ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Silenzio assenso tra P.A. e autorizzazione paesaggistica. Le prospettive del Consiglio di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, n. 4098 del 24 maggio 2022)
di Sveva Speranza
Sommario: 1. Premessa - 2. Silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni - 3. L’autorizzazione paesaggistica e l’inapplicabilità dell’art. 17-bis - 4. La decisione del Tar Campania, un ulteriore tassello per il dibattito giurisprudenziale - 5. La parola al Consiglio di Stato - 6. Conclusioni.
1. Premessa.
La decisione che si commenta riforma la sentenza del Tar Campania, sez. distaccata di Salerno, che aveva annullato il parere emanato dalla Soprintendenza il 13 ottobre 2020 ritenendo già formatosi per silenzio-assenso in forza del combinato disposto degli artt. 11, commi 7 e 9, del D.P.R. n. 31/2017, e 17-bis della l. n. 241/1990. Nel caso di specie, il ricorrente aveva avanzato un’istanza volta all’ottenimento del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica per un immobile sito nel Comune di Cava dei Tirreni soggetto a vincolo paesaggistico ai sensi del D.M. 12 giugno 1967 e della L. n. 1497/39. La decisione del Tar Salerno aveva attribuito rilevanza alla circostanza che la Soprintendenza, avendo acquisito gli atti in data 20 luglio 2020, aveva comunicato i motivi ostativi all’accoglimento della istanza il 31 luglio 2020 e aveva emanato il diniego definitivo solo il successivo 13 ottobre 2020, oltre il termine procedimentale dei venti giorni. Il Consiglio di stato accoglie l’appello proposto dal Ministero della Cultura, escludendo che il silenzio assenso si fosse effettivamente formato nel concreto del caso di specie, non anche che la fattispecie possa astrattamente configurarsi nel procedimento di autorizzazione paesaggistica.
La decisione merita pertanto di essere segnalata in quanto indicativa della evoluzione in atto nella giurisprudenza amministrativa sull’applicabilità del silenzio-assenso ex art 17-bis l. 241/1990 e smi ai procedimenti per l’autorizzazione paesaggistica e sulla perentorietà del termine di cui all’art. 146, comma 8, del d.lgs. n. 42 del 2004.
2. Silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni.
Alimentando le aspettative degli operatori del diritto, il legislatore ha manifestato crescente fiducia nel ruolo ricoperto dall’istituto del silenzio assenso nella semplificazione amministrativa[i].
In riferimento all’attività amministrativa avente valore provvedimentale, il silenzio assenso non è altro che estrinsecazione del potere in forma semplificata secondo quanto previsto dall’art. 20 l. 241/90, come novellato dalla legge 80/2005.
Invero, salvo il regime della s.c.i.a. di cui all’art. 19, il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide se la medesima amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui all’art. 2 comma 2 o 3, il provvedimento di diniego, oppure non indice nel termine di trenta giorni una conferenza di servizi. Tale fenomeno si verifica nei rapporti cd. “verticali” ovvero tra la P.A. e i privati che sollecitano il soddisfacimento di una pretesa legittima, per ottenere la quale, in assenza di un provvedimento esplicito s’intende prodotto in forma tacita. In tale circostanza il silenzio assenso equivale all’atto conclusivo del procedimento, nonché l’atto che può essere impugnato innanzi al giudice amministrativo, rivestendo cioè un’efficacia esterna.
Con l’introduzione dell’art. 17-bis l. 241/90 è stata inaugurata l’applicabilità del silenzio assenso anche ai rapporti orizzontali tra amministrazioni pubbliche e soggetti ad esse equiparati, nonché gestori di beni e servizi pubblici.
Da una prospettiva oggettiva, la norma di cui all’art. 17-bis l. cit. prevede la formazione del silenzio assenso nei casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta, comunque denominati, se l’amministrazione interpellata non comunica l’adesione allo schema di provvedimento inviato dall’amministrazione procedente entro il termine di trenta giorni [ii].
Rispetto al silenzio assenso di cui all’art. 20, il silenzio endoprocedimentale tra P.A. non equivale all’emanazione del provvedimento conclusivo bensì si inserisce all’interno di un procedimento pluristrutturato, nel quale, al di là del nomen iuris, ha valenza co-decisoria essendo applicabile anche ai pareri vincolanti e non puramente consultivi[iii]. A tal proposito è utile porre attenzione al comma 3 dell’art. 17bis, in cui si esplicita che la regola de qua si applica anche ai casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche. In tali casi, si prevede unicamente un termine più ampio per l’espressione dell’assenso, concerto o nulla osta, che è di 90 giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell'amministrazione procedente. Decorsi i suddetti termini, senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
Al contrario, nell’art. 20 viene esclusa espressamente l’applicabilità del silenzio assenso quando il provvedimento ha ad oggetto interessi sensibili, essendo caratterizzati da valutazioni di compatibilità con alto grado di discrezionalità tecnica che mal si prestano ad un comportamento concludente in luogo di un parere espresso.
L’applicabilità dell’art. 17-bis al solo silenzio orizzontale, inoltre, è stata recentemente ribadita anche dalla Corte costituzionale con la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 8, della legge della Regione Siciliana 6 maggio 2019, n.5[iv] che aveva introdotto il silenzio-assenso sulla domanda di autorizzazione paesaggistica con efficacia anche verticale.
3. L’autorizzazione paesaggistica e l’inapplicabilità dell’art 17bis
Il procedimento finalizzato al rilascio dell’ “autorizzazione paesaggistica” valuta la trasformazione di un territorio in ragione delle implicazioni sulla sua morfologia paesaggistica, intesa non in senso meramente estetico o panoramico bensì con risvolti sull’ambiente circostante[v].
Secondo un primo orientamento più restrittivo, la giurisprudenza amministrativa tende ad escludere l’applicabilità dell’art. 17-bis all’autorizzazione paesaggistica[vi].
Diverse critiche sono state rivolte a un tale orientamento.
In primo luogo, la circostanza che il parere della soprintendenza non può considerarsi un assenso, un concerto o un nulla osta. Quest’ultimo, infatti, rappresenta un atto di particolare complessità tecnica che presuppone una valutazione tecnico-discrezionale secondo i requisiti elencati nel comma 5, art. 146 l. 42/2004[vii]. Dall’analisi della norma emerge, infatti, che l’istanza per l’ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica, ancorché presentata dal privato, viene presentata alla regione che provvede a trasmettere una “proposta di provvedimento” alla soprintendenza, non l’istanza stessa. Con tale precisazione è evidente che la regione ricopre un ruolo istruttorio/decisorio, mentre la soprintendenza è chiamata ad esprimere un parere vincolante entro 45 giorni dalla ricezione dello schema di provvedimento.
In secondo luogo, il termine più breve, rispetto ai 90 giorni previsti dall’art. 17-bis per i provvedimenti aventi ad oggetto interessi sensibili, propenderebbe per l’inconciliabilità con il silenzio endoprocedimentale[viii].
Rileva, inoltre, ai sensi del comma 8 art. 146 l.cit. che nel caso in cui tale parere sia negativo, l’ente pubblico è tenuto ad emanare il preavviso di rigetto ex art. 10 l. 241/90 ed entro ulteriori 20 giorni l’amministrazione è chiamata a provvedere in conformità[ix].
Si può in effetti ritenere che la soprintendenza eserciti sull’atto autorizzativo non solo una valutazione di semplice legittimità, con correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma di merito amministrativo, espressione di poteri di cogestione del vincolo paesaggistico[x]. La conclusione sembra suggerita da una lettura congiunta degli artt. 16 e 17 l. 241/90, in relazione agli assensi, concerti o nulla osta di cui all’art. 17bis. I primi fanno riferimento ad atti di altre amministrazioni da acquisire necessariamente nella fase istruttoria del procedimento: il parere (facoltativo o obbligatorio) di cui all’art. 16 rientra nell’attività consultiva della P.A. ed è facoltà dell’amministrazione richiedente procedere, indipendentemente dall’acquisizione dello stesso; il parere ex art. 17, invece, si sostanzia in una valutazione tecnica da parte di altre amministrazioni senza la quale il provvedimento finale non può essere emanato.
Sebbene sia collocato nella norma seguente all’art. 17, i pareri ex art. 17-bis sono obbligatori e vincolanti, espressione del meccanismo della cogestione degli interessi in gioco.
Pertanto, sottolineando la peculiarità degli interessi paesaggistico-ambientali, non essendo bilanciabili con altrettanti interessi di natura differente, sono posti in una posizione di rilievo assoluto per l’ordinamento: la materia paesaggistica, come più in generale quella dei beni culturali, è tradizionalmente impermeabile al modello del silenzio-assenso per espressa previsione dell’art. 20 l. 241/90.
Il giudizio di compatibilità, infatti, deve essere tecnico e relativo al caso concreto, nonché espressione del novellato art. 9 Cost.[xi] il quale consente di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili. A tal proposito si segnala che ancorché il legislatore abbia previsto una speciale concentrazione procedimentale, come quella che si attua con il sistema della conferenza di servizi, essa non comporta un’attenuazione in termini di tutela paesaggistica.[xii]
Ciò detto, l’istituto del silenzio-assenso mal si concilia con la logica dei giudizi di valore tecnico-discrezionali che si rivelano, inevitabilmente, opinabili, adattandosi, piuttosto, ai soli atti vincolati ed espressione di scienze esatte su valori misurabili. Non a caso, il rimedio processuale predisposto dal legislatore agli artt. 31 e 117 c.p.a., non è esperibile contro qualsiasi tipologia di omissione amministrativa, restando esclusi dalla sua sfera applicativa non solo i casi di silenzio significativo, rectius qualunque attività non provvedimentale.
In più pronunce la giurisprudenza rimarca l’estraneità alla funzione di tutela del paesaggio di “ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi”, atteso che il parere è “atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica”, in cui il giudizio di compatibilità paesaggistica “deve essere … tecnico e proprio del caso concreto”.
Da quanto detto si deduce che il parere reso tardivamente non è inefficace, ma è non vincolante per la P.A. procedente, alla quale spetta tenerne conto, valutando motivatamente ed in concreto anche gli aspetti paesaggistici[xiii].
Nella sentenza n. 2640/2021, inoltre, il Consiglio di Stato ha chiarito che il meccanismo del silenzio-assenso ex art. 17-bis non si applica alla fase istruttoria del procedimento amministrativo “che rimane regolata dalla pertinente disciplina positiva, influendo soltanto sulla fase decisoria, attraverso la formazione di un atto di assenso per silentium con la conseguenza che l’amministrazione procedente è, comunque, tenuta a condurre un’istruttoria completa e, all’esito, ad elaborare uno schema di provvedimento da sottoporre all’assenso dell’amministrazione co-decidente[xiv]”.
Da questo orientamento è possibile concludere che i procedimenti (sebbene) pluristrutturati ad istanza di parte non rientrano nel campo applicativo dell’art. 17bis.
4. La decisione del Tar Campania
Pur appartenendo al diverso e minoritario orientamento giurisprudenziale, la pronuncia del Tar Salerno, n. 1542 del 2021, coglie e difende un certo parallelismo tra l’art. 146 e l’art. 17-bis.
Nel merito era stato impugnato il diniego dell’autorizzazione paesaggistica n. 5051 del 19 gennaio 2021, da parte del Comune di Battipaglia, deciso con sentenza n.1542 del 23 giugno 2021. In particolare, il ricorrente impugnava anche il parere contrario della Soprintendenza ai beni paesaggistici di Salerno ed Avellino n. 16827 del 18 settembre 2020, in quanto comunicato oltre 45 giorni dalla ricezione degli atti.
Tale tesi si fonda sul presupposto che l’autorizzazione paesaggistica sia una decisione pluristrutturata a tutti gli effetti.
Invero, i giudici campani hanno ribadito la sussistenza di un rapporto intersoggettivo di tipo orizzontale, intercorrente tra le due pubbliche amministrazioni chiamate ad esprimersi, l’una proponente, l’altra deliberante. Tale rapporto non va confuso con il diverso rapporto di tipo verticale che si instaura tra il privato e la Regione finalizzato al provvedimento di rilascio o di diniego dell’autorizzazione paesaggistica, riguardo al quale il silenzio-assenso non può evidentemente operare. Inoltre, non deve essere confuso con la decisione monostrutturata rinvenibile nelle cause di gestione di pratiche SUAP (sportello unico attività produttive) dove l’amministrazione procedente assume un ruolo meramente formale, ovvero raccoglie e rimette l’istanza all’unica amministrazione decidente. In tal caso, non essendoci altri enti pubblici co-decisori, il vero beneficiario del silenzio-assenso sarebbe il privato avvalendosi di un’ipotesi elusiva di silenzio.
Il tribunale amministrativo, infatti, esclude che l’emanazione dell’autorizzazione paesaggistica possa assimilarsi a quella appena descritta, considerando che la regione, lungi dal ricoprire un ruolo meramente servente, è l’amministrazione chiamata ad interfacciarsi con il privato attraverso il provvedimento di accoglimento o rigetto: sia perché la legge dispone che “sull'istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la Regione”, sia perché è la titolare del potere di decidere in via esclusiva sugli aspetti urbanistico edilizi.
In sentenza si dà conto di un ulteriore elemento da considerare, in relazione agli interventi minori per i quali è disciplinata l’autorizzazione paesaggistica semplificata all’interno del d.p.r. 31/2017.
Ai sensi dell’art. 11 comma 9 di quest’ultimo regolamento è, infatti, esplicitamente prevista la formazione del silenzio-assenso ai sensi dell’art. 17-bis se la sovrintendenza non esprime il parere nei termini di legge.
Alla luce di quest’ultimo richiamo è difficile, se non impossibile, considerare che un regolamento amministrativo, quale fonte secondaria, possa porsi in contrasto con una fonte legislativa di rango primario, dal momento che in caso contrario sarebbe destinatario della sanzione della disapplicazione. Al contrario, i giudici campani sembrano ritenere che tale disposizione regolamentare sia una conferma dell’applicabilità del silenzio-assenso ex art. 17bis anche al procedimento ordinario posto alla loro attenzione.
Infine, si allegano, come argomenti a favore dell’applicabilità del silenzio endoprocedimentale, autorevole prassi amministrativa consistente nelle linee dettate dal capo dell'ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali, con le direttive n. 27158 del 10 novembre 2015, n. 21892 del 20 luglio 2016 e n. 11688 dell'11 aprile 2017 (cfr. pag. 3, § b1), nonché con i pareri n. 1293 del 19 gennaio 2017 e n. 23231 del 27 settembre 2018.
All’esito di tale ragionamento giuridico, la decisione si conclude con l’accoglimento del ricorso con conseguente annullamento del diniego dell’autorizzazione paesaggistica emanato dal Comune di Battipaglia, dichiarando, inoltre, l’inefficacia dello stesso quale atto tardivo ai sensi dell’art. 2 comma 8bis l. 241/90.
5. La sentenza del Consiglio di Stato
Con la sentenza n. 4098 del 24 maggio 2022, la VI Sez. del Consiglio di Stato è tornata a pronunciarsi sulla questione de qua, facendo chiarezza sul rapporto tra il silenzio ex art. 17bis e l’autorizzazione paesaggistica.
Nella parte motiva della sentenza, il Collegio giudicante ricorda che aveva già avuto occasione di esprimersi in senso contrario alla compatibilità tra il silenzio assenso endoprocedimentale e i procedimenti disciplinati dall’art. 146 del D.L.vo 42/2004 “per la ragione che in questi procedimenti la Soprintendenza non è chiamata ad esprimersi su una proposta del provvedimento finale che sarà adottato dall’amministrazione procedente, bensì su una proposta di parere paesaggistico, che riguarda un progetto e che non viene formulata dall’autorità procedente – cioè quella che deve autorizzare il progetto o l’opera – bensì dalla Regione o dall’ente che questa abbia eventualmente delegato ad esercitare i poteri ad essa assegnati dall’art. 146[xv]”, concludendo per sostenere l’affermazione che il provvedimento conclusivo del procedimento abbia a tutti gli effetti una natura mono strutturata.
Ebbene, pur senza manifestamente smentire quanto in precedenza affermato, il Consiglio di Stato sembra rimeditare almeno in parte il precedente orientamento.
I giudici amministrativi sostengono, infatti, che l’unico elemento di apparente contrarietà all’applicabilità del silenzio ex art. 17-bis l. cit. all’emanazione dell’autorizzazione paesaggistica, sia rilevabile nella scansione procedimentale di cui al comma 9 dell’art. 146 cod. paesaggio, secondo cui la Regione (o l’organo da questa delegato) provveda comunque, senza specificare se l’emanazione del provvedimento debba avvenire in conformità della proposta inviata alla Soprintendenza. Invero, dalla norma emerge la circostanza che l’Amministrazione procedente è chiamata ad emettere a prescindere un provvedimento espresso.
I principi generali, tuttavia, impediscono di adottare un provvedimento non conforme all’originaria proposta, senza formularne una nuova. Dovendo concludere che sia lo stesso art. 146 D. L.vo cit. a prevedere una forma di silenzio assenso secondo lo schema dell’art. 17bis L.241/90, trattandosi di un provvedimento che presenta un tratto (necessariamente) co-decisorio.
Coerentemente con quanto sin qui affermato, «se presupposto all’art. 146, comma 9, vi fosse la formazione di un silenzio assenso ai sensi dell’art. 17-bis, la norma avrebbe dovuto prevedere, per coerenza, che anche il tal caso l’amministrazione procedente adottasse il provvedimento finale “in conformità”: in tal caso, “in conformità” alla proposta iniziale, sulla quale la Soprintendenza non ha espresso motivi ostativi». Tanto, induce a ritenere che «il legislatore non ha voluto che si producesse tale effetto, quale conseguenza del comportamento silente della Soprintendenza, come è reso evidente dal fatto che in tal caso l’amministrazione procedente è tenuta a provvedere “comunque” e non “in conformità”».
