ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
IN RICORDO DI VIRGINIO ROGNONI di Ernesto Aghina, Paolo Arbasino e Giuseppe Fici
Si è spento ieri Virginio Rognoni, ex ministro degli interni, della giustizia e della difesa, uno degli ultimi padri nobili della Repubblica, protagonista degli anni di piombo, del contrasto al terrorismo ed alla criminalità organizzata.
Il Rognoni (per gli amici “Gingio”) che abbiamo conosciuto noi é stato il vicepresidente del C.S.M. nella consiliatura 2002/2006.
Forte dell’autorevolezza che lo caratterizzava (anche quale propulsore della legge n. 646/1982, più nota come legge Rognoni-La Torre, che introdusse il reato di associazione mafiosa e misure di prevenzione di carattere patrimoniale), raccolse il voto di tutti i consiglieri togati (spesso tra loro contrapposti).
In un quadriennio contraddistinto da forti contrasti tra l’esecutivo e la magistratura, culminati in ripetuti impasse del plenum, per la mancanza del numero legale derivato dall’assenza (volontaria) dei membri laici espressione della maggioranza di governo, seppe con equilibrio affermare e difendere l’autorevolezza del Consiglio.
Rognoni, a volte burbero ma sempre corretto, guidó con mano ferma l’organo di autogoverno superando momenti di forte tensione, aiutato da Luigi Berlinguer, pure presente in quel Consiglio, con cui si creò una naturale empatia.
Abbiamo conosciuto la sua sorridente bonomìa in inediti aspetti privati, come quando introduceva compiaciuto e sorridente i lavori dopo una vittoria della sua amata Juventus, o quando esultò con noi, con la purezza di un adolescente, per la vittoria ai mondiali dell’Italia.
Ricordiamo ancora quando, durante un prolungato ed estenuante plenum, che seguiva (apparentemente) assorto, convocò con lo sguardo un commesso per recapitare un biglietto intestato al vicepresidente del CSM, indirizzato “al consigliere Aghina”, al cui interno si era disegnato giovane e aitante in procinto di tirare un calcio di rigore…
Rognoni era una gran bella persona: servitore dello Stato e uomo per bene, che amava sorridere e conversare, e la cui statura morale sovrastava quella fisica (pur non indifferente).
Abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo e di affezionarci al “nostro” vicepresidente, a cui anche la magistratura tutta deve tanto, ed é opportuno ricordarlo in momenti in cui si trascura colpevolmente di coltivare il vizio della memoria.
Ci accompagnerá il ricordo della sua voce stentorea quando, battendo il palmo della mano destra sullo scranno presidenziale, poneva (finalmente) fine alle discussioni in plenum ed al successivo voto, scandendo un “così resta stabilito”, che consacrava ogni decisione del Consiglio di cui lui era certamente un componente “superiore”.
Accesso difensivo e tutela dei dati personali: il caso dei nominativi nelle segnalazioni alla p.a. (nota a TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. II, 8 febbraio 2022, n. 136)
di Ippolito Piazza
Sommario: 1. L’accesso al nome del segnalante: una questione aperta. – 2. Le ragioni della trasparenza e quelle della riservatezza. – 3. La distinzione tra atto amministrativo e dato personale. – 4. Accesso difensivo e strumentalità: una soluzione ragionevole.
1. L'accesso al nome del segnalante: una questione aperta.
La recente sentenza del TAR Emilia Romagna, n. 136 del 8 febbraio 2022, merita di essere commentata perché affronta un problema che ancora non trova soluzioni consolidate nella giurisprudenza amministrativa e perché, nel farlo, offre un’interpretazione particolare delle regole sul diritto d’accesso.
Il problema è quello della conoscibilità, attraverso il diritto di accesso, del nome di chi abbia presentato una segnalazione o un esposto alla pubblica amministrazione: pur essendo un aspetto piuttosto specifico all’interno della tematica dell’accesso, è in realtà di grande interesse perché fa emergere la tensione tra le opposte esigenze di conoscenza e di riservatezza che sono sottese alla disciplina della legge n. 241/1990, investendo la questione dei limiti al c.d. accesso difensivo. Il TAR Emilia Romagna prospetta un’interpretazione che integra le disposizioni sull’accesso della l. n. 241/1990 con quelle del GDPR[1], andando così a distinguere ciò che costituisce “atto amministrativo”, oggetto della disciplina sull’accesso, da ciò che costituisce “dato personale”, oggetto della disciplina a tutela della riservatezza.
Per introdurre questi profili occorre riassumere la vicenda da cui nasce la pronuncia. Il ricorrente è un artista di strada, che è stato oggetto di numerosi controlli da parte della Polizia municipale, sollecitati da altrettante segnalazioni di ignoti che lamentavano il disturbo sonoro generato dalle sue esibizioni. L’artista, ritenutosi danneggiato dalle segnalazioni e dai successivi controlli della Polizia, presentava istanza di accesso alle segnalazioni per conoscerne il contenuto, inclusi i nomi dei segnalanti. L’amministrazione comunale rigettava le istanze, sul presupposto che non fosse possibile rilasciare i documenti richiesti comprensivi dei nominativi. Pertanto, l’interessato chiede l’annullamento dei provvedimenti di diniego parziale e l’accertamento del proprio diritto a conoscere i nomi dei segnalanti. Il TAR Emilia Romagna si trova, quindi, ad affrontare la questione circa la possibilità di ottenere, attraverso le norme sull’accesso difensivo della legge n. 241 del 1990, i dati personali del segnalante, allo scopo di tutelare gli interessi del “segnalato” a fronte di segnalazioni giudicate infondate o vessatorie.
Si tratta, come detto, di questione controversa nella giurisprudenza amministrativa: il TAR Emilia Romagna – sulla scia di una pronuncia del Consiglio di Stato dello scorso anno[2] ma portando argomenti ulteriori – aderisce alla tesi più favorevole alla riservatezza, ritenendo (i) che i nominativi del segnalante costituiscano un dato personale il cui trattamento richieda il rispetto di una delle finalità indicate dal GDPR e (ii) che tale finalità sia assente nel caso di specie perché l’ostensione dei nominativi non consentirebbe comunque alcuna forma di tutela al ricorrente.
Vedremo come la pronuncia sia convincente nella parte in cui argomenta riguardo all’assenza di un nesso tra il documento richiesto e la difesa del ricorrente, mentre più di un dubbio resta sulla necessità di richiamare il GDPR per la soluzione della controversia.
È utile però, anzitutto, dar conto del contrasto giurisprudenziale in materia e degli argomenti che sostengono le diverse tesi.
