tardivo e limitato ai casi dell’intervento adesivo dipendente o del colegittimato all’azione[xlviii].
Nel processo amministrativo, in modo analogo e ragionando in via astratta, l’intervento principale e litisconsortile non saranno più possibili decorso il termine di decadenza, al fine di evitare che l’intervento divenga lo strumento processuale cui ricorrere allorquando si è decaduti dall’azione di annullamento, potendo così dar luogo ad un possibile abuso del processo[xlix], dato l'utilizzo di uno strumento processuale per finalità ad esso estranee.
La conseguenza è che, se l'interventore formula al giudice amministrativo la propria domanda entro il termine di decadenza per la proposizione dell'azione, non vi dovrebbero essere ostacoli, riferibili ai termini processuali, che impediscano di ammettere ogni forma di intervento volontario.
Occorre, tuttavia, tenere in considerazione le peculiarità del processo amministrativo; ed infatti, come anticipato, nel giudizio di impugnazione è difficile ipotizzare l'esistenza di soggetti che assumano una posizione contrapposta ad entrambe le parti del giudizio attraverso la proposizione di un atto di intervento principale[l].
D'altronde, diversi sono i connotati dell'azione proponibile in tale tipologia di giudizio rispetto a quelli propri dell'azione nel processo civile.
L'azione nel processo amministrativo, nella sua tradizionale configurazione impugnatoria, ha carattere unilaterale, nel senso che il giudice è tenuto ad accertare soltanto la fondatezza delle censure dedotte dal ricorrente in relazione al provvedimento impugnato, contrariamente al processo civile ove l'azione è bilaterale, concorrendo ad essa il convenuto, che, se pure si limita esclusivamente a concludere per il rigetto della citazione o del ricorso dell'attore, sostanzialmente propone al giudice una domanda di accertamento del rapporto dedotto in giudizio[li].
Pertanto, seguendo la ricostruzione tradizionale, l'estraneità, rispetto al processo amministrativo d'impugnazione, della figura dell'intervento volontario nelle sue varie forme e con l'ampiezza nota al processo civile, deve farsi risalire ai concetti dell'immutabilità delle posizioni soggettive, per cui chi ha titolo per proporre ricorso non può in alternativa entrare nel giudizio come interventore[lii], e della disponibilità di un solo mezzo di difesa, a seconda della posizione nella quale si trova l'interesse che si vuole tutelare rispetto al provvedimento impugnato[liii].
Se vi è difficoltà, data la natura peculiare del giudizio amministrativo, specialmente nel suo modello originario e tradizionale di giudizio di impugnazione, ad ammettere l’intervento di un terzo portatore di un interesse incompatibile sia con quello del ricorrente sia con quello dell’Amministrazione resistente, pacifica è sempre stata l’ammissibilità dell’intervento adesivo dipendente nel giudizio amministrativo.
L’intervento adesivo dipendente, che si ha allorquando il terzo entra nel processo sostenendo le ragioni di una delle parti, si articola, come noto, in intervento ad adiuvandum allorché l’interventore aderisca alla posizione ed alle domande proposte dal ricorrente[liv] ed in intervento ad opponendum quando l’interventore aderisca alla posizione della parte resistente o del controinteressato[lv], opponendosi, in tal modo, alle domande avanzate dal ricorrente[lvi].
L’orientamento della giurisprudenza amministrativa è oramai consolidato nel ritenere ammissibile questa tipologia di intervento nel giudizio amministrativo.
Come è stato chiarito, due debbono essere le condizioni esistenti affinché l’intervento adesivo dipendente possa essere ritenuto ammissibile: la prima, di ordine negativo, si traduce nella necessaria alterità dell'interesse vantato dall'interventore rispetto a quello che legittimerebbe la proposizione del ricorso in via principale; la seconda, invece, a carattere positivo, esige che l'interventore sia in grado di ricevere un vantaggio, anche in via mediata e indiretta, dall'accoglimento del ricorso principale[lvii], ovviamente qualora sia proposto un intervento ad adiuvandum.
Di conseguenza, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, risulta inammissibile l'intervento ad adiuvandum spiegato nel processo amministrativo da chi sia ex se legittimato a proporre direttamente il ricorso giurisdizionale in via principale, considerato che in tale ipotesi l'interveniente non fa valere un mero interesse di fatto, bensì un interesse personale all'impugnazione di provvedimenti immediatamente lesivi, che può farsi valere solo mediante la proposizione di un ricorso principale nei prescritti termini decadenziali[lviii].
È invece ammesso l'intervento adesivo dipendente, volto cioè a tutelare un interesse collegato a quello fatto valere dal ricorrente principale, con la conseguenza che la posizione dell'interessato è meramente accessoria e subordinata rispetto a quella della corrispondente parte[lix] principale.
Difatti, la posizione che legittima a spiegare intervento ad adiuvandum nel giudizio amministrativo consiste nella titolarità di un interesse non direttamente leso dal provvedimento da altri impugnato: ad esempio, non è stato ritenuto ammissibile l'intervento adesivo dell'amministrazione controllata nel giudizio per l'annullamento di un atto negativo di controllo, e cioè di un atto repressivo dell'esercizio di un potere, del quale è attributaria[lx] mentre è, al contrario, ammesso l'intervento del successore a titolo particolare nel rapporto controverso[lxi].
Ciò perché, sempre secondo il Consiglio di Stato, l'intervento nel processo amministrativo, sia nella previgente disciplina sia secondo il disposto di cui all'art. 28 co. 2, c.p.a., non determina un litisconsorzio autonomo, bensì adesivo dipendente, a sostegno delle ragioni di una delle parti, consentito a condizione che il soggetto, se legittimato, non sia decaduto dal diritto di impugnare il provvedimento amministrativo[lxii].
Nel processo amministrativo, insomma, l'intervento adesivo può essere svolto da soggetti che, non essendo stati parti nel rapporto sostanziale dedotto in giudizio, hanno comunque un interesse da far valere in giudizio, a condizione che la situazione giuridica fatta valere risulti dipendente o secondaria rispetto all'interesse fatto valere in via principale[lxiii].
Ne consegue, sulla scorta dell’anticipato orientamento della giurisprudenza amministrativa, che è inammissibile l'intervento di chi sia comunque legittimato a proporre direttamente ricorso in via principale avverso il medesimo atto impugnato da terzi nel procedimento in cui ritiene di intervenire, eludendosi altrimenti il rispetto dei termini decadenziali individuati dalla legge[lxiv].
La circostanza che l'intervento adesivo dipendente, nelle forme dell’intervento ad adiuvandum o ad opponendum, possa essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale comporta, così come ribadito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel corso del 2020, che non è sufficiente a consentire l'intervento la sola circostanza che l'interventore sia parte di un diverso giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella oggetto del giudizio nel quale intende intervenire.
Peraltro, laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l'intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, scisse dall'oggetto specifico del giudizio cui l'intervento si riferisce[lxv].
Risulterebbe pertanto sistematicamente incongruo ammettere l'intervento volontario in ipotesi che si risolvessero nel demandare ad un giudice diverso da quello naturale (art. 25, co. 1, Cost.)[lxvi] il compito di verificare in concreto l'effettività dell'interesse all'intervento (e, con essa, la concreta rilevanza della questione ai fini della definizione del giudizio a quo), in assenza di un adeguato quadro conoscitivo di carattere processuale, ove si pensi alla necessaria verifica che il giudice ad quem sarebbe chiamato a svolgere, ai fini del richiamato giudizio di rilevanza, circa l'effettiva sussistenza in capo all'interveniente dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del giudizio a quo[lxvii].
Questo ovviamente per quanto concerne la giurisdizione di legittimità ove si pone il problema del rispetto dei termini decadenziali per l’impugnazione dei provvedimenti.
Diversa parrebbe la situazione relativamente alle controversie che rientrano nella giurisdizione esclusiva[lxviii].
Difatti, si dovrebbe ritenere che nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva che vertono sulla tutela dei diritti soggettivi siano utilizzabili tutte le forme di intervento disciplinate dal codice di procedura civile, non potendosi pervenire a soluzione diversa se si vuole che il processo amministrativo, seguendo altresì i dettami del diritto e della giurisprudenza europea, sia effettiva attuazione della funzione giurisdizionale, cioè renda giustizia[lxix].
