ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La “prova da sforzo” dell’incidente di costituzionalità sul reddito di cittadinanza. La Consulta che cristallizza il c.d. requisito negativo per usufruirne: l’assenza di una misura cautelare personale
di Carlo Morselli
La Corte costituzionale si occupa della legge sul reddito di cittadinanza, sub iudice per contrasto plurimo con la Carta, dichiarando infondate le questioni della disposizione censurata ed impositiva della sospensione dell’erogazione del RdC per il soggetto che ha subito l’applicazione di una misura cautelare personale. Il contributo ricostruisce il dictum della Consulta, muovendo dai vizi individuati dall’organo territoriale, e mette in evidenza l’automatismo applicativo del “ritiro” della provvidenza (per l’incidenza del provvedimento de libertate ai sensi dell’art. 282-bis c.p.p., provvisorio e tipicamente risalente alla fase prodromica delle indagini preliminari), che può soddisfare esigenze anche vitali per il beneficiario. In ordine all’itinerario, al giudice della “sospensione” non è riconosciuto uno spazio di apprezzamento della fattispecie concreta (vaglio giurisdizionale), e all’interessato non è dato uno ius ad loquendum, in una procedura antidevolutiva e de plano, priva di una “procedimentalizzazione” e quindi del contraddittorio (previsto dalla norma sul c.d. giusto processo, a mente dell’art. 111 Cost.). Sullo sfondo si attesta la figura del legislatore-giudice.
The Constitutional Court deals with the law on citizenship income, sub iudice for plural conflict with the Charter, declaring unfounded the issues of the censored and taxable provision of the suspension of the provision of the RdC for the subject who has suffered the application of a precautionary measure personal. The contribution reconstructs the dictum of the Council, starting from the defects identified by the territorial body, and highlights the applicative automatism of the “withdrawal” of providence (due to the impact of the de libertate provision pursuant to art. 282-bis cpp , provisional and typically dating back to the prodromal phase of preliminary investigations), which can satisfy even vital needs for the beneficiary. With regard to the itinerary, the judge of the “suspension” is not granted an area ofappreciation of the specific case (judicial review), and the interested party is not given a ius ad loquendum, in an anti-revolutionary and de plano procedure, without a “Proceduralization” and therefore of the cross-examination (provided for by the law on the so-called due process, in accordance with Article 111 of the Constitution). In the background stands the figure of the legislator-judge.
Sommario: 1. L’“antefatto” del sindacato di costituzionalità promosso dal giudice a quo che censura la previsione dell’art. 7-ter, comma 1, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 sulla sospensione del reddito di cittadinanza per chi è stata colpito da un provvedimento cautelare. - 2. Le ragioni del giudice a quo. I caratteri di uno “spoglio”. - 3. Il potere cautelare coinvolto è eccezionale. - 4. Carenza di uno spatium deliberandi per il giudice e omologazione di due previsione assai lontane per identità e per fasi processuali. - 5. Precedenti costituzionali e della Cassazione. Art. 282-bis c.p.p. e la corrispondente linea (securitaria) di interdizione. - 6. Ne procedat iudex ex officio: non rispettato il modello del c.d. processo di parti e mancante la previsione di uno ius ad loquendum. - 7. (All’orizzonte) “il legislatore-giudice”.
1. L’“antefatto” del sindacato di costituzionalità promosso dal giudice a quo che censura la previsione dell’art. 7-ter, comma 1, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 sulla sospensione del reddito di cittadinanza per chi è stata colpito da un provvedimento cautelare
La Corte Costituzionale, quale giudice delle leggi e custode della Costituzione repubblicana improntata a «garantismo» [1], emette il suo “verdetto” sulla normativa relativa al reddito di cittadinanza sottoposta alla “prova da sforzo” dell’incidente di costituzionalità, promosso dall’organo a quo [2].
La Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7-ter, comma 1, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), sollevate in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 27, primo e secondo comma, 29, 30 e 31 della Costituzione e al principio di ragionevolezza (desumibile dall’art. 3 Cost., come reinterpretato), nonché all’art. 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo correlato all’art. 6, paragrafo 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – ,devolute dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Palermo, con ordinanza n. 86 del 2020.
L’“antefatto” del sindacato di costituzionalità si appunta sulla disposizione censurata, la quale sarebbe costituzionalmente illegittima nel tratto in cui impone di sospendere l’erogazione del reddito di cittadinanza nei confronti del destinatario (beneficiario o richiedente) a cui è applicata
una misura cautelare personale [3].
La Corte come un memorandum fissa la cornice tematica, ricordando, appunto, che il reddito di cittadinanza rappresenti un particolare beneficio economico, introdotto allo scopo di riordinare il sistema di assistenza sociale e razionalizzare dei servizi per l’impiego, in vista di una più efficace gestione delle politiche attive per il lavoro.
L’art. 2 del d.l. n. 4 del 2019 enumera i requisiti personali, reddituali e patrimoniali per accedere al reddito, che devono sussistere dum pendet: al tempo della presentazione della domanda, e continuativamente, per tutta la durata dell’erogazione.
La lettera c-bis) del comma 1 di tale articolo, in particolare, fissa un requisito c.d. negativo, passandone in rassegna l’arco degli elementi concorrenti: il richiedente il beneficio non deve essere gravato da un provvedimento cautelare personale, ancorché adottato a seguito di convalida dell’arresto o del fermo, o condannato in via definitiva, nei dieci anni precedenti la richiesta, per taluno dei delitti indicati dal successivo art. 7, comma 3.
Nell’ottica retrospettiva della sentenza n. 122 del 2020, la Corte ha anche precisato che il legislatore ha previsto un particolare requisito di onorabilità per la richiesta del reddito di cittadinanza – l’esclusione della soggezione a misure cautelari personali – che (unitamente agli altri requisiti) deve sussistere in una catena temporale, ininterrotta quindi: non solo al momento dell’inoltro della domanda, ma esteso per tutto l’orizzonte temporale dell’erogazione del beneficio economico. Il provvedimento di sospensione in caso di misure cautelari sopravvenute, quindi, «altro non è che la conseguenza del venir meno di un requisito necessario alla concessione del beneficio e rientra per ciò tra i casi in cui la giurisprudenza costituzionale riconosce la legittimità di sospensione, revoca o decadenza, anche attraverso meccanismi automatici».
Pertanto, la sospensione del beneficio non ha una ratio punitiva e sanzionatoria, ma entra in sinossi con gli obiettivi dell’intervento legislativo. Tra l’altro, la stessa sospensione del reddito di cittadinanza non comporta, di per sé, la necessaria privazione in capo al soggetto interessato dei mezzi di sussistenza.
2. Le ragioni del giudice a quo. I caratteri di uno “spoglio”
Il giudice a quo traccia le sequenze di un potere sdoppiato: se con l’adozione della misura coercitiva l’organo corrispondente “consuma” il suo potere cautelare, la sospensione del reddito di cittadinanza acquisito interverrebbe quale proiezione di un subprocedimento consecutivo. Siffatta sospensione, ancorché inquadrata quale sanzione amministrativa, risalirebbe allo ius dicere di un soggetto le cui condizioni di esercizio sono improntate a terzietà, imparzialità ed indipendenza.
Il nomen iuris non può essere vincolante e l’analisi divenire monotematica: la misura è obbligatoria perché non ammette un vaglio devoluto al giudice e potrebbe avere una veste formale amministrativa, contraddetta (o corretta), però, da un piano sostanziale che ne riporta i connotati penali, in linea, in questo processo ricostruttivo, con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha considerato le sanzioni amministrative di natura afflittiva equiparabili a quelle penali [4], con la conseguente vis attractiva dell’applicazione delle relative garanzie (v. la sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi).
Si attesterebbe la vistosa portata afflittiva della sospensione del reddito di cittadinanza: rispetto ad un beneficio di matrice assistenziale (distinto dal precedente “reddito di inclusione” [5]) - satisfattivo non solo delle esigenze elementari di sopravvivenza del destinatario lato sensu (perché ricomprende oltre il suo percettore diretto pure il nucleo familiare) ma anche di plurimi diritti fondamentali (“tavolari” per così dire: diritti alla vita, al lavoro, alla famiglia) - risulterebbe e risalterebbe (le due “r”) la finalità punitiva del provvedimento sospensivo, che manterrebbe il cordone ombelicale con l’applicazione della misura privativa in personam, essendone il primo un corollario.
In secondo luogo, il significato afflittivo mutua tale carattere dalla definitività e radicalità - che forse non sarebbe improprio appellare irreversibilità - dello “spoglio” iussu iudicis in quanto pur in seguito alla revoca dell’atto sospensivo gli arretrati non corrisposti non potrebbero essere oggetto
di recupero per sanare il vulnus subito dal beneficiario[6].
In tal modo si aprirebbe una forbice: come il masso di Tantalo, il soggetto attinto sarebbe gravato dal peso di una sanzione “penale in senso sostanziale” “quasi senza limiti”[7] e senza che sia stato aperta ed attivata la garanzia del contraddittorio al riguardo, neppure ex post. Opererebbero automatismi applicativi, per un provvedimento “non disputabile” cioè inoppugnabile, emesso de plano. Non sarebbe ammessa la fase dell’impugnazione, né avanti il giudice amministrativo - ostandovi la carenza di un atto formalmente amministrativo - né avanti il Tribunale del riesame, la cui cognizione può devolversi solo relativamente a doglianze concernenti la misura cautelare.
Al riguardo, si noti che un recente arresto giurisprudenziale di merito ha stabilito il principio di diritto secondo cui i regolamenti e gli atti amministrativi generali sono impugnabili ove contengano disposizioni in grado di ledere in via diretta ed immediata le posizioni giuridiche soggettive dei
destinatari[8].
Sul piano della rilevanza della questione di incostituzionalità, l’organo territoriale precisa che l’ordinanza che la riguarda deriva dall’applicazione, ai sensi dell’art. 282-bis c. p. p., della misura cautelare personale di divieto di avvicinamento alle aree frequentate dalla persona offesa dal reato per fatto di maltrattamento in famiglia, punito dall’art. 572 c. p.[9]
Nel corso dell’interrogatorio ex art. 294 c.p.p. la persona assoggettata ha dichiarato di essere titolare
del reddito di cittadinanza[10].
3. Il potere cautelare coinvolto è eccezionale
La norma colpisce il titolo, del beneficiario o del richiedente il reddito di cittadinanza[11] nei cui confronti è stata applicata una misura cautelare personale, pure subentrata a seguito di convalida
dell'arresto[12] o del fermo, o che risulti condannato con sentenza non definitiva per taluno dei delitti
indicati all'art. 7, comma 3. In tali casi, l'erogazione del beneficio di cui all'art. 1 deve essere sospesa. La norma che assume rilievo (nella fattispecie tratta nel giudizio di costituzionalità considerato) è l’art. 282-bis (Allontanamento dalla casa familiare) inserita nella classe delle misure coercitive (capo II del libro IV, Misure cautelari) e nella collana degli artt. 281 (Divieto di espatrio), 282 (Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria), 282-bis, 282 ter (Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa), 283 (Divieto e obbligo di dimora), 284 (Arresti domiciliari), 285 (Custodia cautelare in carcere), 285-bis (Custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri), 286 (Custodia cautelare in luogo di cura), 286-bis (Divieto di custodia cautelare)[13].
La vicenda cautelare è ricompresa, tipicamente, nella fase prodromica (e fluida) delle indagini preliminari condotte dal Pubblico Ministero, mentre l’emanazione della sentenza di condanna attiene all’epilogo del procedimento di primo grado e alla fase propriamente di merito (e stabile) del giudizio (sull’accusa formulata). La latitudine della norma è ad amplissimo raggio poiché l’intervento ablativo, denominato “sospensione”, come un compasso, segna l’intero excursus del primo grado dell’accertamento penale sulla imputazione.
Nella fase delle indagini preliminari, però, sussiste solo una protoaccusa, e vige sempre il principio della presunzione di non colpevolezza [14].
Sedes materiae: seguendo una ordinata proprietà distributiva, è il libro IV del codice di procedura penale riformato (che, appunto, soppianta il Codice Rocco del 1930) che ospita la disciplina dell’esercizio del potere limitativo delle libertà individuali, esteso alla disponibilità dei beni. Tale partizione interna, riunita sotto il paradigma della “cautelarità”, potrebbe riguardarsi come il “libro delle soggezioni”, il più nevralgico[15] perché tocca prerogative costituzionali (art. 13 Cost.), la libertà personale, storicamente intesa come “libertà dagli arresti”[16] o (alla Mortati) «inviolabilità dagli arresti», il diritto al writ of habeas corpus e innesta vicende detentive durante il procedimento penale. Siffatto innesto - si ribadisce - è inserito nella prima fase del rito, nel quadro di un disegno ternario (indagine preliminare, omonima udienza[17], giudizio nella cui sfera è prevista l’istruzione acquisitiva della prova, dialetticamente ed oralmente elaborata, nel contraddittorio garantito). In questo assetto spicca la salvaguardia del rispetto del «principio di “giurisdizionalizzazione” delle misure cautelari…della loro sottoponibilità a “riesame” anche nel merito, in contraddittorio fra e parti, davanti ad un organo collegiale»[18].
4. Carenza di uno spatium deliberandi per il giudice e omologazione di due previsione assai lontane per identità e per fasi processuali
Proprio la giurisdizionalità, in precedenza evocata, è la categoria che risulta intaccata nell’attento scrutinio di costituzionalità del giudice a quo, del Tribunale ordinario di Palermo, ancorché il codice riformato abbia fatto del giudice una figura di vertice e primaria, con la sua norma di apertura, all’art. 1, riservata alla “giurisdizione penale”[19].
Infatti, l’automatismo applicativo della sospensione della erogazione del reddito toglie terreno ad un possibile “sindacato” del giudice, che volesse ad esempio utilizzare elementi raccolti durante l’interrogatorio dall’indagato per non sospendere tale erogazione o semplicemente ridurla (in ipotesi, non dispensabile per l’interessato, che non gode di altri redditi, e per quello spirito di solidarietà che caratterizza ed anima la normativa sul reddito). Il divario appare rilevante: la sospensione risale all’esercizio di un potere solo dichiarativo che la legge attribuisce al giudice quale semplice longa manus del precetto di legge, privo di un proprio vaglio che la fattispecie concreta potrebbe richiedere di operare.
La misura cautelare e la somministrazione del reddito hanno rationes del tutto autonome e diverse, penale ed amministrativa, che però confluiscono su un unico soggetto, mentre ratione materie risalgono, soggettivamente, al giudice penale e all’ente amministrativo (l’INPS). Lo ius dicere è, così, vuoto, specialmente nella parte normalmente dedicata alla motivazione: esprimerlo senza un proprio potere di giudizio, però, non è tipico del giudice. Non c’è provvedimento del giudice senza decisione, senza vaglio (cioè, vaglio della fattispecie) e senza motivazione che impegna il magistrato a render conto del potere esercitato.
Né può dirsi che tale vaglio non occorra perché è già considerato alla fonte (vaglio “ritenuto” alla fonte, in ipotesi) cosicché è inutile ripeterlo alla foce, ciò perché alla prima è estranea, per definizione, la cognizione e il trattamento della fattispecie concreta. Questa, la sua analisi, è affidata per legge alla funzione del giudice, e non presunta, per non residuare la robotizzazione del giudice. Il suo ius dicere sarebbe un moto apparente, estensibile al limite massimo di ritenere il provvedimento caducatorio, sostanzialmente, come emesso a non iudice, quando residua l’astrattismo della giurisdizione penale, la cui «funzione è il ponte di passaggio dall’astratto al concreto, dalla legge penale all’esecuzione della legge penale»[20].
L’art. 7-ter. del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, commina la sanzione della “Sospensione del beneficio in caso di condanna o applicazione di misura cautelare personale” (in rubrica) [21]. Al comma 1 è previsto che la sospensione abbraccia, indifferentemente, sia il destinatario di una misura cautelare personale che il soggetto «condannato con sentenza non definitiva per taluno dei delitti indicati all'articolo 7, comma 3».
La norma si presta a due rilievi, riassuntivamente: a) nello stesso trattamento sospensivo, promiscuamente, confluiscono e finiscono sia l’indagato che il condannato, così accomunati, cui corrispondono, però, situazioni identitarie (notevolmente) distinte e distanti tra loro, per i due diversi titoli (procedimentale il primo, processuale il secondo, ciò per scandire le fasi) a cui fanno capo i due soggetti assai lontani nello spazio del rito penale; precisamente, in ordine alla persona sottoposta alle indagini preliminari del pubblico ministero, custodia per cautela in una fase preprocessuale ed endoprocedimentale[22] caratterizzata dalla scrittura e, relativamente all’imputato-accusato, condanna per accertamento in giudizio, esclusivamente nel cui ambito è prevista la sottofase della istruzione e all’interno del dibattimento garantito dai principi del pieno contraddittorio, dall’oralità, dalla pubblicità e dall’immediatezza (rapporto di identità tra l’organo dell’acquisizione della prova e della decisione), e a parte quello della concentrazione;
b) come il vecchio mandato di cattura (art. 253) del codice di rito inquisitorio del 1930 [23], la sospensione è automatica ed agganciata a predeterminati nomina criminis: «i reati di cui ai commi 1 e 2 e per quelli previsti dagli articoli 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter, 422 e 640-bis del codice penale, nonché per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo».
5. Precedenti costituzionali e della Cassazione. Art. 282-bis c.p.p. e la corrispondente linea (securitaria) di interdizione
Prima della nota riforma Vassalli, l’art. 253 c. p. p 1930, in rubrica, prevedeva « Casi nei quali il mandato di cattura è obbligatorio », enumerandoli nel dettato normativo[24]. La Corte costituzionale veniva investita da una specifica questione proveniente dal giudice istruttore del Tribunale di Bologna[25] (notoriamente, il vecchio giudice istruttore[26] con la riforma del 1988 è stato sostituto dall’attuale giudice per le indagini preliminari[27] e l’istruzione “per la prova”[28], soppiantata dalle indagini preliminari del P.M., è stata spostata in avanti, inserita nel giudizio, l’ultima fase del procedimento di primo grado). Questi eccepiva il contrasto costituzionale dell’art. 253 del codice Rocco con gli artt. 3, primo comma, 13, primo e secondo comma, 25, terzo comma, 27, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, argomentando che il mandato di cattura se fosse stato facoltativo ne sarebbe stata preclusa l’emissione, per l’impossibilità di motivarlo con riferimento ad esigenze probatorie, alla consistenza criminosa del fatto di reato, all’allarme sociale, al pericolo di fuga. Venendo meno per il giudice l'apprezzamento calato sull’esigenza di evitare l’inquinamento del bagaglio probatorio, la sua indipendenza sarebbe stata minacciata (art. 104, primo comma, Cost.). Rilevava la gravità dell’imputazione, più che la gravità indiziaria, la prima indice di una presunzione assoluta di pericolosità[29].
Proprio sul dovere di rendere una motivazione ad hoc, con sentenza n. 64 del 1970, la Corte costituzionale (che richiama la sentenza della Corte n. 68 del 1967), ha dichiarata fondata la quaestio sull’art. 253 cod. proc. pen. 1930 nella parte in cui esclude l'obbligo della motivazione in ordine ai sufficienti indizi di colpevolezza (in applicazione dell'art. 111 Cost.). Scrive la Corte: « la Corte non dubita che dal sistema vigente, correttamente interpretato, sia da ricavarsi il principio generale in forza del quale tutte le volte in cui la legge affida al giudice il potere di valutare determinate circostanze, al fine della emissione di un provvedimento processuale, tale valutazione debba essere oggetto di motivazione»[30].
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 253 del 18 luglio 2003, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 222 del Codice penale (Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario), «nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale». Il remittente aveva denunciato il rigido “automatismo” della regola legale che impone al giudice, in caso di proscioglimento per infermità mentale per un delitto che comporti una pena edittale superiore nel massimo a due anni, di ordinare il ricovero dell’imputato in ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo minimo di due anni, o per un periodo più lungo in relazione all’entità della pena edittale prevista, senza attribuirgli uno “spazio” entro cui potesse disporre, alternativamente, misure diverse [31].
Del pari: nel caso, oggetto della presente analisi, dell’art. 7 ter cit. sul “RdC”, nel “pendolo” del binomio custodia cautelare-condanna in primo grado, quoad effectum, lo sbocco sarà, in blocco, un provvedimento totalmente ablativo (il nomen iuris è sospensione), senza possibilità, appunto, di declinarlo e regolarlo in dipendenza di casi che sarebbe proporzionato trattare con scelte non radicali. Per esempio, stante la illustrata ratio dell’art. 1 della legge, che si tratta di un strumento d’elezione per combattere la povertà, le stesse tavole della legge potrebbero prevedere un meccanismo flessibile, a fisarmonica, secondo cui sarebbe dato al giudice il potere (oltre che di annullare anche) di ridurre la misura del RdC o applicare il “contrappasso” di una misura (di natura totalmente extrasospensiva[32], improntata al primum vivere[33]) socialmente utile, sul piano dei servizi nel territorio. Sarebbe palese il riequilibrio dell’ordinamento, nel sottosistema cautelare il cui impianto è stato concepito secondo uno “statuto di proporzionalità” dettato all’art. 275, comma 2,c. p. p. (Criteri di scelta delle misure): «Ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata»[34]. Nel solco di tale criterio, si renderebbe non irriducibile il divario tra revisione del beneficio del reddito di cittadinanza e conservazione di un presidio al depauperamento e all’emarginazione sociale.
Con la sentenza n. 253 del 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), «nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti». Si era precisato da parte del giudice a quo che il Tribunale di sorveglianza aveva ritenuto non accessibile il beneficio domandato in quanto precluso dai titoli di reato, trattandosi di delitti tutti ricompresi nel protocollo dei reati ostativi ex art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. e non risultando condotte di collaborazione con la giustizia rilevanti ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., richiamato dallo stesso art. 4-bis. Con ordinanza del 20 dicembre 2018, la Corte di cassazione aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 e aveva fatto un richiamo della giurisprudenza della Consulta sugli “automatismi” nell’applicazione delle misure cautelari personali[35] (con l’emanazione della l. 28 luglio 1984, n. 398, sulla diminuzione dei termini di carcerazione cautelare e la concessione della libertà provvisoria, e della l. 5 agosto 1988, n. 330, sulla nuova disciplina dei provvedimenti restrittivi della libertà personale nel processo penale, si andò, a tappe, sfaldandosi il dualismo cattura facoltativa/cattura obbligatoria e nella direzione dell’abbandono della politica degli automatismi applicativi, nel “cammino delle riforme”[36]).
Per quanto riguarda la Corte di cassazione, può citarsi una decisione del 2019[37] - successiva alla decisione della Consulta 2019 n.24 (nella doppia lettura con Cass., sent. 2021, n. 20156[38]) che ha estromesso dall’appartenenza alla classe della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e della confisca di prevenzione (artt. 4 e 16 cod. ant.) i soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi (art.
1, lett. a, cod. ant.) a causa della sua «radicale imprecisione» [39], e dopo la decisione c.d. De Tommaso della Corte europea[40] - secondo cui «deve concludersi che, a discapito del tenore del D.Lgs. n. 159 del 2011,art. 8, comma 4, e dell'apparente automatismo dell'applicazione delle prescrizioni che sembrerebbe discendere dalla littera legis, la lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma non possa non condurre a subordinare l'adozione delle restrizioni a specifiche e verificate condizioni ». Per quanto d’interesse in questa sede nel richiamo dell’art. 282-ter c. p. p. (misura cautelare personale di divieto di avvicinamento alle aree frequentate dalla persona offesa al reato, nel tratto comune con l’art. 282-bis c. p. p.) la stessa Cassazione scrive che «analoghe considerazioni valgono anche con riguardo all'obbligo del proposto di permanenza nell'abitazione in orario notturno, non essendo revocabile in dubbio che esso si risolva in una compressione della libertà di circolazione dell'individuo. Ne discende che – al pari del divieto di partecipare a pubbliche riunioni – detto obbligo debba motivatamente correlarsi alle specificità della ritenuta pericolosità sociale del proposto… e si renda pertanto necessaria, nel singolo caso concreto, in funzione delle obbiettive esigenze di controllo del proposto»[41].
L’art. 282-bis c. p. p. trova posta per via dell’innesto introdotto dall’art. 1, comma 2, della l. 4 aprile 2001, n. 154, cosicché il compendio delle misure coercitive [42] ha acquisito nel suo seno la misura dell’allontanamento dalla casa familiare (removal from the marital home). In tal modo, «l’art. 282 bis c. p. p. prevede una misura coercitiva introdotta successivamente all’entrata in vigore del codice di rito (dalla l. 4 aprile 2001, n. 154), consistente nell’allontanamento dalla causa familiare imposto dal giudice con il provvedimento cautelare che contiene anche il divieto di farvi rientro o di accedervi senza autorizzazione»[43], precisandosi che «la misura è stata introdotta nel solco di un intervento legislativo comprendente un più ampio ventaglio di “misure contro la violenza nelle relazioni familiari”»[44], aggiungendosi una «nuova cautela»[45].
Si tratta di un obbligo di facere (misto a non facere [46]), nella forma di un atto di desistenza che si sdoppia nel dettato normativo: la prescrizione destinativa rivolta all’imputato ha ad oggetto il divieto di permanenza nella casa familiare e quindi il suo esodo o allontanamento iussu iudicis oppure quello di rientrarvi sine titulo, cioè in assenza di un nulla osta (autorizzazione, nel linguaggio del codice). Prescrizione (articolata al secondo comma della norma nella figura di “sbarramento ambientale” del divieto di avvicinamento in luoghi frequentati dalla persona offesa) ed autorizzazione sono di fonte giurisdizionale. Il giudice, infatti, dispone siffatte limitazioni, trattandosi di una specie di “foglio di via obbligatorio”[47], dato che, per assimilazione, si traducono in un atto ostativo alla libera circolazione individuale[48] (pericula libertatis), altrimenti pericolosa e di pregiudizio[49] alla pacifica convivenza[50]. Così la vittima del reato - esercitando il suo potere di “veto locativo” (primum non nocere) - riceve immediata tutela dall’ordinamento[51] mediante un visibile “scudo ambientale” o schermo protettivo[52], «in funzione di dissuasione dei componenti la collettività dalla commissione di azioni atti a ledere i diritti fondamentali»[53]. Si traccia, così, una linea securitaria di interdizione spaziale illico et immediate, che possiamo appellare distantia loci [54] (e abduttivo il corrispondente provvedimento), un argine “di prossimità” alla libertà di incontrollata locomozione (altrimenti irriducibile) quando sbocca in atti violenti[55] e “percussivi”[56], espressione di un’azione perturbatrice[57]. Tuttavia, «nulla è previsto, a differenza delle altre misure (cfr. art. 98 disp. att.) con riferimento alla cessazione della misura dell’allontanamento della casa familiare»[58].
Riassuntivamente, si è al cospetto di un atto bicefalo: “cautelare” nel tratto oblativo dell’ombrello protettivo aperto per la vittima-persona offesa, “privativo” o impositivo in quello ablativo del forzoso allontanamento domestico (l’abduzione ex lege).
6. Ne procedat iudex ex officio: non rispettato il modello del c.d. processo di parti e mancante la previsione di uno ius ad loquendum
Il tessuto dell’iter di Corte cost. sent. 23 giugno 2021, n. 126 è integrato dal richiamo dell’art. 7-ter cit. (Sospensione del beneficio in caso di condanna o applicazione di misura cautelare personale). Un richiamo sine glossa, per l’incidenza assorbente dell’intervenuta misura cautelare personale, senza interrogarsi la norma (regolativa di una fattispecie a più versanti) se il subprocedimento - dotato quindi di una relativa autonomia - rispetti il c.d. principio della domanda, o si concluda de plano[59].
Al riguardo, nel “palcoscenico” del nuovo processo penale le leve del rito appartengono alle parti e quindi sono rari i casi in cui il giudice si “autoinveste”, come avviene nella norma per eccellenza di tale potere officioso, dell’art. 507 c. p. p. Domina l’opposto principio dispositivo e devolutivo, già partendo dall’esercizio dell’azione penale assegnata al pubblico ministero (art. 112 Cost.). Tale disegno orizzontale “procedimentalizzato”[60] improntato alla «logica del processo di parti» [61], e non verticistico, non risulta, nello specchio dell’art. 7 cit., rispettato con la previsione della sospensione automatica, secca, a prescindere da una richiesta del P.M. Manca nel subprocedimento dell’art. 7 cit. il tratto dialettico (e quindi la trama dell’audiatur altera pars) e partecipativo, ellitticamente declinato in absentia [62].
