ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Magistrati sul campo, magistrati nella vita. Il Torneo A.N.M. di calcio
di Ignazio Fonzo, Procuratore aggiunto e allenatore UEFA B
Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: “Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?”. “Non glielo spiegherei” rispose. “Gli darei un pallone per farlo giocare”(Eduardo Galeano).
“Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio” (José Mourinho).
“Il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti” (Arrigo Sacchi).
“Alcuni pensano che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d'accordo. Posso assicurarvi che è molto, molto di più” (Bill Shankly).
Queste frasi, la prima riportata dal grande scrittore sudamericano le altre di tre formidabili maestri di questo gioco, racchiudono la vera essenza del calcio.
Oreste Tolone (ricercatore senior di Filosofia morale presso l’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara) ha curato l’edizione del libro Filosofia del calcio di Bernhard Welte.
Ciò che emerge nel saggio, a proposito della popolarità planetaria del football, é che” questo successo avrebbe radici più profonde. Esso nascerebbe dal fatto che nel calcio troverebbe piena espressione un archetipo del comportamento umano, una disposizione fondamentale dell’uomo in campi di battaglia, in gare di rivalità con avversari a cui contendere una vittoria; ma allo stesso tempo una predisposizione della natura umana alla ricerca dell’ordine continuamente desiderato e richiesto. Nel calcio, più che altrove, impulso agonistico e rituale agonistico – la regolamentazione a cui il combattimento sottostà – trovano un pieno equilibrio e una piena possibilità di manifestazione”.
Per Welte il calcio ha addirittura una funzione escatologica, ed a questo proposito il filosofo, come sottolinea Tolone, sostiene che il calcio “é emblema di una irrinunciabile tensione dell’uomo verso una società e un mondo più ordinati e pacificati. L’impulso agonistico pone sin da subito l’’uomo all’’interno di una partita, di un campo di scontro nel quale esercitare questa sua innata propensione alla contesa; contesa che, nonostante i singoli scontri e le singole battaglie, continua a riproporsi incessantemente, partita dopo partita, quasi a dimostrazione di una sua radice mitica. La gara di rivalità tra avversari, tuttavia, è sempre pronta a trasformarsi in uno scontro di ostilità fra nemici, il cui esito è incerto fino alla conclusione. Il fatto, tuttavia, che esistono regolamenti e arbitri che presiedono all’applicazione dei regolamenti, serve nel gioco e nel calcio a impedire che avvenga questo travalicamento. Il gioco sportivo è una sorta di anticipazione del principio speranza di Ernst Bloch, la testimonianza che una forma di convivenza pacifica e pacificata, ordinata è possibile: la testimonianza di un confronto-scontro civile, di vivaci conflitti, che indicano un perfetto equilibrio tra la vitalità dell’’esistenza e l’ordine. In termini teologici giocare a calcio, contenere i conflitti all’interno di un rituale prelude a una forma di convivenza perfetta, a una forma di vita irrealizzabile nella storia, e che dunque trova un suo pieno corrispettivo in ciò che nella Bibbia viene definito il Regno di Dio. L’ agonismo sportivo, nella sua capacità di consentire una tensione pacifica, è un’ anticipazione del Regno di Dio”.
Il calcio come “metafora della vita”, “perché la vita viene giocata con le carte di cui disponiamo, facendo i conti con l’imprevedibile che sfugge al nostro controllo, contendendo spesso ad altri concorrenti il risultato finale. Questo scenario, direbbe Welte, vede l’uomo agire in un campo di contese – la concorrenza nel libero mercato potrebbe esserne un esempio – che rischia continuamente di trasformarsi in un campo di battaglia, se non intervengono regolamenti, leggi, norme a contenere tale rischio; nella vita spesso inutilmente, nel gioco e nello sport quasi sempre con successo.”
Dopo questa lunga introduzione, forse noiosa e supponente tenendo conto che anche il calcio (lo sport tutto) ha inevitabilmente le sue magagne ed i suoi lati tristi ed oscuri come ben noto, qualcuno si chiederà dove si vuole andare a parare (tanto per restare in tema …).
È semplice: dal 23 al 25 aprile 2023 a Coverciano (FI) presso il Centro Tecnico Federale della FIGC si disputerà la IX edizione del Torneo di calcio ad 8 ANM.
La magistratura, ed i singoli magistrati, non vivono in una turris eburnea, non si rinchiudono in attività slegate dagli affari pratici della vita di ogni giorno, interagiscono con il mondo, figli del loro tempo.
Ed in questo essere, come é normale, espressione della società sono anch’ essi (i magistrati, ça va sans dire) appassionati, tifosi e, non ci si stupisca, calciatori (sic!), allenatori (doppio sic !) e dirigenti (triplo sic!).
Ed é così che dal 2015, dopo un’edizione estemporanea del 2009 limitata a rappresentative regionali vinta dalla selezione siciliana, grazie all’ iniziativa della sezione ANM piemontese il Torneo di calcio ad 8 é stato nuovamente organizzato con squadre rappresentative delle Corti d’Appello.
Dalle dieci squadre presenti nella città sabauda (Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Lecce, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia), si è arrivati alle diciassette presenti all’ultima edizione perugina del 2022 ed annunciate per l’edizione 2023 (si sono aggiunte Abruzzo, Caltanissetta, Catanzaro, Messina, Milano, Salerno, Partenope – Napoli 2, Reggio Calabria, Umbria, si è persa per strada, per sopravvenuta mancanza di vocazioni, Venezia…).
Può subito sottolinearsi che, nel corso degli anni, la partecipazione sempre crescente ha fatto sì che, in un clima di grande empatia, il numero di magistrati – calciatori (si fa sempre per dire…) sia esponenzialmente cresciuto fino a superare le 300 unità.
Gli sforzi organizzativi sono diventati non indifferenti, in un contesto ove principalmente si fa ricorso all’autofinanziamento, non trascurando la possibilità di fare beneficenza.
Basti solo ricordare un piccolo esempio concreto.
Edizione 2018, Lecce.
Tutte le squadre si autotassarono e la somma di denaro raccolta fu devoluta alla palestra di judo di Scampia (Napoli) gestita dal Maestro Gianni Maddaloni, nota per operare in una zona campana ad alto rischio camorristico, che per difficoltà economiche rischiava la chiusura: lo sfratto fu scongiurato!
Si deve rimarcare, quindi, che nel corso di questi anni si sono verificate esattamente le situazioni richiamate all’inizio.
300 e passa magistrati, proprio come il bambino di Dorothee Solle, per un week end l’anno generalmente a fine aprile, giocano a pallone e quindi conoscono la felicità!
Per questi stessi magistrati, nel medesimo periodo, il calcio, come affermato da Arrigo Sacchi, diventa la cosa più importante delle cose meno importanti!
Ovviamente essi - presuntuosamente ? – pensano di sapere di calcio (sic !), ma in realtà nulla sanno, contrariamente a quanto sostenuto da Josè Mourinho, anche se a vederli giocare sembra veramente che il calcio sia più di una questione di vita o di morte, come sosteneva Bill Shankly!
In conclusione, l’appuntamento, per chi ne avrà voglia è per il prossimo 23 aprile, a Coverciano, sui campi verdi dove si allena anche la Nazionale italiana, che si spera di non “sminuire” con la nostra presenza.
Infine, l’albo d’oro delle edizioni precedenti con le finaliste vincenti:
2015 Napoli (d.c.r. vs Catania)
2016 Catania (d.c.r. vs Palermo)
2017 Napoli (d.c.r. vs Palermo)
2018 Cagliari/Milano (d.c.r. vs Catania)
2019 Roma (vs Torino)
2020 non disputato
2021 Reggio Calabria (d.c.r. vs Palermo)
2022 Roma (vs Milano)
2023 ?
Vicinitas e dies a quo del termine di impugnazione: tra potenzialità e attualità della lesione (nota a Tar Lecce, sez. I, n. 1665/2022)
di Edoardo Pellegrino
Sommario: 1. I fatti ed il ricorso al Tar Lecce - 2. Sui presupposti processuali: interesse al ricorso e vicinitas - 2.1. Vicinitas e presunzioni - 3. Dies a quo del termine di impugnazione: potenzialità o integralità? - 4. Conclusioni.
1. I fatti ed il ricorso al Tar Lecce.
Il Tar Lecce, con la recente pronuncia[1], ha fornito una interessante lettura circa la portata dell’onere di diligenza in relazione al termine per l’impugnazione di un permesso di costruire, ove sia contestato non l’an, ma il quantum di edificabilità dell’area.
In particolare, i giudici affrontano la delicata questione dell’onere incombente sulla parte che assume di poter subire una lesione dal completamento di uno stabile non ancora ultimato, sciogliendo il conseguente dubbio circa l’individuazione del dies a quo dell’impugnazione. Sono due le alternative sul punto già vagliate da altri Tribunali amministrativi[2] e dal Consiglio di Stato[3]: ritenere sufficiente la prospettazione di una futura lesione causata dal completamento dell’opera oppure, al contrario, attendere che la costruzione dell’immobile sia portata a compimento per verificare la concretizzazione della lesione stessa.
La sentenza in commento offre, altresì, lo spunto per affrontare la tematica afferente alla legittimazione ad agire[4] e all’interesse a ricorrere, con particolare riferimento all’elemento della vicinitas[5], di recente oggetto anche di varie pronunce del Consiglio di Stato.
Sul punto, in particolare, è interessante vagliare il rapporto tra tale elemento e alcune presunzioni che possono operare nell’ambito del processo amministrativo. Su un primo versante, come si vedrà, la vicinitas è stata “letta” da parte della giurisprudenza come presunzione di interesse a ricorrere. Sotto altro angolo visuale, la vicinitas è stata interpretata anche come indice presuntivo di conoscibilità della possibile lesione subenda da parte del ricorrente.
Nella nostra vicenda Tizia e Caia hanno proposto ricorso al Tar Lecce avverso il comune Alfa, nonché nei confronti della società Beta, per l’annullamento di un permesso di costruire viziato, secondo la tesi delle ricorrenti, non tanto nell’an, quanto nel quantum, perché l’intervento ultimato comporterebbe la realizzazione di un edificio di dimensioni e di altezza rilevanti, tale da impedire completamente la vista del mare.
In altre parole, le ricorrenti fondano il proprio interesse a ricorrere sull’assunto di essere proprietarie di due unità immobiliari dalle quali, una volta terminata l’opera oggetto di permesso di costruire, non sarebbe più stato possibile vedere il mare, concretizzandosi, dunque, in tale evento il danno lamentato.