2. Le ragioni della trasparenza e quelle della riservatezza.
Il diritto d’accesso è riconosciuto nel nostro ordinamento in una molteplicità di forme: al tradizionale diritto di accesso documentale o procedimentale[3] si sono affiancati nell’ultimo decennio il diritto di accesso civico semplice[4]e quello generalizzato[5], senza considerare i diritti di accesso previsti da leggi di settore. Restando ai rapporti tra i diritti di accesso “a contenuto generale”[6], si è andata affermando nella giurisprudenza l’idea che questi – e, in particolare, il diritto di accesso documentale e il diritto di accesso civico generalizzato – non siano sovrapponibili e non corrispondano a un «unico diritto soggettivo globale di accesso» ma vadano piuttosto a costituire un insieme di garanzie differenziate per finalità e livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza[7].
Più precisamente, in base a questa ricostruzione, vi è un rapporto inversamente proporzionale tra il numero di soggetti legittimati all’accesso e il numero di documenti accessibili[8]: così, il diritto di accesso civico, riconosciuto a “chiunque”, va incontro a limitazioni maggiori rispetto al diritto di accesso procedimentale di cui all’art. 22, l. n. 241/1990, riconosciuto solo a coloro che abbiano «un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso». Ancor meno limitazioni incontra il diritto d’accesso cosiddetto “difensivo”, di cui all’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990, riconosciuto a coloro che non solo siano titolari di una situazione giuridica collegata al documento ma abbiano anche necessità di conoscere il documento per «curare o difendere i propri interessi giuridici»[9]. Depone in tal senso la formulazione letterale dell’art. 24, c. 7, secondo cui a tali richiedenti deve «comunque» essere garantito l’accesso ai documenti; ed è peraltro significativo che questa disposizione sia posta in chiusura dell’art. 24, dedicato ai casi di esclusione del diritto di accesso, disciplinati nei commi precedenti.
Una simile ampiezza del diritto di accesso difensivo comporta che i documenti debbano essere sempre rilasciati al richiedente che voglia servirsene per la cura dei propri interessi, con esiti potenzialmente negativi per gli interessi contrapposti, in primo luogo quello alla riservatezza[10]. Questo contrasto tra trasparenza e riservatezza si presenta in maniera evidente nel caso di istanze di accesso a segnalazioni, esposti o denunce presentate all’amministrazione e ha dato vita a due orientamenti giurisprudenziali confliggenti.
Secondo un primo orientamento, favorevole alle ragioni della trasparenza, chi sia stato oggetto di una segnalazione alla pubblica amministrazione ha diritto, ai sensi della legge n. 241/1990, di prenderne visione e di conoscere il nome dell’autore[11]. La tesi si fonda sull’idea che il diritto alla riservatezza dell’autore della segnalazione non abbia una «estensione tale da includere il diritto all’anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico di terzi, tanto più che l’ordinamento non attribuisce valore giuridico positivo all’anonimato»[12]. Del resto, questa giurisprudenza ritiene che l’autore della segnalazione si “esponga” nei confronti della pubblica amministrazione e rinunci così, implicitamente, alla propria riservatezza[13]. Neppure è di ostacolo all’accesso il fatto che la segnalazione sia un atto di provenienza privata: l’atto privato, una volta giunto nella disponibilità della pubblica amministrazione, rientra infatti nell’ambito applicativo degli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990 e ciò anche quando alla segnalazione non abbia fatto seguito l’apertura di un vero e proprio procedimento amministrativo[14].
Un secondo orientamento giurisprudenziale nega, invece, la sussistenza del diritto di accesso rispetto ai nomi dei segnalanti. La segnalazione sarebbe un semplice atto di impulso, che dà luogo a una attività ispettiva doverosa della pubblica amministrazione: è pertanto quest’ultima attività a essere soggetta al regime di trasparenza e sono gli atti in cui essa si esplica che costituiscono l’oggetto del diritto di accesso dell’interessato. Alla distinzione tra atto di impulso e attività amministrativa si lega una seconda, decisiva, considerazione: la difesa del soggetto segnalato non dipende dalla conoscenza della segnalazione, né tantomeno dal nome del segnalante; l’attività difensiva dell’interessato è rivolta, semmai, nei confronti dell’amministrazione e dei provvedimenti adottati in seguito alla segnalazione. Questa giurisprudenza esclude, quindi, la sussistenza di uno dei requisiti che legittimano l’accesso difensivo, vale a dire la strumentalità del documento richiesto rispetto alla cura dei propri interessi[15]. Oltretutto, se l’intento di conoscere il nominativo del segnalante non è mosso da esigenze difensive, esso può celare un intento ritorsivo, che certamente non è tutelato dall’ordinamento[16].
3. La distinzione tra atto amministrativo e dato personale.
La sentenza in commento aderisce a questo secondo orientamento ma introduce un argomento nuovo a favore della riservatezza. Il TAR ritiene, in particolare, che i nominativi dei segnalanti non possano essere rilasciati perché essi non sottostanno al regime giuridico previsto per l’accesso ai documenti amministrativi, bensì al regime previsto per l’accesso ai dati personali, disciplinato in primo luogo dal Regolamento europeo n. 679/2016 (GDPR).
Nella pronuncia si legge infatti che il nominativo dell’autore di una segnalazione «a rigore non costituisce un “atto amministrativo”», trattandosi invece di un dato personale, accessibile pertanto solo per colui al quale il dato si riferisce, oppure comunicabile a terzi ma solo entro gli «stretti limiti» stabiliti dal Codice in materia di protezione dei dati personali. Insomma, ad avviso del TAR, occorre distinguere tra l’accessibilità «al documento in quanto tale», disciplinata dagli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990, e l’accessibilità ai dati personali in esso contenuti: per questi ultimi, «atteso il rango costituzionale della protezione agli stessi concessi dall’ordinamento», deve trovare applicazione la specifica disciplina europea e nazionale.
Del resto, prosegue la sentenza, il GDPR è entrato in vigore successivamente alla legge sul procedimento e, dunque, le disposizioni di quest’ultima debbono essere interpretate alla luce della nuova normativa sui dati personali. Così, anche se l’art. 24, c. 7, l. n. 240/1990[17] prevede che il diritto di accesso difensivo possa incontrare limiti solo di fronte a dati sensibili e giudiziari (per i quali la disposizione consente l’accesso unicamente se essi siano «strettamente indispensabili») o dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (rispetto ai quali trova applicazione l’art. 60 del Codice sulla protezione dei dati personali e quindi l’accesso è consentito solo per tutelare un diritto almeno di pari rango del richiedente[18]), ad avviso del TAR non si può trarre la conclusione che il diritto d’accesso prevalga comunque sulla protezione dei dati personali “semplici”: occorre infatti tener sempre conto «del principio di liceità del trattamento di cui allo stesso art. 6 comma 1 del GDPR». In altre parole, l’accesso difensivo non può prevalere sulla tutela dei dati personali “semplici” solo sulla base dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990, ma deve anche realizzarsi una delle condizioni previste dall’art. 6 del GDPR, condizioni che, come noto, rendono lecito il trattamento dei dati personali[19]. Così delineato il quadro normativo, il TAR esclude che si sia in presenza di una delle condizioni richieste dal GDPR, poiché ritiene che il trattamento non sia giustificato dalla necessità del ricorrente di ottenere il nominativo del segnalante per esperire azioni giudiziarie. La motivazione della pronuncia prosegue quindi con una esauriente argomentazione in merito all’irrilevanza del nominativo richiesto rispetto a eventuali iniziative giudiziarie: su questo punto si tornerà più avanti (§ 4). È opportuno invece qui sottolineare come la ricostruzione del TAR circa il rapporto tra le due discipline non appaia convincente.