Osserva, nondimeno, la Sezione che «dal punto di vista pratico cambia poco rispetto alla fattispecie del silenzio assenso ex art. 17-bis, perché è evidente che il provvedimento finale, anche in tal caso, deve rispecchiare la proposta originaria trasmessa alla Soprintendenza: diversamente il provvedimento adottato risulterebbe illegittimo in quanto emesso su una proposta non precedentemente sottoposta al parere della Soprintendenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 5799 dell’11 dicembre 2017); l’amministrazione procedente, tuttavia, non essendosi formato un silenzio assenso da parte della Soprintendenza, potrebbe avere un ripensamento e quindi potrebbe decidere di riformulare la proposta originaria, senza perciò incorrere in un provvedimento in autotutela, non essendosi ancora formato un provvedimento definitivo».
Pertanto, l’atto finale dell’amministrazione procedente, a meno di un “ripensamento” circa la propria posizione originaria, non potrà che essere favorevole al privato, pena l’illegittimità di un
diniego, che sarebbe emesso in assenza di una precedente proposta in tal senso sottoposta al parere della Soprintendenza[xvi].
6. Conclusioni
Le considerazioni conclusive non possono prescindere dalla preventiva sottolineatura della crescente tendenza dell’ordinamento ad attribuire carattere sempre più generale all’istituto del silenzio assenso, come evidenziato anche dalle più recenti riforme, in particolare i decreti legge semplificazioni 76/2020 e 77/2021. In tutti i procedimenti amministrativi in cui è necessario un dialogo a più voci, se una di questa si intende acquisita per non bloccare l’iter decisorio, bisogna accettare le conseguenze che derivano nei confronti dei destinatari dei provvedimenti. Si ritiene, infatti, che la generalizzazione dell’istituto del silenzio assenso e la sua applicazione a fattispecie connotate dall’esercizio di un potere discrezionale (più o meno ampio) appaiano compatibili con i principi generali dell’azione amministrativa (buon andamento, imparzialità, trasparenza) unicamente qualora si ritenga sussista anche in tale ambito il dovere della p.a. di esercitare la propria funzione di amministrazione attiva attraverso la ponderazione degli interessi coinvolti[xvii].
La modifica legislativa dell’art.17-bis (ora rubricato “Effetti del silenzio e dell’inerzia nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici” a seguito dell’intervento correttivo dell’art. 12, comma 1, lett. g), n. 1), da parte del decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, che ha sostituito le parole “Silenzio assenso” con le parole: “Effetti del silenzio e dell’inerzia nei rapporti”)[xviii] ha reso sicuramente più problematica la figura generale del silenzio-assenso.
Speculare all’applicabilità del silenzio-assenso è il concetto di inesauribilità del potere che viene messo a dura prova dal dovere di provvedere sancito all’art. 2 l. 241/90. Per cui, o si deve ritenere ancora esercitabile il potere della p.a. che entro i termini di legge non ha emanato il provvedimento oppure si intende acquisito un parere favorevole secondo la regola del silenzio-assenso. Quindi delle due, l’una.
Tuttavia, in non poche occasioni si è dimostrato che nella pratica giuridica tra due opzioni apparentemente contrapposte la soluzione corretta può passare per una terza via, e ciò è proprio quanto sembrerebbe avvenire nel caso dell’’autorizzazione paesaggistica, in quanto provvedimento pluristrutturato e allo stesso tempo su istanza di parte.
L’istanza ex art. 146 cod. beni culturali e paesaggistici instaura un doppio segmento: verticale tra il Comune (o al diverso ente territoriale delegato dalla regione) e il privato; orizzontale tra il Comune e la soprintendenza.
In effetti la giurisprudenza, già nel parere del Consiglio di Stato 1640/2016, non escludeva dal perimetro di operatività del silenzio-assenso l’indistinta categoria dei procedimenti ad istanza di parte, precisando, piuttosto, che il meccanismo semplificante ex art. 17-bis operava solo in presenza di un’effettiva condivisione della funzione decisoria delle due amministrazioni e non nel caso in cui ad una delle due sia demandata solo una funzione consultiva.
Da qui la differenza sostanziale tra silenzio devolutivo e silenzio-assenso. Nel primo caso l'autorizzazione paesaggistica è imputata esclusivamente all'ente territoriale che l'ha rilasciata, mentre nel secondo caso essa si intesta in co-decisione a entrambe le amministrazioni.
Pertanto, l’art. 17-bis si applica al procedimento disciplinato dall’art. 146 del codice di settore del 2004, limitatamente alla pronuncia del parere della soprintendenza. Invece, in caso di inerzia del Comune e l’inutile decorso del termine finale di conclusione del procedimento, e dunque del rapporto verticale verso il privato, si avrà a che fare con una normale ipotesi di silenzio-inadempimento, ricorribile ex art. 117 c.p.a.
Alla luce di quanto esposto, appaiono sicuramente degne di nota e condivisibili le ultime pronunce a sostegno della compatibilità tra il silenzio assenso endoprocedimentale e i procedimenti pluristrutturati che coinvolgono gli interessi sensibili[xix].
[i] Per riflessioni critiche sul crescente impiego dell’istituto del silenzio assenso v. M. A. Sandulli, Silenzio assenso e termine per provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il processo, 1/2022, 11 ss e ivi ulteriori riferimenti.
[ii] In dottrina ex multis F. De Leonardis, “Il silenzio assenso in materia ambientale: considerazioni critiche sull'art. 17bis introdotto dalla cd. riforma Madia” di, in Federalismi.it, 21.10.2015; F. Scalia, Considerazioni in ordine all'ambito soggettivo del nuovo istituto del silenzio-assenso tra amministrazioni, in Giust. Amm. M. 9, 2017; C. Vitale, Il Silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni: il parere del Consiglio di Stato - il Commento, in Giornale Dir. Amm., 2017, 1, 95 e ss.; G. Mari, Il silenzio assenso tra amministrazioni e tra amministrazioni e gestori di beni o servizi pubblici, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, Giufrè, 2017, 853 e ss.; E. Scotti, Silenzio assenso tra amministrazioni in A. Romano (a cura di), L'azione amministrativa, Torino, 2016, 566 e ss.; A. Contieri, Il silenzio assenso tra le amministrazioni secondo l’art. 17-bis della legge 241/90; la resistibile ascesa della semplificazione meramente temporale in Approfondimenti di diritto amministrativo (a cura) di A. Contieri, Editoriale scientifica 2021 p.109 ss.
[iii] Cons. Stato, Comm. Spec., 13 luglio 2016 n. 1640.
[iv] Nella sentenza citata, la Regione Siciliana, introducendo una regola contrastante con una norma fondamentale di riforma economico-sociale della legislazione statale, superava i limiti della propria competenza primaria in materia di tutela del paesaggio ai sensi dell’art. 14, lettera n), dello statuto speciale. Cfr. Corte cost. 22 luglio 2021 n. 160.
[v] Sulla nozione di paesaggio e di beni paesaggistici di cui, rispettivamente, agli artt.131 e 136 D.lgs. n. 42/2004, T.A.R. Lazio, sez. II, 1 aprile 2014, n. 3577.
[vi] Per una panoramica giurisprudenziale cfr. P. Marzaro, “Silenzio assenso tra amministrazioni, ovvero della (in)sostenibile leggerezza degli interessi sensibili” in Rivista giuridica di urbanistica, n.2 del 2021, p.432 ss.
[vii] “Sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la regione, dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge, ai sensi del comma 1, salvo quanto disposto all’articolo 143, commi 4 e 5. Il parere del soprintendente, all’esito dell’approvazione delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonché della positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non vincolante ed è reso nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti, decorsi i quali l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione”.
[viii] Prima della riforma del 2015 (legge n. 124 del 2015) il quadro era abbastanza chiaro. In base all'articolo 146 del codice di settore del 2004 - come modificato prima dal decreto correttivo e integrativo n. 156 del 2006, poi dall'articolo 4, comma 16, del decreto- legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, quindi dall'articolo 25, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164 - l'autorità competente alla gestione del vincolo - di regola il Comune, delegato dalla Regione - doveva provvedere sulla domanda del privato entro 60 giorni, acquisito il parere del soprintendente (obbligatorio e vincolante fino alla conformazione o adeguamento della strumentazione urbanistica alla nuova pianificazione paesaggistica), da rendere entro 45 giorni dalla ricezione degli atti. Si parlava di "silenzio devolutivo", nel senso che, decorso inutilmente il termine senza che la soprintendenza avesse comunicato il parere, il Comune aveva il dovere funzionale di decidere da solo e doveva provvedere sulla domanda ("Decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione": articolo 146, comma 9).
In caso di inerzia del Comune e di inutile decorso di questo termine, non essendo tale fattispecie tipizzata e resa significativa in alcun senso - né positivo, né negativo – dalla legge, e non potendosi, come si è visto, fare applicazione dell'articolo 20 della legge n. 241 del 1990, si aveva a che fare con una normale ipotesi di inerzia non significativa della p.a. di silenzio-inadempimento, ricorribile dinanzi al Tar ex articolo 117 c.p.a. cfr. Contributo di Piero Carpentieri, Consigliere di Stato, 11.04.2022.
[x]Cons. Stato sez. VI n. 2262/2017, Cons. Stato VI 4 giugno 2015 n. 2751.
[xi] A tal proposito si vedano G. Severini e P. Carpentieri, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione,in GiustiziaInsieme, 22 settembre 2021.
[xii] Cons. Stato, sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640 (che richiama Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1486; Id., sez. VI, 23 maggio 2012, n. 3039; 15 gennaio 2013, n. 220). La sentenza n. 2640 del 2021 ha poi ribadito l'applicabilità del diverso criterio del silenzio devolutivo. Il Consiglio di Stato (sentenza della sez. VI, 14 luglio 2020, n. 4559) ha poi escluso la configurabilità del silenzio-assenso tra amministrazioni nella procedura di adeguamento degli strumenti urbanistici comunali al piano paesistico.
[xiii] Cons. Stato, sez. IV, 27 luglio 2020, n. 4765; id., 29 marzo 2021, n. 2640; id., 7 aprile 2022, n. 2584.
[xiv] Cons. Stato, sez. VI, 14 luglio 2020, n. 4559.
[xv] Cons. Stato, Sez. VI, 8 gennaio 2020, n. 129; Sez. VI, 18 settembre 2017, n. 4369; Sez. VI, 12 settembre 2017, n. 4315; Sez. VI, 18 luglio 2017, n. 352.
[xvi] Consiglio di Stato-Ufficio Studi, massimario e formazione della Giustizia Amministrativa, Relazione illustrativa sulle questioni deferite dal Presidente della Sezione VI del Consiglio di Stato, con nota del 17 maggio 2022.
[xvii] M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi 10/2020.
[xviii] Ai sensi del comma 3 del testo vigente dell’art. 17-bis: “Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche ai casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche. In tali casi, ove disposizioni di legge o i provvedimenti di cui all’articolo 2 non prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta è di novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell’amministrazione procedente. Decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito”.
[xix] In tal senso cfr. Cons. Stato, sez. VI, 1 ottobre 2019, n. 6556; Tar Campania, Napoli, sez. VI, 7 giugno 2019, n. 3099; Tar Toscana, 16 dicembre 2020, n. 1656; Tar Sardegna, sez. II, 12 aprile 2021 n. 256.
La disciplina nazionale IVA sulle società di comodo al cospetto della Corte di Giustizia. Si preannuncia l’incompatibilità europea. Nota all’ordinanza della Corte di Cassazione n. 16091 del 15 maggio 2022
di Rossella Miceli
Sommario: 1. Premessa. 2. La disciplina IVA in materia di società di comodo. 3. La natura delle società di comodo quale necessaria premessa logica. 4. La questione pregiudiziale rimessa alla Corte di Giustizia. 5. L’assenza di soggettività passiva IVA della società di comodo e la conseguente irragionevolezza della disciplina nazionale. 6. Le incoerenze del test di operatività e il regime della prova contraria, quali ulteriori indici della incompatibilità della disciplina. 7. Conclusioni.
1. Premessa.
Con l’articolata ed approfondita ordinanza interlocutoria n. 16091 del 15 maggio 2022, la Corte di Cassazione rimette alla Corte di Giustizia europea la questione di compatibilità di alcune disposizioni relative alla disciplina nazionale sulle “società di comodo” (anche “società non operative”), recata nell’art. 30 della L. 23.12.1994, n. 724.
In tale articolo, come noto, trova espressione una delle normative più discusse e criticate del nostro sistema fiscale, tacciata più volte dalla dottrina di profili di incostituzionalità e di incompatibilità europea[1].
Nonostante le continue censure, la suddetta normativa con costanti revisioni ed innesti ha resistito indenne nel nostro sistema giuridico per circa trent’anni, nel corso dei quali non è stata mai soggetta ad un vaglio da parte delle Corte di Giustizia o della Corte costituzionale[2].
Alla luce di tali considerazioni, l’ordinanza in esame definisce una prima importante occasione di comprendere l’allineamento della disciplina sulle società di comodo ad un comparto importante dell’ordinamento giuridico, quello relativo al sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto (d’ora innanzi, IVA).
Ne consegue come il cuore della suddetta disciplina, costituito dai presupposti di accesso e dalle complesse regole di determinazione delle imposte dirette, sarà in questa sede oggetto di esame in modo incidentale, in quanto la questione (su cui si fonda l’ordinanza di rimessione) attiene, esclusivamente, alla compatibilità della disciplina IVA con i principi europei in materia.
Comprendere le ragioni dell’ordinanza della Suprema Corte e valutarne la sostenibilità impone, preliminarmente, di focalizzare il regime nazionale IVA previsto per le società di comodo e di effettuare una breve riflessione sulla ratio della disciplina recata nell’art. 30 della suddetta legge.
Si ritiene, infatti, che i problemi della materia in esame e la stessa questione di compatibilità, oggetto di analisi, discendano principalmente da una mancata chiarezza sulla ratio legis sottesa alla disciplina, aspetto che, negli anni, si è sempre più aggravato a causa di una importante stratificazione normativa.
In tal senso, le partendo dalla definizione della suddetta ratio, si procederà alla valutazione delle motivazioni espresse dalla Suprema Corte, riflettendo su quelli che si presume possano essere gli esiti della questione in sede europea.
2. La disciplina IVA in materia di società di comodo.
L’applicazione della normativa in materia di società di comodo consegue alla realizzazione di presupposti specifici stabiliti dalla legge, i quali - nella disciplina vigente ratione temporis, nel momento in cui nasceva la controversia oggi sub judice - si sostanziavano esclusivamente nel mancato superamento del così detto “test di operatività”[3].
In base a quest’ultimo, si valuta la redditività dei beni patrimoniali detenuti dalle società commerciali (di persone e di capitali) in relazione a parametri minimi individuati dalla legge; il test contiene, infatti, una predeterminazione normativa di ricavi, il cui mancato superamento attesta un’improduttività dell’ente societario.
Scopo del test stesso è quello di dimostrare che i beni patrimoniali detenuti dalla società non possiedano una redditività adeguata alla loro consistenza economica, rilevando - in tal modo - un importante indice sintomatico dell’inattività della società stessa, basato sulla massima di esperienza secondo la quale ogni bene destinato all’impresa dovrebbe contribuire alla realizzazione di congrui ricavi.
Il mancato superamento del test e l’assenza del ricorrere di cause di esclusione determinano l’applicazione di una specifica disciplina impositiva che riguarda le imposte dirette e l’IVA.
Le cause di esclusione definiscono in senso negativo l’ambito di azione della disciplina delle società non operative, individuando una serie di fattispecie in cui la disciplina in esame non è applicabile in quanto la mancata redditività è giustificata. Le cause di esclusione sono numerose e si suddividono in diverse tipologie[4].
Si prevede, inoltre, una causa generale di esclusione (ex art. 30, comma 4, ter L. n. 724/1994), idonea a ricomprendere tutte le ipotesi non riconducibili ad una delle suddette cause espressamente previste. In ossequio a tale causa generale, al contribuente è consentito dare prova di “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinato in base alla disciplina delle società non operative ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini IVA”.
La disciplina impositiva rivolta alle società di comodo si caratterizza da sempre per connotati estremamente penalizzanti.
Con specifico riferimento all’IVA, si prevedono due regimi che limitano le prerogative connesse all’ordinario meccanismo applicativo del tributo.
Il primo regime definisce una preclusione generale in relazione all’utilizzo della eccedenza IVA, in quanto l’eccedenza di imposta, pari al credito risultante in dichiarazione, non è ammessa a rimborso, non può essere compensata (ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 9.7.1997, n. 241), non può essere ceduta a terzi (ai sensi dell’art. 5, comma 4 ter, D.L. 14.3.1988, n. 80, convertito in L. 13.3.1988, n. 154). Tale eccedenza può essere soltanto utilizzata a scomputo dell’IVA dovuta (ove esistente), al di fuori di tale possibilità l’unica strada possibile è quella del riporto a nuovo dell’ammontare in esame.
Il secondo regime preclude la possibilità di compensazione verticale dell’IVA a credito, rendendo tale ultimo credito sostanzialmente inutilizzabile.
La suddetta limitazione matura nel momento in cui per tre periodi di imposta consecutivi la società sia non operativa (ai sensi della disciplina) e non effettui operazioni rilevanti ai fini IVA pari almeno all’importo del reddito minimo presunto (come determinato ai fini delle imposte dirette).
Si tratta, come osservato in altra sede, di una disciplina che nel suo complesso determina un doppio livello di penalizzazioni, che operano in modo progressivo[5].
Il primo livello di penalizzazione sorge sul versante del recupero del credito emergente in dichiarazione, il cui utilizzo è soggetto alle sopra indicate limitazioni; ne consegue come per tutte le società che non hanno operazioni attive il credito risulterà inutilizzabile.