Ed invero, la configurazione della nuova giurisdizione amministrativa esclusiva in termini di “giurisdizione piena” non consente una limitazione delle facoltà processuali delle parti, ove esse non siano espressamente escluse dalle norme processuali amministrative o, comunque, rispetto ad esso incompatibili[lxx].
Così, in queste ipotesi, dovrebbe ritenersi ammissibile l'intervento non solo adesivo ma anche principale: ogni soggetto che si pretenda interessato può intervenire in giudizio rispettando le forme e i termini propri dell'atto di intervento, salva la successiva verifica all'udienza cautelare o pubblica dell'ammissibilità e della fondatezza dell'intervento stesso[lxxi].
Se si configura il giudizio amministrativo non più necessariamente come un giudizio su un atto[lxxii] ma come un giudizio su un rapporto[lxxiii] e sulle sottese situazioni giuridiche, che possono essere anche di diritto soggettivo, è evidente che in questi casi, avvicinando sempre di più il processo amministrativo a quello civile, quanto a facoltà e poteri processuali, non si può non consentire la possibilità di intervenire in giudizio secondo tutte le modalità di intervento volontario previste dal codice di procedura civile[lxxiv].
In questi casi, quindi, la legittimazione ad intervenire nel giudizio legittima altresì l’accesso al fascicolo delle altre parti costituite; in caso di estraneità al giudizio, invece, non sussiste alcun diritto soggettivo all’accesso, così come è nel caso di specie.
3. La (non) impugnabilità dell’ordinanza di rigetto dell’istanza di accesso.
Chiarita la portata della facoltà di accesso al fascicolo del giudizio da parte del terzo, si pone una questione processuale.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia ha giudicato inammissibile l’appello presentato avverso la sentenza del T.A.R. Sicilia, Palermo, che ha rigettato l’istanza di accesso al fascicolo processuale.
Ed infatti, la decisione sull’istanza del terzo al fascicolo telematico non è contemplata dal cod. proc. amm. ma dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato che reca le regole tecniche del processo telematico. Non si tratta di un procedimento giurisdizionale disciplinato dal Codice.
Conseguentemente, nessuna norma del Codice del processo prevede l’appello o altro rimedio avverso la decisione del T.A.R. che nega l’accesso del terzo al fascicolo processuale.
Il cod. proc. amm. prevede rimedi in relazione a decisioni del giudice rese in esito al processo o in esito a incidenti del processo.
L’istanza del terzo di accesso al fascicolo telematico non è un processo né un incidente del processo, e pertanto il provvedimento che decide su tale istanza non è soggetto ai mezzi di impugnazione di cui al libro III del c.p.a perché si tratta di una decisione che non definisce il giudizio né in via definitiva né in via interlocutoria.
Peraltro, sempre il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, in altra pronunzia recente, aveva confermato la non impugnabilità della decisione di rigetto dell’istanza di accesso al fascicolo processuale anche in virtù del fatto che i rimedi giustiziali presuppongono l'esistenza di una situazione soggettiva meritevole di tutela, in questi casi inesistente, in quanto nessuna norma giuridica prevede l'esistenza della situazione soggettiva rivendicata dall'appellante, ossia un diritto soggettivo del terzo ad accedere a un fascicolo processuale inter alios[lxxv].
La non impugnabilità del diniego alla richiesta di accesso al fascicolo processuale da parte del terzo estraneo al processo appare un principio non contestabile.
È noto, difatti, che sono appellabili tutte le decisioni del giudice di primo grado che, indipendentemente dalla qualificazione delle medesime in termini di sentenza, abbiano un contenuto decisorio.
Così non è nel caso di specie perché la pronunzia del T.A.R. Palermo nulla decide in ordine al processo, né una questione di merito né una di rito.
Se la sentenza non decide una questione in rito o non risolve un punto della controversia non è, evidentemente, materia da sottoporre al sindacato del giudice di appello. Si tratta semplicemente della formalizzazione di un passaggio logico dell'iter seguito dal giudice di primo grado, il cui sindacato sarà possibile soltanto allorché quello stesso giudice avrà completato il proprio convincimento decidendo in ordine alla controversia[lxxvi].
L’orientamento è analogo, pertanto, a quello che nella giurisprudenza si è formato sin dagli anni ottanta del secolo scorso sull’appellabilità delle sentenze interlocutorie[lxxvii].
L’inammissibilità dell’appello[lxxviii] è talmente evidente nel caso in esame che il Consiglio di giustizia si è pronunziato avvalendosi della nuova norma di cui all’art. 72-bis del Codice del processo, introdotta nel 2021 al fine di accelerare lo svolgimento dei giudizi amministrativi e consentire la riduzione dell’arretrato[lxxix].
Questa norma, rubricata “Decisione dei ricorsi suscettibili di immediata definizione”, dispone che “se è possibile definire la causa in rito, in mancanza di eccezioni delle parti, il collegio sottopone la relativa questione alle parti presenti. Nei casi di particolare complessità della questione sollevata, il collegio, con ordinanza, assegna un termine non superiore a venti giorni per il deposito di memorie. La causa è decisa alla scadenza del termine, senza che sia necessario convocare un'ulteriore camera di consiglio. Se la causa non è definibile in rito, il collegio con ordinanza fissa la data dell'udienza pubblica. In ogni caso la decisione è adottata con sentenza in forma semplificata”.
Si è giunti ad una decisione rapida, in forma semplificata[lxxx], che ha definito la questione data l’incontestabile non impugnabilità della pronunzia del T.A.R. Palermo.
4. Osservazioni conclusive.
La pronunzia del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia deve essere condivisa e pone chiarezza quanto ai due profili principali della controversia, ovvero la (im)possibilità di accesso in via telematica al fascicolo processuale da parte di un terzo estraneo al giudizio e la non appellabilità della decisione di rigetto del giudice di primo grado della relativa istanza di accesso.
Come si è visto nella nostra ricostruzione, non vi è alcun contrasto giurisprudenziale su questi aspetti e la soluzione fornita dal Consiglio di giustizia amministrativa è pacifica.
Ciò ha portato il giudice d’appello siciliano a non ravvisare i presupposti per la rimessione della questione all’ Adunanza Plenaria, come sollecitato dalla parte appellante durante la discussione orale, perché presupposto unico per la rimessione alla Plenaria da parte di una Sezione è che vi sia un contrasto giurisprudenziale attuale o potenziale (art. 99, co. 1, cod. proc. amm.), situazione che nel caso di specie non ricorre, non essendovi alcun contrasto giurisprudenziale attuale.
Né vi è un contrasto giurisprudenziale “virtuale”, che pure giustifica la rimessione alla Plenaria; lo stesso non può essere meramente ipotetico e astratto, ma deve essere legato alla concreta pendenza di casi analoghi a quello de quo, e tale pendenza non è ravvisabile in questo caso, anzi la giurisprudenza, come si è visto, è del tutto omogenea con le posizioni assunte dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia.
Di conseguenza, non vi è la necessità di alcuna pronunzia dell’Adunanza Plenaria[lxxxi] sul punto perché non vi può essere alcun dubbio sull’inesistenza di un diritto soggettivo di accesso al fascicolo processuale da parte del terzo estraneo al giudizio e sull’inappellabilità della relativa decisione di rigetto dell’istanza presentata.
[i] In realtà, il decreto adotta delle linee guida, che hanno l'obiettivo di armonizzare l'attività degli uffici per il processo e di renderla in tal modo più efficiente per il raggiungimento dell'obiettivo dello smaltimento dell'arretrato della giustizia amministrativa: cfr., sul punto, G. Napolitano, Giustizia amministrativa e ripresa economica, in Giorn. dir. amm., 2022, 309 ss.; in tema cfr. anche E. Schneider, Il processo amministrativo telematico, in Giorn. dir. amm., 2022, 133 ss.
[ii] Così, ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 3 maggio 2019, n. 5631, in www.giustizia-amministrativa.it.
[iii] T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 18 febbraio 2019, n. 296, in www.giustizia-amministrativa.it.
[iv] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 27 settembre 2018, n. 9593, in Foro amm., 2018, 1528 ss.