In primo luogo, desta perplessità la distinzione tra il documento amministrativo e i dati personali in esso contenuto. Essa sembra artificiosa se si pone mente alla definizione ampia di «documento amministrativo» data dall’art. 22, c. 1, lett. d), l. n. 241/1990 («ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale»), che si riferisce genericamente al «contenuto» degli atti amministrativi, rendendolo oggetto del diritto di accesso: per cui non pare possibile distinguere tra “contenitore” accessibile (nel nostro caso, la segnalazione) e “contenuto” non accessibile (il nominativo del segnalante). In altri termini, è vero che i dati personali non sono un documento amministrativo, ma ne costituiscono il contenuto.
D’altra parte, è la stessa legge n. 241/1990 a prevedere specifiche regole (come quelle ricordate riguardanti i dati sensibili) per le ipotesi nelle quali i dati personali siano contenuti in un atto amministrativo: lo stesso art. 24, al comma 6, rinvia a un regolamento governativo per la previsione di casi di sottrazione all’accesso di documenti che riguardino, tra altro, «la vita privata o la riservatezza di persone fisiche». Così pure, il rapporto tra la tutela della riservatezza e il diritto di accesso è preso in considerazione nella normativa sui dati personali: in particolare, l’art. 86 del GDPR prevede che i dati personali «contenuti in documenti ufficiali in possesso di un’autorità pubblica o di un organismo pubblico o privato per l’esecuzione di un compito svolto nell’interesse pubblico possono essere comunicati da tale autorità o organismo conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri cui l’autorità pubblica o l’organismo pubblico sono soggetti, al fine di conciliare l’accesso del pubblico ai documenti ufficiali e il diritto alla protezione dei dati personali ai sensi del presente regolamento». In sostanza, il GDPR rinvia alle normative nazionali, lasciando agli Stati ampia discrezionalità riguardo al bilanciamento tra accesso e tutela dei dati personali[20]. Il legislatore italiano ha peraltro già adeguato la normativa interna al GDPR, attraverso il d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101[21], che – per quanto ci interessa – ha sostanzialmente confermato la previgente disciplina, contenuta nel Codice sulla protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196/2003), riguardo al rapporto tra accesso e riservatezza. In particolare, l’art. 59 del Codice rinvia proprio alla l. n. 241/1990 riguardo alle «modalità» e ai «limiti» per l’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati personali, fatto salvo il caso dei dati sensibili disciplinato dal già citato art. 60.
Si consideri comunque per ipotesi – a dispetto delle richiamate norme di raccordo tra le due discipline – che le disposizioni sull’accesso documentale debbano essere interpretate alla luce dell’art. 6 del GDPR, come sostenuto dal TAR, e che dunque un dato personale possa essere rilasciato dalla pubblica amministrazione solo ove ricorra una delle condizioni elencate in tale articolo. Ebbene, anche ammesso che questa ricostruzione sia corretta, non sembra potersi escludere in assoluto che qui ricorra una di esse. L’art. 6 prevede infatti, tra le condizioni che rendono lecito il trattamento dei dati, il caso in cui esso sia «necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento» (art. 6, par. 1, lett. e)[22]. Questa condizione sembra offrire una base legale per il rilascio di dati personali ai fini dell’accesso ai documenti amministrativi: secondo l’art. 22, c. 2, l. n. 241/1990, l’accesso costituisce infatti, «attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse», un principio generale dell’attività amministrativa «al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza». Il TAR si limita invece a escludere la compatibilità del rilascio dei nominativi dei segnalanti con l’art. 6 del GDPR, poiché non ravvisa la necessità del trattamento nella asserita volontà del richiedente di esperire azioni giudiziarie.
4. Accesso difensivo e strumentalità: una soluzione ragionevole.
La necessaria conoscenza di un dato per esperire azioni giudiziarie non pare peraltro essere congruente con alcuna delle finalità indicate dall’art. 6 del GDPR[23]. Tale requisito è però decisivo ai fini dell’applicazione dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990 e, sotto questa luce, si può analizzare la seconda parte della pronuncia.
In essa, il TAR specifica le ragioni che rendono ininfluente il dato richiesto per la tutela dei diritti del richiedente e, in particolare, per la proposizione di azioni giudiziarie. Anzitutto – rileva il giudice – se gli interventi della Polizia municipale e i conseguenti verbali sono considerati illegittimi o illegali, contro di essi è ben possibile reagire nelle sedi opportune, senza bisogno di conoscere per intero le segnalazioni che di tali attività costituiscono «atto di mero impulso». In secondo luogo, qualora il ricorrente proponga denuncia all’autorità giudiziaria e questa dovesse riscontrare fattispecie penalmente perseguibili (si pensi a un’ipotesi di calunnia), «sarebbe doveroso all’esito del procedimento formulare un’imputazione dandone avviso alla parte offesa». In terzo luogo, anche un’eventuale azione risarcitoria in sede civile dovrebbe essere esperita nei confronti della pubblica amministrazione, poiché, di nuovo, i danni lamentati dal ricorrente derivano dai controlli della Polizia e non dalle segnalazioni («di per sé stesse causalmente irrilevanti»). Aggiunge infine il TAR, richiamandosi all’orientamento giurisprudenziale sopra citato (§ 2), che a maggior ragione è da escludersi l’accesso quando la conoscenza del nominativo del segnalante, priva di rilievo a fini difensivi, costituisca «la mera soddisfazione di una curiosità, con pericolo di future ritorsioni».