Un iter così involuto o sincopato è il prodotto di una pianificazione in sommo grado, cioè al vertice legislativo, che non ha lasciato nessuno spazio di discrezionalità non solo all’organo tipico che la esprime ed esercita - qual è il giudice, che recita in tal modo una “giurisdizione senza cognizione”[63] - ma neppure alle parti, che tracciano ed incardinano con le loro iniziative un ordine geometrico, quello del c.d. processo di parti, in rapporto di filiazione con il modello accusatorio. Il deficit rilevante è lo ius ad loquendum, riconoscibile - una specie di “contraddittorio di base”[64] all’interessato anteriormente alla sospensione del reddito di cittadinanza. La Corte europea, in altra occasione, lo chiama “specifico onere di audizione”[65]. L’interrogativo, a questo punto, è se siano state rispettati i canoni che presiedono al c.d. giusto processo, ai sensi dell’art. 111 Cost., che esalta il valore del contraddittorio.
Manca, altresì, un rapporto di filiazione “materiale” (cioè ratione materiae) tra il provvedimento coercitivo applicato (prius) e il reddito di cittadinanza caducato in conseguenza del primo (posterius).
Vero è che «nessun modello aderisce perfettamente ai fatti»[66], ma in questo caso il divario e assai ampio.
Per esempio, nel Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), è inserito l’art. 4 (Ingresso nel territorio dello Stato) che al comma 2 espressamente prevede: «La presentazione di documentazione falsa o contraffatta o di false attestazioni a sostegno della domanda di visto comporta automaticamente, oltre alle relative responsabilità penali, l’inammissibilità della domanda». Quindi è sanzionata con l’inammissibilità dell’istanza, quella fraudolenta.
Del pari, solo una mala gestio del reddito di cittadinanza, dei canali d’accesso e delle modalità di cui si avvale il percettore, potrà “dire” della congruenza rispetto all’atto di ritiro di cui è espressione la perdita del beneficio, ma non quale corollario dell’applicazione di una misura coercitiva extrareclusiva, come nel caso trattato da Corte Costituzionale, sent. 23 giugno 2021, n. 126 (relativo all’art. 282 bis c.p.p.). Tornando al diritto dell’immigrazione, si cita una norma che garantisce lo straniero maggiormente rispetto al cittadino italiano che perde il reddito di cittadinanza non solo in seguito ad un accertamento di merito dettato in sentenza, ma pure nell’ipotesi in cui questa manchi e ancor prima, in costanza di un provvedimento coercitivo, emesso quindi (per definizione) rebus sic stantibus. Invece, per lo straniero vale il D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, che all’art. 6 bis (Diniego del visto d`ingresso) stabilisce: «1. Qualora non sussistano i requisiti previsti nel testo unico e nel presente regolamento, l'autorità diplomatica o consolare comunica allo straniero, con provvedimento scritto, il diniego del visto di ingresso, contenente l'indicazione delle modalità di eventuale impugnazione. Il visto di ingresso è negato anche quando risultino accertate condanne in primo grado di cui all'articolo 4, comma 3, del testo unico»[67]. Dunque, stabili sentenze e non provvedimenti ante causam, provvisori, quelli coercitivi de libertate, eccezionali[68]. Appunto perché eccezionali dovrebbero essere di stretta interpretazione, insuscettibili di valicare il significato penale e libertario, all’origine di provvedimenti impositivi che “veicolano” un trattamento in peius, un sacrificio che - si ribadisce - non si pone in stretto contatto “materiale” con le regole che presiedono il campo cautelare.
Neanche è previsto un preavviso di ritiro del beneficio reddituale, in ambito endoprocedimentale e sul presupposto del carattere amministrativo dell’atto[69] (dovendo il ritiro essere comunicato all’INPS e questi farlo proprio).
7. (All’orizzonte) “il legislatore-giudice”
La disamina che precede, pone in luce, affacciandosi all’orizzonte, al figura di un legislatore-tuttofare, ad ampio raggio, promotore della regola e codificatore ed autore (o almeno coautore) di quella applicata, nessun spazio di apprezzamento della fattispecie concreta residuando e riconoscendosi al giudice così “spogliato” e confinato ad una operazione solo dichiarativa, nel cui ambito, al pari di un velo giuridico, si esaurisce il suo “dire” e che dovrebbe essere, invece, ius dicere[70], cioè regola concreta applicata dal giudice insieme al suo rigoroso ed autentico scrutinio. Infatti, l’art. 7-ter. del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, stabilisce la sanzione della “Sospensione del beneficio in caso di condanna o applicazione di misura cautelare personale” (in rubrica), quella “espulsiva”[71] . Al comma 1 è previsto che alla sospensione è assoggettato, invariabilmente, sia il destinatario di una misura cautelare personale che il soggetto «condannato con sentenza non definitiva per taluno dei delitti indicati all'articolo 7, comma 3»[72].
L’opus del legislatore è completamente esaustivo, di carattere antidevolutivo dell’esercizio del potere giurisdizionale: “a valle” il giudice è, si conseguenza, privo di un vaglio della stessa ratio della norma che getterebbe luce sulla regola applicabile. Recentemente, il giudice di merito ha riaffermato (il carattere di “provvidenza”) che «il Reddito di Cittadinanza, introdotto con decreto-legge 28 gennaio 2019 n. 4 come misura di contrasto alla povertà, è un sostegno economico finalizzato al reinserimento nel mondo del lavoro e all’inclusione sociale che viene riconosciuto ai nuclei familiari in possesso, cumulativamente, al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, di requisiti di cittadinanza, reddito e patrimonio»[73]. Si è osservato e precisato, ad esempio, che «l’allontanamento è una misura cautelare predisposta con particolare riferimento ai reati in materia di violenza delle relazioni familiari, ma non vi è alcuna norma che la riservi a tale categoria criminologica»[74].
Si staglia, così, il ruolo operativo - che potrebbe forse anche appellarsi “bulimia regolativa” - della legge, attestandosi e fissandosi la figura del legislatore-giudice, non meno problematica di quella uguale e contraria di giudice-legislatore, per la forte spinta creativa che la caratterizza[75].
Nella “cruna” della Corte costituzionale - che un ruolo importante «ha avuto per la valorizzazione e per l’attuazione della Costituzione» [76] - è passato indenne un vistoso automatismo applicativo veteroinquisitorio (la sospensiva del RdC calata de plano per l’incidenza assoluta di un provvedimento provvisorio di natura coercitiva), che, in assenza di una specifica mediazione cognitiva (espressione della c.d. garanzia partecipativa), esclude le parti (l’iniziativa e l’apporto), trascurando di considerare che «la parte è una preziosa fonte di informazione di cui i funzionari hanno bisogno per giungere alla decisione giusta»[77] [78].
[1] Riprendendo C. Ghisalberti, Storia costituzionale 1848/1948, II, Roma-Bari, Laterza, 1977, 422: «Il garantismo della costituzione repubblicana appare…in tutta evidenza come il motivo determinante l’intera attività della Costituente». Rinviandosi a R. Bin-G.Pitruzzella, Diritto costituzionale, XII ed., Torino, Giappichelli, 2021, 447, «ricco è il complesso di garanzie attraverso il quale la Costituzione e le leggi cercano di assicurare la “neutralità” della Corte costituzionale e dei suoi giudici». T. Martines, Diritto costituzionale, XV ed., riveduta da G. Silvestri, Milano, Giuffrè, 2020, 486 il quale avverte che «una particolare posizione assume, in seno alla Corte, il suo Presidente».
[2] Corte Costituzionale, sent. 23 giugno 2021, n. 126, in dirittifondamentali.it., 2021. Sul c. d. incidente, v. Bin-Pitruzzella, Diritto costituzionale, cit., 480: «È detto giudizio in via incidentale in quanto la questione di legittimità costituzionale sorge nel corso di un procedimento giudiziario (che viene detto giudizio principale il giudizio a quo), come “incidente processuale”, che comporta la sospensione del giudizio». Proprio sul «procedimento in via incidentale: a) la proposizione della questione», v. Martines, Diritto costituzionale, cit. 497.
[3] L’impulso al giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7-ter, comma 1, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, appartiene al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Palermo nel procedimento penale a carico di F. M., con ordinanza 7 ottobre 2019, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 2020.
Lungo una ipotetica linea di displuvio, questa demarca, secondo categorie binarie, il tratto oblativo (il beneficio del reddito di cittadinanza) con quello ablativo (la misura privativa subita, nella forma della sospensione). Simul stabunt, simul cadent: ne beneficia (del reddito) solo chi (insieme ad altri requisiti) non è colpito da un provvedimento cautelare personale o da una sentenza di condanna ancorché non definitiva, per taluni reati.
Sul piano definitorio, v. P. Tonini-C.Conti, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2021, 439: «Le misure cautelari sono quei provvedimenti provvisori e immediatamente esecutivi, finalizzati ad evitare che il trascorrere del tempo possa provocare uno dei seguenti pericoli:1) pericolo per l’accertamento del fatto storico; 2) pericolo per l’esecuzione della sentenza; 3) pericolo che si aggravino le conseguenze del reato o che venga agevolata la commissione di ulteriori reati. Le misure cautelari…comportano la limitazione di alcune libertà fondamentali». Sul «contenuto dei diritti fondamentali», si rinvia a A. Balsamo, in Manuale di procedura penale europea, a cura di R. E. Kostoris, Milano, Giuffrè, 2019, 121 ss., mentre in materia di misure cautelari, v. G. Spangher, Inquadramento generale, in Aa. Vv., Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, Padova, Cedam, 2018, 670.
[4] V. Corte cost., 18 gennaio 2022, n. 8: «Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela (sentenza n. 447 del 1998; in senso analogo, con riferimento all’abrogazione del reato di ingiuria, sentenza n. 37 del 2019; si vedano pure la sentenza n. 273 del 2010 e l’ordinanza n. 317 del 1996)». Illogiche le discriminazioni per l’accesso al Reddito di cittadinanza e all’Assegno unico universale, Contrasto alle discriminazioni, in ASGI, 23 settembre 2021.
In dottrina, v. R. Affinito-M.M.Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, in Sist. pen., 13 settembre 2021. Quando una sanzione extrapenale è troppo elevata somiglia ad una pena, su cui v., recentemente, E. Dolcini, La pena dell’ordinamento italiano, tra repressione e prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, 383.
[5] Corte cost., sent. 25 gennaio 2022, n. 19, Pres. Coraggio – Red.: De Pretis, in Immigrazione.it., 15 febbraio 2022 (commento di C. Morselli, Prime note sul reddito di cittadinanza subordinato al possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo: la Consulta chiude la forbice del sollevato conflitto internormativo, lasciando aperta la porta agli interrogativi): «Rispetto al precedente istituto del reddito di inclusione, dunque, il reddito di cittadinanza si caratterizza per una spiccata finalizzazione all'inserimento lavorativo e per un più stringente meccanismo della condizionalità, cioè per un'accentuazione degli impegni assunti dai beneficiari. Inoltre, rispetto al reddito di inclusione il reddito di cittadinanza è destinato a una platea più ampia di beneficiari, in quanto è prevista una soglia economica d'accesso più alta (art. 2, comma 1, lettera b). Per altro verso, come visto, il d. l. n. 4 del 2019, come convertito, ha previsto un forte allungamento del periodo necessario di residenza in Italia (da due a dieci anni)».
[6] D’altra parte, invece, v., con altra direzione, Cass., sez. un., 19 dicembre 2006, n. 57, in C. E. D. Cass., n. 234955: «Il provvedimento di confisca deliberato ai sensi dell'art. 2-ter, comma terzo, L. 31 maggio 1975 n. 575 (disposizioni contro la mafia) è suscettibile di revoca “ex tunc” a norma dell'art. 7, comma secondo, L. 27 dicembre 1956 n. 1423 (misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), allorché sia affetto da invalidità genetica e debba, conseguentemente, essere rimosso per rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell'errore giudiziario, non ostando al relativo riconoscimento l'irreversibilità dell'ablazione determinatasi, che non esclude la possibilità della restituzione del bene confiscato all'avente diritto o forme comunque riparatorie della perdita patrimoniale da lui ingiustificatamente subita». V. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, in Dir. pen. cont., 17 ottobre 2014 (commento di G. Romeo, Le sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di pena “incostituzionale”), secondo cui (per le conseguenze della sentenza di Corte cost., sent. n. 32 del 2014, in giurisprudenzapenale.it, 6 marzo 2014), sul bilanciamento tra il vincolo della intangibilità del giudicato e l'esecuzione di una decisione penale rivelatasi ex post illegittima, ha sancito il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di incidere sul giudicato. Contra, Cass., sez. I, 1 aprile 2019, n. 27696, in C. E. D. Cass., n. 275888, che nega la competenza del giudice dell'esecuzione. V., sullo stesso tema, Cass., sez. II, 13 ottobre 2010, n. 33641, ivi, n. 279970.
[7] In tema di sequestro ai fini di confisca per equivalente, va assicurato al soggetto nei cui confronti è stato disposto il vincolo cautelare reale un limite, desumibile dai principi fondamentali di proporzionalità e di solidarietà (Cass., sez. III, 13 gennaio 2021, n.795, in Proc. pen. giust., 2022). Spetta sempre al giudice nazionale scegliere la misura secondo i criteri previsti dall’art. 275 c. p. p., facendo riferimento ai principi di proporzionalità e adeguatezza (Cass., sez. IV, 20 ottobre 2021, n. 37739, ivi).
[8] V. T. A. R. Campania – Napoli -, sez. I, sent. 30 settembre 2021, n. 6131, in Il Merito, febbraio 2022, n.2, 68. Analogamente, ma più restrittivamente, v. T. A. R. Campania – Napoli -, sent. 30 settembre 2021, n. 6079, ivi.
«Come fu detto con felice immagine da Calamandrei, il giudizio comune è “l’anticamera” della Corte e il giudice, davanti al quale esso pende, è il soggetto cui spetta di aprire o no il “portone” che dà accesso alla Corte costituzionale»: cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, tomo 2 (L’ordinamento costituzionale italiano – la Corte costituzionale), Padova, Cedam,1984 (V ed.), 263. Si è pure detto che il giudice comune trova posto in una «posizione di intermediarietà tra la sfera politica e quella dei diritti individuali» (G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Bologna, Il Mulino, 2012, 269. Recentemente, v. Bin-Pitruzzella, Diritto costituzionale, cit., 481, sui requisiti oggettivo e soggettivo «ritenuti necessari dalla giurisprudenza costituzionale perché un organo possa considerarsi legittimato a sollevare la questione di costituzionalità»). In precedenza, v. P. Caretti-U. De Siervo, Diritto costituzionale e pubblico, IV ed.,Torino, Giappichelli, 2020, 446 sulla «iniziativa di un giudice comune».
Obietta A. Natale, Il giudice comune, servitore di più padroni, in Quest. giust., 2020: «Nel corso degli anni, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici comuni (piccoli o grandi che fossero) sono state sempre più spesso bollate dalla Consulta con il marchio dell’inammissibilità… nel 2010, su 211 giudizi promossi in via incidentale, ben 113 sono stati decisi con ordinanza di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza; nel 2011, su 196 giudizi promossi in via incidentale, ben 129 sono stati decisi con ordinanza di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza; nel 2012, su 141 giudizi promossi in via incidentale, ben 85 sono stati decisi con ordinanza di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza». Il risultato è quello di una «complessiva perdita di effettività del controllo di costituzionalità» (V. Manes, L’evoluzione del rapporto tra Corte e giudici comuni nell’attuazione del volto costituzionale dell’illecito penale, in V. Manes e V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Torino, Giappichelli, 2019, 1 ss.). Anche nel settore della giustizia di legittimità l’accesso è piuttosto selettivo, ma, da ultimo, v. Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande sezione, sent. 21 dicembre 2021 – Causa C/497/20, proc. Randstand Italia SpA contro Umana SpA e altri, in Guida dir., 29 gennaio 2022, n.3, 120, commento di M. Castellaneta, I limiti posti da norma interna al ricorso in Cassazione non contrastano con il diritto Ue (il riferimento è ai limiti posti dall’ordinamento nazionale ai ricorsi). Nel settore del rito penale, v. G. Spangher, Impugnazioni. Inammissibilità: l’inarrestabile erosione dei diritti delle parti, in Dir. pen. proc., 2022, n.1, 6 s. che mette in luce la «selezione delle inammissibilità per controllare i flussi processuali».
[9] Nella nozione di “maltrattamenti” rientrano i fatti lesivi dell’integrità fisica e dell’integrità del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendono abitualmente dolorose le relazioni familiari (Trib. pen., Taranto, sez. I, sent.10 agosto 2021, n. 1036, in Il Merito, febbraio 2022, n.2, 41).
Altra forma di divieto è richiamata da Trib. Ferrara, sez. pen., sent. 12 ottobre 2021, n.1201, in Il Merito, febbraio 2022, n.2, 34: il provvedimento di foglio di via obbligatorio deve contenere non solo il divieto di far ritorno nel territorio del Comune di emissione del provvedimento, ma anche l’ordine di rimpatrio in un determinato luogo, prescrizioni che costituiscono condizioni imprescindibili ed inscindibili per la legittima emissione del foglio di via obbligatorio, con la conseguenza che la mancanza di una delle due prescrizioni determina l’illegittimità del suddetto provvedimento e la conseguente insussistenza del reato di cui all’art. 76 co. 3, D.Lgs. 6 settembre 2011, n.159. Infra, nota n. 41, sull’obbligo del proposto di permanenza nell'abitazione in orario notturno.
[10] Cfr. V. Gramuglia, Interrogatorio di garanzia e legislazione dell'emergenza Covid-19 (art. 83, co. 2 d.l. n. 18/2020): tra garanzie difensive e tutela della salute collettiva, in Sist. pen., 17 novembre 2020. In ordine agli «strumenti cautelari e precautelari» , v. A. De Caro, in Manuale di diritto processuale penale, III ed., AA. VV., Torino, Giappichelli, 2018, 335 ss. Sull’interrogatorio dell’indagato, da ultimo, v. Cass, sez. un., 24 marzo 2022 (ud. 16 dicembre 2021), n. 10728, Pres. Cassano, Rel. Andronio, in Giur. pen., 28 marzo 2022.
[11] Il reddito di cittadinanza nella pratica ha fatto emergere i suoi allarmanti limiti, per la facile possibilità di “lucrarlo” anche da parte di soggetti del tutto atipici (rispetto ai tratti del soggetto abilitato, al perimetro delimitato), aggirando le barriere selettive. “Truffa da 20 milioni di euro. Furbetti del reddito di cittadinanza incastrati dai carabinieri: dal nullatenente in Ferrari all’autonoleggiatore con 27 auto. Nella maxioperazione del comando interregionale Ogaden scovati proprietari di numerosi immobili. C’è persino chi ha millantato di avere sei figli. Rilevate 4.839 irregolarità. Nel 2021 più di 40 milioni indebitamente percepiti”, in Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2021.
V. Torino, reddito di cittadinanza: truffa da 6 milioni, 960 indagati, in Corriere di Torino, 8 febbraio 2022; Reddito di cittadinanza, maxi truffa da 6 milioni a Torino: 960 indagati, 330 sono romeni. Dichiaravano dati falsi e residenze inesistenti, in Il Messaggero, 8 febbraio 2022. Altresì, v. La truffa da 21 milioni di euro sul reddito di cittadinanza. Sono state fatte migliaia di richieste a nome di cittadini rumeni mai stati in Italia, e ci sono decine di persone arrestate, in Post., 12 aprile 2022.
[12] Proprio la libertà personale è stata considerata come “libertà dagli arresti” (infra nota 16). Arresto e fermo ricevono la comune definizione di “misure precautelari”, e che diventano la «due subcautele» nella variante linguistica di F. Cordero, Sub art. 380, in Codice di procedura penale commentato, Torino, Utet, 1992, 449.
[13] Corte Cost., sent. 23 giugno 2021, n. 126, cit.: «1.2.- Ciò premesso, in punto di rilevanza il rimettente precisa che la vicenda alla base dell'ordinanza di rimessione origina dall'applicazione, nei confronti di F. M., della misura cautelare personale del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ex art. 282-bis cod. proc. pen., in relazione a fatti riconducibili al reato di maltrattamenti in famiglia, di cui all'art. 572 del codice penale».
In dottrina, v. V. Grevi-M.Ceresa Gastaldo, Misure cautelari, in G. Conso-V.Grevi-M.Bargis, Compendio di procedura penale, Padova, Cedam, 2020, 353: «Circa la fisionomia delle diverse misure coercitive…esse appaiono tra loro ordinate in termini di progressiva afflittività…All’interno di questa ideale gerarchia, nella quale si concreata uno strumento evidentemente indispensabile per l’attuazione del principio di adeguatezza (art. 275), si collocano le misure del divieto di espatrio…dell’obbligo di presentazione periodica agli uffici di polizia giudiziaria (art. 282) e dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis), nei casi e secondo le articolate modalità previste dai vari commi dello stesso art. 282-bis». Specificamente, v. C. Taormina, Procedura penale, Torino Giappichelli, 2015, 371, a cui si rinvia: «Adeguatezza. La scelta della misura cautelare…è legata al principio di adeguatezza (art. 275)».
Sulle «misure della permanenza in casa e del collocamento in comunità, previste dal rito minorile», v. Cass. pen., sez. II, 22 novembre 2021 (9 settembre 2021), n. 43899 -Pres. Diotallevi - Rel. Recchione P.G.(diff.) - Ric. M. P. S.r.l, in Dir. pen. proc., 2022, n. 2, 186.V., in dottrina, C. Pansini, Commento agli artt. 21-22 D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, in Aa.Vv.,Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda - G. Spangher, V ed., III,Milano, 2017, 1155 ss.
[14] Per uno spunto, da ultimo, v. T.A.R. Campania, sez.I, sent. 31 marzo 2022, n. 21 49, sull’incidenza della condanna non definitiva, in Guia dir., 30 aprile 2022, n.16, 87.
Presunzione di innocenza: v. lo schema di d.lgs. per il compiuto adeguamento alla Direttiva (UE) 2016/343, in Sist. pen., 12 agosto 2021. Il 5 agosto 2021 il Consiglio dei Ministri ha approvato uno schema di decreto legislativo recante “disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Il provvedimento fa seguito alla legge di delegazione europea 2019-2020 (l. 22 aprile 2021, n. 53).
Cfr. V. Garofali, Presunzione d’innocenza e considerazione di non colpevolezza. La fungibilità delle due formulazioni, in Presunzione di on colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Atti del Convegno, Milano, Giuffrè, 2000, 63; da ultimo v. G. M. Baccari, Le nuove norme sul rafforzamento della presunzione di innocenza dell’imputato, in Dir. Pen. Proc., 2022, n.2, 160: «le nuove regole segnano un fondamentale passo in avanti, sul terreno giuridico e su quello culturale, perché esaltano il valore positivo dalla presunzione di innocenza consacrato in varie fonti normative (art. 48, par. 1, Carta dei diritti Fondamentali UE; art. 6, par. 2, CEDU; art. 27, comma 2, Cost.): un principio ancora oggi misconosciuto dall’opinione pubblica, anche a causa dell’atteggiamento “giustizialista” tenuto troppe volte dai media». V. Presunzione di innocenza: gli orientamenti in materia di “comunicazione istituzionale su procedimenti penali” della Procura Generale della Corte di cassazione, in Giur. pen., 14 aprile 2022.
Corte e.d.u., sez. I, Strasburgo, 18 novembre 2021, Marinoni c. Italia, in Proc. pen. giust., 19 novembre 2021, Foro it., 19 novembre 2021, commento di N. Paolucci, La correzione di tiro della Corte di Strasburgo sulla presunzione di innocenza.
In ordine al primo grado, v.. in dottrina M. Mazza, Contributo all’analisi del giudizio penale di primo grado, Milano, Giuffrè, 1964, 207; A. A. Dalia, Giudizio, in Il nuovo diritto processuale 2, Il giudizio di primo grado, a cura di A. A. Dalia, Napoli, Jovene, 1991, 385; G. Ubertis, Giudizio di primo grado (disciplina) nel diritto processuale penale, in Dig. pen., V, Torino, Utet, 1991, p. 521; G. Olivieri, Giudice unico di primo grado, in Enc. dir., Agg. V, Milano, Giuffrè, 2001, 483; nonché, più recentemente, A. Diddi, Giudizio, in Aa. Vv., Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, Padova, Cedam, 2018, 303.
[15] Tra i primi commentatori, è, specialmente, M. Chiavario, Una “Carta di libertà” espressione di impegno civile: con qualche sgualcitura (è qualche…patinatura di troppo), in Commento al nuovo Codice di procedura penale, coord. da M. Chavario, III, Torino, Utet, 1990, 3, che richiama E. Fassone, La coercizione personale, in Mag Dem, 1978, 14.
[16] Proprio la libertà personale è stata considerata come «libertà dagli arresti», da G. Aamato, Sub art. 13, Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Rapporti civili, Bologna-Roma, Zanichelli,1977, 4, che cita C. Mortati, Relazione alla Assemblea Costituente della Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, istituita presso il Ministero per la Costituente, Studi diritti pubblico subiettivi, ora in Raccolta di Scritti, I, 622, il quale parla di « inviolabilità dagli arresti ».
[17] Presidiati dai due uffici Gip e Gup, su cui v E. Maccora, La specializzazione per materia negli uffici gip-gup di grandi dimensioni, in Quest. giust.,10 febbraio 2022: «L’ufficio gip-gup diventerà quindi sempre di più un anello strategico dell’intero procedimento penale e sarà determinante per mantenere i canoni della ragionevole durata e rispettare le condizioni poste dal PNRR, che verranno valutati nel 2026 ».Cfr. G. Ruta, Verso una nuova istruzione formale? Il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, ivi, 20 gennaio 2022: «La “riforma Cartabia” investe profondamente la fase delle indagini preliminari, incidendo su snodi fondamentali, quali il momento “genetico” dell’iscrizione della notizia di reato e del nominativo della persona cui esso è da attribuire, e il momento “conclusivo” delle determinazioni sull’esercizio dell’azione penale».
Cfr. A. Leopizzi, Le indagini preliminari, Milano, Giuffrè, 2017 e, in giurisprudenza, Cass., sez. IV, 4 maggio 2021, n. 16819, in Proc. pen. giust., 4 maggio 2021.
[18] Così, Chiavario, Una “Carta di libertà” espressione di impegno civile: con qualche sgualcitura (è qualche…patinatura di troppo), in Commento al nuovo Codice di procedura penale, cit. 10.
[19] Art. 1, La giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario secondo le norme di questo codice. Al riguardo, tra i primi commentari, in dottrina, coglie l’elemento di novità, rispetto alla passata esperienza codicistica, E. Amodio, Il modello accusatorio nel nuovo codice di procedura penale, in E. Amodio-O.Dominioni, Commentario del nuovo codice di procedura pena, I, Milano, Giuffrè, 1989, XXIX: «Il raffronto tra i due sistemi mette subito in evidenza come il codice del 1988 abbia abbandonato lo schema risalente alla tradizione francese, che collocando in testa al codice la normativa sull’azione penale, riconduce tutta la procedura penale a questo concetto». Altresì, v. V. Grevi, Funzioni di garanzia e funzioni di controllo del giudice nel corso delle indagini preliminari, in AA. VV., Il nuovo processo penale. Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, Giuffrè, 1989,16, ancorché tautologicamente: «la figura del giudice risulta delineata secondo criteri di accentuata giurisdizionalizzazione». Cfr., recentemente, M. Menna, Soggetti e ruoli, in Manuale di diritto processuale penale, III ed., AA. VV., Giappichelli, Torino, 2018, 71 ss.: «Nel codice di procedura penale, a differenza del Codice Rocco, è centrale il riferimento alla giurisdizione».
[20] O. Vannini, Manuale di diritto processuale penale italiano, agg. da G. Cocciardi, Milano, Giuffrè, 1958, 43.
[21] Articolo inserito dalla legge di conversione 28 marzo 2019, n. 26. L’omessa comunicazione delle variazioni di reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari o da vincite al gioco, è idonea alla revoca o alla riduzione del reddito di cittadinanza (Cass., sez. III, sent. 15 febbraio 2022, n. 5309). Cfr. A. Preve, La Cassazione sulla disciplina penale in materia di reddito di cittadinanza: cause di riduzione del beneficio e sequestrabilità delle somme di denaro, in Sist. pen., 2 marzo 2022.