Il secondo livello designa un’indetraibilità assoluta dell’IVA sugli acquisiti di beni e servizi, ponendo il soggetto non operativo nel sistema impositivo nella stessa posizione di un consumatore finale, ma con tutti gli obblighi di un soggetto passivo. Quest’ultimo, infatti, non può in alcun modo utilizzare il proprio credito; ciò determina la circostanza che, oltre ad assolvere ad un’imposta per ogni operazione economica, rimarrà anche inciso dall’imposta stessa, come se avesse acquistato il bene o il servizio per destinarli al consumo.
In altre parole, le preclusioni introdotte agiscono sul piano della neutralità del tributo che gradualmente viene limitata, in un primo tempo parzialmente (mancato utilizzo della eccedenza IVA) ed in un secondo tempo totalmente (indetraibilità dell’IVA sugli acquisiti), definendo un effetto analogo a quello che si realizzerebbe se la società stessa fosse un consumatore finale.
3. La natura delle società di comodo quale necessaria premessa logica.
Uno dei temi più discussi nella materia tributaria, nell’ambito della normativa sulle società di comodo, è stato quello attinente alla loro natura e qualificazione.
La stratificazione normativa e gli effetti pregiudizievoli che l’applicazione della disciplina recava in capo ai contribuenti sono stati elementi che, sin dai primi anni di operatività della legge, hanno concentrato l’attenzione degli interpreti sulla comprensione di chi fossero le società di comodo nella realtà economica[6]; la definizione di tale natura avrebbe esplicitato la ratio legis della stessa e consentito di chiarire le ragioni di un assetto così penalizzante.
Sul tema si sono registrate diverse ricostruzioni giuridiche, sostenute in modo più o meno esplicito dalle evoluzioni che la disciplina ha ricevuto[7].
Inizialmente è sembrato che alla disciplina si dovesse riconoscere una natura antievasiva in quanto la stessa pareva reprimere le società che occultavano i ricavi prodotti; in tal senso la disciplina medesima avrebbe contrastato il fenomeno dei ricavi “in nero”, perseguendo l’obiettivo di combattere l’evasione fiscale.
In un secondo tempo si è maturata l’idea che la normativa potesse avere una matrice antielusiva, finalizzata al contrasto dell’abuso dello strumento societario per finalità estranee all’attività imprenditoriale. Secondo tale ricostruzione le società di comodo costituiscono costruzioni artificiose, non sostenute da valide ragioni economiche.
Sulla scia della costruzione antielusiva si è definita un’ulteriore giustificazione che, a nostro avviso, ha reso una più idonea interpretazione dei caratteri specifici della disciplina, assumendo connotati più coerenti sul piano teorico e con il dato normativo[8]. Tale ultima ricostruzione sembra essersi imposta nel panorama giuridico, trovando una condivisione anche da parte della giurisprudenza.
Le società di comodo definirebbero organizzazioni finalizzate alla mera detenzione di beni patrimoniali allo scopo di esercitarne un godimento; conseguentemente, lo spirito e il senso della normativa si rinvengono nella necessità di definire un trattamento impositivo di tali fattispecie, che - operando delle correzioni alla normativa fiscale - ne disincentivi la costituzione.
In tal modo, si compie un passaggio necessario per la materia fiscale, ove - come a tutti noto - si presume lo svolgimento dell’attività di impresa in capo a tutte le società commerciali di persone e di capitali, rivolgendo alle stesse una disciplina impositiva strutturata per le attività economiche e nota come “statuto fiscale dell’Impresa e delle società”[9].
Le ragioni che conducono a sostenere tale ultima ricostruzione si ravvedono nella circostanza che attualmente le società di mero godimento non sembrano essere (più) vietate dal sistema normativo.
Per tempo l’art. 2248 c.c. - prevedendo che la comunione a scopo di godimento non possa essere esercitata nella forma sociale, ma debba trovare la propria disciplina nelle norme in tema di comunione – ha definito un limite alla creazione di tali società.
L’evoluzione del diritto civile ha progressivamente operato una svalutazione di tale divieto con riferimento alle società semplici e a quelle di mera gestione previste dalla legge[10].
L’attuale diritto commerciale in diverse occasioni ha superato la nozione tradizionale di società per avviarsi verso una fase storica definita “pansocietaria”, nell’ambito della quale il modulo sociale può essere utilizzato anche per finalità diverse dall’esercizio dell’impresa.
Ne consegue come le società di mero godimento, oltre a non essere vietate dalla legge come anticipato, non costituiscono una espressione di abuso del diritto in senso tradizionale, né una forma di condotta fraudolenta.
Le società di mero godimento, al di là delle ipotesi tipizzate dal legislatore, qualificano fattispecie atipiche di utilizzo dello schema societario per lo svolgimento di una attività differente da quella di impresa. In ragione di ciò l’indice sintomatico che consente di rinvenire tali realtà all’interno della materia fiscale è stato individuato nella mancanza di ricavi adeguati alla consistenza patrimoniale dei beni detenuti.
L’ordinanza in esame abbraccia questa impostazione - assumendo che “la presunzione legale di inoperatività si fonda sulla massima di esperienza secondo la quale non vi è di norma effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi” – e, coerentemente alla stessa, ammette che - “il disfavore dell’ordinamento nazionale deriva dall’incoerente impiego del modulo societario …..e trova spiegazione nella distonia tra l’interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto è preordinato”.
La circostanza che le società di comodo identifichino attualmente società di mero godimento di beni patrimoniali definisce, in tal modo, la premessa logica dell’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia.
4. La questione pregiudiziale rimessa alla Corte di Giustizia.
L’ordinanza della Suprema Corte nazionale origina da una controversia tra una società contribuente e l’Ente impositore nella quale la prima contestava la qualifica di (società di) comodo, conseguente alla contabilizzazione di operazioni attive ai fini IVA per un importo inferiore rispetto alla soglia di ricavi prevista dalla legge.
La contribuente impugnava dinanzi alla Commissione tributaria provinciale l’avviso di accertamento con il quale era assoggetta alla disciplina prevista dall’art. 30, L. n. 724/1994; a seguito di due pronunce in senso conforme nelle quali veniva respinto il ricorso della società, la controversia giungeva alla Suprema Corte dinanzi alla quale si maturava il sospetto dell’incompatibilità comunitaria della disciplina.
Nell’ordinanza di rimessione sono sviluppati numerosi argomenti che, nel loro insieme, convergono verso un unico generale quesito ovvero la compatibilità con la disciplina europea recata nella direttiva IVA (direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006) delle norme nazionali rivolte alle società di comodo.
In tal senso, si sottolinea la centralità del diritto alla detrazione nel sistema IVA e il suo diretto collegamento con la nozione di soggetto passivo, alla luce di ciò si ritiene inammissibile una limitazione del suddetto diritto in capo a soggetti IVA.
Tale compatibilità risulta, pertanto, dubbia rispetto alla disciplina della soggettività ed ai principi di proporzionalità, di neutralità e di certezza del diritto del sistema IVA.
Nel corso dell’analisi emergono anche, seppur in modo incidentale, i profili che determinano l’accesso alla disciplina e la prova contraria.
In particolare, dubbi si pongono sulla possibilità di escludere il diritto alla detrazione ad un soggetto che non supera il test di operatività, in considerazione principalmente delle caratteristiche di tale ultimo test, che impone la realizzazione di operazioni attive in misura coerente a parametri desumibili dagli asset patrimoniali posseduti e presume l’inattività di un soggetto nel caso di mancata realizzazione dei ricavi.
Allo stesso tempo, si pone in discussione che le suddette conseguenze possano essere rivolte ad un soggetto che, oltre a non aver superato il test di operatività, non sia in grado di dimostrare “l’esistenza di oggettive situazioni ostative”.
La comprensione delle questioni giuridiche in esame si deve concentrare - a nostro avviso – sull’analisi di un tema, che risulta preliminare.
Il punto di partenza deve essere quello di comprendere la posizione della società di comodo nazionale rispetto al sistema IVA alla luce della natura riconosciuta a quest’ultima.
La circostanza che la società di comodo non possa essere un soggetto IVA risolve - a nostro avviso - tutte le questioni oggetto dell’ordinanza.
In ogni caso, una riflessione sarà effettuata anche sui temi della coerenza del test di operatività e del regime della prova contraria. Si tratta di aspetti generali e di enorme importanza nell’assetto della materia dell’art. 30 della L. n. 724/1994, che assumono rilievo anche con riferimento al caso in esame.
5. L’assenza di soggettività passiva IVA della società di comodo e la conseguente irragionevolezza della disciplina nazionale.
La normativa europea IVA – e, in particolare, l’art. 9, par. 1, lett. a) della Direttiva n. 2006/112 – sancisce la soggettività passiva dell’imposta in capo a chiunque eserciti una attività economica, quest’ultimo soggetto se realizza operazioni imponibili ha diritto alla detrazione.
Come noto, in ordine alla definizione dei soggetti IVA esiste una profonda differenza tra il sistema europeo e quello nazionale.
A livello nazionale, in capo a tutte le società commerciali si realizza un automatico assoggettamento al regime del reddito di impresa per le imposte dirette e IVA; tale regime definisce un approccio formale nella individuazione dei soggetti che sono sottoposti alla disciplina fiscale dell’impresa.
A livello europeo, il presupposto soggettivo dell’IVA è invece qualificato secondo un approccio di tipo esclusivamente sostanziale, in base al quale si ammette che l’imposta debba essere assolta da soggetti che esercitano delle attività economiche rivolte al mercato in modo indipendente ed in regime di concorrenza. Tale nozione acclude al suo interno sia le attività di impresa, che quelle di lavoro autonomo e si concentra sul requisito della effettività dell’attività svolta con riferimento ai suddetti caratteri, prescindendo da status soggettivi, da fini dell’attività o dai risultati della stessa.
Nell’ambito della nozione di attività economica, la Corte di Giustizia ha espressamente evidenziato come la mera gestione di beni non definisca operazioni rilevanti ai fini IVA[11], sancendo in via generale la non assoggettabilità all’imposta di tutte le attività che si risolvono in una mera amministrazione interna di beni patrimoniali, in quanto non rivolte al mercato e non svolte in regime di concorrenza.
La Corte di Giustizia ha pertanto sottolineato come i soggetti che esercitano tali attività non siano soggetti IVA e debbano essere trattati - con riferimento al sistema impositivo - alla stregua di consumatori finali.
Alla luce di tali orientamenti, lo stesso legislatore italiano ha proceduto ad una riforma legislativa, con cui è stato previsto il disconoscimento della soggettività IVA ad alcune società immobiliari di mero godimento dei beni, sancendo che l’attività svolta dalle suddette società non sia più considerata commerciale[12]. I principi europei hanno così conferito una maggiore elasticità alla normativa italiana che ha dovuto abbandonare in alcuni casi l’automatismo legato alla presunzione di commercialità riferita alle società.
Sulla base di tale analisi si comprende come l’attuale disciplina IVA in materia di società di comodo soffra di un primo evidente profilo di incoerenza con i principi europei.
Se un soggetto esercita un’attività di mero godimento di beni patrimoniali dovrebbe essere estromesso dalla disciplina dell’imposta e non godere – conseguentemente - né della soggettività IVA, né del diritto alla detrazione.
Secondo tale impostazione, pertanto, risulta corretta una normativa nazionale che è finalizzata a rinvenire le società di mero godimento nel sistema giuridico, ma del tutto ingiustificate appaiono le misure predisposte da quest’ultima in ordine alle prerogative del sistema IVA.
I due regimi previsti privano i soggetti IVA di alcuni diritti fondamentali della disciplina, definendo un regime “ibrido” nel quale un contribuente rimane nel sistema dell’imposta, ma con una posizione pregna di limitazioni.
Alla luce di ciò completamente irragionevole si rivela anche il doppio livello di preclusioni che si maturano progressivamente con il perdurare della mancata redditività, le quali non trovano alcuna giustificazione sul piano della logica dell’imposta.
Il doppio livello di preclusioni e la previsione di una forma di indetraibilità definiscono un quadro di dubbia compatibilità europea rispetto non solo alla disciplina sulla soggettività IVA, ma anche ai principi di neutralità e di proporzionalità.
La disciplina in esame, infatti, altera il regime di neutralità dell’imposta e non rispetta alcuna proporzionalità, assumendo - invece - caratteri sanzionatori e finalità punitive verso le società di mero godimento.
Aver previsto un regime di limitazione alla detrazione configura, inoltre, anche una espressa violazione delle disposizioni europee della direttiva IVA (artt. 176, 177, direttiva n. 112/2006) che recano le deroghe al diritto alla detrazione che gli Stati membri possono introdurre.
Le deroghe in esame sono ammissibili in caso di motivi congiunturali, di ragioni finalizzate alla semplificazione della riscossione o giustificate dall’esigenza di evitare frodi o abusi.
Nel caso analizzato non ci troviamo in nessuna delle ipotesi suddette, avendo del tutto escluso che le società di comodo si collochino nell’area delle violazioni fiscali o delle condotte fraudolente.
Ne emerge, conseguentemente, come la disciplina IVA prevista per le società di comodo presenti evidenti profili di incompatibilità europea.
6. Le incoerenze del test di operatività e il regime della prova contraria, quali ulteriori indici della incompatibilità della disciplina.
Una questione di fondo che ricorre nei motivi sottoposti al vaglio della Corte di Giustizia si rinviene nella comprensione dell’attitudine del test di operatività a dimostrare la qualità di società di mero godimento dell’ente e di sostenere le conseguenze giuridiche che seguono a tale qualifica.
Si tratta di una questione di ampio respiro che trascende gli aspetti IVA e coinvolge la disciplina generale delle società di comodo[13]. La questione si sostanzia, infatti, nella ragionevolezza del test ovvero nella sostenibilità del giudizio inferenziale sottostante la presunzione di ricavi.
Nella formulazione dei quesiti si rinviene anche una ulteriore prospettiva, anch’essa di rilievo generale. Si chiede, infatti, se le conseguenze del test siano sostenibili anche nel caso in cui il contribuente non sia in grado di dimostrare “l’esistenza di oggettive situazioni ostative”. Si comprende, quindi, come implicitamente sia chiamato in causa il regime della prova contraria.
Entrambi gli aspetti sono fondamentali nella materia delle società di comodo e da sempre molto discussi; una loro trattazione specifica coinvolge differenti principi generali della materia tributaria e - come tale - esula dalle finalità della presente riflessione.
Alla luce di ciò si effettueranno alcune brevi considerazioni che possono migliorare l’inquadramento della questione oggetto di cognizione.
I due temi indicati sono differenti ma risultano ontologicamente collegati, dal momento che l’idoneità del test a dimostrare l’esistenza delle società di comodo appare rinforzata se esiste un adeguato regime della prova contraria; in senso opposto, senza un effettivo sistema di difesa, i problemi del test si acuiscono in quanto le risultanze dello stesso assumono caratteri di incontrovertibilità in capo ai contribuenti.
Con riguardo specifico al test, sono state messe in luce nel tempo alcune lacune, relative soprattutto alla base logica ed alle modalità con cui lo stesso è stato costruito.
Sono emersi dubbi sull’esistenza effettiva di una connessione così diretta tra beni patrimoniali detenuti dall’impresa e ricchezza prodotta dagli stessi nonché sulla possibilità di esprimere tale connessione attraverso una presunzione di redditività costante[14].
In tal senso numerose critiche sono state rivolte soprattutto ai coefficienti utilizzati, ritenuti privi di alcuna ragionevolezza e attendibilità dimostrativa.
Più in particolare, il test di operatività è stato messo a punto con una costruzione giuridica di tipo inferenziale che - partendo da un dato noto, costituito dai beni patrimoniali detenuti dalla società - ha definito un livello di ricavi presunto, attraverso la tecnica della predeterminazione normativa[15].
Il risultato che ne è conseguito costituisce un valore presunto di tipo logico e di fonte normativa, cioè desunto in base a calcoli e valutazioni numerico probabilistiche. La predeterminazione è stata definita secondo criteri di medietà e di apoditticità ovvero i beni patrimoniali sono computati al loro valore medio, stabilito con riguardo all’esercizio in corso ed ai due precedenti (medietà) ed a tali valori sono poi applicati coefficienti individuati dalla legge che esprimono la misura della possibile redditività ritraibile dai beni patrimoniali.
Tali percentuali non risultano collegate rispetto ad accadimenti esterni o ad elementi reali riferibili ai valori presi in esame; in questo senso si qualificano come apodittici, in quanto sono posti dalla legge senza un collegamento con il fatto imponibile[16]. Il procedimento descritto ha destato molte critiche, in relazione soprattutto alla sostenibilità logica e giuridica del risultato prodotto al suo esito.
Si comprende, pertanto, come - anche in relazione a tale aspetto - i dubbi sollevati dalla Suprema Corte siano condivisibili.
Con riguardo alla disciplina della prova, si precisa che quest’ultima è stata oggetto di continue modificazioni negli anni[17].
Si premette che l’area normativamente prevista in ordine ai contenuti della prova contraria risulta astrattamente ampia ed articolata; si ricorda, infatti, come siano previste diverse tipologie di cause di esclusione espresse, al cui ricorrere la società è estromessa automaticamente dall’area delle società di comodo. A queste ultime si affianca anche una causa generale, dal contenuto non predeterminato, destinata a consentire la dimostrazione di tutte quelle fattispecie verificabili nella realtà che non sono oggetto di una causa espressa.
In tal senso, partendo da un assetto normativo potenzialmente congruo e ragionevole, i problemi che si sono registrati negli anni hanno riguardato le diverse discipline che hanno regolato le modalità di dimostrazione della prova contraria in sede procedimentale e le interpretazioni rigorose che si sono consolidate in seno alla giurisprudenza ed alla Amministrazione finanziaria in relazione al contenuto della prova stessa.