[v] La letteratura sul punto è amplissima; ex multis, si rinvia a M. D’Alberti, La “visione” e la “voce”: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, 1 ss.; F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione teorica, in Federalismi, n. 10/2019, 3 ss.; F. Manganaro, Evoluzione ed involuzione delle discipline normative sull’accesso a dati, informazioni ed atti delle pubbliche amministrazioni, in Dir. amm., 2019, 743 ss.; A. Cauduro, Il diritto di accesso a dati e documenti amministrativi come promozione della partecipazione: un’innovazione limitata, in Dir. amm., 2017, 601 ss.; A. Romano, L’accesso ai documenti amministrativi, in Alb. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, Giappichelli, 2016, 910 ss.; M. Occhiena, I diritti di accesso dopo la riforma della l. n. 241 del 1990, in Foro amm. TAR, 2005, 905 ss.; S. Cimini, Accesso ai documenti amministrativi e riservatezza: il legislatore alla ricerca di nuovi equilibri, in Giust. civ., 2005, 407 ss.; M.A. Sandulli, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Encicl. dir., agg. IV, Milano, Giuffrè, 2000, 1 ss.; M.T.P. Caputi Jambrenghi, Diritto di accesso e tutela della riservatezza, Bari, Cacucci, 2000, 1 ss.; M. Clarich, Diritto d’accesso e tutela della riservatezza: regole sostanziali e tutela processuale, in Dir. proc. amm., 1996, 430 ss.; A. Romano Tassone, A chi serve il diritto d’accesso? (Riflessioni su legittimazione e modalità d’esercizio del diritto d’accesso nella legge n. 241/1990), in Dir. amm., 1995, 315 ss.; F. Figorilli, Alcune osservazioni sui profili sostanziali e processuali del diritto di accesso ai documenti amministrativi, in Dir. proc. amm., 1994, 206 ss.
[vi] Si v. la fondamentale voce di C.E. Gallo, S. Foà, Accesso agli atti amministrativi, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, Agg., 2000, 1 ss.
[vii] Il riferimento testuale è a F. Carnelutti, Documento (teoria moderna), in Noviss. dig. it., VI, Torino, Utet, 1960, 86; ma lo stesso Autore aveva espresso la medesima idea in numerosi altri fondamentali studi sul tema: Id., Sistema di diritto processuale civile, I, Padova, Cedam, 1936, 690, ove si parla di "cosa che docet"; Id., Lezioni di diritto processuale civile, II, Padova, Cedam, 1926 (ristampa anastatica del 1986), 476, ove si parla di "opus (il risultato di un lavoro)"; Id., La prova civile, parte generale, Milano, Giuffrè, 1915, rist. 1992, 138.
[viii] Così come modificato dalla legge n. 15 del 2005 su cui si può rinviare, per un inquadramento generale, a S. Amorosino, La semplificazione amministrativa e le recenti modifiche normative alla disciplina generale del procedimento, in Foro amm. TAR, 2005, 2635 ss.
[ix] Le nozioni di documento amministrativo e del connesso diritto d’accesso da esercitare erano già state immaginate prima della legge n. 241 del 1990, ed in particolare dalla Commissione Nigro: cfr. sul punto V. Parisio, Il diniego di accesso ai documenti amministrativi nella normativa di attuazione della l. 7 agosto 1990 n. 241: prime indicazioni, in Giust. civ., 1995, 305 ss.; nonché S. Caponi, A. Saija (a cura di), Nuovo procedimento amministrativo, Edizioni delle Autonomie, 1992, 348 ss.; G. Pastori, Il diritto di accesso ai documenti amministrativi in Italia, in Amministrare, 1986, 149 ss.; B. Selleri, Il diritto di accesso agli atti del procedimento amministrativo, Napoli, Esi, 1984, 1 ss.
[x] T.A.R. Liguria, Sez. I, 9 maggio 2018, n. 434, in www.giustizia-amministrativa.it; ma anche T.A.R. Toscana, Sez. I, 31 maggio 2018, n. 775, ivi.
[xi] Cfr., in tema, D.U. Galetta, La trasparenza, per un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione: un’analisi storico-evolutiva, in una prospettiva di diritto comparato ed europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2016, 1047 ss.
[xii] Così Cons. Stato, Sez. IV, 20 ottobre 2016, n. 4372, in Foro amm., 2016, 2339; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 396, in Foro amm., 2016, 498; T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 8 aprile 2015, n. 497, in Foro amm., 2015, 1179, che vi ricomprende anche gli atti negoziali e le dichiarazioni unilaterali dei privati, purché acquisiti nell’ambito di un procedimento amministrativo.
[xiii] T.A.R. Piemonte, Sez. I, 27 maggio 2011, n. 563, in Foro amm. TAR, 2011, 1474.
[xiv] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 1° luglio 2020, n. 7526, in Guida dir., 2020, 36, 44. Per un approfondimento in letteratura si rinvia a E. Prosperetti, Accesso al software e al relativo algoritmo nei procedimenti amministrativi e giudiziali. Un’analisi a partire da due pronunce del Tar Lazio, in Dir. inform. e informatica, 2019, 1099 ss.
[xv] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 10 dicembre 2019, n. 14140, in Foro amm., 2019, 2111.
[xvi] T.A.R. Sardegna, Sez. I, 4 marzo 2019, n. 193, in Foro amm., 2019, 613; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 1° giugno 2018, n. 6149, in Foro amm., 2018, 1047. In dottrina, per un approfondimento, cfr. già E. Varani, Il diritto di accesso ai documenti amministrativi contenenti dati sanitari, in Foro amm. TAR, 2005, 929 ss.
[xvii] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 4 dicembre 2018, n. 11772, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xviii] T.A.R. Lazio, Latina, Sez. I, 18 gennaio 2019, n. 29, in Foro amm., 2019, 145 ss.
[xix] Per una trattazione più generale v. M. Ricciardo Calderaro, Diritto d’accesso e acquisizione probatoria processuale (nota a Adunanza Plenaria n. 19/2020), in GiustiziaInsieme, 25 novembre 2020.
[xx] Sulle cui interazioni con gli strumenti (anche di ostensione) telematici cfr., ad esempio, G. Resta, Privacy e processo civile: il problema della litigation “anonima”, in Dir. informatica, 2005, 681 ss.; A. Graziosi, Premesse ad una teoria probatoria del documento informatico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 481 ss.
[xxi] Per un inquadramento generale sul pct cfr. G. Ruffini (a cura di), Il processo telematico nel sistema del diritto processuale civile, Milano, Giuffrè, 2019; ma già S. Zan (a cura di), Tecnologia, organizzazione e giustizia: l’evoluzione del processo civile telematico, Bologna, Il Mulino, 2004.
[xxii] V., sul punto, Cass. civ., Sez. Un., 8 febbraio 2013, n. 3033, in Giust. civ. Mass.; ma anche T.A.R. Molise, Sez. I, 17 aprile 2015, n. 157, in Foro amm., 2015, 1231 ss.
[xxiii] V., ad esempio, Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, Sez. giurisd., decr. 8 marzo 2018, n. 32, in www.giustizia-amministrativa.it; in argomento cfr. G. Milizia, Il terzo, estraneo alla lite, può avere accesso al fascicolo processuale?, in Dir. & Giust., 2019, fasc. 39, 6 ss.
[xxiv] Per un’ampia disamina si consenta il rinvio a M. Ricciardo Calderaro, L’intervento nel processo amministrativo: antichi problemi e nuove prospettive dopo il codice del 2010, in Dir. proc. amm., fasc. 1-2018, 336 ss.
[xxv] Così E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Principi, a cura di V. Colesanti, E. Merlin, E.F. Ricci, Milano, Giuffrè, 2007, 103; nello stesso senso L. Montesano, G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, Padova, Cedam, 2001, vol. I, 632, secondo cui "la ratio che accomuna le varie ipotesi di intervento, sia volontario che coatto, deve essere individuata nell'interdipendenza dei rapporti giuridici sostanziali, cioè nei collegamenti, di vario tipo e natura, che possono sussistere, sul terreno sostanziale, tra il rapporto che è oggetto dell'originario processo ed altri rapporti che coinvolgono o possono coinvolgere soggetti estranei al primo: coinvolgimento, però, che, per la natura stessa di tali collegamenti sostanziali, non richiede mai la necessaria partecipazione di altri soggetti (i quali sarebbero, in tal caso, litisconsorti necessari), ma che può determinare, sempre sul terreno sostanziale, conseguenze in senso lato pregiudizievoli (o potenzialmente tali) nei confronti di questi soggetti in relazione all'esito della lite, tali da giustificare la partecipazione degli stessi al processo inter alios".