[22] P. L. Vigna, Le indagini preliminari, in AA. VV., Il nuovo processo penale, Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, Giuffrè, 1989, 6 sulla finalità delle indagini « in senso endoprocedimentale…il che sta a significare che, normalmente, tutto ciò che viene raccolto nella fase delle indagini preliminari è utilizzabile solo all’interno di esse ».
[23] G. D. Pisapia, Prefazione, in AA. VV., Il nuovo processo penale, Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, Giuffrè, 1989, VII, che segnala il passaggio «dall’applicazione di un sistema sostanzialmente inquisitorio, quale è quello al quale si ispira prevalentemente il codice Rocco, ad un processo a struttura accusatoria, come quello delineato dal codice del 1988». Recentemente, A. Scalfati, Obiettivi processuali e modelli giudiziari, in Manuale di diritto processuale penale, AA. VV., Torino, Giappichelli, 2018, 7, si sofferma sui «caratteri essenziali dei sistemi, rispettivamente, inquisitorio e accusatorio…Nei sistemi del secondo tipo, la magistratura…fa i conti con le garanzie individuali».
[24] «1° di delitto contro la personalita' dello Stato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a dieci anni, o una pena piu' grave; 2° di omicidio volontario consumato o tentato, di lesioni personali volontarie gravi o gravissime, di rapina, di estorsione o di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione; 3° di ogni altro delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni o una pena più grave». Un meccanismo estensivo coinvolgeva, per esempio, il «delinquente abituale, professionale o per tendenza». La relativa dichiarazione darà luogo ad altre conseguenze: «importa l’applicazione di misure di sicurezza», ai sensi dell’attuale art. 109 c.p. Osserva T. Padovani, Diritto penale, Milano, Giuffrè, 2017, 395: «In realtà, in base all’art. 31, L. 663/1986, anche l’applicazione di una misura di sicurezza personale ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza presuppone in ogni caso il previo accertamento giudiziale della pericolosità». Pure G.Marinucci-E.Dolcini-G.L.Gatta, Manuale di diritto penale, P.G., XII ed., Milano, Giuffrè, 2021, 97: «Secondo la disciplina attuale, la pericolosità sociale va sempre accertata in concreto dal giudice. La disciplina vigente non sembra peraltro compatibile con il principio di precisione che impone al legislatore di fare tutto quanto è in suo potere per ridurre al minimo l’arbitrio del giudice nella formulazione del giudizio di pericolosità».
[25] Corte cost., sent.30 gennaio 1974, n. 21, Pres. F. P. Bonifacio, proc. M. Cristalli.
[26] Si ricorda, del vecchio codice, con G. Leone, Manuale di diritto processuale penale, Napoli, Jovene, 1988, 393: «L’istruzione è sommaria o formale. La distinzione tra le due specie d’istruzione si riferisce alla sollecitudine o meno dell’indagine…Fino alla legge 7 novembre 1969, n. 780 la scelta della specie di istruzione era affidata discrezionalmente al procuratore della Repubblica…Con la predetta legge (provocata dalla sent. n. 117 del 1968 della Corte costituzionale) si è introdotto il potere dell’imputato di chiedere la trasformazione dell’istruzione in formale».
[27] E «con questo sistema si è inteso sopperire ad una situazione determinata dalla abolizione della istruzione, segreta e scritta, tipica dei sistemi inquisitori. Ed alla conseguente soppressione della figura del Giudice Istruttore» (G.D.Pisapia, Introduzione, in AA. VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano Giuffrè, 1990, 9). Pure G. Riccio, Dal giudice istruttore al giudice dell’udienza preliminare: la fase anteriore al dibattimento nella legge-delega, nel progetto preliminare e nella nuova legge-delega, in Ideologie e modelli del processo penale, Scritti, Napoli, E.S.I., 1995, 106, in merito allo «sforzo di riforma sul giudice istruttore». Più recentemente, per un bilancio, v. F. Casibba, Udienza preliminare e controlli sull’enunciato d’accusa a trent’anni dal codice di procedura penale, in Arch. pen., Riv. Quadr., 2019, fac. 3, Pisa, Ius Pisa, 2019,843, che punta il dito sulla «invadenza della prassi…Il legislatore del 1988 aveva, in effetti, riposto un’eccessiva fiducia nella forza delle regole e nella loro capacità di orientare i comportamenti dei soggetti processuali ».
[28] Scrive P. Ferrua, La prova nel processo penale: profili generali, in AA., VV., La prova penale, a cura di P. Ferrua-E. Marzaduri-G.Spangher, Torino, Giappichelli, 2013, 1-2: «Prova è ogni dato che, legittimamente acquisito al processo, sia valutabile dal giudice in ordine a una determinata proposizione da provare» e G. Ubertis, La prova penale. Profili di studi giuridici ed espistemologici, Utet, Torino, 1995, 27 si concentra sull’«elemento di prova, rappresentato da ciò che, introdotto nel procedimento, può essere utilizzato dal giudice come fondamento della sua successiva attività inferenziale».
[29] Si levavano in dottrina forti dubbi di illegittimità, nel filtro ermeneutico della presunzione di non colpevolezza (ex multis, v. E. Amodio, La tutela della libertà personale dell’imputato nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, 864; M. Pisani, La custodia preventiva: profili costituzionali, in Ind. pen., 1970, 192; nonché V. Grevi, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano 1976, 131 s.; G. Illuminati, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, Zanichelli, 1979, 52).
[30]«Circa l'obbligo di motivazione imposto dall'art. 13 della Costituzione é da osservare che la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 253 c.p.p. é sufficiente ad imporne l'osservanza in tutti i casi nei quali la legge - si tratti del codice processuale o di legge speciale - impone l'emissione del mandato di cattura… a prescindere dalla preferibilità di un sistema che demandi sempre al giudice il potere di valutare di volta in volta se il lasciare in libertà l'imputato determini un pericolo di entità tale da giustificarne la cattura e la detenzione» (sent. di Corte cost., n. 64 del 4 maggio 1970, in Giur. cost., 1970. 663; successivamente, sullo stesso tema, v.sentt. 21/74, cit; 19 giugno 1975, n. 146, «dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 148 del codice penale, nella parte in cui prevede che il giudice, nel disporre il ricovero in manicomio giudiziario del condannato caduto in stato d'infermità psichica durante l'esecuzione di pena restrittiva della libertà personale, ordini che la pena medesima sia sospesa»; 14 aprile 1976, n. 88, avvisa che «la detenzione preventiva non ha la funzione di anticipare la pena, applicabile solo dopo l'accertamento della colpevolezza»; 23 gennaio 1980, n. 1, allorché «risulta vulnerata la presunzione di non colpevolezza dell'imputato, la quale impedisce - fino alla sentenza definitiva - di considerare l'imputato come sicuramente responsabile dei reati a lui attribuiti»). In tema, da ultimo, v. Cass., sez. IV, 4 febbraio 2022, n. 3938 quando i ricorrenti con «il quarto motivo censurano il vizio di motivazione» e Cass., sez. V, sent. 10 febbraio 2022, n. 4930, in Norme & Trib., 10 febbraio 2022 allorché «la motivazione del provvedimento impugnato risulta esaustiva e priva di contraddizioni ed illogicità e che in essa si dà anche atto dei vari riscontri che assistono il racconto delle vittime».
[31] Avverte Padovani, Diritto penale, cit., 398: «In particolare, potrà trattasi dell’eventuale applicazione della libertà vigilata (art. 228 c..p., con prescrizioni corrispondenti alle esigenze terapeutiche del soggetto e sufficienti a impedire la commissione di nuovi reati»). Da ultimo, v. F. Gualtieri, L’applicazione delle misure di sicurezza detentive e il “malfunzionamento strutturale” del sistema delle REMS, secondo C. Cost., sentenza n. 22 del 2022: un punto di svolta nel percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, in Giust. ins., 7 febbraio 2022. V., altresì, A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, in Quest. giust., 13 maggio 2021.
[32] V., invece, Cass., sez. lav. n. 4154: negato il risarcimento dei danno, patrimoniale e non, al soggetto che è stato sospeso dall’insegnamento a seguito di una misura cautelare interdittiva (Cass., sez. lav., ord. 9 febbraio 2022, n. 4154, in Norme & Trib., 9 febbraio 2022).
[33] Con sent. 44366 del primo dicembre 2021, la Corte di Cassazione muta orientamento interpretativo: rilevanti effetti sulla vicenda degli stranieri che hanno percepito il reddito senza aver maturato il requisito di 10 anni di residenza. La falsa dichiarazione per ottenere il reddito di cittadinanza non integra il reato specifico se il RDC è comunque dovuto (in ASGI, 24 gennaio 2022). È stata depositata ieri la sentenza n. 19/2022 della Corte che dichiara in parte inammissibili e in parte infondate la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 co. 1 lett. a) num. 1) DL 4/19 conv. in L. 26/19, in ASGI, 16 gennaio 2022.
Quindi, la sentenza n. 44366 depositata il 1° dicembre 2021, in particolare, ha confermato il sequestro preventivo emesso a carico di una donna, indagata in ordine alla violazione di cui all’art. 7, comma 1, del Dl n. 4/2019, per aver omesso di fornire, in occasione della presentazione dell’istanza per accedere al reddito di cittadinanza, le complete informazioni concernenti la sussistenza dei requisiti per il godimento del beneficio. Reddito di cittadinanza: sequestro solo se le dichiarazioni omesse ostano al beneficio.
[34] V., ad esempio, E. Marzaduri, Sub art. 275, in Commento al Codice di procedura penale, coord. da M. Chiavario, Terzo Agg., Torino, Utet, 1998, 169 sulla «formulazione di un giudizio di proporzionalità idoneo a soddisfare le esigenze garantistiche che ne costituiscono la ratio».
Sull’accennata esigenza di riequilibrio dei rapporti, si tratterebbe della introduzione di uno strumento inteso come meccanismo di riequilibrio sociale, il cui funzionamento presuppone una leale collaborazione e cooperazione tra cittadino e amministrazione, ispirata alla trasparenza. Per il commento alle sentenze 5289 e 5290 del 2019 della Corte di Cassazione, si rinvia a. M. Carani, Una prima
lettura della disciplina penale in materia di reddito di cittadinanza, in Cass. pen., 2021, 1297 ss.
[35] V. G. Cirioli, Bertoldo e la presunzione assoluta di pericolosità sociale: entrambi impiccati a una pianta di fragole? Un breve commento alla sentenza n. 253/2019 della Corte Costituzionale, in A. I. C., f. 4, 4 agosto 2020. Appunto, v. Corte cost., sent. n. 253, 23 ottobre 2019 (dep. il 4 dicembre 2019), Pres. Lattanzi, Red. Zanon, in www.giurcost.org, con note di M. Ruotolo, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in Sist. pen., 12 dicembre 2019; A.Pugiotto, La sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, in Forum di Quaderni Costituzionali (web), fasc. 1/2020, 4 febbraio 2020, p. 160; M. Cerase, La Corte costituzionale sui reati ostativi: una sentenza, molte perplessità, in Forum di Quaderni Costituzionali (web), fasc. 1/2020, 5 febbraio 2020, 175; M. Chiavario, La sentenza sui permessi-premio: una pronuncia che non merita inquadramenti unilaterali, in Osservatorio AIC (web), fasc. 1/2020, 4 febbraio 2020, 211; A. Menghini, La Consulta apre una breccia nell’art. 4 bis o.p., Nota a Corte cost. n. 253/2019, in Osservatorio AIC (web), fasc. 2/2020, 3 marzo 2020, 307; S. Bernardi, Sull’incompatibilità con la Costituzione della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia: in margine a Corte cost., sentenza del 23 ottobre 2019 (dep. 4 dicembre 2019), n. 253, in Osservatorio AIC (web), fasc. 2/2020, 3 marzo 2020, 324; nonché G. Della Monica, La irragionevolezza delle presunzioni che connotano il modello differenziato di esecuzione della pena per i condannati pericolosi. Riflessioni a margine della sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, in Dirittifondamentali.it, fasc. 1/2020, 4 aprile 2020, 986; J. Mazzacuva, Reati ostativi e benefici premiali: l’emergere di un nuovo paradigma ermeneutico (Commento a C. Cost. 23 Ottobre 2019, n. 253), in Federalismi.it, fasc. 3/2020, 5 febbraio 2020, 84.
[36] Per rendere plastico l’iter, si mutua il titolo, in precedenza, adottato da M. Chiavario, La custodia preventiva nel faticoso e tortuoso cammino delle riforme, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, 1314 ss.
Cfr. G. Lozzi, Sulle principali innovazioni apportate al codice di procedura penale del 1930 dalla legge 5 agosto 1988 n. 330, in Giust. pen., 1988, III, 630.
Non può non citarsi la legge 1995/332, su cui v. V. Grevi, Più ombre che luci nella l. 8 agosto 1995 n. 332 tra istanze garantistiche ed esigenze del processo, in Misure cautelari e diritto di difesa nella L. 8 agosto 1995 n. 332, a cura di V Grevi, Milano, Giuffrè, 1996, 4: «Luci ed ombre nella nuova legge. O meglio, per molti aspetti, più ombre che luci».
[37] Cass., sez. VI, sent. 29 maggio (dep. 11 giugno) 2019, n. 25771, Pres. Paoloni, rel. Bassi, ric. P. A., nel commento di E. Zuffada, La Cassazione scardina in via interpretativa l’automatismo applicativo delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale: verso una questione di legittimità costituzionale?, in Dir. pen. cont., 23 settembre 2019.
[38] Cass., sez. I, sent. 22 aprile 2021 (dep. 20 maggio 2021), n. 20156, Pres. Boni, est. Magi, in Sist. pen., 27 settembre 2021 (con nota di M. Griffo, Una ante-prima della pronuncia delle Sezioni Unite in tema di rimedio esperibile per far valere gli effetti della pronuncia della Corte costituzionale n. 24 del 2019).
[39] Corte cost., sent. 24 gennaio-27 febbraio 2019, n. 24, in Arch. pen., 2019 e Dir. pen, cont., 4 marzo 2019. Sul punto, v. F. Basile, E. Mariani, La dichiarazione di incostituzionalità della fattispecie preventiva dei soggetti “abitualmente dediti a traffici delittuosi”: questioni aperte in tema di pericolosità, in DisCrimen, 10 giugno 2019; M. Cerfeda, La prevedibilità ai confini della materia penale: la sentenza n. 24/2019 della Corte costituzionale e la sorte delle “misure di polizia”, in Arch. pen., 2019, n. 2; S. Finocchiaro, Due pronunce della Corte costituzionale in tema di principio di legalità e misure di prevenzione a seguito della sentenza De Tommaso della Corte edu, in Dir. pen. cont., 4 marzo 2019; C. Forte, La Consulta espunge dal sistema le misure di prevenzione nei confronti dei soggetti “abitualmente dediti a traffici delittuosi”, in il Penalista.it, 28 marzo 2019; V. Maiello, La prevenzione ante delictum da pericolosità generica al bivio tra legalità costituzionale e interpretazione tassativizzante, in Giur. cost., 2019, 332.
[40] C. edu, Grande camera, 23 febbraio 2017 De Tommaso c. Italia, in Arch. pen., 2017, n.1, 1 ss., con commento di A. Dello Russo, La Corte EDU sulle misure di prevenzione. Altro caso di conflitto istituzionale?, e in Dir. pen. cont., 3 marzo 2017, e su cui v. F. Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, ivi, fasc. 3/2017, 370; S. Finocchiaro, Le misure di prevenzione italiane sul banco degli imputati a Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2017, 881; V. Maiello, De Tommaso c. Italia e la cattiva coscienza delle misure di prevenzione, in Dir. pen. proc., 2017, 1039; A. M. Maugeri, Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità generica: la Corte europea condanna l’Italia per la mancanza di qualità della “legge”, ma una rondine non fa primavera, in Dir. pen. cont., fasc. 3/2017, 15.
Sui presupposti applicativi della confisca di prevenzione, cfr. AA.VV., Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine: reciproco riconoscimento e prospettive di armonizzazione, a cura di A. Maugeri, Milano, Giuffrè, 2007, 145 ss.; A. Aiello, La tutela civilistica dei terzi nel sistema della prevenzione patrimoniale antimafia, Milano, Giuffrè, 2005, 44 ss.; A. Balsamo, Le prospettive di riforma del sistema delle misure patrimoniali, in AA.VV., I costi dell’illegalità, Bologna, Il Mulino, 2008, 58 ss.; A. Balsamo, La prevenzione ante delictum, in AA.VV., Contrasto al terrorismo interno e internazionale, a cura di R. Kostoris – R. Orlandi, Torino, Giappichelli, 2006, 28 ss.
[41] Cass., sez. VI, sent. 29 maggio (dep. 11 giugno) 2019, n. 25771, in Dir. pen. cont. 2019. V., pure per uno spunto, Corte cost., sent 3 febbraio 2022, n.30. In tale ordine di idee, considerando il carattere residuale gli arresti domiciliari di carattere residuale e il c.d. allontanamento una misura di sicurezza, v. Cass., sez. VI, sent. 7 febbraio 2022, n. 4213, in Guida dir., 26 febbraio 2022, n. 7, 55: il convivente alcolista che ha commesso il reato di maltrattamento in famiglia contro la propria compagna può essere sottoposto a misure che ne limitano la libertà personale al fine di scongiurare il rischio di reiterazione della condotta criminosa. Tuttavia la gradazìone della limitazione della libertà personale deve essere approfonditamente valutata al momento dell’adozione della misura. A ricordarlo è la Cassazione che, nel confermare la misura cautelare degli arresti domiciliari, non aveva preso in considerazione alcune circostanze di fatto che potevano far propendere per l’applicazione di una misura di sicurezza come l’allontanamento della casa familiare, il divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi da essa frequentati oppure il divieto di dimora nel medesimo Comune della vittima. Nel caso di specie vi era stata la fine della convivenza, il cambio di residenza e la presa di contatto con il Sert del luogo della nuova dimora, tutti elementi che non sono stati valorizzati in alcun modo dai giudici (v. C. D. Leotta, Ammissibile il concorso materiale tra maltrattamenti in famiglia e tortura privata, che commenta Cass., sez. III, 31 agosto 2021, n. 32380, in Giur. it., 2020, 194 ss.). Sull’obbligo di dimora, v. Cass., sez. V, 14 ottobre 2020, n. 28757, in Giur. it., 2020, 2598.
In dottrina, v. F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2012, 505: «Allontanamento dalla casa familiare. Dalla l. 4 aprile 2001 n.154 nascono un titolo IX-bis nel codice civile, recante “ordini di protezione contro gli abusi familiari”, e correlativamente, nell’art. 282 bis, una nuova misura prescrittiva: N lasci immediatamente la casa coniugale e non vi rientri né vi acceda senza permesso, secondo date modalità (comma 1)». Cfr. T. Padovani, Sicurezza pubblica: quel collasso dei codici “figlio della rincorsa” all’ultima emergenza, in Guida dir., 2013, n. 36, 10.
[42] In materia, v. E. Marzaduri, A trent’anni dall’entrata in vigore del c.p.p.:le disposizioni generali sulle misure cautelari personali, in Arch. pen., Riv. Quadr., 2019, fac. 3, Pisa, Ius Pisa, 2019,893 ss.
[43] v. A. De Cacro, Strumenti cautelari e precautelari, in Manuale di diritto processuale penale, AA. VV., Torino, Giappichelli, 2017, 354.
[44] M. Chiavario, Diritto processuale penale, Torino, Utet, VIII ed., 2019, 923, ora in Id., Diritto processuale penale, IX ed., Torino, Utet, 2022, 945 ss.
[45] A. Marandola, Le misure cautelari personale, AA. VV., Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, Padova, Cedam, 2018, 694: «il panorama delle misure cautelari si è arricchito di una nuova “cautela”».
[46] Quindi, si tratterebbe della neutralizzazione dell’ animus manendi et revertendi.
[47] Su cui v. Trib. Ferrara, sez. pen., sent. 12 ottobre 2021, n.1201, cit., relativamente al provvedimento di foglio di via obbligatorio che deve contenere non solo il divieto di far ritorno nel territorio del Comune di emissione del provvedimento, ma anche l’ordine di rimpatrio in un determinato luogo (al fini del reato di cui all’art. 76 co. 3, D.Lgs. 6 settembre 2011, n.159).Per il foglio obbligatorio di via del Questore illegittimo v. Cass. pen., sez. I, sent. 29 agosto 2019 n. 36652. In materia, v. Cons. St., sent. 17 maggio 2021, n. 3829; Cons. St., sez. III, sent. 6 settembre 2016, n. 3818; T. A. R. Liguria, 24 febbraio 2016, n. 202. Secondo Cons. St., sez. III, sent. 8 giugno 2011, n. 3451 non è richiesta la comunicazione dell’avviso di procedimento.
[48] In dottrina, v. F. Viganò, Sub art. 2 Prot. n. 4. Libertà di circolazione, in Corte di Strasburgo e giustizia penale, a cura di G. Ubertis e F. Viganò, Torino, Giappichelli, 2016, 354, il quale avverte: «Le garanzie previste dall’art. 2 Prot. n. 4 Cedu, che corrisponde nella sostanza a quelle riconosciute dall’art. 16 della Costituzione italiana, nonché a quelle sancite dall’art. 12 Pidu, sono entrambe riconducibili al genus rappresentato dalla libertà di movimento nello spazio».
[49] V. art. 342-bis c. c. (Ordini di protezione contro gli abusi familiari) «Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente» e art. 342-ter c.c. (Contenuto degli ordini di protezione): «Con il decreto di cui all'articolo 342-bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l'allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall'istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d'origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro». In giurisprudenza, v.Trib. Monza, 7 maggio 2012 (ord.), M.F., in Giur. Mer., 313, 294, in tema di allontanamento dalla casa familiare ai sensi degli artt. 342-bis e 342-ter c.c. Pure, v. Cass. civ., sez. VI, 7 dicembre 2017, n. 29492. Est. Scaldaferri.
[50] Trib. Roma, 25 giugno 2022, Servizio, in Giur. mer., 2002, 1290.
[51] Su cui v. M. Montagna, Obblighi convenzionali, tutela della vittima e completezza delle indagini, in Arch. pen., Riv. Quadr., 2019, fac. 3, Pisa, Ius Pisa, 2019, 771 s. Altresì, v. B. Romano- A. Marandola (a cura di), Codice rosso. Commento alla l. 19 luglio 2019 n. 69, in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, Pisa, Pacini giuridica, 2020.
[52] G.i.p. Trib. Palermo, 25 giugno 2001, Lo Coco, in Giur. Mer., 2002, 1047. In dottrina, per esempio, v. G. De Amicis, Sub art. 282-bis, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, dir. da G. Lattanzi-E.Lupo, IV, a cura di G. Canzio-P.Spagnolo-G. De Amicis, Milano, Giuffrè, 2003, 459; G. Cariolo, Sub art. 282-bis, in Codice di procedura penale, a cura di G Tranchina, T. I, Milano, Giuffrè, 2008, 2072 ss.
Per la manualistica, v. P. Corso, Le misure cautelari, in Aa. Vv., Procedura penale, Torino, Giappichelli, 2015, 371: «l’allontanamento dalla casa familiare è una misura coercitiva specificamente prevista per gli imputati di violenza nelle relazioni familiari: introdotta con l’art. 282 bis (norma pluriemendata)».
[53] Montagna, Obblighi convenzionali, tutela della vittima e completezza delle indagini, cit., 774.
[54]V. in dottrina G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino, Giappichelli, 2020, 305: «L’istituto può trovare applicazione nei confronti di chi sia colto in flagranza di uno dei delitti elencati nell’art. 282 bis comma 6° c. p. p. e consta…nell’allontanamento urgente dalla casa familiare». Appunto, «con tale misura il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare». (F. Tonini, Manuale breve. Diritto processuale penale, Milano, Giuffrè, 2021). Nello stesso senso, in materia, v. E. Zappalà-V. Patanè, Le misure cautelari personali, in AA. VV., Diritto processuale penale, a cura di G. Di Chiara, V. Patanè, F. Siracusano, Milano, Giuffrè, 2018, 335: «In vista delle esigenze connesse con le indagini, e quindi al di fuori di ogni finalità di tipo propriamente cautelare, la legge concede agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria il potere di procedere all’arresto o al fermo della perdona indiziata di un delitto, nonché all’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare…nei confronti di chi è colto in flagranza dei delitti di cui all’art. 282-bis, comma 6», e ciò, appunto, «per i delitti che sono indicati espressamente dal comma 6 dell’art. 282-bis» (P. Tonini-C.Conti, Lineamenti di diritto processuale penale, XIX ed., Milano, Giuffrè, 2021, 262).
Il giudice che ritenga adeguata e proporzionata la sola misura cautelare dell’obbligo di mantenere una determinata distanza dalla persona offesa (art. 282-ter, comma 1, c. p. p.) può limitarsi ad indicare tale distanza. Nel caso in cui, al contrario, nel rispetto dei predetti principi, disponga, anche cumulativamente, le misure del divieto di avvicinamento ai luoghi da essa abitualmente frequentati e/o di mantenimento della distanza dai medesimi, deve indicarli specificamente [così, in materia di misure cautelari, Cass. pen., sez. un., 28 ottobre 2021 (29 aprile 2021), n. 39005 - Pres. Cassano - Rel. Di Stefano - P.M. Gaeta (parz. diff.) - Ric. G., in Dir. pen. proc., 2022, n.1, 13]. Qualora il giudice applichi la misura del divieto di avvicinamento a favore della persona offesa, è sufficiente che stabilisca la distanza che l'imputato deve mantenere da questa, non essendo necessario che indichi anche i luoghi preclusi all'imputato, nella “sintassi” di Cass., sez. un., sent. 28 settembre 2021, n. 39005.
Per la dottrina, v. G. Bellantoni, Divieto di avvicinamento alla persona offesa ex art. 282 ter c. p. p. e determinazione di luoghi e distanze, ivi, 2013, 1283 s.; P. Bronzo, Profili critici delle misure cautelari “a tutela dell’offeso”, in Cass. pen., 2012, 3466 s.; V. Maffeo, Il nuovo delitto di atti persecutori (stalking): un primo commento al d.l. n. 11 del 20009 (conv. con modif. dalla l. n. 38 del 2009), ivi, 2009, 2719 s.; A. Marandola, I profili processuali delle nuove norme in materia di sicurezza pubblica, di contrasto alla violenza sessuale e stalking, in Dir. pen. proc., 2009, 946 s.; C. Minnella, Divieto di avvicinamento e ordine di protezione europeo: il difficile equilibrio tra la tutela “dinamica” alle vittime di stalking e le libertà dell’imputato, in Cass. pen., 2014, 2207 ss.; Id., In assenza di un’individuazione dettagliata il provvedimento è nullo per indeterminatezza, in Guida dir., 2014, 18, 67; F. Peroni, I luoghi oggetto del divieto di avvicinamento devono essere indicati in maniera specifica e dettagliata, in Dir. pen. proc., 2011,1081 ss.
[55] Per Cass., sez. VI, sent. 12 aprile 2010, n. 1389, è inidonea ed inadeguata la misura cautelare che impone l'allontanamento dall'ambiente familiare del genitore che assuma un atteggiamento nei confronti dei figlio minore scarsamente apprezzabile come strumento educativo, e tuttavia generalmente ricorrente nei rapporti familiari, quale quello di rivolgergli epiteti ingiuriosi (nella specie quello di “deficiente”), senza che tenga in debito conto delle ripercussioni che possono derivare sull'assetto affettivo e organizzativo della stessa famiglia e la misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare, prevista dall'art. 282 bis c.p.p., non rientrando tra quelle espressamente previste dagli artt. 19 e ss. del D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448, non può trovare applicazione nei confronti di soggetto minorenne (Cass., sez. V, sent. 25 maggio 2007, n. 20496).
Addirittura, la misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c. p. p.) è applicabile anche quando l'indagato abbia già abbandonato il domicilio domestico per intervenuta separazione coniugale (Cass.,sez. VI, sent. 26 maggio 2006, n. 18990).
