ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La decorrenza del termine di impugnazione degli atti di gara.
La vexata quaestio alla luce della nuova disciplina del codice dei contratti (commento a Cons. di Stato, Sez. V, 18 ottobre 2024, n. 8352)
Sommario: 1. Premessa. – 2. Una breve ricostruzione della vicenda procedimentale e processuale del caso di specie. – 3. Il quadro normativo previgente e il dibattito giurisprudenziale sulla decorrenza del termine di impugnazione. – 4. L’impostazione dell’Adunanza plenaria n. 12/2020 sulla necessaria conoscenza della motivazione. – 5. Le modifiche normative apportate dal “nuovo” codice dei contratti pubblici sulla decorrenza del termine. – 6. La nuova disciplina dell’accesso agli atti di gara nel d.lgs. n. 36/2023. – 7. Le richieste di oscuramento dei segreti tecnico-commerciali e il nuovo giudizio “super accelerato”. – 8. La rilevanza della sentenza in commento nell’applicazione del mutato contesto normativo. – 9. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Premessa
La sentenza in commento costituisce uno degli ultimi approdi giurisprudenziali sulla dibattuta problematica del dies a quoper l’impugnativa degli atti di gara[1].
La tenuta dell’impostazione delineata dall’Adunanza plenaria n. 12/2020[2] e confermata da diverse sentenze successive[3], infatti, va verificata alla luce delle sopravvenienze normativa connesse all’introduzione del “nuovo” codice dei contratti pubblici, che ha profondamente innovato anche la disciplina dell’accesso agli atti di gara[4]. Le prime applicazioni giurisprudenziali della nuova normativa sembravano aver compresso l’accessibilità alla tutela giurisdizionale entro termini temporali più stringenti[5]. La pronuncia del Consiglio di Stato oggetto del presente contributo, invece, riconnette il termine per impugnare l’aggiudicazione in maniera più salda al momento in cui il soggetto è in grado di conoscere le valutazioni che stanno alla base dell’aggiudicazione[6].
Anticipando parziariamente le conclusioni che ci riserva di argomentare più diffusamente nel prosieguo, nell’evidenza del fatto che tale mutato contesto normativo non sia stato in grado di porre fine ai dubbi interpretativi relativi ad un’individuazione certa del momento in cui decorre il termine decadenziale per l’impugnativa dell’esito di una gara, sembra però che la soluzione adottata dal Consiglio di Stato sia idonea a garantire un’adeguata accessibilità ed effettività della tutela in un settore particolarmente sensibile come quello degli appalti pubblici.
2. Una breve ricostruzione della vicenda procedimentale e processuale del caso di specie
La vicenda procedimentale da cui origina la presente controversia riguarda una gara avente ad oggetto la conclusione di un accordo quadro per l’affidamento dei lavori concernenti la realizzazione di camerette e la sostituzione di condotte nel territorio della Regione Basilicata, prevedente il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Nella presente vicenda gli snodi temporali rilevanti ai fini del computo dei termini per l’impugnazione sono i seguenti: il 17 novembre è stata pubblicata l’aggiudicazione sulla piattaforma telematica di negoziazione; in data 24 novembre (sette giorni dopo) un operatore economico, non risultante aggiudicatario, formulava istanza di accesso agli atti; in data 6 dicembre la stazione appaltante (entro i quindici giorni dall’istanza d’accesso) aveva comunicato alla richiedente di aver notificato l’istanza ostensiva ai controinteressati, allo scopo di consentire loro di manifestare un’eventuale opposizione; in data 21 dicembre la stazione appaltante riscontrava detta istanza con l’ostensione della documentazione richiesta (ventisette giorni dopo la richiesta); l’operatore economico, ricevuta ed esaminata la documentazione richiesta, decideva di presentare ricorso al T.A.R. Basilicata, notificando lo stesso in data 22 gennaio 2024 (il cinquantanovesimo giorno dalla pubblicazione dell’aggiudicazione, ma entro il trentesimo giorno dall’ostensione documentale, calcolando la scadenza di sabato postergata al lunedì).
L’adito tribunale ha dichiarato l’irricevibilità dell’impugnativa sostenendo che la notificazione del ricorso era ben successiva ai trenta giorni di rito decorrenti dalla data della comunicazione dell’esito della gara[7]. Nell’impostazione del giudice di primo grado, la tardività del ricorso emergerebbe anche nel caso in cui si volesse “neutralizzare” il tempo impiegato dalla stazione appaltante a rendere disponibili gli ulteriori documenti richiesti con istanza di accesso. Infatti, se è pur vero che la proposizione di istanza ostensiva possa comportare la “dilazione temporale” di tale termine quando, come in questo caso, i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario, è altrettanto indubitabile che l’ampio lasso temporale (di sette giorni) impiegato dalla parte ricorrente per proporre la domanda medesima non può che essere computato nei trenta giorni di rito, anche in ossequio al principio di “autoresponsabilità” che impone ai concorrenti di adempiere a precisi obblighi di correttezza nel rapporto con l’ente aggiudicatore[8].
La sentenza in commento ha ad oggetto l’appello avverso detta pronuncia di irricevibilità. Parte appellante denuncia l’errore commesso dal T.A.R. Basilicata nel dichiarare irricevibile il ricorso, in quanto proposto oltre il termine di trenta giorni dalla data della pubblicazione del provvedimento di aggiudicazione. Il giudice di prime cure, infatti, non avrebbe tenuto conto del mancato rispetto, da parte della stazione appaltante, del termine di quindici giorni (previsto dall’art. 76, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, applicabile ratione temporis) per l’ostensione degli atti di gara oggetto della richiesta di accesso formulata, invece, dall’odierna appellante, entro i quindici giorni dalla pubblicazione del suddetto provvedimento di aggiudicazione. Nell’impostazione dell’appellante il giudice di prime cure avrebbe dovuto fare applicazione del principio in base al quale, qualora la stazione appaltante abbia ritardato a rendere conoscibili gli atti richiesti, il termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso rimane del tutto integro e inizia a decorrere dalla data di effettiva ostensione degli stessi, operando, in questo caso, non già il meccanismo della “dilazione temporale”, bensì quello della “concessione di un nuovo termine” di trenta giorni, da calcolarsi (per intero) a decorrere dal momento dell’effettiva messa a disposizione della documentazione.
3. Il quadro normativo previgente e il dibattito giurisprudenziale sulla decorrenza del termine di impugnazione
Prima di analizzare il portato della decisione in commento, pare opportuno fornire le essenziali coordinate legislative e giurisprudenziali relative alla problematica individuazione del dies a quo per l’impugnativa degli esiti delle procedure di gara. Il quadro normativo di riferimento va individuato sia nelle diposizioni del codice del processo amministrativo sui termini per l’impugnazione dettate in materia di appalti, che in quelle del codice dei contratti pubblici, ove sono previsti particolari termini per l’ostensione dei documenti e per la pubblicazione di alcune informazioni di gara[9].
Se anteriormente all’adozione del codice del processo amministrativo la giurisprudenza faceva decorrere il termine per l’impugnazione fin dal momento in cui l’interessato veniva a conoscenza dell’aggiudicazione pur non conoscendone le motivazioni[10], con l’art. 120 c.p.a., prevedente un rito speciale per le controversie relative alle procedure di affidamento dei contratti pubblici[11], viene stabilito un termine breve di trenta giorni per l’impugnazione degli atti di gara, decorrenti dalla ricezione della comunicazione prevista dall’art. 79 dell’allora vigente d.lgs. n. 163/2006[12].
Il fatto che, nella prassi, le pubbliche amministrazioni spesso si limitassero a comunicare l’aggiudicazione senza le motivazioni a corredo della stessa ha ingenerato le prime problematiche interpretative sulla corretta interpretazione del relativo dies a quo. In questi casi ci si domandava se il termine dovesse decorrere dalla comunicazione dell’aggiudicazione o dall’ostensione delle motivazioni. Sul punto la giurisprudenza prevalente consentiva un incremento del termine di impugnazione dei provvedimenti di aggiudicazione con l’aggiunta dei giorni necessari per ottenere l’accesso agli atti (nel limite massimo dieci giorni) ai sensi dell’art. 79, comma 5-quater, d.lgs. n. 163/2006[13].
Le incertezze interpretative sul punto non vengono risolte dall’entrata in vigore del codice del 2016 (d.lgs. n. 50/2016) che, invece di chiarire la situazione, ha introdotto ulteriori dubbi ermeneutici. Infatti, da una parte l’art. 79, d.lgs. n. 163/2006 veniva sostituito (solo in parte) dall’art. 76, d.lgs. n. 50/2016 e, dall’altra, l’art. 120 c.p.a. non veniva modificato in tal senso, continuando a richiamare il vecchio (e abrogato) art. 79, d.lgs. n. 163/2006.
Con riferimento a tale mutato quadro normativo la giurisprudenza prevalente ha operato un’interpretazione di tipo “adeguatrice”, consentendo un “rinvio mobile” (peraltro, in senso atecnico, trattandosi di norma con contenuti in parte diversi) per effetto del quale il termine per l’impugnazione andava aumentato dei giorni necessari per ottenere l’accesso agli atti, con un tetto massimo di quindici giorni (tetto incrementato dalla formulazione dell’art. 76, d.lgs. n. 50/2016)[14].
Questo orientamento è stato sostanzialmente avallato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha affermato la compatibilità con il diritto europeo della disciplina processuale nazionale che imponeva la immediata impugnazione, entro un termine decadenziale, delle ammissioni ed esclusioni dalle procedure di gara (ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a., ora abrogato) a condizione che tali provvedimenti fossero conosciuti o conoscibili dagli interessati, in modo che gli stessi potessero apprezzarne gli eventuali profili di illegittimità[15]. Come ricorda attenta dottrina, infatti, nella materia dei contratti pubblici, la tematica del dies a quo per l’impugnazione è stata affrontata nella direttiva 2007/66, secondo la quale il termine per ricorrere dovrà essere computato dalla notifica del provvedimento e delle ragioni che ne sono alla base ai soggetti interessati, in modo che questi ne possano percepire l’ingiustizia e la lesività[16].
La persistenza di questo contrasto giurisprudenziale ha portato la Sezione V del Consiglio di Stato a deferire la questione all’Adunanza plenaria[17].
4. L’impostazione dell’Adunanza plenaria n. 12/2020 sulla necessaria conoscenza della motivazione
Sul delineato contrasto giurisprudenziale, nel previgente impianto normativo del 2016, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha stabilito importanti principi in materia, tutt’ora seguiti dalla più recente giurisprudenza[18]. La Plenaria, compiendo preliminarmente un’ampia opera di ricostruzione sistematica sul tema e segnalando al Governo la necessità di un sollecito intervento legislativo, ha sostanzialmente affermato la necessità di conoscere le motivazioni del provvedimento ai fini del decorso del termine di impugnazione, andando a sposare quell’orientamento maggiormente garantista e aderente alla normativa (e alla giurisprudenza) eurounitaria.
Volendo riassumere il contenuto della sentenza per punti, si può dire che: a) in primis, il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione deve decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara; b) le informazioni previste, d’ufficio o a richiesta, dall’art. 76, d.lgs. n. 50/2016, consentono la proposizione non solo dei motivi aggiunti, ma anche di un ricorso principale; c) la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la “dilazione temporale” quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario; d) la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29, d.lgs. n. 50/2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione; e) sono idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione le forme di comunicazione e di pubblicità dell’atto di aggiudicazione individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati[19].
Dall’enucleazione dei succitati principi di diritto si evince come la decorrenza del termine dipende dalle seguenti circostanze: in primis, dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, ai sensi dell’art. 29, comma 1 (ultima parte), d.lgs. n. 50/2016; in secondo luogo, dall’acquisizione, per richiesta della parte o per invio officioso, delle informazioni di cui all’art. 76, d.lgs. n. 50/2016, ma solo a condizione che “consentano di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati o per accertarne altri”, così da permettere la presentazione non solo dei motivi aggiunti, ma anche del ricorso principale; infine, dalla comunicazione o dalla pubblicità nelle forme individuate dagli atti di gara ed accettate dai partecipanti alla gara “purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati”.
Nel solco dei principi tracciati dall’Adunanza plenaria, la giurisprudenza successiva ha approfondito le diverse ipotesi di decorrenza del termine qualora la “piena” conoscenza dei motivi alla base dell’aggiudicazione consegua all’istanza di accesso dell’operatore economico, in difetto di una compiuta allegazione da parte della stazione appaltante di tutte le informazioni a ciò necessarie[20].
La dilazione temporale opera solo se l’istanza di accesso è tempestiva, ossia se la stessa è formulata entro quindici giorni dalla comunicazione o dalla pubblicazione del provvedimento di aggiudicazione. In tal caso il ricorso deve essere proposto entro il termine massimo di quarantacinque giorni dalla comunicazione o dalla pubblicazione dell’aggiudicazione[21].
Se, invece, la richiesta di accesso è tardiva, ossia successiva al quindicesimo giorno dalla pubblicazione o dalla comunicazione dell’aggiudicazione, non opera a favore del ricorrente la succitata “dilazione temporale”, in ragione del canone di “autoresponsabilità” dell’operatore economico e della correlata necessità di evitare che il termine di impugnazione possa rimanere aperto o modulato ad libitum[22].