Focalizzando la nostra attenzione sul momento in cui si è sviluppata la controversia in esame, si ritiene che la possibilità di rendere una prova contraria da parte della società appaia pregiudicata da alcuni fattori.
Nella suddetta fase storica era previsto un obbligo di presentazione dell’istanza di interpello per tutti coloro che intendessero fornire la suddetta prova contraria, senza ulteriori possibilità nel caso in cui il contribuente non avesse inoltrato tempestivamente l’istanza o avesse ricevuto un diniego espresso. Il regime era molto limitativo e riduceva le possibilità di tutela delle società. Attualmente tale assetto è stato superato da una normativa maggiormente garantistica[18].
Allo stesso tempo, nella medesima fase storica, si era consolidata un’interpretazione sul contenuto della prova contraria molto limitante, che faceva leva sul dato letterale (previsto dalla norma) relativo alle circostanze “oggettive” che avevano causato i mancati ricavi.
L’Amministrazione finanziaria sosteneva che la natura oggettiva delle circostanze (che valevano ad escludere una società dall’ambito di applicazione della disciplina) qualificasse solo fattispecie in cui non si riscontrasse in alcun modo una volontà della società nel mancato ottenimento dei traguardi imprenditoriali. Nelle diverse circolari sull’argomento, si rilevava come risultasse essenziale dimostrare che l’incapacità di produrre ricavi non fosse dipesa da scelte antieconomiche del contribuente ma da eventi o circostanze oggettive, anche successive nel tempo[19].
Anche in sede giurisprudenziale si era sposata questa ricostruzione, sottolineando la necessità che l’assenza di ricavi non discendesse da scelte imprenditoriali del contribuente[20].
La suddetta posizione portava all’ammissione nell’ambito della disciplina in esame di imprese commerciali nelle quali si erano effettuate scelte non virtuose da un punto di vista economico, che avevano determinato risultati scarsi in termini di realizzazione di presupposti di imposta.
L’evoluzione della disciplina connessa ai problemi dell’economia italiana - che da decenni vive momenti di recessione - ha condotto da qualche anno ad un superamento definitivo di tale posizione[21].
Attualmente le situazioni oggettive costituiscono elementi e fatti di ogni tipo che siano oggettivamente verificabili e discendano sia da fattispecie indipendenti dalla volontà delle parti, sia da scelte effettuate dall’imprenditore che si siano rivelate non virtuose o antieconomiche.
Ne consegue come, con riferimento alla disciplina vigente al momento in cui si è verificata la fattispecie oggetto di cognizione, sia le modalità di dimostrazione della prova contraria che le interpretazioni consolidate in sede giurisprudenziale definissero un sistema presumibilmente lesivo del canone dell’effettività, secondo la prospettiva europea.
Tale assetto sostiene le riflessioni raggiunte in precedenza, ammettendo che il sistema di accesso alla normativa delle società di comodo e il regime della prova potevano definire conseguenze inaccettabili in capo alle società contribuenti, che realizzavano evidenti violazione dei principi di soggettività, di proporzionalità e di neutralità IVA.
7. Conclusioni
La normativa sulle società di comodo recata nell’art. 30 della L. n. 724/1994 - se finalizzata ad individuare le società di mero godimento di beni patrimoniali, come si ritiene - risulta registrare con riguardo all’IVA dei presunti profili di incompatibilità europea, come l’acuta ordinanza della Corte di Cassazione pone in luce.
Le società di mero godimento non possono essere soggetti IVA; pertanto, se l’esito del test di operatività conferma la natura di godimento, le medesime società dovrebbero essere estromesse dal campo di applicazione dell’imposta.
Ne consegue l’assoluta incoerenza degli attuali regimi IVA (riferiti alle società di comodo) che limitano una parte delle prerogative dell’imposta in capo a società che rimangono a tutti gli effetti soggetti IVA. Tale disciplina definisce, al contempo e per le medesime ragioni, una lesione dei principi di neutralità e di proporzionalità dell’imposta.
L’assetto descritto risulta ancora più irragionevole se si valuta la coerenza logica del test di operatività e l’effettività della disciplina della prova contraria nella fase storica in cui si è originata la controversia. Tali fattori qualificavano, nella loro coesistenza ed alla luce di interpretazioni consolidate (ed oggi superate), un sistema ove poteva risultare complesso per le società contribuenti dimostrare le ragioni della non operatività, con la conseguenza - ancora più grave - che imprese commerciali rischiavano di restare imbrigliate nelle maglie della disciplina delle società di comodo.
Si configurava una situazione in cui il test di operatività e la disciplina della prova contraria non erano in grado di identificare effettivamente le società non operative nel mondo giuridico, determinando - quale effetto – un’ulteriore, e ancor più grave, violazione dei principi di soggettività, di neutralità e di proporzionalità IVA.
La disciplina analizzata, infatti, risulta irragionevole ed incoerente se rivolta alle società di mero godimento, ma assume effetti persecutori e vessatori se riferita a società commerciali.
Nelle more della pronuncia della Corte di Giustizia non si può quindi far altro che condividere la posizione della Suprema Corte, che con la presente ordinanza fotografa solo alcune delle incoerenze di una normativa da sempre discussa e molto problematica.
[1] La disciplina in materia di società di comodo è stata oggetto di critiche e censure da parte di unanime dottrina. Tra i numerosi contributi sul tema, cfr. F. Tesauro, Prefazione, in Le società di comodo. Regime fiscale e scioglimento agevolato, all. il fisco, 1995, n. 22, p. 9; G. Falsitta, Le società di comodo e il paese di Acchiappacitrulli, in G. Falsitta, Per un fisco civile, 1996, p. 12; L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., in Le società di comodo, a cura di L. Tosi, Padova, 2008, p. 5; M. Beghin, Le società “immobiliari” di comodo, la compravendita di fabbricati e la presunzione di occultamento del corrispettivo nel limbo delle quotazioni omi (osservatorio del mercato immobiliare), in AA.VV., Le società di comodo, cit., p. 78; R. Schiavolin, Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo, a cura di L. Tosi, Padova, 2008, p. 59; R. Lupi, Le società di comodo come disciplina antievasiva, in Dialoghi dir. trib., 2006, p. 1097; M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, in riv. dir. fin. sc. fin, 4/2010, p. 501; G. Melis, Disciplina delle società di comodo e presunzione di evasione: non sarà forse l’ora di eliminarla?, in Dialoghi dir. trib., 2006, p. 1325; R. Miceli, Società di comodo e Statuto fiscale dell’impresa, Ospedaletto (Pisa), 2017, passim.
[2] Come evidenziato nella pronuncia in esame, l’unica valutazione europea in merito alla disciplina recata nell’art. 30, L. 23.12.1994, n. 724 si rinviene in una interrogazione alla Commissione (n. P-9064/2010) alla quale è stata fornita la risposta del 30.11.2010, P-9064/10IT. In tale sede si è ritenuto che la circostanza in base alla quale l’ammissione al regime non fosse automatica, ma basata su accertamenti compiuti dalle autorità giudiziarie, rendesse tale disciplina allineata al principio di proporzionalità. Si è, tuttavia, trattato di una mera risposta della Commissione sulla base del dato normativo, in merito alla quale non è stata effettuata una istruttoria sul punto.
[3] Si precisa che attualmente la disciplina si è modificata ed i presupposti di accesso sono, oltre a quello relativo al mancato superamento del test di operatività, quello della chiusura di cinque periodi di imposta con una perdita di esercizio nonché quello della medesima chiusura di quattro esercizi consecutivi con una perdita di esercizio e il mancato raggiungimento del valore del reddito minimo per il quinto periodo di imposta. Cfr. art. 30, L. 23.12.1994, n. 724; art. 2, comma 36 decies e undecies, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 convertito con modificazioni nella L. 14 settembre 2011, n. 148.
[4] Si annoverano, infatti, le cause di esclusione stabilite dalla legge; le cause di disapplicazione sancite dai decreti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate; la causa generale di non applicazione (ex art. 30, comma 4 ter, L. n. 724/1994).
[5] Cfr. R. Miceli, Società di comodo e Statuto fiscale dell’impresa, cit., pp. 87, 110, 183.
[6] Si rileva come vi siano state diverse difficoltà di definire una ricostruzione convincente della disciplina delle società di comodo, in quanto la stessa sembrava raccogliere diverse finalità, talora anche fra di loro contrastanti. In tal senso si è anche ammesso che la disciplina fiscale sulle società di comodo potesse rispondere ad una pluralità di funzioni, rappresentando un caso di “polimorfismo normativo”. Cfr. M. Beghin, Le società “immobiliari” di comodo, la compravendita di fabbricati e la presunzione di occultamento del corrispettivo nel limbo delle quotazioni omi (osservatorio del mercato immobiliare), in AA.VV., Le società di comodo, cit., p. 78. Secondo altra prospettazione la disciplina in esame, presentando diverse incoerenze di fondo, sarebbe stata espressione di esigenze di cassa dello Stato basate su un esclusivo interesse fiscale. Cfr. R. Schiavolin, Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo, cit., p. 59; D. Stevanato, “Società di comodo” un capro espiatorio buono per ogni occasione, in Corr. trib., 2011, p. 2889; Id., Società di comodo, orrore senza fine: da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a tributo extrafiscale sul patrimonio, in Dialoghi trib., 2014, p. 133.
[7] In particolare, F. Tesauro, Prefazione, cit., p. 9; G. Falsitta, Le società di comodo e il paese di Acchiappacitrulli, cit., p. 12; M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, cit., p. 501; L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, cit, p. 52; R. Lupi, Le società di comodo come disciplina antievasiva, cit., p. 1097; G. Melis, Disciplina delle società di comodo e presunzione di evasione: non sarà forse l’ora di eliminarla?, cit., p. 1325.
[8] Cfr. L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, cit., p. 52; R. MICELI, Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, cit., p. 192.
[9] Nel nostro sistema fiscale l’applicazione dello statuto dell’impresa (ovvero della disciplina del reddito di impresa) è fisiologica per tutte le società di tipo commerciale in virtù della presunzione di commercialità e del principio di attrazione (ex artt. 6 e 81, TUIR, D.P.R. n. 917/1986); si comprende pertanto perché sorga la necessità di un correttivo per le società che detengono patrimoni e sono improduttive di presupposti compatibili con la ratio impositiva del reddito di impresa.
[10] In tale assetto viene ammessa, in recepimento di una consolidata normazione tributaria, la società semplice di mero godimento dei beni, che costituisce la presa d’atto di un fenomeno, ormai ineliminabile nel sistema giuridico, di gestione di patrimoni attraverso la forma della società.
[11] In particolare, le note pronunce CGUE 20 giugno 1991, C-60/90, causa Polisar e successivamente, CGUE 27 novembre 2001, C-16/00, causa Cibo Partecipation che hanno definito tale posizione, oggi consolidata. Cfr., le più recenti, CGCE 13.6.2019, C-420/18; CGCE 20.1.2021, C-655/19, causa AJFP Sibiu e DGRFP Brasov.
[12] La riforma è stata attuata con il D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 313, in applicazione della delega contenuta nell’art. 3 della L. 23 dicembre 1996, n. 662, che ha condotto all’introduzione del comma 5 dell’art. 4 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 63.
[13] La questione in esame, infatti, è da sempre analizzata con riferimento alle imposte sul reddito la cui determinazione è effettuata in ossequio alla stessa disciplina del test di operatività e sulla base dei valori numerici che emergono da quest’ultimo. I problemi del test, pertanto, coincidono con quelli relativi alla determinazione delle imposte dirette.
[14] Così L. Tosi, Relazione illustrativa: la disciplina delle società di comodo, cit., p. 6, il quale evidenzia come la disciplina del test di operatività si basi su passaggi – logici, economici, giuridici – privi di una reale dimostrazione. Si tratta di “coefficienti molto rozzi, che non hanno alcun supporto dimostrativo”, “tali coefficienti non sono il frutto di alcuna indagine scientifica o vero studio statistico”. Nel medesimo senso M. Beghin, Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, cit., p. 716.
[15] Cfr. L. Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Torino, 1999, p. 14.
[16] Cfr. L. Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, cit., p. 19.
[17] Per un excursus su tale tema, cfr. R. Miceli, Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, cit., cap. 3, p. 66.
[18] Nel 2015 a seguito della riforma generale dell’istituto dell’interpello (Titolo I, del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156), sono state apportate modifiche alla disciplina delle società di comodo. Attualmente il contribuente, nei cui confronti non ricorrano le cause di esclusione espresse (cause di esclusione previste dalla legge ovvero cause di disapplicazione contenute nei provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate), che ritenga comunque di non essere destinatario della disciplina delle società di comodo, in quanto nei suoi confronti opera la causa generale relativa alle oggettive situazioni ha facoltà di adire l’Amministrazione finanziaria, utilizzando il procedimento di interpello probatorio ex art. 11, comma 1, lett. b) della L. 27 luglio 2000, n. 212 ovvero di non applicare la disciplina, rilevando la ricorrenza della suddetta causa in sede di dichiarazione. Il contribuente può, altresì, non applicare la normativa anche laddove ad esito del procedimento di interpello probatorio sia stato emesso un diniego espresso. Il diniego di interpello non preclude, infatti, la facoltà di non applicare la disciplina in dichiarazione e, in caso di avviso di accertamento, emesso a seguito di indagini da parte dell’Amministrazione finanziaria, rimane sempre possibile l’impugnazione dinanzi alle Commissioni tributarie.
[19] Le circolari che hanno affrontato il tema del contenuto delle oggettive situazioni sono: circ. 2 febbraio 2007, n. 5/E; circ. 9 luglio 2007, n. 44/E; circ. 26 febbraio 1997, n. 48/E. Sul punto si sottolinea che nella Relazione ministeriale di accompagnamento all’art. 27, del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito con modificazioni nella L. 22 marzo 1995, n. 85 (relativo alla prima versione della norma sulle società di comodo), si stabiliva che “la prova contraria deve essere sostenuta da una situazione oggettiva ed essa non è determinabile dalla volontà dell’imprenditore, neppure attraverso la contabilità di supporto”.
[20] Cfr., ex pluribus, Cass. 21 ottobre 2015, n. 21358.
[21] Cfr. R. Miceli, La disciplina delle società di comodo e il rilievo delle scelte imprenditoriali, in Riv. trim dir. trib., 2020, p. 213. Il cambiamento di rotta avviene nel 2019 con Cass. 12.2.2019, n. 4019.
The Western Must Go On: la Corte suprema statunitense difende, e rafforza, il diritto individuale di portare armi
di Paolo Passaglia
Sommario: 1. Premessa - 2. Una previsione costituzionale da interpretare - 3. L’interpretazione della Corte suprema federale (e il punto che restava da chiarire) - 4. La nuova decisione - 5. E adesso?
1. Premessa
Tra gli studiosi di diritto comparato è assolutamente condiviso il riconoscimento di una «tradizione giuridica occidentale» che collega, attraverso radici comuni e un patrimonio di principi condiviso, le due rive dell’Oceano Atlantico (cfr., ad es., V. Varano – V. Barsotti, La tradizione giuridica occidentale, VII ed., Torino, Giappichelli, 2021). Contestare una tale ricostruzione sarebbe errato, ancor prima che velleitario; eppure, non può negarsi che taluni elementi mostrano un divario come minimo rimarchevole tra gli Stati Uniti (in particolare) e gli ordinamenti europei. Il riferimento non va, ovviamente, a elementi di contorno o a regolamentazioni specifiche, ma punta dritto verso alcuni cardini della convivenza civile, come quello dell’intangibilità della vita (che la pena di morte ovviamente ex se disconosce) e quello del tendenziale monopolio della forza in capo ai pubblici poteri.
Su questo secondo elemento, e della incrinatura che vi apporta il diritto di detenere e portare armi, ci si soffermerà brevemente in queste righe, occasionate da una recente sentenza della Corte suprema federale statunitense, la quale, il 23 giugno scorso, ha deciso il caso New York State Rifle & Pistol Association, Inc. v. Bruen, n. 20-843, con una pronuncia all’insegna di una liberalizzazione invero sconcertante; sconcertante quasi quanto lo è la chiusura oscurantista che la stessa Corte, il giorno successivo, ha manifestato nei confronti del diritto all’aborto (cfr. la sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, n. 19-1392).
Prima di dar conto della posizione assunta da ultimo dalla Corte, conviene ricapitolare il quadro costituzionale, per poi appuntare l’attenzione sull’impatto che ha avuto la giurisprudenza nel recente passato.
2. Una previsione costituzionale da interpretare
Il diritto di detenere e portare armi è riconosciuto dal Secondo Emendamento alla Costituzione federale, che fa parte del c.d. Bill of Rights, cioè dei dieci emendamenti adottati a integrazione della Costituzione ed entrati in vigore già nel 1791.
Il Secondo Emendamento è sicuramente uno dei più complessi da interpretare. Così recita: «Essendo necessaria, per la sicurezza di uno Stato libero, una Milizia ben organizzata, non sarà violato il diritto del popolo di detenere e portare armi». La formulazione del testo è oggettivamente ambigua, segnatamente per quel che attiene ai rapporti tra le due proposizioni. Non a caso, nel novero delle molte interpretazioni che sono state avanzate, possono individuarsi due grandi categorie, corrispondenti a due diversi modi di intendere i rapporti tra la «milizia» e il diritto di detenere e portare armi.
Secondo una lettura che, nel corso del XX secolo, pareva dovesse finire per prevalere, la prima sarebbe un presupposto del secondo: l’Emendamento mirerebbe, in sostanza, a proteggere gli Stati (anche contro la Federazione), garantendo loro il diritto di creare una milizia popolare; ma perché quest’ultima possa anche solo ambire ad avere una qualche efficacia, i suoi componenti debbono poter brandire le armi. Detenere e portare armi non sarebbe, dunque, un diritto individuale, ma semplicemente un diritto funzionale alla partecipazione a una milizia, senza la quale il diritto non sussisterebbe.
