ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Non ci vuol gran tempo né grande acume anche a chi non sia dell'arte, per accorgersi del molto che è cambiato nella nostra Magistratura: come questa istituzione che fino a poco tempo fa appariva sicuramente al riparo dalle intemperie del mutevole clima politico, sia oggi diventata uno dei “luoghi privilegiati” del dibattito, dove - invece di smorzarsi - gli scontri si fanno più accesi e, all'apparenza almeno, assai più “selvaggi” che altrove. Certo, tra le tante crisi istituzionali che travagliano questa nostra Repubblica, quella della Magistratura è delle più profonde: e, a nostro giudizio, sbaglierebbe gravemente chi pensasse di poterla ridurre nei termini modesti e “controllabili” di una crisi di struttura risolubile con qualche aggiustamento – per l'appunto – strutturale, mutando magari solamente la composizione e i modi di elezione del Consiglio superiore.
Umberto Santarelli[1]
Collocato nel suo tempo – specialmente per il cenno a quella che poteva apparire un cambiamento allora recente – la non breve citazione che precede pare un testo attuale: ma sono passati 50 anni da quando Umberto Santarelli, mite ma deciso giurista cattolico democratico, scriveva queste parole.
Da quel che si legge in giro sulla ennesima proposta di riforma della giustizia non sembra che si siano fatti grandi passi in avanti. Limitando al momento l'esame solo al nodo della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura inquirente, la riforma costituzionale proposta dall'esecutivo appare ad alcuni come una svolta fondamentale, mentre altri la considerano vuoi inutile, vuoi pericolosa, per il timore che sotto mentite spoglie essa apra un varco alla ricorrente tentazione di incrinare lo scudo dell'indipendenza dell'ordine giudiziario.
Non esito a collocarmi nel campo dei dubbiosi, e anche qualcosa in più.
Temo di dover anche anticipare un'obiezione che potrebbe essermi fatta da chi mi conosce: ma tu sei un avvocato civilista, e benché tu dopo la laurea abbia coltivato, e per diversi anni, l'orticello del diritto penale sotto la guida di grandi maestri [2], non hai mai effettivamente svolto la professione del penalista, essendoti dedicato fin da subito al più tranquillo ambito del diritto e del processo civile.
C’è del vero, ma tralasciando ogni considerazione sulla presunta tranquillità del mio campo da gioco, 45 anni di attività professionale, istituzionale e formativa mi consentono forse di superare l'appunto, non certo per presunzione ma per la diversa considerazione che qui provo a esprimere una opinione non tanto come tecnico della materia, ma prima di tutto come cittadino che, tutt’al più, rispetto ad altri ha avuto maggiori possibilità di conoscere il mondo della giustizia.
Quando poi apprendo che anche esponenti della categoria di livello professionale e scientifico ben più alto del mio - penso a Franco Coppi e Giuseppe Iannaccone, tra gli altri [3] - nutrono dubbi più o meno analoghi, allora mi sento confortato e autorizzato a dire anch’io due o tre cose.
La prima è che si parla di argomenti che molti in realtà non conoscono bene; e tra i molti includo certamente parecchi colleghi (e non escluderei neppure che si possa dir lo stesso di diversi magistrati). Eppure non è difficile leggersi almeno il Dossier predisposto dai Servizi Studi delle Camere sul disegno di legge giunto in Senato (A.S. n.1353) [4] per sincerarsi tanto della disciplina attuale in materia sul “tramutamento” [5] delle funzioni quanto delle proposte di riforma. Temo, ad esempio, che parte dell’opinione pubblica meno informata creda tuttora che i ruoli di pubblico ministero e giudice penale siano liberamente interscambiabili; ed allora è responsabilità dei protagonisti del processo - avvocati e magistrati – non aver provato a sufficienza a chiarirlo. Mi limito allora ad un copia e incolla da quel Dossier:
Il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti – e viceversa – è disciplinato dal decreto legislativo n. 160 del 2006, come modificato da ultimo, dalla legge 17 giugno 2022, n. 71.
Ai sensi dell'art. 13 del D.Lgs. n. 160 del 2006, viene innanzitutto sancito come principio generale che il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, importi un cambiamento di sede. Infatti, il mutamento di funzioni, ai sensi del comma 3 del citato art. 13, non è consentito all'interno dello stesso distretto, né all'interno di altri distretti della stessa Regione, né infine con riferimento al capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale, avuto riguardo al distretto nel quale il magistrato presta servizio al momento della richiesta.
In particolare, il comma 3 dell’articolo 13 prevede che il magistrato possa chiedere il cambio delle funzioni:
- una sola volta nel corso della carriera;
- entro il termine di 6 anni dal maturare per la prima volta della legittimazione al tramutamento previsto dall’articolo 194 dell’ordinamento giudiziario.
L’art. 194 dell’ordinamento giudiziario (Tramutamenti successivi) prevede che il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede, non possa essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di 4 anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell'ufficio, salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. Per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione il termine è di 3 anni.
Trascorso tale periodo, il passaggio di funzioni è ancora consentito, per una sola volta se si tratta:
- del passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, purché l'interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali;
- del passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste.
Il passaggio è consentito solo previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario.
Fermiamoci qui.
Se fosse così (ma è così) la riforma non parrebbe poi talmente fondamentale da far sperare che sia la panacea di tutti i mali. So bene, naturalmente, che non è stato sempre così, e guardo anzi con un qualche imbarazzo a proposte di segno opposto tese apparentemente a voler ripristinare maggiori libertà di scelta del magistrato; e posso comprenderle (ma non giustificarle) solo come determinate dalla reazione ad un clima politico pesante.
Ma allora, che c’azzecca – direbbe proprio un P.M. che tutti ricordano – creare due carriere, due organi di autogoverno, un’unica Alta Corte disciplinare?
A me, che sono un civilista di provincia, sembra che azzeccarci, ci azzecchi poco. E da soggetto professionalmente diffidente (forse c’entra un poco anche esser uno di quei maledetti toscani di Malaparte) vien da chiedermi perché concentrare una tale potenza di fuoco su questi obiettivi.
Certo, è stata una battaglia di associazioni forensi prestigiose e seguite, come le Camere penali; certo, un esame spassionato della materia non vien creduto tale, se dà spazio alle ragioni dell’ “altro” (s’intende, per gli avvocati l’ “altro” sono i magistrati); certo, questi “altri” non sono esenti da pecche e vizi: eccome ! non è questa la sede per elencarli ma tutti noi conosciamo foss’anche soltanto un’aneddotica che, anche se non supera i limiti dell’illecito disciplinare, di sicuro non fa brillare la professionalità di parecchi membri dell’ordine giudiziario (aneddotica – aggiungerei – pari soltanto a quella analoga che riguarda noi, gli avvocati).
Ma illudere i cittadini che con la riforma non ci saranno più storture, i processi dureranno qualche mese, P.M. e giudici si guarderanno istituzionalmente in cagnesco (come se questa fosse di per sé una garanzia per indagati e imputati), immaginare una Shangri-La giudiziaria, questo non va bene. Eppure a leggere certe testate (darle nel muro, le testate, sarebbe un miglior consiglio) giornalistiche questo potrebbe essere il paradiso che ci attende.
Se a queste illusioni non dovessimo credere, il solito tarlo del dubbio dovrebbe farci andare alla ricerca dei motivi di queste campagne. La magistratura ha così poco appeal che darle addosso fa guadagnare voti? Potrebbe essere un primo motivo. Un P.M. potenzialmente più autonomo potrebbe essere contemporaneamente più sensibile alle indicazioni del potere esecutivo, pur senza previsioni normative specifiche in tal senso? Anche. Ma soprattutto: siamo davvero convinti che sia conveniente avere un P.M. più “libero”? Anche qui ricorro sprezzantemente al plagio per citare quanto ha scritto di recente Luigi Gatta, che non potrei mai sperare di dir meglio:
Siamo sicuri che, per una eterogenesi dei fini, il CSM requirente non consolidi invece, nel medio lungo periodo, una corporazione di pubblici ministeri, che esercita, nel processo e fuori da esso, poteri ben più forti di quelli che una parte privata come l’avvocato, inevitabilmente, ha nel nostro come in altri sistemi, pure accusatori? [6]
Il riferimento di Gatta ad altri sistemi mi fa pensare subito agli Stati Uniti, dove il plea bargaining costituisce lo strumento principe dell’amministrazione della giustizia penale (con percentuali del 98% dei casi) giusto grazie allo strapotere della pubblica accusa (che là si può correttamente definire così), che va a braccetto con la non obbligatorietà dell’azione penale [7]. Non vorrei fare quella fine lì [8].
E se invece andassimo a trovare altrove qualche diverso motivo dell’inefficienza del sistema giustizia italiano? Che dire delle risorse destinate alla giustizia? Ci son forse già troppi magistrati? E qui anch’essi hanno le loro responsabilità, quando qualcuno di loro ci viene a dire che in realtà siamo in perfetta media europea; sarà anche vero, ci saranno allora troppi avvocati che vogliono fare troppe cause? Però francamente… E il personale amministrativo? Com’è noto e ormai proverbiale, da noi le riforme si fanno solo a costo zero, ed infatti non finiscono mai, come gli esami di Eduardo. Allora, ancora con Gatta, una modesta proposta potrebbe essere quella di rivalutare piuttosto il ruolo del difensore: “siamo proprio sicuri che la parità delle armi tra accusa e difesa dipenda dalla separazione delle carriere e da un rafforzamento della figura del pubblico ministero e non, in ipotesi, da un rafforzamento del ruolo e della figura del difensore, magari con una unificazione delle carriere e della formazione, come avviene in altri sistemi?”.
Trovo che questo della formazione comune sia un nodo essenziale, e penso per esempio al reclutamento dei magistrati in Gran Bretagna, Germania e Francia [9], il che mi pare giustificare almeno parzialmente anche la sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo (esistente sia in Germania che in Francia ed altri paesi europei, ma non esente da critiche). C’è da dire che ora anche in Italia a questo profilo sembra farsi più attenzione, più per merito delle due categorie che del legislatore, anche se di recente un chiaro invito si legge nel D.M.110/2023 sulla redazione degli atti giudiziari, dove all’art.9 , c.3, si legge che il Ministero della giustizia in collaborazione con la Scuola superiore dell’avvocatura non solo favorisce le iniziative formative sui criteri e le modalità di redazione degli atti giudiziari adottate nell'ambito della formazione obbligatoria dell'avvocatura, ma in particolare “sostiene, in materia, le iniziative formative comuni alla magistratura e all'avvocatura, anche con il coinvolgimento di linguisti”.