Nel caso in cui, infine, sia la stazione appaltante a non dare puntuale riscontro alla tempestiva istanza di accesso, ovvero la evada successivamente al termine di quindici giorni dalla ricezione, il termine per impugnare (trattandosi di vizi conoscibili solo in esito all’accesso) non inizia a decorrere se non dal momento dell’ostensione della documentazione richiesta. In tal caso, più che di vera e propria “dilazione temporale” si ha un’autonoma e nuova decorrenza del termine a partire dal momento nel quale viene esibita la documentazione[23].
5. Le modifiche normative apportate dal “nuovo” codice dei contratti pubblici sulla decorrenza del termine
Con l’introduzione del vigente codice de contratti il quadro normativo relativo all’individuazione del termine di decorrenza per l’impugnativa degli atti di gara ha subito una significativa rimodulazione. Gli artt. 53 e 76 del d.lgs. n. 50/2016, infatti, lasciano il posto agli artt. 35, 36 e 90 del d.lgs. n. 36/2023, senza però che vi sia una significativa continuità tra gli stessi.
Si è visto come il previgente art. 76, d.lgs. n. 50/2016 prevedeva la possibilità per l’operatore economico che fosse stato escluso o che non fosse risultato aggiudicatario di chiedere la documentazione dalla quale evincere la scelta (a lui sfavorevole) della stazione appaltante, la quale doveva provvedere alla relativa ostensione entro il termine di quindici giorni. Tale facoltà di era il pilastro sulla quale si fondava la “dilazione temporale” del termine di impugnazione, possibilità confermata dalla decisione della Plenaria n. 12/2020. La mancata riproposizione di detta norma nel codice dei contratti vigente, pertanto, ha posto (e pone) dei seri interrogativi sulla possibile tenuta del sistema di differimento del dies a quo per l’impugnazione.
Inoltre, come ci ricorda la sentenza in commento, l’art. 209, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 36/2023 ha anche riscritto parte dell’art. 120 c.p.a., che disciplina i giudizi aventi a oggetto le controversie relative alle procedure di affidamento dei contratti pubblici. In particolare, il comma 2 dell’art. 120 c.p.a. attualmente prevede che “Il termine decorre, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’articolo 90 del codice dei contratti pubblici […] oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione ai sensi dell’articolo 36, commi 1 e 2, del medesimo codice dei contratti pubblici”[24]. La disposizione fa espresso riferimento alla “messa a disposizione” degli atti, istituto introdotto dal d.lgs. n. 36/2023 nell’ambito della digitalizzazione del ciclo di vita dei contratti, che ha imposto un cambio di paradigma anche relativamente all’accessibilità alle informazioni e agli atti di gara, accessibilità che ora deve necessariamente muoversi sul binario digitale e non più su quello analogico[25]. Infatti, con il nuovo codice dei contratti è stata completamente riscritta la disciplina procedimentale e processuale dell’accesso agli atti di gara, contenuta rispettivamente agli artt. 35 e 36 del d.lgs. n. 36/2023[26].
6. La nuova disciplina dell’accesso agli atti di gara nel d.lgs. n. 36/2023
L’art. 35 contiene la disciplina sostanziale dell’accesso, che viene modulata sulla falsariga di quelle contenute nei codici dei contratti previgenti, ossia prevedendo la regola generale dell’accessibilità, contemperata da alcune ipotesi di differimento e di esclusione[27]. Il comma 1 dell’art. 35, per allineare l’istituto alla digitalizzazione delle procedure e all’utilizzo delle piattaforme di e-procurement, prevede che le stazioni appaltanti debbano assicurare l’accesso agli atti di gara in modalità digitale, mediante acquisizione diretta dei dati e delle informazioni inserite nelle piattaforme. Nel medesimo primo comma viene anche precisato che la richiesta di accesso può avvenire sia a titolo di accesso civico (semplice o generalizzato), sia a titolo di accesso documentale, andando a recepire in via legislativa l’analizzata soluzione giurisprudenziale dell’Adunanza plenaria n. 10/2020 che aveva ammesso l’istituto dell’accesso civico generalizzato nell’ambito dei contratti pubblici, anche con riguardo alla fase esecutiva[28].
La disciplina dei casi di differimento, prevista all’art. 35, comma 4, ha subito alcune modifiche rispetto alla corrispettiva norma del Codice del 2016 laddove si è provveduto ad indicare con maggior dettaglio le tempistiche entro le quali si può ottenere la documentazione di gara[29].
Per quanto riguarda il regime delle esclusioni, previste all’art. 35, comma 4, si deve registrare una bipartizione inedita tra i casi in cui la stazione appaltante “può escludere” o “esclude” (rectius deve escludere) l’accesso. Nei casi di c.d. esclusione assoluta rientrano le richieste di accesso relative: 1) ai pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti all’applicazione del Codice, per la soluzione di liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici; 2) alle relazioni riservate del direttore dei lavori, del direttore dell’esecuzione e dell’organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del soggetto esecutore del contratto; 3) alle piattaforme digitali e alle infrastrutture informatiche utilizzate dalla stazione appaltante o dall’ente concedente, ove coperte da diritti di privativa intellettuale[30]. I casi di c.d. esclusione relativa, invece, sono costituiti dalle richieste di accesso relative alle informazioni fornite nell’ambito dell’offerta (o a giustificazione della medesima) che costituiscono, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali[31].
Tale bipartizione, però, va relativizzata alla luce del dettato dell’art. 35, comma 5 che, pur limitatamente ai casi di segreto tecnico-commerciale e alle piattaforme digitali e alle infrastrutture informatiche, consente l’accesso al ricorrente qualora esso sia “indispensabile” ai fini della difesa in giudizio dei propri interessi giuridici. Questa norma ha recepito un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in presenza di parti delle offerte che possono costituire un segreto tecnico o commerciale, la stazione appaltante deve preliminarmente considerare, nel bilanciamento tra esigenze di difesa e tutela della riservatezza, se sussista il requisito della “stretta indispensabilità” della documentazione richiesta ai fini della difesa in giudizio del soggetto interessato all’accesso[32].
Il susseguente art. 36, invece, contiene la disciplina procedimentale e processuale dell’accesso, prevedendo una sorta di “accessibilità automatica” degli atti di gara e delle offerte in favore dei primi cinque soggetti partecipanti. Più precisamente, la norma prescrive che chi abbia partecipato alla gara e non sia stato escluso, contestualmente alla comunicazione digitale dell’aggiudicazione ai sensi dell’art. 90[33], abbia il diritto di accedere in via diretta (ossia tramite piattaforma) all’offerta dell’operatore economico risultato aggiudicatario, oltre che ai verbali di gara e agli atti, ai dati e alle informazioni presupposti all’aggiudicazione. Il comma 2, poi, prevede un regime differenziato per gli operatori economici collocatisi nei primi cinque posti in graduatoria, ai quali viene riconosciuto un diritto di accesso (automatico) più ampio, poiché ad essi sono resi reciprocamente disponibili, attraverso la stessa piattaforma, non solo gli atti di cui al comma 1, ma anche le offerte dagli stessi presentate.
Quindi, gli atti delle operazioni di gara e l’offerta dell’aggiudicatario sono messe a disposizione di tutti i partecipanti non esclusi; gli operatori economici che si sono classificati nelle prime cinque posizioni, inoltre, hanno la possibilità di accedere (reciprocamente) alle offerte da loro presentate e, cioè, di quelle del secondo, del terzo, del quarto e del quinto partecipante (dato che l’offerta del primo è conoscibile da tutti)[34]. In altre parole, per i primi cinque partecipanti è possibile accedere subito alle offerte degli altri (quattro) tramite l’accesso diretto in piattaforma, mentre per gli altri concorrenti non esclusi (dalla sesta posizione in poi) l’accesso alle offerte altrui è subordinato alla presentazione di un’istanza di accesso che dovrà essere riscontrata dalla stazione appaltante.
7. Le richieste di oscuramento dei segreti tecnico-commerciali e il nuovo giudizio “super accelerato”
Per una compiuta analisi della disciplina procedimentale e processuale del nuovo accesso agli atti di gara, però, non si può prescindere dall’analisi del meccanismo delineato per richiedere ed ottenere gli oscuramenti alla propria offerta e dei rispettivi rimedi giuridici per opporsi alle decisioni della stazione appaltante su dette richieste di oscuramento[35].
A tal proposito l’art. 36, comma 3, d.lgs. n. 36/2023 prescrive che, con la comunicazione dell’aggiudicazione, la stazione appaltante debba indicare anche le decisioni assunte sulle (eventuali) motivate e comprovate richieste dei partecipanti di oscurare le parti delle proprie offerte ritenute come non ostensibili, poiché contenenti segreti tecnici o commerciali[36]. Il successivo comma 4, poi, delinea un particolare rito attraverso il quale poter contestare le decisioni della stazione appaltante sulle richieste di oscuramento. I soggetti che vantano un interesse favorevole (il concorrente che ha formulato l’offerta) o contrario (il concorrente che ha interesse ad accedere all’offerta) all’oscuramento di parti dell’offerta, hanno l’onere di impugnare le decisioni della stazione appaltante sul punto (cioè, la decisione di secretarle o meno) con ricorso notificato e depositato entro dieci giorni dalla comunicazione digitale dell’aggiudicazione, secondo un rito speciale che segue le forme dell’art. 116 c.p.a.[37].
In sostanza, quando vi sia una richiesta di oscuramento da parte di un operatore economico, si possono verificare due differenti casi: qualora la stazione appaltante decida di concedere l’oscuramento richiesto, l’offerta sarà messa a disposizione in “modalità oscurata” e i soggetti concorrenti che ne avranno l’interesse potranno agire per ottenere il suo completo disvelamento; nel caso in cui, invece, la stazione appaltante ritenga insussistenti le ragioni di segretezza indicate dall’offerente, essa non potrà mettere immediatamente a disposizione l’offerta completamente “in chiaro”, ma dovrà attendere il decorso del termine di impugnazione di dieci giorni previsto dall’art. 36, comma 4, d.lgs. n. 36/2023[38].
Infine, di estremo rilievo per il tema oggetto del presente contributo è il disposto dell’art. 36, comma 9, secondo il quale “Il termine di impugnazione dell’aggiudicazione e dell’ammissione e valutazione delle offerte diverse da quella aggiudicataria decorre comunque dalla comunicazione di cui all’articolo 90”. Questa norma, in caso di impugnative sulle decisioni degli oscuramenti, sembra restringere gli spazi per un eventuale differimento del termine di impugnazione ad un momento successivo a quello della comunicazione dell’aggiudicazione, in sostanziale contrasto con la soluzione maggiormente garantista confermata dall’Adunanza plenaria n. 12/2020, la cui tenuta va verificata anche alla luce della nuova disciplina relativa alle richieste di oscuramento[39].
8. La rilevanza della sentenza in commento nell’applicazione del mutato contesto normativo
In questa cornice regolatoria si inserisce la sentenza in commento che costituisce una delle prime applicazioni giurisprudenziali del mutato contesto normativo. La pronuncia, preliminarmente, effettua una (sintetica) ricostruzione delle modifiche legislative susseguenti all’entrata in vigore del d.lgs. n. 36/2023 e degli approdi giurisprudenziali formatisi nella vigenza del d.lgs. n. 50/2016 a seguito della plenaria n. 12/2020[40].
La sentenza, poi, indica che l’appalto in questione ricade tra quelli soggetti alla disciplina del nuovo codice dei contratti pubblici, posto che il bando di gara è stato pubblicato successivamente al primo luglio 2023[41].
Il Collegio adito, ciò premesso, ha affermato che: a) in base alla vigente disciplina processuale, il dies a quo del termine decadenziale stabilito per l’impugnazione degli atti di gara coincide con quello in cui l’interessato acquisisce, o è messo in grado di acquisire, piena conoscenza degli atti che lo ledono; b) nel caso di specie, non risulta che la stazione appaltante abbia messo a disposizione dell’odierna appellante tutti gli atti del procedimento di gara, se non a seguito della richiesta di accesso da quest’ultima avanzata; c) il termine per impugnare non poteva iniziare a decorrere se non dall’ostensione della documentazione oggetto dell’istanza di accesso (avvenuta in data 21 dicembre 2023) dovendosi ritenere tempestivo il ricorso di primo grado (notificato in data 22 gennaio 2024), tenuto conto che il giorno di scadenza (20 gennaio 2024) cadeva di sabato.
Nel caso di specie, infatti, il ricorrente ha potuto visionare le motivazioni relative all’aggiudicazione solo dopo aver effettuato la richiesta di accesso[42]. Pertanto, se la stazione appaltante garantisce (attraverso sistemi automatici o meno) l’immediata conoscenza degli atti di gara e dei rispettivi esiti, ciò non può tornare a danno dell’operatore economico, il quale non può essere costretto a fare ricorso “al buio” non conoscendo le motivazioni della decisione della stazione appaltante per cause a lui non imputabili[43].