Una diversa lettura scinde chiaramente le due proposizioni, rendendole di fatto autonome. Così, da un lato, gli Stati avrebbero il diritto di creare una milizia, mentre, dall’altro, gli individui avrebbero quello di detenere e portare armi (per una sintetica ma efficace ricostruzione delle principali tematiche connesse al diritto a portare armi, v., di recente, in lingua italiana, E. Grande, Stati Uniti: le armi da fuoco, le stragi e un diritto da Far-West, in Questione Giustizia, 12 settembre 2018).
3. L’interpretazione della Corte suprema federale (e il punto che restava da chiarire)
La contrapposizione tra le due evocate letture (recte, tra le molteplici letture riconducibili, talora non senza forzature, alle due categorie suddette) ha dato adito a un dibattito che si è sviluppato per oltre due secoli, non potendosi riscontrare, nella prassi e, soprattutto, nella giurisprudenza della Corte suprema federale, una presa di posizione chiara.
Una tale presa di posizione si è, infine, avuta, nel 2008, con la sentenza sul caso District of Columbia v. Heller (554 U.S. 570), dove si è affermato in modo inequivocabile che il Secondo Emendamento protegge il diritto individuale di detenere armi da fuoco, a prescindere dal servizio che si presti in una milizia. Scrivendo la opinion della maggioranza (5 giudici contro 4), il giudice Scalia, noto per le sue posizioni conservatrici, ha sottolineato che il diritto di detenere armi doveva coniugarsi a quello di usarle per finalità tradizionalmente legittime, come in particolare l’autodifesa presso la propria abitazione.
La sentenza ha offerto un sostegno giuridico fondamentale perché le armi potessero continuare a circolare negli Stati Uniti in misura incommensurabilmente maggiore rispetto agli altri sistemi occidentali (e non solo): il semplice fatto di poter detenere armi apre, infatti, ampie possibilità di acquistarle. Al punto che, nella stessa sentenza, il giudice Scalia ha ritenuto opportuno precisare che quanto veniva allora stabilito dalla Corte non poteva in alcun modo porre in dubbio «i divieti vigenti da lungo tempo in merito al possesso di armi da fuoco da parte di pregiudicati o malati mentali» oppure le leggi che vietassero «di portare armi da fuoco in luogo sensibili, come le scuole o gli edifici dei pubblici poteri» o ancora le leggi che imponessero «condizioni e qualifiche per la vendita commerciale di armi» (p. 624 s.). Del pari, si è avvertita l’esigenza di chiarire che il diritto di portare armi dovesse essere inteso come riferito ad armi «di uso comune», e che quindi non si estendesse anche alle armi «pericolose e inusuali» (p. 625), evidentemente sull’assunto che esistano armi «non pericolose»…
Al di là di queste precisazioni, pure non secondarie, e di altre intervenute successivamente (con la sentenza McDonald v. City of Chicago, 561 U.S. 742, del 2010, in cui si è rilevato che, non solo la Federazione, ma anche gli Stati debbono ritenersi vincolati all’esistenza di un diritto individuale, con il che la sentenza Heller si applica anche ad essi), un aspetto centrale della tematica era rimasto impregiudicato: la sentenza affermava un diritto (quello di detenere individualmente armi), ricavandone un corollario piuttosto specifico (l’autodifesa domestica), senza prendere posizione sulla possibilità di circolare con le armi detenute. Si confermava, certo, l’esclusione della possibilità di accedere a luoghi «sensibili», ma nulla si era detto con riferimento alla circolazione nello spazio pubblico «non sensibile».
4. La nuova decisione
È precisamente la questione della circolazione con armi nello spazio pubblico l’oggetto del recente intervento della Corte suprema. Un intervento che è giunto in un contesto ancora fortemente segnato dalla strage compiuta in una scuola elementare del Texas il 24 maggio, costata la vita a 19 bambini e 2 insegnanti (oltre che all’autore della strage). L’episodio, tra i più gravi avvenuti in una scuola nella storia americana, aveva condotto il Presidente Biden a formulare una ferma condanna dell’inerzia della classe politica, criticata per non aver introdotto limitazioni reali all’utilizzo delle armi, essendo incapace di opporsi alla lobby dei produttori (cfr. Remarks by President Biden on the School Shooting in Uvalde, Texas, 24 maggio 2022). La tradizionale contrapposizione tra Democratici (tendenzialmente favorevoli al controllo delle armi) e Repubblicani (tendenzialmente contrari), sembrava che, almeno in parte, potesse essere superata proprio in virtù dell’ondata emozionale creata dalla strage.
Nel frattempo, era in corso il giudizio di fronte alla Corte suprema nel quale veniva contestata, nello specifico, la legge dello Stato di New York che criminalizzava il possesso di armi da fuoco senza licenza: per poter circolare armato fuori dalla propria abitazione, un individuo doveva infatti ottenere una speciale autorizzazione, per la quale si rendeva necessaria l’esistenza di una «proper cause», consistente nella possibilità di «dimostrare un bisogno speciale di autodifesa, distinguibile da quello della generalità dei consociati».
La maggioranza conservatrice della Corte suprema, composta da tre giudici nominati dal Presidente Trump, due dal Presidente G.W. Bush e uno dal padre di quest’ultimo (il Justice Thomas, redattore della Opinion of the Court), si è pronunciata nel senso che il prescritto requisito della «proper cause» era lesivo del diritto di detenere e portare armi, poiché impediva ai cittadini rispettosi della legge di soddisfare le normali necessità legate all’autodifesa.
Il punto di partenza dell’argomentazione della Corte è stato che «[n]iente nel testo del Secondo Emendamento traccia una distinzione tra casa e spazio pubblico con riguardo al diritto di detenere e portare armi» (p. 23). Questa affermazione ha trovato sostegno in un ampio e analitico excursus storico, dal quale si è potuto peraltro trarre una conferma evidente della prevalenza in seno alla attuale Corte della tendenza originalista, sulla cui base l’interpretazione della Costituzione deve essere operata principalmente attraverso il canone storico (sul tema, v. G. Romeo, L’argomentazione costituzionale di common law, Torino, Giappichelli, 2020, spec. p. 125 ss.). Si è giunti quindi a rimarcare, riprendendo anche quanto già affermato nelle sentenze del 2008 e del 2010, che «il diritto costituzionale di portare armi in pubblico per autodifesa non è “un diritto di secondo grado, soggetto a un corpus di regole totalmente diverso da quello delle altre garanzie del Bill of Rights”» (p. 62; la citazione è tratta dalla precitata sentenza McDonald, p. 780). In tal senso, non è dato riscontrare alcun diritto costituzionale che un individuo possa esercitare «solo dopo aver dimostrato ai pubblici ufficiali qualche esigenza speciale» (p. 62 s.).
Non è probabilmente da trascurare che uno dei giudici di maggioranza, Justice Kavanaugh, abbia precisato, nella sua opinione concorrente (sottoscritta anche dal Chief Justice Roberts), che la declaratoria di incostituzionalità doveva ritenersi rivolta, non tanto alle regolamentazioni che prevedessero un sistema di autorizzazione, ma semmai a quelle che lasciassero all’amministrazione – come era nel caso di New York – una discrezionalità eccessiva nella decisione circa il rilascio o il mancato rilascio. In proposito, dunque, è rimasta una qualche incertezza, visto che la Opinion of the Court non conferma né smentisce questa impostazione.
Al di là di questo aspetto specifico, deve riconoscersi che, sul piano dell’interpretazione costituzionale, la posizione assunta dalla Corte appare tutto sommato logica. Per meglio dire, date le premesse delle decisioni del 2008 e del 2010, la decisione in esame non segna una discontinuità, ma, semmai, si pone all’interno di un alveo già tracciato. Il vero pregiudizio per le posizioni favorevoli al controllo delle armi risale, infatti, alla sentenza Heller; le successive possono essere accolte con disappunto, ma solo perché non invertono una rotta che una parte (crescente) dell’opinione pubblica ritiene inopportuna, per non dire pericolosa per l’incolumità pubblica.
Non è probabilmente un caso se il Justice Breyer, nel redigere l’opinione dissenziente su cui sono confluiti i tre giudici liberal della Corte, ha posto in rilievo soprattutto le conseguenze sociali della posizione assunta dalla maggioranza. Perché il punto era proprio quello di valutare l’impatto avuto dall’atteggiamento permissivo espresso dalla Corte nel 2008, onde riconoscere la necessità di operare una rivisitazione di quella giurisprudenza, per meglio contenere un diritto tanto pericoloso quanto quello di portare armi. La corrispondenza, su cui Breyer ha insistito molto, tra diffusione delle armi e numero di morti violente avrebbe dovuto, a suo avviso, condurre la Corte a optare per un approccio restrittivo.
5. E adesso?
Il fatto che, non solo non sia avvenuto quanto auspicato dalla minoranza della Corte, ma che sia avvenuto esattamente il contrario, nonostante il clima politico e sociale in cui la decisione è stata resa, getta una luce sinistra sulla futura diffusione delle armi nella società statunitense.
Al riguardo, se è vero che il Senato federale sembra aver finalmente mutato atteggiamento, essendosi immediatamente mosso, con la presentazione di un progetto di legge bipartisan per il controllo delle armi (tale intervento ha ricevuto il plauso anche da parte del Presidente Biden: cfr. Statement by President Biden on the Senate Passage of Bipartisan Gun Legislation, 23 giugno 2022), non può negarsi che l’iniziativa possa essere, al massimo, il primo passo di una problematica contrapposizione della Corte suprema, che rinnova l’interrogativo, mai del tutto risolto, circa chi tra la Corte suprema e il Congresso democraticamente eletto sia l’organo legittimato a dire l’ultima parola sull’interpretazione della Costituzione.
Intanto, però, la sentenza in esame è destinata a spiegare effetti non trascurabili, presumibilmente nel segno di confermare (anzi, addirittura di agevolare) la possibilità, in tutti gli Stati degli Usa, di andare in giro con una pistola. Un’arma «normale», come lo era già nel Far West, stando almeno alle immagini che la cinematografia ci ha proposto per lungo tempo.
Acrobati in bilico sul filo di una identità provvisoria: le risposte del diritto e della psicologia alle richieste di cambiamento di genere
di Cinzia Tobino[1] e Santo Di Nuovo[2]
Sommario: 1. Cambiare genere: norme giuridiche e procedure psicologiche - 2. La valutazione psicodiagnostica: quali criteri? - 3. Identità stabile o flessibile? - 4. Identità personale e identità di genere: come valutare? - 5. Per concludere (e continuare…).
1. Cambiare genere: norme giuridiche e procedure psicologiche
Quarant’anni fa la legge 164/1982 fissò le norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, “a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”. Il D. Lgs n. 150 del 2011 ha modificato sostanzialmente questa impostazione prevedendo che la persona che vive come irreversibile l’acquisizione del cambiamento di genere può cambiare il sesso anagrafico anche senza intervento chirurgico, da autorizzare solo se ritenuto necessario.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 221 del 2015, confermando la non obbligatorietà dell’intervento chirurgico (come già aveva fatto la sentenza di Cassazione n. 15138/2015), ha riconosciuto il diritto all'identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all'identità personale, rientrante a pieno titolo nell'ambito dei diritti fondamentali della persona garantiti dall'art. 2 della Costituzione e dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani. “Il Giudice può rilevare il completamento della transizione laddove la persona interessata abbia già esercitato in maniera definitiva il proprio diritto all’identità di genere (ad esempio, manifestando la propria condizione nella famiglia, nella rete degli affetti, nel luogo di lavoro, nelle formazioni di partecipazione politica e sociale), ancorché senza interventi farmacologici o chirurgici sui caratteri sessuali secondari”.
Affinché il diritto al cambiamento di identità sia garantito anche sul piano economico, dal 2020 le terapie ormonali possono essere a carico del SSN.
Riguardo la diagnosi psicologica, il percorso di valutazione si può intraprendere presso strutture pubbliche che al termine del percorso rilasciano una relazione da produrre al Tribunale. Le strutture del SSN utilizzano dei protocolli standard per i professionisti coinvolti: psichiatri, psicologi, endocrinologi. Queste produzioni documentali sono in genere ritenute sufficienti dai tribunali senza procedere ad ulteriori C.T.U.
Tanti cambiamenti sono sopravvenuti dopo la legge 164/1982 anche nelle procedure di valutazione diagnostiche, a seguito dei dibattiti sui mutamenti classificatori e nosografici[3]. Uno specifico protocollo per l’iter sanitario è stato proposto nel 2009 dall’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (ONIG)[4] Il protocollo recepisce e adatta le linee guida internazionali della World Professional Association for Transgender Health (WPATH), giunte adesso alla 7a edizione[5].
È prevista preliminarmente l’analisi della domanda e valutazione dell’eleggibilità per il percorso di cambiamento, vengono descritti i possibili iter di affermazione del genere, il periodo di follow-up o valutazione a distanza. In generale, il protocollo prevede di “utilizzare nella propria pratica clinica un’ottica de-patologizzante, ovverosia un’offerta di presa in carico rispettosa, consapevole e supportiva delle identità e delle esperienze di vita delle persone transgender e “gender nonconforming”.
Va tenuto conto anche della necessità di valutare le differenze tra chi persegue il cambiamento di identità di genere ma senza arrivare a chiedere modificazioni biologiche, e il transessuale che invece vuole un cambiamento esteso definitivamente al fisico e all’identità sociale, e dunque accede alle procedure endocrinologiche e/o chirurgiche oltre a chiedere la riassegnazione del genere anche sul piano anagrafico.
2. La valutazione psicodiagnostica: quali criteri?
La valutazione psicodiagnostica richiesta per l’accesso agli interventi di modificazione biologica ha rivelato un ambito clinico peculiare in cui convergono problematiche di rilievo non solo psicologico. L’incongruenza di genere[6] si pone infatti al confine tra il disagio e la rivendicazione, in un’area dai confini sfumati che attraversa clinica, diritto, cultura, etica.
Il clinico cui arriva la richiesta di valutazione psicologica della persona con incongruenza di genere si trova ad operare su un terreno sdrucciolevole, in cui non sono chiari i criteri cui riferirsi e neppure la direzionale verso cui eventualmente indirizzarli: se infatti una diagnosi di ‘disforia’ permette l’accesso al percorso di transizione, un ‘eccesso di disforia’ potrebbe porre rischi di incompatibilità con la terapia ormonale oppure con la rettifica chirurgica permanente.
C’è una ambiguità originaria nella domanda stessa di valutazione, cioè nell’obiettivo da perseguire: qual è il criterio di inclusione, quale “chiave di accesso” permette l’inclusione nel percorso di transizione? Il disagio, o l’assenza di disagio? O un punto medio in cui la sofferenza per un’identità di genere in cui non ci si riconosce non compromette l’adattamento, non interferisce su un generale equilibrio emotivo?
Il quesito iniziale dunque riguarda l’obiettivo della valutazione psicologica delle persone che desiderano e decidono di intraprendere un percorso di “affermazione dell’identità di genere”.
Cosa valutare? Diverse le opzioni praticabili, ciascuna delle quali ne richiede un’altra di ordine superiore:
1. Opportunità/ necessità dell’intervento.
2. Capacità di auto discernimento e di autovalutazione, capacità di assunzione di responsabilità nel richiedente.
3. Individuazione dell’incongruenza di genere come categoria di disagio distinta da altre categorie diagnostiche e/o condizioni di disagio legate a problematiche di identità tout court, quali la diffusione dell’identità o identità non integrata, o l’identità ‘liquida’ nella sua accezione disadattiva, che potrebbe essere prognostica di disturbi depressivi o addirittura psicotici dopo il cambiamento definitivo[7].
Le cose si complicano ulteriormente: occorre scorporare l’identità di genere dal costrutto sovraordinato di identità, e ripensare l’identità di modo che lo squilibrio, la transizione e il cambiamento possano essere assimilati e gestiti senza dover chiamare in causa un ‘disturbo’ dell’identità.
3. Identità stabile o flessibile?
Secondo Bauman[8] «il “moderno problema dell’identità” riguardava come costruire un’identità e mantenerla solida e stabile, il “problema postmoderno dell’identità” riguarda primariamente come evitare la solidificazione e lasciare aperte le opzioni».
Molti aspetti teorici però confliggono non poco con questa impostazione: ad esempio quelli che pongono a fondamento dell’identità un nucleo profondo, che la identificano come costrutto stabile.
Sin dai tempi più remoti si è apologizzato sulle identità variegate, mutevoli e cangianti, in ambiti diversi, basti pensare all’inflazionato (sotto il profilo delle citazioni sull’identità) Pirandello, che a suo modo, parlava pure di identità fluide.
Siamo (ancora) sicuri che l’identità di genere debba condividere le caratteristiche di stabilità, invariabilità, omogeneità che attribuiamo all’identità tout court? Regge ancora sul piano scientifico e culturale l’idea di un nucleo stabile dell’identità, quello che nella classica definizione di Erikson[9] si mantiene “stabile nonostante i cambiamenti inevitabili posti dalle condizioni storiche, sociali, culturali...”?
L’identità sfugge ad un incasellamento rigido perché si trasforma di continuo in relazione ai cambiamenti interni ed esterni, esistenziali e socioculturali. Questa condizione implica la necessità di una “ri-identificazione continua che genera attrazione e al tempo stesso dolore. Attrazione perché aperta a più possibilità. Dolore perché non potendo prevedere il futuro si è costretti a vivere nell’incertezza”[10].