E noi giuristi pratici, se dobbiamo collaborare, se vogliamo collaborare, da un lato ci sarebbe da ripensare un po’ più seriamente sul posto che tocca agli avvocati nei Consigli Giudiziari, e dall’altro riflettere ancora sul tema della responsabilità disciplinare (e civile) dei magistrati, delicatissimo e a diretto contatto con quello dell’indipendenza [10].
La separazione delle carriere è peraltro solo uno dei temi della complessiva opera di riforma della giustizia. Il “movimento” che si registra in parecchi Paesi verso forme di governo che restano formalmente democratiche ma più autoritarie (in Europa pensiamo subito all’Ungheria, alla Polonia del PIS; per gli USA è strano vedere chi si meraviglia delle iniziative di Trump: non aveva letto il suo programma, probabilmente [11]) mi induce ad una considerazione che in realtà non dovrebbe sorprendermi: che cioè sono i giudici l’ultimo argine contro queste derive, e che sotto questo profilo è interesse proprio dell’avvocatura salvaguardarne l’indipendenza, per il semplice fatto che è interesse del Paese. Ogni cautela su un radioso avvenire è quindi legittima, e il rischio di inerpicarsi sulle Cime abissali di Zinov’ev più presente [12].
I dubbi aumentano quando si accenna a prossimi passi in direzione della sottrazione alle Procure del potere di direzione della polizia giudiziaria [13]. E due.
E in questi giorni si sono scatenate le critiche all’ordinanza n.5992/2025 delle S.U. civili [14] che ha reso l’apparentemente incredibile affermazione che “Se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche, la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato ─ pur prevista, in presenza di determinati presupposti, da norma costituzionale ─ non può che costituirne l’eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale” (e pensare che nella mia ingenuità tutto ciò mi pareva scontato…), critiche talmente forti da determinare la reazione della Prima Presidente. E tre.
In conclusione, non voglio ricordare – lo fanno in troppi – l’abusato detto di Agatha Christie[15], preferendo citare il James Bond di Goldfinger: “Once is happenstance. Twice is coincidence. Three times is enemy action”: ma mi si scuserà se in questo modo dovessi apparire troppo diretto.
[1] In Il Domani d’Italia, 1.6.1975: si legge nella raccolta di articoli di Santarelli Un professore innamorato de giornalismo, Edizioni Toscana Oggi, Firenze, 2024, p.54 ss. Tra i numerosi interventi è una perla rara, anch’essa purtroppo attualissima, “Eia, eia, alalà” da Avvenire del 5.3.1970, ibidem p.405.
[2] Come Tullio Padovani e Mario Chiavario.
[3] Da notizie di stampa – Il Fatto Quotidiano del 28.2.2025 – anche Guido Alpa avrebbe espresso perplessità. Il suo ricordo non ci abbandonerà: la sua presa di posizione sul tema sarebbe allora l’ultimo avviso che ci ha lasciato. Di G.Iannaccone,su questa Rivista, In difesa della funzione giurisdizionale dei Pubblici Ministeri.
[4] https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01443762.pdf . Di Franco Coppi l’intervista a La Stampa del 30.5.2024, https://www.lastampa.it/politica/2024/05/30/news/franco_coppi_riforma_ideologica_errori_giudiziari-14345823/ Comunque pessimistiche le considerazioni di Cataldo Intrieri - http://www.libertaeguale.it/la-riforma-della-giustizia-e-lo-specchio-per-le-allodole/ - che cita Paolo Ferrua “Il circolo vizioso: dal processo accusatorio senza la separazione delle carriere alla separazione delle carriere senza il processo accusatorio. Aperta la discussione su quale sia peggio”…
[5] Ma che termini terribili usiamo, noi giuristi?
[6] L.Gatta, Separazione delle carriere e riforma costituzionale della magistratura: 20 domande per un confronto e un dibattito aperto, https://www.sistemapenale.it/it/editoriale/separazione-delle-carriere-e-riforma-costituzionale-della-magistratura-20-domande-per-un-confronto-e-un-dibattito-aperto .
[7] Per una semplice verifica in rete cfr. un articolo un poco datato (ma dopo le cose sono andate ancora peggio…) come quello di E.Viano, Plea Bargaining in the United States: a Perversion of Justice, in Revue Internationale de droit penal, 2012/1 Vol.83, p.109-145, https://droit.cairn.info/journal-revue-internationale-de-droit-penal-2012-1-page-109?lang=en&tab=texte-integral .
[8] “The US has 5% of the world’s population but 25% of the world’s prison population • 44% of Americans have a criminal record • 1 in 12 Americans, including 1 in 3 black men, have a felony conviction”: dal sito Fair Trials.org.
[9] Per una elementare introduzione v. il sito della IAC – Judicial Appointments Commission https://judicialappointments.gov.uk/ ( per England and Wales), mentre in Germania è fondamentale il concetto di “giurista unitario” v. A. Keilmann, The Einheitsjurist: A German Phenomenon , German Law Journal , Volume 7 , Issue 3 , 01 March 2006 , p. 293 – 312. Per Francia, Germania, Spagna utile il Dossier di cui alla Nota 4.
[10] Utilissima la lettura della Opinion n.27 del CCJE “on the disciplinary liability of judges” , https://rm.coe.int/opinion-no-27-2024-of-the-ccje/1680b2ca7f .
[11] Masha Gessen, che di autoritarismi se ne intende (è ben nota esperta della Russia di Putin) scriveva nel 2016 - dopo la prima elezione di Trump – alcune regole per sopravvivere alle autocrazie; la prima è “Credete all’autocrate” (The New York Review of Books, 10.11.2016). V. l’appello dell’ABA-American Bar Association del 3.3.2025 The ABA rejects efforts to undermine the courts and the legal profession, https://www.americanbar.org/news/abanews/aba-news-archives/2025/03/aba-rejects-efforts-to-undermine-courts-and-legal-profession/ . Tutti i siti citati sono stati consultati il 9 marzo 2025.
[12] “Non può andare peggio di così, disse il pessimista. Ma si che può, rispose l’ottimista”, A.Zinov’ev, Cime abissali, Adelphi, Milano, 1979.
[13] Il Foglio del 2.12.204, intervista di C.Cerasa al ministro Nordio.
[14] È il noto caso del migrante la cui libertà personale era stata illegittimamente ristretta sulla nave Diciotti.
[15] “Una coincidenza è solo una coincidenza, due coincidenze sono un indizio, tre coincidenze sono una prova" dice Poirot.
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
La prima puntata racconta di Mitiga e degli orrori che vi si svolgono e si può leggere qui.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Sommario: 1. Da un quartiere di periferia - 2. La milizia e il suo generale - 3. Le prigioni di RADAA - 4. L’oppressione attraverso l’illegalità e la violenza.
1. Da un quartiere di periferia
Uno dei tanti gruppi di miliziani che spadroneggia all’accendersi della miccia dell’insurrezione contro Mu’ammar Mohammed Abu Minyar Qadhahafi (per tutti, ma soprattutto per gli italiani, Gheddafi). Questa è l’origine delle Forze Speciali di Deterrenza, Al-Radaa o, più semplicemente, RADAA. Vale la pena parlarne, perché è in questo gruppo armato che si afferma il ruolo dell’uomo che la Corte penale internazionale voleva fosse arrestato: Osama Elmasry Njeem.
La trasposizione in lingua occidentale di nomi appartenenti a idiomi per noi ostici e l’avvicendarsi continuo di sigle che designano apparati non necessariamente differenti aumenta la difficoltà di comprendere le dinamiche più turbolente degli scenari nel mondo arabo. Si procede quindi per approssimazioni terminologica che concorrono a rendere ancora più approssimati i riquadri bellici e politici.
Tra febbraio e marzo 2011 la Libia transita in poche settimane dalla sua primavera araba al conflitto civile. Tra i rivoltosi riuniti nel Consiglio nazionale di transizione, si segnalano a Tripoli il gruppo indipendente di combattenti formatosi nel quartiere nel quartiere Souk al Juma e condotto da Abdel Raouf Kara.
Souk al Juma era stato in passato un centro amministrativo autonomo, a est della capitale, dalla cui area urbana viene inglobato alla fine del secolo scorso. È nelle sue strade che tra il 1925 e il 1933 si svolge il gran premio automobilistico di Tripoli. Nel 1930 vi perde la vita l’asso del volante, Gastone Brilli-Peri – le cui gesta saranno evocate dal cinema e dalla canzone del nostro tempo[1] – schiantandosi contro il muricciolo di un giardino con l’Alfa Romeo lanciata a 180 chilometri orari. Era stato campione mondiale e aveva vinto il gran premio di Tripoli appena l’anno prima.
La tragedia suscita tale scalpore da indurre il regime coloniale fascista a costruire nei pressi un autodromo non cittadino. L’area prescelta è nella vicina oasi di Tagiura, nei pressi del lago di Mellaha, dove viene realizzato anche una base militare, che assumerà col tempo il nome di Mitiga.
Nell’insurrezione contro Gheddafi l’aeroporto, adibito da una quindicina d’anni al trasporto civile, diventerà un obiettivo militare fondamentale. Le milizie di Kara sono stanziate a pochi chilometri di distanza. Anche dal punto di vista logistico l’attacco all’esercito governativo è strategicamente favorevole e ha successo nell’arco di poche settimane. Kara è ormai un signore della guerra; ha raccolto circa 700 combattenti, che costituiscono un’unità appetita dal costituendo Governo di accordo nazionale (GNA), che nel tempo entra a fare parte dell’amministrazione dell’interno.
2. La milizia e il suo generale
Mitiga è diventata il quartiere generale della RADAA, che conta oggi 1.500 componenti. Il dato è formale. Kara si vantava già diversi anni fa di essere in grado di radunare fino a diecimila combattenti, “se venissero chiamate le mie riserve”[2]. È la terza milizia più numerosa a Tripoli e una delle più potenti della Libia occidentale[3], se si pensa che nel solo anno 2022 il Ministero dell’interno le ha destinato quasi trenta milioni di dollari americani.