In definitiva, il TAR respinge il ricorso perché il nome del segnalante non ha un’utilità a fini difensivi per il ricorrente: senza chiamare in causa il GDPR, ciò sarebbe stato sufficiente per negare l’esistenza del diritto di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, c. 7. La norma sull’accesso difensivo richiede infatti che vi sia un nesso di strumentalità tra la conoscenza del documento e la cura o difesa di un interesse giuridico. La spiegazione fornita in proposito dal TAR Emilia Romagna appare esauriente e in linea con le indicazioni che proprio in tema di strumentalità dell’accesso difensivo ha dato la recente Adunanza plenaria n. 4 del 18 marzo 2021[24]. Era emersa sul punto una difformità nella giurisprudenza delle sezioni del Consiglio di Stato, divise tra una posizione che riteneva sufficiente una generale “attinenza” della documentazione richiesta con la difesa dell’interessato e una posizione che valutava invece con più rigore i requisiti dell’istanza di accesso. Tra le pronunce di questo secondo tipo, se ne segnalavano peraltro alcune che, mosse dall’intento di “arginare” l’ampia portata dell’accesso difensivo ex art. 24, c. 7, finivano per esercitare un sindacato discutibile sul requisito della strumentalità: così, per esempio, il Consiglio di Stato aveva escluso l’esistenza di un interesse concreto e attuale all’accesso in capo al ricorrente perché aveva ritenuto che il documento richiesto non fosse pertinente con la strategia difensiva che lo stesso stava adoperando in altra sede processuale[25]. È evidente che quest’ultima giurisprudenza rischia di sindacare impropriamente le scelte processuali di un privato e di lederne il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.[26] La Plenaria era pertanto chiamata a specificare quali siano i poteri di valutazione dell’amministrazione (e poi del giudice) circa l’istanza di accesso difensivo[27].
Nella pronuncia n. 4/2021, il massimo giudice amministrativo riconosce che la legge non lascia margini di apprezzamento all’amministrazione riguardo al bilanciamento tra accesso e riservatezza, poiché si prevede la prevalenza del primo[28]: tuttavia, la stessa legge richiede un giudizio («sussunzione») riguardo all’interesse legittimante all’accesso, che deve presentare i parametri della “corrispondenza” a una situazione giuridica e del “collegamento” tra il documento e l’interesse giuridicamente rilevante che tramite la conoscenza del documento si intende tutelare. A dimostrazione della necessità di questo giudizio, la Plenaria ricorda che l’istanza di accesso deve essere motivata (art. 25, c. 2, l. n. 241/1990) e che proprio sulla motivazione deve fondarsi l’analisi della pubblica amministrazione in merito alla sussistenza dei parametri legittimanti l’accesso difensivo. Trattandosi di attività interpretativa, essa si presta naturalmente a una certa elasticità, motivo per cui la Plenaria non indica criteri stringenti per valutare la motivazione dell’istanza di accesso[29]: essa si limita a dire che sul nesso di strumentalità necessaria tra documento e interesse da tutelare occorre un vaglio «rigoroso» e «motivato» e che l’amministrazione e il giudice amministrativo «non devono invece svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, […] salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive».
La soluzione della Plenaria appare, se non risolutiva, quantomeno ragionevole: nel momento in cui la disciplina sull’accesso si fonda sui diversi requisiti di legittimazione di ciascun diritto (civico, procedimentale e difensivo)[30], facendovi corrispondere una diversa “forza” del diritto stesso, è normale che vi sia un controllo circa tali requisiti. Simile soluzione è altresì capace di offrire una strada per risolvere il problema del nominativo nelle segnalazioni: esso potrà essere reso noto soltanto quando il richiedente sia in grado di motivare la ragione per cui il nominativo sia necessario per la cura o difesa in giudizio di un proprio interesse giuridico. Qualora vi riesca, trova applicazione l’art. 24, c. 7; qualora invece non sia in grado di motivare in tal senso l’istanza, la tutela del diritto di accesso deve essere bilanciata con quella della riservatezza del segnalante, con la conseguenza che la segnalazione potrà essere rilasciata ma oscurando il nominativo dell’autore[31].
Pur non citando la Plenaria, il TAR Emilia Romagna sembra aver fatto corretta applicazione dei principi da essa enunciati, motivando adeguatamente le ragioni in base alle quali, nel caso di specie, il nominativo del segnalante non apparisse necessario per la tutela degli interessi del ricorrente. L’esito cui perviene la pronuncia è pertanto condivisibile ma sarebbe stato sufficiente, per raggiungerlo, far ricorso alle norme sul diritto d’accesso della l. n. 241/1990.
[1] Si tratta, come noto, del «Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)».
[2] Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717.
[3] Artt. 22 e ss., l. n. 241/1990.
[4] Art. 5, c. 1, d.lgs. n. 33/2013.
[5] Art. 5, c. 2. d.lgs. n. 33/2013.
[6] Per utilizzare l’espressione di A. Simonati, I diritti di accesso “a contenuto generale”: spunti per un’analisi in parallelo, in Dir. econ., 2022, 201 ss. La letteratura sui diversi diritti di accesso e sui loro rapporti è ormai molto consistente: ci si limita qui a rinviare ai recenti lavori monografici di M. Sinisi, I diritti di accesso e la discrezionalità amministrativa, Bari, 2020 e F. Lombardi, La trasparenza tradita, Napoli, 2022.
[7] Si vedano in giurisprudenza, tra altre, Tar Puglia, sez. III, 19 febbraio 2018, n. 231 e Cons. St., sez. IV, 12 agosto 2016, n. 3631; in dottrina, v. M. Sinisi, I diritti di accesso e la discrezionalità amministrativa, cit., spec. 87 ss. Tuttavia, una prospettiva almeno in parte diversa sembrava essere indicata dalla nota sentenza dell’Adunanza plenaria 2 aprile 2020, n. 10, nella quale si sosteneva che il rapporto tra l’accesso documentale e quello civico generalizzato non dovesse essere inteso secondo un criterio di esclusione reciproca «ma secondo un canone ermeneutico di completamento/inclusione»; sia consentito rinviare alle considerazioni svolte sul punto in I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza, in questa Rivista, 2021.
[8] In proposito, si veda V. Mirra, Accesso difensivo e riservatezza: due diritti in conflitto, in Foro it., 10/2021, 550 ss.
[9] Sulla distinzione tra l’accesso procedimentale in generale, disciplinato dall’art. 22, l. n. 241/1990, e quello difensivo di cui all’art. 24, c. 7, si vedano anche le pronunce della Plenaria nn. 19, 20, 21 del 25 settembre 2020, commentate da M. Ricciardo Calderaro, Diritto d’accesso e acquisizione probatoria processuale, in questa Rivista, 2021.
[10] Oltre al problema dei controinteressati, vi è anche quello del rapporto tra il diritto d’accesso e i metodi di acquisizione probatoria nel processo civile: il primo può essere infatti utilizzato per ottenere documenti da produrre in giudizio aggirando il rispetto della normativa processuale. Si è tuttavia pronunciata a favore della complementarietà e della indipendenza dell’accesso e degli istituti processuali la Adunanza plenaria nelle sentenze citate alla nota precedente e nella più recente Cons. St., Ad. plen., 18 marzo 2021, n. 4; sul tema, v. M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile. Una nuova sentenza dell’adunanza plenaria, in Riv. dir. proc., 2021, 1412 ss.