Il Collegio, infine, ha pure rilevato come l’amministrazione non possa dire di aver riscontrato tempestivamente alla domanda d’accesso per il sol fatto di aver inviato tempestivamente (entro i 15 giorni prescritti) ai controinteressati l’avviso della presentazione della richiesta ostensiva, ai sensi dell’art. 3, d.P.R. n. 184/2006, allo scopo di consentire loro di manifestare eventuale opposizione alla consegna. Secondo il Collegio, infatti, tale norma appare non applicabile all’accesso in materia di contratti pubblici, poiché nell’ambito dello stesso le eventuali opposizioni dei controinteressati vanno esercitate nei casi e nei limiti temporali previsti per manifestare l’esigenza di tutelare i segreti tecnici e commerciali.
Tale pronuncia, pertanto, si pone in continuità con l’orientamento giurisprudenziale formatosi nella vigenza del d.lgs. n. 50/2016, la cui tenuta è stata messa a rischio dalla riforma del 2023. Infatti, il mutato contesto normativo, potrebbe lasciare intendere che vi sia un onere di impugnativa immediata dell’aggiudicazione, senza che possa operare la dilazione temporale nel caso in cui non vi sia la totale ostensione (o la messa a disposizione) degli atti di gara. Tale obbligo di immediata impugnazione è stato affermato da una recente sentenza del T.A.R. Lazio, secondo la quale la normativa vigente è ostativa allo spostamento in avanti del dies a quo nel caso in cui difettino le motivazioni dell’aggiudicazione[44].
La pronuncia in commento, invece, si pone in contrasto con questo precedente giurisprudenziale, valorizzando il criterio sostanziale della “piena conoscenza” come discrimen per la decorrenza del termine, criterio in base al quale dovrebbe interpretarsi anche la nuova normativa.
9. Alcune brevi considerazioni conclusive
Abbiamo visto come il d.lgs. n. 36/2023 sia intervenuto normativamente sul rapporto tra accesso e decorrenza del termine, la cui disciplina positiva ora va ricercata nel combinato disposto dell’art. 120 c.p.a. con gli artt. 90 e 36, d.lgs. n. 36/2023[45].
La pronuncia in commento ha confermato la tenuta dell’architettura concettuale imbastita dall’Adunanza plenaria n. 12/2020 anche alla luce delle intervenute modifiche normative ricordandoci, tra l’altro, come la normativa introdotta dal nuovo codice dei contratti pubblici avrebbe dovuto avere come obiettivo proprio quello di evitare i c.d. ricorsi “al buio”, in ossequio all’orientamento espresso dal legislatore e dal giudice eurounitario. Quindi, in presenza della mancata doverosa ostensione da parte della stazione appaltante delle motivazioni relative all’aggiudicazione, sarebbe iniquo e contrario alla ratio stessa della nuova disciplina onerare l’operatore economico ad un’immediata impugnativa.
Sempre sul tema della decorrenza del termine per l’impugnazione bisogna tener presente che l’introduzione del nuovo rito per le richieste di oscuramento è idoneo ad ingenerare alcune problematiche applicative[46]. Il problema è se il termine per l’ostensione di cui all’art. 36, comma 5 (dieci giorni) ovvero per la proposizione del ricorso per l’accesso ai sensi dell’art. 36, comma 4 (dieci giorni), abbia o meno effetti sospensivi sul termine di proposizione del ricorso, che sembrerebbe decorrere comunque dalla sola comunicazione di aggiudicazione, come previsto dall’art. 36, comma 9[47]. Sul punto, alla luce del combinato disposto delle analizzate disposizioni, è da ritenersi che la conoscenza successiva dei documenti secretati, eventualmente ottenuta all’esito del giudizio sull’accesso, possa determinare tutt’al più la valida proposizione di motivi aggiunti, ma non un differimento del termine per l’impugnazione[48].
Il nuovo codice dei contratti, quindi, nonostante i buoni intendimenti e gli utili strumenti approntati per efficientare l’accessibilità agli atti di gara, non è stato (ancora) in grado di porre completamente fine alle problematiche interpretative relative alla decorrenza del termine di impugnazione.
Proprio la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 12/2020, nelle sue premesse (al par. 21), evidenziava l’opportunità di «una modifica legislativa ispirata alla necessità che vi fosse un “sistema di termini di decadenza sufficientemente preciso, chiaro e prevedibile”, disciplinato dalla legge con disposizioni di immediata lettura da parte degli operatori cui si rivolgono le direttive dell’Unione Europea»[49].
La persistenza di applicazioni giurisprudenziali difformi sul dies a quo dell’impugnazione dell’aggiudicazione[50], unitamente alle possibili accennate problematiche ermeneutiche derivanti dal nuovo rito sugli oscuramenti, dimostrano che detto auspicio è rimasto attualmente ancora inattuato.
[1] Senza alcuna pretesa di esaustività, sul tema si segnalano i seguenti approfondimenti della dottrina: M.A. Sandulli, L’Adunanza Plenaria n. 12/2020 esclude i “ricorsi al buio” in materia di contratti pubblici, mentre il legislatore amplia le zone grigie della tutela, in questa Rivista, 15 luglio 2020; E. Lubrano, La decorrenza del termine nel processo-appalti (dalla conoscenza della motivazione e degli atti endoprocedimentali) dopo l’Adunanza Plenaria n. 12/2020: un principio da estendere a tutti i settori del processo amministrativo, in Federalismi.it, 2020; S. Tranquilli, L’individuazione del dies a quo per impugnare le ammissioni e le esclusioni dalle gare, in Federalismi.it, 2018.
[2] Il tema della decorrenza del termine di impugnazione degli atti di gara è stato di recente approfondito dalla sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 2 luglio 2020, n. 12, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Più di recente, l’impianto dell’Adunanza plenaria è stato confermato dalla recente sentenza Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2024, n. 2882, in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Il d.lgs. n. 36/2023 prevede la nuova disciplina in materia di accesso agli atti di gara agli artt. 35 e 36. Su detta disciplina si segnalano: V. Caputi Jambrenghi, Lineamenti sul vecchio e nuovo esercizio del diritto di accesso nei contratti pubblici, in Giustamm.it, 2022; A. Corrado, Il regime della trasparenza e dell’accesso digitale ai documenti nei contratti pubblici: vantaggi e criticità alla vigilia dell’applicazione delle nuove norme del Codice, in Federalismi.it, 2023; P. Provenzano, L’accesso agli atti senza istanza. Riflessioni a prima lettura sulla nuova disciplina (sostanziale e processuale) in materia di accesso agli atti di gara, in Riv. it. dir. pubbl. comp., 2023, p. 491 ss. Sul tema sia consentito anche il rinvio a R. Fusco, La nuova disciplina dell’accesso agli atti di gara nell’ambito della digitalizzazione dei contratti pubblici, in CERIDAP, 2024.
[5] Esemplificativa al riguardo è la sentenza T.A.R. Lazio, Roma, Sez. IV, 1° luglio 2024, n. 13225, in www.giustizia-amminstrativa.it. Per un commento a tale pronuncia si segnala G. Biasutti, Accesso agli atti nelle gare d’appalto tra “vecchio Codice” e d.lgs. 36/2023: più in salita la strada che porta avanti al T.A.R.?, in questa Rivista, 23.10.2024.
[6] Il riferimento è alla sentenza in commento, Cons. di Stato, Sez. V, 18 ottobre 2024, n. 8352, in www.giustizia-amministrativa.it.
[7] T.A.R. Basilicata (Potenza), Sez. I, 23 aprile 2024, n. 217, in www.giustizia-amministrativa.it. Più precisamente, secondo questa pronuncia: «a) il contestato provvedimento di aggiudicazione è stato pubblicato nel profilo della CUC in data 17 novembre 2023; b) la richiesta di accesso è stata formulata dalla ricorrente al Comune di Tito in data 24 novembre 2023; c) il 6 dicembre 2024 è stata avviata dall’Acquedotto lucano s.p.a. la notificazione ai controinteressati ai sensi dell’art. 3 del d.p.r. 12 aprile 2006, n. 184; d) l’accesso è stato assentito il 21 dicembre 2023; e) il ricorso è stato notificato il 22 gennaio 2024; f) sono complessivamente trascorsi tra la pubblicazione del provvedimento e la notificazione del ricorso sessantasei giorni [par. 5.1.]. Consegue a quanto innanzi la piana tardività del ricorso, la cui notificazione, è in primo luogo ben successiva ai trenta giorni di rito decorrenti dalla data della comunicazione dell’esito di gara [par. 5.2]».
[8] Sempre secondo la pronuncia di primo grado: «Opinare diversamente, infatti, significherebbe consentire al ricorrente di ampliare surrettiziamente il termine decadenziale (posto a presidio delle esigenze di stabilità, certezza e celerità dell’agere amministrativo, di speciale rilevanza nel settore dei pubblici affidamenti) mediante la protrazione della presentazione di un’istanza di accesso documentale. Ebbene, anche in tale caso, sommando i predetti nove (rectius sette) giorni a quelli successivi alla ricezione degli atti richiesti (trenta), il ripetuto termine decadenziale risulta ampiamente elasso. In particolare, ove l’operatore economico non procede all’immediata presentazione dell’istanza di accesso, il relativo ritardo determina una progressiva erosione dei giorni a disposizione per proporre ricorso, atteso che l’inerzia dell’impresa istante non può costituire un mezzo a disposizione dell’impresa per dilatare ad libitum i termini di legge» [par. 5.2.1].
[9] Le disposizioni di riferimento attualmente vigenti sono contenute all’art. 120 c.p.a. e agli artt. 35 e 36, d.lgs. n. 36/2023. La dimensione del presente contributo non ci consente di indagare funditus tutte le problematiche e gli orientamenti giurisprudenziali emersi già nella vigenza del primo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006) per le quali si rinvia al contributo di E. Lubrano, La decorrenza del termine nel processo-appalti (dalla conoscenza della motivazione e degli atti endoprocedimentali) dopo l’Adunanza Plenaria n. 12/2020: un principio da estendere a tutti i settori del processo amministrativo, cit., p. 112 ss.
[10] In tal senso si segnala, ex multis, Cons. St., Sez. IV, 21 maggio 2004, n. 3298, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] Per un’analisi generale del rito in materia di contratti pubblici, tra i tanti contributi si citano: M. Lipari, Commento all’art. 120, in G. Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, p. 1158 ss.; N. Paolantonio, Il rito accelerato, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, p. 2023, p. 561 ss.
[12] L’art. 76, d.lgs. n. 163/2006 prevedeva i contenuti specifici che doveva avere l’aggiudicazione e che dovevano essere chiarificatori riguardo alle ragioni in base alle quali la gara era stata aggiudicata al soggetto aggiudicatario. Inoltre, il comma 5-quater di detta disposizione prevedeva una sorta di accesso “informale”, da espletare nel termine di dieci giorni, per il caso in cui la pubblica amministrazione non fornisse spontaneamente tali informazioni.
[13] In questi termini vedasi E. Lubrano, La decorrenza del termine nel processo-appalti, cit., p. 114-115, a cui si rinvia per i riferimenti giurisprudenziali dei vari orientamenti.
[14] In questi termini vedasi sempre E. Lubrano, La decorrenza del termine nel processo-appalti, cit., p. 118-121, a cui si rinvia nuovamente per i riferimenti giurisprudenziali dei due opposti orientamenti.
[15] Corte giust. U.E., Sez. IV, ordinanza 14 febbraio 2019, C- 54/18, in www.curia.europa.eu. Detta sentenza, pertanto, pur riguardando un termine molto breve di impugnazione delle esclusioni, ora esplicitamente abrogato, statuiva il principio secondo il quale, ai fini della decorrenza di detto termine, fosse necessaria anche la conoscenza delle relative motivazioni. In senso conforme si vedano anche le precedenti: Corte giust. U.E., Sez. V, 8 maggio 2014, C-161/2013: Corte giust U.E., Sez. III, 28 gennaio 2010, C-406/08; Corte giust. U.E., Sez. V, 8 maggio 2014, in C-161/13, in www.curia.europa.eu.
[16] In tal senso vedasi M.A. Sandulli, L’Adunanza Plenaria n. 12/2020 esclude i “ricorsi al buio” in materia di contratti pubblici, mentre il legislatore amplia le zone grigie della tutela, cit., par. 2, ove si richiamano a tal proposito i considerando 6 e 7 e gli artt. 1, 2-bis, 2-quater e 2-septies delle Direttive 89/665/CEE e 1992/13/CEE e s.m.i.
[17] Ordinanza Cons. Stato, Sez. V, 2 aprile n. 2020, n. 2215, in www.giustizia-amministrativa.it. In tale ordinanza la Sezione V del Consiglio di Stato ha espresso la propria preferenza per l’impostazione maggiormente “garantista”, che individuava la decorrenza del termine dalla conoscenza delle motivazioni del provvedimento.
[18] Cons. Stato, Ad. plen., 2 luglio 2020, n. 12, in www.giustizia-amministrativa.it. Per un commento a tale pronuncia si segnalano: M.A. Sandulli, L’Adunanza Plenaria n. 12/2020 esclude i “ricorsi al buio” in materia di contratti pubblici, mentre il legislatore amplia le zone grigie della tutela, cit.; M. Santini, L’Adunanza plenaria sulla decorrenza del termine per l’impugnazione degli atti di gara, in Urb. app., 2020, p. 509 ss.; F. Gaspari, Decorrenza del termine per ricorrere, piena conoscenza dell’atto lesivo e giusto processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2020, p. 389 ss.; L. Bertonazzi, La decorrenza del termine per ricorrere contro l’aggiudicazione, in Dir. proc. amm., 2022, p. 545 ss.