Nel frattempo, RADAA è divenuta Apparato di deterrenza per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo (DACTO). Ora la sua posizione di vantaggio è doppia: come dipartimento statale, ha compiti ufficiali di polizia militare, finanziato e riconosciuto dal Governo; come milizia facente capo a un signore della guerra, continua a godere di autonomia operativa. La maggior part dei suoi componenti sono inquadrati formalmente nella polizia libanese. In questa veste, essi sono abilitati a compiere indagini, arresti, perquisizioni, posti di blocco, ad eseguire confische.
La forza di RADAA sta nell’avere radunato dall’inizio tutti i combattenti appartenenti alla tribù Thuwar, fedele ai principi della Sharia. Di qui la sua compattezza etnica e religiosa, che tuttora ne rappresenta un fattore di coesione. All’osservatore occidentale sembra difficile concepire un’articolazione statale legittimata a ingerirsi nei diritti fondamentali dei propri cittadini, ma autonoma e guidata al contempo dalla legge islamica, che ha regole proprie e differenti. In Libia – e non solo – sono distorsioni come queste a generare il caos amministrativo dando vigore alla sola legge possibile, quella della forza.
Da quando è entrato a fare parte della nomenclatura del GNA, Kara, che oggi ha 46 anni, agisce con accortezza. È un personaggio temuto, ma agli interlocutori si propone come persona pacata, che pondera le parole. Non rilascia volentieri interviste e il suo profilo è quasi sparito dal web. Osserva con rigore le regole della sua fede (digiuna ogni lunedì e giovedì), ma anche su questo aspetto con gli ospiti sa mostrarsi aperto e tollerante.
Kara rivendica con disinvoltura in prima persona la propria autonomia dalle scelte governative (“a volte devo prendere decisioni perché nessuno vuole assumersi la responsabilità di proteggere la popolazione e le istituzioni”) e giustifica con cinico pragmatismo il regime imposto ai “suoi” detenuti ella prigione di Mitiga: “se esistesse un sistema giudiziario equo, sarebbero processati. Ma il sistema giudiziario attuale non esiste”[4]. Peccato che a non fare funzionare il sistema giudiziario attuale contribuisca lui stesso, come vedremo.
Mitiga, intanto. All’interno dell’aeroporto, struttura amministrativa e zona detentiva si confondono, diventano un tutt’uno nel via vai di uniformi, miliziani senza divisa, guardie carcerarie, detenuti o prigionieri rapiti: un corpo unico che è l’allegoria terribile del disordine che domina nel Paese intero.
3. Le prigioni di RADAA
Mitiga non è l’unico centro di detenzione affidato a (o comunque controllata) da RADAA in Libia. Ne è però la principale: per numero di detenuti, per vicinanza alla capitale e per fama.
Qui a comandare è un luogotenente di Kara, Osama Elmasry Njeem. “Al Masri”, come lo chiamiamo in Italia, o “Njeem”, secondo la dizione impiegata dalla Corte penale internazionale, non è un generale, per quanto comunemente lo si definisca tale. È piuttosto un capo militare, che risponde a Kara. Gli è stata affidata la struttura detentiva di Mitiga e a Mitiga fa ciò che vuole.
Secondo autorevoli commentatori “è solo un sadico che tortura le persone”[5]. Il profilo psichico ha il suo peso. Ciò che conta, però, è che i miliziani di RADAA eseguono i suoi ordini con brutale meticolosità. Mitiga non è la sola prigione libica denunciata pubblicamente per le torture che vi vengono commesse[6]; è però quella che nel tempo ha acquisito la nomea più cruenta. Le Nazioni Unite hanno radunato un gruppo di esperti che ha raccolto un numero di testimonianze elevato, ma imprecisato (per tutelare l’incolumità degli intervistati). Alle 299 pagine della relazione finale sono allegati documenti, fotografie, filmati, registrazioni che ricostruiscono l’intera filiale del traffico di esseri umani, che vede coinvolti 17 boss libici, tutti in divisa da militare o in grisaglia da funzionari pubblici[7].
Ad alcuni detenuti, specialmente subsahariani, è offerta una chance per sottrarsi alla tortura: arruolarsi alla RADAA e partecipare in prima linea alle azioni contro la Libyan National Army (LNA) di Khalifa Belkasim Haftar, il nemico che occupa la parte orientale della Libia. Basta questa sola circostanza a fare comprendere quanto la milizia del generale Kara sia screditata, ma al tempo stesso temibile per le sue violenze incontrollate.
Mitiga non è un carcere per migranti. Ma i migranti vi arrivano comunque, perché da loro RADAA trae risorse: prima ancora che quelle umane, quelle in denaro, estorto ai loro familiari una volta che ricevono le telefonate e li ascoltano implorare il pagamento di migliaia di dollari mentre vengono picchiati dai secondini.
I nomi dei collaboratori di Njeem a Mitiga sono noti: Khalid al-Hishri Abuti, Moadh Eshabat, Hamza al-Bouti Edhaoui, Ziad Najim, Nazih Ahmed Tabtaba. Sono tutti considerati ufficiali della milizia, con ruoli anche superiori a Njeeem, ma non a Mitiga. Nel carcere comanda lui. Mitiga è RADAA e RADAA a Mitiga è Njeem. Questa è la sintesi fattuale che si trae dalle molte testimonianze raccolte da missioni internazionali[8] e compiuta pure dalla camera preliminare che ha trattato della vicenda per la Corte penale internazionale[9].
Perciò le condotte dei miliziani a Mitiga sono riconducibili ai voleri di Njeem, il quale del resto conosce bene la loro attitudine alla violenza e alla sopraffazione, resa più cieca dal culto religioso che intimamente le motiva. La tolleranza governativa per quanto vi accade ha fatto di Mitiga un modello da esportare nella Libia occidentale.
Si ha infatti notizia di soprusi analoghi nella vicina prigione di Judaydah, anch’essa controllata da RADAA. Sono stati accertati crimini contro l’umanità commessi nelle carceri di al-Kwaifiya e di Germada, gestite dalle Forze armate arabe libiche, e nei centri di detenzione che sono dirette dal cosiddetto Apparato di sostegno alla stabilità (SSA), dall’Agenzia per la sicurezza interna (ISA), dalla Direzione per la lotta alla migrazione illegale (DCIM)[10].
La miriade di sigle e satelliti che popolano la nebulosa libica dà la misura della disgregazione estrema dei centri di potere e, con questa, del suo esercizio inevitabilmente incontrollato; di qui l’assenza di un livello minimale di legalità all’interno delle strutture di detenzione.
4. L’oppressione attraverso l’illegalità e la violenza
I ristretti diventano quindi materiale utile alla causa delle milizie. Non solo soldi e arruolamenti forzati. Vi sono le donne e i giovani vittime di abusi sessuali sistematici, maschi in salute impiegati come schiavi e nei lavori forzati o costretti a subire prelievi di sangue destinato ai soldati feriti in combattimento[11].
Si ripete inoltre ciò che la storia ci ha fatto apprendere dall’orrore dei lager. Per sopravvivere, alcuni detenuti accettano di essere investiti delle forme di collaborazione più sgradevoli. Gli vengono così affidati i compiti di trasportare e perquisire altri carcerati all’arrivo nel carcere, di abusare fisicamente di loro in segno di spregio, di partecipare alle violenze più impegnative: sospenderli in posizione di stress, rinchiuderli in una “bara” in posizione verticale, collocarli proni con le piante dei piedi rivolte verso l’alto per subire le percosse secondo il metodo falqa[12].
Inutile dire che la scelta delle vittime di queste atrocità deriva soprattutto dall’orientamento della milizia che gestisce il carcere. Nel caso della RADAA, i detenuti vengono discriminati in ragione della posizione politica effettiva o percepita, dell’appartenenza a talune etnie, delle accuse per fatti che maggiormente contrastano il suo credo religioso. Vi sono pertanto persone maltrattate in quanto sospettate di omosessualità e costrette a frequentare corsi di religione tenuti a Mitiga.
La Libia non conosce sistemi di protezione per le vittime di violenza sessuale e di genere. La loro vulnerabilità è la conseguenza anche di una combinazione di norme patriarcali pervasive che ammettono, quando non impongono, la disuguaglianza di genere. Non esistono inoltre istituzioni, nemmeno di carattere giudiziario, che garantiscano forme di tutela per chi denuncia violenze di questo tipo.
Secondo il Ministero della giustizia libico a fine 2022 Mitiga ospitava 2.315 persone. Osservatori indipendenti affermano invece che RADAA ve ne tenesse rinchiuse allora più di 4.000[13]. Il divario di cifre è spiegabile con la propensione della milizia all’arresto illegale, al sequestro di persona, alla restrizione illecita dei migranti in transito dalle regioni subsahariane. Le denunce pubbliche internazionali non hanno finora condotto le autorità governative della Libia occidentale a intentare alcuna indagine effettiva sui crimini contro l’umanità commessi nelle sue strutture di detenzione.
RADAA del resto agisce fuori controllo. Lo dimostra l’impunità con cui i suoi elementi hanno potuto compiere pubblicamente alcune azioni violente. Nell’agosto 2022 un avvocato è stato aggredito davanti ai giudici, percosso e infine prelevato a forza dall’aula del tribunale dove stava esercitando; dopo essere stato trattenuto a Mitiga per otto ore, è stato rilasciato a seguito di pressioni su Njeem da parte di altre autorità non ufficiali[14]. Non risulta che il legale abbia denunciato l’accaduto.
Una giornalista libica ha invece denunciato gli abusi e le torture subiti durante la propria detenzione. È stata subito minacciata di arresto da parte della RADAA con l’accusa di essere una prostituta e una donna dedita al “vizio” se avesse insistito e affermato, in particolare, di essere stata violentata. Per verificare il proprio sospetto di essere incinta, ha dovuto fingere di avere necessità di salute per sottoporsi ad esami del sangue; una volta accertata la propria gravidanza, si è autosomministrata dei farmaci. In Libia l’aborto è reato; il concepimento causato da uno stupro non sempre è scriminato, poiché di fatto vi sono frequenti casi di denunce delle vittime per avere avuto rapporti sessuali extra coniugali[15].
[1] In Cronache di poveri amanti, di Carlo Lizzani e in Nuvolari, di Lucio Dalla.