[11] Si veda, per esempio, Cons. St., sez. V, 28 settembre 2012, n. 5132, secondo cui «il soggetto che subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti utilizzati dall’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza, compresi gli esposti e le denunce che hanno determinato l’attivazione di tale potere».
[12] Si veda, ancora, Cons. St., sez. V, 28 settembre 2012, n. 5132; più di recente, v. anche TAR Toscana, sez. I, 3 luglio 2017, n. 898.
[13] Si vedano TAR Toscana, sez. I, 3 luglio 2017, n. 898 e TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. I, 3 agosto 2017, n. 584, dove si legge che l’«esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell’amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un’attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di conseguenza il denunciante perde consapevolmente e scientemente il controllo e la disponibilità sulla propria segnalazione: quest’ultima, infatti, uscita dalla sfera volitiva del suo autore diventa un elemento del procedimento amministrativo, come tale nella disponibilità dell’amministrazione. La sua divulgazione, pertanto, non è preclusa da esigenze di tutela della riservatezza».
[14] In tal senso, v. TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. I, 3 agosto 2017, n. 584: «Non può condividersi sul punto quanto affermato nella memoria della Regione circa la necessità che un documento possa considerarsi tale solamente se contenuto nell’ambito di un procedimento amministrativo: un documento è tale perché esistente tra gli atti dell’amministrazione regionale. L’atto di un privato inviato alla Regione ha fatto sì che una risposta ufficiale sia stata fornita, quindi una qualche attività amministrativa è stata generata a seguito della ricezione dell’esposto-mail».
[15] Si veda TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. II, 17 ottobre 2018, n. 772: «[…] l’esposto presentato alla pubblica amministrazione, da cui trae origine una verifica, un’ispezione o altri procedimenti di accertamento di illeciti, non può essere oggetto di “accesso agli atti”, poiché non è dalla conoscenza del nome del denunciante che dipende la difesa del denunciato»; analogamente, v. anche TAR Veneto, sez. III, 20 marzo 2015, n. 321.
[16] Per esempio, v. Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717: «Pertanto, anche a voler prescindere dalla riservatezza dell’autore della segnalazione (che spesso è un dipendente del soggetto sottoposto ad attività ispettiva, soggetto, quindi, a rischio di ritorsione) emerge la sostanziale carenza di interesse alla conoscenza dell’autore dell’esposto: l’identificazione dell’autore della segnalazione, infatti, non è funzionale all’esigenza difensiva della società appellata». In tema di tutela della riservatezza dei lavoratori che hanno reso dichiarazioni in sede ispettiva, v. anche Cons. St., sez. VI, 24 novembre 2014, n. 5779.
[17] Si riporta per chiarezza il testo dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990: «Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale».
[18] Come noto, l’art. 60, d.lgs. n. 196/2003 stabilisce che «Quando il trattamento concerne dati genetici, relativi alla salute, alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi, è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale».
[19] Art. 6, par.1, Reg. (UE) 2016/679: «Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni: a) l’interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità; b) il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte o all’esecuzione di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso; c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell'interessato o di un’altra persona fisica; e) il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l’interessato è un minore. La lettera f) del primo comma non si applica al trattamento di dati effettuato dalle autorità pubbliche nell’esecuzione dei loro compiti».
[20] Si veda in proposito F. Midiri, GDPR e accesso ai documenti amministrativi, in Foro Amm., 12/2018, spec. 2229 («[…] il GDPR non fornisce indicazioni per determinare i limiti dell’accesso ai documenti amministrativi, neppure attraverso il riferimento alle prerogative del diritto di azione nella disciplina della data protection») e 2231 s. («[…] quando il trattamento dei dati personali contenuti in atti di rilievo pubblico avviene attraverso la funzione pubblica della garanzia dell’accesso ai documenti amministrativi – attraverso il quale l’amministrazione “comunica” i dati ed il privato li “consulta” – non soltanto può realizzarsi una graduazione nazionale della data protection europea, ma, addirittura, trova attuazione il rinvio integrale agli ordinamenti statali previsto dall’86 GDPR, a cui è rimessa la misura della protezione, salvo solo il principio di ragionevolezza nel contemperare opposte libertà fondamentali»). Analogamente, v. E. D’Alterio, Protezione dei dati personali e accesso amministrativo: alla ricerca dell’“ordine segreto”, in Giorn. dir. amm., 1/2019, 9 ss.
[21] Sulla nuova disciplina v., tra altri, F. Pizzetti (a cura di), Protezione dei dati personali in Italia tra GDPR e Codice novellato, Torino, 2021.
[22] Sui problemi posti all’attività delle pubbliche amministrazioni dall’interpretazione restrittiva di questa disposizione e sull’opportunità di intendere invece l’esecuzione di un compito di interesse pubblico come base giuridica di per sé valida per il trattamento di dati non sensibili, si vedano ampiamente i lavori di F. Francario, Protezione dei dati personali e pubblica amministrazione e Disposizioni “urgenti” in materia di protezione dei dati personali. Brevi note sul trattamento dati per finalità di pubblico interesse, entrambi in questa Rivista, 2021. In tema, v. anche F. Cardarelli, Commento all’art. 2-ter, D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in R. D’Orazio, G. Finocchiaro, O. Pollicino, G. Resta (a cura di), Codice della privacy e data protection, Milano, 2021, 1012 ss.
[23] Il TAR non esplicita quale sia la condizione mancante nel caso di specie ma il riferimento potrebbe essere alle ipotesi previste dalle lettere d) e f) dell’art. 6 del GDPR, che consentono il trattamento, rispettivamente, per la salvaguardia degli «interessi vitali» del titolare dei dati o di altra persona fisica e per il «perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato». Tuttavia, guardando ai “considerando” del Regolamento, la prima ipotesi è riferita a casi particolarmente gravi come il controllo delle epidemie o le emergenze umanitarie (considerando n. 46); la seconda attiene invece principalmente gli interessi del titolare del trattamento (considerando nn. 47 e 48) e, soprattutto, non si applica all’attività delle pubbliche amministrazioni (art. 6, par. 1, c. 2).
[24] Sulla quale v. M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile, cit., 1412 ss., che si occupa soprattutto dei rapporti tra diritto di accesso e strumenti di acquisizione probatoria nel processo civile; a commento della pronuncia, si vedano anche V. Mirra, Accesso difensivo e riservatezza: due diritti in conflitto, cit., 550 ss. e G. Delle Cave, L’accesso difensivo post Adunanza Plenaria n. 4/2021 tra potere valutativo della P.A. e apprezzamento del giudice, in questa Rivista, 2022.