A fronte di tale contestazione, si è costituita la società Beta, la quale ha preliminarmente evidenziato la tardività del ricorso. In particolare, e questo punto, come si vedrà, si rivelerà nodale, la società afferma che la potenziale lesione sarebbe stata conoscibile sin dal momento della pubblicazione del permesso di costruire nell’albo pretorio oppure, al più tardi, dal momento della esposizione del cartello di cantiere (contenente gli estremi del titolo edilizio, gli interventi assentiti e il renderdelle opere di progetto) e non anche, come sostenuto dalle ricorrenti, dal momento del completamento dell’opera.
Il Tar Lecce, coerentemente con la giurisprudenza del Consiglio di Stato, con la sentenza in commento sposa la tesi della società Beta, ritenendo sufficiente, per individuare il dies a quo, la conoscibilità della lesione che la parte subirà dal completamento dell’opera (nel caso di specie garantita quanto meno dalla esposizione del cartello di cantiere).
Come anticipato, dunque, la pronuncia in commento offre lo spunto per affrontare alcune delle tematiche che afferiscono ai presupposti e ai termini processuali e che sono state, di recente, oggetto di dibattito giurisprudenziale.
2. Sui presupposti processuali: interesse al ricorso e vicinitas.
Tale questione inevitabilmente si interseca con quella, chiaramente molto più ampia e sulla quale, pertanto, non ci soffermeremo in profondità, della tipologia di giurisdizione (amministrativa) accolta nel nostro ordinamento: giurisdizione oggettiva o soggettiva.
Come noto, a lungo la giurisdizione amministrativa è stata interpretata in senso obiettivo avente, dunque, come principale scopo quello di tutelare il primario interesse pubblico e solo occasionalmente quello privato imbattutosi nel potere pubblico. In altre parole, intanto il privato poteva tutelare una propria posizione giuridica soggettiva, in quanto tale tutela rappresentasse un riflesso del perseguimento dell’interesse pubblico.
Tuttavia, tale impostazione, evidentemente, sacrifica l’interesse del cittadino a mera posizione strumentale rispetto a quella pubblicistica, rischiando di creare un significativo vuoto di tutela.
Per tale ragione, in disparte da alcuni interventi normativi che hanno fatto vacillare un tale assunto[6], da tempo si ritiene preferibile un modello di giurisdizione soggettiva[7] in cui la predetta impostazione risulta capovolta: la situazione soggettiva del privato assume una importanza “frontale”, mentre la tutela del pubblico interesse è perseguita indirettamente[8].
Ciò comporta, come immeditato corollario, la centralità assoluta nel processo amministrativo del bene della vita, ovvero del “vantaggio” personale e concreto cui aspira il ricorrente in virtù della propria posizione differenziata rispetto al cittadino comune.
Come noto, infatti, al fine di attivare un giudizio amministrativo è necessario che sussistano le tre condizioni della legittimazione al ricorso, dell’interesse ad agire e della legitimatio ad causam attiva o passiva[9].
La prima consente di capire chi possa agire in giudizio, individuando il soggetto titolare della posizione giuridica soggettiva differenziata e qualificata, nonché protetta dall’ordinamento; il quale ha anche la conseguente tutela processuale, differenziandosi dal quisque de populo.
A differenza del processo civile, in cui la legittimazione ad agire si sostanzia nell’affermazione (o prospettazione) della titolarità di una situazione giuridica soggettiva, nel processo amministrativo non è sufficiente la mera prospettazione dell’interesse legittimo (o diritto soggettivo nelle materie di giurisdizione esclusiva), essendo necessaria l’effettiva titolarità della situazione soggettiva[10]. In altre parole, si ha una sorta di sovrapposizione della legittimazione ad agire con l’interesse legittimo in omaggio ad una “premessa iperpositivistica”[11].
Il problema di una siffatta impostazione, se intesa in senso restrittivo, è che resterebbero esclusi dalla tutela innanzi al giudice amministrativo i soggetti terzi rispetto al provvedimento, nonostante siano stati incisi dallo stesso, perché estranei al rapporto amministrativo. Per tale motivo, come vedremo, la giurisprudenza utilizza anche altri criteri per agganciare la legittimazione del terzo a ricorrere come, nel caso di cui ci occupiamo, la vicinitas.
La seconda condizione si sostanzia nell’interesse ad agire (o interesse al ricorso), disciplinato dall’art. 100 c.p.c., il quale trova applicazione nel processo amministrativo mediante il rinvio esterno dell’art. 39 c.p.a. alle norme sul processo civile. L’interesse si sostanzia nell’utilità concreta che il ricorrente può trarre dalla pronuncia che chiede al giudice.
Quindi, è necessario un collegamento con una posizione giuridica sostanziale.
Il problema, come detto, si pone con il soggetto terzo che, come nel caso di specie, afferma di essere leso da un provvedimento che non è destinato ad operare direttamente nei suoi confronti.
In termini generali, il vicino è titolare di un interesse legittimo oppositivo consistente nella finalità di avversare un atto ampliativo della sfera di altri soggetti (nel caso di specie un permesso di costruire).
La questione sorge dal momento che il provvedimento ed il procedimento amministrativo non contemplano tra i destinatari il terzo (rectius: il vicino) e dunque si pone, innanzitutto, il problema di stabilire se ed in che misura l’interesse a contrastare l’atto ampliativo da parte del terzo possa considerarsi qualificato e differenziato, nonché di individuare i criteri in base ai quali si possa identificare tale interesse.
Da un punto di vista storico, l’art. 10, comma 9, della L. 765/1967 (c.d. legge ponte)[12] affermava testualmente che “chiunque (…) può ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”. Stando al tenore letterale di tale norma, dunque, sembrava che il legislatore avesse previsto un’ipotesi di giurisdizione oggettiva giacché non si richiedevano particolari posizioni qualificate al fine di impugnare il rilascio della licenza edilizia, identificando, piuttosto, un interesse alla regolarità urbanistica; interesse, dunque, per la sua vastità, giustiziabile su iniziativa di chiunque.
Tuttavia, al fine di scongiurare la configurabilità di un’azione popolare, la giurisprudenza ha richiesto, operando una rilettura della legittimazione a ricorrere in chiave soggettivistica, un criterio che radicasse il ricorrente all’area interessata dall’intervento edilizio[13]; la vicinitas, appunto.
Conseguentemente, l’elemento della vicinanza quale necessario requisito della legittimazione ad agire, nasce come criterio volto a restringere l’area dei potenziali ricorrenti, scongiurando un’ipotesi di giurisdizione oggettiva, peraltro in un settore particolarmente sensibile quale quello urbanistico.
Superate, almeno tendenzialmente, le istanze oggettivistiche con l’avvento del c.p.a. che, come detto, richiama, mediante l’art. 39, l’art. 100 c.p.c. il problema che si pone è in una certa misura speculare rispetto a quello affrontato post legge del ’67: è possibile individuare un interesse differenziato e qualificato in capo al vicino, tale da permettergli di impugnare un provvedimento ampliativo della sfera giuridica altrui? Ecco, di nuovo, giungere in soccorso il criterio della vicinitas, questa volta con finalità ampliative della legittimazione processuale, consentendo al terzo di impugnare un titolo edilizio afferente alla stessa area alla quale è collegato il terzo stesso.
Il problema che si è posto, a questo punto, è quello di indagare circa la sufficienza o meno della vicinanza al fine di fondare tanto la legittimazione ad agire, quanto l’interesse al ricorso.
Secondo un primo orientamento[14], maggioritario sino alla recente decisone dell’Adunanza Plenaria, il criterio della vicinitas è di per sé idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli titoli edilizi, assorbendo in sé anche il profilo dell’interesse all’impugnazione[15].
Tale impostazione, sostanzialmente, si fonda sull’originaria funzione attribuita alla vicinitas (scongiurare un’azione popolare) e sulla considerazione che, diversamente opinando, si pretenderebbe una probatio diabolica (la prova dello specifico pregiudizio subito) andando ad incidere sul diritto costituzionalmente tutelato di adire l’autorità giudiziaria per la tutela di posizioni giuridiche soggettive. Per evitare tale eventualità, si individua una presunzione di interesse a ricorrere sulla base della vicinanza del ricorrente all’immobile oggetto di intervento edilizio.
Diversamente, per altra impostazione[16], la vicinitas è idonea a radicare la legittimazione ad agire, ma non è di per sé elemento sufficiente a fondare l’interesse a impugnare, dovendosi ulteriormente dimostrare che quanto contestato abbia la capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sulla proprietà del ricorrente.
Sul punto, l’Adunanza Plenaria[17], sposando quest’ultima impostazione, ha riaffermato la distinzione tra interesse e legittimazione a ricorrere postulando la necessaria dimostrazione, oltre che della vicinitas anche della lesione in concreto subita dal ricorrente e ricollegata al titolo edilizio impugnato.
2.1. Vicinitas e presunzioni.
Stando a quanto affermato dal primo degli orientamenti in precedenza riportati, la vicinitas sarebbe idonea, dunque, a conglobare oltre alla legittimazione ad agire anche l’interesse a ricorrere.
Tuttavia, una volta superata tale impostazione, sovviene una seconda e, in un certo senso, speculare presunzione legata al concetto di vicinitas: quella riguardante la conoscibilità da parte del soggetto terzo della potenziale lesione che subirà dal completamento dell’opera. Questo tema, senza dubbio, risulta inscindibilmente legato a quanto si dirà nel prosieguo in tema di dies a quo del termine di impugnazione; tuttavia, per ragioni strutturali, è necessario “anticipare” l’argomento in tema di vicinitas.
In altre parole, si può sostenere, e parte della giurisprudenza[18] sostiene, che la vicinanza del soggetto terzo (identificato, appunto, come vicino) possa fondare, a determinate condizioni, una presunzione relativa di conoscibilità del provvedimento che si assume essere lesivo.
In concreto, ponendo lo sguardo alla fattispecie sottostante la pronuncia in commento, la vicinanza dell’immobile delle ricorrenti a quello oggetto del permesso di costruire costituirebbe indice di conoscibilità del permesso di costruire riportato sul cartellone esposto sul cantiere.
In disparte le questioni legate al termine di impugnazione (su cui infra) e limitandoci alle ricadute probatorie, è interessante notare questo mutamento compiuto nell’interpretazione della vicinitas che da elemento di presunzione dell’interesse a ricorrere diviene presunzione di conoscibilità del provvedimento, comportando un aggravio probatorio in capo al ricorrente.