[2] O. Heshri, SSC still necessary – Abdel Raouk Kara, in Security assistance monitor, 13 settembre 2013.
[3] A quick guide to Libya’, main players, in Analysis dell’European Council of foreign relations, in www.ecfr.ue, consultato il 13 marzo 2025.
[4] O. Heshri, cit.
[5] I. Magdud, Almasri è un pesce piccolo, ecco perché l’Italia lo ha riportato indietro, in il sussidiario.net, 1 febbraio 2025.
[6] Si legga, ad esempio, Urgent call: Libyan Arab Armed Forces must be held accountable for torture crimes committed in Garnada, a cura della World organization against torture (OMCT) e del Libyan antitorture Network (LAN), 20 gennaio 2025, Tunisi.
[7] N. Scavo, Il dossier. Già a dicembre 2024 anche l’Onu accusava Almasri di crimini e abusi, in Avvenire, 4 febbraio 2025.
[8] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 10-12.
[9] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n° ICC-01/11, 18 gennaio 2025, p. 27.
[10] Cfr. Rapporto 2023-2024 su Medio oriente e Africa del nord. Libia, in amnesty.it, consultato il 7 marzo 2025, nonché Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 11.
[11] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n° ICC-01/11, 18 gennaio 2025, p. 26 e 28.
[12] Per una spiegazione di questo metodo di tortura si rimanda alla prima parte di questo scritto.
[13] Cfr. Urgent Action: military prosecutor forcibly disappeared, in amnesty org, 24 luglio 2023, e Report of Indipendent fact-finding mission on Libya (FFM), marzo 2023.
[14] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 17.
[15] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 15.
Dopo la morte improvvisa di papa Gregorio XVII, i cardinali si riuniscono in conclave sotto la guida del decano Thomas Lawrence per eleggere il nuovo pontefice.
Ritualità solenne e senza tempo, una forma che assume i connotati della sostanza, in un cerimoniale rimasto immutato nei secoli: dalla rimozione dell’anello piscatorio dal dito papale, con un attrito sulla carne volutamente disturbante, all’ufficializzazione del decesso, con la sede che si fa vacante. La solennità stride con il corpo morto dell’uomo-papa, prelevato dal letto nella Domus Sanctae Marthae, racchiuso in un sacco al pari di chiunque altro e sballottato su un carrello e poi su un’ambulanza, con suoni e luci asettici e dissacranti.
Conclave di Edward Berger (premio Oscar per Niente di nuovo sul fronte occidentale) è un thriller nutrito di intrighi e giochi di potere, che tutti immaginiamo esistenti in Vaticano. Ma prima ancora è una storia resa cinematografica dal Vaticano stesso. Un’elezione che nulla ha di diverso da quella di un – altro – sovrano-presidente, se non fosse per la suggestione insita nelle immagini tipiche della Chiesa cattolica, nettare per la cinepresa statunitense, arricchita dalle interpretazioni impeccabili di un cast eccellente: Ralph Fiennes nel ruolo del decano protagonista; Stanley Tucci, il liberale cardinale Bellini, ambizioso, ma fedele Segretario di Stato; John Lithgow nei panni dell’ambiguo canadese Tremblay; Lucian Msamati, il nigeriano cardinal Adeyemi, che porta con sé irrisolte zone d’ombra; uno straordinario Sergio Castellitto, che ruba la scena nel ruolo del reazionario cardinale Tedesco; e l’iconica Isabella Rossellini, suor Agnes, a lungo in silenzio, ma che saprà parlare al momento consono, gridando accuse per poi inchinarsi educatamente prima di uscire di scena. Azzeccatissimo il riconoscimento per il miglior cast ai SAG Awards 2025, così come calzanti appaiono le numerose candidature agli Oscar (tra le quali miglior film, miglior attore protagonista e migliore attrice non protagonista per la Rossellini).
Ma è anche un film che parla di dubbio, quest’ultima opera del tedesco Berger, tratto dall’omonimo bestseller di Robert Harris. Il dubbio dell’uomo, oltreché dell’uomo di fede, il dubbio del tormentato e vacillante decano Thomas Lawrence che magnificamente interpreta e invoca la ricerca ininterrotta dell’umano nell’uomo cara a Vasilij Grossman. Il dubbio che inevitabilmente la Storia porta con sé, contaminando dall’esterno la segretezza della dimensione vissuta dai cardinali sottochiave.
Il regista e amministratore del conclave è lui, il riflessivo decano Lawrence, sofferente per aver assunto un ruolo di amministratore al quale di spirituale è lasciato ben poco (dimensione che trova la sua controparte femminile impersonificata in maniera magnificente da suor Agnes, Isabella Rossellini, attenta superiora dello stuolo di suore, inservienti pressoché invisibili, chiamate da tutto il mondo a gestire gli ingombranti candidati). Lawrence di questo compito manageriale si era lamentato anche con il defunto Papa, che aveva rifiutato le sue dimissioni dal ruolo, come se avesse avuto modo di intuire anzitempo che soltanto lui avrebbe potuto traghettare la Chiesa fuori dalle sabbie mobili del suo pantano istituzionale, riallineandola con una Storia sempre troppo veloce e complessa per un organismo che deve fare i conti con così contrapposte istanze.
La capacità di dubitare diviene, quindi, il punto più alto della ricerca (anche spirituale), tra inciampi, sconfitte e vanità, la debolezza che anche il Gesù della Passione ha attraversato, mostrando in quella fragilità la radice più intima dell’umanità insita nella cristianità. Il ruolo di protagonista è ricoperto proprio da questa fragilità, un dubbio che è indecisione sulla propria natura, talvolta estranea a un sentire più profondo, come quello della tartaruga che fu del santo padre, incapace di adattarsi al destino scelto per lei e, ancora, quello del cardinale in pectore Benitez (Carlos Diehz), arcivescovo di Kabul, che ha assaporato il gusto amaro della guerra e della vita degli ultimi. Questo elevatissimo afflato non esce scalfito dall’incedere della spy-story che contraddistingue il climax della pellicola, nel corso del quale le certezze si sgretolano come un sigillo di ceralacca violato.
Nel mirino della cinepresa, i vani inaccessibili del Vaticano appaiono come un bunker segreto quanto plumbeo, la cui aria immaginiamo resa irrespirabile dal potere e dalle sue lotte peggiori, fatte di torti, sgambetti e soffiate nell’agguerrita disputa sulla scelta per il successore al trono di Pietro, materia nella quale si muove a proprio agio lo sceneggiatore Peter Straughan. Immagini che tendono alla perfezione sono il punto di forza del film, tra ricostruzioni magistrali (gli studi romani di Cinecittà) e ambientazioni prese in prestito (la Reggia di Caserta). Su di esse vale la pena di soffermarsi un attimo più di quanto strettamente necessario per la riuscita della trama, come abilmente fa la macchina da presa e con lei l’occhio dello spettatore, al quale è concessa una riflessione sulla preghiera come lente sull’anima, che mette a fuoco i tentennamenti dell’uomo ontologicamente obliquo (sovviene la vicinanza prossima tra attenzione e preghiera in Simone Weil).
Unica pecca del film realizzato con maestria da Berger è un approccio che rasenta in più parti il didascalico, come nella scena della finestra che esplode con un tempismo a dir poco singolare e della luce – la Storia – lasciata fuori, che prepotentemente entra nella cappella chiusa, sbaragliandola. Una metafora fin troppo esplicata, che tenta di far scivolare il film in una platealità tipicamente hollywoodiana, un passaggio che serve alla trama per avviarla alla piega conclusiva (non rivelabile), che invero poteva essere raggiunta in modo più raffinato e sottile, senza sminuire l’attualità dirompente sbattuta in faccia ai cardinali e al mondo, capace di sgretolare in un istante i sotterfugi preparati con dovizia di cesellatori dalle ambizioni dei candidati al soglio pontificio. Una sorta di apparizione cristologica, foriera di una necessaria modernizzazione culturale, che rende inservibile la vetusta e immobile dicotomia tra progressisti e reazionari.
Questa improvvisa accelerazione, seppur tipica del thriller, rischia, peraltro, di distogliere dal tema che, in quella fase del film aveva assunto la sua centralità, racchiusa nello sguardo – finalmente – frontale del decano Lawrence: appare sollevato e dunque soddisfatto? Oppure la sua vanità esce frustrata da una lotta che aveva finito per scalfire la sua riluttanza?
Dello scompiglio di quello smantellamento radicale resta la polvere volutamente non spazzolata dalle vesti purpuree. Le macerie di un’istituzione? Più che altro i calcinacci delle certezze sgretolate, nemiche della fede e talvolta nemiche anche delle battaglie di palazzo.
Ricordo di una voce indimenticabile
«Signori all’ascolto, buonasera, queste immagini vi giungono da Stoccarda, città natale di Hegel, padre dell’idealismo tedesco.»
Il giovane telecronista italiano, chiamato a raccontare una sfida di coppa europea tra una squadra di calcio italiana e una tedesca, laureato in giurisprudenza, aveva vinto contemporaneamente il concorso per giornalisti sportivi della RAI e quello per professore di storia e filosofia al liceo di Monfalcone del Friuli.
A città del Messico, nel 1986, dopo aver commentato la finale mondiale vinta dall'Argentina di Maradona, quello stesso telecronista, ormai esperto giornalista sportivo, si congedò dal pubblico a cui aveva parlato per un mese raccontando la sua trasferta latino-americana come in un libro di Gabriel Garcia Marquez, non senza salutare, citando un poeta italiano e uno scrittore messicano, in un umanesimo di colta e affettuosa cortesia, il collega più grande che lo aveva preceduto nelle telecronache azzurre.
Era anche questo Bruno Pizzul, giurista convertito alle lettere, letterato prestato al calcio e mai più restituito.
Aveva giocato ad alti livelli, poi per un infortunio al ginocchio aveva dovuto abbandonare lo sport agonistico.
Nel suo Friuli, quasi a ridosso dei dolorosi confini non ancora del tutto redenti all'Italia, aveva insegnato l’italiano ai ragazzi della scuola media.