[25] Cons. St., sez. III, 31 dicembre 2020, n. 8543, sulla quale v. I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza, cit.
[26] Questo rischio era già stato evidenziato da F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in Federalismi.it, n. 10/2019, spec. 23.
[27] Nelle già richiamate (v. nota 9) pronunce dell’anno precedente nn. 19, 20, 21 del 2020, la Plenaria si era espressa sull’accesso difensivo e anche sul requisito della strumentalità, con rilievi però di carattere generale che hanno quindi giustificato una nuova rimessione.
[28] In proposito, v. F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., 18 ss.
[29] Riguardo alle incertezze che permangono dopo la pronuncia della Plenaria, v. M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile, cit., 1418 ss.
[30] Per una diversa possibile ricostruzione, tuttavia minoritaria, che in presenza di una forma di accesso che prescinde dai requisiti di legittimazione (cioè l’accesso civico generalizzato garantito a “chiunque”) guardi soprattutto alla presenza di contro-limiti, sia consentito rinviare nuovamente a I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza, cit.
[31] In tal senso, v. la già citata sentenza Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717, nonché la più risalente TAR Piemonte, 10 maggio 2012, n. 537
Ritorno alle vecchie regole per il concorso in magistratura. Ma anche pensando al futuro?
di Angelo Costanzo
1. Con il decreto “Aiuti-ter” approvato il 16 settembre è stata anticipata la scelta, contenuta nella legge-delega n.71/2022, di riformare l’ordinamento giudiziario riaprendo l’accesso al concorso per la magistratura ordinaria anche ai neolaureati.
Viene così eliminato l’obbligo di frequentare previamente tirocini o scuole di specializzazione per le professioni legali.
Le Scuole universitarie di specializzazione nelle professioni legali sono state frequentate per accedere al concorso, ma sempre meno. Invece, è cresciuta la partecipazione ai tirocini presso gli Uffici giudiziari che sono utili, se ben impostati, per concorrere a formare un buon magistrato ma che non forniscono una preparazione specifica per il concorso nella sua forma attuale. Inoltre, risulta che la gran parte dei vincitori del concorso si è preparata frequentando scuole private, spesso efficaci nel preparare a superare il concorso ma non per formare un buon magistrato.
In realtà, negli ultimi anni è accaduto che una massa di laureati ha impiegato anni, denaro e energie per approdare a un fallimento. Inoltre, i vari meccanismi di selezione hanno privilegiato coloro che beneficiano di migliori condizioni economiche e di maggiori risorse temporali. Né questo sistema ha affinato sensibilmente la preparazione giuridica degli aspiranti magistrati perché li ha condotti a munirsi soprattutto delle tecniche e delle nozioni utili per superare il concorso, che però non sono quelle specificamente necessarie per esercitare adeguatamente la giurisdizione.
In questo quadro, la scelta del Governo può essere salutata come un intelligente ritorno al passato e anche a una maggiore equità sociale.
2. Tuttavia, risulterà presto una scelta insoddisfacente e miope se non sarà seguita da una seria rielaborazione della formazione degli aspiranti magistrati.
In realtà, la causa prossima della scelta del Governo sta nell’obiettivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza di ampliare e accelerare le procedure di reclutamento così da colmare i vuoti dell’organico per ridurre i tempi dei processi e per smaltire l’arretrato.
Pare evidente che permettere anche ai neolaureati di accedere al concorso amplierà ulteriormente la massa dei candidati, sicché deve auspicarsi che non si introducano meccanismi grossolani e fuorvianti di preselezione (ne esiste una vasta e a volte stramba congerie) fra i quali il più perverso è quello che, per ridurre il numero di coloro che consegnano gli elaborati, individua come temi delle prove questioni periferiche rispetto ai nuclei fondamentali della preparazione del giurista forense. Questa via, infatti, aumenta il rischio di scartare candidati dalla preparazione solida, ma spiazzati da un tema anomalo, e di favorire coloro che, in qualche modo, si sono trovati nella condizione di affrontarlo.
Invece, occorre valorizzare una preparazione ancorata alla solida conoscenza degli istituti giuridici e alla capacità di padroneggiare le argomentazioni. Questa impostazione potrebbe rivitalizzare il ruolo della dottrina giuridica e ridestarne le energie a volte rese latitanti dal mero ancorarsi agli andamenti della giurisprudenza. Dovrebbe anche ridurre la dipendenza degli aspiranti magistrati dalle scuole (private) di preparazione al concorso, dipendenza in gran misura correlata alla esigenza di supporti alla continua ricerca di aggiornamenti sulla giurisprudenza.
3. In generale, serve un sistema di preparazione alle professioni legali (magistratura e avvocatura) più evoluto, che configuri meccanismi di selezione non incentrati sulla ‘sfida/scommessa’ del concorso ma sullo sviluppo graduale di un percorso teorico-pratico pluriennale.
Varie idee possono svilupparsi al riguardo. Ma sembra ragionevole individuare qualche possibile punto considerando quanto potrebbe utilmente realizzarsi mediante le istituzioni già esistenti: le Università, le Scuole di Specializzazione nelle Professioni legali (SSPL) e la Scuola Superiore della Magistratura (SSM).
a) I piani di studio universitari dovrebbero delineare nel secondo biennio un percorso di formazione verso le professioni forensi, distinto da altri percorsi professionali, dato adeguato spazio, oltre alle materie tecniche specifiche, a discipline che offrono le basi metodologiche delle professioni forensi: l’ermeneutica giudiziaria (anche per padroneggiare le conseguenze di tecniche legislative fondate sulla normazione “per principi” che si giustappone a quella tradizionale “per regole”), la logica e l’argomentazione giuridica, l’epistemologia giudiziaria (per rendere più attenti a una corretta ricostruzione dei fatti oggetto dei processi) e lo studio del diritto comparato entro i confini dell’Unione Europea.
b) La successiva formazione dei magistrati e degli avvocati andrebbe mantenuta comune all’interno delle SSPL per poi diversificarsi attraverso distinti meccanismi di selezione conducenti i primi alla SSM e i secondi verso l’Avvocatura.
c) L’accesso alle SSPL dovrebbe avvenire mediante selezioni (su base nazionale) e con l’assegnazione, a ogni singola SSPL di un numero di corsisti ‘sostenibile’ che segua un percorso di formazione comune delineato secondo le direttive della SSM.
d) L’accesso alla SSM dovrebbe avvenire mediante una ulteriore selezione nazionale, dotando i corsisti di borse di studio e munendo coloro che non superano le prove finali di un titolo spendibile per i concorsi pubblici o per l’attività lavorativa privata.
Marìas
di Alessandro Clemente
All’inizio ero un po’ contrariato, forse anche scettico di approcciare ad uno scrittore di lingua spagnola, verso la quale nutrivo infondati pregiudizi.