Lo stesso, infatti, da un lato, dovrà dimostrare oltre alla vicinanza, anche l’interesse a ricorrere, ovvero la lesione derivante dal provvedimento; d’altro canto, a fronte della sussistenza della vicinitas (comunque necessaria per fondare la legittimazione ad agire) lo stesso dovrà anche superare la presunzione di conoscenza del provvedimento dimostrando di aver agito diligentemente e di non aver potuto conoscere il provvedimento, al fine di evitare di incappare nelle conseguenze connesse alla conoscibilità del provvedimento (essenzialmente lo spirare del termine d’impugnazione).
3. Dies a quo del termine di impugnazione: potenzialità o integralità?
Come detto in apertura, lo snodo principale della pronuncia in commento riguarda il dies a quo del termine per impugnare il permesso di costruire.
L’alternativa si pone tra la conoscibilità della futura lesione che si concretizzerà al momento dell’ultimazione dell’immobile e la esistenza attuale di siffatta lesione, ovvero il completamento della costruzione.
La questione è, senza dubbio, strettamente connessa alla tematica della diligenza[19] e del comportamento secondo buona fede giacché sposare l’una o l’altra soluzione implica, inevitabilmente, un allargamento o un restringimento delle maglie di operatività di tali principi. Qualora si sposasse, infatti, la tesi della attualità della lesione si depotenzierebbe la portata dell’obbligo di agire secondo buona fede poiché si consentirebbe al (futuro) ricorrente di attendere il completamento dell’opera per poi far valere le proprie censure.
Come noto, infatti, nei giudizi di legittimità il termine per impugnare l’atto decorre, per i soggetti destinatari, dal momento della notifica del provvedimento; per i soggetti terzi non esplicitamente indicati dal provvedimento, invece, dal momento della sua pubblicazione o comunque dalla piena conoscenza dello stesso. Risulta evidente, dunque, in astratto, che la pubblicazione pone un evidente onere di diligenza a carico degli interessati che devono verificare l’eventuale lesività del provvedimento.
Il problema, infatti, è quello di individuare il corretto punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela giurisdizionale del terzo nei confronti di un titolo edilizio che si assume essere illegittimo e l’altrettanto meritevole interesse del titolare del permesso di costruire di poter fare affidamento sulla legittimità del titolo in modo da garantire la fiducia sulla stabilità del titolo stesso.
È evidente, infatti, che accogliendo la seconda impostazione si sacrificherebbe ingiustificatamente l’interesse del titolare del titolo edilizio per il solo fatto del comportamento negligente del terzo.
Con la pronuncia in commento, il Tar Lecce aderisce al primo degli esposti orientamenti, ponendosi in continuità con un orientamento giurisprudenziale[20] oramai divenuto maggioritario, stando al quale il dies a quo del termine di impugnazione di un permesso di costruire è quello in cui le opere realizzate rivelano, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l’entità delle violazioni urbanistiche e della lesione eventualmente derivante dal provvedimento.
In altre parole, non è necessario attendere il completamento dell’opera posto che ciò determinerebbe il sorgere di una tutela irragionevolmente sbilanciata in favore del terzo. Di contro, su chi si ritenga leso incombe, come detto, un inevitabile onere di diligenza informativa circa la reale portata dell’immobile in via di costruzione e delle sue caratteristiche al fine di vagliarne, in anticipo, l’eventuale illegittimità e lesività dello stesso.
Tale soluzione rappresenta una valorizzazione del combinato disposto dei principi di buona fede e autoresponsabilità ex art. 1227 c.c.[21] i quali impongono di agire proattivamente e diligentemente al fine di poter, poi, domandare tutela giacché “vigilantibus, non dormientibus iura succurrunt”.
Una volta esclusa la possibilità di attendere il completamento dell’opera, il punto, allora, è individuare il momento esatto da cui si possa desumere la conoscibilità della lesività del provvedimento, ovvero del momento a partire dal quale un soggetto diligente possa avere cognizione effettiva della portata dell’opera e della sua potenziale lesività.
La sentenza individua due momenti alternativi consistenti nella pubblicazione nell’albo pretorio del provvedimento e nell’esposizione del cartello di cantiere (contenente, tra l’altro, un dettagliato render dell’opera stessa). Il primo, infatti, previsto dall’art. 20, comma 6, d.P.R. 380/2001, costituisce un indice di conoscibilità generalizzato, posto che risulta accessibile da chiunque.
Il secondo, reso obbligatorio dall’art. 27, comma 4, d.P.R. 380/2001, può essere inteso quale indice di conoscibilità particolare, riferito alla zona di interesse della costruzione. In altre parole, l’esposizione del cartello di cantiere rende conoscibile la portata dell’opera a chiunque frequenti abitualmente l’area interessata.
A questo punto la tematica si ricollega a quella della vicinitas e alla seconda delle presunzioni viste in precedenza.
A fronte di quanto detto supra, l’effettiva sussistenza della vicinanza, necessaria ai fini del radicamento della legittimazione ad agire, comporta la presunzione di conoscenza dell’esposizione del cartello di cantiere e quindi, del provvedimento stesso.
Si può dire, in ultima analisi, che sia la vicinitas a far scattare quel binomio diligenza- autoresponsabilità di cui si è detto in precedenza. In altre parole, qualora il terzo sia effettivamente vicino rispetto all’opera che si assume essere lesiva (condizione necessaria per radicare la legittimazione ad agire), il termine per impugnare il provvedimento inizierà a decorrere, al più, dal momento dell’esposizione del cartello di cantiere.
Il soggetto terzo, dunque, dovrà adoperarsi al fine di esercitare l’eventuale diritto di accesso per conoscere compiutamente gli atti del procedimento amministrativo sfociato nel provvedimento lesivo e per impugnare il provvedimento stesso. Infatti, stando a tale filone interpretativo, l’esercizio del diritto di accesso non può comportare una dilatazione del termine per impugnare il titolo edilizio con la conseguenza che anche tale diritto dovrà essere esercitato con solerzia al fine di non veder spirare il termine suddetto.
4. Coclusioni.
La pronuncia in commento consente, dunque, di riflettere su due snodi importanti e di recente attualità del contenzioso in materia edilizia.
In primo luogo, è interessare constatare l’evoluzione che ha interessato il concetto di vicinitas, passato da criterio utilizzato per restringere la legittimazione ad agire fino a divenire elemento fondante una presunzione di conoscenza della lesività di un provvedimento amministrativo.
Inoltre, venendo al cuore della sentenza, il Tar Lecce correttamente sposa l’orientamento che individua il dies a quodel termine per impugnare un provvedimento amministrativo nel momento di percepibilità della futura lesività del provvedimento stesso.
La soluzione adottata dai giudici leccesi appare corretta giacché si pone in continuità con un’evoluzione del processo (e del diritto sostanziale) amministrativo in cui si esalta il ruolo della diligenza e del principio di buona fede il quale, avendo portata bilaterale[22], deve informare anche il comportamento del privato, il quale ha l’onere di agire secondo i canoni della diligenza e dell’autoresponsabilità.
In realtà, a ben vedere, la fattispecie oggetto di sentenza involge un concetto di buona fede processuale che non riguarda solamente il binomio P.A. privato giacché, in questo caso, il comportamento diligente e di buona fede del soggetto terzo è imposto al fine di non sacrificare l’affidamento di un altro soggetto privato, il destinatario del titolo edilizio. Ciò comporta, dunque, una ulteriore valorizzazione del principio di buona fede poiché, come noto, in ambito di rapporti paritari risulta essere un principio cardine dell’ordinamento che non può tollerare comportamenti negligenti a discapito dell’altrui affidamento.
Alla luce di quanto detto, dunque, appare ormai inevitabile il consolidamento di tale orientamento e l’abbandono definitivo di quello che individua nel completamento dell’opera il momento a partire dal quale è possibile percepire la lesività del provvedimento e avvertire, dunque, il bisogno di tutela che innesca la volontà di impugnare tale provvedimento.
Appare coerente, in chiusura, la saldatura effettuata tra vicinitas e percepibilità della lesività del provvedimento con la prima che assurge a criterio stabile per presumere (salvo prova contraria) la conoscibilità dell’illegittimità e della lesività del provvedimento stesso.
[1] Il riferimento è a Tar Puglia, Lecce, sez. I, N. 1665/2022, in annotazione.
[2] Oltre alla sentenza in commento, si segnala Tar Campania, Napoli, sez II, n. 19/2022.
[3] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 7804/2022, Cons. Stato, sez. II, n. 4390/2019, Cons. Stato, sez. IV n. 3075/2018 e, naturalmente, Cons. Stato, Ad. Plen. n. 15/2011.
[4] C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Rimini, 2012; B. Giliberti, Contributo alla riflessione sulla legittimazione ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2020; M. Magri, L’interesse legittimo oltre la teoria generale, Rimini, 2017; S. Mirate, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo, Milano, 2018; G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, Rimini, 2016; I. Piazza, L’imparzialità amministrativa come diritto, Rimini, 2021; P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, Napoli, 2021.
[5] E. Travi, Vicinitas e interesse a ricorrere, in Foro it., 2018, III, 216 (nota a Cons. Stato, sez. IV, nn. 706/2018 e 707/2018).
[6] Ci si riferisce ai diversi poteri officiosi del giudice previsti nel contenzioso in materia di appalti; alla legittimazione dell’Agcm a impugnare gli atti amministrativi lesivi della concorrenza ex art. 21-bis, l. 287/1990.
[7] Corte cost., 13 dicembre 2019, n. 271. Per alcuni commenti, si vedano A. Travi in Foro it. 2020, I, p 1121; F. G. Scoca, Rito superaccelerato e discrezionalità del legislatore, in Giur. costit. 2019, p. 3248.
[8] Sul punto si vedano, P.L. Portaluri, Interessi e formanti giurisprudenziali: l’anti-Ranelletti?, in giustizia-amministrativa.it e in Urb. App., 2007; P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit., p.127; in giurisprudenza si veda Cons. Stato, sez. VI, n. 1321/2019 in cui si afferma che è possibile “capovolgere definitivamente l’allocazione tradizionale delle due situazioni soggettive, entrambe attive, che si muovono nel processo, e ci si può forse spingere ad affermare che è l’interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo”.