Quell’italiano prezioso, oggi quasi dimenticato, che ci regalava nelle sue telecronache: quando commentava un fraseggio di Rivera e Prati a centrocampo: «tutto molto bello!»; una giocata di Causio: «dribbling secco sul disorientato avversario!»; un colpo di testa di Bettega: «stacco imperioso del nostro numero 11, la palla accarezza la parte bassa della traversa e cade nell’angolino»; una punizione di Antognoni: «leggero taglio esterno del pallone, che sorvola la barriera e muore all’incrocio. Nulla da fare per il pur bravo portiere!»; un gol di Baggio: «Roberto… la palla è sul destro… sontuoso gol di Roberto Baggio!»; una rete entusiasmante di Gianluca: «Vialli… Vialli in area… Vialli tiro… Ed è gol!».
«Ed è gol!»: nella sua spoglia eleganza questa espressione sublima lo scopo del bel gioco del calcio («c'est le “but”», dicono i nostri cugini d’oltralpe); è una espressione conclusiva, esaudente, che trova il suo pendant in quella, promettente, con cui Bruno Pizzul iniziava ogni sua telecronaca: «Signori all’ascolto, buonasera!».
L’inizio di ogni partita era una promessa. La promessa di un’avventura bellissima. Raccontata da una voce indimenticabile.
Le Sezioni unite, i migranti e il diritto al risarcimento del danno
(nota a Cass., sez. un. 6 marzo 2025 n. 5992)
Sommario: 1. La vicenda processuale - 2. L’ordinanza delle Sezioni unite in punto di giurisdizione - 3. La giurisdizione tra atto politico e atto amministrativo - 4. La sussistenza della giurisdizione quando siano in gioco diritti fondamentali - 5. La sussistenza della giurisdizione quando una parte faccia valere in giudizio un diritto che abbia (anche solo) astratta tutela giuridica - 6. L’ordinanza delle Sezioni unite in punto di legittimazione ad agire - 7. L’ordinanza delle Sezioni unite in ordine al merito dell’azione di risarcimento del danno. Sintesi dei punti principali - 8. Tre osservazioni: la relatività nell’interpretazione delle norme che regolano la materia - 9. Segue: la pronuncia sembra caduta in ambiti nei quali normalmente il ricorso per Cassazione è inammissibile - 10. Segue: le questioni che le Sezioni unite hanno rimesso al giudice del rinvio - 11. Brevissime conclusioni.
1. La vicenda processuale
La vicenda è nota.
Lo Stato italiano precludeva a dei cittadini eritrei, dal 16 al 25 agosto 2018, l’esercizio della loro libertà personale, impedendo, nei primi quattro giorni, che la nave nella quale si trovavano, U. Diciotti, potesse attraccare nei porti italiani, e rifiutando, nei successivi cinque giorni, una volta permesso l’attracco, di concedere loro il consenso allo sbarco a terra.
Alcuni tra loro si rivolgevano così al giudice ordinario italiano per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito.
Costituendosi in giudizio, il Ministero dell’Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri eccepivano in via preliminare il difetto assoluto di giurisdizione, trattandosi a loro dire, nel caso di specie, di un atto c.d. “politico”, e come tale sottratto al controllo giurisdizionale.
Il Tribunale di Roma accoglieva questa eccezione e dichiarava il difetto assoluto di giurisdizione.
Impugnata la sentenza, la Corte di Appello di Roma riformava la decisione del primo giudice, e dichiarava al contrario sussistente la giurisdizione del giudice, in quanto il fatto non poteva, a suo parere, ricondursi ad un atto politico bensì ad uno amministrativo (e come tale, quindi, perfettamente, soggetto al controllo del giudice); tuttavia nel merito riteneva infondate le domande risarcitorie, in quanto non ravvisava nei comportamenti in oggetto alcuna colpa della pubblica amministrazione.
Avverso tale sentenza una sola parte, Kefela Mulugeta Gebru, proponeva ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo di ricorso.
Nel giudizio in Cassazione si costituivano di nuovo la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Interno depositando un controricorso contenente due motivi di impugnazione incidentale condizionata: uno, ancora, attenente alla sussistenza o meno della giurisdizione, l’altro relativo al difetto di legittimazione ad agire della parte attrice, e quindi del ricorrente per Cassazione, trattandosi entrambe di questioni assorbite per il giudice di appello che aveva considerato infondata la domanda di risarcimento del danno.
Il ricorso veniva così trasmesso alle Sezioni Unite, dovendosi giudicare una questione di giurisdizione.
Il Procuratore Generale depositava memoria, concludendo per il rigetto del ricorso principale, assorbita la questione di giurisdizione.
Ciò premesso, è opportuno affrontare preliminarmente le questioni processuali di giurisdizione e legittimazione ad agire, e solo dopo esaminare la decisione di merito.
2. L’ordinanza delle Sezioni unite in punto di giurisdizione
Nell’affrontare la questione di giurisdizione le Sezioni unite asseriscono (contrariamente a quanto aveva statuito il Tribunale di Roma ma conformemente alla posizione della Corte di Appello di Roma) che: “Deve escludersi che nei comportamenti indicati a fondamento della pretesa risarcitoria possano ravvisarsi i tratti tipologici dell'atto politico, come tale sottratto al sindacato giurisdizionale”.
Al riguardo, per qualificare un atto come politico, le Sezioni Unite ricordano che sono necessari alcuni specifici e inderogabili requisiti, fissati peraltro dallo stesso Consiglio di Stato (si richiama la pronuncia Cons. Stato, Sez. IV, 7 giugno 2022 n. 4636; ma si veda anche, precedentemente, Cons. Stato 11 giugno 2018 n. 3550 e Cass. sez. un. 22 settembre 2023 n. 27177):
─ sotto il profilo soggettivo, l'atto deve provenire da un organo preposto all'indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello;
─ sotto il profilo oggettivo, l'atto deve essere libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici, deve concernere, cioè, la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione.
Le Sezioni unite hanno poi la premura di sottolineare che: “La nozione di atto politico ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità”.
Si precisa, infatti, che: “l’impugnabilità dell’atto è la regola”, poiché, ove non fosse così, il potere politico godrebbe di un arbitrio che non è immaginabile in uno Stato di diritto.
E quindi, ancora: “L'esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale è confinata entro limiti rigorosi (Cass. Sez. U. 02/05/2019, n. 11588, cit.). Non è, quindi, soggetto a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l'intervento del giudice determinerebbe un'interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri (Cons. Stato, Sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502)”.
In concreto, poi, per le Sezioni unite fondamentale è verificare se l’atto in questione si inserisce in un contesto: “di interessi giuridicamente rilevanti”, o, al contrario: “si è in presenza di interessi di mero fatto”; e ciò perché: “L'insindacabilità è il predicato di un atto non sottoposto dall'ordinamento a vincoli di natura giuridica. Ove, viceversa, vi sia predeterminazione dei canoni di legalità, quello stesso sindacato si appalesa doveroso”.
Lo afferma, per le Sezioni unite, anche la Corte Costituzionale con la sentenza 2 aprile 2012 n. 81: “Quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto”; cosicché: “L’azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”.
Sulla base di queste premesse, concludono le Sezioni unite: “va certamente escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale”.
Si riporta il passo motivazionale finale contenuto nell’ordinanza: “Non lo è perché non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici concernenti la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione. Non si è di fronte, cioè, ad un atto che attiene alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali. Si è in presenza, piuttosto, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco e che proprio per questo si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini. Le motivazioni politiche alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione, non rendono, cioè, politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo”.
3. La giurisdizione tra atto politico e atto amministrativo
Che dire?
Premetto che, anche a mio avviso, la giurisdizione nel caso di specie andava ritenuta esistente.
Tuttavia, par evidente, che la distinzione tra un atto politico e un atto amministrativo con motivazioni politiche è assai labile, e certo si basa su una esegesi che non può considerarsi solo tecnica, o meramente giuridica.
Non si può negare, infatti, che il giudice, nel momento in cui deve qualificare un atto in un senso o nell’altro, possiede un’ampia discrezionalità, che lo può condurre ad una decisione oppure alla sua contraria senza per questo incorrere in gravi vizi logici o in conclusioni contra legem.
Se vogliamo offrire una dimostrazione di ciò, possiamo infatti asserire che, pur muovendo dalle stesse premesse dalle quali le Sezioni unite si sono mosse, si poteva benissimo giungere a contrapposte conclusioni con poche varianti di ragionamento.
Se infatti è politico, secondo lo stesso orientamento del Consiglio di Stato richiamato dalle Sezioni unite, un atto che proviene da un organo preposto alla direzione della cosa pubblica al massimo livello, allora lì facilmente si sarebbe potuto concludere che l’atto/comportamento in oggetto era da considerare politico in quanto posto in essere dal Ministro dell’interno e dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, ovvero da organi dello Stato al massimo livello; e parimenti se è politico l’atto che attiene alla direzione suprema generale dello Stato quando è finalizzato a la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura, allora lì egualmente si sarebbe potuto concludere che l’atto, in quanto finalizzato alla salvaguardia del territorio nazionale e alla determinazione politico/governativa della gestione dei flussi migratori, era di nuovo da considerare politico, e non semplicemente amministrativo, poiché appunto avente finalità e determinazioni politiche.
Le Sezioni unite, invece, con le medesime premesse, arrivano all’opposta conclusione, e considerano che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare costituisce atto amministrativo e non politico: “perché non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici”.
Il Tribunale di Roma era andato di contrario avviso ed aveva considerato politico l’atto posto in essere, perché finalizzato al: “perseguimento del preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo ai sensi dell’articolo 9, comma 3 della Legge costituzionale n. 1 del 1989”.
Il discorso crediamo sia chiaro.
Non si tratta in questa sede di stabilire se l’atto in questione ha natura amministrativa oppure politica; si tratta di constatare come la qualificazione dell’atto/comportamento in un senso o nell’altro ha, essa stessa, connotati politici, e ciò nel senso che l’esegesi della fattispecie può indurre, senza errori di percorso logico, a diverse conclusioni, cosicché l’esito dell’attività esegetica, più che essere dipendente dalla realtà obiettiva del sistema giuridico, dipende indiscutibilmente da scelte discrezionali; e la scelta discrezionale delle Sezioni unite è stata quella di considerare l’atto amministrativo e non politico.
4. La sussistenza della giurisdizione quando siano in gioco diritti fondamentali
Le Sezioni unite sono però pienamente condivisibili laddove asseriscono che: “L’azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”.
Questo è, a mio parere, un punto centrale.