[19] Questi principi di diritto vengono elencati al par. 32 della sentenza dell’Adunanza plenaria n. 12/2020.
[20] Le varie possibilità sono elencate dalla recente sentenza T.A.R. Roma, (Lazio), Sez. I, 11 aprile 2024, n. 7013, in www.giustizia-amministrativa.it.
[21] Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2024, n. 2882, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] Cons. Stato, Sez. V, 15 marzo 2023, n. 2728, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Cons. Stato, Sez. V, 26 gennaio 2024, n. 854, in www.giustizia-amministrativa.it.
[24] Viene così superata la carenza di collegamento tra le norme processuali (codice del processo) e le norme sostanziali (codice dei contratti) che si era venuta a creare nella vigenza del d.lgs. n. 50/2016 e che era stata colmata dalla giurisprudenza con il “rinvio mobile” di cui si è detto antecedentemente.
[25] Sul tema della digitalizzazione del ciclo di vita dei contratti si segnalano: D.U. Galetta, Digitalizzazione, Intelligenza artificiale e Pubbliche Amministrazioni: il nuovo Codice dei contratti pubblici e le sfide che ci attendono, in Federalismi.it 2023; G.M. Racca, La “fiducia digitale” nei contratti pubblici tra piattaforme e data analysis, in Istit. del fed., 2023, p. 357 ss.; G. Carullo, Piattaforme digitali e interconnessione informativa nel nuovo Codice dei Contratti Pubblici, in Federalismi.it, 2023; G. Fonderico, La digitalizzazione del ciclo di vita dei contratti, in Il foro italiano – Gli speciali, n. 1, 2023, p. 28 ss.; F. Tallaro, La digitalizzazione del ciclo dei contratti pubblici, in www.giustizia-amministrativa.it, 2023; G.M. Palamoni, Il paradigma digitale dell’evidenza pubblica, in CERIDAP, 2024.
[26] Per un’analisi sulla disciplina dell’accesso agli atti di gara nel d.lgs. n. 36/2023 si segnala il contributo di P. Provenzano, L’accesso agli atti senza istanza. Riflessioni a prima lettura sulla nuova disciplina (sostanziale e processuale) in materia di accesso agli atti di gara, in Riv. it. dir. pubbl. comp., 2023, p. 491 ss. Sul tema sia anche consentito il rinvio a R. Fusco, La nuova disciplina dell’accesso agli atti di gara nell’ambito della digitalizzazione dei contratti pubblici, in CERIDAP, n. 4/2024.
[27] Il riferimento è ai previgenti art. 13, d.lgs. n. 163/2006 e art. 53, d.lgs. n. 50/2016. Tra i contributi relativi all’accesso nelle procedure di gara ante d.lgs. n. 36/2023 si segnalano: F.A. Caputo, Il diritto di accesso nelle procedure di evidenza pubblica, in Giustamm.it, 2007; V. Gastaldo, Il diritto di accesso nel settore degli appalti pubblici e gli obblighi di trasparenza delle stazioni appaltanti, in Urb. e app., 2014, p. 1005 ss.; A. Corrado, Il regime della trasparenza e dell’accesso digitale ai documenti nei contratti pubblici: vantaggi e criticità alla vigilia dell’applicazione delle nuove norme del Codice, in Federalismi.it, 2023. Per un’evoluzione delle tappe normative dell’accesso agli atti di gara dei contratti pubblici (ad esclusione del d.lgs. n. 36/2023) si rinvia a M. Pani – C. Sanna, Evoluzione del diritto di accesso in materia di procedure di gara, in Lexitalia.it, 2022.
[28] Per un commento a tale pronuncia si rinvia a: A. Corrado, L’accesso civico generalizzato, diritto fondamentale del cittadino, trova applicazione anche per i contratti pubblici: l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato pone fine ai dubbi interpretativi, in Federalismi.it, 2020; M. Ippolito, La “cultura” della trasparenza nell’accesso agli atti della fase esecutiva di un procedimento ad evidenza pubblica, in Giustamm.it, 2020; V. Mirra, Diritto di accesso e attività contrattuale della pubblica amministrazione: la plenaria risolve ogni dubbio?, in Urb. e app., 2020, p. 680 ss.; F. Manganaro, La funzione nomofilattica dell’Adunanza plenaria in materia di accesso agli atti amministrativi, in Federalismi.it, 2021.
[29] Le ipotesi di differimento sono previste dall’art. 35, comma 2, d.lgs. n. 36/2023, mentre prima erano previste dall’art. 52, comma 2, d.lgs. n. 50/2016. Il Codice del 2023 ha previsto, in aggiunta alle ipotesi previste dal Codice del 2016, l’espresso riferimento anche alle domande di partecipazione e agli atti, dati e informazioni relativi ai requisiti di partecipazione, ai verbali relativi alla fase di ammissione dei candidati e offerenti, ai verbali relativi alla valutazione delle offerte e agli atti, dati e informazioni a questa presupposti e, infine, ai verbali riferiti alla fase di verifica dell’anomalia dell’offerta. Per l’accesso a tutti questi atti, dati, informazioni e documenti, l’ostensione dovrà avvenire solo successivamente all’aggiudicazione.
[30] Ai sensi dell’art. 35, comma 4, lett. b), d.lgs. n. 36/2023.
[31] Ai sensi dell’art. 35, comma 4, lett. a), d.lgs. n. 36/2023.
[32] Sul bilanciamento tra la tutela del segreto tecnico-commerciale e sulle esigenze di difesa in giudizio nell’ambito della gara si rinvia ai seguenti contributi che, pur se relativi al previgente Codice del 2016, risultano tutt’ora di attualità alla luce del riconoscimento legislativo del requisito dell’indispensabilità: A. Avino, L’accesso ai documenti di gara tra esigenze di riservatezza e necessità difensive, in Urb. e app., 2018, p. 692 ss.; V. Mirra, Accesso agli atti di gara e segretezza industriale: una conciliazione impossibile?, cit., p. 171 ss.; G. Serra, Il bilanciamento tra il diritto d’accesso ai documenti nelle procedure di gara e i segreti tecnici e commerciali: natura dell’attività amministrativa e tecniche di tutela, in Pers. e amm., 2022, p. 558 ss.
[33] L’art. 90, d.lgs. n. 36/2023 prevede che “Nel rispetto delle modalità previste dal codice, le stazioni appaltanti comunicano entro cinque giorni dall’adozione: a) la motivata decisione di non aggiudicare un appalto ovvero di non concludere un accordo quadro, o di riavviare la procedura o di non attuare un sistema dinamico di acquisizione, corredata di relativi motivi, a tutti i candidati o offerenti; b) l’aggiudicazione all'aggiudicatario; c) l’aggiudicazione, e il nome dell’offerente cui è stato aggiudicato l’appalto o parti dell’accordo quadro, a tutti i candidati e concorrenti che hanno presentato un'offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta non siano state definitivamente escluse, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se tali impugnazioni non siano state già respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva; d) l’esclusione ai candidati e agli offerenti esclusi, ivi compresi i motivi di esclusione o della decisione di non equivalenza o conformità dell’offerta; e) la data di avvenuta stipulazione del contratto con l'aggiudicatario, ai soggetti di cui alla lettera c)”.
[34] In sostanza, per i primi cinque partecipanti è possibile accedere subito alle offerte degli altri (quattro) tramite l’accesso diretto in piattaforma, mentre per gli altri concorrenti non esclusi (dalla sesta posizione in poi), l’accesso alle offerte altrui è subordinato alla presentazione di un’istanza di accesso, a cui dovrà seguire un contraddittorio procedimentale e una risposta della stazione appaltante (o, ancora, un silenzio significativo).
[35] La tematica degli oscuramenti non viene in rilievo nella sentenza in commento, ma chi scrive ritiene comunque di doverne seppur sinteticamente) darne conto, perché si tratta di una disciplina procedimentale di sicura rilevanza nella discussione sulla decorrenza del termine per impugnare l’aggiudicazione.
[36] L’art. 36, comma 3 fa riferimento all’art. 35, comma 4, lett. a) secondo il quale «possono essere esclusi in relazione alle informazioni fornite nell'ambito dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali». Sul bilanciamento tra la tutela del segreto tecnico-commerciale e sulle esigenze di difesa in giudizio si segnalano i seguenti contributi che, pur relativi al periodo di vigenza del d.lgs. n. 50/2016, risultano tutt’ora di attualità: A. Avino, L’accesso ai documenti di gara tra esigenze di riservatezza e necessità difensive, in Urb. e app., 2018, p. 692 ss.; G. Serra, Il bilanciamento tra il diritto d’accesso ai documenti nelle procedure di gara e i segreti tecnici e commerciali: natura dell’attività amministrativa e tecniche di tutela, in Pers. e amm., 2022, p. 558 ss.
[37] L’art. 36 prevede la disciplina specifica di questo rito speciale che, pur svolgendosi nelle forme del rito ex art. 116 c.p.a., ha delle regole peculiari, ossia: il ricorso deve essere notificato e depositato entro dieci giorni dalla comunicazione digitale dell’aggiudicazione; le parti intimate possono costituirsi entro dieci giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notifica del ricorso; l’udienza deve tenersi nella prima camera di consiglio successiva al decimo giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ultima notificazione e, altresì, al quinto giorno dal deposito del ricorso; le parti possono depositare memorie e documenti fino a un giorno libero prima della camera di consiglio; il ricorso viene deciso nella stessa udienza con sentenza in forma semplificata da pubblicarsi entro cinque giorni dall’udienza di discussione; la sentenza può consistere anche in un mero richiamo delle argomentazioni contenute negli scritti delle parti che il giudice ha inteso accogliere e fare proprie; le succitate regole si applicano anche nei giudizi di impugnazione. Per un primo commento a tale rito speciale si segnala il contributo di P. Rubechini, Accesso e processo nella tutela del segreto d’impresa: prime riflessioni sul rito a specialità accelerata introdotto dal nuovo Codice appalti, in Giustamm.it, 2023.
[38] La ratio della norma è di evitare che la decisione di non oscurare le offerte non diventi irrimediabilmente lesiva per l’operatore economico. Infatti, se le decisioni venissero trasmesse fin da subito non oscurate, sarebbe pressoché inutile un oscuramento “postumo” disposto dal giudice. Infatti, così facendo, l’offerente che ha chiesto e non ha ottenuto l’oscuramento dalla stazione appaltante, perderebbe la possibilità di avere un rimedio effettivo se l’immediata ostensione delle parti di cui si è richiesto l’oscuramento diventassero conoscibili prima che il soggetto interessato se ne potesse dolere in sede giurisdizionale.
[39] Va precisato che detta problematica interpretativa non riguarda il caso deciso dalla sentenza in commento.
[40] La sentenza in commento afferma che la giurisprudenza formatasi nella vigenza del codice del 2016, ha consolidato i seguenti principi di diritto: a) quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario, la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta una dilazione temporale del termine per ricorrere pari a quindici giorni (ex art. 76, comma 2, d.lgs. n. 50/2016); b) il presupposto per l’applicazione della dilazione temporale è, a sua volta (oltreché la natura del vizio da far valere, il quale non deve essere evincibile se non all’esito dell'acquisizione documentale) la tempestività dell’istanza d’accesso che, a tal fine, deve essere avanzata entro quindici giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione; c) laddove la stazione appaltante non dia immediata conoscenza degli atti di gara richiesti attraverso una tempestiva risposta alla domanda di accesso (domanda da riscontrare entro il termine di quindici giorni) si farà applicazione dell’ordinario termine d’impugnazione di trenta giorni, decorrente dalla effettiva ostensione dei documenti richiesti. Tra le pronunce sul tema, oltre alla Plenaria n. 12/2020, la sentenza in commento cita i seguenti riferimenti giurisprudenziali: Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2024, n. 2882; Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2024, n. 1263; Cons. Stato, Sez. V, 20 marzo 2023, n. 2796; Cons. Stato, Sez. III, 15 marzo 2022, n. 1792, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[41] L’assoggettamento alla disciplina del codice vigente si deve al combinato disposto dell’art. 226, comma 2 e dell’art. 229, comma 2 del d.lgs. n. 36/2023. A tal proposito, ad abundantiam, è stato precisato che il ricorso sarebbe stato tempestivo anche nell’ambito del precedente contesto normativo (ossia nella vigenza del d.lgs. n. 50/2016) poiché l’operatore economico aveva presentato la richiesta di accesso agli atti entro i quindici giorni dalla pubblicazione del provvedimento di aggiudicazione, mentre i documenti sono stati consegnati oltre il termine assegnato all’amministrazione per rispondere.
[42] Sul punto, però, si rileva come non risulti, dalla lettura della sentenza, che vi sia stata alcuna messa a disposizione in piattaforma della documentazione di gara, della quale appellante avrebbe dovuto beneficiare in quanto classificatasi quinta in graduatoria.