[9] Cons. Stato, Ad. Plen., 27 aprile 2015, n. 5. Per alcuni commenti si vedano: A. Travi, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel giudizio amministrativo, in Foro it., 2015, III, p. 265; D. Vaiano, Ordine di esame dei motivi, principio della domanda e funzione del giudice amministrativo, Urbanistica e appalti, 2015, p. 1177; G. Fanelli, “Tassonomia delle modalità di esercizio della potestas iudicandi” e tecnica decisoria dell’assorbimento in Riv. dir. proc., 2015, 1256; E. Follieri, Due passi avanti e uno indietro nell’affermazione della giurisdizione soggettiva, in Giur. it., 2015, p. 2192; L. R. Perfetti e G. Tropea, “Heart of darkness”: l’Adunanza Plenaria tra ordine di esame ed assorbimento dei motivi, Dir. proc. amm., 2015, p. 205. Per la verità, secondo una dottrina le condizioni dell’azione sarebbero quattro perché dovrebbe considerarsi quale ulteriore condizione la meritevolezza con una finalità, evidentemente, restrittiva dell’accesso alla tutela giudiziale. Cfr., sul punto, M.F. Ghirga, principi processuali e meritevolezza della tutela richiesta, in Riv. Dir. Proc., 2020. Critica questo punto P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit., p.112 e ss., ove si sottolinea la pericolosità di una “teoria costruita in funzione restrittiva della tutela, ma che muove da presupposti indefiniti” perché la stessa “immette nel sistema un livello di incertezza che appare intollerabile anche per il rischio – cui si da la stura – di una svolta autoritaria e illiberale del diritto processuale”.
[10] Tale impostazione, in realtà, è messa in dubbio da A. Romano, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975 e da M. Clarich, I poteri di impugnativa dell’Agcm ai sensi del nuovo art. 21-bis l. 287/90, in giustizia-amministrativa.it, 2013.
[11] L’espressione è di P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit., p.122. Il riferimento è a G. Mannucci, la tutela dei terzi nel diritto amministrativo. Dalla legalità ai diritti, Rimini, 2016.
[12] V. Spagnuolo Vigorita, Interesse pubblico e azione popolare nella legge-ponte per l’urbanistica, in Riv. giur. ed., 1967, II, p. 387 ss.; A.M. Sandulli, L’azione popolare contro le licenze edilizie, in Scritti giuridici, vol. VI, Napoli, 1990.
[13] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. N. 23/1977.
[14] Cons. Stato, sez. IV, n. 6082/2013, secondo cui “La mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo”; Cons. Stato, sez. V, n. 360/1981, secondo cui “Anche se, con l'entrata in vigore della l. n. 765 del 1967, ai fini della qualificazione dell'interesse dei terzi a ricorrere contro il rilascio di licenze edilizie è sufficiente quello di opporsi alla degradazione dell'ambiente anche da parte di chi pur non confinante, sia almeno insediato abitativamente in un complesso territoriale più ampio della zona stessa, ciò non significa che sia stata introdotta una nuova azione popolare che legittimi qualsiasi cittadino ad impugnare i provvedimenti; è pertanto carente di interesse chi si opponga ad una licenza edilizia adducendo la lesione di un interesse di natura tipicamente commerciale che deriverebbe dalla realizzazione dell'opera”; Cass. civ., sez. un., n. 18493/2021, secondo cui “La legittimazione dei proprietari d'immobili o dei residenti in un'area interessata da un intervento idraulico ad impugnare atti amministrativi incidenti sull'ambiente (in quanto opere riguardanti acque pubbliche) può fondarsi anche sul solo requisito della "vicinitas", il quale costituisce elemento di differenziazione di interessi qualificati - appartenenti ad una pluralità di soggetti facenti parte di una comunità identificata in base ad un prevalente criterio territoriale che evolvono in situazioni giuridiche tutelabili in giudizio - allorché l'attività conformativa dell'Amministrazione incida in un determinato ambito geografico, modificandone l'assetto nelle sue caratteristiche non soltanto urbanistiche, ma anche paesaggistiche, ecologiche e di salubrità, e venga nel contempo denunziata come foriera di rischi per la salute, senza che occorra la prova puntuale della concreta pericolosità dell'opera, né la ricerca di un soggetto collettivo che assuma la titolarità della corrispondente situazione giuridica”; in dottrina, si veda E. Travi, Vicinitas e interesse a ricorrere, cit., il quale osserva che “La nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il titolo edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere: questo esito sembrava scontato nel momento in cui veniva dato rilievo anche soltanto a una relazione stabile con la «zona» e veniva superata la concezione che ancorava la legittimazione a ricorrere alla titolarità di un diritto reale su immobili confinanti. In questa logica anche l'interesse alla conservazione di un certo ordine urbanistico poteva ritenersi sufficiente ai fini dell'interesse a ricorrere e un interesse del genere sembrava già implicito nel ricorso proposto in forza della vicinitas”.
[15] Si v., sul punto, C.G.A. per la regione siciliana, n. 759/2021, nel rimettere la questione all’Adunanza Plenaria.
[16] Cons. Stato, sez. III, n. 441/2016, secondo cui “Seppure il criterio della vicinitas, al fine di radicare la legittimazione ad agire dei singoli per la tutela del bene ambiente, ha valore elastico, nel senso che si deve necessariamente estendere in ragione proporzionale all'ampiezza e rilevanza delle aree coinvolte, come nel caso di interventi rilevanti che incidono sulla qualità della vita dei residenti in gran parte del territorio, tuttavia non è sufficiente a radicare la legittimazione dei ricorrenti che non abbiano allegato pregiudizi diretti e differenziati”; Cons. Stato, sez. II, n. 3440/2020; Cons. Stato, sez. IV, n. 1656/2019; Cons. Stato, sez. IV, n. 3843/2018.
[17] Cons. Stato, Ad. Plen. n. 22/2021. Per alcuni commenti, si vedano S. Tranquilli, Sull'incerto rapporto tra vicinitas e “vicinanza della prova” dopo la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 22/2021, in Il processo, 2022, p. 201 ss.; F. Saitta, C’era una volta un’azione popolare… mai nata, in Riv. giur. edil., 2021, p. 239 ss.; M. Ceruti, La vicinitas non basta a dimostrare l’interesse al ricorso per l’annullamento dei titoli edilizi. E nella materia ambientale? in RGA online, 2022.
[18] Cons. Stato, Sez. II, n. 566/2021, secondo cui “la vicinitas di un soggetto rispetto all'area e alle opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull'interesse ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità̀ anche prima della conclusione dei lavori; Tar Campania, Napoli, sez. II, n. 19/2022.
[19] Sulla portata della diligenza e del principio di affidamento si veda Cons. Stato, Ad. Plen. nn. 19/2021 e 20/2021.
[20] Cons. Stato, sez. IV, n. 7804/2022, n. 5607/2022; n. 245/2018, n. 5125/2016.
[21] Sulla portata del principio di autoresponsabilità nel diritto amministrativo cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2915/2022 con nota di C. Napolitano, Incertezza normativa e principio di autoresponsabilità degli operatori economici: sempre più verso una “Italia immobile”?, in giustiziainsieme.it, 2022.
[22] A. Di Majo, Diritto civile e amministrativo si contaminano a vicenda?, 2021, in giustizia-amministrativa.it. In giurisprudenza v. Cons. Stato, sez. III, n. 6753/2022.
La riforma Cartabia (d. lgs. n. 150 del 2022) nella esigenza di deflazionare il carico giudiziario, alla luce degli impegni assunti in sede europea, sviluppa i percorsi processuali alternativi connotati da una accentuata premialità.
A fianco ai nuovi percorsi, il legislatore cerca di incentivare l’adesione a quelli già presenti. Sotto questo profilo si possono considerare l’ampliamento dei reati che consentono la sospensione e la messa alla prova, le novità in tema di decreto penale di condanna e quella in tema di patteggiamento.
Si prospettava più difficile ampliare gli spazi di operatività del giudizio abbreviato in quanto destinato ad operare, a differenza degli altri, da percorsi condizionati dalle ipotesi di operatività per tutta la gamma dei reati, con esclusione di quelli puniti con l’ergastolo. Quest’ultimo profilo, del resto, in difetto di un elemento contenuto nella delega e vista la posizione della corte costituzionale che ne ha a più riprese ribadito la legittimità, non era suscettibile di un intervento correttivo.
Confermata la natura acceleratoria e deflattiva del rito, rispetto agli sviluppi dibattimentali, confermata la sanabilità degli atti invalidi rispetto alla richiesta e la premialità di 1/3 per i delitti e la metà per le contravvenzioni, l’incentivo al rito è legato alla possibilità di una ulteriore riduzione della pena applicata con la sentenza di condanna, nella misura di un ulteriore sesto, in caso di mancata impugnazione dell’imputato o del suo difensore.
La presenza di questa possibile premialità, difettando una espressa norma transitoria, ha naturalmente prospettato la possibilità di accedervi alle situazioni in itinere. Si sono evidenziate da subito varie situazioni processuali suscettibili di considerare una possibile applicazione di questa opportunità per la difesa.
Sicuramente questa era praticabile da chi avesse pendenti i termini per proporre impugnazione. La questione sembrava, tuttavia, diversificabile con riferimento a coloro i quali potevano proporre appello e coloro i quali avessero pendenti i tempi per il ricorso in cassazione, avendo proposto appello ovvero essendo stato questo proposto dal pubblico ministero.
Ora, stante la formulazione della previsione che non sembra distinguere tra l’appello ed il ricorso (ancorché forse nella mente del legislatore il riferimento si è incentrato sull’appello dell’imputato) dovrebbe ritenersi che la previsione dell’abbattimento nella misura di un sesto possa operare in entrambe le situazioni delineate.
Resterebbe da considerare la posizione di chi avendo appellato, avesse effettuato un concordato magari con esito favorevole. Anche n questo caso, tuttavia, essendo la decisione impugnabile, seppur nei limiti di cui all’art. 625 bis c.p.p., non potrebbe escludersi l’operatività della previsione premiale.
Prescindendo dalla natura sostanziale o processuale della riduzione, questa sarebbe suscettibile di applicazione, per un verso, in relazione alla retroattività della previsione favorevole e, per un altro verso, per la regola del tempus regit actum.
Mentre questi ultimi profili non sembrano essere stati oggetto di pronunce da parte dei giudici di merito, si sono evidenziati contrasti nelle loro determinazioni. Al riguardo sono emersi orientamenti contrastanti in relazione alla possibilità di riconoscere l’operatività dell’accesso al rito anche successivamente al superamento del momento preclusivo, costituito dalla conclusione delle parti nell’udienza preliminare.
In particolare, alcune pronunce, sulla base del sopravvenire della possibilità della premialità per effetto della mancata impugnazione, hanno ritenuto che questo dato sconosciuto al momento di cui agli artt. 421 e 422 c.p.p. consentisse una possibile legittima richiesta di restituzione in termini (in tal senso Trib. Perugia, ord. 18 gennaio 2023, Signul, giudice Ciliberto).