[xxvi] S. Costa, Intervento (dir. proc. civ.), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1972, vol. XXII, 466, evidenzia come l'intervento coatto, inteso in senso generale, comprende vari istituti che vanno dall'intervento coatto in senso stretto, alla laudatio o nominatio auctoris, ed alla litisdenuntiatio; "questi due ultimi istituti non hanno in realtà la funzione di servire per la chiamata in causa di un terzo, ma la litisdenuntiatio consiste nella denunzia al terzo che è sorta una determinata lite, mentre con la nominatio auctoris il possessore d'una cosa in nome altrui, convenuto in tale qualità, denuncia la lite al possessore mediato, onde esser estromesso".
[xxvii] Secondo F. Locatelli, Commento all’art. 105, in L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani, R. Vaccarella (diretto da), Commentario del codice di procedura civile, Torino, Utet, 2012, vol. II, 97 ss., “le ragioni che giustificano il superamento della bilateralità dello schema classico del processo e aprono la via all’ipotesi dell’intervento in causa, concernono le connessioni sostanziali sottostanti alle azioni esperite, che possono essere di diverso tipo, ma mai tali da rendere la partecipazione del terzo al processo necessaria (ossia non si è dinnanzi a quelle stesse ragioni che legittimano e giustificano il litisconsorzio facoltativo). L’interesse ad intervenire spontaneamente in causa si comprende, in particolare, solo alla luce delle possibili conseguenze indirette e pregiudizievoli che potrebbero scaturire per il terzo che decida di rimanere estraneo al processo”.
[xxviii] Sul punto cfr. C. Punzi, Il processo civile, Sistema e problematiche, Torino, Giappichelli, 2008, vol. I, 315 ss., secondo cui, in tale tipologia di intervento, "le caratteristiche che deve avere il diritto del terzo, perché costui possa ottenere la tutela richiesta, sono tre: autonomia-incompatibilità-prevalenza".
[xxix] In tema cfr. A. Chizzini, Commento all'art. 105, in C. Consolo (diretto da), Codice di procedura civile commentato, Milano, Ipsoa, 2010, 1186, a giudizio del quale, con questa tipologia di intervento, "si viene a instaurare a posteriori un litisconsorzio facoltativo dato che può mancare l'accordo per l'azione comune all'inizio del processo".
[xxx] Così, ex multis, S. Costa, op.cit., 462.
[xxxi] A. Chizzini, L'intervento adesivo, Struttura e funzione, Padova, Cedam, 1992, vol. II, 901 ss., osserva come "l'affermazione di una dipendenza all'interno del processo rispetto alla volontà della parte principale deve essere un dato accolto solo alla luce della valutazione del diritto positivo - e con precisione, del diritto processuale - e non un mero corollario che si trae dalla stessa natura della situazione sostanziale che opera sul piano diverso della legittimazione. Peraltro (...) spesso non si supera l'immediato rilievo che l'intervenuto non è titolare del rapporto dedotto e in ragione di ciò si ritiene di potere risolvere persuasivamente ogni questione che attiene alla posizione dell'intervenuto nel processo. Il che appare, invece, del tutto insufficiente".
[xxxii] Sulle tipologie e le modalità di intervento nel giudizio civile cfr. C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, Torino, Giappichelli, 2016, vol. I, 454 ss. e vol. II, 134 ss.; G. Tarzia, F. Danovi, Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano, Giuffrè, 2014, 166 ss.
[xxxiii] Con riferimento alla disciplina che era stata prevista per l’intervento nel giudizio dinnanzi al Consiglio di Stato cfr. U. Borsi, La giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 1941, 315, secondo cui “l’interveniente non può ampliare il tema della controversia sollevata col ricorso”; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, 1969, 830 ss.
[xxxiv] M. D’Orsogna, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Dir. proc. amm., 1999, 434, osserva come “volgere lo sguardo direttamente al complesso gioco degli interessi coinvolti dall’azione amministrativa, al di là dello schermo formale del provvedimento amministrativo, avrebbe richiesto, infatti, un mutamento di prospettiva assai profondo cui dottrina e giurisprudenza non erano preparate, attese le incertezze dogmatiche sulla nozione di interesse legittimo e la costruzione del processo amministrativo secondo uno schema prettamente demolitorio. E ciò trova conferma nella circostanza che alcune delle più brillanti intuizioni sull’intervento (che rappresentano forse il miglior tentativo di trasferire alla realtà amministrativa le esperienze del processo civile) provengono da quella nostra dottrina che ha consegnato alla dogmatica giuridica una compiuta elaborazione del rapporto giuridico amministrativo quale oggetto del giudizio: con tutto ciò che a questa innovativa (al di là della sua accoglibilità sul piano concettuale) elaborazione consegue in tema di ricostruzione del contraddittorio, del giudicato e dell’estensione delle forme di intervento ammesse nel giudizio amministrativo”; sull’esclusione di una generalizzata applicabilità delle norme del codice di procedura civile all’intervento nel processo amministrativo cfr. M. Pazardjiklian, Riflessioni sulla legittimazione all’appello da parte dell’interveniente “ad opponendum”, in Dir. proc. amm., 1997, 853 ss.
[xxxv] Sul punto cfr. A. Police, Il ricorso di primo grado, la costituzione delle altre parti, l'intervento, il ricorso incidentale, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, Cedam, 2014, vol. XLII, 407 ss.; per una ricostruzione tradizionale si rinvia a F. Sciarretta, Appunti di giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2007, 196 ss., a giudizio del quale l’unico intervento ammissibile nel processo amministrativo è quello volontario adesivo, rimanendo esclusi sia l’intervento principale che quello litisconsortile, “in quanto attraverso questi tipi di intervento potrebbe essere facilmente elusa la perentorietà del termine entro il quale deve essere proposto il ricorso”; sulla possibilità del solo intervento ad adiuvandum cfr. già G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1958, vol. II, 266.
[xxxvi] Secondo L.R. Perfetti, Commento all'art. 22, in A. Romano, R. Villata (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 2009, 779, le disposizioni in questione non escludono affatto l'intervento principale - "rivenendo l'enunciato normativo in esame dall'imitazione del codice di rito previgente, nel quale le forme di intervento diverse da quello adesivo erano pacificamente ammesse - né, per le ragioni che si sono già esposte, pare si debba raggiungere la conclusione che l'ammissione di forme di intervento diverse da quello adesivo comporti la necessaria deroga al termine decadenziale di impugnazione (che semmai varrà solo per quelle parti la cui domanda giudiziale sia intesa ad ottenere l'annullamento del provvedimento)". Contraria l’opinione di R. Ferrara, Commento all’art. 22, in A. Romano (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 2001, 831, secondo cui, sulla base delle disposizioni in commento, risultava ammissibile solo l’intervento volontario ed adesivo dipendente, in quanto rimesso alla volontà dell’interventore ed a favore di una delle parti principali del processo.
[xxxvii] M. Ramajoli, Riflessioni in tema di interveniente e controinteressato nel giudizio amministrativo, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 8 maggio 1996, n. 2, in Dir. proc. amm., 1997, 118 ss., evidenzia come la configurazione che la legge di istituzione dei Tribunali Amministrazioni Regionali offriva all’istituto dell’intervento derivasse strettamente da quella del codice di procedura civile del 1865 ove, all’art. 201, si stabiliva che chiunque avesse interesse in una controversia tra altre persone poteva intervenirvi; sul punto cfr. in giurisprudenza Cons. Stato, Sez. V, 13 aprile 1989, n. 215, in Giur. it., 1989, III, 185 ss.; Cons. Stato, Sez. V, 15 giugno 1992, n. 558, in Dir. proc. amm., 1993, 491, con nota di E. Stoppini, Intervento ad opponendum e legittimazione all'appello nel processo amministrativo: brevi riflessioni, 495 ss., e in Giur. it., 1993, III, I, 800 ss.