[56] La fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di quella di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi dell’artt. 575 c. p. e 576, comma 1, n. 5.1, c. p. - punito con la pena edittale dell’ergastolo - integra un reato complesso, ai sensi dell’art. 84,comma 1, c. p. in ragione della unitarietà del fatto [Cass. pen., sez. un., 26 ottobre 2021 (15 luglio 2021), n. 38402 - Pres. Cassano - Rel. Zaza - P.M. Birritteri (diff.) - Ric. A.M., in Dir. pen. proc., 2022, n.1, 14]. In dottrina, v. R. Bricchetti-L. Pistorelli, Sulla circostanza aggravante dell’omicidio c’è il rischio di interpretazioni forzate, in Guida dir., 2009, 19, 43; F. Macrì, Modifiche alla disciplina delle circostanze aggravanti dell’omicidio e nuovo delitto di “Atti persecutori”, in Dir. pen. proc., 2009, 816.
[57] Ai fini della sussistenza del reato di molestie “col mezzo del telefono”, ciò che rileva è l’invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario e non la possibilità per quest’ultimo di interrompere l’azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale, ovvero di prevenirne la reiterazione, escludendo il contatto o l’utenza sgradita senza nocumento della propria libertà di comunicazione [Cass. pen., sez. I, 22 ottobre 2021 (u.p. 18 marzo2021), n. 37974 - Pres. Siani - Rel. Saraceno - P.M. Zacco (conf.) - Ric. D.F., in Dir.pen. proc., 2022, n.1, 17 s.].
[58] A. Marandola, Le misure cautelari personale, AA. VV., Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, Padova, Cedam, 2018, 694: «sebbene» - prosegue l’A. - «in analogia con quanto stabilito per le misure di cui all’art. 283, pare ovvio ritenere che il provvedimento debba essere comunicato all’interessato e alla polizia giudiziaria competete a controllarne la misura». Sul punto, v. P. Corso, Le misure cautelari, in Aa. VV., Procedura penale, VII ed., Torino Giappichelli 2021, 389: «il rispetto può essere garantito con modalità di controllo elettronico, ove possibili (art. 282 bis in relazione all’art. 275 bis)» .
[59] V., ad esempio il seguente principio: l’inammissibilità dell’appello, scaturente da un precedente rigetto di istanza di rimessione in termini per impugnare, va dichiarata con procedura “de plano”, senza necessità di fissare l’udienza camerale e di avvisare i difensori, trovando applicazione l’art. 127, comma 9, c.p.p., secondo il quale l’inammissibilità dell’atto introduttivo del procedimento è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di procedura, salvo che sia diversamente stabilito [Cass pen., sez. II, 2 settembre 2020 (C.C. 24 luglio 2020), n. 24808 - Pres. Imperiali - Est. Pacilli - P.M. Corasaniti - Ric. Koiyf Redwan, in Dir.pen. proc., 2022, f.1, 40]. Fra gli altri, v. G. Colaiacovo, Procedimento in camera di consiglio e declaratoria de plano dell’inammissibilità dell’impugnazione, in Proc. pen. giust., 2019, 3; G. Spagnoli, Osservazioni a Sez. III, 22 dicembre 2010, n. 3895, in Cass. pen., 2011, 3483.
[60] A. Camon, Le prove, in Aa. Vv., Fondamenti di procedura penale, seconda edizione, Vicenza, Cedam, 2020, 282, sul «procedimento probatorio», rinviandosi (al tema può solo accennarsi perché perimetro risulta esulante dai confini della presente analisi).
[61] G. Conso, Introduzione (agg. da M. Bargis), in G. Conso-V.Grevi-M.Bargis, Compendio di procedura penale, Padova, Cedam, 2019, LXXXIX.
[62] Cfr. M. Cassano, Il procedimento in absentia. Principi sovranazionali e profili applicativi a confronto, Milano, Giuffrè, 2015; L. Iannone, Procedimento in absentia, in il Penalista, 2021.
In dottrina, v. lo studio, ancorché non più recente egualmente d’interesse, sulla «mancata partecipazione dell’imputato ad atti dibattimentali», di G. Ubertis, Dibattimento senza imputato e tutela del diritto di difesa, Milano, Giuffrè, 1984, p.224.
[63] G. Illuminati, Relazione, in AA. VV., G.i.p. e libertà personale. Verso un contraddittorio anticipato?, Napoli, Jovene, 1997, 24, seccamente: « Il giudice per decidere deve conoscere deve conoscere le ragioni di entrambe le parti. Enzo Zappalà…parlava nel 1993 di “giurisdizione senza cognizione”, con riferimento al giudice per le indagini preliminari che adotta il provvedimento restrittivo della libertà personale. Questa definizione ha avuto fortuna ed è stata ripresa da molti ». Parimenti, si interroga M. Nobili, Dal garantismo inquisitorio all’accusatorio non garantito?, in Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova, Cedam, 1998, 30: «giudice senza poteri di conduzione o, altresì, giudice senza poteri di cognizione degli atti compiuti?».
[64] V., per uno spunto, Corte cost., ord. 19 novembre 2002, n. 460: «d'altra parte - posto che la funzione dell'avviso di cui al richiamato articolo 415-bis appare essere chiaramente quella di assicurare una fase di “contraddittorio” tra indagato e pubblico ministero, in ordine alla completezza delle indagini - consegue che l'espletamento di quella fase e la garanzia di uno specifico ius ad loquendum dell'indagato in tanto si giustificano, in quanto il pubblico ministero intenda coltivare una prospettiva di esercizio dell'azione penale». Altresì, v. Cass., sez. IV, 19 maggio 2016, n. 20993.
Ma vi sono casi in cui, invece, la parola non è data, all’opposto, alla persona offesa, e su cui v. C. Morselli, È tempo di dare la parola alla persona offesa dal reato nella discussione finale ex art. 523 c.p.p. (riconosciuta all’imputato ma non alla sua vittima non costituita parte civile), passibile di una censura di incostituzionalità nella formulazione attuale, in A. I. C., 19 febbraio 2019, n. 2, 351 s.
[65] In merito all’esame dell’imputato (art. 208 c.p.p.), su tale mezzo istruttorio, v., per uno spunto, Corte e. d. u. 8 luglio 2021, causa Maestri ed altri contro Italia, in Proc. pen. giust., 2021, Sist. pen., 30 settembre 2021, che «ha censurato l’ordinamento processuale italiano per non aver previsto, a garanzia dell’imputato assolto nel primo grado del giudizio e condannato nel processo di appello, uno specifico onere di audizione del medesimo prima di assumere la decisione di condanna. A tal fine è necessario che l’imputato…sia destinatario di una chiamata in giudizio al fine di porlo in condizione di rendere l’esame: a questo scopo non è sufficiente l’ordinaria citazione in appello, ma è richiesta una chiamata specifica con l’indicazione dell’incombente istruttorio da compiersi…Invero, il recente arresto costituisce una tappa ulteriore di una sempre più approfondita verifica - da parte della Corte europea - dei diritti e delle garanzie dell’imputato previste dall’ordinamento, in caso di ribaltamento della sentenza di assoluzione nel giudizio di appello. A partire dal famoso caso Dan c. Moldavia del 15 luglio 2011, la Corte EDU ha mostrato una specifica attenzione all’applicazione dei canoni del giusto processo…in caso di condanna dell’imputato, per la prima volta, nel secondo grado di giudizio…La sentenza Maestri c. Italia, ad avviso della Corte, individua un vulnus sia procedurale che sostanziale, laddove non ci sia stata apposita citazione dell’imputato per l’esame innanzi al giudice di appello prima di essere condannato - per la prima volta - a seguito di un giudizio di primo grado definito con pronuncia di assoluzione. 3. Tale situazione richiede la rimessione al più alto consesso della Corte, pur in assenza di uno specifico strumento previsto nel codice di rito vigente, a differenza del codice di procedura civile…art. 374 secondo comma…operando in via estensiva e sistematica, per esigenza di armonia dei sistemi processuali» (v. Cass., sez. I, ord. 7 dicembre 2021, n. 45179, Pres. A. Tardio, in Norme & Trib., 7 dicembre 2021; v. D. D’Auria, Caso Maestro c. Italia: una nuova ipotesi estensiva della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello?, in Quot. giur., 24 dicembre 2021; altresì L. Roccatagliata, Obbligo del giudice di appello di rinnovare l’esame dell’imputato assolto in primo grado: rimessa una questione alle Sezioni Unite, in Giur. pen., 24 dicembre 2021).
[66] F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1981, 44.
[67] Il corsivo è nostro, per far risaltare la base solida del diniego, rappresentata da una sentenza di merito non da un provvedimento cautelare.
[68] Su ciò pone l’accento G. Spagnher, Inquadramento generale, in Aa. Vv., Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, loc.cit., sulla «eccezionalità della restrizione (con il conseguente riconoscimento del minor sacrificio) della libertà personale prima della condanna se non in presenza di valori costituzionalmente protetti…con il conseguente corollario della provvisorietà (conseguente contingentamento del tempo della restrizione, anche per evitare l’anticipazione della pena) e della rivedibilità…,la libertà personale può subire limitazioni» [sul punto, in precedenza, v. C. De Robbio, (Penale e processo) Le misure cautelari personali, 2016, 1: «Sembrerebbe fuori dal sistema ed illegittima…ogni forma di “anticipazione della pena”»].
Cfr., pure, M. L. Di Bitonto, La tutela cautelare, in Aa Vv., Fondamenti di procedura penale, seconda edizione, Vicenza, Cedam, 2020, 821, sui provvedimenti «attraverso i quali è possibile disporre in via provvisoria la restrizione di diritti, al fine di salvaguardare specifiche esigenze».
[69] L’introduzione nell’ordinamento, con legge 11 febbraio 2015, n.15, del preavviso di rigetto ha segnato l’ingresso di una modalità di partecipazione al procedimento, con la quale si è voluto “anticipare” l’esplicitazione delle ragioni del provvedimento sfavorevole alla fase endoprocedimentale, allo scopo di consentire una difesa ancora migliore all’interessato, mirata a rendere possibile in confronto con l’amministrazione, ancor prima della decisione finale (Cons. St., sez. 3, sent. 8 ottobre 2021, n. 6743 , in Il Merito, febbraio 2022, n.2, 73). L'istituto del c.d. preavviso di rigetto mira a far conoscere alle Amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte sulla scorta degli esiti dell'istruttoria espletata, quelle ragioni, fattuali e giuridiche, dell'interessato, che possono contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante dal vaglio e dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti (cfr. Cons. St., sez. III, 5 dicembre 2019, n.834 e 26 giugno 2019, n. 4413; sez. VI, 06 agosto 2013, 4111; sez. III 27 giugno 2013, n. 3525).
[70] Cfr. O. Mazza, Garanzie di indipendenza e di imparzialità degli organi giurisdizionali, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. Chavario ed E. Marzaduri, Torino Utet, 1995, 3, traccia un interessante percorso inverso a quello da noi descritto: «Il ruolo del giudice…è…emblematico del percorso attraverso il quale il modello originario si è confrontato con parametri costituzionali rilevatisi più severi del previsto e con esigenze e sollecitazioni della pratica, emerse con forza nel clima di esasperato impegno in cui il rinnovato processo penale ha fatto le sue prime prove. All’esito si registra un sensibile recupero di centralità d’una figura che la riforma tendeva a spogliare, almeno in parte, delle sue, un tempo soverchianti, attitudini propulsive, a beneficio delle parti», richiamando V. Zagrebelsky, Sul ruolo del giudice nel nuovo processo penale, in Cass. pen., 1989, 913.
[71] Di Bitonto, La tutela cautelare, in Aa. Vv., Fondamenti di procedura penale, cit., 875: «L’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare è misura esperibile in relazione al novero dei reati per i quali è prevista la misura cautelare di cui all’art 282 bis. L’individuazione dei relativi casi di applicabilità, quindi…per relationem».Si osserva che «Il provvedimento impositivo della misura è, altresì, comunicato alla persona offesa, la quale deve essere informata anche della facoltà di richiedere l’emissione di un ordine di protezione europeo, al fine di ottenere che gli effetti della misura cautelare si estendano al territorio di altro Stato membro dell’Unione europea in cui decida di risiedere o soggiornare (art. 282, quater)» (op. cit.,.280).
[72] Tonini-Conti, Manuale di procedura penale, cit., 449, ricordandosi, per le misure, che «la loro applicazione deve rispettare il principio di proporzionalità che ha un fondamento sovranazionale e nel diritto interno, oltre che nella giurisprudenza della Consulta». Da ultimo, v. A. Rizzo, La sentenza della Corte costituzionale sul Reddito di cittadinanza: una critica di merito e “di metodo”, in AISDUE, 2022, sulla sentenza della Corte costituzionale n. 19 del 2022: breve analisi alla luce dei rapporti tra diritto nazionale e diritto dell’Unione europea.
Con la sentenza n. 67 depositata l’11 marzo scorso, la Corte Costituzionale (in ASGI, 17 marzo 2022) ha posto fine al contenzioso in materia di Assegno al Nucleo Familiare, affermando l’obbligo del giudice di applicare anche ai titolari di permesso di lungo periodo e di permesso unico lavoro il trattamento più favorevole previsto per gli italiani.
[73] Trib. Ascoli Piceno, 5 ottobre 2021 (che richiama la circolare INPS n.100 del 5 luglio 2019), sez. I, sent. 5 ottobre 2021 n. 201, in Il Merito, 2022, n. 1, p.13: in tema di reddito di cittadinanza, non ha diritto al sussidio il componente del nucleo familiare disoccupato a seguito di dimissioni volontarie, nei dodici mesi successivi alla data delle dimissioni, fatte salve le dimissioni per giusta causa. In caso di dimissioni volontarie, perderà il diritto a percepire il reddito di cittadinanza il solo componente del nucleo familiare che si è volontariamente licenziato dal lavoro. V., collegata con tale decisione, l’analisi di C. Insarda, Reddito di cittadinanza negato per abbandono volontario del lavoro ma riconosciuto in misura ridotta ad altro componente del nucleo familiare (ivi, 16 ss).
[74] Testualmente, v., in dottrina, P. Tonini, Lineamenti di diritto processuale penale, Milano, Giuffrè, 2017, 228 (più recentemente ribadito in Tonini-Conti, Manuale di procedura penale, cit., 448, e in aggiunta: «Il provvedimento di allontanamento dalla casa familiare è comunicato all’autorità di pubblica sicurezza competente, ai fini dell’eventuale adozione dei provvedimenti in materia di armi e munizioni»).
Sullo stesso articolo del c. p. p., v. G. Lozzi, Lineamenti di procedura penale, Torino, Giappichelli, 2016, 173.
[75] Sulla «“creatività del giudice” o “della giurisprudenza”…” si ammette che la sua attività…si possa spingere a compiere operazioni più complesse, quali la creazione di una regola…Come è noto, l’ordinamento italiano…consente l’analogia legis e l’ analogia iuris » (G.Alpa, L’arte di giudicare, Roma.Bari, Laterza, 1996, 5-6-7). Sul punto, v. P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2000, 9-12: « sovente la norma va interpretata; talvolta non esiste una norma di legge direttamente applicabile al caso…L’art. 12 comma 2 delle disposizioni sulla legge in generale impone qui di aver riguardo a disposizioni che regolano casi simili o materia analoghe (procedimento per analogia)». Da ultimo, v. A. Torrente-P.Schlesinger, Manuale di diritto privato, XV ed., a cura di F. Anelli e C. Granelli, Milano, Giuffrè, 2021, 51: «È impossibile che il legislatore riesca a disciplinare l’intero ambito dell’esperienza umana, per quanto possa essere attento e minuzioso. È inevitabile, infatti, che si presentino casi che nessuna norma di legge ha espressamente previsto e regolato (le c.d. lacune dell’ordinamento)».
[76] A. Pizzorusso, Giustizia e giudici, in La Costituzione ferita, Roma-Bari, Laterza, 1999, 136.
[77] M. R. Damaska, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparativa del processo, Bologna, Il Mulino, 1991, 258. Sulla più generale categoria, costituzionale del c.c. giusto processo, v., fra gli altri, Chiavario, Diritto processuale penale (IX ed 2022), cit., 11.; Tonini-Conti, Lineamenti di Diritto processuale penale, cit., 12 ss.
[78] Volendo considerare l’atto della sospensione del RdC una specie di revoca amministrativa ratione temporis (di carattere sanzionatorio se non propriamente “repressivo”, per la immediata e diretta incidenza sulla condizione personale e patrimoniale del soggetto passivo: v. retro nota 4), di cui nella previsione mancano “l’avvio” e “l’avviso” (le due “a”), in via comparativa, v. T. A. R. Lazio, sez. staccata di Latina, sez. I, 15 dicembre 2018, n. 647: in materia di carta di soggiorno ai sensi dell'art. 9, d.lgs. n. 286/98, il mancato avviso dell'avvio del procedimento ex art. 7, legge 241/90, attraverso cui la questura competente comunica al soggetto interessato la revoca della stessa a seguito di reati penali a suo carico che non lo rendono meritevole della permanenza sul territorio italiano, viola il principio del contraddittorio necessario in siffatte fattispecie. Infatti, attraverso la comunicazione dell'avvio del procedimento e il seguente contraddittorio tra le parti, si rende l'Amministrazione procedente edotta di tutte quelle circostanze che la stessa è obbligata a valutare prima della definizione del procedimento di annullamento o revoca della carta di soggiorno, giacché l'organo amministrativo competente deve prendere in considerazione anche l'eventuale esistenza di nuovi elementi che potrebbero eventualmente consentire il mantenimento in capo al ricorrente del permesso di soggiorno che invece si intende revocare.
Sul requisito del possesso della carta di soggiorno (ora permesso per lungo soggiornanti), v. Cass., sez. lav. civ., 10 agosto 2020, n. 16867, in Immigrazione.it., 2020. In tema, v. T. A. R Lombardia, sez. VI, 4 agosto 2021, n. 1885, ivi, 2021.
L'interessato che lamenta la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ha anche l'onere di allegare e dimostrare che, grazie alla comunicazione, egli avrebbe potuto sottoporre all'Amministrazione elementi che avrebbero potuto condurla a una diversa determinazione da quella che invece ha assunto (art. 7 L. n. 241/1990) (Cons. St., sez. III, sent. 12 maggio 2017, n. 2218). Sulla c.d. garanzia partecipativa di cui all'art. 7 L. 241/1990, v. Cons. St., sez. V, sent. 29 dicembre 2014, n. 6402.
D’interesse la decisione - sul generale procedimento amministrativo e il c.d. preavviso di diniego - di T.A.R. Veneto, Venezia, sez. I, 16 giugno 2021, n. 611, in Norme & Trib., 23 giugno 2021: l’istituto del cosiddetto. preavviso di diniego (articolo 10 bis legge n. 241/1990) assicura che ogni momento del procedimento immediatamente precedente l’adozione del provvedimento sia utile alla P.a. per pervenire alla scelta discrezionale migliore. La norma esige, non solo che l’Amministrazione enunci compiutamente nel preavviso di provvedimento negativo le ragioni che intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le integri, nella determinazione conclusiva (se ancora negativa), con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle osservazioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall’adempimento procedurale in questione. La disposizione de qua assolve la sua funzione di consentire un effettivo ed utile confronto dialettico con l’interessato prima della formalizzazione dell’atto negativo, evitando che si traduca in un inutile e sterile adempimento formale.
Il Tribunale di Milano sulla non punibilità delle condotte elusive
di Giovanni Liberati
1. Con la sentenza n. 11397 del 10 novembre 2021 (divenuta definitiva a seguito della mancata impugnazione da parte del pubblico ministero), il Tribunale di Milano, Seconda Sezione Penale, ha assolto l’imputata dal reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 d.lgs. 74/2000), ritenendo non corretta la qualificazione giuridica delle condotte contestate, oltre che applicabile la disposizione di cui all’art. 10 bis della legge n. 212 del 27 luglio 2000 (Statuto dei diritti del contribuente).
La pronuncia è l’occasione per una breve riflessione sulla punibilità delle condotte elusive o abusive.
2. Alla imputata era stato contestato il reato di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000 in quanto, quale firmataria delle Dichiarazioni dei Redditi (Modello Unico P.F.) per gli anni di imposta 2012, 2013, 2014 e 2015, al fine di evadere l’IRPEF, cedendo in via esclusiva alla società di capitali interamente partecipata dal padre dell’imputata e dalla imputata medesima i diritti economici di utilizzazione della propria immagine (negozio che sarebbe stato privo delle effettive ragioni economiche rappresentate e in realtà avrebbe avuto come unica finalità la interposizione fittizia della società, costituente centro di costo, nella tassazione dei redditi personali dell’imputata, così da ostacolarne l’accertamento e indurre in errore l’amministrazione finanziaria), aveva indicato nelle relative dichiarazioni fiscali elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo.
3. Il Tribunale di Milano ha assolto l’imputata da tale contestazione, con la formula “perché il fatto non sussiste”, a seguito di una ricostruzione della fattispecie sottoposta al suo esame.
Il Tribunale ha evidenziato che la ricostruzione accusatoria si fondava sulla natura ancillare della società riconducibile alla imputata, che sarebbe stata priva di apprezzabile ragione giuridica e avente la sola finalità di consentire un indebito risparmio fiscale all’imputata medesima; e ciò mediante una serie di operazioni aventi quale oggetto l’abbattimento degli introiti, la creazione di un centro di costo, la conseguente applicazione alla base imponibile di una aliquota inferiore rispetto a quella riservata alla persona fisica e il riporto a nuovo degli utili (così da posticipare la tassazione del socio al momento della effettiva corresponsione degli utili medesimi).
A fronte di una simile ricostruzione accusatoria, il Tribunale di Milano ha ritenuto corretto l’intervento – operato ai sensi dell’art. 37, comma 3, d.P.R. 600/1973 – della polizia giudiziaria, che, attribuendo globalmente i ricavi all’imputata (secondo il principio di cassa), ha individuato la maggiore imposta dalla medesima dovuta; al contempo, il Tribunale ha ritenuto non condivisibile l’assunto accusatorio avente a oggetto la natura della interposizione societaria, considerata dall’accusa fittizia e simulata (da cui la ritenuta applicabilità, in sede d’imputazione, della disposizione di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74/2000).
In proposito il Tribunale ha ricordato che l’ipotesi di interposizione fittizia può ritenersi integrata, alla luce della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. II, 10 marzo 2015, n. 4738, nonché Cass. Civ., sez. II, 12 ottobre 2018, n. 25578), solamente in caso di partecipazione all’accordo simulatorio non solo del soggetto interponente e di quello interposto, ma anche di un terzo soggetto contraente, il quale manifesti la volontà di assumere diritti ed obblighi contrattuali direttamente nei confronti dell’interponente.
L’ipotesi di interposizione simulata (nella specie della simulazione relativa), similmente, può ritenersi integrata (Cass. civ., sez. II, 23 marzo 2017, n. 7537) solo nel caso in cui sussista un accordo non solo tra interponente e interposto, ma anche con il terzo, il quale deve consentirvi esprimendo la propria adesione. Elemento necessario, dunque, affinché possano ritenersi integrate le fattispecie della interposizione fittizia e della interposizione simulata, è la sussistenza di una intesa triangolare, la quale è stata ritenuta assente nel caso riguardante la imputata.
Le operazioni poste in essere dalla società riconducibile alla imputata, infatti, sono state ritenute effettive: nel caso in esame si potrebbe, al più, ad avviso del Tribunale, discorrere di interposizione reale.
In base a quanto affermato in sede di legittimità (Cass. civ., sez. V, 28 giugno 2018, n. 17128), la disciplina di cui all’art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600/1973, antielusiva dell’interposizione, trova applicazione non solo nel caso in cui il contribuente ponga in essere un comportamento fraudolento, che si ponga in aperto contrasto con il dettato normativo, ma anche nel caso di comportamenti che si caratterizzano per un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, non distinguendo la norma neppure tra interposizione fittizia ed interposizione reale (si veda in tal senso Cass. civ., sez. V, 27 aprile 2021, n. 11055,[1]).
Per tale ragione tale disposizione è stata ritenuta applicabile al caso sottoposto all’esame del Tribunale di Milano, che ha ritenuto condivisibile l’intervento sulla imputazione dei ricavi (e correlati costi) operato ai sensi dell’art. 37, comma 3, d.P.R. 600/73.
La condotta posta in essere dall’imputata è stata, però, ritenuta priva dei tratti tipici dell’illecito contestato, e cioè quello di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74/2000, in quanto priva del necessario carattere della falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie mediante mezzi fraudolenti idonei a ostacolarne l’accertamento, in difetto della insidiosa artificiosità richiesta dalla disposizione, in considerazione della accertata realtà nonché della piena evidenza dei rapporti commerciali intrattenuti dalla imputata con la società alla stessa riconducibile.
La condotta è stata quindi riqualificata ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 74/2000 (dichiarazione infedele), del quale tuttavia non risultava superata la soglia di punibilità.
Pertanto, il Tribunale di Milano ha qualificato l’addebito attribuito all’imputata quale “atipico”, e tale circostanza ha condotto all’adozione della formula assolutoria “il fatto non sussiste”, piuttosto che di quella “il fatto non è previsto dalla legge come reato”.
4. Peraltro, l’irrilevanza penale della condotta è stata ritenuta confermata da una sopravvenienza normativa (ad opera del d.lgs. 128/2015) rispetto a una parte delle condotte, costituita dall’art. 10-bis della l. n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), il quale esclude – in particolare, al comma 13 – la punibilità di quelle operazioni – qualificate come “abuso del diritto” o “elusione fiscale” – prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.
Al riguardo il Tribunale ha ritenuto che in presenza di interposizione reale (e non fittizia) non siano ipotizzabili reazioni penali in difetto dei connotati della fraudolenza “in estensione della clausola di cui all’art. 10 bis, comma 13, l. n. 212 del 2000[2]).
5. La pronuncia in commento ripropone la questione delle condotte meramente elusive o abusive e della loro rilevanza penale.
Il Decreto Legislativo n. 128 del 5 agosto 2015, recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 18 agosto 2015. Dando attuazione all’articolo 5 della legge delega, e in ottemperanza alla raccomandazione 2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva, l'articolo 1 del decreto reca la revisione delle disposizioni antielusive al fine di disciplinare il principio generale di divieto dell'abuso del diritto, dandone una nuova definizione, unificata a quella dell'elusione, estesa a tutti i tributi, non limitata a fattispecie particolari e corredata dalla previsione di adeguate garanzie procedimentali.
La disciplina è prevista dal nuovo articolo 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212 del 2000).
In base alle nuove disposizioni, si è in presenza dell'abuso del diritto allorché una o più operazioni prive di sostanza economica, pur rispettando le norme tributarie, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.
La norma chiarisce che un'operazione è priva di sostanza economica se i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, sono inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato. Si considerano indebitamente conseguiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario.
Tali operazioni non sono opponibili al fisco: quando l'Agenzia delle entrate accerta la condotta abusiva, le operazioni elusive effettuate dal contribuente diventano inefficaci ai fini tributari e, quindi, non sono ottenibili i relativi vantaggi fiscali.
Non si considerano, invece, abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa o dell'attività professionale del contribuente.
Viene esplicitata la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.
6. Le condotte qualificabili come meramente abusive o elusive, non connotate da fraudolenza o simulazione, o non accompagnate da fatti teleologicamente diretti alla creazione e utilizzo di documenti falsi, non sono penalmente rilevanti, ai sensi dell’art. 10 bis, comma 1, l. n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente[3]), con la conseguenza che si tratta di condotte che, ai sensi del comma 13 della medesima disposizione, non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, ferma restando l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie (come rilevato anche dal Tribunale di Milano, che ha evidenziato la correttezza dell’accertamento tributario eseguito nei confronti della imputata).
La giurisprudenza di legittimità ha, però, chiarito che l’istituto dell'abuso del diritto[4] ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (così Sez. 3, n. 38016 del 21/04/2017[5]).
Occorre, dunque, per escludere la rilevanza penale di condotte meramente elusive o abusive, che nelle condotte contestate difettino fatti connotati da fraudolenza, simulazione o comunque teleologicamente diretti alla creazione e utilizzo di documenti falsi, e anche violazioni di specifiche norme tributarie da osservare nella redazione delle dichiarazioni (quanto alla qualificazione delle componenti attive di reddito), e anche che i fatti in contestazione non integrino le fattispecie penali contemplate dal d.lgs. n. 74 del 2000 connotate da comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa, stante la ricordata residualità dell’istituto dell’abuso del diritto.