Poiché, infatti, in uno Stato di diritto, nemmeno gli atti politici possono porsi in violazione dei diritti fondamentali dell’uomo; cosicché, se un atto infrange un diritto fondamentale, esso, a prescindere dalla sua natura, deve in ogni caso sottostare al controllo dell’autorità giudiziaria, in quanto la soluzione contraria attribuirebbe al potere esecutivo una libertà da ancien régime inaccettabile in una democrazia (in questo senso, se si vuole, anche il Consiglio di Stato, 27 luglio 2011 n. 4502).
Ed anzi, in un sistema democratico, la natura politica di una infrazione dei diritti fondamentali e/o costituzionali, costituisce aggravante, e non esimente, del comportamento tenuto, considerato che purtroppo, se volgiamo lo sguardo fuori dall’Italia, vediamo che in più parti del mondo, ancor oggi, vengono commesse le più aberranti ignominie proprio in ragione della politica.
Correttamente quindi le Sezioni unite hanno asserito che: “quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto”; peraltro richiamando sul punto la sentenza della Corte Cost. 2 aprile 2012 n. 81.
Le Sezioni unite sono state poi chiare nell’attribuire alla libertà personale il valore di diritto primo inalienabile: “Giova rammentare che la libertà personale, oltre ad essere tutelata dall’art. 13 Cost. quale diritto inviolabile della persona, presidiato dalla riserva di giurisdizione e dalla riserva assoluta di legge, è riconosciuta quale garanzia minima ed imprescindibile di ogni individuo ai sensi dell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948, ha trovato una dettagliata tutela, sul piano regionale in seno al Consiglio d’Europa, ai sensi dell’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, e successivamente, a livello internazionale in seno alle Nazioni Unite, ai sensi dell’art. 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Da ultimo, l’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce il diritto «alla libertà e alla sicurezza» di «ogni individuo”.
E a fronte della violazione di un diritto inalienabile quale quello della libertà personale la giurisdizione deve quindi necessariamente sussistere, e non è pensabile che il diritto alla libertà personale possa essere bilanciato, e quindi compresso, con altre esigenze o altri diritti, ancorché pubblici o diffusi.
Le Sezioni unite hanno scritto al riguardo che non può darsi: “un criterio di bilanciamento tra gli opposti interessi (quello dell’interesse pubblico sottostante alla condotta e quello individuale che ne risulta leso)” poiché: “i diritti della persona (sono) inviolabili e come tali non comprimibili né suscettibili di minorata tutela di compromesso”.
5. La sussistenza della giurisdizione quando una parte faccia valere in giudizio un diritto che abbia (anche solo) astratta tutela giuridica
Direi, inoltre, che l’assunto secondo il quale “quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi”, apre poi ad un altro rilievo confermativo della giurisdizione, ovvero a quello secondo il quale il difetto di giurisdizione non può mai darsi quando chi si rivolge al giudice fa valere dinanzi a lui un interesse giuridicamente protetto.
Mi sembra, infatti, che se il legislatore determina dei canoni di legalità, lì non soltanto l’atto soggiace al controllo di conformità alla legge da parte dell’autorità giudiziaria, ma anche l’attore che si rivolge al giudice fa valere in giudizio un diritto soggettivo, o comunque un interesse giuridicamente protetto.
Qui il tema si innesca con gli argomenti che da sempre i processualisti adottano per delimitare i confini del difetto di giurisdizione.
La dottrina ne dà la seguente nozione: “Il difetto assoluto di giurisdizione (o improponibilità assoluta della domanda) nei confronti della pubblica amministrazione, si ha ogni qual volta sia dedotto in giudizio un interesse di fatto, cioè giuridicamente non protetto dal nostro ordinamento né come diritto soggettivo né come interesse legittimo.” (Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2023, 241).
Il difetto assoluto di giurisdizione si ha, così, nelle ipotesi nelle quali la posizione dedotta in giudizio non trova tutela nell’ordinamento, o, detto in modo analogo, “si tratta in definitiva di ipotesi in cui vengono dedotte dinanzi al giudice situazioni soggettive (interessi semplici) che non sono tutelabili in via giurisdizionale, non avendo la consistenza né di diritti né di interessi legittimi” (così Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2019, I, 116).
Questa posizione è anche quella della Corte di Cassazione, sia meno recente (Cass. sez. un. 30 marzo 2005 n. 6635) sia più recente (Cass. sez. un. 1° giugno 2023 n. 15601; Cass. sez. un. 29 maggio 2023 n. 15058); dal che, ai fini della giurisdizione, si tratta di verificare se la pretesa fatta valere in giudizio abbia natura di interesse semplice oppure la consistenza di un diritto tutelato dall’ordinamento; e la valutazione dell’esistenza o meno di questo diritto va fatta in astratto e non in concreto, ovvero si tratta solo di valutare se vi sono, o non vi sono, nell’ordinamento interno e comunitario, norme di protezione, in quanto in concreto la questione cessa di essere di giurisdizione e diventa di merito.
Ora, nel nostro caso relativo al rifiuto del Governo a dare l’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare, la giurisdizione sussiste non solo perché il potere esecutivo non può violare i diritti inalienabili della persona, ma anche perché, per converso, chi abbia subito un tale trattamento e si rivolge al giudice, proprio in forza di quel sistema giuridico che l’ordinanza tratta tra le pagine 14 e 34, fa valere in giudizio una posizione soggettiva che afferma essere di diritto, e ai fini della giurisdizione è sufficiente che la parte affermi l’esistenza della (anche astratta) violazione di un diritto soggettivo perché la giurisdizione debba positivamente affermarsi.
Di fronte alla domanda: “sono stato privato della mia libertà personale e chiedo il risarcimento del danno”, il giudice può ritenere fondata o infondata la domanda nel merito, ma non potrà ritenere che non vi sia giurisdizione, poiché ciò può accadere solo dinanzi ad: “un interesse di fatto, cioè giuridicamente non protetto dal nostro ordinamento”.
Dunque, non ho dubbi nell’affermare che nel caso di specie la giurisdizione sussisteva e che quindi sul punto la decisione delle Sezioni unite è pienamente condivisibile.
6. L’ordinanza delle Sezioni unite in punto di legittimazione ad agire
L’avvocatura dello Stato ha poi sollevato una seconda questione processuale, che è quella della legittimazione ad agire.
La questione era posta in questi termini: “non è dato sapere se gli odierni ricorrenti siano o meno realmente i naufraghi coinvolti nella vicenda della U. Diciotti non essendo stata allegata e prodotta alcuna documentazione da cui poter evincere tale circostanza”.
Le Sezioni unite rilevavano immediatamente che: “l’eccezione poneva a ben vedere una questione non di legittimazione attiva, ma di titolarità, dal lato attivo, del dedotto credito risarcitorio”; e a tal fine ricordavano i principi già fissati da Cass. 16 febbraio 2016 n. 2951: “La legittimazione ad agire attiene al diritto di azione, che spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne titolare; cosa diversa dalla titolarità del diritto ad agire è la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio; quest’ultima è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all'attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto”.
Dunque, nel caso di specie non si poneva in verità alcuna questione di legittimazione ad agire, poiché la legittimazione ad agire, anche ai sensi dell’art. 81 c.p.c., si basa sulla sola affermazione della parte attrice, e la parte attrice, ricorrente in Cassazione, aveva affermato di essere titolare del diritto fatto valere in giudizio.
La questione si poneva solo con riguardo alla titolarità della posizione soggettiva, ovvero il giudice doveva accertare se chi agiva in giudizio era veramente colui che era stato privato per nove giorni della libertà personale sulla nave U. Diciotti.
La Corte di Appello di Roma non aveva affrontato la questione in quanto aveva ritenuta la richiesta risarcitoria infondata per altri motivi, cosicché il problema della titolarità della posizione soggettiva era stata considerata assorbita.
Al contrario le Sezioni unite, ritenendo invece fondata la richiesta risarcitoria, dovevano pronunciarsi sull’eccezione dell’Avvocatura dello Stato.
Qui le Sezioni unite si sono liberate della questione argomentando sui limiti delle impugnazioni incidentali condizionate.
Esattamente si legge nell’ordinanza: “nel giudizio di cassazione, è inammissibile il ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa nel giudizio di merito sollevi questioni che siano rimaste assorbite, ancorché in virtù del principio cd. della ragione più liquida, non essendo ravvisabile alcun rigetto implicito, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio (Cass. 23/07/2018, n. 19503, Rv. 650157 – 01; 06/06/2023, n. 15893, Rv. 668115 – 01; in termini convergenti v. anche Cass. 02/07/2021, n. 18832; 03/02/2020, n. 2334; 12/11/2018, n. 28995”.
Direi che la decisione è ineccepibile: la questione di legittimazione attiva non sussiste mentre quella della titolarità della posizione soggettiva spetta al giudice di merito.
Infine, l’eccezione di difetto di legittimazione ha avuto altresì una coda relativa alla validità della procura.
L’Avvocatura dello Stato aveva eccepito che, stante la mancanza della prova della titolarità del rapporto giuridico dedotto in giudizio, anche la procura alle liti andava considerata nulla.
Le Sezioni unite si sono liberate della questione asserendo che si trattasse di questione processuale assorbita, e come tale inammissibile in Cassazione.
Così si legge nell’ordinanza: “Secondo pacifico indirizzo, infatti, che va qui ribadito, il mancato esame da parte del giudice, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza”.
Da aggiungere che l’eccezione di nullità della procura sembra ultronea, perché la procura era stata correttamente rilasciata dal ricorrente, e solo il tema che si poneva era quello della titolarità o meno del rapporto giuridico; se questa titolarità vi è, allora anche la procura è valida; se non vi è, non è la procura che non è valida, ma è l’assenza della titolarità del rapporto giuridico che inficia il processo.
7. L’ordinanza delle Sezioni unite in ordine al merito dell’azione di risarcimento del danno. Sintesi dei punti principali
Si tratta, a questo punto, di analizzare la decisione di merito.
Nel merito le Sezioni unite riconoscono il diritto del ricorrente ad ottenere il risarcimento del danno, e su questo aspetto decidono in senso contrario alla Corte di Appello di Roma e in modo difforme dalle conclusioni della Procura Generale, che aveva infatti chiesto il rigetto del ricorso.
Esattamente, i punti essenziali ci sembrano i seguenti:
a) la Corte di Appello di Roma aveva ritenuto che il ricorrente non avesse allegato sufficienti profili di colpa dell’amministrazione.