[xxxviii] Per l'interpretazione che ravvisava nell'art. 22 della c.d. Legge T.A.R. gli estremi per configurare solamente l'intervento adesivo, ad adiuvandum ed ad opponendum, nel processo amministrativo cfr., S. Tassone, Intervento "ad opponendum" nel giudizio di primo grado e legittimazione all'appello, nota a Cons. St., Sez. V, 15 giugno 1992, n. 558, in Giur.it., 1993, III, 803 ss.
[xxxix] Si può far risalire a V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in V.E. Orlando (a cura di), Primo Trattato completo di diritto amministrativo italiano, Milano, Società editrice libraria, 1901, vol. III, 1016, la prima formulazione secondo cui l’unica forma di intervento ammissibile nel processo amministrativo è quella denominata dipendente.
[xl] Così si esprimono G. Tarzia, F. Danovi, op. cit., 167.
[xli] Sul punto cfr. P. Patrito, Lo svolgimento del giudizio e le decisioni emesse in camera di consiglio, in R. Caranta (diretto da), Il nuovo processo amministrativo, Bologna, Zanichelli, 2011, 449 ss.; V. Caianello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, Utet, 2003, 626, che esclude la compatibilità dell'intervento litisconsortile nel processo amministrativo da impugnazione; contra, C.E. Gallo, Giudizio amministrativo, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1991, vol. VII, 244, secondo cui dovrebbe ritenersi in astratto possibile l’intervento principale in sede di giurisdizione esclusiva, “allorché vi possa essere una terza parte, a questo punto presumibilmente un’amministrazione, che voglia far valere in giudizio la titolarità a sé spettante dei diritti su un bene dedotto in giudizio”; M. Ramajoli, La connessione nel processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2002, 143, sostiene che anche nel processo amministrativo di legittimità dovrebbe trovare ingresso l'intervento principale nelle ipotesi di connessione necessaria per incompatibilità.
[xlii] Con rare eccezioni: ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 17 gennaio 1978, n. 13, in Cons. St., 1978, I, 24 ss., ha affermato la possibilità di ammettere tutte e tre le tipologie di intervento previste dall’art. 105, cod. proc. civ., ovvero l’intervento principale, litisconsortile e adesivo dipendente nel processo amministrativo; in dottrina cfr. l’orientamento favorevole all’ammissibilità dell’intervento principale nella giurisdizione esclusiva, già nel vigore della Legge T.A.R., di E. Picozza, Processo amministrativo (normativa), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1987, vol. XXXVI, 484.
[xliii] In questi termini Cons. Stato, Sez. VI, 18 agosto 2009, n. 4958, in Foro amm. CdS, 2009, 1885, che, partendo da tale presupposto, afferma che ai fini della legittimazione all'intervento volontario di soggetti diversi dalle parti originarie è sufficiente un qualsiasi interesse, anche di puro fatto o morale.
[xliv] Così N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015, 158; contra, M. Nigro, L'intervento volontario nel processo amministrativo, in Jus, 1963, 372, che critica l'orientamento preclusivo dell'ammissibilità dell'intervento principale, fondato sull'ostacolo dell'elusione del termine per ricorrere, osservando che esso non può avere valore assoluto; ed infatti, tale ostacolo è privo di ragione d'essere, non solo allorquando il termine non è ancora scaduto, bensì anche nel caso di impugnativa di atti indivisibili, il cui annullamento opera nei confronti di tutti i destinatari, che restano soggetti al giudicato, con conseguente restrizione del contraddittorio alle dimensioni che non gli sono state naturali. Si consideri, inoltre, che è stata ammessa la possibilità di convertire l'atto di intervento in ricorso principale, qualora non siano scaduti i termini di decadenza, purché tale atto possegga, rispetto a quest'ultimo, i requisiti di sostanza e di forma, compresi quelli di natura fiscale, ed emerga la volontà di agire quale ricorrente: così Cons. Stato, Sez. V, 28 ottobre 1970, n. 713, in Foro amm., 1970, I, 2, 908; la conseguenza è che, attraverso la conversione, si dà ingresso ad un intervento di tipo principale: si esprimono in tali termini A. Caracciolo La Grotteria, Parti e contraddittorio nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1993, 43 e A. Albini, L'intervento del legittimato a ricorrere e conversione in ricorso principale nel processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 1955, II, 288.
[xlv] Cass. civ., Sez. III, 5 ottobre 2018, n. 24529, in Ilprocessocivile.it, 3 dicembre 2018, con nota di G. Amodio, Intervento del terzo e preclusioni, ha ribadito che, allorquando il terzo decida di intervenire in un processo nel quale sia stata già esaurita la fase della deduzione istruttoria, piuttosto che agire a tutela del proprio diritto in un autonomo giudizio, egli non potrà che sottostare al sistema delle preclusioni ed al divieto di regressione delle fasi processuali, potendo solo partecipare al giudizio rebus sic stantibus.
[xlvi] Cass. civ., Sez. II, 1° marzo 2016, n. 4051, in Giur.it., 2016, 2150 ss., con nota di C. Cariglia, La Corte di Cassazione conferma il nuovo orientamento in tema di ammissibilità della domanda nuova, precisa che la modificazione della domanda, consentita dall’art. 183 cod. proc. civ., può riguardare uno o entrambi gli elementi della domanda, il petitum e la causa petendi, sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei termini processuali; questa possibilità è finalizzata a consentire che si concentrino, in unico processo e dinnanzi allo stesso giudice, delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale, piuttosto che determinare la potenziale proliferazione dei processi; in senso conforme Cass. civ., Sez. Un., 15 giugno 2015, n. 12310, in Giur.it., 2015, 2101 ss., con nota di G. Palazzetti, Ammissibilità dei nova ex art. 183, 5° comma; in Foro it., 2015, I, 3193 ss., con nota di A. Motto, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale; ivi, 2016, I, 255, con nota di C.M. Cea, Tra mutatio ed emendatio libelli: per una diversa interpretazione dell’art. 183, c.p.c.; in Corriere giur., 2015, 968 ss., con nota di C. Consolo, Le S.U. aprono alle domande “complanari”: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno.
[xlvii] Secondo Cass. civ., Sez. III, 24 aprile 2015, n. 8394, in Guida dir., 2015, 32, 77, si deve parlare di mutatio libelli "quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatio quando si incida sulla causa petendi, in modo che risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere"; così anche Cass. civ., Sez. trib., 20 luglio 2012, n. 12621, in Giust. civ. Mass., 2012, 9, 1058. Sulla possibilità di emendatio e l'impossibilità di mutatio libelli cfr. già Cons. Stato, Sez. V, 6 novembre 1992, n. 1186, in Cons. St., 1992, I, 1580, secondo cui gli artt. 183 e 184 c.p.c. pongono il principio del divieto di modificare la domanda e di ampliare l'oggetto del giudizio: peraltro va ritenuto che una modifica consentita della domanda (emendatio libelli) si ha ogni qualvolta non si verifichi mutamento del fatto giuridico a fondamento della pretesa, non prospettandosi nuovi elementi di mutazione del fatto costitutivo del diritto né aggiungendosi o sostituendosi al diritto controverso, come specificato nella domanda introduttiva; viceversa per modificazione non ammessa della domanda (mutatio libelli), secondo il Consiglio di Stato, deve essere intesa sia quella che, mediante l'immutazione del fatto costitutivo, introduca nel processo un nuovo e diverso fatto giuridico, considerato quale presupposto oggettivo cui l'ordinamento fa conseguire determinati effetti giuridici in corrispondenza al mutare del thema decidendum originario, sia quella che rinnovi l'oggetto della domanda.
[xlviii] Così C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, Giappichelli, Torino, 2016, vol. II, 136 ss., secondo cui l’intervento tardivo pregiudica le possibilità di difesa del terzo interveniente, specie sotto il profilo delle iniziative istruttorie a lui precluse.