Non sono mancate, peraltro, come quella in esame, decisioni di segno contrario che sono decisamente condivisibili per una serie piuttosto valida di ragioni (Trib. Milano, ord, 26 gennaio 2023, pres. Guadagnino; Trib. Vasto, ord. 23 gennaio 2023, pres. Giangiacomo).
In primo luogo, il riferimento alla restituzione in termini appare ancorato su ragioni diverse da quelle qui considerate, non emergendo fatti che abbiano impedito al tempo la richiesta del rito contratto.
In secondo luogo, la riferita premialità non appare riconducibile ad un effetto di natura sostanziale favorevole, ma piuttosto ad un incentivo di natura deflattiva processuale.
In terzo luogo, a differenza di quanto previsto per la messa alla prova ed all’applicazione della pena sostitutiva manca una previsione transitoria.
Infine, come citato dal provvedimento in commento, si può richiamare C. cost. n. 263 del 2011 che ha escluso la proponibilità in Cassazione della sopravvenuta previsione della messa alla prova, perché anche nel caso in esame l’applicazione della premialità è l’esito di un percorso che deve essere svolto interamente secondo le sue cadenze.
“Se qualcuno dovesse chiedermi, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: prima di tutto solo cose inutili, greco, latino, matematica pura e filosofia,………….col sapere utile si possono fare solo piccole cose”. Agnes Heller (1929 – 2019), Solo se sono libera
Sommario: 1. Il Piano Scuola 4.0. e la necessità che i giuristi vi prestino attenzione. - 2. I dubbi di legittimità costituzionale di tale rivoluzione scolastica posta in essere con un semplice allegato ad un decreto del Ministero dell’Istruzione. - 3. Le incostituzionalità sostanziali per contrarietà del Piano alla libertà di insegnamento e al diritto degli alunni di ricevere dalla scuola pubblica quella formazione necessaria a renderli cittadini critici di una società democratica. - 4. Qualche riflessioni conclusiva in difesa della scuola pubblica e della sua funzione costituzionale.
1. Il Ministero dell’Istruzione, con il decreto n. 161 del 14 giugno 2022, ha adottato il c.d. “Piano Scuola 4.0.”
Il progetto è previsto dal PNRR per accompagnare le linee di investimento nel campo della didattica digitale (ben 2,1 miliardi di euro).
Il regolamento, “Considerato che il Piano Scuola 4.0. intende favorire la transizione digitale del sistema scolastico italiano con la trasformazione di almeno 100.000 aule della scuole primarie e secondarie in ambienti di apprendimento innovativi adattivi e flessibili, connessi e integrati con tecnologie digitali, fisiche e virtuali, e la creazione di laboratori per le nuove professioni digitali in tutte le scuole superiori, interconnessioni con le imprese e le start-up innovative per la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore delle nuove professioni digitali (come l’intelligenza artificiale, la robotica, la cybersecurity, ecc….)” decreta, all’art. 1, l’adozione di detto Piano Scuola 4.0. “di cui all’allegato 1 al presente decreto, che ne costituisce parte integrante e sostanziale”.
1.2. L’allegato è poi un testo di 24 pagine, nel quale si asserisce che il Piano Scuola 4.0. è diviso in quattro sezioni: la prima sezione Bachground, definisce il contesto dell’intervento; la seconda e la terza, Framework, hanno ad oggetto la progettazione degli ambienti di apprendimento innovativi (Next Generation Classrooms) e dei lavoratori per le professioni digitali del futuro (Next Generation Labs); infine la quarta Roadmap, illustra e sintetizza gli step di attuazione della linea di investimento.
Quanto alle aule, il progetto Next Generation Classrooms intende adattare centomila aule scolastiche ai nuovi “ecosistemi di apprendimento”, ovvero avvalersi “delle pedagogie innovative quali apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamificatione” e ciò lungo tutto il corso dell’anno scolastico “trasformando la classe in un ecosistema di interazione, condivisione, cooperazione, capace di integrare l’utilizzo proattivo delle tecnologie per il miglioramento dell’efficacia didattica e dei risultati di apprendimento”.
Quanto, inoltre, ai laboratori per le professioni digitali del futuro, le scuole devono dotarsi di spazi espressamente dedicati a: “robotica e automazione; intelligenza artificiale; cloud computing; cybersicurezza; internet delle cose; making e modellazione e stampa 3D/4D; creazione di prodotti e servizi digitali; creazione e fruizione di servizi in realtà virtuale; comunicazione digitale; elaborazione, analisi e studio dei big data; economia digitale e-commerce e blockchain”.
Si avranno così esperienze di job shadowing, con approccio work based learning, in grado di valorizzare il project based learning; tali spazi dovranno essere disegnati “come un continuum fra la scuola e il mondo del lavoro”.
Infine, alla luce del principio della Didattica digitale, i docenti dovranno essere divisi in sei livelli di competenza digitale: “A1 Novizio; A2 Esploratore; B1 Sperimentatore; B2 Esperto; C1 Leader; C2 Pioniere”.
Si afferma che “La formazione della didattica digitale de docenti è uno dei pilastri del PNRR e rappresenta una misura fondamentale per l’utilizzo efficace e completo degli ambienti di apprendimento innovativi realizzati nell’ambito di Scuola 4.0…..Un forte impulso alla formazione dei docenti per l’innovazione didattica e digitale sarà prodotto, altresì, dalla riforma 2.2. con l’istituzione della Scuola di Alta formazione e l’adozione di modalità di erogazione della formazione obbligatoria per dirigenti scolastici, docenti e personale tecnico-amministrativo”.
1.3. Ora, io credo che una rivoluzione della nostra scuola così forte e bizzarra non possa essere cosa alla quale i giuristi non prestino attenzione.
La scuola non è questione che riguarda solo i ragazzi, riguarda tutti noi, poiché, ovviamente, il grado di civiltà della nostra società dipende proprio, e in primo luogo, dal grado di civiltà della nostra scuola.
Come già disse Piero Calamandrei l’11 febbraio 1950 al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale: “La scuola, come la vedo io, è un organo costituzionale, è un organo vitale della democrazia”.
Se noi, così, provvediamo a modificare l’assetto della nostra scuola, noi parimenti e inevitabilmente rischiamo di modificare anche l’assetto intero della nostra società.
La scuola, per usare ancora le parole di Piero Calamandrei: “corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue. La scuola ha questo alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere”.
Quindi ritengo che il Piano Scuola 4.0. debba essere oggetto di attenta analisi.
E poiché io trovo che una cosa sia consentire che anche all’interno della scuola possano adoperarsi talune nuove tecnologie per lo svolgimento della didattica, altra cosa sia viceversa la realizzazione di questo (a mio avviso devastante) Piano Scuola 4.0., le riflessioni che seguono mi paiono doverose e necessarie.
2. I dubbi di legittimità costituzionale di tale rivoluzione scolastica posta in essere con un semplice allegato ad un decreto del Ministero dell’Istruzione.
In primo luogo ritengo che il Piano Scuola 4.0. presenti più di un dubbio di legittimità costituzionale.
2.1. Valgano, intanto, queste osservazioni:
a) il D.M. 16 aprile 2022 n. 161 è espressamente indicato come “emanato in attuazione della linea di investimento 3.2, Scuola 4.0: scuole innovative”,
In verità, però, esso non pare proprio emanato in attuazione della linea di investimento, poiché il decreto in questione, per il suo contenuto, ha sostanzialmente dato nuovo volto e nuova dimensione alla scuola e non si è affatto limitato ad attuare aspetti di mero investimento.
Si fosse trattato, che so, di comprare dei nuovi banchi o computers, verniciare i muri o rifare gli infissi degli edifici scolastici, lì è evidente che anche solo un decreto ministeriale sarebbe stato sufficiente.
Ma se, al contrario, si provvede ad una digitalizzazione della scuola nella dimensione estesa e massiva sopra richiamata, allora par chiaro che una simile trasformazione non può assimilarsi ad una mera operazione pratica di investimenti, in quanto travolge la scuola nei suoi valori e principi primi, e dunque l’attuazione del PNRR andava data con una fonte normativa primaria, e non con un regolamento ministeriale.
Dunque, la prima illegittimità (costituzionale) del D.M. 16 aprile 2022 n. 161 pare essere questa: esso contrasta con lo stesso PNRR e con la stessa decisione di esecuzione del Consiglio dell’Unione Europea del 13 luglio 2021 che ha approvato il PNRR, poiché entrambi demandavano al Ministero dell’Istruzione solo l’attuazione degli investimenti e il compimento di quelle attività strumentali e/o materiali relative a ciò, mentre il decreto in questione è andato evidentemente oltre, e ha provveduto a dettare la disciplina della nuova scuola, così eccedendo i limiti di un decreto ministeriale.
b) In ogni caso il D.M. 16 aprile 2022 n. 161 appare altresì emanato in violazione dell’art. 117 Cost., poiché in forza del comma 1, lettera n) di tale disposizione costituzionale le “norme generali sull’istruzione” devono essere date dallo Stato con legge, e non con un decreto ministeriale.
c) Ancora, il testo unico in materia di scuola, d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297, individua espressamente, anche ai sensi dell’art. 17, commi 3 e 4, della legge 23 agosto 1988 n. 400, cosa possa esser dato per regolamento ministeriale e cosa no. E l’art. 205 di detto testo unico prevede che il Ministro della pubblica istruzione possa emanare “uno o più regolamenti per l'esecuzione delle disposizioni relative agli scrutini ed agli esami”, e, di concerto con il Ministro del tesoro, altresì la determinazione delle “materie di insegnamento”; non altro.
Quindi le novità introdotte dal “Piano Scuola 4.0.”, che fuoriescono da questi ambiti, sembrano, anche sotto questo profilo, illegittime.
d) Aggiungo, infine, che non manca chi abbia sottolineato come il PNRR trovi un suo possibile precedente solo nella programmazione economica generale voluta dal Governo di allora e fatta negli anni ’60 in attuazione degli artt. 39 e 41 comma 3, Cost.: anche in quel caso, però, la programmazione veniva adottata per legge, ovvero con la l. 27 luglio 1967, n. 675[1].
2.2. In ogni caso, e quindi anche nell’ipotesi si dovessero ritenere infondate queste mie osservazioni, il PNRR, e i suoi piani di attuazione, devono comunque rispettare i principi costituzionali e le leggi ordinarie esistenti in materia che richiamano quei principi.
Direi che si tratta di un dato non discutibile, e sotto questo profilo mi sia consentito il parallelo con la giustizia.