Se, quindi, l’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente, sostituendo il previgente art. 37 bis d.P.R. 600/1973 in tema di elusione fiscale (o abuso del diritto), ricomprendendo tutte quelle fattispecie abusive atipiche (di derivazione costituzionale e unionale), ne ha determinato, alle condizioni ricordate, la non punibilità, l’art. 37, comma 3, d.P.R. 600/1973 rimane in vigore, e continua a trovare applicazione nelle ipotesi di interposizione di persona, fittizia o reale [6].
Con la nuova disciplina dell’abuso del diritto, dunque, quelle condotte elusive risultanti dal testo dell’art. 10-bis l. n. 212/2000 non sono punibili e, determinando la disposizione in questione una riduzione dell’area tipica dell’illecito, la medesima trova applicazione retroattiva – come avvenuto nel caso sottoposto all’esame del Tribunale di Milano - ai sensi dell’art. 2, comma 4, cod. pen.
Dunque, se da un lato – e questa è l’ipotesi che ricorre nel caso di specie -, a seguito della introduzione dell’art. 10 bis l. n. 212/2000, è escluso che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti - non essendo più configurabile il reato di dichiarazione infedele in presenza di condotte puramente elusive -, al contempo la disposizione trova applicazione soltanto residuale rispetto a quelle fattispecie penalmente rilevanti, contenute nel d.gs. 74/2000, che si riferiscono a comportamenti che presentano i caratteri della fraudolenza, della simulazione o della falsità documentale (in tal senso Cass. pen., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 40272).
7. Tali principi, ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità, rilevano anche nelle fattispecie di infedeltà dichiarativa.
Il comma 1 bis dell’art. 4 del d.lgs. 74/2000, stabilisce che “ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali”: la disposizione determina dunque l’irrilevanza penale di dichiarazioni infedeli conseguenti a violazioni solo formali o di carattere valutativo, ossia derivanti dalla scorretta classificazione o dalla diversa valutazione di elementi reddituali, senza falsificazione o fraudolenza, escludendone l’idoneità a consentire di ritenere configurabile il delitto di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 d.lgs. 74/2000,
Anche nell’applicazione di tale disposizione occorre, però, escludere comportamenti connotati da fraudolenza, giacché in tale ipotesi non si verserebbe più in un caso di scorretta classificazione o diversa valutazione di elementi reddituali, bensì in un comportamento strumentale alla evasione fiscale, a essa preordinato, tale da consentire di escludere l’applicabilità della clausola di irrilevanza penale di cui al citato comma 1 bis.
8. L’ambito di rilevanza penale delle condotte abusive o meramente abusive può dirsi, dunque, chiarito dalla giurisprudenza di legittimità e ai criteri da questa elaborati si è attenuto il Tribunale di Milano nella decisione in commento.
Può aggiungersi che le disposizioni in materia di abuso del diritto in materia tributaria vanno comunque interpretate e applicate tenendo conto dei principi affermati dalle Sezioni Unite Civili con le sentenze n. 30055, n. 30056 e n. 30057 del 23 dicembre 2008, secondo cui:
- esiste nell'ordinamento tributario un generale principio antielusivo, la cui fonte va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria, quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano, segnatamente nell'articolo 53 della Costituzione che afferma i principi di capacità contributiva (comma 1) e di progressività dell'imposizione (comma 2); tali principi costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere; in virtù di tale principio generale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale "in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale";
- l'esistenza di questo principio non contrasta né con le successive norme antielusive sopravvenute, che appaiono "mero sintomo" dell'esistenza di una regola generale, né con la riserva di legge di cui all'articolo 23 della Costituzione, in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso non si traduce nell'imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, ma solamente nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione delle norme fiscali.
Anche a proposito della punibilità delle condotte abusive o meramente elusive occorrerà, dunque, tenere conto di tali criteri e della ricordata residualità delle disposizioni relative a tali condotte.
Come affermato nella sentenza n. 1372 del 2011[7] l'applicazione delle disposizioni in materia di abuso del diritto deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una linea giusta di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e la libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d'impresa.
[1] secondo cui “ In tema di accertamento dei redditi, la disciplina antielusiva di cui all'art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, non distingue tra interposizione fittizia - la quale ricorre quando, in forza di accordo simulatorio intercorrente tra interponente, terzo e interposto, si finge di contrarre con una persona, ma, in realtà, si vuole che gli effetti del negozio si producano nei confronti di un'altra persona diversa da quella che appare nell'atto - e interposizione reale - nella quale non vi è un accordo simulatorio tra le persone che prendono parte all'atto, il quale è effettivamente voluto; neppure presuppone necessariamente un comportamento fraudolento del contribuente, ma postula l'uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, tale da consentire di eludere l'applicazione del regime fiscale costituente il presupposto di imposta, essendo finalizzata a stigmatizzare operazioni volte ad aggirare la normativa fiscale alla luce del più generale principio del divieto di abuso del diritto”.
[2] così a pag. 10 della sentenza del Tribunale di Milano.
[3] secondo cui “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti; tali operazioni non sono opponibili all'amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.
[4] generalmente individuato in quelle operazioni prive di spessore economico che l'impresa mette in atto con l'obiettivo principale di ottenere risparmi di imposta attraverso l'utilizzo distorto di schemi giuridici; ognuno di questi schemi singolarmente appare perfettamente legittimo, mentre l'illegittimità deriva dal fatto che essi nel complesso sono messi in atto unicamente per ottenere vantaggi fiscali; il divieto dell'abuso del diritto rientra tra gli istituti cosiddetti antielusivi.
[5] relativa a fattispecie concernente l'indebita indicazione di plusvalenza in regime di esenzione parziale, anziché ordinariamente tassabile e quindi determinante nella formazione del reddito IRES; nel medesimo senso Sez. 3, n. 35575 del 05/04/2016, che ha ribadito che l’istituto dell'abuso di diritto non è configurabile in presenza di condotte che integrino una diretta violazione delle norme in materia doganale o tributaria, con la conseguenza che queste ultime vanno perseguite con gli strumenti che l'ordinamento mette a disposizione, mentre, riguardo ai fatti elusivi riconducibili alla categoria dell'abuso, la suddetta disciplina realizza una sostanziale abolitio criminis, ed opera, pertanto, retroattivamente senza condizioni; nonché Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015, secondo cui l'istituto dell'abuso del diritto ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi; nel medesimo senso v. anche Sez. 3, n. 5809 del 04/12/2018.
[6] in questo senso Cass. civ., sez. V, 22 giugno 2021, n. 17743.
[7] Cass. Civ., n. 1372 del 21 gennaio 2011.
Usucapione della piena proprietà di fondo enfiteutico: non c’è davvero più niente da dire?
di Nicolò Crascì
L’arresto di Cass. VI-II 24.8.2022 n. 25301 sembrerebbe non lasciar adito a dubbi residui. La Suprema Corte ritiene (dopo aver sanzionato di inammissibilità i primi due motivi) manifestamente infondato il terzo motivo di ricorso rivolto a censurare l’affermazione dei giudici di merito che, sia in primo che in secondo grado, avevano concluso che il ricorrente non potesse aver acquistato per usucapione il fondo al centro della controversia in difetto di alcun atto di interversione – quali quelli contemplati dall’art. 1164 c.c. – a partire dal quale potersi ritenere che fosse decorso il termine di legge per usucapire.
È bastato agli Ermellini richiamare due massime della loro giurisprudenza per sancire - poste le premesse (che già, tuttavia, non brillano per chiarezza, risultando infatti tra loro apparentemente contraddittorie) che “il dominio diretto è imprescrittibile” e che, tuttavia, “La proprietà, naturalmente, può essere acquistata da chiunque con il possesso ad usucapionem protratto per il termine di legge”) - che “l'enfiteuta ….. non può - per il preciso disposto dell'art. 1164 cod. civ. vigente e dell'art. 2116 del cod. civ. abrogato - usucapire la proprietà se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario”: laddove – si sanziona infine - “l'omesso pagamento del canone, per qualsiasi tempo protratto, non giova a mutare il titolo del possesso, neppure nel singolare caso che al pagamento sia stata attribuita dalle parti efficacia ricognitiva”.
Che agli effetti di cui all’art. 1164 c.c. il possesso dell’enfiteuta vada assimilato a quello del titolare di altro diritto reale di godimento non appare, tuttavia, per niente pacifico: e tanto si ritiene che, piuttosto che predicarsi una manifesta infondatezza del motivo di ricorso, dovesse essere quantomeno – anche se soltanto per negarlo infine - segnalato.
Che l’art. 1164 c.c. non sia applicabile anche all’enfiteuta è stato, in realtà, riconosciuto non soltanto in dottrina[1] ma anche dalla stessa Suprema Corte allorchè affermava che “L’omessa richiesta da parte del concedente della ricognizione del proprio diritto, ai sensi dell’art. 969 c.c., non nuoce all’esistenza del rapporto enfiteutico solo se con essa non concorra l’acquisto per usucapione da parte dell’enfiteuta che abbia posseduto come pieno proprietario”[2]. Se ciò vero, pare di dover allora riconoscere – una volta ripresa la definizione, fornita dal volume più famoso della dottrina italiana dell’Ottocento in materia[3], secondo cui l’enfiteusi è il diritto che deriva dal “contratto col quale viene concessa una cosa immobile, in perpetuo od a tempo, verso una pensione o canone che si presta al padrone diretto a ricognizione di dominio” – che il possesso dell’utilista “come pieno proprietario” debba essere contrassegnato, al suo esordio, non già da atto di interversione quanto, invece, dalla cessata corresponsione del canone di censo già versato “a ricognizione di dominio”: soltanto entro contesto così ricostruito apparendo, infatti, giustificabile l’affermazione che “L’omessa richiesta da parte del concedente della ricognizione del proprio diritto……nuoce all’esistenza del rapporto enfiteutico”[4].
In contrario – occorre precisare – non si presta a deporre il disposto di detto art. 969 secondo cui il concedente “può” richiedere la ricognizione del proprio diritto, ciò da cui taluno pretende di desumere che questa non debba invece essere richiesta dallo stesso concedente a pena di estinzione del diritto medesimo. Al riguardo si è persuasivamente replicato che il concedente che si veda corrisposto il canone di censo periodico può anche esimersi dal richiedere la ricognizione del proprio diritto senza che debba, per questo, temere alcuna usucapione dell’enfiteuta: usucapione che può, all’opposto, essere impedita solo da un atto di ricognizione se l’utilista abbia posseduto “come pieno proprietario” astenendosi - a partire da un certo tempo, e per tutto il tempo necessario ad usucapire - dal versamento del canone di censo periodico.
Ancora, non sembra che il richiamo di quella sola sua esegesi che pone sullo stesso identico piano il “disposto dell'art. 1164 cod. civ. vigente e dell'art. 2116 del cod. civ. abrogato” sia stato dei più felici giacchè, in realtà, l’art. 2115 del Codice Pisanelli (ricompreso nel capo attinente le “cause che impediscono o sospendono la prescrizione”) - cui l’art. 2116 anzidetto rinviava (prevedendo, infatti, che “Le persone indicate nel precedente articolo possono tuttavia prescrivere, se il titolo del loro possesso si trova mutato o per causa provegnente da un terzo, o in forza delle opposizioni da loro fatte contro il diritto del proprietario”) - sanciva che “Non possono prescrivere a proprio favore quelli che possedono in nome altrui e i loro successori a titolo universale. Sono possessori in nome altrui il conduttore, il depositario, l’usufruttuario e generalmente coloro che ritengono precariamente la cosa”: agli effetti della prescrizione acquisitiva, pertanto, l’enfiteuta non era anch’egli possessore in nome altrui cui, come tale, fosse dato di mutare il titolo del proprio possesso mediante atto di interversione. Dunque, ed in definitiva, quello dell’enfiteuta – cui l’art. 1563 del codice civile abrogato attribuiva espressamente la qualità di “possessore del fondo” - era un possesso sui generis, perché non corrispondente all’esercizio di un diritto reale di godimento: per il Codice Pisanelli l’enfiteusi non era, affatto, un diritto reale di godimento ma un contratto tipico, disciplinato dal suo art. 1556 secondo cui “L’enfiteusi è un contratto con cui si concede, in perpetuo o a tempo, un fondo con l’obbligo di migliorarlo e di pagare un’annua determinata prestazione in denaro o in derrate”; contratto mercè il quale (per quanto – non si vuol sottacere - nozione del genere risulti di non immediata comprensione a chi si sia formato nel vigore del codice civile del 1942) la parte cui venivano trasferite soltanto alcune delle facoltà, ancorchè nel loro complesso di preponderante rilevanza, del diritto di piena proprietà di controparte acquistava anche il possesso cum juribus et pleno dominio del fondo oggetto di negoziazione.
Ed a questo punto – nell’ottica del redattore di questa breve nota di commento – il cerchio si chiude: il versamento al domino eminente del canone di censo periodico previsto in contratto non si atteggia a semplice pagamento di un corrispettivo ma serve, soprattutto, a fornire costante testimonianza del concorrente possesso, anch’esso sui generis, di chi lo riscuote; detto canone viene cioè prestato, con le parole del Borsari, “al padrone diretto a ricognizione di dominio”, ditalchè la sua mancata corresponsione rende già manifesta, da sé soltanto, la volontà dell’utilista di non riconoscere più il concorrente possesso del domino eminente.
Analoga ratio sorregge, d’altro canto, quanto risulta pacifico[5] in materia di usucapione di bene comune, vale a dire che il comunista ben possa usucapire anche in assenza di atti di interversione.
Sarebbe auspicabile – si ritiene - un intervento delle Sezioni Unite, anche se la materia a taluno sa forse di vecchio e stantio….
[1] RUPERTO C., Usucapione (diritto vigente), in Enc. Dir., XLV, Milano, 1992.
[2] Cass. 19.8.57 n. 3405, in Giust. Civ. Rep., 1957, voce Enfiteusi, n. 62.
[3] BORSARI L., Il contratto d’enfiteusi, sopravvivenze del dominio diviso nell’età della codificazione, Ferrara 1850.
[4] In termini MESSINEO F., “La finalità dell’atto di ricognizione è evitare l’estinzione del diritto del concedente – nell’enfiteusi perpetua o di durata superiore al ventennio – per effetto di usucapione del diritto medesimo da parte del possessore del fondo enfiteutico. L’atto di interruzione funge da mezzo di interruzione dell’usucapione (arg. 1165 e 2944 c.c.)”, così in Manuale di Diritto Civile e Commerciale, 9^ Ed. (Milano 1950-55).
[5] La giurisprudenza in argomento è sempre stata di segno univoco: tra gli arresti più recenti Cass. II 12/04/2018 n. 9100, “Il partecipante alla comunione che intenda dimostrare l'intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo ("uti dominus"), non ha la necessità di compiere atti di "interversio possessionis" alla stregua dell'art. 1164 c.c., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed "animo domini" della cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui”.
Acquisizione sanante e ammissibilità della rinuncia abdicativa: diversità di vedute fra giudice amministrativo e ordinario (nota a Cass. Civ., Sez. I, 6 giugno 2022, nn. 18142, 18143, 18167, 18168)
di Francesco Martines
Sommario: 1. La rinuncia abdicativa e l’evoluzione della giurisprudenza del giudice ordinario. – 2. L’orientamento del giudice amministrativo. – 3. L’ultima parola (?) dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. – 4. Le sentenze gemelle della Corte di Cassazione, Sez. I, del 6 giugno 2022 (nn. 18142, 18143, 18167, 18168). – 5. Riflessioni conclusive.
1. La rinuncia abdicativa e l’evoluzione della giurisprudenza del giudice ordinario.
Una delle questioni più problematiche che ha riguardato l’applicazione dell’istituto dell’acquisizione sanante concerne la ammissibilità della c.d. rinuncia abdicativa del diritto di proprietà insita nella richiesta risarcitoria del proprietario[1]. La rinuncia abdicativa può configurarsi nell’ambito delle procedure ablatorie caratterizzate da un esito patologico. In particolare, non potendosi più far discendere alcun effetto traslativo alla mera occupazione sine titulo con irreversibile trasformazione del bene, occorre – per garantire il rispetto del principio di legalità – che l’amministrazione proceda all’adozione di un provvedimento acquisitivo ex art. 42 bis del Testo Unico Espropriazioni (T.U.E.).
Già quando si riteneva che dall’irreversibile trasformazione del bene potesse derivare un effetto estintivo-traslativo della proprietà (accessione invertita), alcune pronunce del giudice ordinario avevano ipotizzato la rinuncia abdicativa come possibile rimedio alla situazione patologica venutasi a creare a causa dell’occupazione sine titulo da parte dell’amministrazione.
La fattispecie occupatoria in relazione alla quale è stata configurata la possibilità di collegare un effetto abdicatorio alla proposizione da parte del proprietario dell’azione di risarcimento per equivalente era la c.d. occupazione usurpativa per la quale – diversamente dai casi di occupazione acquisitiva – permaneva il diritto del proprietario ad ottenere la tutela restitutoria[2].
Con sentenza 10 giugno 1988 n. 3940, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, muovendo dal presupposto che l’effetto acquisitivo/traslativo poteva prodursi soltanto in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità, escludevano in radice la possibilità di applicare l’istituto della rinuncia abdicativa del proprietario[3] nei casi di occupazione acquisitiva.
La pronuncia delle Sezioni Unite n. 3940/1988 merita particolare attenzione poiché, per la prima volta, la Suprema Corte – pur approdando a conclusioni confermative e coerenti con la sentenza n. 1464/1983 – vi giunge adoperando nozioni e norme proprie del diritto pubblico. Il riferimento alle disposizioni civilistiche in materia di accessione viene così sostituito dal richiamo di nozioni quali l’espropriazione sostanziale e la disciplina della proprietà pubblica. Questa scelta offre una ricostruzione maggiormente coerente con l’inquadramento dottrinale che valorizza i profili dell’ablazione delle facoltà dominicali in nome dell’interesse pubblico[4].
Con sentenza 4 marzo 1997 n. 1907[5], le Sezioni Unite della Cassazione tornano sul tema e recuperano l’orientamento favorevole all’istituto della rinuncia abdicativa, formulando però alcune importanti precisazioni. Delineata la nota distinzione fra occupazione acquisitiva e occupazione usurpativa, infatti, le Sezioni Unite chiariscono che – qualora manchi la dichiarazione di pubblica utilità – non possa escludersi la possibilità per il proprietario di avvalersi di un’azione di risarcimento del danno per perdita definitiva del bene, ponendo in essere “un meccanismo abdicatorio che non manca di riscontri nel nostro ordinamento positivo (artt. 1070, 1104, 550 c.c.)”. La Corte di Cassazione ribadisce, dunque, la tesi che il proprietario che agisce per il risarcimento del danno esprime una volontà del tutto incompatibile con quella di mantenere la proprietà del bene stesso[6].
Nel 2003 le Sezioni Unite affrontano, seppur incidentalmente, la questione ancora una volta e confermano espressamente l’orientamento secondo il quale – nelle ipotesi di occupazione usurpativa – “non si produce l’effetto acquisitivo a favore della pubblica amministrazione; il proprietario può chiedere la restituzione del fondo occupato e, se a tanto non ha interesse (e quindi vi rinunzi, anche per implicito), può avanzare domanda di risarcimento del danno, che deve essere liquidato in misura integrate” (Cass. Civ. 6 maggio 2003 n. 6853).
2. L’orientamento del giudice amministrativo.
Espunta dall’ordinamento l’occupazione acquisitiva (con l’introduzione dell’art. 43 e poi 42 bis del Testo Unico Espropriazioni) e assegnata al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva in materia di espropriazione, la questione dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa è stata affrontata anche dal giudice amministrativo.
In contrasto con l’ormai pacifico orientamento del giudice ordinario, la giurisprudenza amministrativa ha sollevato diverse obiezioni alla possibilità di collegare l’estinzione del diritto di proprietà del privato alla sua unilaterale volontà di abdicare al proprio diritto.
Secondo il giudice amministrativo, la soluzione della rinuncia abdicativa si poneva in contrasto con l’esigenza di tutela della proprietà e con i principi di matrice civilistica[7].
Inoltre, la configurazione dell’azione risarcitoria quale negozio unilaterale con effetto abdicativo non renderebbe ragione, per la stessa natura di atto unilaterale del negozio, dell’ulteriore effetto che dovrebbe conseguire dalla rinuncia della proprietà, ossia l’acquisto della proprietà in capo alla pubblica amministrazione occupante.
Il giudice amministrativo ha così allargato l’ambito d’esame della questione al profilo dell’effetto (abdicativo o traslativo) della rinuncia.
Invero, a ben vedere, l’effetto traslativo andrebbe ricollegato al titolo giudiziale, ossia alla sentenza di accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno per equivalente. Di tale effetto traslativo riconducibile al titolo giudiziale, tuttavia, non vi è traccia nel sistema, se non con riferimento all’ipotesi della sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 2932 cod. civ. (nel caso di inadempimento dell’obbligo a contrarre) .
Infine, il riconoscimento di un effetto traslativo dovrebbe comportare l’applicazione dei principi dell’acquisto a titolo derivativo, con la conseguenza che l’ente pubblico acquisterebbe il bene gravato da diritti o garanzie reali[8].
Tale prospettazione è apparsa in contrasto poi con il principio di tipicità dei modi di acquisto della proprietà di cui all’art. 922 cod. civ. e con il tenore dell’art. 43 (prima) e dell’art. 42 bis T.U.E. (poi) che fanno discendere l’acquisizione da un provvedimento discrezionale dell’amministrazione[9].
Alcune sentenze hanno sostenuto la radicale impossibilità di rinuncia al diritto di proprietà sul presupposto che “il bene immobile privato diventerebbe, per effetto di una siffatta abdicazione, una res nullius, teoricamente acquisibile in proprietà per semplice occupazione o invenzione. Il codice civile, però, ammette l’occupazione e l’invenzione, quali mezzi di acquisto della proprietà a titolo originario, solo per i beni mobili. È quindi evidente che il legislatore ha concepito un sistema tendente ad evitare che possano esistere beni immobili privi di proprietario a seguito di rinuncia abdicativa”[10].
La chiusura del giudice amministrativo verso l’ipotesi della rinuncia abdicativa poggia anche su una rigorosa interpretazione dell’art. 1350 cod. civ., relativo agli atti necessitanti della forma scritta ad substantiam, e che, nella misura in cui non indica espressamente la rinuncia abdicativa al diritto di proprietà sui beni immobili, andrebbe inteso come conferma dell’estraneità di tale facoltà al nostro ordinamento giuridico. Seguendo tale orientamento, il n. 5 dell’art. 1350 cod. civ. (relativo agli “atti di rinuncia ai diritti indicati dai numeri precedenti”) sarebbe riferito ai diritti derivanti dai contratti che hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà immobiliare (“la quale rinuncia è cosa ben diversa da quella abdicativa poiché non lascia il bene vacante”)[11].
In senso difforme, in altra pronuncia il giudice amministrativo (C.G.A.R.S., 25 maggio 2009 n. 486) ha osservato che gli artt. 1350 n. 5 e 2643 n. 5 cod. civ. (relativo quest’ultimo agli atti soggetti a trascrizione), nel menzionare espressamente “gli atti di rinuncia ai diritti indicati dai numeri precedenti”, farebbero riferimento anche al diritto di proprietà immobiliare[12].
Orbene, deve osservarsi che in tutte le ipotesi previste dalle richiamate disposizioni del codice civile la rinuncia è espressamente prevista a favore di uno specifico soggetto e il bene non acquista la qualità di res nullius. Diversamente, nelle ipotesi di occupazione sine titulo non è chiaro quale destino abbia il diritto di proprietà abdicato dal privato: se, astrattamente, potrebbe ritenersi che esso si trasferisca direttamente in capo all’amministrazione occupante (eventualmente mediante una semplice dichiarazione di accettazione)[13] resta il fatto che, in base alle disposizioni esaminate, esso dovrebbe farsi confluire nel patrimonio dello Stato (secondo il regime dei beni immobili vacanti) o al più diventare una res nullius[14].
Vi è poi un altro profilo che desta qualche perplessità.
Come evidenziato nelle pronunce che hanno negato la rinunciabilità del diritto di proprietà in caso di occupazione sine titulo, non può darsi luogo a risarcimenti connessi alla perdita della proprietà, trattandosi di un evento inesistente[15].
Altra giurisprudenza ha, invece, accolto la domanda risarcitoria ai sensi, prima, dell’art. 35, co. 2, D. Lgs. n. 80/1998, e poi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., affermando la necessità di prevedere un “passaggio intermedio, logicamente precedente il momento risarcitorio, consistente nell’assegnazione di un termine all’amministrazione perché definisca (in via negoziale o autoritativa, ex art. 43 citato) la sorte della titolarità del bene illecitamente appreso” e applicando in modo peculiare la norma che pone in capo al giudice amministrativo l’onere di accertare l’an della pretesa pecuniaria e consente di rinviare ad un accordo delle parti la liquidazione del quantum sulla base di criteri fissati dal giudice[16].
Alla posizione di chiusura del giudice amministrativo hanno reagito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 735/2015, seppure incidentalmente, hanno confermato la possibilità di una “scelta abdicativa” del dominus precisando che si tratterebbe di una rinuncia “abdicativa” e non “traslativa” con la conseguenza che da essa non può farsi discendere l’automatico acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione utilizzatrice del bene[17].
Secondo la Cassazione sussistono sufficienti elementi per individuare nella proposizione dell’azione risarcitoria per equivalente un comportamento inequivocabilmente incompatibile con il mantenimento del diritto di proprietà. Le Sezioni Unite riconoscono al privato la possibilità di domandare il risarcimento del danno per equivalente (con implicita rinuncia al diritto di proprietà) assumendo che il danno patito consiste non tanto nella perdita della proprietà quanto piuttosto nella perdita delle utilità ricavabili dal bene. Di qui l’implicita rinuncia al diritto di proprietà per mancanza di interesse al mantenimento della res.
L’orientamento della Cassazione favorevole all’ammissibilità dell’istituto si fonda su una ricostruzione sistematica dell’impianto civilistico sulla base di disposizioni codicistiche (artt. 827, 2643 n. 5, 118 comma 2 cod. civ.) dalle quali le Sezioni Unite traggono il principio della generale rinunciabilità della proprietà immobiliare. In aggiunta a tale argomento sistematico-letterale, le Sezioni Unite evidenziano un argomento teologico-funzionale nel senso che una rinuncia implicita al diritto di proprietà in seno ad una domanda di risarcimento del danno per equivalente permette di valorizzare il principio della concentrazione delle tutele di cui all’art. 111 Cost[18].
3. L’ultima parola (?) dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
In tempi più recenti, sull’applicabilità della rinuncia abdicativa alle vicende dell’occupazione sine titulo è intervenuta l’Adunanza Plenaria con l’intenzione di porre fine ai contrasti interpretativi.
Con sentenza 9 febbraio 2016 n. 2, sebbene in via incidentale, l’Adunanza Plenaria ritiene ammissibile la rinuncia abdicativa del dominus implicitamente contenuta nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente.
Questa soluzione comporta che la rinuncia possa avere effetto meramente abdicativo e non anche traslativo; il che significa che l’effetto traslativo sia collegato all’atto di liquidazione del danno adottato dall’amministrazione occupante convenuta in giudizio[19]. Da un lato, dunque, si avrà il negozio unilaterale di rinuncia del privato, dall’altra l’atto di liquidazione dell’amministrazione, da trascriversi ai sensi dell’art. 2643, comma primo, n. 5 cod. civ. Come è stato osservato, l’abdicazione insita nella domanda risarcitoria di un privato, non essendo propriamente traslativa del diritto di proprietà, diventa atto risolutivamente condizionato al pagamento, da parte della pubblica amministrazione, del risarcimento del danno[20].
Sorgono, tuttavia, alcune perplessità.
È possibile riconoscere effetto di rinuncia abdicativa implicita, oltre che alla domanda giudiziale di risarcimento per equivalente, anche ad altri atti “inequivocabili” del privato, (quale per esempio la nota di diffida e messa in mora inviata alla pubblica amministrazione occupante per ottenere il pagamento del risarcimento del danno)?
E ancora: la quantificazione del danno prospettata dal privato nell’atto introduttivo del giudizio risarcitorio è vincolante per la pubblica amministrazione (che deve adottare l’atto di liquidazione e curarne la trascrizione) oppure essa può liquidare una somma di diverso valore?