[xlix] E quindi, compiere un atto formalmente lecito, tendente però a perseguire finalità estranee al suo scopo: così F. Cordopatri, L’abuso del processo nel diritto positivo italiano, in Riv. dir. proc., 2012, 874 ss.; sul punto cfr. altresì, tra gli studi più recenti, P.M. Vipiana, L’abuso del processo amministrativo, in G. Visintini (a cura di), L’abuso del diritto, Napoli, Esi, 2016, 247, secondo cui la valenza certa dell’abuso del processo, quale argomentazione giuridica, è quella di costituire uno schema argomentativo “in cui collocare una serie di istituti che già trovano la loro disciplina in sede normativa. A tale livello l’abuso del processo assurge a mero minimo comun denominatore di tali istituti: una sorta di fil rouge fra essi oppure, in altri termini, una scatola in cui collocarli tutti. In tale ruolo l’abuso del processo è una figura inidonea a ledere: sicuramente non indispensabile, ma forse non inutile a creare, a fini sistematici e didattici, una base unitaria ad un numero di istituti eterogenei”; M. Fornaciari, Note critiche in tema di abuso del diritto e del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, 593 ss.; M.G. Pulvirenti, Riflessioni sull’abuso del processo, in Dir. e proc. amm., 2016, 1091 ss.; A. Panzarola, Presupposti e conseguenze della creazione giurisprudenziale del c.d. abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2016, 23 ss.; G. Corso, Abuso del processo amministrativo?, in Dir. proc. amm., 2016, 1 ss.; G. Tropea, Spigolature in tema di abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2015, 1262 ss.; S. Baccarini, Abuso del processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 1203 ss., secondo cui “non si tratta di comportamenti vietati o comunque illeciti perché in diretta violazione delle norme processuali, ma di uso improprio di uno strumento processuale, in sé lecito, che produce effetti pregiudizievoli sul procedimento”; G. Verde, L’abuso del diritto e l’abuso del processo (dopo la lettura del recente libro di Tropea), in Riv. dir. proc., 2015, 1085 ss.; Id., Abuso del processo e giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2015, 1138; G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo: studio critico, Napoli, Esi, 2015; K. Peci, Difetto di giurisdizione e abuso del processo amministrativo, commento a Cons. Stato, Sez. III, 13 aprile 2015, n. 1855, in Giorn. dir. amm., 2015, 691 ss.; S. Chiarloni, Etica, formalismo processuale, abuso del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 1281 ss.; quanto all'utilità dell'introduzione del concetto di abuso del processo nel giudizio amministrativo cfr. C.E. Gallo, L'abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2008, 1022, secondo cui "si tratta di una norma di chiusura, volta a reprimere un uso distorto dello strumento processuale, che, di conseguenza, è utile per il fatto di esserci, anche se ci si augura che non debba mai essere utilizzata, risultando bastante il suo significato educativo"; N. Paolantonio, Abuso del processo (diritto processuale amministrativo), in Encicl. dir., Giuffrè, Milano, 2008, Annali, II, tomo I, 6, secondo cui, ai fini della costruzione di una definizione di abuso del processo amministrativo, occorre tenere conto della particolare posizione delle parti nel giudizio amministrativo; tale circostanza, secondo l’Autore, reca due conseguenze di non poco momento: “la prima è che gli schemi classici dell’abuso processualcivilistico non trovano sempre pedissequa applicazione nel processo amministrativo: basti pensare al regime della condanna alle spese di lite in caso di soccombenza, assai di rado utilizzata dal giudice amministrativo, sia in sede cautelare che di merito, in virtù di un’atavica quanto ingiustificata esigenza di salvaguardia del pubblico erario. La seconda è che la sostanziale disparità delle parti nel processo amministrativo è essa stessa causa, talora, d’abuso, sia delle parti (dell’amministrazione, ma anche del ricorrente), sia del giudice”; nonché cfr. già l’opinione di G. De Stefano, Note sull’abuso del processo, in Riv. dir. proc., 1964, 582 ss.
[l] Si veda, per tutti, C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2020, 192, che evidenzia come, invece, "se il termine per ricorrere è ancora aperto, nulla vieta che il secondo ricorrente, anziché avviare un giudizio autonomo, proponga una domanda di intervento litisconsortile, senza per questo derogare alla perentorietà dei termini per ricorrere. In ogni caso, l’intervento litisconsortile è possibile nel giudizio di accertamento, non essendovi ragione per impedire la presenza di più parti nello stesso giudizio".
[li] Così S. Santoro, Appunti sull'intervento nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1986, 553, secondo cui, sulla base della disciplina dettata dal r.d. n. 624 del 1907 e dalla legge istitutiva dei T.A.R., "nel processo amministrativo, anche in quello d'accertamento (ma è un'anomalia dovuta al fatto che questo è ancora costruito sul modello di quello d'impugnazione), a differenza che nel processo civile, il giudice non può pronunciarsi sulla domanda senza che il ricorrente si sia costituito, e la rinuncia al ricorso non abbisogna di accettazione delle altre parti, alle quali essa deve soltanto essere notificata (art. 46 R.D. cit.)". Per quanto concerne la disciplina della rinunzia prevista dal codice del 2010, l’art. 84 dispone che questa vada notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza e se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono il processo si estingue: sul punto cfr. T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 22 marzo 2016, n. 96, in www.giustizia-amministrativa.it e T.A.R. Lazio, Roma, III, 8 maggio 2015, n. 6576, in Foro amm., 2015, 1559, a giudizio del quale il documento con cui si dichiara di rinunciare al ricorso non può valere come rinuncia al ricorso stesso, ove non risulti notificato alle altre parti almeno 10 giorni prima dell'udienza così come prescritto dall'art. 84, co. 3, d.lgs. n. 104 del 2010, comprovando, in ogni caso, la carenza di interesse alla definizione del giudizio e giustificando la declaratoria di improcedibilità del gravame.
[lii] Secondo V. D'Audino, L'intervento adesivo nel procedimento giurisdizionale davanti al Consiglio di Stato, commento a Cons. Stato, Sez. IV, 12 dicembre 1925, n. 937, in Foro amm., 1926, I, I, 31 ss., si equivoca "tutte le volte in cui si sostiene che l'intervento non è ammissibile nei casi in cui l'interessato avrebbe dovuto presentare ricorso autonomo e principale per il motivo che con l'ammissione dell'intervento si riaprirebbero dei termini scaduti. Nessun termine viene ad essere riaperto se dell'annullamento del provvedimento si giova lui come si possono giovare gli altri che non hanno preso parte al giudizio. Siamo lieti che con la decisione annotata la Sezione in difformità delle precedenti pronuncie, pur senza particolare motivazione, abbia adottata la soluzione sin qui difesa ammettendo l'intervento di chi poteva ricorrere in via principale contro la decisione ministeriale che aveva rigettato la sua domanda e si è limitato ad intervenire per chiedere l'accoglimento del ricorso principale presentato da un suo collega impiegato, al quale era stata rigettata identica domanda per identico motivo".
[liii] Sul punto cfr. A. Tigano, Intervento nel processo-II) Diritto processuale amministrativo, in Encicl. giur., Roma, 1988, vol. XIX, 3.
[liv] L’intervento ad adiuvandum di per sé non è innovativo: il terzo, difatti, pur proponendo una domanda propria, si limita, con essa a chiedere l'accoglimento di una domanda altrui senza agire per la tutela di una propria situazione sostanziale e senza un ampliamento del thema decidendum. Egli si limita ad interloquire nella lite tra altri già pendente, prestando la propria adesione alla domanda o all'eccezione di una delle parti: sul punto cfr., nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., Sez. II, 14 dicembre 2015, n. 25135, in Ilprocessocivile.it, 8 settembre 2016, con nota di R. Nardone, Intervento adesivo del terzo introdotto con la sottoscrizione dell’atto di citazione.
[lv] Con riferimento all’intervento ad opponendum, la giurisprudenza amministrativa ha ammesso, ad esempio, l’intervento in giudizio del funzionario tecnico di un’Amministrazione comunale: così T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 25 agosto 2017, n. 1423, in Giorn. dir. amm., 2018, 103 ss., con nota di F. Ielo, L’intervento adesivo dipendente nel processo amministrativo.
[lvi] Sul tema cfr. M. D’Orsogna, F. Figorilli, Lo svolgimento del processo di primo grado, La fase introduttiva, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2013, 319 ss.
[lvii] Così T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 2 ottobre 2012, n. 2450, in Foro amm. TAR, 2012, 3045.