In tema di riforma della giustizia l’obiettivo del PNRR è stato quello della riduzione dei suoi tempi (v. pag. 63 e ss. del PNRR); tuttavia nessuno ha pensato che per ridurre i tempi della giustizia, ad esempio, potevano comprimersi o annullarsi i diritti costituzionali della tutela dei diritti, quali il diritto all’azione e al contraddittorio, la terzietà del giudice, il diritto alle prove, il diritto alle impugnazioni, ecc…..ne’ chi ha attuato detta riforma ha mai pensato di poter fare una cosa del genere, ne’, ancora, il decreto legislativo di attuazione di riforma del processo civile 10 ottobre 2022 n. 149 ha portato deroga a questo limite, e anzi ha cercato di fare il tutto nell’osservanza dei principi costituzionali del processo.
Ebbene, non vi sono ragioni perché questa regola non viga anche con riferimento alla scuola, ed anzi, direi, addirittura, che il PNRR non fa venir meno nemmeno la forza dell’art. 4 delle preleggi secondo il quale: “I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge”, e a maggior ragione, aggiungerei, alle disposizioni costituzionali.
Ora, se il diritto al contraddittorio e alla terzietà del giudice sono i principi costituzionali cardine della tutela dei diritti, possiamo dire che il diritto alla libertà d’insegnamento e il diritto dei ragazzi a ricevere una educazione culturale ed umana che consenta loro di essere un domani cittadini liberi e dignitosi di una società democratica e pluralista, sono i principi cardini costituzionali in materia di scuola.
Credo sia pacifico che la nostra carta costituzionale, e le disposizioni normative specifiche sulla scuola, quale il testo unico d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297 e il DPR 8 marzo 1999 n. 275 assicurino questi diritti.
Esattamente:
a) quanto alla libertà di insegnamento esso risulta espressamente dall’art. 33, 1° comma, Cost.: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Se non bastasse questa chiara dizione della carta costituzionale, il principio è inoltre ribadito dall’art. 1 del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297, il quale recita che: “ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente”. Parimenti l’art. 1 del DPR 8 marzo 1999 n. 275, statuisce che: “Le istituzioni scolastiche sono espressioni di autonomia funzionale…..L'autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale”[2].
b) Egualmente è fuori da ogni seria discussione che la finalità della scuola, e la sua obbligatorietà fino ad una certa età, sono finalizzate allo sviluppo della persona umana, e tendono alla formazione culturale, libera, civile e responsabile degli allievi.
Ciò lo si ricava non solo dall’art. 34 Cost., in base al quale “La scuola è aperta a tutti”, bensì, di nuovo, da precise disposizioni di legge primaria: l’art. 1 del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297 ancora afferma che la libertà di insegnamento “è diretta a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”; poi il concetto è ribadito per tutti i gradi di insegnamento: art. 99: “La scuola materna statale si propone fini di educazione, di sviluppo della personalità infantile”; art. 118: “La scuola elementare, nell'ambito dell'istruzione obbligatoria, concorre alla formazione dell'uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, sociali e culturali”.; art. 161: “La scuola media concorre a promuovere la formazione dell'uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione”; infine l’art. 197: “L'esame di maturità ha come fine la valutazione globale della personalità del candidato, considerata con riguardo anche ai suoi orientamenti”.
Il diritto individuale all’istruzione è dunque un valore costituzionale: esso va ricondotto al pieno sviluppo della personalità umana[3] che costituisce la base di uno stato democratico[4], in quanto si collega al diritto di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, 2° comma Cost.[5]
Tuttavia, per quanto si dirà, il decreto ministeriale in commento non sembra aver rispettato ne’ il principio costituzionale della libertà di insegnamento, ne’ quello relativo al diritto dei nostri giovani di avere una formazione culturale libera, critica e indipendente.
Da ciò, a mio parere, la sua incostituzionalità.
2.3. V’è, infine, tra il serio e il faceto, una ultima problematica relativa all’uso della lingua, considerato che l’allegato 1 al decreto ministeriale sopra citato, seppur sia scritto in italiano, in ogni sua parte essenziale utilizza al contrario termini inglesi.
Bachground, Framework, Roadmap, e poi Next Generation Classrooms, Next Generation Labs, cloud computing, cybersicurezza, making e-commerce, blockchain, job shadowing, work based learning, project based learning, multiliteracies e debate, gamificatione, peer learning, problem solving, e così di seguito.
Credo sia la prima volta che in argomento assistiamo addirittura all’intervento dell’Accademia della Crusca, la quale, con nota firmata dai linguisti del Gruppo Incipit, ha chiesto di tradurre in italiano le parole straniere del Piano Scuola 4.0., o meglio fornirne una versione semplificata priva degli anglismi che contiene, o almeno di accompagnarla con un glossario (v.
In proposito ricordo che ogni norma avente effetti in Italia non può che essere scritta in italiano, e il dato, del tutto è evidente, è stato confermato da tempo dalla stessa nostra Corte Costituzionale, che con la sentenza 11 febbraio 1982 n. 28 ha già avuto modo di statuire che “Il riconoscimento della lingua italiana come unica lingua da usare obbligatoriamente nell’esercizio delle attribuzioni dei pubblici uffici, salve le deroghe disposte a tutela dei gruppi linguistici minoritari, è confermato per implicito dalla Costituzione”.
Dunque, finché il Ministero dell’Istruzione non provvederà a tradurre in italiano l’allegato 1 del decreto n. 161 del 14 giugno 2022, il c.d. Piano Scuola 4.0. a mio parere presenta profili di incostituzionalità anche solo per questa ragione.
E sia consentito aggiungere qui che di fronte a questioni di questo genere l’ilarità non può essere impedita: sinceramente, in alcuni momenti, forse l’uso dell’inglese sarebbe stato preferibile a quello della lingua italiana.
Ad esempio si riesce a leggere nell’allegato del Piano Scuola 4.0. che esso intende: “promuovere lo sviluppo di un ecosistema altamente efficiente di istruzione digitale”; che: “Il concetto di ambiente è connesso all’idea di ecosistema di apprendimento”; v’è poi “l’educazione civica quale insegnamento trasversale che ha favorito lo sviluppo di percorsi curricolari di educazione alla cittadinanza digitale”; fino ad arrivare a l’OCSE che “ha definito, nel suo specifico manuale, l’ambiente di apprendimento innovativo quale un insieme organico che abbraccia l’esperienza di apprendimento organizzato per determinati gruppi di studenti intorno ad un singolo nucleo pedagogico che va oltre una classe o un programma predefinito e include le attività e i risultati di apprendimento”.
E qui, sinceramente, non può non venire alla mente il conte Lello Mascetti, che senz’altro avrebbe aggiunto: “A destra, per due, come fosse Antani”.
3. Le incostituzionalità sostanziali per contrarietà del Piano alla libertà di insegnamento e al diritto degli alunni di ricevere dalla scuola pubblica quella formazione necessaria a renderli cittadini critici di una società democratica.
Ma, tornati seri, e abbandonata l’ilarità, la questione principale è che il Piano Scuola 4.0. non rispetta, come abbiamo anticipato, ne’ il principio della libertà di insegnamento, ne’ il diritto degli alunni a ricevere una formazione culturale ed umana libera.
Vediamo separatamente questi aspetti.
3.1. Sulla libertà di insegnamento, si consideri quanto segue secondo il Piano Scuola 4.0.
a) Gli insegnati, intanto, sono sostanzialmente obbligati a condividere questo piano, a ritenere sia la cosa migliore per la scuola del futuro.
Il Piano è chiaro sul punto: “Ciascuna istituzione scolastica adotta il documento Strategia Scuola 4.0., che declina il programma e i processi che la scuola seguirà per tutto il periodo di attuazione del PNRR con la trasformazione degli spazi fisici e virtuali di apprendimento, le dotazioni digitali, le innovazioni della didattica, i traguardi di competenza in coerenza con il quadro di riferimento Dig.Comp 2.2., l’aggiornamento del curricolo e del piano dell’offerta formativa, gli obiettivi e le azioni di educazione civica digitale, la definizione dei ruoli guida interni alla scuola, le misure di accompagnamento dei docenti e la formazione del personale, sulla base di un format comune reso disponibile dall’Unità di missione del PNRR”.
Dunque, l’istituzione scolastica non ha più il potere/dovere di autodeterminarsi, e sembra del tutto superato lo stesso art. 7 del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297 in base al quale spetta al collegio dei docenti il “potere deliberante in materia di funzionamento didattico” e di curare la “programmazione dell'azione educativa”.
Qui l’istituzione scolastica si trasformerà in mera esecutrice del format del PNRR, ed è tenuta semplicemente ad adottare il documento della Strategia Scuola 4.0, e ad attenersi al quadro di riferimento Dig.Comp 2.2.
Ci saranno misure di accompagnamento dei docenti, e, interessante per noi giuristi, esisterà addirittura una educazione civica digitale, che, chissà, a breve, magari, si pretenderà di insegnare anche nelle Università, insieme al diritto amministrativo o a quello costituzionale.
In un contesto del genere, quindi, non pare proprio che gli insegnanti possano dissentire dal programma e avere posizioni discordi; e quindi, sia consentito, non vediamo come si possa negare che il Piano Scuola 4.0. si ponga in contrasto con l’art. 33 Cost., e poi con gli artt. 1 e 7 del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297, e ancora con l’art. 1 del DPR 8 marzo 1999 n. 275, visto che la libertà di insegnamento comprende al suo seno l’autonomia didattica, ovvero la libertà del docente di determinare le modalità dell’insegnamento.
b) Inoltre, difficilmente gli insegnanti potranno sottrarsi all’obbligo di seguire i corsi formativi della c.d. didattica digitale, visto che il Piano Scuola 4.0. espressamente prevede la: “erogazione della formazione obbligatoria per dirigenti scolastici, docenti e personale tecnico-amministrativo”.
Il Piano Scuola 4.0, infatti: “dovrà inserire, tra le priorità nazionali, l’approccio agli apprendimenti della programmazione informatica e della didattica digitale”; e la formazione continua rappresenterà “la prima azione di supporto, con la partecipazione dei docenti alle iniziative formative rese disponibili dal Ministero dell’istruzione sulla piattaforma Scuola futura”, in quanto “la formazione della didattica digitale dei docenti è uno dei pilastri del PNRR Istruzione e rappresenta una misura fondamentale per l’utilizzo efficace e completo degli ambienti di apprendimento innovativi realizzati nell’ambito di Scuola 4.0.”; ed in quanto “è necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento”.
c) Ancora, è previsto che, con la didattica digitale, vi sia la figura del docente leader, ovvero di un capo, contro il principio della pari dignità di ogni insegnante.