“In questa prospettiva l’identità personale può essere vista come quella funzione, aspetto centrale della coscienza di sé, che consente la rappresentazione e la consapevolezza della specificità e continuità del proprio essere personale e, al tempo stesso, della sua diversità in rapporto agli altri e alla realtà”[11]. L’identità infatti sfugge a inquadramenti schematici e si trasforma di continuo, e ciò che la caratterizza non sembra avere mai contorni ben definiti, con le diffuse eccezioni come le personalità rigide, definite anche dogmatiche[12], e le deviazioni psicopatologiche.
Una parte dell’equivoco nasce dal tentativo di trovare un filo conduttore unitario nella narrazione esistenziale, dei tratti stabili, fondamenta cementate su cui poggiare la continuità della propria identità, e tra questi a fondamento, c’è (stato) il nucleo saldo, finora, dell’identità di genere, che - poiché si fonda su aspetti biologici e genetici - deve essere, per default, statico, pre-definito e immutabile così come nasce.
In realtà si è fatta coincidere base biologica e sovrastruttura sociale e culturale, e a lungo abbiamo dato per scontata la coincidenza dei due aspetti, senza il necessario fondamento di osservazione del cambiamento nella dimensione temporale[13]. L’esperienza clinica e gli avanzamenti degli studi di epigenetica hanno dimostrato che la base biologica viene modificata fin dalla nascita dagli agenti epigenetici[14]: l’identità si trasforma di continuo e persino il patrimonio biologico di partenza, evidentemente, sfugge al canone della immutabilità e a dei confini dati e ben definiti.
Su questa base le teorie sulla identità di genere e sul suo cambiamento hanno apportato in anni recenti innovazioni di grande rilievo.
Superate le concezioni del transessualismo come psicopatologia[15], esiste una generale convergenza nel considerare l’identità di genere un prodotto sociale e relazionale, quasi completamente dipendente dalle rappresentazioni sessuali prevalenti e dagli stereotipi psicosessuali culturalmente dominanti[16]. L’identità sessuale è un processo costruttivo in cui entrano in gioco le ‘dotazioni’ naturali, biologiche, ma il cui sviluppo è fortemente dipendente dalle categorie sociali, inclusi gli stereotipi, intesi nella loro accezione di facilitatori /organizzatori /semplificatori della realtà esterna.[17]
I cambiamenti culturali intervenuti nel nostro secolo negli atteggiamenti verso la sessualità e il raggiungimento di una consapevolezza sessuale depurata dai moralismi hanno permesso di ampliare l’esperienza di percezione sessuata di se stessi oltre i rigidi confini del binarismo di genere, permettendo quindi un’ espressione più aperta della propria identità sessuale.[18] La sessualità non più solo binaria, diventa fluida, l’identità sessuale può essere ricercata, costruita e rivendicata lungo un continuum in cui solo gli estremi sono sufficientemente definiti. La stabilità nel tempo non è un parametro necessariamente richiesto per lo sviluppo dell’identità, generale e di genere.
Definire l’identità di genere come consapevolezza soggettiva di appartenere a un genere, o a nessuno, permette di affermare che “Non possiamo provare o smentire un'identità di genere. L'identità di genere è una convinzione personale profondamente radicata, spiritualmente significativa, che non può essere né confermata né confutata da prove esterne e dati biologici.”[19]
Riecheggiando l’identità fluida baumaniana, si parla “di un genere, non più forte, coeso e durevole nel tempo, ma poroso, fluido, frammentato, nomade”[20].
4. Identità personale e identità di genere: come valutare?
La domanda di fondo diventa: ripensare l’identità di genere o ripensare l’identità in generale? L’identità va ridefinita come un insieme inscindibile di “idem” (essere uguali) e “autòs”, fondamento invece della autonomia di momenti e contesti diversi e dell’autenticità della persona in questi contesti[21]. Va intesa come processo di costruzione in cui i cambiamenti progressivi tendono a rinforzare una narrazione, di modo che sia almeno soggettivamente coerente, cosi come la nave di Teseo di cui parla Plutarco[22], che inaugura la querelle tra discontinuità e stabilità identitaria, mantenuta nel tempo solida ed efficiente pur cambiandone progressivamente tutte le parti.
Queste considerazioni teoriche hanno una ricaduta non indifferente nella pratica clinica e rendono estremamente complessa la valutazione psicologica richiesta dagli utenti e dagli altri specialisti che accolgono persone transgender (o aspiranti tali) all’inizio del loro percorso di cambiamento. La valutazione clinica deve inoltre allinearsi con il modello procedurale definito in ambito legislativo, che pur poggiando sulla piattaforma scientifica delle conoscenze sull’argomento, non può riflettere e contenere le diverse prospettive epistemologiche e metodologiche ma necessariamente privilegiarne una, integrandola (conformandola) con i principi giuridici a fondamento della legislazione sulla salute.
Il quesito sul piano tecnico diventa: quale modello è più utile per la definizione dei percorsi di accesso ai trattamenti di ri-affermazione di genere?
Due sono le principali opzioni praticabili: il modello del “gatekeeping” e quello che viene definito del “consenso informato”.
Il modello del gatekeeping, cioè il ‘filtraggio’ attuato da esperti che prendono decisioni, nasce con lo scopo dichiarato di permettere all’utente un tempo adeguato per raggiungere una piena consapevolezza della propria scelta, limitando o frenando o dilazionando le scelte impulsive, e gli ‘errori’ di valutazione. È quindi un professionista della salute (psichica) chiamato a decidere sull’opportunità, i tempi e i modi di accesso al trattamento.
Si aprono pertanto le controversie e perplessità delineate precedentemente:
- L’utente è considerato potenzialmente incapace di decidere, ed è il clinico che deve pronunciarsi su questo;
- L’utente per candidarsi, deve avere: disforia, disadattamento, sofferenza (elevata? o anche solo media? come si misura e come si quantifica e a quale costrutto psicologico fare riferimento?);
- Come stabilire il cut-off per il disagio/sofferenza/disadattamento, considerando che ci sia un punto nel continuum normalità-patologia che fa scattare la soglia per l’accesso o la negazione ai trattamenti di affermazione di genere?
- Quali competenze deve avere il ‘guardiano’ del gate da superare, quali ragionevoli certezze e quale habitus mentale relativo all’argomento sono indispensabili o auspicabili per colui/colei che valuta il possesso dei requisiti, codifica il disagio, legittima la sofferenza del richiedente come sufficiente ma non eccessiva al fronteggiamento del percorso?
Il modello del gate-keeping, di derivazione medico psichiatrica, è quello attualmente prevalente e l’unico che consenta che il percorso di adeguamento dei caratteri sessuali primari e secondari sia a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Una scelta obbligata dunque, ma che andrebbe ripensata nel metodo e nel merito.
Nel modello definito del “consenso informato” il problema dei criteri di accesso viene bypassato: non è richiesta una valutazione o un cut-off di disagio per accedere al percorso di transizione.
Il ruolo degli operatori sanitari, dello psicologo in particolare, diventa prevalentemente educativo-consulenziale, deve cioè veicolare informazioni oggettive sulle procedure, sui tempi, sugli aspetti sanitari, sulle conseguenze, compresi i rischi per la salute, fisica e psichica, e le prevedibili difficoltà di adattamento.
L’utente non deve esibire una sofferenza (disforia) che non prova, come rilevato nelle persone transgender, che spesso forniscono narrazioni ‘contaminate’ delle loro esperienze di vita per aderire agli standard richiesti dai modelli dipendenti da criteri diagnostici; né, al contrario, millantare pedigree psicologici senza macchia per non rischiare di essere considerati inadeguati al percorso di affermazione di genere.
A questo proposito va citato uno studio sul vissuto delle persone che accedono alle “Gender Identity Clinics” in Scozia[23], dove vige un modello simile a quello proposto dal protocollo in uso in Italia come dagli altri basati sul gatekeeping. Lo studio ha evidenziato che il 62% dei partecipanti si è sentito stressato e preoccupato per la propria salute mentale durante il periodo di frequentazione della clinica, ma che nella metà dei casi non ha osato parlarne per paura di diminuire le proprie possibilità di accesso ai trattamenti.
In un contesto finalmente svincolato da questi ‘obblighi’ prestazionali, potrebbe più facilmente crearsi un clima di confronto e collaborazione, che permetterebbe alle persone transgender di esplorare e valutare la propria scelta, verificare la consistenza delle proprie aspettative di benessere, comprendere la complessità del cambiamento che si accingono ad affrontare, attivare un reale esame di realtà sulle proprie risorse per far fronte alle difficoltà.
Nel modello del consenso informato molte delle criticità individuate nel modello precedente e altri aspetti negativi potrebbero essere superati:
- L’utente si riappropria della libertà di autodeterminazione e di scelta, seppure con il supporto di ‘esperti’ del settore; la psicoterapia è sempre considerata opzionale e mai prerequisito all’accesso alla terapia ormonale;
- Il percorso di affermazione di genere viene sdoganato dalla sofferenza, dal malessere, dalla ‘comprovata’ compromissione dell’adattamento; non è necessaria per l’accesso una condizione di ‘disagio clinicamente significativo’, essendo sufficiente il riconoscimento della “discrepanza tra l’oggettività di una realtà corporea e il vissuto esperienziale del corpo“[24];
- La procedura viene de-patologicizzata, per cui non è più richiesto uno specificatore diagnostico, con auspicabile riduzione della stigmatizzazione, degli atteggiamenti discriminatori, e nel tempo, delle problematiche conseguenti al “Minority Stress”, cioè ai livelli elevati di stress frequenti nei i gruppi minoritari vittime di stigma.
Il modello del consenso informato sembrerebbe dunque permettere il superamento delle principali criticità e controversie relative all’inquadramento diagnostico e all’ambiguità dei criteri di accesso al percorso di cambiamento: il ruolo dell’operatore sanitario in questo contesto consiste ‘solo’ – in accezione non puramente riduttiva, ma di specificazione - nel valutare la capacità cognitiva di intraprendere una decisione informata in merito all’assistenza sanitaria richiesta.
Si aprono però, come conseguenza dell’adozione di questo approccio, criticità ugualmente complicate da maneggiare e risolvere:
- Come debba intendersi la ‘capacità cognitiva’, costrutto elasticamente estensibile con un range che va da una minimale capacità di intendere e di volere fino a una ipotetica e iperarticolata ‘piena idoneità psicologica’;
- Come gestire, in un contesto di liberalizzazione dell’accesso, una conclamata inadeguatezza dei processi decisionali e/o di analisi della realtà;
- Come garantire la gratuità del percorso sanitario in un contesto svincolato dalla ‘necessità’ di un intervento medico, necessità che viene legittimata dall’esistenza di una diagnosi o che viene avviata da una diagnosi (in questo caso non necessaria).
La lista potrebbe allungarsi ancora riflettendo sugli aspetti assicurativi, legali, etici: il cambio di prospettiva dirimerebbe alcune problematiche e ne solleverebbe altre[25].
5. Per concludere (e continuare…)
Questa veloce panoramica sulle difficoltà e criticità della valutazione attualmente richiesta per l’accesso alle terapie ormonali di affermazione di genere ha lo scopo di evidenziare le domande cui bisogna rispondere per definire percorsi di tutela e garanzia agli attori di questa complessa realtà.
Una strada ipotizzabile sarebbe sperimentare procedure di “consenso informato” che in questo caso dovrebbe riguardare non certo una modulistica burocratica da sottoscrivere, ma un percorso mirato da svolgere congiuntamente fra utente e psicologo. Non solo valutazione diagnostica dell’assetto di personalità (che pure va fatta, e in modo approfondito e tecnicamente valido), ma analisi dei percorsi già avvenuti nell’arco di vita trascorso e di quelli che il cambiamento di genere intende progettare per il futuro. Come di recente è stato ribadito[26], l'affermazione centrale si basa su una dichiarazione coerente dell'esperienza soggettiva di individualità della persona transgender, inquadrando la domanda di cambiamento di genere all’interno del più ampio e complesso problema dei cambiamenti di identità.
Vi è inoltre l’esigenza di trovare modalità condivise e non ‘coatte’ di supporto specialistico e continuativo dopo che, al termine della procedura, il cambiamento può essere sancito sul piano biologico e giuridico.
L’esperienza e le conoscenze accumulate dall’applicazione delle norme, con le aporie che ancora permangono[27], e dall’adozione delle attuali linee guida che disciplinano il transgenderismo, sono sufficienti a fare ritenere che sia per l’aspetto giuridico che per quello psicologico è tempo di riflessioni e di ricerca di soluzioni per eventuali revisioni. A tal fine sarebbe auspicabile una Consensus Conference in cui medici, psicologi, sociologi, giuristi, esperti di etica e di diritti umani, si confrontino sulle criticità e controversie, alla ricerca di soluzioni che permettano agli attuali “acrobati” – sia i transgender e sia i clinici che si confrontano con loro - di passare dall’attuale incerto equilibrismo ad equilibri più solidi e scientificamente condivisi.
[1] Dirigente psicologa e psicoterapeuta, ASP 3 Catania.
[2] Professore emerito di Psicologia, Università di Catana e Presidente della Associazione Italiana di Psicologia.
[3] Bottone M., Valerio P., Vitelli R. L'enigma del transessualismo: riflessioni cliniche e teoriche. Franco Angeli, Milano 2004; Petruccelli F., Simonelli C., Grassotti S., Tripodi R. Identità di genere. Consulenza tecnica per la riattribuzione del sesso, F. Angeli, Milano, 2016. Una rassegna della letteratura internazionale è contenuta in: Bevan T.E. The psychobiology of transsexualism and transgenderism: a new view based on scientific evidence. Santa Barbara, California 2015. Più di recente: Griffin L., Clyde K., Byng R., Bewley S. Sex, gender and gender identity: a re-evaluation of the evidence. BJ Psych Bulletin, 2021, 45(5): 291-299.
La definizione di transgender come “condizione in cui l’identità, l’espressione o il comportamento di genere sono diversi dal genere assegnato alla nascita” è tratta da: Joseph A., Cliffe C., Hillyard M., & Majeed A. Gender identity and the management of the transgender patient: a guide for non-specialists. Journal of the Royal Society of Medicine, 2017, 110(4), 144–152.
Recentemente, si usa il termine non-binary per definire le persone che non sentono di avere un’identità di genere (a-gender), o quelle la cui identità di genere è fluttuante nel tempo, cioè sentono di essere uomo o donna in momenti diversi, definite gender-fluid. Negli Stati Uniti circa il 35% degli individui transgender si identificano allo stesso tempo come non-binary (The Report of the 2015 U.S. Transgender Survey, National Center for Transgender Equality, http://hdl.handle.net/20.500.11990/1299).
[4] Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (ONIG). Standard sui percorsi di affermazione di genere nell’ambito della presa in carico delle persone transgender e gender nonconforming (TGNC), 2009: www.onig.it/node/19.
[5] The World Professional Association for Transgender Health (WPATH). Standards of Care per la Salute di Persone Transessuali, Transgender e di Genere Non-Conforme, 7a edizione, 2011, tr. it. https://www.wpath.org/media/cms/Documents/SOC%20v7/SOC%20V7_Italian.pdf
Un aspetto specifico di questi “standards of care” riguarda le richieste di adolescenti, ai fini di attuare cambiamenti che siano completamente reversibili.
Sul tema si veda anche: Coleman E., Bockting W., & Botzer M. Standards of Care for the Health of Transsexual, Transgender, and Gender-Nonconforming People, Version 7. International Journal of Transgenderism, 2011, 165-232.
Altre linee-guida recenti sono quelle della American Psychological Association: Guidelines for psychological practice with transgender and gender nonconforming people. The American Psychologist, 2015, 70, 832-864.
[6] Di “incongruenza di genere” parla la International Classification of Diseases 11 (ICD-11) mentre “disforia di genere” è la definizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-5) come «sofferenza che può accompagnare l’incongruenza tra il genere esperito o espresso da un individuo e il genere assegnato» (American Psychiatric Association, DSM-5, Washington 2013, p. 528). Queste definizioni distinguono l’incongruenza di genere dal travestitismo (cross-dressing) che continua a rientrare fra le parafilie.
Va rilevato che l’incongruenza di genere si può manifestare fin dall’infanzia, ma spesso viene definita già prima della pubertà (Coleman e al., op. cit.).
[7] Numerosi studi hanno indagato i potenziali effetti patologici successivi al cambiamento di genere. Tra i più recenti: Almazan A. N., Keuroghlian A. S. Association between gender-affirming surgeries and mental health outcomes. JAMA Surgery, 2021, 156, 611–618; Ardebili M. E., Janani L., Khazaei Z., Moradi Y., Baradaran H. R. (2020). Quality of life in people with transsexuality after surgery: a systematic review and meta-analysis. Health and Quality of Life Outcomes, 18, 1-11.
[8] Bauman Z. Life in Fragments, tr. it. Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2006.
[9] Erikson E. The Life Cycle Completed, tr. it. I cicli della vita, continuità e mutamenti, Roma, Armando 1982.
[10] Bauman Z. Identity, tr. it. Intervista sull'identità, Roma-Bari, Laterza, 2003.
[11] Pinkus L., Senza radici? Identità e processi di trasformazione nell'era tecnologica, Borla, Roma 1998.
[12] Rokeach M., The open and closed mind: investigation into the nature of belief systems, New York, Basic Books, 1960
[13] Su questo tema è nota la posizione biologista, ben rappresentata da Swaab secondo cui l’orientamento sessuale è determinato durante lo sviluppo fetale dalle influenze ormonali geneticamente determinate, mentre sarebbero carenti le evidenze scientifiche dei fattori sociali postnatali: Swaab D.F. Sexual differentiation of the human brain: relevance for gender identity, transsexualism and sexual orientation. Gynecological Endocrinology, 2004, 19 (6): 301-312. L’orientamento radicalmente biologista è stato fortemente criticato dai successivi studi di epigenetica.