[lviii] Cons. Stato, Sez. VI, 21 giugno 2012, n. 3647, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. V, 8 marzo 2011, n. 1445, in Foro amm. CdS, 2011, 902; Cons. Stato, Sez. IV, 17 luglio 2000, n. 3928, in Foro amm., 2000, 2617; da ultimo, in questo senso, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30 giugno 2020, n. 4134, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Trento, Sez. I, 28 luglio 2020, n. 126, in Foro amm., 2020, 1497.
[lix] Sul concetto di parte nel processo amministrativo cfr. F. Benvenuti, Parte nel processo (diritto amministrativo), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1981, vol. XXXI, 962 ss., ora in Scritti giuridici, Vita e pensiero, Milano, 2006, vol. IV, 3625 ss.
[lx] Cons. Stato, Sez. IV, 7 ottobre 1992, n. 855, in www.giustizia-amministrativa.it.
[lxi] Così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 5 ottobre 2010, n. 7293, in www.giustizia-amministrativa.it.
[lxii] Così Cons. Stato, Sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 853, in Foro amm., 2016, 302.
[lxiii] T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 20 aprile 2016, n. 237, in Foro amm., 2016, 1060 (s.m.).
[lxiv] In tal senso T.A.R. Lazio, Roma, 2 dicembre 2013, n. 10329, in Foro amm. TAR, 2013, 3726; secondo M. Corradino, S. Sticchi Damiani, Il processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2014, 260, “è confermato, anche nella vigenza del Codice, l’orientamento giurisprudenziale in base al quale non è ammissibile nel processo amministrativo l’intervento adesivo autonomo, ma solo l’intervento adesivo dipendente, essendo insegnamento costante della giurisprudenza quello secondo il quale il soggetto direttamente ed immediatamente leso da un provvedimento ha l’onere di impugnarlo tempestivamente, non essendo configurabile la c.d. figura del cointeressato del ricorrente, il quale non può neppure partecipare al giudizio in veste di interveniente adesivo dipendente”.
[lxv] Così Cons. Stato, Ad. Plen., 2 aprile 2020, n. 10, in Foro amm., 2020, 722 ss.
[lxvi] Per un approfondimento del principio enunciato dalla norma costituzionale si rinvia a M. D’Amico, G. Arconzo, Art. 25, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, Utet 2006, 526 ss.; M. Nobili, Art. 25 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, Zanichelli, 1981, 135 ss.; V. Andrioli, La precostituzione del giudice, in Riv. dir. proc., 1964, 325 ss.; E.T. Liebman, Giudice naturale e costituzione del giudice, in Riv. dir. proc., 1964, 331 ss.
[lxvii] In senso analogo già Cons. Stato, Ad. Plen., 4 novembre 2016, n. 23, in Foro amm., 2016, 2628.
[lxviii] Contra, T.A.R. Liguria, Sez. I, 1° giugno 2012, n. 754, in Foro amm. TAR, 2012, 1888 (s.m.), che conclude per l’inammissibilità nel giudizio amministrativo dell’intervento principale; in realtà, se ben si legge la motivazione del giudice ligure, la conclusione è più sfumata e sembra ammettere la possibilità di esperire l’intervento principale quanto meno nei casi di giurisdizione esclusiva ove vengano in rilievo diritti soggettivi, posto che “il silenzio della norma (gli artt. 28 e 50, n.d.a.) non consente di ammettere un intervento principale nella giurisdizione generale di legittimità o in quella esclusiva quando si faccia questione di interessi legittimi. Invero l'intervento principale in questi casi si risolve nell'impugnativa dello stesso atto già oggetto di giudizio da parte di altro soggetto per ragioni diverse e quindi con motivi diversi. Tale evenienza non è ammissibile. Infatti, a prescindere dal rispetto dei termini di impugnativa (che potrebbero essere comunque rispettati), l'azione impugnatoria può essere esercitata solo mediante la proposizione di ricorso (principale o incidentale) e con gli accessivi motivi aggiunti e non mediante l'intervento. E ciò in quanto l'oggetto della causa, che risulta non solo dal provvedimento impugnato ma anche dai motivi dedotti, non può essere ampliato se non attraverso gli strumenti a ciò presposti. Ma se l'oggetto della causa (il petitum) non può essere ampliato se non dal ricorrente stesso o dal controinteressato mediante ricorso incidentale, è evidente che l'intervento (depurato della sua valenza impugnatoria) si risolve nella mera esplicitazione di ragioni in favore del ricorrente e quindi in sostanza in un intervento ad adiuvandum. Tale intervento, tuttavia, sarà ammissibile solo quando adduca ragioni a sostegno di una delle parti e non quando le contrasti entrambe”. Tra le righe della sentenza, pertanto, si scorge la possibilità di configurare un intervento principale quando il giudizio non si configuri nella sua tradizionale veste impugnatoria, e quindi principalmente nei casi di giurisdizione esclusiva cui siano sottese questioni di diritto soggettivo: non è difatti immaginabile che si attribuisca al giudice amministrativo la stessa cognizione del giudice civile e contestualmente non si offrano alle parti gli stessi strumenti processuali a tutela dei propri diritti.
[lxix] In linea generale, secondo I. Pagni, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in G.D. Comporti (a cura di), La giustizia amministrativa come servizio (tra effettività ed efficienza), Firenze, Firenze University Press, 2016, 85, il concetto di effettività deve valorizzare il principio chiovendiano, “in virtù del quale il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale riconosce”; l’affermazione del principio è di G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, Giuffrè, 1930, Vol. I, 101 ss.; Id., Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, Editoriale Scientifica, 1923, ora in Principi di diritto processuale civile, Napoli, Editoriale Scientifica, 1965, 81, secondo cui "il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire". C.E. Gallo, Servizio e funzione nella giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, 73 ss., nell’affermare che la giustizia amministrativa non può essere qualificata come servizio pubblico ma come funzione, ricorda che il sindacato prestato dal plesso giurisdizionale T.A.R. – Consiglio di Stato deve essere pieno e completo sull’attività dell’amministrazione: in questo senso occorre leggere l’effettività della tutela nell’ambito del processo amministrativo; in merito cfr. altresì le osservazioni di M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 ss.
[lxx] S. Foà, Giustizia amministrativa, atipicità delle azioni ed effettività della tutela, Napoli, Jovene Editore, 2012, 74 ss.; così anche R. Giovagnoli, Il ricorso incidentale, in R. Giovagnoli, M. Fratini, Il ricorso incidentale e i motivi aggiunti, Milano, Giuffrè, 2008; sul punto cfr. I.M. Marino, Giurisdizione esclusiva e Costituzione, in V. Parisio, A. Perini (a cura di), Le nuove frontiere della giurisdizione esclusiva. Una riflessione a più voci, Milano, Giuffrè, 2002, 9 ss., ora in Scritti giuridici, a cura di A. Barone, Napoli, Esi, 2015, 996, secondo cui “una giurisdizione paritaria non può che essere quella dell’autorità giudiziaria ordinaria oppure una nuova giurisdizione amministrativa: quella esclusiva, che salvi il giudice amministrativo dall’essere travolto dall’evoluzione dell’ordinamento giuridico (sostanziale), che lo tiri fuori dalla giurisdizione sull’atto e lo affranchi dalla trappola delle situazioni giuridiche”; secondo A. Police, Il cumulo di domande nei “riti speciali” e l’oggetto del giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, 1197 ss., “se le previsioni del legislatore recente in tema di giurisdizione esclusiva consentono di superare anche le più serie ed autorevoli obiezioni alla teorica che ravvisa l'oggetto del processo amministrativo nel rapporto nel quale si iscrivono le situazioni a cui afferiscono gli interessi in contrasto, se ne deve concludere che anche tale ricostruzione dell'oggetto del giudizio può essere validamente impiegata nel nostro sforzo ricostruttivo della nuova giurisdizione amministrativa e dei suoi caratteri. Si può dire forse di più, sembra quasi che il legislatore abbia conformato la giurisdizione piena del giudice amministrativo proprio per dare attualità e concretezza a quel modello processuale di giustizia amministrativa paritaria ed effettiva il cui avvento era da tempo auspicato in dottrina”; sul carattere paritario del processo amministrativo cfr. V. Domenichelli, Per un processo amministrativo paritario, in Dir. proc. amm., 1996, 415 ss.