[43] Il passaggio chiave della pronuncia in commento è quello dove viene precisato come «Tale normativa [art. 120 c.p.a. da un lato e artt. 90 e 36, d. lgs. n. 36/2023 dall’altro], che persegue l’obiettivo di evitare i c.d. ricorsi “al buio”, si pone in linea con l’orientamento espresso dal giudice euro unitario secondo cui “la direttiva 89/665, e in particolare i suoi articoli 1 e 2 quater, letti alla luce dell'articolo 47 della Carta, deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevede che i ricorsi avverso i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione o esclusione dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici debbano essere proposti, a pena di decadenza, entro un termine di 30 giorni a decorrere dalla loro comunicazione agli interessati, a condizione che i provvedimenti in tal modo comunicati siano accompagnati da una relazione dei motivi pertinenti tale da garantire che detti interessati siano venuti o potessero venire a conoscenza della violazione del diritto dell'Unione dagli stessi lamentata” (cfr. Corte di giustizia UE, Sez. IV, ord. 14 febbraio 2019, in C- 54/18; Cons. Stato, Sez. V, 6 dicembre 2022, n. 10696). Nel caso di specie, non risulta che la stazione appaltante abbia messo a disposizione dell’odierna appellante tutti gli atti del procedimento di gara, se non a seguito della richiesta di accesso da quest’ultima avanzata. Ne consegue che, come correttamente dedotto nell’appello, il termine per impugnare non poteva iniziare a decorrere se non dall’ostensione della documentazione oggetto dell’istanza di accesso, avvenuta in data 21 dicembre 2023».
[44] A tal proposito si segnala T.A.R. Lazio, Roma, sez. IV, 1° luglio 2024, n. 13225, con commento di G. Biasutti, Accesso agli atti nelle gare d’appalto tra “vecchio Codice” e d.lgs. 36/2023: più in salita la strada che porta avanti al T.A.R.?, cit. Secondo tale pronuncia: «Proprio in tema di accesso agli atti, il nuovo codice ha introdotto una disposizione inedita, l’art. 35, che al comma 1 prevede che “le stazioni appaltanti e gli enti concedenti assicurano in modalità digitale l’accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, mediante acquisizione diretta dei dati e delle informazioni inseriti nelle piattaforme, ai sensi degli articoli 3-bis e 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 e degli articoli 5 e 5-bis del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33”. Di conseguenza, nella specie non è applicabile l’art. 76, comma 2 del (previgente) d.lgs. 50/2016 (“su richiesta scritta dell’offerente e del candidato interessato, l’amministrazione aggiudicatrice comunica immediatamente e comunque entro quindici giorni dalla ricezione della richiesta”), disposizione abrogata dal nuovo codice dei contratti pubblici: il che rende, parimenti, inapplicabile il peculiare termine di proroga del termine impugnatorio elaborato dalla giurisprudenza, nei termini sopra indicati. Nella specie, l’istanza di accesso ai documenti è stata presentata dalla ricorrente in data 30.4.2024 (cioè il giorno successivo alla pubblicazione della graduatoria sulla piattaforma di gara) e la stazione appaltante ha riscontrato tale istanza in data 20.5.2024, cioè, comunque, abbondantemente entro la scadenza (29.5.2024) del termine impugnatorio di 30 giorni dalla comunicazione ai sensi dell’art. 90 del d.lgs. 36/2023 (e non ai sensi dell’art.76 del d.lgs. 50/2016) sulla propria piattaforma telematica. Ma il ricorso è stato, però, notificato in data 14.6.2024: si tratterebbe di un ricorso tempestivo sotto il vigore del previgente codice dei contratti, ma sotto il vigore del vigente d.lgs. 36/2023 è da ritenere tardivo».
[45] A tali modifiche legislative va anche collegata l’eliminazione della possibilità di richiedere le motivazioni dell’aggiudicazione entro il breve termine di quindici giorni previsto dall’abrogato art. 76, d.lgs. n. 50/2016, che non è stata riprodotta nel nuovo codice in ragione della digitalizzazione delle procedure di gara e della messa a disposizione automatica degli atti di gara.
[46] Dette possibili problematiche non emergono nella controversia oggetto della pronuncia in commento, ma pare comunque opportuno darne brevemente conto.
[47] In questi termini, A. Corrado, Il regime della trasparenza e dell’accesso digitale ai documenti nei contratti pubblici: vantaggi e criticità alla vigilia dell’applicazione delle nuove norme del Codice, cit., p. 107.
[48] In tal senso M. Lipari, La tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo e il precontenzioso ANAC nel nuovo codice dei contratti pubblici n. 36/2023. Certezze acquisite e problemi aperti, in IUS, 2023.
[49] A tal proposito è interessante segnalare la proposta di modifica legislativa suggerita (ma non recepita dal legislatore) nelle more dell’approvazione definitiva del Codice dei contratti del 2023, da M.A. Sandulli, Procedure di affidamento e tutele giurisdizionali: il contenzioso sui contratti pubblici nel nuovo Codice, in Federalismi.it, 2023, p. xxviii, secondo la quale «Dal momento che la certezza del termine di impugnazione costituisce una garanzia di effettività della tutela assolutamente irrinunciabile, anche le riportate disposizioni processuali dovrebbero peraltro essere opportunamente integrate al fine di rendere assolutamente e definitivamente chiaro che (i) la dilazione non può essere un’opzione, ma vale solo per i vizi non ancora conoscibili; (ii) si tratta di una dilazione e non di una anticipazione: quest’ultimo chiarimento è essenziale per non dare spazio a strumentali eccezioni delle amministrazioni resistenti e/o dei controinteressati sulla necessità di anticipare l’impugnazione di verbali e atti endoprocedimentali casualmente conosciuti prima della comunicazione di quello effettivamente lesivo o, all’opposto, a un atteggiamento di estrema prudenza dei ricorrenti (c.d. “contenzioso cautelativo”) con sostanziale fallimento delle nuove regole dirette a evitare un inutile spreco della risorsa giustizia. In quest’ottica, come ho già avuto occasione di suggerire, il nuovo secondo periodo del co. 2 dell’art. 120 potrebbe a questi fini essere allora più opportunamente così riformulato come segue: “Il termine decorre, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione dell’atto impugnato ai sensi dell’articolo 90 del codice dei contratti pubblici oppure, se si impugnano atti diversi e non direttamente comunicati oppure si denunciano vizi conoscibili dagli atti messi a disposizione ai sensi dell’articolo 36, commi 1 e 2, del codice dei contratti pubblici, dai successivi momenti in cui tali atti sono stati effettivamente messi a disposizione”. Analogamente, il co. 9 dell’art. 36 potrebbe essere opportunamente integrato con la precisazione “o dai successivi momenti in cui la stazione appaltante o l’ente concedente abbia messo a disposizione gli atti impugnati e quelli da cui sono evincibili i vizi dedotti”».
[50] Il riferimento è al T.A.R. Lazio, Roma, sez. IV, 1° luglio 2024, n. 13225, cit.
Sommario: 1. Introduzione - 2. L’evoluzione della disciplina della partecipazione a distanza dell’imputato: l’art. 146 bis disp. att. c.p.p. e il suo ambito di applicazione - 2.1 L’evoluzione storica dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p. - 2.2. La parentesi dovuta al periodo pandemico: l’affermazione del valore del consenso e le basi per le evoluzioni successive - 2.3 La riforma Cartabia e l’attuale formulazione dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p.: il rapporto con i novelli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p. - 3. La perdurante vigenza dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p. per gli imputati detenuti e il divieto di partecipazione degli stessi a distanza al di fuori delle ipotesi previste dalla legge o di una espressa manifestazione di consenso - 3.1 Il consenso dell’imputato e del suo difensore come principio generale e l’ipotesi – residuale – del “mancato dissenso”.
1. Introduzione
La quotidiana attività nelle aule di udienza si caratterizza per un continuo viavai di persone: avvocati, magistrati, testi e imputati che si affannano a raggiungere le aule d’udienza, scalpitando in fondo alla stanza impazienti che giunga il loro momento e che il giudice, finalmente, chiami il processo che li interessa.
Lì, dal suo scranno, il giudice dirige l’udienza, scioglie riserve, risponde alle eccezioni e ascolta testi e imputati, controllando dalla sua postazione privilegiata le condotte degli uomini e delle donne in attesa: c’è chi sonnacchia; chi si mostra impaziente perché spinto dalla necessità di tornare alle proprie ordinarie incombenze; chi bisbiglia con il vicino ma, a causa della scarsa abitudine a tenere bassa la voce, crea più trambusto di chi fuori dall’aula parla serenamente; chi appare evidentemente scocciato; chi ascolta interessato, magari sentendosi finalmente parte del “pubblico della Giustizia” che ha spesso visto in molti talkshow in tv.
Un sistema, insomma, fondato sulla pubblicità dell’udienza e su un controllo diffuso sull’amministrazione della Giustizia, baluardo della democrazia che costituisce un primo assaggio del principio “la legge è uguale per tutti”: tutti aspettano, tutti insieme, senza nessuna distinzione, giovani e anziani, uomini e donne, ricchi e poveri.
Sul quadro appena rappresentato, però, è destinata ad incidere la tecnologia e, soprattutto, la possibilità di comunicare a distanza.
E così, nel corso della pandemia che ha interessato il mondo intero, sono stati implementati gli strumenti di partecipazione a distanza, con previsioni ad hoc che hanno consentito la celebrazione delle udienze da remoto, snellendo le forme in vista della garanzia della salute e della vita dei soggetti coinvolti nei processi: d’altra parte, la Giustizia non si è mai fermata, nemmeno dinanzi alle bombe e alla guerra, e ha mantenuto alto il suo onore reinventandosi per fronteggiare la crisi sanitaria senza con ciò impedire la celebrazione dei processi.
Terminata la fase emergenziale, però, la normativa che ha caratterizzato quel peculiare momento storico è venuta meno e si è registrata una nuova espansione delle forme: si è, così, tornati a celebrare il processo in presenza, nelle aule a ciò dedicate, con la partecipazione delle parti e dei testi in aula.
Ma il presente non può che trarre ispirazione dal passato e, così, la cd. Riforma Cartabia ha cercato di valorizzare le esperienze acquisite in ambito tecnologico durante la pandemia e ha introdotto nel Codice di procedura penale gli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p.: opzione che, però, non ha determinato l’abrogazione dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
2. L’evoluzione della disciplina della partecipazione a distanza dell’imputato: l’art. 146 bis disp. att. c.p.p. e il suo ambito di applicazione
2.1 L’evoluzione storica dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
L’art. 146 bis disp. att. c.p.p. ha una storia antica, essendo stato inserito nel nostro ordinamento con la legge n. 11 del 7 gennaio 1998.
Nella sua versione originaria tale disposizione prevedeva la possibilità del giudice di disporre la partecipazione a distanza dell’imputato solo nel caso in cui si procedesse per taluno dei gravi reati di cui all’art. 51, comma 3, c.p.p. e – al contempo - solo in presenza di una delle seguenti motivazioni: gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico; dibattimento complesso e contestuale necessità di evitare ritardi; detenuto sottoposto al regime penitenziario di cui all’art. 41 bis.
In presenza di tali presupposti, allora, il Legislatore ha concesso di procedere a distanza, con la predisposizione di un sistema di videocollegamento che permettesse contestuali ascolto e visione tra tutte le parti e la possibilità per l’imputato di colloquiare riservatamente con il proprio Difensore: alla rigida alternativa tra partecipare o non partecipare, quindi, all’imputato è stata offerta la terza via della partecipazione a distanza, con una limitata ma costituzionalmente garantita compressione del suo diritto di difesa, come statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 342 del 22 luglio 1999 in presenza dei presidi posti dall’art. 146 bis citato.
Analogamente, poi, il Legislatore ha introdotto nel corpo delle disposizioni di attuazione al Codice di rito anche l’art. 40 bis, prevedendo la possibilità del videocollegamento anche nel caso di giudizi celebrati in camera di consiglio, richiamando l’art. 146 bis del medesimo corpo normativo per l’individuazione delle ipotesi nelle quali era consentito il videocollegamento e per le modalità di gestione dello stesso.
Con successiva modifica apportata con il decreto legge n. 341 del 24 novembre 2000, convertito nella legge n. 4 del 19 gennaio 2001, è stato generalizzato il ricorso al videocollegamento nel caso di imputato sottoposto al regime penitenziario di cui all’art. 41 bis, prevedendo in tale ipotesi che il giudice dovesse disporre la trattazione dell’udienza a distanza indipendentemente dalla ricorrenza della condizione posta dal comma 1 dell’art. 146 bis, ovvero a prescindere dal fatto il processo avesse ad oggetto i reati di cui all’art. 51, comma 3, c.p.p.[1].
La partecipazione a distanza dell’imputato, quindi, è diventata: obbligatoria nel caso di soggetto sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis ord. pen.; a discrezione del giudice ma con obbligo di motivazione nei casi di soggetto imputato per uno dei reati di cui all’art. 51, comma 3, c.p.p., purché in presenza anche di gravi ragioni di sicurezza o ordine pubblico ovvero di un dibattimento complesso e necessità di evitare ritardi.
L’inevitabile evoluzione tecnologica ha, però, permesso gradualmente al Legislatore di osare, ampliando le ipotesi di partecipazione a distanza dell’imputato con la novella operata dal decreto legge n. 374 del 18 ottobre 2001, per come convertito nella legge n. 438 del 15 dicembre 2001: è stato, in particolare, esteso il novero dei reati per i quali il giudice poteva disporre il videocollegamento, affiancando a quelli di cui all’art. 51, comma 3, c.p.p. anche quelli di cui all’art. 407 comma 2, lettera a), n. 4 c.p.p., ovviamente purché ricorressero anche le ulteriori condizioni previste dal comma 1 dell’art. 146 bis, ovvero la sussistenza di gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico ovvero di un dibattimento complesso e della contestuale necessità di evitare ritardi, fermo restando il generale impiego del sistema a distanza in caso di imputati sottoposti al regime penitenziario del 41 bis.