Ed infatti si dice che la pedagogia innovativa (apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification, ecc…): “deve essere progettata contestualmente agli spazi, grazie a una leadership pedagogica che possa incoraggiare una cultura dell’apprendimento e dell’innovazione in tutta la scuola”; e che: “questo processo trasformativo implica che le scuole diventino organizzazioni formative con una leadership formativa”. “Sono principalmente i docenti ad avere, poi, la responsabilità e il compito di allineare lo spazio e le tecnologie alla pedagogia”; Ed in più, a completamento di questo quadro, avremo addirittura la figura “dell’animatore digitale”, che potenzierà “la partecipazione dei docenti a esperienze di mobilità internazionale anche attraverso il programma Erasmus+”.
E, udite, i docenti potranno svolgere “un’autoriflessione, utilizzando la piattaforma della Commissione europea SELFIE for teachers”.
d) Infine, il Piano Scuola 4.0. appare di nuovo in contrasto con la libertà d’insegnamento e la pari dignità dei docenti ove fa proprie le competenze digitali dei docenti di DigCompEdu, con i suoi “livelli di ingresso necessari”, ovvero la classificazione degli stessi in “A1 Novizio; A2 Esploratore; B1 Sperimentatore; B2 Esperto; C1 Leader; C2 Pioniere”.
Classificare e dare un ordine di scala ai docenti è una novità, diremmo, di nuovo in contrasto con i principi che regolano l’insegnamento nella scuola pubblica.
L’idea, poi, fa un po’ sorridere, e forse non a torto Susanna Tamaro, in un intervento sul Corriere della Sera del 20 dicembre 2022, sottolineava come questa cosa apparisse tristemente muoversi tra il Manuale delle Giovani Marmotte e il Piccolo Chimico.
Chissà: un ottimo insegnante di lettere, da tutti riconosciuto tale, potrebbe essere solo un “novizio” perché digiuno o refrattario a questo nuovo mondo digitale, mentre un collega conosciuto nel mondo della scuola fino a quel momento solo per la sua ignoranza può diventare il suo “leader” perché la sera si diletta con il computer.
3.2. Ma, soprattutto, il Piano Scuola 4.0. si pone obiettivi che sono in contrasto con il diritto costituzionale dei nostri ragazzi a ricevere dalla scuola pubblica lo sviluppo della persona umana, attraverso una libera e ragionata formazione culturale.
Si consideri, anche sotto questo profilo, quanto di seguito.
a) L’obiettivo del Piano Scuola 4.0. è precisamente descritto: “affrontando le sfide e le opportunità messe in luce dalla pandemia di COVID 19…….sottolinea l’esigenza di una migliore qualità e una maggiore quantità dell’insegnamento relativo alle tecnologie digitali, il sostegno alla digitalizzazione dei metodi di insegnamento e la messa a disposizione delle infrastrutture necessarie per un apprendimento a distanza inclusivo e resiliente”.
Dunque, il discorso è fin troppo evidente: l’idea è quella di rendere norma i metodi di insegnamento emergenziali avutisi nel periodo della pandemia.
L’insegnamento a distanza dovrà aumentare quantitativamente e l’uso di nuove tecnologie e di infrastrutture idonee dovranno consentire la realizzazione di questo obiettivo: “la possibile fruizione a distanza di tutte le attività didattiche, una connettività completa alla rete”.
E quando l’insegnamento non sarà a distanza, esso si svilupperà comunque in aule virtuali, in una: “relazione fra spazio, pedagogia e tecnologia…..caratterizzati da arredi mobili, modulari e scrivibili, che permettono un maggior grado di flessibilità per consentire una rapida riconfigurazione dell’aula nella quale sono presenti monitor interattivi intelligenti, dispositivi digitali per gli studenti con connessione wifi, piattaforme cloud”.
In questa esperienza immersiva, così come viene definita, non si capisce in che modo gli studenti potranno continuare ad avere contatti fisici tra loro, ed anzi tutto è pensato per evitare ogni contatto, per soffocare quella dimensione umana che fino ad oggi è stata al contrario il momento centrale dell’esperienza scolastica.
Queste le aule: “con dispositivi per la comunicazione digitale, per la promozione della scrittura e della lettura con le tecnologie digitali, per lo studio delle STEM, per la creatività digitale, per l’apprendimento del pensiero computazionale, dell’intelligenza artificiale e della robotica, per la fruizione di contenuti attraverso la realtà virtuale e aumentata”.
Questi i laboratori: “robotica e automazione; intelligenza artificiale; cloud computing; cybersicurezza; internet delle cose; making e modellazione e stampa 3D/4D; creazione di prodotti e servizi digitali; creazione e fruizione di servizi in realtà virtuale; comunicazione digitale; elaborazione, analisi e studio dei big data; economia digitale e-commerce e blockchain”.
La relazione personale e umana è defunta in una scuola così organizzata.
b) V’è poi un altro aspetto, di nuovo in contrasto con la funzione della scuola pubblica, ed è quello che la digitalizzazione della scuola avrà come obiettivo non tanto di sviluppare il senso critico degli allievi quanto quello di prepararli al lavoro e al disbrigo di attività meramente pratiche.
Lo dice lo stesso D.M. 14 giugno 2022 n. 161 che il tutto è finalizzato: “per la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore delle nuove professioni digitali (come l’intelligenza artificiale, la robotica, la cybersecurity, ecc….)”; e il concetto è poi ribadito nell’allegato al decreto: “Le competenze digitali di base per tutti i cittadini e l’opportunità di acquisire nuove competenze digitali specialistiche per la forza lavoro sono un prerequisito per partecipare attivamente al decennio digitale. Le competenze digitali avanzate, fornite dalla formazione e dall’istruzione in campo digitale, dovrebbero sostenere la forza lavoro, consentendo alle persone di acquisire competenze digitali specialistiche con l’obiettivo di ottenere posti di lavoro di qualità”.
Si dovranno infatti “acquisire competenze orientate al futuro, fondamentali per la cittadinanza e il lavoro”; ed ancora: “Le competenze digitali avanzate dovrebbero sostenere la forza lavoro, consentendo alle persone di acquisire competenze digitali specifiche con l’obiettivo di ottenere posti di lavoro di qualità e intraprendere percorsi professionali gratificanti”.
c) E poi, ancora, con un digitalizzazione massiva quale quella immaginata dal Piano Scuola 4.0., la scuola rischia di insegnare da domani ai ragazzi non tanto a ragionare con la propria testa, quanto a ragionare con quella del robot.
Questo il piano: “Ad un livello più avanzato gli arredi possono diventare trasformabili e riposti fino a liberare l’ambiente, con tecnologie che favoriscono l’esperienza immersiva, più superfici di proiezione, un forte collegamento con gli ambienti virtuali”. Ed ancora: “Occorre, quindi, innovare il nucleo pedagogico dell’ambiente di apprendimento”; “Fondamentale è il ruolo dei dirigenti scolastici nell’introdurre il cambiamento nell’ambiente esistente per consentire ai docenti di organizzare il loro insegnamento in modo diverso, prototipare e sperimentare nuove disposizioni spaziali della classe e nuove metodologie didattiche".
A questo punto, direi, le assemblee studentesche, disciplinate dall’art. 13 del testo unico del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297, finalizzate a costituire “occasione di partecipazione democratica per l'approfondimento dei problemi della scuola e della società in funzione della formazione culturale e civile degli studenti”, resteranno solo un momento romantico di un passato del quale la nuova digitalizzazione pretende che nessuno ne abbia nostalgia.
4. Qualche riflessioni conclusiva in difesa della scuola pubblica e della sua funzione costituzionale.
Dunque: cos’è la digitalizzazione?
È la sostituzione della macchina all’uomo, è il far sì che una certa cosa possa realizzarsi in via informatica e telematica, a distanza, senza alcun contatto tra persona e persona.
Che cos’è la scuola?
È il luogo dove si incontrano bambini e ragazzi affinché insieme, e che l’ausilio degli insegnanti, acquisiscano gli strumenti necessari per crescere culturalmente, psicologicamente e socialmente, al fine di rendersi per il futuro cittadini partecipi della vita democratica del paese.
Cos’è dunque la digitalizzazione della scuola?
È, sostanzialmente, la sua distruzione, poiché nella misura in cui essa sostituisce l’insegnante con una macchina, evita che un bambino si dimensioni personalmente con un suo simile, e trasforma un luogo reale in un altro virtuale, la digitalizzazione cancella i nostri due valori costituzionali irrinunciabili, quali, di nuovo, la formazione critica dei giovani e la libertà di insegnamento.
La digitalizzazione comunica che è assurdo sforzarsi a pensare, poiché abbiamo una macchina che può farlo per noi; è assurdo avere una cultura, perché abbiamo una macchina che può darci ogni genere di informazione; è assurdo stare insieme tra noi e scambiarci delle esperienze, perché abbiamo una macchina che ricrea virtualmente ogni tipo di contatto e di scambio.
La digitalizzazione della scuola è così la più grave tra tutte le digitalizzazione immaginabili: più grave della digitalizzazione della pubblica amministrazione, più grave della digitalizzazione della giustizia, più grave della digitalizzazione del sistema produttivo, o del turismo, o della sanità.
La digitalizzazione della scuola non solo cancellerà, o fortemente ridurrà, i contatti e gli scambi umani tra alunni ed alunni, ma imporrà su tutto la logica del rigore, dove 2 + 2 fa 4, e 4 + 4 fa 8; e questo rigore, col tempo, soffocherà ogni libertà di pensiero, soffocherà il senso critico, emarginerà gli spiriti più estrosi in favore di quelli più portati alla sottomissione e/o alla mera ripetizione e/o riproduzione di dati.
La scuola, viceversa, ha il dovere di preservare lo spirito libero dei nostri figli, la scuola ha il dovere di spiegare perché 2 + 2 fa 4, e deve altresì consentire a qualcuno di poter sostenere che 2 + 2 fa 5, oppure 3, e a qualcun altro di sostenere che non è possibile stabilire con rigore quanto faccia 2 + 2, e ad altri ancora di consentire di chiedere ad un ipotetico interlocutore quanto vuole che faccia 2 + 2.
È un paradosso, ma è il valore della libertà di crescita dei nostri ragazzi, che deve essere fortemente difesa.
È necessario che i nostri giovani studino, e continuino a studiare, anche quello che, apparentemente, e secondo la logica della nuova digitalizzazione, non serve a nulla, e lo studino personalmente, con un insegnante in carne ed ossa.
È necessario continuare a leggere libri di carta, è necessario che Sofocle e Aristotele, Cicerone e Seneca, Galileo e Kant, Dante Alighieri e Leopardi restino ben presenti nelle nostre scuole, e non siano invece considerati personaggi del passato all’interno di aule dedicate a: “robotica e automazione; intelligenza artificiale; cloud computing; cybersicurezza; internet delle cose”, ecc……..