[lxxi] Concorde è l'opinione di E. Picozza, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, Giuffrè, 2016, 213 ss., secondo cui una spinta all'applicazione di tutti i tipi di intervento è venuta, da un lato, dalla disciplina sostanziale del procedimento amministrativo che, sulla scorta della posizione dottrinale di Giannini, ha disciplinato forma e sostanza del procedimento, prescrivendo i diritti dei soggetti interventori titolari di situazioni pubbliche, private, collettive e diffuse, e, dall'altro, dal diritto internazionale e comunitario, ma anche da quello costituzionale interno, che pretendono oramai che il rapporto tra Amministrazione e cittadini sia configurato come un vero e proprio rapporto giuridico sostanziale, tendenzialmente paritario, almeno quanto a garanzie procedimentali e processuali; in senso conforme, inoltre, L. Coraggio, L’intervento nel codice del processo amministrativo, in Giurisd. amm., 2011, IV, 304, a giudizio del quale in sede di giurisdizione esclusiva ed in materia di diritti soggettivi dovrebbero ritenersi ammissibili tutti i tipi di intervento previsti dal codice di procedura civile; così anche L. Ieva, Soggetti e parti del processo amministrativo, in R. Giovagnoli, L. Ieva, G. Pesce (a cura di), Il processo amministrativo di primo grado, Milano, Giuffrè, 2005, 276.
[lxxii] Proprio della natura del giudizio amministrativo di legittimità: così F. Satta, Giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 1997, 118 ss., secondo cui "nell'interpretazione che per un secolo se ne è data, l'idea del processo amministrativo come giudizio su atti ha condotto al paradossale risultato di frantumare il giudizio sull'atto, che esprime la definitiva volontà dell'amministrazione, in una sorta di somma di giudizi sui singoli atti del procedimento, effettivamente impugnati"; è necessario però ricordare la posizione di R. Villata, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., 2009, 897 ss., ora in Scritti di giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2015, 437 e Id., Nuove riflessioni sull’oggetto del processo amministrativo, in Aa. Vv., Studi in onore di Antonio Amorth, Milano, Giuffrè, 1982, vol. I, 707 ss., ora in Scritti di giustizia amministrativa, cit., 576 ss., che ritiene non configurabile il giudizio amministrativo come un giudizio su un rapporto, a differenza del processo civile, perché “le parti non sono in posizione di equiordinazione, avendo una di esse infatti il potere di disporre del bene; la norma non detta la disciplina per determinare la pertinenza del bene, ma regola le condizioni di esercizio del potere spettante alla parte in posizione di supremazia: al giudice, dunque, non spetta di assegnare il bene all’una o all’altra parte, ma di verificare che una di esse eserciti in modo corretto il potere, che l’ordinamento le riconosce, di disporre di quel bene”.
[lxxiii] Sul rapporto amministrativo si rinvia agli studi di G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, Giuffrè, 1980; Id., Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino, in Dir. amm., 2014, 585 ss.; M. Protto, Il rapporto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2008.
[lxxiv] Concorde è la posizione di A. Bartolini, Art. 28-Intervento, in G. Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2015, 377 ss., secondo cui l’apertura del processo amministrativo alle varie tipologie di intervento volontario è sicuramente da accogliere con favore, poiché, “oltre ad essere in linea con le novità contenute nel c.p.a., rappresentano un adeguamento ai mutamenti di ordine sostanziale e processuale verificatisi negli ultimi anni. Difatti, la considerazione secondo cui non è logicamente pensabile che nel processo amministrativo vi sia una parte che vanti una situazione in contrasto sia con l’amministrazione resistente che con il privato ricorrente, risulta essere ancorata ad una visione dei rapporti sostanziali incentrata su uno schema bilatero e ad una concezione dell’oggetto del processo amministrativo di carattere pattizio”; concorde è anche l'opinione di V. Domenichelli, Le parti del processo, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Milano, Giuffrè, 2003, Tomo V, 4340, secondo cui nelle fattispecie di giurisdizione esclusiva, "ove possono essere portate alla cognizione del giudice controversie riguardanti il rapporto prescindendo dall'impugnazione di un atto, si possono ipotizzare anche l'intervento principale, litisconsortile e adesivo".
[lxxv] Così Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, Sez. giurisd., 8 giugno 2022, n. 164, in www.giustizia-amministrativa.it.
[lxxvi] V., già, C.E. Gallo, Appello nel processo amministrativo, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1987, Vol. I, 315 ss.
[lxxvii] Ex multis, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 6 dicembre 1983, n. 741, in Cons. Stato, 1983, I, 1329; non è appellabile l'ordinanza di rinvio a nuovo ruolo, Cons. Stato, Sez. V, 4 novembre 1983, n. 528, ibid., 1185.
[lxxviii] Secondo F. Ancora, Irricevibilità e inammissibilità nel processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022, “il ricorso dal Giudice dichiarato inammissibile o irricevibile presenta lo stato della nullità, sicché la inammissibilità e la irricevibilità sono solo formule di conclusione del giudizio che non hanno sotto di loro una distinta sostanza e viceversa, sono unite dall’intervenire su un atto di iniziativa processuale che presenta la più generale condizione della nullità”; in generale v. la classica voce di A. Lugo, Inammissibilità e improcedibilità (Diritto processuale civile), in Nss. Dig. It., Torino, Utet, 1962, 483 ss.
[lxxix] Su questa norma e le previsioni del d.l. 9 giugno 2021, n. 80 cfr. G. Carlotti, Smaltimento dell’arretrato, in l’Amministrativista, 21 settembre 2022. Interessanti, al riguardo, le osservazioni di F. Volpe, Il processo amministrativo dopo il Covid, in Giustizia Insieme, 2 giugno 2022, secondo cui un dato di fatto è che il Covid ha comportato la diminuzione del contenzioso dinnanzi al giudice amministrativo; “quasi in ogni parte d’Italia, i nuovi ruoli si sono assottigliati e pure l’arretrato probabilmente si è ridimensionato. Forse, si dovrebbe approfittare dell’occasione per tentare una riforma generale del processo amministrativo, capace di condurre a una maggiore celerità dei giudizi e a una maggiore efficacia delle tutele, senza troppo temere l’impatto sullo svolgimento delle funzioni correnti che una tale iniziativa potrebbe arrecare”.
[lxxx] La sentenza in forma semplificata rappresenta un modo particolare, ma oramai sempre più diffuso, di definizione del giudizio amministrativo: in letteratura, cfr., ad esempio, F. Risso, La sentenza in forma semplificata, in www.giustizia-amministrativa.it, 2019; R. De Nictolis, Le sentenze del giudice amministrativo in forma semplificata. Tra mito e realtà, in www.giustizia-amministrativa.it, 2017, 1 ss.; C. Crescenti, A. Storto, La sentenza in forma semplificata, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2016, 1087 ss.; A. Police, Le decisioni in forma semplificata (cosiddetto giudizio immediato), in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, Cedam, 2014, 541 ss.; C. Cacciavillani, Completezza dell’istruttoria documentale e sentenza in forma semplificata, in Giur. it., 2012, 5, 1168 ss.; C.E. Gallo, Art. 74 Sentenza in forma semplificata, in A. Quaranta, V. Lopilato (a cura di) Il processo Amministrativo, Commentario al D.lgs. 104/2010, Milano, Giuffrè, 2011, 586 ss.; A. Clini, La forma semplificata della sentenza nel “giusto” processo amministrativo, Padova, Cedam, 2009; E. Sticchi Damiani, La sentenza in forma semplificata, in Foro amm. CdS, 2008, 2857 ss.; M. Sinisi, La disciplina della decisione in forma semplificata, la garanzia del contraddittorio e il giusto processo. Profili di dubbia legittimità, in Foro amm. TAR, 2008, 413 ss.; G. Barbagallo, La decisione in forma semplificata, in Cons. Stato, 2004, II, 1928 ss.; v. anche E.M. Marenghi, Processo senza modello e giustizia semplificata, in Dir. proc. Amm., 2012,885 ss.
[lxxxi] Tra le più recenti pubblicazioni si v. E. Follieri, A. Barone (a cura di), I principi vincolanti dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato sul codice del processo amministrativo, Padova, Cedam, 2015; G. Pesce, L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato e il vincolo del precedente, Napoli, Esi, 2012.
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