La giurisprudenza favorevole all’ammissibilità dello strumento della rinuncia abdicativa, invero, sembra piuttosto rigorosa e riconnette l’effetto abdicativo alla sola domanda giudiziale (e non anche ad altri atti del privato) così come non sembra lasci margine alla pubblica amministrazione per procedere ad una liquidazione che si discosti da quella indicata dal privato.
È altresì vero, però, che – astrattamente ed in linea teorica – una volta ammessa la rinunciabilità implicita da parte del proprietario del bene occupato non pare possano affermarsi ostacoli ad un possibile ampliamento dell’ambito di applicazione dell’istituto della rinuncia abdicativa. Sono soltanto ragioni di opportunità che inducono a scoraggiare tali interpretazioni estensive, di per sé insufficienti a escluderle del tutto.
Quando sembrava ormai essersi assestata la posizione della giurisprudenza in ordine al tema della rinuncia abdicativa (nel senso della sua assimilabilità), com’è noto, nel 2020 l’Adunanza Plenaria è tornata ad occuparsi dell’argomento con tre pronunce coeve, molto interessanti, con le quali viene affermata in maniera netta la non ammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà implicitamente contenuta nella domanda giudiziale proposta dal soggetto privato per ottenere il risarcimento per equivalente (sentenze n. 2, 3, 4 del 20 gennaio 2020) [21].
Le sentenze nn. 2 e 3 sono gemelle
L’Adunanza Plenaria muove dall’esame dell’orientamento giurisprudenziale favorevole all’ammissibilità della rinuncia, soffermandosi sui vantaggi che, sul piano pratico, esso comporta per il privato espropriato (concentrazione delle tutele; ragionevole durata del processo; corresponsione del quantum a titolo di risarcimento del danno e non a titolo di indennizzo).
Nonostante tali elementi di favor per il privato espropriato, l’Adunanza Plenaria rigetta l’ipotesi ricostruttiva della rinuncia abdicativa in quanto si espone a tre fondamentali obiezioni.
In primo luogo, quand’anche voglia riconoscersi che l’atto abdicativo sia astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è possibile affermare che esso determini l’acquisto della proprietà in capo all’autorità espropriante. In tale prospettiva, appare fuorviante il richiamo all’art. 827 cod. civ. – assunto come base legale della dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale immobiliare – al di fuori dei casi previsti dalla legge poiché la norma prevede che gli immobili vacanti siano acquistati (a titolo originario) al patrimonio indisponibile dello Stato. Ne consegue che, applicando la disposizione al caso dell’occupazione sine titulo, la rinuncia non consentirebbe l’acquisto in capo all’ente espropriante.
La Plenaria precisa, altresì, che non possa riconoscersi effetto traslativo alla trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno giacché si tratta di un adempimento rilevante soltanto ai fini dell’opponibilità verso i terzi. Per la medesima ragione ai fini traslativi non può assumere rilievo la trascrizione dell’atto di liquidazione del risarcimento del danno.
La posizione assunta dal collegio giudicante è molto rigorosa e, per vero, non del tutto condivisibile soprattutto per gli effetti compressivi che comporta sulla posizione del proprietario del bene occupato[22].
L’Adunanza Plenaria osserva inoltre che sarebbe fuorviante il richiamo alla teorica degli atti impliciti che può riguardare solo gli atti amministrativi e non gli atti del privato. In ogni caso, non è possibile ritenere che la volontà (espressa) del privato di agire per il risarcimento del danno per equivalente implichi inequivocabilmente la volontà (implicita) di rinunciare al diritto di proprietà. La domanda risarcitoria, infatti, denuncia un illecito di cui la parte chiede la riparazione; nulla di più e nulla di meno.
Sul piano formale, prosegue l’Adunanza Plenaria, va considerato che la domanda risarcitoria è redatta e sottoscritta dal difensore del soggetto proprietario (e non anche da questi personalmente). Tuttavia, ai fini della possibile configurabilità della rinuncia, quest’ultima deve provenire dal titolare del diritto che ne ha la disponibilità.
Rispetto alla posizione assunta dall’Adunanza Plenaria, si osserva peraltro che il riferimento alla teoria dell’atto amministrativo implicito appare non del tutto pertinente laddove si faccia riferimento alla rinuncia abdicativa del privato che è istituto del tutto differente per presupposti e ambito di operatività[23].
La ragione principale ed assorbente che ha indotto l’Adunanza Plenaria a ritenere non percorribile la strada della rinunciabilità del diritto di proprietà in caso di occupazione sine titulo attiene al rispetto del principio di legalità: ai sensi dell’art. 42 della Costituzione la proprietà può essere espropriata “nei casi preveduti dalla legge” fra i quali non rientra la rinuncia abdicativa. Secondo quanto osservato nelle sentenze 2 e 3 del 2000, la tesi della rinuncia abdicativa rischia di riproporre “problemi e dubbi interpretativi” propri dell’ormai tramontato istituto dell’occupazione acquisitiva, ritenuto incompatibile dalla Corte EDU con i principi del Protocollo Addizionale CEDU.
Ai sensi dell’art. 42 bis T.U.E. deve escludersi che il giudice e, a maggior ragione, il privato possano decidere sulla sorte del bene occupato; la scelta di acquisirlo è propria della pubblica amministrazione e deve restare tale “senza che possano trovare spazio elaborazioni giurisprudenziali che, se forse giustificate in assenza di una base legale, non si giustificano più una volta che intervenga un’esplicita disciplina normativa”.
L’orientamento contrario alla rinuncia abdicativa implicita del proprietario del bene occupato sine titulodalla pubblica amministrazione trova conferma, con ulteriori argomentazioni, nella coeva sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4/2020 che prende posizione sull’indirizzo interpretativo dedotto dalle sentenze Cass. Civ. SS.UU. n. 735/2015 e Cons. Stato Ad. Plen. n. 2/2016 che – viene fatto rilevare – non trattano ex professo le questioni inerenti l’applicazione della rinuncia abdicativa e, pertanto, non rappresentano precedenti puntuali e granitici.
Nella sentenza n. 4/2020 l’Adunanza Plenaria muove dalla constatazione che “la trasposizione della figura negoziale della rinuncia abdicativa dall’ambito privatistico all’ambito dell’espropriazione per pubblica utilità (…) genera un’irrazionalità amministrativa di tipo funzionale”; ciò che resta irrisolto nella ricostruzione dell’istituto della rinuncia abdicativa è l’aspetto della correlazione fra effetto privativo e effetto traslativo proprio dei provvedimenti ablatori, finendo col privare la vicenda espropriativa della sua causa giuridica. Nessuna delle pronunce che ammette il ricorso alla rinuncia abdicativa fornisce una soluzione certa ed univoca sull’individuazione del titolo e del modus acquirendi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante tenuta al risarcimento dei danni.
Il richiamo all’art. 827 cod. civ. – prosegue l’Adunanza Plenaria – appare fuorviante tenuto conto che la disposizione civilistica prevede l’acquisto a titolo originario del bene vacante da parte dello Stato e non può, dunque, giustificare l’acquisto da parte dell’ente espropriante tenuto al risarcimento del danno.
L’Adunanza Plenaria – integrando i rilievi delle sentenze 2 e 3 – esclude altresì la possibilità di applicare in via analogica altre disposizioni del codice civile riguardanti fattispecie di acquisto a titolo originario quali gli artt. 923, 940 e 942 cod. civ. in quanto si incorrerebbe in una palese violazione del principio di legalità, più volte richiamato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte EDU.
Muovendo da queste premesse e osservazioni, si osserva che l’art. 42 bis ha introdotto una procedura speciale tipizzando i poteri dell’amministrazione e conformando la facoltà di autodeterminazione del proprietario.
In particolare, ai sensi dell’art. 42 bis, l’amministrazione occupante è titolare di una “funzione a carattere doveroso consistente nella scelta fra la restituzione previa rimessione in pristino o l’acquisizione di esso”; non si tratta, dunque, di una mera facoltà di scelta fra più opzioni possibili ma di “doveroso esercizio di un potere”.
Parallelamente, in capo al privato è attribuita la potestà di compulsare la pubblica amministrazione attraverso un’istanza o diffida all’esercizio del potere/dovere di porre termine alla situazione di illecito permanente costituita dall’occupazione sine titulo scegliendo se acquisire o restituire il bene; in caso di perdurante inerzia, il privato potrà ricorrere all’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a.[24].
Altre possibili soluzioni (ivi compresa la teorica della rinuncia abdicativa) potevano essere percorribili in mancanza di una disposizione (l’art. 42 bis) che ha espressamente regolato l’unica procedura da seguire.
Ne consegue che all’interprete “non è consentito (se mai lo sia stato) più di ricorrere all’analogia iuris per integrare la fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa quale tassativamente predeterminata dal legislatore”.
L’ipotesi dell’applicazione delle norme sulla rinuncia abdicativa viene ritenuta un’operazione ermeneutica da rigettare in quanto:
- comporta uno stravolgimento dell’assetto di interessi sotteso e (ri)composto (d)alla particolare procedura ablativa disciplinata dall’art. 42 bis;
- affida alla decisione sulla sorte del bene ad un atto eventuale ed unilaterale del proprietario cui finirebbe per attribuire “una sorta di diritto potestativo direttamente ricadente nella sfera giuridica dell’amministrazione”;
- si risolve nell’inammissibile introduzione praeter legem di una nuova fattispecie ablativa/traslativa.
A parere di chi scrive, l’orientamento dell’Adunanza Plenaria, pur condivisibili, si espone ad alcuni rilievi critici.
In particolare, il rilievo (che la stessa Adunanza Plenaria ritiene “decisivo ed assorbente”) sulla violazione del principio di legalità potrebbe essere ritenuto non del tutto convincente da una diversa prospettiva.
Ponendosi dalla prospettiva del titolare del diritto dominicale potrebbe infatti obiettarsi che l’art. 42 Cost. (che secondo l’Adunanza Plenaria non fornirebbe la base legale all’istituto della rinuncia abdicativa) riconosce e protegge la proprietà privata e, nel sottoporre al principio di legalità la determinazione dei modi di acquisto e, soprattutto, le modalità di espropriazione della stessa per motivi di interesse generale, mira a tutelare il proprietario; sicché sarebbe priva di giustificazione un’interpretazione che individua proprio nell’art. 42 Cost. la ragione di un limite all’esercizio delle azioni ordinariamente poste a difesa del diritto dominicale e al dispiegarsi della normale potestà di disposizione dello stesso (ivi compresa quella di rinunciarvi).
Dubbi similari possono sorgere rispetto all’affermazione secondo la quale l’ordinamento processuale appresterebbe uno strumentario efficace a tutela del soggetto privato che rende superfluo e fuorviante il ricorso all’istituto della rinuncia abdicativa[25].
4. Le sentenze gemelle della Corte di Cassazione, Sez. I, del 6 giugno 2022 (nn. 18142, 18143, 18167, 18168).
L’orientamento dell’Adunanza Plenaria sull’inammissibilità del ricorso alla rinuncia abdicativa è stato recepito dalla giurisprudenza amministrativa che si è prontamente adeguata alle indicazioni interpretative delle pronunce nn. 2, 3 e 4 del 2020[26].
Non analoga condivisione si è riscontrata da parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione che, chiamata a pronunciarsi su fattispecie per le quali ratione temporis manteneva la giurisdizione, non ha mancato di rilevare che l’esclusione della rinuncia abdicativa nelle ipotesi di occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione rappresenta un grave vulnus per il diritto di proprietà del privato[27].
Si segnalano, in particolare, per il netto dissenso manifestato rispetto alla posizione assunta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, quattro recenti sentenze gemelle della Prima Sezione della Corte di Cassazione del 6 giugno 2022 (nn. 18142, 18143, 18167, 18168) con le quali – muovendo dall’assunto che la scelta dei rimedi a tutela della proprietà deve essere sempre riservata al privato danneggiato (Cass. n. 144/2020 e n. 301/2014) – si afferma chiaramente che l’Adunanza Plenaria, escludendo la possibilità per il privato di azionare i rimedi civilistici comuni, in sostanza ha ravvisato una “modalità conformativa della proprietà privata rimessa all’autorità amministrativa alla quale soltanto sarebbe riservata, ai sensi dell’art. 42 bis., la decisione di acquisire la proprietà dell'immobile, previo pagamento dell'indennizzo, o di restituirlo previa rimessione allo stato pristino, salva la residua possibilità per il privato di reagire introducendo un giudizio, con esito incerto e dilatato nel tempo, al solo fine di compulsare la stessa autorità ad assumere detta decisione”.
Secondo la Corte l’adesione all’impostazione della giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato implica l’esposizione del proprietario danneggiato ai rischi insiti nella titolarità del bene in una situazione determinata dal comportamento illecito dell’autorità amministrativa; il proprietario, di fatto, verrebbe privato della possibilità di avvalersi del rimedio principale per far cessare immediatamente la prosecuzione degli effetti dell’illecito, ossia la rinuncia forzosa alla proprietà (soluzione alternativa alla richiesta di restituzione del bene previa rimessione in pristino se concretamente praticabile)[28].
Il proprietario vittima del comportamento illecito dell’amministrazione ha il diritto di domandare in giudizio il risarcimento del danno, non solo, per la perdita del godimento nel periodo considerato (occupazione illegittima), ma anche per la perdita commisurata all'integrale valore del bene, alla cui titolarità il proprietario ha implicitamente (seppur forzosamente) rinunciato proponendo la domanda risarcitoria per equivalente. Muovendo da tale assunto, la Corte di Cassazione rigetta in toto la soluzione prospettata dal giudice amministrativo aprendo un contrasto giurisprudenziale che richiede una soluzione.
A sostegno della propria posizione la Suprema Corte richiama anche l’orientamento della dottrina (per lo più gius-privatistica) secondo la quale non vi sono ostacoli logici e giuridici a che il proprietario - fintanto che la pubblica amministrazione non abbia esercitato il potere di acquisizione sanante - possa chiedere in giudizio e ottenere il risarcimento del danno per la perdita della proprietà del bene coattivamente trasferito in capo all’autore della lesione.
5. Riflessioni conclusive.
Il contrasto giurisprudenziale fra le supreme magistrature ordinaria e amministrativa in tema di rinuncia abdicativa sottende la continua tensione tra autorità e libertà, ovvero fino a che punto il potere autoritativo della pubblica amministrazione esercitato nel perseguimento del pubblico interesse possa giustificare il sacrificio del diritto di proprietà del privato garantito dalla Costituzione e dalla CEDU.
Per un verso, la posizione dell’Adunanza Plenaria del 2020 in ordine alla non ammissibilità dell’istituto dell’abdicazione del diritto di proprietà ha l’incontestabile pregio, per un verso, di essere pienamente aderente alle disposizioni codicistiche richiamate nelle sentenze di tenore contrario e, per altro verso, di valorizzare lo spirito della disciplina dell’acquisizione sanante.
L’art. 42 bis del Testo Unico Espropriazioni, invero, fornisce una base legale specifica e certa all’effetto ablativo della proprietà: da un lato la pubblica amministrazione è dotata di un potere di natura vincolata nell’an ma discrezionale nel quomodo, che le permette di ricondurre la situazione di occupazione illegittima nell’alveo della legalità; dall’altro lato, l’iniziativa procedimentale ed il successivo giudizio sul silenzio – come evidenziato dall’Adunanza Plenaria – costituiscono i mezzi con cui il privato può far valere il proprio interesse a conseguire il ristoro pecuniario rispetto alla restituzione del bene.
Da altra prospettiva, le conclusioni cui giunge la Corte di Cassazione nelle recenti sentenze del 2022 non paiono potersi considerare di modesto rilievo; l’esigenza di assicurare una tutela effettiva al proprietario del bene occupato dalla pubblica amministrazione per la realizzazione di un interesse pubblico è certamente rilevante e trova conforto nelle norme della CEDU che potrebbero indurre la Corte EDU a indicare una linea interpretativa in disaccordo con l’orientamento consolidatosi nelle sentenze del giudice amministrativo.
[1] G. Tropea, Per un inquadramento di sistema della disciplina dell’art. 42 bis DPR n. 327/2001 alla luce della giurisprudenza costituzionale e del giudice amministrativo, in www.giutiziainsieme.it, 2022; G. Mari, Rinunciabilità della proprietà e occupazione sine titulo, in Il libro dell’anno del diritto, Roma, 2019, 196 ss.; Bona-Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione dalla giustizia?, Foro It. 3/2020, 170; A. Di Cagno, La rinuncia abdicativa in favore dell’amministrazione nell’ambito delle occupazioni illegittime, in Urb. e App. 1/2020, 106 ss.; Coppola F., L’evoluzione della materia delle espropriazioni e la questione circa l’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà: la soluzione delle sentenze dell’Ad. Plen. n. 2 e n. 4 del 2020, in www.federalismi.it, 10/2021; Barilà, Nuovi interventi del Consiglio di Stato sulla tutela della proprietà rispetto ad occupazioni illegali dell’amministrazione, in Foro it., 2020, III, 159; E. Amante, L’adunanza Plenaria espunge la rinuncia abdicativa implicita dell’acquisizione sanante, in Urb. e App., n. 3/2020, 365 ss.; G. Ariemma, Occupazioni e tutela del privato: l’ammissibilità della rinuncia abdicativa in materia di espropriazione per pubblica utilità, in Ist. dir. e econ., 2/2020, 256 ss.; ID., CEDU e cultura giuridica italiana 9) La CEDU e il diritto amministrativo, in www.giustiziainsieme.it., 2020.
[2] Si segnala Cass, Civ., 18 aprile 1987, n. 3872, in Foro It., 1987, 1, 1727 ss. (con commento di A. Romano). Per una ampia ricostruzione del dibattito giurisprudenziale, R. Conti, Diniego di rinunzia abdicativa, in Urb. e App., 2009, 103 ss.
[3] Sentenza pubblicata in Foro Amm. 7-8/1988, 1973 ss. (con nota di G.P. Cartei, Un difficile connubio: criterio di effettività e principio di legalità dell’azione amministrativa).
[4] A.M. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione di vincoli paesistici, in Riv. trim. dir. pubb., 1961, 809 ss. ove l’Autore osserva che “l’ubi consistam dell’espropriazione non è il trasferimento – come testimonia l’etimo della parola – l’ablazione di un diritto o di facoltà inerenti ad un diritto”.
[5] Fra i commenti alla pronuncia si segnala, M. Annunziata, Azione risarcitoria per occupazione illegittima e prescrizione del diritto, in Riv. Giur. Edil., 3/1997, 508 ss.; G. Giacalone, L’occupazione illegittima, non assistita da (valida) dichiarazione di pubblica utilità, quale illecito permanente, in Giust. Civ., 5/1997, 1237 ss.;
[6] Come osservato nella pronuncia del 1997 (richiamando l’orientamento condiviso nella sentenza della II Sezione n. 3872/1987), lo schema della rinuncia con effetto abdicativo non è ignoto all’ordinamento, trovando espressione nell'art. 1070 cod. civ., che prevede l'abbandono del fondo servente mediante rinunzia alla proprietà in favore del fondo dominante, nell’art. 1104 cod. civ., che prevede l’abbandono del diritto del comunista sulla cosa comune a favore degli altri partecipanti, e infine nell’art. 550 cod. civ., che prevede l’abbandono della nuda proprietà della disponibile da parte del legittimario a favore del legatario.
[7] Si segnala TAR Calabria, Reggio Calabria, 17 giugno 2014 n. 265 secondo cui “facendo applicazione degli ordinari principi civilistici, l’esigenza di una piena tutela del diritto di proprietà esige che l’effetto traslativo consegua ad una volontà espressa ed inequivoca del proprietario interessato, da tradursi in strumenti negoziali formali e tipici (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 maggio 2013 n. 2559) dovendosi comunque tener conto dello specifico regime giuridico degli atti inter vivos con cui si può disporre, anche mercé l’abdicazione, del diritto di proprietà (art. 1350 n. 5 c.c. e art. 2643 n. 5 c.c.)”.
[8] TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 27 luglio 2015 n. 802; TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 31 agosto 2013 n. 529.
[9] TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 7 maggio 2015 n. 340; Cons. Stato, Sez. IV, 28 gennaio 2011 n. 676; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 26 marzo 2015 n. 310 che osserva che “in caso di occupazione divenuta sine titulo di un’area, il giudice amministrativo non può condannare l’amministrazione al risarcimento nei confronti del proprietario per il controvalore del bene, quand’anche questa sia la richiesta formulata dal ricorrente: la legge non attribuisce rilevanza ad una dichiarazione unilaterale del proprietario, ma all’art. 42 bis D.P.R. n. 327 del 2001 attribuisce all’amministrazione il potere di acquisizione; inoltre, la domanda giudiziale volta al risarcimento per equivalente comporterebbe una rinuncia ‘condizionata' alla pronuncia del giudice che liquidi il risarcimento ed il cui evento è comunque giuridicamente precluso, poiché — per il principio della separazione dei poteri — solo l’amministrazione può valutare quale degli interessi debba prevalere tra quelli in conflitto e decidere se restituire il terreno ovvero acquisirlo”; T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 16 settembre 2014 n. 1111 secondo cui “il diritto di proprietà non può essere fatto oggetto di atti abdicativi e, quindi, anche la richiesta di risarcimento formulata dal privato diretta ad ottenere il mero controvalore del fondo oggetto di occupazione sine titulo compromesso dall’opera pubblica, ancorché interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al privato la perdita della proprietà del terreno illegittimamente occupato”.
[10] T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 22 settembre 2008 n. 2176.
[11] In questi termini, T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 22 settembre 2008 n. 2176.
[12] C.G.A.R.S., 25 maggio 2009 n. 486 in cui vengono altresì considerate alcune specifiche ipotesi di atti di rinuncia al diritto di proprietà immobiliare contemplate dagli artt. 1070, 1104 e 550 c.c.
[13] T.A.R. Sardegna, Sez. II, 28 maggio 2010 n. 1383 dove si legge che “al momento della richiesta di risarcimento danni, cui consegue l'implicito abbandono del diritto di proprietà sul terreno, si è verificato l'incontro della volontà del Comune di voler acquisire il terreno, in precedenza manifestato con l'occupazione del terreno e la sua utilizzazione ad opera pubblica, con quella del privato che richiedendo la corresponsione del risarcimento dei danni abdica al diritto di proprietà sul terreno utilizzato dall'ente pubblico”.
[14] Sul punto, G. Mari, Occupazioni sine titulo, espropriazione indiretta, acquisizione sanante e obblighi restitutori: gli orientamenti della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) a confronto, in Riv. Giur. Edil., 1-2/2016, 69 ss.
[15] Si segnala, in particolare, Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2012 n. 1514; T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 22 settembre 2008 n. 2176
[16] Cons. Stato, Sez. IV, 2 dicembre 2011, n. 6375; 1 settembre 2015, n. 4096.
[17] Cass. Civ., SS. UU., 19 gennaio 2015 n. 735; in termini analoghi, Cass. Civ., Sez. I, 7 marzo 2017, n. 5686; 24 maggio 2018, n. 12961; SS. UU., 6 febbraio 2019, n. 3517.
[18] L’orientamento delle Sezioni Unite del 2015 è stato condiviso in alcune sentenze del giudice amministrativo di prime cure. Vd. TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 11 giugno 2015 n. 245; TAR Calabria, Reggio Calabria, 30 gennaio 2013 n. 64; 21 maggio 2013 n. 320; 7 marzo 2014 n. 156.
[19] Sui profili della liquidazione dell’indennizzo e del risarcimento, F. Tigano, Indennizzo “reale” ed attività espropriativa nel caleidoscopio dei poteri ablatori, in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[20] M. Morelli, Le occupazioni illegittime della Pubblica Amministrazione, Roma, 2018, in part. 217- 218.
[21] Fra i commenti alle sentenze dell’Adunanza Plenaria del 2020 si segnalano: E. Barilà, Nuovi interventi del Consiglio di Stato sulla tutela della proprietà rispetto ad occupazioni illegali dell’amministrazione, in Foro it., 2020, III, 159 ss.; C. Bona – R. Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione della giustizia?, ibidem, 169; S.R. Masera, Espropriazione per p.u. - Cessazione dell'occupazione illegittima e irreversibile trasformazione del fondo, in Giur. it., 2020; sulle conseguenze legate alla soluzione tracciata dall’Adunanza Plenaria 2020 sono condivisibili le perplessità manifestate da R. CARANTA il quale osserva che “la scelta per l’inammissibilità adottata dalla Plenaria, se pare condivisibile sul piano teorico e della funzione pubblica, finisce, ancora una volta, per riaffermare l’assoluta disparità di trattamento riservata in tale materia alla p.a. (…) rispetto a quella del privato”; l’A. conclude indicando la necessità dell’intervento del legislatore. (R.G. CONTI, CEDU e cultura giuridica italiana 9) La CEDU e il diritto amministrativo, cit., 2020); analoghe perplessità sono sollevate da G. TROPEA nel medesimo contributo.
[22] C. Bona - R. Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione di giustizia?, cit., 2020, III, 134 ss.
[23] G. Tropea, Per un inquadramento di sistema della disciplina dell’art. 42 bis DPR n. 327/2001 alla luce della giurisprudenza costituzionale e del giudice amministrativo, cit.
[24] Sulla tutela avverso l’inerzia della pubblica amministrazione, da ultimo, S. Villamena, Inerzia amministrativa e nuove forme di tutela. Profili organizzativi e sostanziali, Torino, 2020. Per un inquadramento generale, M.A. Sandulli, Riflessioni sulla tutela del cittadino contro il silenzio della pubblica amministrazione, in Giust. civ., 1994, 486 ss.; Id., La disciplina del silenzio della pubblica amministrazione spunti di riflessione in materia di tutela giurisdizionale, in V. Parisio (a cura di), Inerzia della pubblica amministrazione e tutela giurisdizionale. Una prospettiva comparata, Milano, 2002, 183 ss; S. Perongini, La tutela giurisdizionale avverso l’inerzia della pubblica amministrazione e l’interesse pubblico, in Dir. proc. amm., 2010, 423 ss.; R. Rolli, La voce del diritto attraverso i suoi silenzi. Tempo, silenzio e processo amministrativo, Milano, 2012; F. Manganaro, Dal rifiuto del provvedimento al dovere di provvedere: la tutela dell’affidamento, in Dir. amm., 2016, 93 ss.; G. Mari, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi alla relativa violazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 158 ss.
[25] Queste ed altre perplessità sono sollevate da A. Vacca nel contributo Profili strutturali dell’attività di ius dicerenell’abdicazione del diritto di proprietà, op. cit.; i rilievi critici sono in parte condivisi da G. Tropea, Per un inquadramento di sistema della disciplina dell’art. 42 bis DPR n. 327/2001 alla luce della giurisprudenza costituzionale e del giudice amministrativo, op. cit.
[26] Ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 16 maggio 2022, n. 3827; 11 marzo 2022, n.1746; 28 gennaio 2022, n. 600; 27 dicembre 2021, n. 8628; 2 settembre 2021, n. 6205; 22 giugno 2021, n. 4790; 12 maggio 2021, n. 3751; , 10 maggio 2021, n. 3611; 5 maggio 2021, n. 3514; 31 marzo 2021, n. 2686; 29 marzo 2021, n. 2595; 21 settembre 2020, n. 5527; Sez. II, 7 gennaio 2022, n. 105; 11 ottobre 2021, n. 6798; 9 aprile 2021, n. 2906; 9 novembre 2020, n. 6863; C.G.A.R.S., 2 febbraio 2022, n. 156; 8 luglio 2021, n. 668; 28 giugno 2021, n. 631; 14 maggio 2021, n. 430; 25 marzo 2021, n. 253; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 12 aprile 2021, n.523; 11 settembre 2020, n. 985; 20 aprile 2020, n. 470; TAR Sardegna, Sez. II, Cagliari, 30 aprile 2021, n. 314 TAR Campania, Napoli, Sez. V, 19 maggio 2021, n. 3328; 21 luglio 2021, n. 5048; 26 luglio 2021, n. 5221.
[27] Cass. Civ., sez. I, 6 giugno 2022, nn. 18142, 18143, 18167, 18168; in precedenza, 7 settembre 2020, n. 18566; Sez. III, 11 dicembre 2020, n. 28297
[28] In termini analoghi, Cass Civ., Sez. I, 7 settembre 2020, n. 18566 aveva ribadito che va condiviso l’orientamento giurisprudenziale favorevole alla rinunciabilità della proprietà (Cass. SS. UU. 735/2015) in quanto “in tema di espropriazione per pubblica utilità, la c.d. occupazione acquisitiva od accessione invertita, che si verifica quando alla dichiarazione di pubblica utilità non segue il decreto di esproprio, è illegittima al pari della cd. occupazione usurpativa, in cui invece manca del tutto detta dichiarazione, ravvisandosi in entrambi i casi un illecito a carattere permanente (inidoneo a comportare l’acquisizione autoritativa alla mano pubblica del bene occupato), che cessa tuttavia in caso di rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente”.