Le Sezioni unite ritengono che le allegazioni siano invece sufficienti.
La Corte di Appello di Roma, al fine di escludere la colpa della pubblica amministrazione, nello stesso passo richiamato dall’ordinanza delle Sezioni unite, aveva infatti rilevato che: “Le Autorità nazionali hanno agito in una situazione di opinabilità idonea quantomeno ad escludere o a ritenere del tutto insufficiente la sussistenza della colpa; la condotta lesiva, risoltasi essenzialmente nel ritardo di dieci giorni nella indicazione del POS (Place of Safety) e nel conseguente diniego della autorizzazione allo sbarco si inserisce in un quadro di forte incertezza delle norme internazionali che regolano la materia dello sbarco a seguito di operazioni di soccorso marittimo: incertezza che ha generato un vero e proprio “conflitto” di attribuzioni, specie tra i paesi rivieraschi, ed ha portato all’emersione di vere e proprie controversie internazionali, come quella avvenuta tra Malta e Italia; mancano in particolare regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo”.
Le Sezioni unite vanno di contrario avviso e ritengono che la normativa sia invece chiara e affatto opinabile; ciò viene spiegato nelle pagg. 17 e ss. dell’ordinanza, ove poi a pag. 21 si precisa: “Alla stregua di tali univoche indicazioni si rivela destituita di fondamento già la premessa da cui muove la Corte d’appello, circa l’«assenza di regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo”. E ancora: “Non può dubitarsi allora che la mancata tempestiva indicazione del POS, unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta normativa internazionale”.
b) La Corte di Appello di Roma, inoltre, precisava che una cosa è il salvataggio in mare nell’imminenza di un pericolo di vita, altra cosa il diritto di attraccare una nave in porto in una fase nel quale non v’è, per i passeggeri, pericolo di vita.
Scriveva infatti la Corte di Appello di Roma: “Un obbligo giuridico direttamente coercibile può ravvisarsi solo con riferimento all’attività di salvataggio in mare, venendo in rilievo il diritto fondamentale alla vita; l’operazione di soccorso in mare non crea un vero e proprio “diritto di ingresso al porto” o di “diritto di sbarco”; le Convenzioni internazionali SAR e SOLAS e le Linee guida IMO, non impongono agli Stati di consentire illimitatamente l’accesso ai propri porti per imbarcazioni soccorse in mare, mantenendo gli stessi il potere di regolare l’ingresso nei territori su cui esercitano la sovranità”.
Anche questo punto non è condiviso dalle Sezioni unite, che precisano: “La Risoluzione MSC.167(78) del 20 maggio 2004 (Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare) esclude che la nave stessa possa esser considerata un POS, se non temporaneamente (par. 6.13: «Una nave di soccorso non dovrebbe essere considerata un luogo sicuro basandosi unicamente sul fatto che i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave. Una nave di soccorso potrebbe non avere strutture e attrezzature adeguate per supportare altre persone a bordo senza mettere a repentaglio la propria sicurezza o prendersi cura adeguatamente dei sopravvissuti. Anche se la nave è in grado di accogliere in sicurezza i sopravvissuti e può fungere da luogo sicuro temporaneo, dovrebbe essere sollevata da questa responsabilità non appena possono essere prese disposizioni alternative») (v. in tal senso Cass. pen. 16/01/2020, n. 6626, relativa al “caso Rackete”; v. anche Cons. Stato n. 1615 del 2025, in motivazione, par. 35)”.
c) Infine la Corte di Appello di Roma aveva ritenuto infondate le domande anche sotto il profilo della prova del c.d. danno-conseguenza.
Le Sezioni unite non negano che la risarcibilità attiene al danno-conseguenza e non alla lesione dell’interesse giuridicamente protetto; tuttavia asseriscono che: “È anche vero però che tale prova ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti”.
Ed inoltre: “In ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non predicabilità di un danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quelli di cui si tratta”.
Concludono così le Sezioni unite che: “L’affermazione della Corte (di Appello di Roma) circa la mancanza di allegazione e prova del danno, non dando conto di tali margini di valutazione, appare pertanto applicare un paradigma in contrasto da quello dettato dal ricordato principio”.
8. Tre osservazioni: la relatività nell’interpretazione delle norme che regolano la materia
Siano consentite talune osservazioni anche in ordine alla decisione di merito.
La prima è che, con riferimento ad essa, io credo si possa affermare quanto ho già rilevato con riguardo alla contrapposizione tra atto politico e atto amministrativo in punto di giurisdizione, ovvero ritengo che il sistema giuridico consenta, in questa materia più che in altre, di porre in essere attività esegetiche che, con pari logicità e correttezza, possano portare ora ad una conclusione ed ora ad un'altra; cosicché la questione è tale da non riuscire ad avere una corretta soluzione giuridica senza che questa non sia anche, al contempo, una soluzione discrezionale.
Di nuovo, alcuni esempi.
a) Le Sezioni unite, in primo luogo, a dimostrazione degli errori nei quali sarebbe caduta la Corte di Appello di Roma, richiamano ampia normativa relativa all’obbligo di soccorso in mare, che si trova disciplinato nel: “c.d. Convenzione SOLAS, acronimo di Safety Of Life At Sea, del 1974, ratificata dall’Italia con legge 23 maggio 1980, n. 313), nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (c.d. Convenzione SAR, acronimo per Search And Rescue, anche nota come Convenzione di Amburgo: ratificata dall’Italia con legge 3 aprile 1989, n. 147, ha trovato concreta attuazione con il d.P.R. n. 662 del 1994, che ha attribuito il servizio di ricerca e soccorso alla competenza primaria del Ministero delle infrastrutture e trasporti che, all’uopo, si avvale del Corpo delle Capitanerie di Porto/Guardia costiera), nonché nella Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay sul Diritto del Mare del 1982 (c.d. Convenzione UNCLOS, acronimo per United Nations Convention on the Law of the Sea, ratificata dall’Italia con legge 2 dicembre 1994, n. 689”.
Queste Convenzioni, tuttavia, sono affermative di principi generali relativi all’obbligo di soccorso in mare; ma restava da vedere se esse potevano applicarsi, e fino a che punto, al caso di specie.
Le domande potevano essere queste:
- i migranti si trovavano in mare, trovandosi in verità in una nave militare italiana dal 16 al 20 agosto e poi nel porto di Catania dal 20 al 25 agosto? Cosa significa trovarsi in mare?
– Erano in pericolo di vita, trovandosi, di nuovo, in una nave militare dal 16 al 20 agosto e nel porto di Catania dal 20 al 25 agosto?
– E ancora, trovandosi in detta situazione, i migranti non erano in un luogo sicuro, c.d. POS?
Dunque la domanda conclusiva poteva essere: la disciplina di quelle convenzioni era interamente applicabile al caso di specie?
Probabilmente sì, è bene hanno fatto le Sezioni unite a ritenerlo, ma è chiaro che, volendo, le Convenzioni potevano essere interpretate diversamente.
Di nuovo la Corte di Appello di Roma aveva invece sostenuto che: “Un obbligo giuridico direttamente coercibile può ravvisarsi solo con riferimento all’attività di salvataggio in mare, venendo in rilievo il diritto fondamentale alla vita; l’operazione di soccorso in mare non crea un vero e proprio “diritto di ingresso al porto” o di “diritto di sbarco”; le Convenzioni internazionali SAR e SOLAS e le Linee guida IMO, non impongono agli Stati di consentire illimitatamente l’accesso ai propri porti per imbarcazioni soccorse in mare, mantenendo gli stessi il potere di regolare l’ingresso nei territori su cui esercitano la sovranità”.
Qualcosa di simile era stata affermata anche dalla Procura Generale: “La Corte di Appello ha correttamente ricostruito i profili giuridici della vicenda in oggetto, non ultimo ha dato atto della insussistenza, in termini di certezza, di un obbligo giuridico – in capo allo Stato competente – di rilasciare il POS ovvero di rilasciarlo entro un determinato termine e secondo determinate modalità”.
b) Le Sezioni unite precisano però che: “la Risoluzione MSC.167(78) del 20 maggio 2004 (Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare) esclude che la nave stessa possa esser considerata un POS, se non temporaneamente”
Ma cosa significa temporaneamente?
I migranti sono stati nella nave nel porto di Catania cinque giorni, dal 20 al 25 agosto 2018.
Cinque giorni, considerata la complessità della situazione, nemmeno negata dalle Sezioni unite, possono essere considerati un tempo superiore a quello che si immagina con l’avverbio temporaneamente?
Le Sezioni unite al riguardo, hanno categoricamente affermato che: “Non può dubitarsi allora che la mancata tempestiva indicazione del POS, unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta normativa internazionale”.
Tuttavia, si comprende, che a qualcun altro, e nei limiti di quella che è una semplice esegesi delle norme, potrebbe sembrare eccessivo questo giudizio, e potrebbe viceversa ritenere che cinque giorni non siano affatto una chiara violazione della predetta normativa internazionale, soprattutto in considerazione della circostanza che i migranti non si trovavano in mare ma nel porto di Catania, e che non era immaginabile per loro un pericolo di vita.
c) Le Sezioni unite, a conferma delle loro tesi, hanno ricordato la corretta interpretazione che deve darsi dell’art. 5, par. 1, lett f) CEDU, il quale espressamente ammette che la privazione della libertà personale è consentita: “se si tratta dell'arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d'espulsione o d'estradizione”.
Le Sezioni unite, per esclude che tale norma possa giustificare il comportamento tenuto dal Governo italiano in quei giorni, ricorda la sentenza Corte EDU Khlaifia and Others v. Italy, la quale aveva affermato che il nostro sistema giuridico “impone che qualsiasi arresto o detenzione abbia una base legale nel diritto interno e, in via prioritaria, nella Costituzione, essendo necessario, in ossequio al principio di certezza del diritto, che le condizioni limitative della libertà personale siano chiaramente intellegibili e che la legge risulti precisa e prevedibile nella sua applicazione nei confronti dei consociati”.
Sulla base di quella pronuncia le Sezioni unite concludevano che: “L’insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l’arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi dell’art. 5 CEDU, atteso che l’art. 13 della Costituzione prescrive il cumulativo soddisfacimento di entrambe le riserve, di giurisdizione e di legge, affinché possa dirsi integrata una legittima restrizione della libertà personale”.