A fronte di una disposizione storicamente riservata alla partecipazione a distanza dell’imputato[2], poi, una prima apertura verso analoghe forme di impiego del videocollegamento per l’acquisizione delle testimonianze si è registrata con il decreto legge n. 211 del 22 dicembre 2011, per come convertito nella legge n. 9 del 17 febbraio 2012, che nel modificare il comma 1 bis dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p. ha previsto l’acquisizione a distanza della deposizione resa dal testimone in stato di detenzione, salvo diversa decisione del giudice.
La prima vera riscrittura della norma in esame si è, però, registrata con la legge n. 103 del 23 giugno 2017 (cd. Riforma Orlando, dal nome dell’allora Guardasigilli), che ha generalizzato la partecipazione a distanza degli imputati di reati rientranti nel novero dell’art. 51, comma 3 bis, e dell’art. 407, comma 2 lettera a) numero 4), c.p.p., per i quali è stato previsto sempre il videocollegamento per tutte le udienze nelle quali sono imputati e per quelle penali e civili nelle quali devono essere escussi in qualità di testimoni; analoga previsione generalizzata è stata prevista al comma 1 bis per la persona imputata che sia ammessa a programmi o misure di protezione, comprese quelle di tipo urgente o provvisorio: il radicale cambio di rotta è stato, poi, cristallizzato dal novello comma 1 ter, che ha previsto come eccezionale la possibilità per il giudice di disporre che i soggetti indicati partecipino in presenza, con obbligo di motivazione e, comunque, con esclusione dei soggetti sottoposti al regime del 41 bis ord. pen., per i quali resta l’obbligo di partecipazione a distanza.
Nell’ottica di valorizzare al massimo i progressi tecnologici nel campo delle comunicazioni ed estendere, quindi, l’ambito della partecipazione a distanza – con conseguente contenimento dei costi per l’Amministrazione penitenziaria e riduzione dei rischi di evasione -, poi, è stato inserito un nuovo comma 1 quater, che ha affidato al giudice la possibilità di disporre con decreto motivato la partecipazione a distanza dell’imputato in caso di ragioni di sicurezza o di dibattimento di particolare complessità per il quale occorre evitare ritardi. In altre parole, le condizioni che in precedenza erano poste come necessarie per disporre il videocollegamento in presenza di reati rientranti nel novero dell’art. 51, comma 3, c.p.p. o dell’art. 407, comma 2 lett. a num. 4, c.p.p., dopo la riforma del 2017 sono divenute idonee a giustificare la partecipazione a distanza in presenza di qualsivoglia titolo di reato, con la conseguenza che il videocollegamento è divenuto:
- la regola in presenza di:
* procedimenti per i reati previsti dall’art. 51, comma 3, c.p.p. o dall’art. 407, comma 2 lett. a num. 4, c.p.p., salvo diversa decisione del giudice, che deve motivare sul punto;
* imputato ammesso a programmi o misure di protezione, comprese quelle di tipo urgente o provvisorio, salvo diversa decisione del giudice, che deve motivare sul punto;
* imputati sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis della legge n. 354 del 26 luglio 1975, nel quale caso la partecipazione a distanza è obbligatoria;
- rimesso all’apprezzamento motivato del Giudice in presenza di:
* ragioni di sicurezza, con la precisazione che la nuova previsione ha ulteriormente ridotto l’onere motivazionale del giudice, escludendo la necessità di “gravi ragioni di sicurezza” in favore delle più blande “ragioni di sicurezza”;
* dibattimento di particolare complessità per il quale occorre evitare ritardi;
* assunzione di testimonianza di soggetto a qualsiasi titolo detenuto.
2.2. La parentesi dovuta al periodo pandemico: l’affermazione del valore del consenso e le basi per le evoluzioni successive
Come più volte evidenziato, il Legislatore ha lentamente ampliato il novero delle ipotesi di ricorso al videocollegamento, gradualmente riconoscendo sempre maggiori margini di discrezionalità al giudice nel disporre la partecipazione a distanza dell’imputato – e del testimone, ove detenuto – e addirittura ponendo come regola generale il videocollegamento in altri casi.
Ciò, tuttavia, non ha inciso sulle forme dell’udienza, che per il resto ha continuato a svolgersi nell’aula fisica, con la partecipazione degli operatori del diritto e di tutti gli altri attori del processo per i quali il videocollegamento non era consentito.
Tale meccanismo si è, però, scontrato con l’emergenza pandemica affrontata a partire dal 2020: dinanzi al dilagare di una malattia apparentemente incontrollabile, a fronte di uomini, donne e bambini che morivano ogni giorno a causa di un morbo che si diffondeva con modalità inizialmente sconosciute, ci si è trovati costretti a sospendere a tutti i livelli una delle caratteristiche che ha da sempre connotato l’uomo nel corso della sua evoluzione, ovvero quella socialità che proprio nell’aula d’udienza – come nell’Agorà millenni prima – si manifestava in tutto il suo splendore.
In questo senso, la Giustizia penale non si è potuta esimere dal confrontarsi con le nuove esigenze derivanti dalla pandemia e dalla necessità di coniugare la tutela della salute pubblica con il principio della pubblicità dell’udienza e il diritto dell’imputato di partecipare alla stessa.
L’equilibrio è stato trovato grazie all’art. 221, comma 9, del decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020 per come convertito nella legge n. 77 del 17 luglio 2020, che, “fermo restando quanto previsto dagli articoli 146 bis e 147 bis delle norme di attuazione” ha generalizzato la partecipazione a distanza degli imputati detenuti (anche per altra causa) in presenza del consenso degli stessi: una rivoluzione quasi involontaria, dettata dall’esigenza del momento e che, però, ha per la prima volta posto nuovamente l’imputato al centro del processo, affidandogli la possibilità di decidere se avvalersi o meno della partecipazione da remoto indipendentemente da rigidi schemi legislativi e in assenza di ragioni ostative che il giudice avrebbe dovuto, di volta in volta, motivare per imporgli la presenza fisica.
2.3 La riforma Cartabia e l’attuale formulazione dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p.: il rapporto con i novelli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p.
Finalmente superato il buio periodo della pandemia, le normative emergenziali sono venute meno e hanno ripreso ad operare le previsioni antecedenti, per come delineate in seguito alla cd. Riforma Orlando. D’altra parte, sebbene sin dal 1999 la Corte costituzionale abbia affermato la compatibilità della partecipazione a distanza per come concepita dal Legislatore italiano con il diritto di difesa[3], è innegabile che l’assenza fisica dell’imputato dall’aula d’udienza rende certamente più difficoltoso l’esercizio del diritto di difesa sotto il profilo della partecipazione al contraddittorio: il confronto con il Difensore, infatti, risulta innegabilmente più macchinoso se effettuato per il tramite di uno strumento ad hoc – solitamente il telefono -, che impedisce quel rapporto dialogico continuo e diretto che si instaura tra l’Avvocato e il suo assistito durante l’acquisizione delle prove dichiarative, con possibilità per l’imputato di sottoporgli con facilità temi utili per il controesame.
E così, nella consapevolezza di tali limiti ma sulla scia dei risultati – non sempre brillanti, in realtà, a causa delle scarse forniture degli Uffici giudiziari e, in particolare, di reti lente e dispositivi informatici obsoleti – ottenuti, il Legislatore ha deciso di spingersi oltre nel processo di “remotizzazione” dell’udienza, giungendo alla riforma realizzata con il decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022, definita per comodità “Riforma Cartabia” dal nome dell’allora Ministro della Giustizia.
La novella ha, innanzitutto, inserito nel corpo del Codice di procedura penale un apposito Titolo II bis rubricato “Partecipazione a distanza”, composto da due articoli ovvero:
- l’art. 133 bis che recita “salvo che sia diversamente previsto, quando l'autorità giudiziaria dispone che un atto sia compiuto a distanza o che una o più parti possano partecipare a distanza al compimento di un atto o alla celebrazione di un'udienza si osservano le disposizioni di cui all'articolo 133 ter”;
- l’art. 133 ter rubricato “Modalità e garanzie della partecipazione a distanza”, che per l’appunto individua le modalità tramite le quali realizzare la partecipazione a distanza, recependo le previsioni prima dettate dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p. ai commi 2, 3, 4, 5 e 6.
Orbene, la lettura dell’art. 133 ter c.p.p. permette di cogliere la chiara intenzione del Legislatore riformatore di snellire le forme, con esclusione di modalità predefinite di partecipazione a distanza delle parti e dei testimoni: ed infatti, sebbene sia imprescindibile garantire forme di videocollegamento che permettano la reciproca e contestuale visione tra tutti i soggetti coinvolti[4], la norma prevede in generale che il collegamento dei soggetti che partecipano a distanza avvenga da sedi istituzionali (da altro ufficio giudiziario o da un ufficio di polizia giudiziaria ex comma 4, dal luogo di restrizione ai sensi del comma 5 per i soggetti detenuti), ma ammette al comma 6 che l’Autorità giudiziaria, sentite le parti, autorizzi il compimento dell’atto in luogo diverso (previsione che, ovviamente, non trova applicazione per i detenuti).
Sotto il profilo dello strumento da impiegare per garantire il videocollegamento, poi, la nuova previsione normativa non impone alcun limite, proprio per garantire l’adattamento della disposizione agli imprevedibili progressi della tecnologia sul punto. Si è avuta, così, la possibilità di sfruttare un nuovo strumento che proprio in periodo pandemico ha trovato grande diffusione, ovvero il software Microsoft Teams fornito dal Ministero, sistema che si affianca alla classica videoconferenza gestita dalla Cabina di regia di Roma e ai quali, astrattamente, può aggiungersi qualsiasi ulteriore software che l’Autorità giudiziaria deciderà di autorizzare caso per caso, laddove ciò discenda da un’esigenza contingente[5].
3. La perdurante vigenza dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p. per gli imputati detenuti e il divieto di partecipazione degli stessi a distanza al di fuori delle ipotesi previste dalla legge o di una espressa manifestazione di consenso
In chiusura del precedente paragrafo è stata, quindi, operata una distinzione tra videoconferenza e altre forme di partecipazione a distanza dell’imputato, fermo restando che le ipotesi nelle quali è ammesso il collegamento a distanza dell’imputato restano fissate dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p. (oltre che da specifiche previsioni di legge, come si evidenzierà nel prosieguo), rimasto inalterato rispetto a quanto previsto dalla Riforma Orlando con riferimento ai casi nei quali la partecipazione a distanza dell’imputato è la regola[6] o è rimessa al prudente apprezzamento del giudice[7] (si veda, sul punto, la riproduzione schematica riportata in chiusura del paragrafo 2.1).
Ed infatti, con l’introduzione dell’art. 133 ter c.p.p. il decreto legislativo n. 150 del 2022 ha disposto l’abrogazione dei commi 2, 3, 4, 5 e 6 (oltre che la modifica del comma 4 bis) dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p., rimettendo all’art. 133 ter c.p.p. l’unitaria individuazione delle modalità di partecipazione a distanza alle udienze.
Proprio sul punto occorre, allora, cercare di essere più precisi possibili, anche alla luce dell’interpretazione “suggerita” da molti istituti penitenziari in favore della partecipazione a distanza degli imputati detenuti, nascente da una lettura – erronea - degli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p. che sono stati intesi come la chiave di volta per escludere la necessità della partecipazione fisica degli imputati in udienza, in evidente contrasto con la littera legis e con l’interpretazione sistematica delle norme che ci si appresta ad offrire.
Sebbene sia assolutamente comprensibile l’esigenza di contenimento dei costi delle traduzioni e dei rischi connessi - soprattutto quando occorre tradurre imputati da istituti siti a grande distanza dall’Ufficio giudiziario, magari per attività che richiedono un apporto davvero marginale del detenuto -, non bisogna dimenticare che le esigenze organizzative o economiche non possono scontrarsi con il diritto fondamentale di difesa dell’imputato, della cui vita si discute ad ogni udienza e che deve essere posto nella condizione di guardare negli occhi chi lo accusa e chi lo giudica, di colloquiare con facilità con il proprio difensore, di assistere anche a ciò che si verifica nell’aula al di fuori dello spazio di ripresa della telecamera: tutte queste esigenze vengono inevitabilmente compresse nel caso di una partecipazione a distanza e ciò è giustificabile solo nei limitati casi previsti dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p. o da altre specifiche disposizioni di legge e non a tutela di interessi economici o meramente organizzativi dello Stato.
D’altra parte, se l’art. 133 ter c.p.p. disciplina le modalità tramite le quali garantire la partecipazione a distanza di parti e testimoni, l’art. 133 bis c.p.p. rimette all’Autorità giudiziaria il compito di stabilire quando tale modalità di presenza surrogata in udienza è consentita, imponendo un esame congiunto delle ipotesi normativamente previste di partecipazione a distanza.
E così, per esempio, la partecipazione a distanza dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e degli imputati di reato connesso può avvenire a distanza ai sensi dell’art. 496, comma 2 bis, c.p.p. con il “consenso delle parti”.