Le interferenze tra i beni pubblici e i beni privati nella teoria generale e nell’esperienza pratica
di Gianpiero Paolo Cirillo
Sommario: 1. L’attività al centro dell’esperienza giuridica e in particolare rispetto alla conformazione del bene. - 2. Il nesso tra bene e diritto di proprietà. - 3. L’insufficienza del criterio dell’appartenenza per stabilire la differenza tra bene pubblico e bene privato. - 4. Il bilancio degli enti pubblici e la sua natura di bene pubblico. - 5. La necessità dell’ordinamento di collegare il bene al soggetto che diventa titolare di diritti e interessi legittimi aventi ad oggetto “l’utilitas” che deriva da esso. - 6. La critica della tripartizione classica dei beni pubblici. - 7. La tendenza a valorizzare il bene per il suo valore d’uso anziché di scambio. I beni comuni. - 8. Il bene comune e la realtà digitale.- 9. La vocazione pubblica dei beni privati. - 10. La proprietà conformata. - 11. La volumetria, i diritti edificatori e l’espropriazione di valore. Il credito edilizio. - 12. Il bene ambientale. - 13. Le conclusioni.
1. L’attività al centro dell’esperienza giuridica e in particolare rispetto alla conformazione del bene.
Sono necessarie alcune premesse di carattere generale.
Al centro dell’esperienza del diritto va posta l’attività giuridica. Le entità più visibili della realtà sono le cose e i soggetti che agiscono. Di queste due, pur essendo complementari, la più importante è la seconda, poiché l’attività può avere ad oggetto cose e non viceversa. I soggetti, che costituiscono semplicemente l’ipostatizzazione dell’attività, diventano rilevanti solo nel momento in cui agiscono, anche se il diritto se ne deve occupare a proposito della loro organizzazione, dove, di regola, non ci sono rapporti intersoggettivi. L’attività materiale, anch’essa la più visibile di tutte le possibili tipologie in cui viene normalmente scomposta l’attività giuridica, non è in sé una nozione giuridica, ma può diventarlo laddove la si consideri in un dato contesto ordinamentale.
L’attività giuridica è l’insieme di attività materiali e di atti formali diretti a curare un interesse specifico del soggetto di diritto, considerato rilevante dall’ordinamento. Essa viene prima del risultato economico e giuridico che essa produce. Le attività più rilevanti sono quelli attinenti al lavoro e all’impresa, in quanto producono nuova ricchezza.
In passato si è ritenuto che sia l’attività di diritto amministrativo sia quella di diritto privato non fossero nozioni giuridiche, essendo piuttosto un’astrazione per indicare ciò che di comune avessero gli atti disciplinati da una data normazione. Per lungo tempo si è ritenuto che nel diritto privato fosse rilevante soltanto il negozio giuridico, mentre nel diritto amministrativo solo nella seconda metà del secolo scorso si è ritenuto fosse rilevante l’attività globalmente intesa.
Tuttavia -a parte che il codice civile prende in considerazione non solo i negozi giuridici ma anche l’attività, a proposito del possesso, dell’azienda e del trattamento dei dati personali- il diritto collega ad essa conseguenze in quanto tale isolandola dall’atto prodotto; e ciò avviene quando tale attività diventa ‘funzione’. Quest’ultima si registra quando un soggetto agisce per conto di un altro. Sicché per il soggetto nell’interesse del quale si è agito sorge la necessità di controllare nella sua interezza l’attività posta in essere da colui che ha gestito i suoi interessi. In questo modo viene in rilievo l’attività di gestione e il negozio che ne sta alla base. L’attività di gestione costituisce la radice della ripartizione tra il diritto privato e il diritto pubblico, in quanto in essa si ritrovano riuniti il concetto della cura di un interesse altrui e l’imputazione del risultato dell’attività di un soggetto diverso da quello che agisce. E questo va oltre il semplice rapporto giuridico tra singoli, dove ciascuno agisce per sé.
Va anche ricordato che l’esperienza giuridica è attività disciplinata di rapporti umani e che si è sempre fondata sulla relazione tra soggetto e oggetto del diritto, visti come i termini esterni al rapporto giuridico.
La concezione tradizionale si fonda su due concetti fondamentali: il soggetto, l’interesse e il bene sono momenti correlati di un unico fenomeno; il bene preesiste ai possibili rapporti giuridici di cui il bene costituisce il termine oggettivo. Siccome tutti i rapporti giuridici hanno insita una valenza patrimoniale, essi debbono riferirsi a beni in senso giuridico e questo postula un nesso indissolubile tra diritto ed economia, poiché tutti i rapporti giuridici sono valutabili sul piano economico e soddisfano bisogni. Essi contribuiscono a creare e spostare ricchezza, ossia beni. Questo vale non solo per i rapporti civilistici ma anche per i rapporti di diritto amministrativo, ivi compresi quelli di tipo autoritativo.
L’autonomia privata costituisce il principale strumento per distribuire in maniera ordinata gli interessi individuali che pertengono un determinato bene, garantendo il formarsi di un libero rapporto giuridico tra i soggetti rispetto al bene considerato. Invece, la potestà pubblica non solo deve garantire che questo avvenga in ossequio alla protezione offerta dalla Costituzione all’autonomia privata, ma deve tenere in considerazione le esigenze di tipo patrimoniale presenti in tutti gli specifici procedimenti che si aprono innanzi alla pubblica amministrazione, e non solo in relazione ai beni pubblici di cui è proprietaria.
2. Il nesso tra bene e diritto di proprietà.
Venendo al tema, l’attività, in particolare di gestione e di godimento, diventa fondamentale anche a proposito della teoria dei beni, poiché è la prima che crea i secondi e non viceversa. Tuttavia nel rapporto giuridico che scaturisce tra il soggetto e il bene non rileva tanto quello diretto con il bene, e da cui nascono le forme giuridiche di appartenenza e di godimento, quanto quello che deriva dalla relazione con un altro soggetto dell’ordinamento che di regola confligge con l’interesse che si appunta sulla utilitas che dal bene stesso deriva, dove si può prescindere dalla appartenenza, come nel caso di più soggetti che aspirino a godere e disporre della medesima utilità senza che nessuno dei due soggetti abbia una relazione pregressa con il beni in contesa oppure invece l’abbiano di fatto (possesso) o in virtù di titoli contrastanti.
Il discorso sui beni non può ignorare l’istituto della proprietà, poiché il codice civile, come è stato insegnato, ha dettato una disciplina dei beni che aspirava a diventare una categoria generale a fondamento di tutto il diritto patrimoniale. Inoltre, l’istituto della proprietà si è evoluto nel senso che essa rileva non tanto in sé, ma in quanto inserita in un rapporto di tipo contrattuale.
In effetti ciò trova fondamento nella legge, laddove il codice considera beni tutto ciò che può formare oggetto di diritti (art. 810 c. c.) e laddove la prestazione dell’obbligazione deve essere sempre suscettibile di valutazione economica, anche quando essa viene assunta o pretesa per soddisfare un interesse non patrimoniale (art. 1174 c. c.)
La prima delle norme indicate fissa il rapporto tra cosa e diritto. Il rapporto tra soggetto e oggetto di diritti è stato sempre concepito in funzione del riconoscimento o, comunque, dell’attribuzione di un diritto soggettivo. Tant’è che la categoria del diritto soggettivo è stata impiegata non solo per il diritto di proprietà e per gli altri diritti reali di godimento, ma persino per definire l’impresa economica e per collegare l’imprenditore all’azienda.
Il richiamo all’azienda consente di affermare che nel diritto amministrativo, e più precisamente nella scienza dell’amministrazione, le organizzazioni pubbliche si presentano anche come aziende, ossia come una unione di beni ordinate alla produzione di beni o all’erogazione di servizi.
Non a caso presso gli economisti si discute molto del rapporto tra le aziende delle pubbliche amministrazioni e delle possibili differenze con le aziende delle organizzazioni private. In ogni caso, si insegna che le pubbliche amministrazioni hanno un capitale, immobiliare e mobiliare, di impianto e di esercizio. Hanno altresì rapporti creditori e debitori, entrate e uscite. Svolgono attività valutabili in termini di costi e di ricavi.
Del capitale delle amministrazioni si tratta proposito della teoria dei beni pubblici, che hanno particolari regimi giuridici; così come i rapporti obbligatori vengono trattati a proposito delle obbligazioni pubbliche. Il tema relativo alle entrate patrimoniali è molto più complesso rispetto a quello dei ricavi delle aziende private, in quanto larga parte di esse pervengono all’amministrazione attraverso l’esercizio della potestà di imposizione fiscale, non attraverso l’esercizio virtuoso dell’attività imprenditoriale nel mercato.
Tuttavia una parte considerevole delle entrate pubbliche segue un regime non diverso da quello di qualunque altro imprenditore privato, fondandosi sui prezzi di vendita di beni, su canoni da locazione di immobili, corrispettivi da contratti di trasporto, di somministrazione, d’opera e così via
Il bene, nel linguaggio giuridico, non viene denotato in maniera costante. Il vocabolo si colora di significati diversi in relazione ai diversi oggetti che sono attualmente qualificati come beni
Infatti, mentre da un lato i beni sono un sottoinsieme dell’insieme che comprende tutte le cose ai sensi dell’articolo 810 c. c., dall’altro nel linguaggio giuridico attuale l’insieme dei beni è più ampio di quello delle cose che possono formare oggetto di diritti. Questa è la naturale conseguenza dell’inclusione del legislatore tra i beni di quelli immateriali, che, presentando una certa utilità economica, possono generare rapporti e diritti che certamente non vertono su cose intese come percezioni del mondo fisico, come nel caso dell’azienda, laddove comprende, oltre a cose corporali, anche beni materiali, come marchi brevetti e altri diritti.
Il problema centrale è quello di comprendere rispetto a quali oggetti è possibile istituire un regime giuridico di appartenenza, come quello che si realizza con la creazione di un diritto a favore di un soggetto.
Certamente la Costituzione non favorisce l’idea che da una parte vi sia il soggetto e dall’altra l’oggetto. I beni vengono piuttosto visti come uno degli ambiti in cui si sviluppa la personalità umana in tutte le sue variegate articolazioni. Pertanto, essa distingue tra proprietà pubblica e proprietà privata. Inoltre prefigura regimi diversi per i beni che servono al soddisfacimento di bisogni essenziali come il diritto di abitazione (art. 47, comma 2, Costituzione), beni necessari per lo svolgimento dell’iniziativa economica (artt. 41-47 Costituzione), beni necessari alla vita spirituale dell’uomo, come i beni culturali e paesaggistici (art. 9, comma 2, Costituzione) e così via. A proposito di quest’ultima norma, la recente modifica costituzionale circa della protezione degli animali esclude che questi possano considerarsi cose.
Inoltre, il codice civile non offre una risposta generale alla domanda fondamentale di cui sopra, pertanto bisogna fare riferimento alle indicate nozioni che ci derivano dalla scienza economica e quindi ai concetti di bisogno, di risorsa scarsa e di utilità.
Come è stato suggerito, la possibilità che determinati oggetti siano classificabili o meno come beni, non dipende tanto dal fatto che vi sono risorse disponibili a tutti (come il mare aperto, la luce solare, l’aria e così via) e risorse limitate, quanto, piuttosto, dal fatto che l’ordinamento non ha ragione di intervenire se non nel momento in cui vi è un concreto utilizzo di essi da parte di qualcuno.
In realtà, l’ordinamento utilizza le proprie categorie che elevano l’interesse materiale del soggetto al bene, soggettivizzandolo, solo ove ciò sia strettamente necessario e solo ove sia in grado di offrire la tutela corrispondente, come nel diritto soggettivo di proprietà.
La tendenza attuale si fonda sul fatto che nessuna risorsa è disponibile in modo illimitato. Pertanto un regime non regolamentato di libera appropriazione di tali risorse può provocarne l’esaurimento in meno tempo di quanto si pensi.
Dall’analisi economica del diritto si apprende che solo a determinate condizioni il regime di comunione dei beni istituito senza ripartizioni di quota è sostenibile anche nel lungo periodo. Basti pensare alla possibilità di consumare liberamente l’aria nelle zone urbane, che ha condotto a un inquinamento atmosferico senza precedenti nelle parti urbanizzate del mondo.
L’analisi economica del diritto suggerisce quindi di togliere dalla condizione di oggetto liberamente appropriabile tutto ciò che si intende proteggere.
Il tema del bene come oggetto di diritto si intreccia con quello dell’oggetto del contratto, nonché con l’oggetto del provvedimento favorevole prodotto dal procedimento amministrativo, che tendono ad essere beni in sé o comunque idonei a creare beni. Di questo non è possibile ora occuparsi.
3. L’insufficienza del criterio dell’appartenenza per stabilire la differenza tra bene pubblico e bene privato.
Mentre la Costituzione parla di proprietà pubblica e privata, il codice civile distingue tra beni pubblici e beni privati. L’uso disinvolto dei termini non genera soverchie preoccupazioni nell’interprete, dato che il vero problema è quello di comprendere se la differenza tra i due tipi di proprietà dipenda dalle qualità intrinseche dei beni, ossia dalla loro diversa natura, o solo dall’appartenenza del bene, cioè dal collegamento formale tra oggetto e soggetto. Per l’osservatore occorre verificare se siano assoggettati ad un regime giuridico diverso, altrimenti non vi sarebbe ragione di distinguerli.
Il criterio dell’appartenenza non è sufficiente a cogliere la differenza tra proprietà pubblica e privata, poiché non tutti i beni della pubblica amministrazione sono sottoposti al regime particolare. Lo sono solo quelli demaniali e patrimoniali indisponibili, mentre quelli patrimoniali disponibili ricevono un trattamento del tutto simile a quello dei beni appartenenti ai privati. Peraltro esistono alcuni beni di proprietà privata che hanno finalità pubbliche e per questo sono assoggettati ad un regime particolare; ne sono esempio le autostrade costruite e gestite da privati, i boschi e le foreste private, i beni privati di interesse storico archeologico artistico.
Sicché per qualificare il bene come pubblico non è sufficiente il criterio soggettivo, che va integrato con quello oggettivo, ossia con l’applicazione a tale bene di un particolare regime giuridico. Possono essere riconosciuti beni pubblici solo quelli appartenenti alla pubblica amministrazione, i quali sono anche assoggettati ad una disciplina specifica. Tali sono i beni demaniali e quelli patrimoniali indisponibili.
Il diverso regime giuridico comporta la “riserva” in favore dei pubblici poteri di potestà fondamentali rispetto all’utilità che il bene può fornire in ragione della sua natura. Pertanto essi non possono appartenere a soggetti privati.
Il raffronto giuridico tra proprietà pubblica e privata è stato nel tempo oggetto di riflessione ed analisi e si caratterizza per l’essere strettamente connesso con i bisogni sociali e i mutamenti economici. Ogni trasformazione sociale, infatti, incide necessariamente sul concetto di proprietà.
Proprio i cambiamenti sociali sono stati alla base del superamento della logica unitaria della proprietà a favore di una visione in virtù della quale vi sono piuttosto delle proprietà o statuti diversi in armonia con gli scopi perseguiti.
Nell’evoluzione dei rapporti economici e sociali si è assistito ad un passaggio da uno Stato gestore a uno Stato sempre più regolatore, assetto che ha di fatto rimodulato il confine tra proprietà pubblica e proprietà privata; ciò anche alla luce di un diritto europeo attento ad assicurare parità di trattamento tra impresa pubblica e impresa privata, oltre al fatto che i processi di privatizzazione non hanno, di fatto, ridimensionato il ruolo dello Stato nell’economia.
La scelta privatistica non ha, infatti, implicato il superamento dei vincoli pubblicisti, essendo il diritto privato inidoneo ad assicurare all’azione buon andamento e imparzialità. L’opzione per il modello privatistico ha però inevitabilmente imposto il rispetto di logiche imprenditoriali e regole di mercato nella consapevolezza che anche i beni di natura pubblica debbono soggiacere al criterio della economicità. In quest’ottica si è assistito al trasferimento di beni pubblici, demaniali e quelli facenti parte del patrimonio indisponibile, a soggetti privati, spesso a totale controllo pubblico, al fine di garantirne una più efficiente gestione. Talvolta nel rispetto delle finalità proprie dei beni stessi si è, quindi, assistito ad un superamento della concezione classica della proprietà pubblica, in particolare per quanto attiene al profilo della necessaria appartenenza del bene al soggetto pubblico.
4. Il bilancio degli enti pubblici e la sua natura di bene pubblico.
Nella discussione intorno ai beni pubblici è comparso il bilancio pubblico, che non viene più considerato come un documento meramente contabile-finanziario e le leggi che li approvano non sono meramente formali ma sostanziali, visto che hanno effetti giuridici diretti rispetto alle situazioni giuridiche facenti capo a enti pubblici, persone fisiche e persone giuridiche private.
L’idea di considerare il bilancio come bene pubblico, se non addirittura come bene comune, non è affatto peregrina, atteso che esso sfugge alla forza attrattiva delle categorie del patrimonio autonomo, separato e segregato, anche se di quest’ultimo “l’impegno di spesa” ne ricorda taluni tratti, quali l’effetto di destinazione. Parimenti non si adatta alla categoria della proprietà collettiva, in quanto si dovrebbe immaginare che i titolari siano da individuare nei contribuenti, presso i quali le risorse vengono attinte con l’utilizzo dei procedimenti impositivi, oppure che la titolarità si radichi in capo all’ente che dispone delle risorse tratte dalla fiscalità generale. Ma ciò non è nella realtà giuridica, anche se la tutela possibile dei soggetti incisi potrebbe essere assimilata a quella che si registra proposito di beni comuni.
Certamente la Corte costituzionale ritiene ormai pacificamente che il bilancio sia un bene pubblico, nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte dell’ente territoriale. Come bene pubblico esso deve dare tutela prioritaria a precisi interessi costituzionali (sentenze n. 62 del 2020, nn. 10 e 184 del 2016 e n. 49 del 2018 della Corte costituzionale).
In sintesi, la nuova concezione del bilancio quale bene pubblico configura un assetto delle pubbliche amministrazioni improntato alla logica del risultato anziché a quella, meramente formale, dell’adempimento. Quando il risultato manca scattano le forme di tutela a tutti livelli previsti dall’ordinamento.
5. La necessità dell’ordinamento di collegare il bene al soggetto che diventa titolare di diritti e interessi legittimi aventi ad oggetto “l’utilitas” che deriva da esso.
La nozione di proprietà pubblica si ricava dall’art. 42 della Costituzione, come più volte ricordato, nonché dagli artt. 822-831 del codice civile, che trattano specificatamente di beni pubblici.
Il libro terzo del codice civile “della proprietà”, seguendo l’impostazione del codice Giustinianeo, al capo I, si apre con la “nozione” di bene (art. 810), alla quale seguono la “distinzione dei beni” (art. 812), la disciplina delle “universalità di mobili” (art. 816) e delle “pertinenze” (artt. 817-819). Nel capo secondo vengono presi in considerazione i beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e a quelli ecclesiastici. In particolare l’art. 822 c. c. non parla di proprietà pubblica, ma di demanio pubblico, comprensivo del lido del mare, della spiaggia, delle rade, dei porti, dei fiumi, dei torrenti, delle altre acque definite pubbliche per legge (demanio necessario), a cui si aggiungono le strade, le autostrade, le strade ferrate, gli aerodromi, gli acquedotti e gli immobili riconosciuti di interesse storico archeologico artistico a norma delle leggi in materia (demanio accidentale).
Da ciò si ricava che i beni demaniali non coincidono con la proprietà pubblica. Possono, infatti, esistere beni che, pur rientrando nella tipologia dei beni demaniali, non sono di proprietà pubblica. Il che consente di dire che la norma costituzionale, essendo più generale di quella del codice civile, coglie meglio la proprietà pubblica nella sua realtà.
Come si diceva, il problema è quello di comprendere se sia possibile individuare dei connotati specifici della proprietà pubblica che la diversifichino da quella privata. Come pure si diceva, il criterio dell’appartenenza anche se è il primo che l’ordinamento considera, non è sufficiente a individuare esattamente la proprietà pubblica. Questo risponde piuttosto all’esigenza che l’ordinamento ha di dover collegare il bene ad un soggetto, tanto è vero che i beni in attesa di proprietario sono situazioni transitorie.
Se si guarda il problema dall’angolatura della titolarità, si riscontra che le situazioni soggettive sono perfettamente identiche, ossia il rapporto tra il proprietario, pubblico privato, ed il bene è lo stesso. Quindi bisogna ricercare altrove la differenza.
Sicuramente vi sono delle diversità nei modi di acquisto, nel senso che il soggetto pubblico ha a disposizione alcuni particolari strumenti, quali la confisca o la requisizione, e può utilizzare anche altri strumenti pubblicisti, che si aggiungono a quelli a disposizione del soggetto privato. Basti pensare, oltre alla cessione, anche all’occupazione acquisitiva, al testamento, al contratto (e a tutti i modi di trasferimento di diritto comune). Infatti il soggetto pubblico può utilizzare l’espropriazione o l’acquisizione al patrimonio ex artt. 43 e 43 bis del testo unico delle espropriazioni; strumenti questi che presuppongono una posizione di potestà pubblica.
Per quanto riguarda il trasferimento del diritto di proprietà mentre il soggetto privato agisce in base al principio dispositivo, sicché, per cedere il bene, è sufficiente che ne abbia la piena disponibilità, il soggetto pubblico non ha questa facoltà, a meno che non si tratti di beni patrimoniali disponibili.
La necessità dell’appartenenza, è confermata dalla disciplina della successione mortis causa, in base alla quale, ove non vi siano soggetti successibili, ossia eredi entro il sesto grado, la proprietà del bene rimasta vacante, viene acquisita dallo Stato. Ciò accade proprio perché non è ammessa la mancanza di collegamento tra un bene e un soggetto giuridico, cioè l’individuazione di un proprietario. I beni privi di titolare quindi diventano di proprietà dello Stato e sono beni pubblici.
6. La critica della tripartizione classica dei beni pubblici.
Tralasciando finalmente il problema dell’appartenenza e quello del trasferimento del diritto di proprietà pubblica, occorre fare un cenno ai modi di disposizione dei beni pubblici, prendendo le mosse dalla tradizionale tripartizione in beni demaniali, patrimoniali indisponibili e disponibili.
Il regime cui sono sottoposti i beni demaniali è caratterizzato dalla inalienabilità, non usucapibilità, imprescrittibilità del bene stesso. La qualificazione di bene demaniale dovrebbe essere sempre formale, nel senso che anche per i beni ascrivibili al demanio necessario la demanialità dovrebbe essere dichiarata in un provvedimento amministrativo seguita dall’iscrizione del bene in elenchi, attualmente tenuti dall’agenzia del demanio e in precedenza dal Ministero delle Finanze. Tuttavia, il tipo di bene compreso nel demanio necessario ai sensi dell’articolo 822 c. c. deve comunque qualificarsi demaniale, anche se non sia dichiarato tale e non sia iscritto nell’apposito elenco.
Si insegna che il bene demaniale inalienabile qualora venga venduto, nonostante l’impedimento di natura sostanziale, l’ordinamento reagisce con la sanzione della nullità per impossibilità dell’oggetto, ai sensi dell’articolo 1418, comma 2, c. c.
Il bene patrimoniale indisponibile invece si differenzia da quello demaniale perché può essere trasferito, seppure con il limite di mantenere invariata la destinazione che ha per natura o per atto amministrativo. Sicché, il negozio di trasferimento si considera annullabile per errore qualora non venga rispettata tale destinazione.
In questi casi la giurisprudenza si muove in due direzioni: a volte qualifica il vizio come errore di diritto, facendo riferimento ad un provvedimento di dubbia interpretazione che sembrerebbe aver mutato destinazione al bene, altre volte come errore sulla qualità del bene stesso.
Nelle voci classiche dei trattati e dei manuali i beni pubblici vengono ancora trattati in base ai concetti tradizionali dell’appartenenza, della demanialità, della indisponibilità o disponibilità, della inusucapibilità, della concessione, come si diceva.
Il regime della “riserva” è tuttavia separato dal regime dell’appartenenza, per cui possono aversi: a) beni senza avere un’appartenenza come le cose comuni, quali il mare l’aria l’etere l’uso dei quali perciò regolato dai pubblici poteri; b) beni appartenenti a pubbliche amministrazioni in uso esclusivo agli stessi, come i beni del demanio militare e quelli formanti il loro patrimonio indisponibile perché collegato strettamente ad attività che vi si svolgono.
Tra queste due categorie estreme stanno altre due categorie intermedie: c) in una vi è l’appartenenza alla collettività, ma al pubblico potere spettano la potestà di disposizione e di regolazione dell’uso, come avviene per i beni in uso collettivo, quali le strade il lido del mare i fiumi e i laghi; d) nell’altra vi è l’appartenenza del pubblico potere, ma questa si risolve nella potestà di stabilirne la utilizzazione, che è di privati, come avviene per le miniere.
Dunque, per verificare l’attualità della distinzione tradizionale occorre fare riferimento al concetto di “riserva” e di “destinazione”. Tutto il problema della demanialità è basato su questi istituti, che sono sufficienti a spiegare il fenomeno.
Esistono infatti dei beni che per loro natura non possono appartenere a soggetti diversi dallo Stato.
Non a caso una dottrina (Cerulli Irelli), da sempre attenta a questi temi, ritiene che una categoria propria e separata di beni pubblici sussiste soltanto con riferimento ai beni che sono pubblici perché sono del popolo e perché da esso direttamente utilizzati. La proprietà pubblica in questa ricostruzione, che dichiaratamente ritiene inadeguata al diritto positivo la sistematica codicistica, si caratterizza per la presenza di un regime derogatorio al diritto comune, ma al di fuori di tale deroga, esso si riespande. Non vi sarebbe nessuna ontologica differenza tra i due tipi di proprietà. Pertanto si individuano tre specie di beni pubblici: i riservati; quelli a destinazione pubblica e i beni collettivi.
Occorre, a tal proposito, ricordare la diversa classificazione proposta da M. S. Giannini, che ha messo in discussione la tripartizione, gettando anche le basi delle discipline sui beni culturali e ambientali. La classificazione gianniniana non è basata sull’elemento descrittivo (demanio necessario e accidentale, patrimonio disponibile o indisponibile), ma su due interrogativi: a chi e a cosa servono i beni pubblici.
Le risposte risolvono il problema dell’appartenenza e delle relazioni giuridiche tra i soggetti pubblici e privati il cui oggetto è un bene. Sicché, l’Autore individua alcuni beni a fruizione collettiva, altri a uso esclusivo dello Stato (difesa), altri ancora destinati al consumo (arredi), oppure solamente gestiti (foreste miniere) o soggetti a regime privatistico (edifici).
Certamente se si utilizza la distinzione tradizionale, esaminando la tipologia dei beni patrimoniali indisponibili, si scopre che i più importanti sono le foreste, le cave, le miniere e i beni culturali.
7. La tendenza a valorizzare il bene per il suo valore d’uso anziché di scambio. I beni comuni.
I beni pubblici sono solitamente intesi come quelli dei quali le pubbliche amministrazioni si avvalgono per il raggiungimento dei loro scopi, siano o non siano tutti di loro esclusiva appartenenza. Si è soliti insistere sull’alternativa tra i beni demaniali e beni patrimoniali indisponibili. Ci si muove ancora all’interno di questa alternativa quando, specie in periodi di grave crisi dei bilanci pubblici, si avviano processi di privatizzazione volti a spostare, in chiave di titolarità, alcuni beni dal pubblico al privato.
Tuttavia nell’esperienza contemporanea, il bene -inteso come entità materiale capace di soddisfare un’esigenza del soggetto- tende sempre più a svincolare la propria tutela dal profilo della titolarità, per proiettarla sul piano dell’utilizzazione o del godimento.
Dottrine recenti (Lipari) considerano emblematici di questa realtà i cosiddetti beni comuni, destinati per loro natura ad una fruizione diffusa e, quindi, intrinsecamente sottratti ad ogni forma di titolarità sia di natura pubblica sia di natura privata.