Andai in libreria per acquistare un libro di un altro autore – non ricordo, forse Saramago, poco importa – ma, non trovandolo, decisi di ripiegare su questo spagnolo il cui nome niente mi diceva. Ero stato incuriosito dal titolo, effettivamente originale, e dal retro di copertina che riportava un entusiastico commento di Pietro Citati, in generale sempre piuttosto severo.
E così, tradendo i dogmatici dettami del Nanni Moretti di “La messa è finita” (“Ma lei, come li sceglie i libri? In base al numero di pagine? Al riassunto in copertina, eh?!”), comprai il mio primo dei tanti libri scritti da Marìas e tradotti in italiano. Anzi, di tutti, avendo negli anni accumulato una copia di tutto ciò che è stato pubblicato a suo nome.
Era, inutile dirlo, “Domani nella battaglia pensa a me”. Accadeva oltre vent’anni fa, c’era ancora la lira e non c’era l’11 settembre. Beh insomma, me lo portai a casa e lo tenni nello studio che condividevo – per studiare, appunto – con mio padre. In quel periodo ristagnavo senza molta convinzione dinanzi ai tre volumi dell’esame di diritto processuale civile, il primo dei quali rimase per alcune mattine – quattro o cinque, ricordo bene – vanamente aperto su una qualche pagina e su un qualche oscuro istituto processuale, essendo io stato rapito dal romanzo.
Trascorsi quelle mattine lasciandomi trasportare da una prosa digressiva, fatta di continui rimandi ai pensieri vorticosi del protagonista che si confondevano con quelli dell’autore, tanto che a un certo punto neanche ricordavo più quale fosse la trama. Che, a dirla tutta, può ridursi davvero a poche decine di pagine (e infatti gli uomini apprezzano Marìas ben poco rispetto alle donne, sue amate lettrici, che lo hanno sempre ripagato venerandolo).
E sarà stato forse un malcelato animo femminile a tradirmi, fatto sta che rimasi fin da subito affascinato da quella prosa rotonda, avvolgente, che accompagnava il lettore inducendolo in uno stato ipnotico ma sempre irrimediabilmente analitico e razionale, lucido e conseguenziale. E quando mi accorgevo che l’autore mi aveva portato un po’ troppo oltre quello che era il topos del romanzo, era ormai troppo tardi: ero caduto nel tranello, mi ero lasciato ammaliare da un incantatore.
Oggi quel libro è in ottime mani. Anche se non ne ho evidenza, ne sono sicuro. Negli anni a venire mi sono accontentato di una copia che ho ricomprato, ma sapete tutti che non è la stessa cosa. Ho compensato anni fa scovando, in un mercatino dell’usato a Barcellona, una copia in lingua originale, che conservo come una reliquia.
Ma insomma, al di là di quel primo libro – e non chiedetemi quale sia il suo libro migliore: quantomeno non fatelo oggi, per pietà – negli anni mi sono accorto che finivo per aspettare trepidante la pubblicazione dei suoi libri quasi come un bambino attende Babbo Natale con i suoi regali. E, senza rendermene conto – proprio come se fossi stato il protagonista di uno dei suoi romanzi – mi sono ritrovato uomo, forse anche un po’ diverso da come ero partito, di certo molto fuori tema rispetto alle premesse esistenziali di uno studente, per giunta anche fuori corso.
E poi, anni dopo, l’ho anche conosciuto. Cioè, non proprio, perché si trattò di assistere dal vivo alla presentazione di un suo romanzo. Ero a Roma per un corso, liquidai tutti i colleghi che mi aspettavano per la cena e mi tuffai nella metro per raggiungere, solo solo, l’Auditorium. Ero tra i primi della fila, c’erano – come detto – molte più donne che uomini. Io rimasi affascinato dall’uomo, cercando per quanto possibile di astrarlo dall’autore. Non era molto alto, ma aveva un portamento che riecheggiava i grandi cavalieri cinquecenteschi, quegli uomini all’antica ma mai fuori moda che sanno sempre come comportarsi, veloci di lingua non meno che di coltello. Indossava una camicia bianca sotto un abito nero, e per me era bellissimo.
Forse, a pensarci bene, io volevo essere Marìas. Meglio ancora, uno dei suoi personaggi, uno di quelli sempre risoluti, attento osservatore della realtà e delle inettitudini umane, fine interprete dell’animo femminile e delle più nefande pulsioni dell’uomo, dalle quali però sapeva sempre tenersi alla larga. Uno di quegli uomini con le idee chiare, sebbene rare volte passassero all’azione.
Non ci sono riuscito, lo ammetto. Parlo troppo, sono irascibile e volubile e soffro una facile cedevolezza sentimentale, oltre quanto si possa tollerare per ambire a rivestire degnamente la parte.
Ma, al di là di questo mio vezzo personale, ammetto che Marìas mi ha reso un uomo migliore di quanto pensassi. Col tempo, inizialmente per gioco fino a farne quasi una inclinazione naturale, ho acquisito una postura che ha cercato e trovato nei suoi personaggi – per quanto così distanti dalle mie ordinarie occupazioni pubbliche e private – un modello di immediata applicazione.
Nella mia mente hanno iniziato ad affollarsi, trovando sempre un ordine mentale in perpetuo movimento, i grandi temi dei suoi romanzi: ecco il segreto, la dissimulazione, l’inganno e il tradimento (quello verso sé stessi, non certo il convenzionale costume borghese del tradimento coniugale). Ecco il dubbio etico, il rimando shakespeariano, il dilemma dell’uomo perennemente in bilico tra l’inerzia e la bramosia di potere, incapace di riconoscere dove finisca la virtuosa prudenza e dove cominci la vergognosa viltà. Ecco la perenne incertezza – che spesso mi coglie di sorpresa nel mio lavoro – su quando bisogna intervenire e quando invece voltarsi dall’altra parte per un presunto interesse superiore, che non sempre è attuale e concreto ma spesso lontano nel tempo, e chissà se mai esisterà davvero. Ecco l’attitudine all’uso della parola digressiva, accompagnando l’interlocutore di turno laddove fin dall’inizio, talvolta con ostentata presunzione, lo si intendeva condurre.
Ora, tutto questo non sparirà, è ormai patrimonio della mia esistenza, invisibile ma non meno presente, e fermamente saldo nella mia vita. Come tutti i suoi libri, alcuni dalle pagine ingiallite, che da oggi conserverò con maggior cura nella mia libreria.
Mi sembrano tutti orfani, e un po’ forse lo sono anch’io.