I giuristi devono occuparsi di questi mutamenti, devono sollecitare il dibattito su essi, devono porsi dinanzi a queste novità con riflessione critica; altrimenti siamo noi i primi a dimostrare che oggi, ormai, la riflessione critica non serve più a niente, e non può più essere data.
Con la stessa forza con la quale cercheremo di impedire che la robotica e la digitalizzazione delle attività processuali possano impedire l’indipendenza del giudice nell’esercitare la funzione giurisdizionale e il libero esercizio del diritto di azione ai cittadini, noi parimenti abbiamo il dovere di cercare di impedire che la digitalizzazione della didattica distrugga la scuola dei nostri ragazzi, e quindi la loro e la nostra organizzazione sociale, la loro e la nostra libertà di pensiero.
È un dovere farlo, non possiamo sottrarci.
*Lo scritto è dedicato a mia figlia Camilla, ai suoi compagni del liceo Galileo di Firenze, e a tutti i giovani che, come loro, si impegnano e si sacrificano nello studio. Grazie poi all’amico dr. Niccolò Ludovici, sostituto procuratore della Repubblica a Siena; confrontarmi con lui mi è sempre utile.
[1] V. infatti CLARICH, Il piano nazionale di ripresa e resilienza tra diritto europeo e nazionale: un tentativo di inquadramento giuridico, Corr. Giuridico, 2021, 1025.
[2] Sulla libertà di insegnamento v. anche CALCERANO – MARTINEZ Y CABRERA, Scuola, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1989, XLI, 858.
[3] V. ZANGARA, I diritti di libertà della scuola, in Rass. dir. pubbl., 1959, 68 ss.; MANZIN MAESTRELLI, Istruzione dell’obbligo, in Digesto pubbl., IX, 4ª ed., Torino, 1994, 1.
[4] ROLLA, La tutela costituzionale dei diritti, III, Milano, 2003, 148; POTOTSCHNIG , Istruzione (diritto alla), in Enc. Dir., XXIII, Milano, 1973, 98.
[5] MASTROPASQUA, Cultura e scuola nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1980, 117.
1. Lo scambio bilaterale in genere
Nel novero degli scambi di breve durata delle Rete europea dei magistrati (dove si includono quelli “generali” e “specializzati”) quello bilaterale si presenta – di certo – meno accessibile, imponendosi agli applicants di essere parte attiva.
Si richiede, infatti:
- la ricerca di un contatto presso l’istituzione ospitante, così da poter far siglare l’hosting agreement al dirigente dell’ufficio. Ciò rappresenta, probabilmente, lo scoglio più grande, poiché non tutti gli emuli della Scuola Superiore della Magistratura partecipano ai bilaterali (il Portogallo, per esempio, non lo fa) e raccogliere la disponibilità di un tribunale o di una procura senza che vi sia una pregressa conoscenza richiede un fitto scambio di posta elettronica;
- di scegliere la lingua veicolo (inglese o francese);
- la presentazione di un progetto che, seppur in linee generali o talvolta generalissime, deve render conto del senso della reciproca visita;
- la formazione di una compagine di magistrati o di personale amministrativo, nel numero massimo di 5 per istituzione, che prenda parte allo scambio;
- la individuazione di un richiedente che sia referente del gruppo, per EJTN e per i futuri ospiti.
Ad ogni buon conto, completato il dossier, tutti i dettagli del programma verranno definiti solo una volta approvato il progetto (con elevata probabilità di successo, stante il numero di domande normalmente inferiori ai fondi stanziati), quando potrà individuarsi il periodo esatto in cui si andrà e quello in cui si verrà ricevuti.
Per i dettagli, consiglio la consultazione del sito EJTN[1] dove sono esplicitate anche le condizioni economiche sottese allo scambio.
È, certamente, buona lena cercare un contatto anche prima della pubblicazione, giacché sul sito dal portale EJTN è possibile trovare la lista coi contatti dei Paesi aderenti.
2. Il nostro scambio in particolare
Bene, dopo una doverosa premessa fra il burocratico e il didattico, dismetto (quasi) ogni formalità e vi racconto com’è stato – in concreto – il nostro scambio.
Per farlo, parto col dire che mentre scrivo (siamo a gennaio 2023), il gruppo WhatsApp dello scambio è in pieno fermento.
Si parla di quando e dove riunirsi e l’intenzione è di farlo al più presto.
Ciò perché è indubbio che le due settimane trascorse insieme siano state particolarmente significative e qualificanti, tanto da un punto di vista professionale quanto da uno personale.
E allora, lo scambio è cominciato con l’arrivo a Palermo, dal 13 al 17 giugno 2022, dei colleghi dell’Audiencia Provincial de Girona e della relativa Fiscalìa.
Si tratta di un Tribunale ordinario, che alterna le funzioni di primo grado con quelle di appello, sia in materia civile che penale, presso il quale insiste il locale ufficio di Procura.
Entrambe le compagini erano invero miste (con magistrati con funzioni giudicanti e inquirenti) e centrali sono stati i procedimenti da “codice rosso” – come modificati e in parte introdotti dalla l. 69/2019, “Disposizioni in tema di violenza, domestica e di genere”[2] – inseriti in una prospettiva comparatistica generale fra i due codici di rito.
Quali istituzioni ospitanti, ci siamo concentrati sul dare ai colleghi spagnoli il più caloroso benvenuto possibile, alternando seminari in materia di diritto penale e procedura penale che fornissero loro le nozioni di base (per lo più condivise) dell’ordinamento per dar loro la possibilità di partecipare scientemente alle attività pratiche.
Oltre alle udienze di convalida dell’arresto, a quelle preliminari e a quelle dibattimentali, come anticipato, particolare attenzione è stata dedicata al tema della violenza di genere e ai reati da c.d. “codice rosso”.
Significative poi le visite ai luoghi del Maxiprocesso di Palermo a “cosa nostra” (segnatamente, l’aula bunker dell’Ucciardone e le strutture annesse, comprese le celle dove risiedevano i collaboratori di giustizia), dove è stato anche proiettato un documentario sul tema, e all’Assemblea Regionale Siciliana, dove si è discusso dell’autonomia regionale.
In questo contesto, non sono mancate visite ad alcuni dei luoghi simbolo della città (dall’itinerario arabo-normanno a quello barocco).
Dal 4 all’8 luglio 2022, poi, la delegazione palermitana si è recata a Girona.
Le attività, lì, sono state programmate di modo speculare a quanto fatto a Palermo, avendo noi stessi partecipato a seminari sul diritto penale sostanziale e processuale, assistendo – all’esito degli incontri – a udienze di primo e secondo grado.
Anche in questo caso, il tema dei delitti da “codice rosso” ha assunto una particolare centralità, diventando oggetto di approfondita comparazione.
La Spagna, infatti, è intervenuta con anticipo sul tema, con la “Ley Orgánica 1/2004, de 28 de diciembre, de Medidas de Protección Integral contra la Violencia de Género”[3], una legge “rafforzata” (che non trova corrispondenti nel nostro ordinamento) mossa da un obiettivo ben chiaro sin dal preambolo:
«la violenza di genere non è un problema che riguarda l’àmbito privato. Al contrario, rappresenta il simbolo più brutale della disuguaglianza esistente nella nostra società. Si tratta di una violenza che si direziona sulle donne per il fatto stesso di essere tali, essendo considerata – dagli aggressori – prive dei diritti minimi di libertà, rispetto e capacità decisionale[4]».
Al di là delle rationes della Ley organica, nella pratica giudiziaria – ben più consolidata per il solo fatto del ben più risalente tempo di vigenza – ci è sembrato particolarmente significativo il dato della presenza di spazi dedicati per le denunce e l’audizione delle persone offese, all’uopo create e contraddistinte dalla presenza di esperti a disposizione delle corti.
Va detto che, in generale, come si evince dal testo normativo, quella in commento offre un approccio pubblico fisiologicamente orientato alla formazione di una società che superi le discriminazioni basate sul genere, attraverso la predisposizione di percorsi formativi, di canoni chiari in materia di comunicazione nonché di presidi sanitari dedicati.
Ciò si colloca su un piano ben distante, dunque, dal reato di genere e dal procedimento penale.
Particolarmente interessante è stata poi la visita al centro di detenzione di “Puig De Les Basses”[5], nota quale modello virtuoso di rieducazione e reinserimento sociale, dove detenute e detenuti partecipano attivamente ai programmi della struttura, specchio di un sistema penitenziario con ottimi risultati in fatto di non recidivanza[6].
Anche durante la settimana gironense, in ogni caso, non sono mancate scoperte di piccoli ma meravigliosi villaggi (La Perà, Púbol, Cadaqués, etc.) o altri luoghi straordinari, dentro e fuori Girona, dove mai ci siamo stancati delle chiacchiere e della incredibile compagnia.
Forse dovrei concludere tracciando un bilancio (che dire positivo, come si evince da quanto vi ho finora raccontato, sarebbe davvero riduttivo).
Concludo, per non essere ridondante, che l’organizzazione della nostra reunión continua, a pieno ritmo, per maggio o giugno 2023.
Ciò testimonia come non possa esserci modo migliore per costruire una comune cultura della giurisdizione, all’interno dei Paesi dell’Unione Europea (e della Rete), già accomunati da solide radici teoriche in fatto di diritto penale e processuale penale, in cui le somiglianze sono ben più consistenti e significative delle differenze.
[1] Per prenderne diretta visione: https://ejtn.eu/activity/exchanges/.
[2]Qui il testo dell’intervento normativo:
[3] (qui il testo https://www.boe.es/buscar/act.php?id=BOE-A-2004-21760.
[4] Traduzione mia, l’originale qui: «La violencia de género no es un problema que afecte al ámbito privado. Al contrario, se manifiesta como el símbolo más brutal de la desigualdad existente en nuestra sociedad. Se trata de una violencia que se dirige sobre las mujeres por el hecho mismo de serlo, por ser consideradas, por sus agresores, carentes de los derechos mínimos de libertad, respeto y capacidad de decisión».
[5] https://justicia.gencat.cat/ca/departament/infraestructures/centres_penitenciaris/cp_puig_basses/.
[6] Qui un rapporto del Ministero dell’interno spagnolo https://www.interior.gob.es/opencms/pdf/archivos-y-documentacion/documentacion-y-publicaciones/publicaciones-descargables/instituciones-penitenciarias/La_estancia_en_prision_126170566_web.pdf.
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