Orbene, appare evidente che l’ambito applicativo d’elezione della partecipazione a distanza sia proprio quello dell’assunzione delle prove dichiarative: fermo restando, infatti, il diritto dell’imputato ad essere presente in udienza accanto al suo difensore, il mezzo di prova può agevolmente essere acquisito mediante un videocollegamento, con una deroga minima alla contestuale presenza di tutti i soggetti in aula, visto che comunque il teste è solitamente presente in un ufficio di P.G. (il che garantisce la genuinità dell’assunzione della prova, evitando che dietro la telecamera possa esservi qualcuno che suggerisce delle risposte al teste o che, per esempio, lo minacci o lo condizioni) e viene inquadrato e ascoltato in maniera continua, con possibilità di cogliere ogni suo movimento e, quindi, anche il linguaggio non verbale e il suo contegno.
Se, quindi, è sempre all’art. 133 ter c.p.p. che occorre rinviare per individuare le modalità del videocollegamento, la possibilità o meno di procedere a distanza non trova il suo fondamento negli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p., ma nell’art. 496 c.p.p., che ha richiesto l’acquisizione del consenso delle parti al videocollegamento, a riprova dell’assenza di un potere generalizzato del giudice di disporre il compimento di atti a distanza: analoga previsione è stata inserita nell’art. 422, comma 2, c.p.p. con riferimento agli approfondimenti istruttori compiuti in sede di udienza preliminare e di procedimento che si svolge nelle forme del rito abbreviato (alla luce del rinvio operato dall’art. 441 c.p.p. alle norme di cui agli artt. 422 e 423 c.p.p.).
Se, quindi, vengono poste queste importanti limitazioni rispetto all’acquisizione a distanza della prova dichiarativa, a maggior ragione non è possibile ipotizzare una generale possibilità di partecipazione a distanza dell’imputato, ipotesi che certamente comprime in maniera più significativa il diritto di difesa come si è più volte ribadito.
E così, con riferimento alle udienze camerali il Legislatore ha coniugato l’utilità della partecipazione a distanza con le peculiarità di tale forma di gestione del contraddittorio, che prevede la partecipazione facoltativa dell’imputato: in tal senso, laddove l’imputato sia detenuto fuori dalla circoscrizione del giudice e chieda di essere sentito, si provvederà mediante videocollegamento se vi consente o “nei casi particolarmente previsti dalla legge”, ovvero in quelle ipotesi nelle quali il Giudice può procedere a distanza a prescindere dal consenso dell’avente diritto, da individuarsi nella casistica delineata dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
Tale interpretazione risulta, d’altra parte, suffragata dalla lettura dell’art. 40 bis disp. att. c.p.p., che nel disciplinare le ipotesi di partecipazione a distanza nei procedimenti in camera di consiglio prevede espressamente che “La partecipazione dell'imputato o del condannato all'udienza procedimento in camera di consiglio avviene a distanza nei casi e secondo quanto previsto dall'articolo 146 bis, commi 1, 1-bis, 1-ter e 1-quater”: ne consegue che fuori da tali ultime ipotesi, o vi è il consenso dell’imputato o il videocollegamento non è consentito e l’imputato sarà sentito dal Magistrato di sorveglianza competente sul luogo nel quale è detenuto.
Analogo schema è stato, poi, previsto dal Legislatore per le udienze in camera di consiglio svolte nell’ambito dei procedimenti di esecuzione disciplinati dagli art. 666 e ss. c.p.p., il cui comma 4 prevede che se l’interessato è detenuto e vuole essere sentito, parteciperà a distanza se presta il consenso o “quando una particolare disposizione di legge lo prevede”, diversamente venendo ricevute le sue dichiarazioni dal Magistrato di sorveglianza competente sul luogo di detenzione.
Tale schema risulta rivisto con riferimento ad una particolare ipotesi di udienza camerale che è quella di convalida del fermo o dell’arresto, caratterizzata dalla partecipazione necessaria dell’arrestato/fermato e del suo difensore.
Con riferimento a tale udienza, infatti, all’art. 391, comma 1, c.p.p. è stato previsto che “quando l'arrestato, il fermato o il difensore ne fanno richiesta il giudice può autorizzarli a partecipare a distanza”: ne consegue che anche tale udienza può essere celebrata a distanza secondo le modalità di cui all’art. 133 ter c.p.p., ma il presupposto è che vi sia la richiesta – o il consenso, evidentemente – a tale remotizzazione da parte dell’indagato/imputato e del difensore o che si verta “nei casi particolarmente previsti dalla legge” di cui alla previsione generale posta dall’art. 127 c.p.p., ovvero le ipotesi disciplinate dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
Vertendosi sempre in materia di procedimenti volti a vagliare la restrizione della libertà personale dell’imputato, il sistema appena delineato è stato riprodotto fedelmente anche dall’art. 294, comma 4, c.p.p. in relazione all’interrogatorio di garanzia, che può svolgersi a distanza laddove “la persona sottoposta a misura cautelare e il difensore ne facciano richiesta”: ancora una volta, quindi, viene ribadita l’assoluta necessità di un consenso (ovviamente anche sotto forma di richiesta) per la celebrazione a distanza dell’udienza, sempre facendo salve le ipotesi di cui all’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
Il consenso costituisce, infine, il presupposto previsto dal Legislatore per lo svolgimento di ulteriori attività a distanza, quali:
- l’acquisizione di sommarie informazioni dall’indagato a cura della P.G. (art. 350, comma 4 bis, c.p.p.);
- la partecipazione di indagato, persona offesa, difensori e consulenti tecnici al conferimento dell’incarico in sede di accertamenti tecnici irripetibili (art. 360, comma 3 bis, c.p.p.);
- l’interrogatorio dell’indagato, anche svolto dalla P.G. su delega del P.M. (art. 370, comma 1 bis c.p.p.);
- l’interrogatorio dell’imputato nel procedimento di estradizione, che può essere effettuato a distanza dal Procuratore generale nei casi previsti dalla legge ovvero nei casi in cui l’interessato e il suo difensore ne facciano richiesta (art. 703, comma 2, c.p.p.);
- l’interrogatorio dell’arrestato nel procedimento di estradizione, che può essere effettuato a distanza dal Presidente della Corte d’Appello nei casi previsti dalla legge ovvero nei casi in cui l’interessato e il suo difensore ne facciano richiesta (art. 717, comma 2, c.p.p.).
3.1 Il consenso dell’imputato e del suo difensore come principio generale e l’ipotesi – residuale – del “mancato dissenso”
Alla luce delle considerazioni espresse, appare evidente che l’introduzione degli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p. non consente un generalizzato ricorso alla partecipazione a distanza dell’imputato, ma ha semplicemente determinato l’introduzione nel Codice di rito delle modalità tramite le quali procedere al videocollegamento (dettate dall’art. 133 ter c.p.p.) nei casi in cui lo stesso è consentito, che risultano sempre disciplinati unicamente dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p. e dalle altre disposizioni puntualmente enucleate dal Legislatore.
Il riferimento che il comma 5 dell’art. 133 ter c.p.p. opera ai detenuti o internati, pertanto, non incide sulle ipotesi nelle quali è possibile procedere al videocollegamento, ma solo sulle modalità di escussione di tali soggetti nei casi – previsti da altre norme – nei quali è possibile sentirli o farli partecipare a distanza. D’altra parte, il citato comma 5 prevede solo che il detenuto, anziché partecipare all’atto o all’udienza da un ufficio giudiziario o da un ufficio di P.G., lo faccia dal luogo in cui si trova recluso, ponendo un’esplicitazione logica e forse superflua, ma pur sempre contenuta in un articolo – il 133 ter, per l’appunto – che disciplina solo le “Modalità e garanzie della partecipazione a distanza”, come precisato nella rubrica della disposizione.
Al di fuori dei casi tracciati dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p. – richiamati da molte delle disposizioni sopra evidenziate -, poi, una lettura sistematica delle norme del Codice di rito permette di ricavare il principio generale della possibilità di procedere a distanza in caso di consenso espresso congiuntamente dall’imputato e dal suo Difensore, in linea con quanto previsto dall’art. 1, comma 8 lett. c), della legge delega n. 134 del 27 settembre 2021[8], che ha costituito il fondamento della cd. Riforma Cartabia.
In realtà, tale eventualità è stata espressamente prevista solo per l’interrogatorio di garanzia, l’udienza di convalida, il procedimento in camera di consiglio, alcuni specifici atti di indagine - come l’acquisizione di sommarie informazioni dall’indagato e il conferimento dell’incarico in caso di accertamenti tecnici irripetibili – e i procedimenti di estradizione, ma risponde ad una logica che è possibile ricavare dai principi generali che ispirano il nostro ordinamento e, in via sussidiaria, dai principi generali in tema di nullità.
E così, nel caso in cui ci sia un’espressa richiesta (o il consenso) dell’imputato e del suo difensore alla celebrazione a distanza dell’udienza, appare irragionevole pensare che il Giudice debba disporre comunque la partecipazione in presenza contro il volere dei soggetti interessati.
Può, per esempio, accadere che l’imputato (sia libero che detenuto) risieda lontano dall’Ufficio giudiziario e che per ragioni lavorative, di salute, familiari o economiche (queste ultime rilevanti solo in caso di soggetto non detenuto) non voglia sottoporsi a lunghi viaggi e, cionondimeno, desideri partecipare a distanza alle udienze. Imporre comunque la partecipazione in presenza significherebbe porre l’imputato dinanzi all’alternativa secca tra prendere fisicamente parte all’udienza o non parteciparvi, negando la possibilità di una partecipazione da remoto che il Giudice deve motivare (per esempio, per assenza di strumentazione idonea) e che, ove non adeguatamente supportata, potrebbe anche determinare una nullità relativa di ordine generale per aver ostacolato l’intervento dell’imputato in udienza.
A parere di chi scrive, quindi, la partecipazione a distanza all’udienza da parte dell’imputato che lo richiede o che esprime il consenso a tale modalità non determina certamente un atto nullo né irregolare ma, anzi, costituisce tutela del diritto dell’imputato a scegliere le modalità di partecipazione più consone alle proprie esigenze, ove non contrastanti con specifiche contrapposte esigenze della Giustizia, che dovranno essere puntualmente esplicitate dal giudice.
Occorre, invece, soffermarsi sulle conseguenze di un’udienza celebrata a distanza in assenza di un consenso dell’imputato - purché non sia stato espresso un dissenso, si badi -, che sul punto non è stato interpellato dall’Autorità giudiziaria né ha chiesto espressamente il videocollegamento.
Orbene, in tale ipotesi si ritiene configurabile esclusivamente un’irregolarità dell’atto, al più rilevante sotto il profilo disciplinare nei confronti del giudice.
Ed infatti, sebbene le norme che regolano l’intervento dell’imputato in udienza rientrino tra quelle la cui violazione determina una nullità ai sensi dell’art. 178 lett. c) c.p.p., la partecipazione a distanza dell’imputato all’udienza non lede il suo diritto ad intervenire nel processo, purché siano garantite quelle modalità oggi poste dall’art. 133 ter c.p.p. e che sin dal 1999 la Corte costituzionale ha dichiarato idonee a tutelare il diritto di difesa.
Anche laddove si concludesse, però, per una violazione rientrante tra le nullità di ordine generale di cui all’art. 178, lett. c), c.p.p. perché attinenti all’intervento dell’imputato in udienza, il caso in esame dovrebbe certamente ricondursi nel novero delle nullità relative, non trattandosi di una delle ipotesi di omessa citazione dell’imputato previste dall’art. 179 c.p.p.: ne consegue che la presenza dell’imputato in videocollegamento determinerebbe comunque la sanatoria della nullità ai sensi dell’art. 182, comma 2, c.p.p., laddove il primo partecipi all’udienza e nulla eccepisca.
Si tratterebbe, in definitiva, di una celebrazione a distanza dell’udienza fondata su un “mancato dissenso” da parte dell’imputato e del suo difensore, non in grado di incidere sulla validità degli atti compiuti ma potenzialmente rilevante sul piano disciplinare.
In definitiva, la riforma operata con il decreto legislativo n. 150 del 2022 si inscrive armonicamente nel percorso di evoluzione del nostro ordinamento con riferimento alla materia della partecipazione a distanza all’udienza, prendendo spunto e stimolo dai risultati raggiunti in periodo pandemico ma senza perdere di vista la generale necessità di garantire la partecipazione dell’imputato all’udienza, nella consapevolezza che forme surrogate alla presenza fisica dell’interessato, per quanto comode e vantaggiose sotto il profilo organizzativo ed economico per lo Stato, costituiscono pur sempre una compressione del diritto al contraddittorio dell’imputato, ammissibile solo in presenza del suo consenso o di specifiche ipotesi predeterminate dal Legislatore e tratte dalla necessità di bilanciare contrapposte esigenze di rango costituzionale.
Ne consegue che, sebbene non si possa parlare di un’ipotesi remota – come provocatoriamente indicato nel titolo del presente articolo -, non si può nemmeno ritenere che la partecipazione da remoto dell’imputato all’udienza sia la regola, costituendo invece un’eccezione al principio generale della sua presenza fisica in udienza, ispirato a ragioni di civiltà giuridica che tengono conto della disponibilità di sistemi di collegamento a distanza che, per quanto sempre più sofisticati e realistici, scontano ancora dei profondi limiti.