[14] Bewan, op. cit.; Cortes L.R., Cisternas C.D., Forger N.G. Does gender leave an epigenetic imprint on the brain? Frontiers in Neuroscience, 2019, 13:173; Ramirez K. e al. Epigenetics is implicated in the basis of gender incongruence: an epigenome-wide association analysis, Frontiers in Neuroscience, 2021, 15:701017.
[15] Per una rassegna storica: Galiani R. Un sesso invisibile: sul transessualismo in quanto questione. Napoli, Liguori 2005; Fernández Rodríguez M., Menéndez Granda M., Villaverde González, Gender incongruence is no longer a mental disorder, Journal of Mental Health & Clinical Psychology, 2018, 2(5): 6-8.
[16] Ruspini E. Le identità di genere. Roma, Carocci 2009.
[17] https://www.sinapsi.unina.it/identgener_bullismoomofobico
[18] Oswalt S.B., Evans S., Drott A. Beyond alphabet soup: helping college health professionals understand sexual fluidity, Journal of American College Health, 2016, 64: 502-508.
[19] Dahlen S. De-sexing the medical record? An examination of sex versus gender identity in the general medical council's trans healthcare ethical advice. The New Bioethics, 2020, 26: 38–52.
[20] Gelli B. Psicologia delle differenze di genere. Milano, F. Angeli 2009, p. 202.
[21] Di Maria F., Di Nuovo S. Identità e dogmatismo, Milano, F. Angeli 1988.
[22] Il paradosso della nave di Teseo, conservata come tale dagli Ateniesi anche se sostituita progressivamente in tutte le sue parti, è citato dal Plutarco (e ripreso poi da Hobbes): si può dire che sia ancora lo stesso oggetto? Per analogia, una persona rimane sé stessa se il suo corpo, o anche la personalità, cambia nel tempo?
[23] McNeil J., Bailey L., Ellis S., Morton J., Regan M., Trans mental health and emotional wellbeing study. The Scottish Transgender Alliance, 2012 https://www.gires.org.uk/wp-content/uploads/2014/08/trans_mh_study.pdf
[24] Heyer W. Paper genders. Il mito del cambiamento di sesso. Tr.it. SugarCo, Milano, 2009.
[25] Sarebbe interessante un approfondimento comparativo delle procedure uso in altri sistemi giuridici.
Ad esempio, in Francia nel 2016 sono state istituite due procedure diverse per il cambio del nome e per il cambio del genere. In Inghilterra in base al Gender Recognition Act del 2005 i cittadini britannici maggiorenni possono richiedere un Gender Recognition Certificate, che permette anche di contrarre matrimonio, ottenuto a seguito della valutazione di una commissione composta da medici, psicologi ed esperti legali, che accerta la presenza di disforia di genere e richiede la dichiarazione di aver vissuto in base al nuovo genere da almeno due anni e di volerlo mantenere il per il resto della vita.
Va rilevato che, secondo il rapporto Trans Rights Europe Map & Index del 2017 (https://tgeu.org/trans-rights-map-2017/), 36 paesi in Europa richiedono una diagnosi di salute mentale per accedere al cambiamento legale di genere, e 20 richiedono la sterilizzazione, sanzionata nel 2017 come violazione dei diritti umani dalla European Court of Human Rights.
Negli Stati Uniti le procedure chirurgiche sono prevalenti per la riassegnazione del sesso, ma le norme variano nei diversi Stati (per una mappa, v. https://www.lgbtmap.org/equality-maps). In alcuni Stati non è necessario aver subito interventi chirurgici per cambiare il sesso sui documenti.
[26] Dahlen S., 2020, cit., p. 38.
[27] Ferrari D. Diritto, orientamento sessuale e identità di genere. Lulu.com ed. 2016; Brunoni A. La rettificazione del sesso in Italia. Aporie legislative, tutela antidiscriminatoria e buone prassi. Key Editore, Milano 2019; Osella S. Reinforcing the binary and disciplining the subject: The constitutional right to gender recognition in the Italian case law. International Journal of Constitutional Law, 2022, 454-475.
L’illusione meritocratica. Merito e magistratura
di Riccardo Ionta
La meritocrazia, prima ancora di essere una promessa di giustizia difficile da mantenere, è una promessa di giustizia difficile da formulare. L’intenzione è quella di esplicitare, con questo scritto, una critica della meritocrazia e, in particolare, dell’ordinamento giudiziario quale organizzazione meritocratica. La critica riguarda le ingiustizie e le inefficienze della meritocrazia intesa sia come sistema compiutamente e perfettamente realizzato, sia come sistema sempre mancante. L’intervento – che assume come pretesto quel frangente ordinamentale costituito dal conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi – ha lo scopo di mettere in discussione l’assioma meritocratico nella prospettiva di una effettiva realizzazione della democrazia ordinamentale (e nella speranza di una regressione della democrazia curriculare).
Sommario: 1. Moderna distopia - 2. Meritocrazia e merito - 3. L’organizzazione ordinamentale e la meritocrazia come modalità di organizzazione - 4. L’ispirazione meritocratica dell’ordinamento giudiziario - 5. La cornice costituzionale della meritocrazia ordinamentale - 6. L’influenza organizzativa del merito - 7. Le regole meritocratiche per il conferimento degli incarichi di direzione - 8. Le criticità della meritocrazia - 9. Le criticità della meritocrazia ordinamentale. – 9.1. Insostenibilità amministrativa – 9.2. Insostenibilità normativa – 9.3. Fragilità costituzionali – 10. Non Conclusioni.
Your confusion, my illusion (Joy Division)
1. Moderna distopia
La meritocrazia inganna almeno due volte.
La prima volta perché suggerisce un’origine antica che, tuttavia, le manca. La seconda volta perché evoca l’immagine di un’utopia anche se nasce, al contrario, come distopia. È a Michael Young, grande intellettuale di pensiero e azione, che si attribuisce la paternità del termine usato, per la prima volta in modo sistematico, nel romanzo distopico The Rise of Meritocracy del 1958.
Il romanzo si presenta come un'analisi, scritta da uno storico, che ripercorre lo sviluppo della società britannica dal 1870 al 2033. In quel futuro, le ricchezze e il potere si guadagnano, non si ereditano, perché la nuova classe dirigente è finalmente selezionata sulla base della formula “Q.I. + sforzo = merito”. La democrazia, tuttavia, sfiorisce e cede gradualmente il passo al dominio dei meritevoli. La società si divide in due consapevoli classi sociali. Gli eminenti, per cui il successo è la giusta ricompensa per il loro merito, e gli inferiori, che sanno di aver fallito ogni possibilità loro data. I meritevoli si trasformano in oppressori. Gli immeritevoli in oppressi, sino alla rivolta. Perché l'apparente giustizia è difficile da sopportare, al pari dell’ingiustizia. E perché la meritocrazia, l’organizzazione meritocratica, prima ancora di essere una promessa di giustizia difficile da mantenere, è una promessa di giustizia difficile da formulare.
2. Meritocrazia e merito
Per meritocrazia si intende, in linea di massima, una visione politica – ovvero un sistema di organizzazione e funzionamento – in cui i poteri e le posizioni (e, di conseguenza, i benefici) sono attribuiti e allocati sulla base del merito (e non sulla base della appartenenza sociale o della posizione già ricoperta nel sistema stesso). In altri termini, sulla base di criteri acquisitivi e non ascrittivi.
Il merito tende a coincidere con la manifestazione del talento, con il compimento degli sforzi e con il raggiungimento dei risultati (“I.Q. + effort = merit”).
3. L’organizzazione ordinamentale e la meritocrazia come modalità di organizzazione
L’organizzazione cui si riferisce il presente scritto è quella dell’ordinamento giudiziario inteso, nel suo significato specifico, come l'insieme delle norme che regolano la costituzione e il funzionamento degli organi che esercitano la funzione giurisdizionale ordinaria.
L’organizzazione ordinamentale giudiziaria, in particolare, può intendersi come l’assetto di quei pubblici poteri indipendenti che sono i magistrati, singole espressioni del potere diffuso della magistratura ordinaria. L’organizzazione ordinamentale, in tal senso, si distingue dall’organizzazione dei servizi amministrativi della giustizia il cui funzionamento è attribuito dalla Costituzione al Ministro della Giustizia (art. 110).
La meritocrazia – quale modello per l’attribuzione di poteri e posizioni – è una delle modalità con cui si configura una organizzazione.
La meritocrazia è, in particolare, una delle principali modalità di organizzazione della magistratura ordinaria e assume, in questa, un particolare rilievo in ragione della natura diffusa del potere giurisdizionale e della specificità delle relazioni organizzative ordinamentali.
4. L’ispirazione meritocratica dell’ordinamento giudiziario
La meritocrazia trova strutturazione nell’organizzazione dell’ordinamento giudiziario secondo tre principali linee.
1. Il merito è il criterio di assetto delle modalità di accesso alle funzioni giudiziarie. In particolare, per l’ingresso in magistratura e per l’accesso nei ruoli strettamente giurisdizionali (il riferimento di maggior interesse è, attualmente, per i ruoli della Cassazione). L’ingresso in magistratura per concorso è l’unica prescrizione “meritocratica” dettata direttamente dalla Costituzione. Per la progressione nelle funzioni giurisdizionali la legislazione attualmente prevede un mix tra soglie di anzianità e merito (per la sola Cassazione).
2. Il merito è il principale criterio per la strutturazione dei procedimenti di conferma nelle funzioni giudiziarie. Il riferimento è alle valutazioni di professionalità – da cui dipende la progressione stipendiale e, parzialmente, di carriera – ed al relativo apparato organizzativo. Valutazioni che, è opportuno rammentare, non hanno una finalità premiale (che pur si vuole o tende ad attribuire) ma sono finalizzate a verificare la sussistenza e la permanenza di quel merito - ovvero la competenza a svolgere le funzioni giurisdizionali – che ha permesso al magistrato, prima, l’accesso in magistratura e, dopo, il conferimento delle funzioni.
3. Il merito è l’affermato (quantomeno affermato) criterio per la modellazione del procedimento di assegnazione e distribuzione degli incarichi aventi funzione o rilievo organizzativo (che sono molteplici nell’ordinamento giudiziario, dal C.S.M., alla S.S.M., sino all’interno dei singoli uffici: magistrati segretari; magrif e rid; formatori; ecc..) e, in particolare, degli incarichi direttivi o semi direttivi degli uffici giudiziari.
L’ordinamento giudiziario mira, pertanto, ad essere una organizzazione meritocratica, essendo ispirate al merito tre delle sue fondamentali espressioni (oggetto delle modifiche che, dal 2006 sino ad oggi, hanno riguardato le leggi sull’ordinamento giudiziario).
5. La cornice costituzionale della meritocrazia ordinamentale
Il principio meritocratico è costituzionalmente prescritto, nella forma del concorso, per l’ingresso in magistratura (art. 106 Cost.) e non rileva, ad esempio, nell’ambito delle regole di formazione del C.S.M. (art. 104 Cost.) e dei Consigli Giudiziari la cui composizione è l’esito dell’applicazione del principio democratico.
La meritocrazia non è costituzionalmente necessaria per il conferimento degli incarichi e la storia ordinamentale costituzionale ha conosciuto, nel passato, l’adozione di altri criteri e sistemi, su tutti l’anzianità (prima poco temperata). La Costituzione (art. 105), appare utile ricordare, attribuisce al C.S.M., secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, il potere sulle “promozioni” dei magistrati.
La meritocrazia ordinamentale si muove sui principi costituzionali che informano la magistratura e, in particolare, su due principi fondamentali e fondati l’indipendenza – esterna e interna – della magistratura: quello per cui “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101) e quello per cui “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (art. 107). La Costituzione, in altri termini, garantisce l’indipendenza del singolo magistrato assicurando l’assenza di gerarchizzazione e di verticisimi, pur nella necessaria diversificazione delle funzioni.
La legislazione sembra considerare la meritocrazia come la forma migliore per garantire l’equilibrio tra questi principi costituzionali e una direzione efficiente dell’organizzazione ordinamentale.
6. L’influenza organizzativa del merito
La meritocrazia, quale modalità di allocazione delle posizioni organizzative, ha una influenza sulla dinamica dell’organizzazione.
Sono due le principali direzioni di questa.
1. Lungo la prima direzione (Mill) la meritocrazia conforma le azioni, e la cultura organizzativo-ordinamentale, dei soggetti che si muovono nell’organizzazione – lungo i tempi che scandiscono la vita dell’organizzazione – e che mirano a guidarla. È il compimento di determinate azioni, considerate meritevoli, che determina il merito della persona. La meritocrazia impone così una gerarchia valoriale delle azioni e conforma il comportamento dei soggetti agenti, sia antecedente (quando magistrati aspiranti) che successivo all’ottenimento dell’incarico (quando classe dirigente), e quindi la dinamica effettiva dell’organizzazione e, di riflesso, della funzione giurisdizionale.
Nell’attuale sistema – in cui i direttivi e i semi-direttivi superano le mille unità, e gli aspiranti sono migliaia nel corso degli anni – costituiscono, ad esempio, indicatori di merito la conclusione e implementazione di “protocolli”, di “convenzioni” con gli enti pubblici, la specializzazione dei ruoli negli uffici, la predisposizione di “sportelli polifunzionali”; la predisposizione di rendicontazione attraverso i c.d. “bilanci sociali”, l’aver ricoperto ruoli di carattere organizzativo o l’aver ricevuto deleghe organizzative. Il discorso coinvolge anche le valutazioni di professionalità nel momento in cui è posta una connessione – normativizzata dalla c.d. “pagella” sulla capacità organizzative introdotta dalla riforma Cartabia – tra questa e il conferimento degli incarichi
2. Lungo la seconda direzione la strutturazione del sistema meritocratico richiede uno specifico apparato organizzativo destinato a governare il merito: maggiore è l’estensione della meritocrazia e, almeno tendenzialmente, maggiore è l’estensione organizzativa e procedimentale chiamata a valutarla e governarla.
Nell’attuale organizzazione la V Commissione del C.S.M. è specificatamente dedicata all’incombente dei conferimenti e delle conferme. La IV Commissione è dedicata alle valutazioni di professionalità. Tra i principali (e assorbenti) compiti dei Consigli Giudiziari vi è l’attività istruttoria e pareristica in relazione alle valutazioni di professionalità e al conferimento degli incarichi.
7. Le regole meritocratiche per il conferimento degli incarichi di direzione
Particolare rilievo, nel discorso sulla meritocrazia ordinamentale, assume il conferimento degli incarichi dirigenziali.
La legge, precisamente l’art. 12 del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160, disciplina i requisiti per l’accesso alle funzioni direttive e semi direttive.
Il magistrato meritevole di aspirare all’incarico direttivo è colui che possiede due requisiti di merito (la nomenclatura legislativa “merito-attitudine” non appare precisa): 1) aver superato positivamente le valutazioni di professionalità (ovvero un’abilità), dimostrando di esser capace nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali; 2) il possesso della “attitudine direttiva” (ovvero di un talento). Quest’ultima, differenziata per dimensione dell’ufficio, è definita dall’art. 12 come la “capacità di organizzare, di programmare e di gestire l'attività e le risorse in rapporto al tipo, alla condizione strutturale dell'ufficio e alle relative dotazioni di mezzi e di personale”; come “propensione all'impiego di tecnologie avanzate”, come “capacità di valorizzare le attitudini dei magistrati e dei funzionari, nel rispetto delle individualità e delle autonomie istituzionali, di operare il controllo di gestione sull'andamento generale dell'ufficio, di ideare, programmare e realizzare, con tempestività, gli adattamenti organizzativi e gestionali e di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto di organizzazione tabellare”.
La legge individua alcune delle fonti di conoscenza in base alle quali poter accertare il talento attitudinale – le valutazioni di professionalità, le “pregresse esperienze di direzione, di organizzazione, di collaborazione e di coordinamento investigativo nazionale, con particolare riguardo ai risultati conseguiti, i corsi di formazione in materia organizzativa e gestionale frequentati” – impostando comunque un sistema atipico ed aperto delle fonti.
La legge non disciplina il procedimento, rimesso alle regole disposte dal C.S.M. e lascia a quest’ultimo un ampio margine discrezionale nella specificazione dei criteri di conferimento degli incarichi (soluzione attualmente normativizzata dalla recente legge delega sull’o.g. e obbligata dalla Costituzione che riserva al C.S.M. la competenza sulle “promozioni”).
Il C.S.M. ha espresso la propria discrezionalità per mezzo della Circolare chiamata “t.u. della dirigenza”. Un testo che, accresciutosi nel tempo, attualmente conta oltre 90 articoli e una elefantiaca (e non sempre cristallina) modulistica che copre circa 180 pagine.
In termini sintetici, la Circolare individua il magistrato meritevole specificando gli elementi da valutare per poter affermare “l’attitudine direttiva”. Tanto avviene per mezzo dell’analitica esposizione di “indicatori generali” e di “indicatori specifici” tendenzialmente differenziati per dimensione dell’ufficio. Il numero di tali indicatori è elevato e molti di essi, talvolta sovrapponibili, sono generici ovvero difficilmente misurabili o documentabili (e rimessi, di fatto, alle autorelazioni o ai rapporti informativi). Tali indicatori sono oggetto di una “una valutazione integrata” (e non cumulativa) che confluisce in un giudizio “complessivo e unitario”. Il procedimento di conferimento prevede quindi una “valutazione analitica dei profili dei candidati mediante specifica disamina degli indicatori” e “comparativa degli aspiranti”, “effettuata al fine di preporre all'ufficio da ricoprire il candidato più idoneo per attitudini e merito, avuto riguardo alle esigenze funzionali da soddisfare ed, ove esistenti, a particolari profili ambientali”.