Con l’espressione beni comuni ci si intende genericamente riferire ad una risorsa condivisa da un gruppo di persone; gruppo che può essere ristretto o ampio. Ciò lascia intendere che, nel processo evolutivo delle classiche categorie giuridiche, già chiaramente in atto all’inizio del nuovo millennio, l’alternativa pubblico-privato non vale più a designare ciò che è di tutti, rispetto a ciò che appartiene solo ad alcuni.
L’alternativa pubblico-privato non è più in grado di assorbire tutta la teoria dei beni, perché vi sono dei beni così intimamente connessi alle più essenziali esigenze di vita dell’uomo che si sottraggono a qualunque forma appropriativa, non potendo che appartenere a tutti. Beni, cioè, rispetto ai quali l’attribuzione si pone come un “a priori” in chiave di riconoscimento, non come effetto in termini di attribuzione o concessione da parte dell’ordinamento. Si tratta di un criterio qualificativo che va al di là dello stesso principio consegnatoci dall’art. 42 della Costituzione circa la funzione sociale della proprietà, e che non si riconnette in alcun modo ad obblighi o comportamenti imposti al titolare (Lipari).
La qualità di bene comune, intesa come intrinsecamente connessa ad un godimento generale e indifferenziato, che pure non esclude forme di godimento individuale, contrasta, in radice e fin dall’inizio, con ogni ipotesi di proprietà esclusiva e sottrae, quindi, il bene ad ogni meccanismo di scambio legato a criteri valutativi del valore d’uso. Si potrebbe addirittura dire che l’idea di bene comune precede la solidarietà, perché esclude in radice ogni qualificazione o attribuzione a carattere individualistico.
Si tratta di una categoria che, tuttavia, presenta una certa volatilità e irriducibilità ad un unico parametro. Della categoria dei beni comuni, della loro definizione e individuazione si è occupata una commissione ministeriale (istituita con decreto del ministero della giustizia del 21 giugno 2017 al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, meglio nota come Commissione Rodotà), che “qualifica i beni pubblici come le cose che esprimono utilità funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona”.
La definizione così fornita rimane comunque incerta, posto che i diritti fondamentali sono suscettibili di implementazione in funzione di fattori storici e ambientali; e lo sviluppo della persona rimane un criterio indeterminato e certamente non riconducibile agli indici oggi utilizzabili. La riferibilità del bene (quindi dei modi della sua tutela) ad una indistinta comunità nasce dunque dall’esito di un procedimento valutativo rimesso alla determinazione giudiziale.
Da qui la difficoltà di fornire un elenco di beni comuni che non determini controversia in ordine alla qualificazione. Il riferimento non è, infatti, a beni come l’acqua o l’ambiente, ma si è esteso ad indici non facilmente identificabili nella loro portata oggettiva, quali il sapere, la conoscenza, il genoma umano, la sanità, l’università e Internet.
Anche la Corte di cassazione si è occupata di essi. I giudici di legittimità, ragionando in tema di individuazione di beni pubblici o demaniali, esplicitamente affermano la necessità di uscire dai confini della disciplina codicistica e da quella che definiscono l’oramai datata prospettiva del dominium dei romanisti, per riconoscere che vi sono beni che, “essendo strumentalmente collegati alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini, debbono essere considerati “comuni prescindendo dal titolo di proprietà”. È chiaro che, in tal modo, si rompe il tradizionale rapporto tra soggetto ed oggetto; e la tutela del bene viene svincolata da qualsiasi riferimento ad un profilo di titolarità.
La via da seguire è stata indicata, anche se non sarà semplice delineare uno statuto condiviso dei beni comuni. Tuttavia siffatti beni, nonostante le incertezze classificatorie, sono destinati ad avere un ruolo crescente nella dinamica dei rapporti giuridici e nella determinazione di ciò che è pubblico e ciò che è privato.
L’indicazione della comunità di riferimento appare difficile, fermo il sicuro superamento del criterio statualistico della cittadinanza. Ma la mancanza di una disciplina unitaria della categoria non deve indurre a negarne la rilevanza.
Anzi proprio al bene comune bisogna ricorrere per risolvere problemi molto concreti, come il diritto di accesso al mare, a proposito del quale si scontrano gli interessi dei concessionari degli stabilimenti balneari con quelli che reclamano il libero accesso all’uso della battigia, senza escludere l’interesse ad una maggiore agibilità di coloro che utilizzano le strutture a pagamento.
In effetti, il mare territoriale non costituisce un bene demaniale o patrimoniale dello Stato ma rientra piuttosto nelle res communes omnium.
La giurisprudenza civile e quella amministrativa hanno entrambe intrapreso la via che porta a considerare il demanio marittimo come direttamente e inscindibilmente connesso con il carattere pubblico della sua fruizione collettiva, rispetto alla quale l’esclusività che nasce dalla concessione costituisce un’eccezione. Peraltro anche il legislatore ha dovuto prendere atto di ciò laddove ha stabilito l’obbligo per i titolari di consentire libero e gratuito transito per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione (legge finanziaria n. 296/ 06, art. 1, commi 251 e 254).
8. Il bene comune e la realtà digitale.
L’istituto dei beni comuni, che sembra costituire la prova dello svincolarsi progressivo della tutela dei beni da ogni profilo di appartenenza e, quindi, dalla previa attribuzione ad una titolarità soggettivamente imputabile, ha indotto, dunque, una parte della dottrina ad elaborare una nozione di beni comuni (o se preferiamo di proprietà comune) come un istituto diverso, anzi alternativo rispetto al dominio sia privato sia pubblico.
Inutile ricordare che nella tradizione giuridica, il bene comune è stato sempre visto come una eccezione al sistema fondato sulla proprietà come diritto soggettivo assoluto. Non a caso le forme di proprietà collettiva (quali il legnatico, lo stallatico, gli usi civici e così via) erano tutto sommato marginali anche presso le comunità agricole del passato. A ciò bisogna aggiungere che altre forme aggregative, come il condominio, hanno sempre goduto nella tradizione romanistica di un certo sfavore, legato alla concezione secondo cui ciascuno dei condomini è proprietario della quota ideale in cui è scomponibile il bene. A tale concezione si contrapponeva quella di tipo germanico, secondo cui la titolarità in capo al gruppo e non era scomponibile in quote, per cui il rapporto titolarità-bene comune era più resistente nel tempo, ma anche più rispettosa della vocazione all’uso collettivo del bene.
Nell’era digitale che caratterizza l’odierno futuro, Internet sembra aspirare ad eliminare ogni differenza per via della portata globale delle relazioni umane e, quindi, giuridiche che vi si instaurano. Certo è che la Rete è diventata centrale, in quanto fonte di conoscenza e informazione; il che pone al giurista il problema della scelta fra tutele individuali e collettive.
Questo rompe anche i paradigmi riferiti ai beni immateriali.
Nel disegno costituzionale, i privati e le istituzioni pubbliche debbono armonicamente agire per la realizzazione dell’interesse generale della comunità nazionale e delle comunità locali, di cui la prima si compone. Se l’indicato disegno viene calato nella nuova realtà, dove la rete Internet sembra aspirare ad eliminare ogni differenza per via della portata globale e senza frontiere delle relazioni umane e giuridiche, viene naturale ripensare al nuovo ruolo degli Stati nazionali della comunità internazionale.
Certo è che a proposito della Rete vengono in rilievo l’art. 2 della Costituzione, laddove stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. A ciò va aggiunto l’art. 3, comma 2, laddove stabilisce che il compito della Repubblica è rimuovere gli ostacoli di ordine economico sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese, che, nel caso di specie, si traduce nel fare in modo che tutti cittadini possono utilizzare agevolmente lo strumento telematico.
Una volta assicurata l’accessibilità di tutti ad Internet, l’articolo 2 va associato alle varie altre norme in cui si concretizza lo sviluppo della personalità, ossia l’art. 15, laddove si ponga un problema di rispetto delle comunicazioni interpersonali; l’art. 21, per la tutela della libertà di espressione; l’art. 33, per i progetti e-learnig, o per i collegamenti tra scienziati; l’art. 41 per l’attività imprenditoriale on-line e così via.
Con un sano empirismo, il legislatore tende ad agire sul procedimento e sul processo amministrativo e civile, in base alla giusta considerazione che Internet è solo uno strumento, anche se la sua pervasività può incidere sulla forma e la sostanza dell’azione amministrativa.
Tutto questo per dire che la teoria dei beni comuni sembra adattarsi perfettamente alla nuova realtà virtuale, laddove si consideri che in essa non hanno nessun rilievo le classiche forme giuridiche di appartenenza, mentre ha un rilievo sempre più vistoso l’aspetto della Rete come sviluppo della personalità umana. Basti pensare ai social network, che sono le nuove formazioni sociali, dove si trovano riuniti tutti gli elementi costitutivi di questo istituto sommamente protetto dalla Costituzione, ossia la riferibilità ad un insieme di soggetti, lo scopo comune di tali aggregazioni e il requisito psicologico interno ai componenti della formazione, ossia la volontà di ciascuno di farne parte e di voler perseguire gli scopi che essa si propone. Naturalmente quando tale scopo, unitamente all’organizzazione del consenso, è lo stesso dei partiti politici la materia diventa incandescente.
9. La vocazione pubblica dei beni privati.
Fare leva sul concetto di appartenenza non è sufficiente a qualificare un bene come pubblico, poiché esistono anche beni di proprietà privata che, tuttavia, hanno una connotazione pubblicistica.
Sicché, uno dei problemi più importanti in materia di beni pubblici non riguarda tanto i poteri dell'amministrazione sui suoi beni, ma i poteri dei privati sui loro beni, che, per natura intrinseca, hanno delle connotazioni particolari, o meglio, una valenza pubblicistica. In questo aspetto si trova il collegamento con il concetto di funzione sociale della proprietà.
È necessario chiarire, preliminarmente, che esistono alcuni beni che, sia sotto il profilo dell'appartenenza sia sotto il profilo della loro valenza intrinseca, rimangono a tutti gli effetti di proprietà dei privati; tuttavia possono essere oggetto di provvedimenti amministrativi.
Sappiamo che un qualsiasi bene privato, se rientra in un programma di realizzazione di opera pubblica, può essere espropriato, e, quindi, può entrare nel patrimonio pubblico a prescindere dal suo statuto. Invece, alcuni beni vengono attratti nell’area del patrimonio pubblico non per perseguire interessi pubblici, ma per il valore particolare che hanno in ragione della loro natura intrinseca. È il caso, per esempio, dei fondi su cui insistono cave o miniere, oppure dei beni culturali.
Tuttavia, poiché la norma costituzionale richiede che la collettività possa godere di tali beni, occorre perseguire questa finalità garantendo la fruibilità dei beni culturali da parte dei cittadini, a prescindere dall'appartenenza degli stessi alla pubblica amministrazione o a soggetti privati.
Per il bene culturale di proprietà privata si può seguire la concezione, basilare nel sistema, di una proprietà "gestoria", ossia di una gestione da parte del privato della materialità del bene ma non del suo valore culturale, sul quale, al contrario, non ha alcun potere in ragione della naturale vocazione collettiva del bene stesso.
In termini più distesi, il bene culturale, ivi compresi i beni paesaggistici, è caratterizzato dal fatto che alla sua ‘materialità’ si aggiunge il ‘valore (immateriale) culturale’, che rimane fermo e sempre soggetto alla valutazione dell’amministrazione quando venga interessato da una vicenda circolatoria. Orbene, le due componenti si scindono sia idealmente sia sul piano giuridico, al pari di come nella proprietà gestoria si scinde la titolarità formale del diritto di proprietà dalla gestione concreta del bene. Sicché, la gestione materiale del bene da parte del privato è condizionata dalla immanente presenza del valore culturale in attribuzione esclusiva alla autorità pubblica; il che significa che la legge e le disposizioni dell’autorità proiettano sul bene un regime giuridico particolare, conformandolo. Il contenuto della conformazione è fatto di limiti e direttive a carico del gestore. Questo al pari di quel che accade nelle prescrizioni contenute nel negozio fiduciario e nel negozio di destinazione. In concreto, il privato gestisce il bene per conto proprio e per conto dell’amministrazione.
Pertanto si può dire che detto fenomeno è analogo a quello del negozio di destinazione, dove anche nel nostro ordinamento, come in quello inglese che prevede l'istituto del trust, è possibile distinguere tra proprietà utile (titolarità), e proprietà eminente (gestoria).
La categoria della "proprietà gestoria" non era ammessa perché non si riconosceva la causa fiduciaria e, soprattutto, perché non si riteneva possibile separare la titolarità del diritto dall'esercizio dei poteri ad esso relativi, se non nei casi previsti espressamente dalla legge.
Il negozio di destinazione ora consente di separare la proprietà gestoria dalla titolarità. Sicché, il proprietario, ad esempio di una tomba etrusca, è titolare di una situazione giuridica soggettiva di “proprietà gestoria", perché i suoi poteri si fermano di fronte all’interesse culturale del bene. Egli, ha solo il diritto di gestire il bene culturale, rispettando l'obbligo di non alterarlo, ed ha, inoltre, l'onere di farlo godere alla collettività.
Oggi è pacificamente ammesso che un privato possa gestire il suo bene, traendone anche dei vantaggi di natura economica, e al tempo stesso garantire alla collettività di usufruirne, ma negli anni '90 ciò non sembrava possibile.
Si può concludere affermando che il bene culturale è oggetto di rapporti complessi, ammessi e disciplinati dal codice dei beni culturali, nei quali spesso gestione e titolarità del diritto di proprietà si scindono. Il rapporto di gestione si configura sia in capo allo stesso privato sul proprio bene e sia in capo al concessionario-imprenditore che lo utilizza a fini economici, ed entrambi hanno l'obbligo di salvaguardarne la destinazione e di far godere -nella prima ipotesi ove possibile- alla collettività il bene stesso.
10. La proprietà conformata.
In un discorso generale sulle molteplici interferenze tra beni pubblici e beni privati non si può omettere di considerare la cosiddetta proprietà conformata, su cui alla fin fine si fonda il nostro sistema.
Sia la Costituzione (art. 42) sia il codice civile (art. 832) riconoscono la proprietà nei limiti in cui abbia una ‘funzione sociale’.
Secondo una lettura tradizionale il diritto di proprietà è concepito come un insieme di poteri e facoltà spettanti al proprietario senza limitazioni interne. Sicché, il proprietario potrebbe agire sul suo bene come crede, con l’unico limite posto dal divieto di compiere atti emulativi e immissioni nell’altrui proprietà. Esisterebbero quindi solo dei limiti esterni.
Invece si è affermato lentamente un altro principio secondo cui esiste solo un “nucleo minimo” del diritto di proprietà; principio che era stato individuato dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 5/1980. La corte costituzionale in quella sentenza afferma che “… Il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire anche se di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l’avente diritto può costruire solo entro i limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici”. La Corte ha quindi confermato la lettura tradizionale secondo cui il proprietario conserva tutti i poteri facoltà relativi al suo diritto, nonostante le leggi abbiano “… disposto la conformazione edilizia del territorio e condizionato la edificabilità dei suoli, nei casi in cui essa è prevista dagli strumenti urbanistici, al rilascio di una concessione…”.
Il giudice delle leggi ha affiancato al “contenuto minimo del diritto di proprietà” il riconoscimento di un modello di “proprietà conformata”; e ciò innanzitutto per ragioni storiche risalenti all’esperienza inglese da cui deriva la formula “funzione sociale”.
Le letture tradizionali della norma sono state varie. La più luminosa (Rescigno), per chiarezza e precisione, è quella secondo cui la funzione sociale della proprietà va riferita non al diritto soggettivo, ma all’istituto, che uno dei pilastri su cui si fondano i rapporti della comunità.
Infatti, se si esaminano i rapporti privati emerge che, se si è titolari di un diritto di proprietà, lo si può esercitare senza condizionamenti esterni, tra i quali può comprendersi il principio generale della funzione sociale. Il diritto soggettivo di proprietà, infatti, non riceve nessuna connotazione dalla formula “funzione sociale”. Sicché, questa formula, riconosciuta anche dalla giurisprudenza, deve riferirsi alla proprietà come istituto e non come diritto soggettivo.
Nemmeno la giurisprudenza comunitaria sembra toccare tale impostazione, dato che i principi che la guidano sono quelli di uguaglianza, certezza del diritto e legittimo affidamento, che vengono in considerazione anche nella materia di cui si tratta. Certamente la teoria più moderna della proprietà (o meglio delle proprietà, al plurale) considera quest’ultima come espressione diretta del principio sancito dalla nostra Costituzione, della funzione sociale delle proprietà, secondo cui il diritto di proprietà ha un contenuto essenziale minimo. Il codice tratta della proprietà edilizia, di quella rurale, della proprietà collettiva, della comunione, ed oggi la legge disciplina anche quella turnaria.
In effetti la concezione moderna della proprietà conformata nasce dallo sviluppo della disciplina urbanistica basata sull’idea di un potere pubblico che ha, tra i suoi doveri, quello specifico di regolamentare l’assetto del territorio.
Con l’emanazione della legge generale urbanistica del 1942 sono stati introdotti i piani regolatori generali; e ciò non è stato naturalmente un evento casuale. Al contrario, il legislatore ha voluto modificare il modo di concepire la proprietà, ponendo a carico del Comune l’obbligo di utilizzare gli strumenti urbanistici quali il piano regolatore, il programma di fabbricazione, il regolamento edilizio e le convenzioni urbanistiche. Esso ha voluto non solo che fosse disciplinato l’assetto del territorio, ma ha voluto soprattutto incidere su una delle facoltà essenziali del diritto di proprietà, ossia il diritto di costruire.
11. La volumetria, i diritti edificatori e l’espropriazione di valore. Il credito edilizio.
L’istituto della proprietà conformata richiama quelli della vendita di volumetria, dei diritti edificatori e dell’espropriazione di valore dei beni.
Infatti, mentre i primi due costituiscono un esempio vistoso di creazione di beni attraverso il provvedimento amministrativo, il secondo viene visto non solo come un modo alternativo di sfuggire all’espropriazione -e che opera in presenza di un vincolo preordinato all’esproprio, dove il proprietario dell’area vincolata cede la medesima al Comune in cambio della disponibilità di una cubatura su di un’altra area, soprattutto a proposito della cosiddetta “compensazione edilizia”- ma anche come un esempio importante di combinazione e di scambio di beni pubblici e beni privati, giustificato dalla cura del territorio da parte dell’autorità amministrativa.
Qui si può solo ricordare che i diritti edificatori costituiscono un’evoluzione dei negozi di trasferimento di cubatura e di volumetria. Il minimo comune denominatore di essi consiste nella possibilità che la cubatura potenzialmente spettante ad una certa area edificabile possa essere utilizzata su un altro suolo, anch’esso edificabile, con il consenso del Comune e dei proprietari delle due aree, anche a prescindere da un’espressa previsione della norma di attuazione del piano o del regolamento edilizio.
Nonostante la continuità storica con la cessione di cubatura, che può essere considerata come la capostipite delle figure in esame, i diritti edificatori che emergono dalla legislazione nazionale e regionale sono vari e sono stati variamente classificati. Tuttavia essi possono essere ricondotti a tre figure fondamentali.
La prima figura è la cosiddetta “perequazione urbanistica”, che consiste nell’attribuire anche ad aree qualificate dal piano non edificabili una cubatura potenziale da realizzare altrove, cioè su aree qualificate come edificabili, realizzando così la separazione tra la conformazione della proprietà e la distribuzione della edificabilità. In essa si assiste ad accordi tra privati e non con la pubblica amministrazione, anche se tali accordi a loro volta sono preceduti da un intervento dell’autorità comunale che assegna, in sede di pianificazione delle attività, un valore edificatorio uniforme a tutte le aree atte a concorrere alla trasformazione urbanistica del territorio comunale.
In altri termini, la pianificazione attuata con la finalità perequativa vuole porre rimedio alla legittima sperequazione degli atti di pianificazione urbanistica tradizionale, i quali, laddove individuavano in maniera unilaterale e autoritativa le diverse destinazione dei suoli, creavano inevitabilmente discriminazioni ed iniquità, giacché venivano avvantaggiati titolari di terreni edificabili o vicini a infrastrutture e opere pubbliche, pregiudicando invece i proprietari di suoli non edificabili, lontani da dotazioni pubbliche.
Tra i tipi dei piani perequativi si distingue tra perequazione endoambito e perequazione diffusa. Nella prima essa si realizza in un perimetro fissato a monte dal pianificatore, nella seconda si ha una vera e propria smaterializzazione della dotazione volumetrica assegnata, attraverso appunto la creazione di un diritto edificatorio cedibile a titolo oneroso. In quest’ultimo caso tutto si fonda sul libero funzionamento del mercato nell’insieme dei suoli oggetto di trasformazione, prefigurando addirittura l’istituzione di una vera e propria ‘borsa’ di diritti edificatori.
Altra figura che viene in rilievo è la cosiddetta “compensazione urbanistica”, che, nell’attuazione del piano, si pone come alternativa all’espropriazione. In presenza di un vincolo preordinato all’esproprio, il proprietario dell’area vincolata cede la medesima al Comune in cambio della disponibilità di una cubatura su di un’altra area.
Infine, vi sono lei cosiddette “premialità edilizie”, che consistono nell’attribuzione di un diritto edificatorio aggiuntivo in caso di raggiungimento di determinati obiettivi pubblici, in particolare per gli interventi di riqualificazione urbanistica ed ambientale.
Nelle ultime due ipotesi si tratta di singoli accordi tra privati e pubbliche amministrazioni, titolari esclusivi della potestà in materia di governo del territorio e quindi anche di quella di costituire o modificare diritti edificatori.
Come suggeriscono i contributi della dottrina urbanistica, l’ipotesi della istituzione di titoli volumetrici (compensativi o premiali) rientra tra i procedimenti di urbanistica cosiddetta consensuale, in funzione compensativa o incentivante appunto.
A proposito di tali istituti si è parlato di “credito edilizio”. Ma questa è un’espressione atecnica.
Infatti, il privato, a seguito dell’accordo con il soggetto che gli ha ceduto la propria capacità edificatoria, non vanta nei confronti della pubblica amministrazione nessun diritto ad edificare, bensì solo la legittimazione ad aprire il procedimento per ottenere il permesso di costruire. Né tanto meno il soggetto che gli ha ceduto il suo credito edilizio poteva garantirgli tale risultato.
Pertanto si tratta di un normale interesse legittimo pretensivo. Il che significa semplicemente che, pur prendendo origine da un dato terreno di proprietà, è in grado di circolare più o meno liberamente, anche più volte nel tempo, fino a che non vi sarà un soggetto che, aprendo il procedimento per il rilascio del permesso di costruire, ottenga l’assenso del Comune e realizzi la cubatura, sulla base delle norme urbanistiche.
Il punto più delicato riguarda la possibilità che il credito non si generi da un fondo, ma direttamente dallo strumento urbanistico comunale, laddove l’ente crei (e ceda) diritti edificatori per “autopoiesi”. In altri termini il bene volumetrico viene “creato” dall’atto amministrativo.
12. Il bene ambientale.
Il discorso generale sui beni non può escludere l ‘ambiente.
Attualmente la materia ambientale è disciplinata dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che contiene oltre 300 articoli e una serie di allegati e che ha subito nel tempo molteplici modifiche e novelle.
Uno dei problemi più importanti che non sembrano risolti dall’attuale normativa in materia è quello della nozione di ambiente.
Va ricordato che la materia è stata isolata dalla dottrina più autorevole (Giannini), che ha lamentato il fatto che il problema dell’ambiente non veniva esaminato in sè e che veniva erroneamente in rilievo solo nell’ambito dello studio della disciplina del territorio o dei valori paesaggistici e culturali, oppure ancora dell’ecologia o della lotta all’inquinamento.
Il primo interrogativo che si sono posti gli studiosi ha riguardato la possibilità di considerare o meno l’ambiente un bene e, eventualmente, un bene individuale o collettivo. Essi hanno in primo luogo osservato che l’ambiente è sicuramente un bene che esorbita dalle sfere giuridiche individuali, avendo invece valenza super individuale. Nonostante non possa escludersi che il privato abbia una sorta di diritto soggettivo ad un ambiente salubre, esiste la consapevolezza che esso abbia anche una valenza collettiva.
Averlo definito come bene ha creato molti altri interrogativi.
Se, infatti, l’ambiente è un bene, tornano le questioni viste nelle pagine precedenti, ossia stabilire quali sono i suoi caratteri, se sia un bene tangibile, materiale o immateriale, e quale soggetto lo ha in attribuzione.
In ogni caso, l’approfondimento del problema ha portato ad escludere che l’ambiente sia un “bene”. Esso è piuttosto un “valore” da salvaguardare con interventi legislativi e amministrativi che coesistono e si intersecano. Visto, quindi, come un valore unitario esso è al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di più di un bene.
In ogni caso la nozione di ambiente non è quella di bene collettivo in cui risalta l’interesse all’ambiente salubre, ma è piuttosto quella di bene legato alla salute del cittadino.
Se si percorre la storia del diritto ambientale si nota che inizialmente l’ambiente era considerato un bene collettivo rispetto al quale l’individuo non era titolare di un diritto.
L’uso di un bene collettivo da parte di chiunque, infatti, non viene costruito come un rapporto “soggetto-diritto soggettivo”, ma, piuttosto, come rapporto “autorità concedente-concessionario “, finalizzato ad un uso normale o straordinario. Sicché, un diritto individuale non è configurabile rispetto ad un bene collettivo.
Nel periodo storico in cui l’ambiente è stato considerato un bene collettivo, veniva in rilievo il diritto soggettivo alla salute poiché l’ambiente salubre rappresenta un presupposto necessario.
Il passaggio successivo, che ha portato ad un salto di qualità della tutela ambientale, è stata l’individuazione della causa della lesione del diritto alla salute nella violazione di norme sull’ambiente.
Appariva però difficile sostenere l’esistenza di una corrispondenza tra diritto alla salute e diritto all’osservanza delle norme ambientali, poiché la tutela dell’ambiente non era né preesistente né individuabile tout court; piuttosto derivava dal verificarsi di alcuni meccanismi amministrativi e legislativi.
Inoltre, l’ambiente non aveva una delle caratteristiche del bene pubblico. Quindi si è fatta strada l’idea, affermata ormai da anni dalla Corte Costituzionale, che l’ambiente non sia un bene ma un valore trasversale, di cui deve tenere conto sia la legislazione sia l’attività amministrativa.
Chiarito che l’ambiente deve essere inteso come valore, tutto il sistema di tutele viene costruito rispetto al “valore” ambiente e non al “bene” ambiente.
È esemplare la recente modifica dell’art. 41 della Costituzione, laddove la protezione dell’ambiente deve caratterizzare ogni forma di attività economica.
13. Le conclusioni.
Le conclusioni di questo scritto vanno nel senso di un definitivo superamento della distinzione di cui al titolo, che ha ancora una qualche utilità sol che si rimanga ancorati alla oramai quasi inservibile distinzione tra proprietà formale e proprietà sostanziale dei beni, che postula la titolarità del diritto soggettivo in capo al soggetto pubblico o al soggetto privato.
Le considerazioni svolte si fondano sull’idea, del tutto personale, che tutto cospira nel senso che il giurista moderno deve procedere secondo una visione integrata del diritto pubblico e del diritto privato quando si accosta allo studio delle parti in cui normalmente si scompone l’esperienza giuridica, ossia l’attività, i soggetti, i beni, la responsabilità e le forme di tutela.
Questo è tanto più necessario quanto più si consideri che i beni immateriali sono creati direttamente dagli strumenti giuridici, attraverso l’isolamento delle specifiche utilità che da essi derivano. Inoltre la velocità delle negoziazioni non solo nazionali, ivi comprese quelle pubbliche che si realizzano nel procedimento amministrativo dove prevale la vocazione pubblica, aggiunge valore ai beni scambiati o utilizzati nella gestione. Da qui si aprono scenari veramente nuovi come l’affidamento di esse a strumenti digitali (beni strumentali) che diventano soggetti quando sono capaci di autodeterminarsi nell’elaborazione dei risultati della negoziazione medesima e nella comunicazione a terzi della volontà negoziale. Ma questa è un’altra storia.
*Relazione svolta al convegno “Diritto senza tempo. La terra e i diritti. Dialogo tra giuristi”, tenuto a Ravello il 29 e 30 ottobre 2021. Gli atti sono in corso di pubblicazione per i tipi della Giappichelli.
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