Ora, è evidente, che a qualcuno questa deduzione delle Sezioni unite potrebbe apparire eccessiva, poiché, letta al contrario, significherebbe che a nessun migrante può essere impedito di (liberamente) entrare nel territorio dello Stato se contro di lui non vi è uno specifico provvedimento giudiziario di restrizione della libertà personale ai sensi dell’art. 13 Cost.
d) In breve, non abbiamo nessuna intenzione di entrare nel merito di queste delicate questioni; rileviamo semplicemente che l’esegesi dei combinati disposti di queste norme e dei suoi orientamenti della giurisprudenza, da adottare ai singoli casi concreti, lasciano all’esegeta ampi margini interpretativi; e in seno a detta discrezionalità interpretativa le Sezioni unite hanno scelto di adottare una soluzione diversa da quella che altri giudici avevano precedentemente adottato.
9. Segue: la pronuncia sembra caduta in ambiti nei quali normalmente il ricorso per Cassazione è inammissibile
Mi sembra, poi, se non erro, che le Sezioni unite, in questa occasione, si siano attribuite dei margini di intervento normalmente considerati preclusi, ovvero mi sembra che le Sezioni unite abbiano pronunciato in ambiti nei quali normalmente il ricorso per Cassazione è inammissibile.
Ciò è quanto meno avvenuto, a mio sommesso parere, in punto di danno-conseguenza e in punto di colpa della pubblica amministrazione.
Esattamente mi sia consentito rilevare quanto segue.
a) Sul danno-conseguenza, se da una parte è vero che la prova poteva esser data anche con presunzioni, dall’altra parte però la decisione sembra non aver tenuto conto dei limiti circa il controllo in Cassazione della valutazione delle prove posta in essere dal giudice di merito.
Basti ricordare che la recente Cass. 22 maggio 2024 n. 14207, nel riaffermare che la valutazione della prova è insindacabile in Cassazione, ha fatto il lungo richiamo di tutti i precedenti conformi, così scrivendo: “Non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant'anni: e cioè che "la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione").
E, con più stretto riferimento alle presunzioni, la Corte di Cassazione ha altresì recentemente statuito che: “la valutazione degli indizi compiuta dal giudice di merito è incensurabile non solo quando sia l’unica possibile ma anche quando sia solo una tra le tante plausibili” (così Cass. 22 maggio 2024 n. 14207).
Inoltre nella recentissima Cass. 16 gennaio 2025 n. 1033 si legge: “Il sindacato della Corte di Cassazione sull'attività valutativa delle prove svolta dal giudice di merito è configurabile solo nei casi in cui si applichi il libero apprezzamento in riferimento a una prova, che per legge sia vincolata a determinati criteri di valutazione, o si dichiari di applicare un parametro legale a una prova invece liberamente apprezzabile, senza poter comportare una diversa valutazione della prova da parte del giudice di legittimità”.
Dunque, è pur possibile che la Corte di Appello di Roma abbia errato nel valutare inesistente la prova del danno-conseguenza, ma è parimenti vero, però, se non ci sfugge qualcosa, che la decisione, attenendo alla valutazione della prova, non poteva esser oggetto di controllo in Cassazione.
b) Qualcosa di analogo è successo, sempre a mio sommesso parere, con riguardo alle censure relative alla colpa (o meno) della pubblica amministrazione.
Le critiche che le Sezioni unite muovono alla Corte di Appello di Roma, e che sono contenute nelle pagg. 14/30 dell’ordinanza, sono in gran parte aventi ad oggetto le Convenzioni internazionali in materia, e quindi sono questioni di diritto, ma v’è altresì una parte relativa alla sussistenza o meno della colpa della pubblica amministrazione, che al contrario a me sembra abbia ad oggetto omessi esami di fatti e/o errata motivazione.
Normalmente, la valutazione della colpa è incensurabile in Cassazione, e ricordo genericamente la pronuncia Cass. 7 ottobre 2022 n. 29183: “Ove il giudice di merito, investito da una domanda di risarcimento del danno aquiliano, la rigetti affermando non esservi prova del dolo o della colpa, deve ritenersi inammissibile il motivo di ricorso per cassazione” (conformi, mi sembrano, Cass. 23 luglio 2003 n. 11453; 20 febbraio 2015 n. 3458).
Come spesso avviene, nei ricorsi per Cassazione lo spartiacque tra fatto e diritto è incerto e confuso, e proprio per ciò, in molti casi, la Corte di Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi che, sotto l’apparenza della violazione di legge, in verità tendono a chiedere una revisione dei giudizi di fatto.
In questo caso, però, le Sezioni unite non hanno ritenuto inammissibili le questioni, e sono intervenute su aspetti che attenevano alla motivazione.
Si legge infatti nell’ordinanza: “Non appare condivisibile sul punto la motivazione addotta dalla Corte territoriale”; oppure si legge: “È proprio sotto tale profilo che la valutazione di merito appare monca”; oppure ancora sull’errore scusabile, che le stesse Sezioni unite qualificano come accertamento fattuale: “Su tale piano la valutazione della Corte di merito si appalesa del tutto inadeguata e contraddittoria”, ecc…
Dopo la pronuncia a Sezioni unite Cass. sez. un. 7 aprile 2014 n. 8053 è noto che il controllo della motivazione in Cassazione è limitato alla: "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile"; ovvero è limitato ad aspetti che difficilmente potevano ritenersi presenti nella pronuncia della Corte di Appello di Roma.
E dunque, sia consentito affermare, che in questo caso mi sembra si sia andati oltre questi limiti.
10. Segue: le questioni che le Sezioni unite hanno rimesso al giudice del rinvio.
Infine, sia consentito precisare le questioni che le Sezioni unite hanno rimesso al giudice del rinvio.
Non è secondario ricordarle, e a mio parere sono tre, e non sono di poco conto.
Esattamente:
a) la prima è quella del controllo della titolarità del diritto dedotto in giudizio in capo al ricorrente e della conseguenziale regolarità della procura alle liti che è stata rilasciata al difensore.
Posta la distinzione tra legittimazione ad agire e titolarità del diritto, le Sezioni unite hanno rigettata la prima questione e rimessa la seconda al giudice del rinvio: “possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio”.
Il giudice del rinvio dovrà quindi accertare che il ricorrente sia effettivamente uno dei migranti presenti nella nave U. Diciotti nei giorni compresi tra il 16 e il 25 agosto 2018, e dovrà parimenti verificare se la procura rilasciata al difensore sia effettivamente attribuibile ad una parte titolare del diritto fatto valere in giudizio.
b) La seconda questione rimessa al giudice del rinvio è quella relativa al c.d. danno-conseguenza.
La Corte di Appello di Roma aveva ritenuto che sul punto non fosse stata fornita la prova.
Le Sezioni unite hanno invece statuito che tale prova “ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti”.
Il giudice del rinvio dovrà quindi accertare se questi elementi presuntivi finalizzati alla prova del danno-conseguenza vi sono agli atti oppure no.
c) Ma, direi, il giudice del rinvio, fermo l’accertamento della violazione delle Convenzioni internazionali già acclarata dalla Sezioni unite, dovrà anche valutare in concreto la sussistenza o meno della colpa della pubblica amministrazione, che mi sembra questione, seppur con tutte le precisazioni contenute nell’ordinanza 6 marzo 2025 n. 5992, da ritenere parimenti rimessa al giudice del rinvio.
Ciò si ricava da quanto le Sezioni unite scrivono nelle pagg. 29 e 30 di detto provvedimento.
Esattamente si legge che: “È proprio sotto tale profilo che la valutazione di merito appare monca, non avendo la Corte territoriale in alcun modo valutato se, al netto della discrezionalità attribuita alla P.A. e della flessibilità delle procedure di sbarco, potesse considerarsi comunque ragionevole il forzato trattenimento a bordo della nave (dapprima per effetto del mancato consenso all’attracco in un porto italiano e quindi per il mancato consenso allo sbarco, una volta attraccata la nave al porto di Catania) protratto per dieci giorni, anche in considerazione delle condizioni logistiche legate alle caratteristiche della nave stessa, al numero degli occupanti, alle condizioni di salute degli stessi, alle fasi pregresse della loro drammatica esperienza, alle condizioni climatiche.”
Poi le Sezioni unite hanno aggiunto: “Correlativamente, sotto il profilo della colpa attribuibile all’amministrazione come apparato, si trattava di valutare -e non è stato fatto- se potesse considerarsi oppure no ascrivibile a criteri di normale prudenza e diligenza, specie in considerazione della natura dei diritti in gioco, il convincimento della tollerabilità di un tale prolungamento del trattenimento dei migranti soccorsi a bordo della nave”.
Dunque, a me sembra che le Sezioni unite, a fronte di una valutazione monca del giudice di appello, impongano al giudice di rinvio di accertare se poteva essere ragionevole o no, alla luce di quanto fissato nelle pagine precedente, e al netto della discrezionalità attribuita alla pubblica amministrazione e alla flessibilità delle procedure di sbarco, il forzato trattenimento a bordo della nave protratto per dieci giorni; ed inoltre il giudice del rinvio dovrà accertare se tale comportamento possa ascriversi a normali criteri di prudenza e diligenza oppure no.
11. Brevissime conclusioni
Che dire in due parole conclusive?
Direi che non sono marginali le questioni che il giudice del rinvio dovrà accertare, cosicché non può dirsi che le Sezioni unite abbiano riconosciuto ai migranti, puramente e semplicemente, il diritto al risarcimento del danno.
Mi sembra infatti vi siano ancora elementi non secondari da chiarire.
Mi è sembrato poi singolare che le Sezioni unite si siano pronunciate su questa vicenda prescindendo dalla decisione assunta in sede penale contro Matteo Salvini dal Tribunale di Palermo.
Il Tribunale di Palermo ha letto il dispositivo, con il quale ha ritenuto che il fatto non sussiste, il 20 dicembre 2024; il Tribunale si è dato 90 giorni per il deposito della motivazione; quindi la motivazione è attesa per la data del 20 marzo 2025.
Non so se era il caso di aspettare qualche giorno per depositare questa decisione, al fine di meglio coordinarla con la sentenza penale, che in gran parte attiene ai medesimi fatti e concerne analoghe questioni di diritto.
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