Nei programmi elettorali sulla giustizia è sparito il PNRR e manca il futuro
di Claudio Castelli
Da una lettura dei programmi elettorali sul tema giustizia la prima inevitabile impressione che si trae è che la giustizia sia un tema del tutto secondario che in genere si può liquidare con pochi slogan o addirittura (come avviene in alcuni casi) ignorare. La seconda considerazione davvero sorprendente è che il PNRR per la giustizia con i suoi ambiziosi obiettivi ed i suoi cospicui investimenti (in primis l’ufficio per il processo) è sparito, cui ci si limita a qualche cenno.
È l’emblema di un atteggiamento sulla giustizia, settore estremamente complesso e che non si presta a semplificazioni, che viene affrontato più con slogan e parole magiche, che pretendono di avere la capacità taumaturgica di risolvere tutte le questioni esistenti, che con un’analisi seria della realtà specificando le azioni e gli interventi concreti che si vogliono porre in atto.
Continuiamo a sentir declamare la necessità di una “riforma della giustizia”, facendo finta di ignorare che di riforme della giustizia ne abbiamo già avute almeno 5 o 6 negli ultimi quindici anni, senza che nessuno si premuri di andare a vedere gli esiti che hanno avuto, se abbiano avuto risultati, se abbiano fallito e le ragioni di successi e insuccessi. Così si riparte sempre da zero con un’ottica fondamentalmente ideologica e propagandistica.
Si continua ad abusare della parola “riforma” che si continua a invocare, quasi mai spiegando in che direzione si vuole andare, non essendo di per sé il cambiamento foriero di miglioramenti e soprattutto senza mai confrontarsi con l’esito delle riforme precedenti che magari la stessa forza politica ha sponsorizzato e realizzato, senza evidentemente avere mai raggiunto gli obiettivi proposti.
Il problema è che è molto più facile lanciare slogan o parole magiche con la pretesa che di per sé risolvano i problemi, rispetto ad affrontarli in concreto con pazienza, umiltà e conoscenza della realtà degli uffici giudiziari e dell’avvocatura. Servono (anche) riforme normative, ma soprattutto un’analisi della realtà, delle forti differenze territoriali esistenti, per estendere le pratiche migliori e per finalizzare investimenti mirati, interventi organizzativi, formazione e accompagnamento allo change management. Nulla è di per sé risolutivo, bisogna operare su più canali con una visione complessiva ed una strategia condivisa. Anche se quest’opera, l’unica che può essere produttiva, è difficilmente riducibile a slogan e parole d’ordine appetibili.
Così continuiamo a passare da una riforma epocale a quella successiva senza l’elaborazione di una visione complessiva e senza la consapevolezza che gli interventi normativi devono essere accompagnati sul campo da misure organizzative e dalle necessarie risorse.
Inoltre è davvero singolare ed allarmante come gli ambiziosi progetti sulla giustizia contenuti nel PNRR e su cui si sta lavorando da oltre un anno siano praticamente ignorati, quasi che il complessivo disegno di assunzioni per l’Ufficio per il processo, di assunzioni di personale tecnico, di modifiche processuali e di coinvolgimento dell’Università sia irrilevante o vada abbandonato.
Ma vi è un ulteriore dato di fondo negativo: la giustizia è in genere vista più come un ostacolo o un impaccio che come una grande potenziale risorsa per il Paese. Quando l’idea di fondo con cui si doveva e poteva uscire dalla pandemia, anche grazie alla disponibilità di fondi per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, mediante il pacchetto di misure europeo del Next Generation EU, era di far sì che il sistema della giustizia italiana si potesse trasformare da “zavorra” del sistema sociale ed economico del nostro Paese in volano e risorsa per il suo sviluppo e la sua trasformazione.
Ma questo vorrebbe dire farsi carico di due enormi problemi che si interconnettono e che in realtà sono le sfide dei prossimi anni ovvero l’impatto che potrà avere l’intelligenza artificiale nei nostri sistemi giuridici e la crisi delle professioni giuridiche. L’intelligenza artificiale e la digitalizzazione potranno essere il volano per un salto di qualità garantendo maggiore celerità e qualità, oppure significare la progressiva sostituzione degli esseri umani, professionisti o magistrati, con sistemi automatizzati facendo perdere ogni umanità della decisione e facendo esplodere la crisi che già oggi alcune professioni giuridiche vivono (a partire dagli avvocati e dagli ufficiali giudiziari) esportandola a tutte le professioni giuridiche.
Quello che manca da anni nel dibattito sulla giustizia è l’elaborazione di una visione prospettica complessiva, che ragioni in termini di mesi e di anni, e non di giorni, di una prospettiva di cambiamento che davvero tocchi gli elementi arcaici, di blocco ed anacronistici della cultura e dell’organizzazione della giurisdizione. Manca un piano che declinato su più dimensioni innovi la cultura, i comportamenti e le azioni dell’agire strategico e quotidiano della giustizia. Le soluzioni che vengono riproposte per l’ennesima volta (riforma dei riti, riforme ordinamentali, assunzioni meramente quantitative), oltre ad aver più volte evidenziato la loro insufficienza, rivelano anche una profonda sfiducia nella giustizia e nei suoi attori e sono probabilmente perfette per la propaganda, ma del tutto inadeguate.
Se poi vediamo nel concreto la proposta della coalizione che viene ritenuta probabilmente maggioritaria, si riduce a tre assunti tutti su ordinamento e processo, ci rendiamo conto come guardiamo ad un passato non commendevole e non ad un futuro di reale cambiamento.
- Riforma della giustizia e dell'ordinamento giudiziario: separazione delle carriere e riforma del CSM.
- Riforma del processo civile e penale: giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama.
- Riforma del diritto penale: razionalizzazione delle pene e garanzia della loro effettività, riforma del diritto penale dell'economia, interventi di efficientamento su precetti e sanzioni penali.
Ancora una volta tutto viene ridotto a intervenire sulla magistratura e sui codici, con proposte nel contempo estremamente generiche e che stravolgono gli attuali assetti costituzionali. Si parte sempre da luoghi comuni come se la giustizia fosse all’anno zero, senza tener conto dei forti, anche se ancora insufficienti, miglioramenti avuti in questi anni: tempi medi costantemente in calo sia nel settore civile che in quello penale, pendenze civili dimezzate negli ultimi dieci anni, una quota rilevante di uffici (circa un quarto) che ha performance europee.
Da qui occorrerebbe partire perché far funzionare la giustizia e garantire tempi ragionevoli. Un salto di qualità è possibile, ma questo non si può ottenere con un approccio ideologico e sostanzialmente ostile alla magistratura, ricominciando ogni volta daccapo, invece occorre partire dai risultati avuti, responsabilizzando e motivando tutti gli operatori, ottimizzando le risorse e poi investendo per darsi obiettivi ambiziosi per cambiare funzionamento e percezione della giustizia.
Si può ridare un futuro e una speranza di giustizia e per la giustizia, ma con un approccio radicalmente diverso.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.