Il procedimento – che si conclude con un giudizio analitico e comparativo degli aspiranti – ha inizio con la pubblicazione del bando, prosegue con l’acquisizione della copiosa documentazione che l’aspirante deve produrre (tra cui spicca la c.d. autorelazione) e con l’acquisizione dei pareri indicati dalla Circolare (in particolare rapporto del capo dell’ufficio anticipato, di norma, dal rapporto del semi-direttivo). Continua con il parere attitudinale specifico rilasciato dal Consiglio giudiziario e si conclude con la deliberazione, prima, della V Commissione e successivamente del plenum del C.S.M. La recente legge delega sull’o.g. prevede l’audizione dei candidati e aumenta il numero dei pareri che accompagnano l’aspirante direttivo richiedendo altresì: il parere del dirigente amministrativo assegnato al l’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati, il parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente per territorio, il parere dei magistrati assegnati all’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati; una valutazione della Scuola Superiore della Magistratura.
8. Le criticità della meritocrazia
Recenti e risalenti studi – sia di cultura liberale, sia di cultura egualitaria – evidenziano le criticità proprie del sistema meritocratico.
Le criticità che, tradizionalmente, si affermano nel discorso pubblico sono riferite ai sistemi meritocratici “reali”. Si afferma che i sistemi meritocratici scambiano l’eguaglianza materiale con la mobilità sociale sulla base di una promessa che non mantengono: quella di offrire a tutti la possibilità di emergere e meritarsi poteri e posizioni ovvero l’eguaglianza delle condizioni di partenza. In sintesi, i sistemi sono solo astrattamente meritocratici poiché strutturati su una società che è sempre diseguale. Vi è una impossibilità, storicamente dimostrata, di realizzare sistemi effettivamente meritocratici: questi si sono rilevati una schermatura (“il carapace del merito”, dice Appiah), non soggetta a particolari analisi critiche, per la conservazione di vecchie, o comunque altre, diseguaglianze.
Le più recenti analisi (di matrice filosofico-giuridica e socio-politica) si soffermano, riprendendo una precedente tradizione di studi (i più risalenti sono di cultura liberale), sul sistema meritocratico “in astratto”, rilevando le criticità connaturate ad un sistema – perfetto e compiutamente realizzato – che ha mantenuto pienamente la promessa di garantire l’eguaglianza di partenza. Se ne evidenziano alcune di interesse.
1. Il sistema meritocratico – disegnato come uno strumento di uguaglianza poiché di mobilità sociale – è, al pari di altri sistemi, un meccanismo che favorisce le diseguaglianze, benché altre. Allocando i ruoli in capo ai “migliori” categorizza e divide i soggetti in meritevoli e, di conseguenza, in immeritevoli (“peggiori”). Ai primi sono riconosciuti i migliori benefici materiali e morali della società o del singolo sistema – è l’incentivo all’azione – non attribuibili agli immeritevoli.
2. Il sistema meritocratico, premiando solo le azioni riconosciute come meritocratiche, spinge verso il conformismo e nega la diversità e il pluralismo culturale e valoriale.
3. Il sistema meritocratico, raffigurato come uno strumento di coesione su cui tutti convengono e convergono, favorisce la divisione, valoriale e sociale, poiché attribuisce un differente valore morale ai “meritevoli-migliori” e agli “immeritevoli-peggiori”. Se per tutti c’è stata la possibilità di emergere, chi non risulta essere meritevole di potere e posizione, non ha mostrato di avere le qualità necessarie e ha mostrato la sua inadeguatezza o inferiorità. È Sandel ad evidenziare tale specifica capacità della meritocrazia, spiegando l’emergere dei populismi sulla base della frustrazione e marginalizzazione degli immeritevoli.
4. Le disuguaglianze della meritocrazia hanno conseguenze individuali, collettive e istituzionali: qualcuno evidenzia l’infelicità individuale del sistema competitivo e il conseguente regredire del discorso sulla effettiva libertà individuale (Markovits); qualcun altro (Sandel) evidenzia il ritrarsi, culturale e istituzionale, della giustizia distributiva di fronte alla cultura celebrativa e auto-celebrativa del migliore (la “tracotanza del merito”); qualcun altro ancora evidenzia l’effetto esponenziale dei poteri in una duplice tendenza: non verificare il merito già riconosciuto e attribuire ai meritevoli, in quanto migliori, sempre maggiori e ulteriori poteri, anche diversi da quelli legati alla sfera di competenza (è Sandel a suggerire l’endiadi meritocrazia-tecnocrazia); qualcun altro ancora evidenzia lo sbilanciamento dei sistemi verso la cultura dell’incentivazione a discapito della cultura basata sull’etica professionale (Sen).
5. Il sistema meritocratico è destinato all’eterogenesi dei fini in quanto la parità materiale di partenza, garantita dalla meritocrazia perfetta, termina in una intensa disparità e disuguaglianza materiale e valoriale (meritata nel senso letterale del termine) tra vincenti-migliori-meritevoli e perdenti-peggiori-immeritevoli. Appiah aggiunge che il sistema meritocratico perfetto deve fare i conti con la logica di conservazione dei meritevoli che tendono ad utilizzare i benefici di posizione per raggiungerne altre, per favorire i simili o i propri affetti.
6. La meritocrazia imita la logica del mercato affermandola all’interno di sistemi diversi che hanno logiche e valori diversi da quelli mercato.
9. Le criticità della meritocrazia ordinamentale
La meritocrazia ordinamentale, per quel che riguarda l’organizzazione e le procedure per gli incarichi direttivi, invera per molti versi le criticità generali della meritocrazia. Se ne specificano tre: l’insostenibilità amministrativa, quella normativa e la fragilità costituzionale.
9.1. L’insostenibilità amministrativa della meritocrazia
L’organizzazione ordinamentale non sembra in grado di reggere l’urto dell’assolutismo meritocratico. Al riguardo sono utili alcuni dati al fine di comprendere l’affanno amministrativo dell’organizzazione ordinamentale: sono oltre mille i direttivi e i semidirettivi e migliaia le domande e gli aspiranti; il tempo per la conclusione dei procedimenti per conferimento degli incarichi si avvicina in media all’anno (dal 2006 la media non è mai scesa al di sotto dei 300 giorni[1]), con punte anche di molto superiori (e la conseguenza che, per lungo tempo, ad assumere la guida dell’ufficio è il magistrato più anziano in servizio); ad aprile 2022 presso la V Commissione risultavano pendenti, come arretrato, 342 procedimenti di conferma[2] (ossia circa 1/3 dei dirigenti); il C.S.M 2104-2018 ha provveduto a 1.045 conferimenti di incarico; quello 2010-2014 ha conferito 647 incarichi, quello 2006-2010 ne ha conferiti 1.057[3].
Il sistema di conferimento e conferma degli incarichi direttivi soffre dal punto di vista procedimentale. L’accertamento di quel merito indicato nel t.u. della dirigenza appare assai difficile. È difficile per l’aspirante fornire una adeguata prova del merito. È difficile per il valutatore accertarlo effettivamente. L’aspirante è vittima di una insostenibilità amministrativa individuale poiché chiamato – in teoria – a documentare (per provare) un quadriennio direttivo o semidirettivo, o una carriera quantomeno ultraventennale, in termini di azioni e risultati raggiunti, senza che ciò sia effettivamente possibile (salvo avere un personale sherpa che segua la carriera e si incarichi del fardello) e senza che tale adempimento sia poi davvero preteso (i modelli di autorelazione allegati al t.u. sono la fase acuta della labirintite burocratica e si invita il lettore a leggerli e ad immaginare di riempirli). Il valutatore, in difficoltà documentale, si affida all’autorelazione – su pareri dirigenziali spesso appiattiti su questa, salvo superlativi di vario grado – e si abbandona alla ingannevole facilità del dato statistico e dell’aggettivazione (si invita sempre il lettore, al riguardo, ad una lettura dei modelli di parere allegati al t.u. della dirigenza ed una simulata compilazione). Ed è così che si giunge alla riforma Cartabia per cui l’aspirante dirigente dovrebbe necessitare di almeno 5 pareri solo per partecipare alla procedura di conferimento (del direttivo dell’ufficio, del C.O.A., del dirigente amministrativo, dei magistrati dell’ufficio oltre che una valutazione della S.S.M.).
Il sistema di conferimento e conferma degli incarichi direttivi-semidirettivi soffre dal punto di vista provvedimentale. Le motivazioni del C.S.M. in merito alle conferme si limitano a poche righe che prendono atto del positivo parere del Consiglio Giudiziario (quest’ultimo più utile, di fatto, per la richiesta di un successivo incarico che per la conferma) e dell’assenza di rilievi problematici. Le lunghe motivazioni del C.S.M. sui conferimenti di incarico, invece, sono delle intense narrazioni curriculari, arricchite dall’incasellamento degli indici, seguite dalle ragioni per cui il profilo degli altri aspiranti perdenti risulta “recessivo” (così si esprimono le motivazioni) rispetto a quello del candidato scelto, concluse – anche quando i profili sono per gran parte simili – con difficili giudizi che terminano con la perentoria affermazione per cui Tizio è “senza dubbio il magistrato più idoneo, per attitudini e merito, al conferimento dell’ufficio messo a concorso”.
9.2. L’insostenibilità normativa della meritocrazia
L’attuale organizzazione, nell’affannosa corsa verso l’obiettività, ha normato il merito in modo estensivo – moltiplicando disposizioni, fasi procedimentali e criteri – favorendo così, infine, la confusione e la rarefazione della valutazione meritocratica. Ciò ha determinato la decisività (effettiva e sotterranea) di criteri non meritocratici (e non oggetto di normazione); ha diffuso la sfiducia nelle scelte del C.S.M., oggetto di frequenti ricorsi giurisdizionali e di eclatanti annullamenti; ha posto le basi per il conflitto tra un C.S.M. che confonde la rarefazione delle valutazioni con l’insindacabilità delle proprie scelte discrezionali e una giustizia amministrativa che chiede al C.S.M. di adeguare le motivazioni alla presunta e difficile geometria degli indicatori; ha spinto il legislatore, nella notte in cui tutte le vacche sembrano nere, ad aumentare a dismisura i pareri e gli atti per trovare il merito. Il risultato finale è la riproposizione dei vecchi schemi sotto nuove, e illusorie, forme.
9.3. Le fragilità costituzionali della meritocrazia
Si assiste ad un’incrinatura di quella parità tra magistrati imposta dalla Costituzione – quando afferma che i giudici sono soggetti soltanto alla legge e che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni – a presidio dell’indipendenza interna del singolo. E tanto in una duplice e convergente direzione.
1. La prima direzione. L’organizzazione meritocratica ha favorito la strutturazione di una carriera direttiva parallela – e talvolta concorrente – a quella giurisdizionale e la corsa verso il vertice. Carriera che inizia presto nell’attività di raggiungimento e raccolta dei molteplici indicatori, generali e speciali, di merito e che prosegue una volta ottenuto il primo incarico (tra i magistrati che nel periodo dal 2012 al 2021 hanno ricoperto funzioni direttive solo il 18% è “tornato” alle funzioni ordinarie[4]). Per converso ha determinato un senso di frustrazione in una parte sempre più ampia della magistratura – esclusa di fatto dalla corsa per gli incarichi o che, illusa dal merito, non lo vede emergere – che ha favorito le istanze di riforma, in parte accolte dal legislatore, che incidono sul soggetto decisore (il riferimento è al sorteggio del C.S.M. e alle norme elettorali per la “depoliticizzazione” dalle correnti) invece che sull’oggetto della decisione. Carriera assecondata – e frustrazione in parte compensata – dall’aumento smisurato dei posti dirigenziali: se l’art. 47 ter o.g. fissa (per gli uffici di primo grado) un rapporto di 1 a 10 tra semidirettivi e magistrati, il rapporto medio tra magistrati ordinari e direttivi/semidirettivi risulta essere del 4,04 nelle Corti di appello, del 7,76 nei Tribunali, del 4,62 nelle Procure Generali presso le Corti d’appello, del 6,39 nelle Procure della Repubblica[5].
2. La seconda direzione. La caratterizzazione meritocratica dell’ordinamento ha portato il legislatore, e in parte anche la stessa magistratura, ad incoraggiare la gerarchizzazione della magistratura assegnando alla sua componente “meritevole” sempre maggiori poteri e attribuzioni. Gli esempi sono molteplici e – senza scomodare il discorso sui poteri dei Procuratori o la normativa di dettaglio – è sufficiente richiamare la centralità del dirigente nell’esprimere i pareri per le valutazioni di professionalità o per il conferimento degli incarichi (e per le conferme), le tendenze alla gerarchizzazione della riforma Cartabia (così stigmatizzate anche dalla Commissione europea) e, ancor prima, i poteri attribuiti ai direttivi durante il periodo pandemico. Un complesso di maggiori poteri non adeguatamente affiancati da pari ed effettive responsabilità e, soprattutto, da un efficiente meccanismo di controllo-conferma del talento attitudinale. Nell’attuale consiliatura del C.S.M., il dato ad aprile 2022, portava un ritardo medio delle delibere di conferma pari 329 giorni (dalla scadenza del quadriennio da confermare)[6]; dal 2009 al 2022 le delibere di non conferma di incarichi direttivi/semidirettivi sono state l'1,3% del totale[7].
10. Non Conclusioni
Chiamato a scrivere della “Giustizia nei sistemi meritocratici”, Amartya Sen ha affermato che l’idea di meritocrazia ha molte virtù ma la chiarezza non è una di queste. E tanto perché il concetto di merito – nonostante l’inclinazione a vederlo in termini fissi e assoluti – è contingente e condizionato dal concetto di giustizia. Il merito dipende dalla società giusta, o dal sistema giusto, che si vuole realizzare e, in altri termini, da una scelta filosofica e politica.
Pierluigi Barrotta, filosofo, nella sua critica liberale alla meritocrazia afferma che “meritocrazia” è nozione assai confusa. Un “crampo mentale”, così la definisce, dovuto ad un uso improprio di un concetto per altri versi legittimo.
La “meritocrazia” tradisce nel concreto. Illude nell’astratto.
"È un buon senso nominare singole persone per i lavori in base ai loro meriti" ha scritto Young. Perché l'obiettivo non è quello di trasformare ogni montagna in una distesa di sale e non può esser nemmeno quello di rendere sempre più alte e lontane quelle montagne. È per questo che appare necessario mettere in discussione l’assolutismo della meritocrazia – il suo esser divenuto un indiscutibile assioma – la neutralità della meritocrazia, il funzionamento e gli esiti della meritocrazia. La sua estraneità alle riflessioni e alle discussioni. Questo scritto è una domanda senza risposta (“non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo”) ma crede che questa possa esser cercata in quella democrazia ordinamentale, non democrazia curriculare, che la Costituzione ha scelto per la magistratura.
[1] “Conferimento delle funzioni direttive e semidirettive consiliatura 2014-2018”, studio reperibile sul sito del C.S.M.
[2] Dato tratto dall’articolo su questa rivista di Elisabetta Chinaglia “Il punto sulla conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi”: “Ad oggi (i dati sono del 6 aprile 2022) risultano pendenti in Quinta Commissione 342 pratiche inerenti procedure di conferma relativamente alle quali il quadriennio è già decorso, di cui 133 attinenti a incarichi direttivi (rispettivamente, con riferimento alla scadenza del quadriennio: 4 del 2019, 28 del 2020, 71 del 2021, 30 del 2022) e 209 relative ad incarichi semidirettivi (rispettivamente, con riferimento alla data di scadenza del quadriennio: 2 del 2015, 3 del 2017, 2 del 2018, 7 del 2019, 47 del 2020, 219 del 2021, 62 del 2022)”.
[3] “Conferimento delle funzioni direttive e semidirettive consiliatura 2014-2018”, studio reperibile sul sito del C.S.M.
[4] Spesso si giustifica il “non ritorno alla normalità” con la necessità di preservare l’esperienza direttiva acquisita (affermazione che tradisce l’idea per cui solo dirigendo si può mettere la propria esperienza in favore dell’ufficio). Tale percentuale include coloro che necessariamente sono tornati alle funzioni giurisdizionali per limiti di età. L’ordinamento prevede difatti che per poter concorrere per i posti direttivi e semidirettivi è necessario garantire almeno un quadriennio. Elisabetta Chinaglia, nell’articolo già citato: “Risulta che tra i magistrati che nel periodo dal 2012 al 2021 hanno ricoperto funzioni direttive, il 19% è passato ad altre funzioni direttive, il 3% ad altre funzioni semidirettive, il 3% a funzioni fuori ruolo ed il 57% è cessato dall’ordine giudiziario, mentre solo il 18% è tornato alle funzioni ordinarie; tra i magistrati che nel medesimo periodo hanno ricoperto funzioni semidirettive, il 18% è passato ad altre funzioni direttive, il 15% ad altre funzioni semidirettive, il 3% a funzioni fuori ruolo ed il 36% è cessato dall’ordine giudiziario, mentre solo il 28% è tornato a funzioni ordinarie”.
[5] Elisabetta Chinaglia, nell’articolo già citato.
[6] “Nella consiliatura 2014-2018 si sono avute 128 delibere su conferme di direttivi e 313 delibere su conferme di semidirettivi, con un ritardo medio, rispetto alla scadenza del quadriennio, di 151 giorni per i direttivi e di 171 giorni per i semidirettivi. Nell’attuale consiliatura, 2018-2022, vi sono state 136 delibere in tema di conferma di direttivi e 240 in tema di conferma di semidirettivi, ed il ritardo medio è divenuto di 329 giorni” così Elisabetta Chinaglia, nell’articolo già citato.
[7] “nel dettaglio, nell’arco di tale periodo, su 704 delibere in tema di conferma di direttivi, 549 sono state le conferme, 13 le non conferme e 142 le delibere di non luogo a provvedere (per trasferimento o pensionamento), mentre su 1155 delibere in tema di conferma di semidirettivi, 1027 sono state le conferme, 12 le non conferme e 116 le delibere di non luogo a provvedere” così Elisabetta Chinaglia, nell’articolo già citato.
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