[1] Tale risultato è stato raggiunto sopprimendo la lettera c) del comma 1 dell’art. 146 bis e inserendo un comma 1 bis autonomo, che recitava “Fuori dei casi previsti dal comma 1, la partecipazione al dibattimento avviene a distanza anche quando si procede nei confronti di detenuto al quale sono state applicate le misure di cui all'articolo 41-bis, comma 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni”.
[2] Con l’art. 147 bis disp. att. c.p.p. destinato a regolare la partecipazione a distanza di soggetto diverso dall’imputato e, in particolare, degli operatori sotto copertura, dei collaboratori di giustizia e degli imputati di reato connesso.
[3] Si tratta della già citata sentenza n. 342 del 22 luglio 1999; in realtà anche la Corte europea dei diritti dell’uomo si è più volte pronunciata in tal senso, come nel caso Viola c. Italia, conclusosi con la pronuncia emessa il 5 ottobre 2006 dalla Sezione III.
[4] E ciò in linea con quanto previsto dalla Corte costituzionale sin dal 1999, quale presidio fondamentale per una compressione del diritto di difesa che non si traduca in una illegittima lesione dello stesso.
[5] Si pensi, per ipotesi, ad altri sistemi di comunicazione a distanza come Skype, che garantiscono ugualmente la contemporanea visione e l’ascolto tra tutti i soggetti coinvolti. In linea di massima, però, è suggeribile sempre l’impiego di sistemi forniti dal Ministero della Giustizia al fine di garantire l’applicazione della previsione posta dall’art. 147 quater disp. att. c.p.p. e la garanzia circa l’integrità e la sicurezza della trasmissione dei dati.
[6] Si tratta dei procedimenti: per i reati previsti dall’art. 51, comma 3, c.p.p. o dall’art. 407, comma 2 lett. a num. 4, c.p.p. e di quelli riguardanti un imputato ammesso a programmi o misure di protezione, comprese quelle di tipo urgente o provvisorio, fatta salva in tutti questi casi la possibilità per il giudice di disporre motivatamente la partecipazione in udienza; con imputati sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis della legge n. 354 del 26 luglio 1975, nel qual caso non è ammessa la partecipazione fisica in udienza.
[7] Si tratta delle ipotesi rimesse alla discrezione del giudice, che può motivatamente disporre il videocollegamento in presenza di ragioni di sicurezza, di dibattimento di particolare complessità per il quale occorre evitare ritardi o di assunzione di testimonianza di soggetto a qualsiasi titolo detenuto.
[8] Tale norma ha posto tra i criteri della delega l’individuazione dei “casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all'atto del procedimento o all'udienza possa avvenire a distanza”.
Chi scrive queste righe intorno a un libro definibile senz’altro come ‘sorprendente’ è un glottologo che è stato allievo, alla Statale di Milano e in anni ormai lontani, del grandissimo Vittore Pisani: quel Pisani, eccezionale ‘signore’ di tutto lo spazio linguistico indoeuropeo e vivace protagonista, per buona parte del sec. XX, del dibattito storico-linguistico internazionale; quel Pisani, a sua volta ‘erede’, e proprio a Milano, degli insegnamenti del pure grandissimo Graziadio Isaia Ascoli, mediatore in Italia dei portati delle scienze linguistiche ottocentesche (sviluppatesi soprattutto in centri di ricerca di ambiente germanofono) e fondatore, appunto, della prestigiosa Scuola glottologica di Milano. Per chi scrive queste righe ogni ‘lingua’ (e tale termine va inteso in modo esteso, ampio) non è altro se non materia fonico-acustica prodotta da quel mirabile, sofisticatissimo apparato fonatorio del quale sono forniti, tra le specie viventi sulla faccia del pianeta, soltanto gli appartenenti alla specie umana; ché tutti gli altri esseri viventi (anche i vegetali … oggi lo si sa …) sono forniti di sistemi di comunicazione che, seppur non paragonabili per capacità e complessità espressiva a quanto mediato dalle lingue storico-naturali, sono pur sempre ‘sistemi’, e sempre molto complessi.
Bene: per chi scrive queste righe la ‘grammatica’ – ogni grammatica e di qualsiasi sistema linguistico, sia esso una grande lingua di cultura o un qualsiasi dialetto o un gergo – può essere intesa secondo due principali valenze: o come descrizione ‘fine’ (… ma siamo sicuri che tale impresa sia realmente possibile?) di tutti i fenomeni documentabili da interazioni comunicative di parlanti calati in dinamiche ‘conversazionali’ (anche nel caso delle ‘endofasie’ …: chi parla silenziosamente ‘tra sé e sé’ ha pur sempre un interlocutore: sé stesso …) proprie di singole comunità linguistiche (micro- o macro- che siano); oppure ogni grammatica può essere intesa come ‘sistematizzazione’, entro un apparato di norme/regole, di ciò che, tra i materiali utilizzati all’interno di una comunità linguistica, sia parso, in una certa fase della loro vicenda storica, degno di essere ‘fissato’ entro un canone normativo, sì da diventare una sorta di severa ‘Lex’. Le grandi lingue di cultura, regolate entro schemi normativi, rientrano pienamente in quest’ordine di problemi e le loro grammatiche riposano sulla selezione di fenomeni ‘accolti’ in una (più o meno convenzionalmente) salda forma scritta: del resto gr. grammatikḕ téchnē / γραμματικὴ τέχνη = ‘arte della forma scritta’ (< gr. gráph-ein / γράφ-ειν (“incidere” > “scrivere”) sta alla base della nozione di ‘grammatica’ intesa quale ‘apparato istituzionale, in quanto tale da rispettare.
Fatta questa premessa, da glottologo segnalo immediatamente che il libro di Dino Petralia si muove – e assai felicemente – su un terreno totalmente diverso: per Dino Petralia le parole di una lingua altro non sono, prioritariamente, se non preziosi segmenti fonico-acustici dotati ciascuno di un loro intrinseco ‘carattere’: materiali linguistici forniti di una loro ‘vita’, autonoma e funzionalmente attiva, e anche di una loro ‘anima’ rinviante alla loro funzione comunicativa e – aggiungerei, in quanto glottologo – di una loro storia (linguistica): ogni ‘parola’, anche la più semplice, anche la più apparentemente ‘banale’, si rivela uno scrigno di tesori nascosti, ricca come è di informazioni che invitano a ‘viaggiare’ entro uno degli aspetti più affascinanti delle scienze del linguaggio: la forza pragmatica di segmenti fonico-acustici > ‘parole’.
La grammatica petraliana è, come dichiarato già dal titolo del libro, essenzialmente ‘emozionale’: invita il lettore a prendere le distanze – l’agg. ‘emozionale’, attestato in italiano dal 1893, è prestito dall’ingl. emotional, a sua volta [falso!] latinismo tratto da un ipotetico lat. *ēmōtionālis, a sua volta derivato da ēmōtus, -a, -um, part. pft. di ēmovēre ‘smuovere, turbare, sconvolgere’ – rispetto al severo impianto delle consuete grammatiche di impianto descrittivo o normativo. E Dino Petralia invita i suoi lettori a entrare in un vivace/creativo regno ove gli sarà possibile ‘giocare’, grazie a una nuova visione delle cose, con le tradizionali categorie grammaticali (quelle che vengono insegnate sui banchi di scuola) sì da vederne aspetti ‘ludici’ / ‘divertenti’: là dove i due aggettivi in questione vanno intesi come indicativi della ‘serietà’ che è comunque sottesa ad ogni gioco: chi gioca sa che ogni pratica ludica richiede, a chi la esercita, di dotarsi di una specifica ‘razionalità’; nel caso dei giochi di / e con le parole, occorre armarsi di una razionalità ‘creativa’ che è propria della fantasia poetica e del divertissiment intellettuale.
Il libro si articola su precise sezioni dall’aspetto volutamente ‘tradizionale’ (Articoli e preposizioni, pp. 19-25; Nomi, pp. 29-34; Verbi, pp. 37-56; Aggettivi e pronomi, pp. 59-71; Avverbi - Congiunzioni - Disgiunzioni, pp. 75-126; Interiezioni, pp. 129-130; Punteggiatura e altro, pp. 133-149) precedute da una brillante prefazione di Arnaldo Colasanti (pp. 7-11 ) e seguite da due postfazioni (una dovuta allo scrittore-attore-cabarettista Alessandro Bergonzoni: Gli 895 caratteri delle parole stesse, pp. 153-154; l’altra redatta dallo psicoanalista, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italia, Sarantis Thanopoulos: Le parole hanno un’anima, pp. 155-158). Va subito detto che ogni sezione, al pari della prefazione e delle due postfazioni, è grande festa di intelligenza di ‘cose’ linguistiche: di ‘cose’ lette, in modo originale, quali vivaci epifanìe di dinamiche tratte dalla quotidianità, sì che il lettore ‘precipita’ in una specie di ‘Paese delle meraviglie’, dove, al pari di Alice, gli sarà dato di stupirsi e di allegramente ‘perdersi’, senza mai tuttavia ‘disperdersi’.
Impossibile, in poco spazio, evidenziare le molte suggestioni che derivano dalla lettura di ogni pagina di un libro che brilla per notevole intelligenza e pari ironia. Cito, di seguito – a titolo di esempio e in modo necessariamente cursorio – il divertente ‘dialogo’ tra l’articolo < il > … e la sua articolata, complicata famiglia (pp.19-21) dentro la quale si assiste a veri ‘drammi di famiglia’ ...; oppure (pp. 31-34) l’evocazione – tutta pirandelliana! – di ‘uno, nessuno, centomila’ a proposito delle dinamiche tra ‘Singolare’ e ‘Plurale’; oppure (pp. 48-49) i problemi, e di nuovo ‘esistenziali’, agitanti la vita dei verbi irregolari e difettivi; e anche, andando avanti (pp. 76-78), le sottili questioni di fratellanza tra < infatti > e < affatto > o quelle, egualmente complesse tra < anche > e < pure >; oppure i problemi (pp. 95-101), di nuovo propri della sfera comportamentale, del timido < forse > o quelli del plurisemantico < già > o del presuntuoso < insomma > o del furbo < comunque > o dello sfuggente < mai >, pessimista costui per natura e di indole rinunciataria e che, semanticamente, non funziona sempre come segnale di negazione … e che può anche evocare, nella pronuncia, un inglesismo cui ben si accorderebbero, eventualmente, un love o un dear. O, ancora (pp. 114-122), i casi di < sopra > e di < sotto > o di < tardi … meglio che mai! > o le vicende, complicatissime, di un semplice < e > dall’identità molto complessa: di nuovo, Petralia descrive il ‘dramma esistenziale’ di un segmento fonico-acustico che non sa bene se essere una congiunzione o … altro; o, ancora (pp. 123-124) la seduzione del < se …> inteso quale congiunzione del ‘sogno lucido’ ma che, quando sia inutilmente sovrabbondante, diventa minaccioso elemento che “può porre in bilico l’oggi e il domani” … come insegna la celeberrima canzone (E se domani, e sottolineo ‘se’ …) di Mina, la ‘Tigre di Cremona’, una delle figure emblematiche della post-adolescenza di molti che furono ragazzi nei ruggenti anni ’60 …; o la sorda concorrenza tra < quindi > e < dunque > (p. 125) o le alternative di cui si fregia, sul piano semantico, un semplice < o > (p. 126) che, tendenzialmente solitario o attratto soltanto da ‘vero, pure, sia’, può però esibirsi in un ‘ovverossia’ definito brillantemente da Petralia quale “capricciosa armonizzazione fonica che suona quasi come parola magica”.
Seguono riflessioni sempre interessanti sul poliedrico settore delle interiezioni (p. 129), inafferrabili nella loro complessità (p. 129), con particolare attenzione per quel < magari > ricco di molte e diverse sfumature semantiche … e che non sa, lui, di affondare le proprie radici addirittura in un nobile, antico grecismo (il nostro < magari > è ciò che resta di una invocazione che i greci antichi rivolgevano agli dèi: makárioi [hoi theoí] / μακάριοι [οἱ θεοί] “oh, dèi beati!”). Chiude il volume un ricco, divertente capitolo (pp. 133-149) dedicato a ‘Punteggiatura e altro’ nel quale sono passati in rassegna il punto (“… presuntuoso e assertivo e che dopo di sé non tollera altre parole …”), la virgola (“… separa ma con affetto … e che ha un sosia nel mondo dei numeri, arida ed esangue però, e che separa gli interi dai decimali …”), il punto e virgola (“… il giusto compromesso … un permesso di sosta più netto della virgola e meno del punto …”), nonché il punto esclamativo (“… forse più attore che altro … e noi ne siamo i registi ...”) e quello interrogativo (“… che può far coppia con l’esclamativo … segno che conclude chiedendo ma schivando risposte …”) e, infine, i due punti (“… gemelli in verticale, senza gerarchie né gelosie … ma non proprio fedeli al proprio ruolo … divisivi in ambito numerico, separatisti nelle formule orarie, simboli entrambi di una volubilità d’uso che li fa quasi mercenari in cerca di impiego …”).
E poi, per finire, anche la povera chiocciola < @ > (“che … con quella vocale imprigionata dentro … non ha suono né maiuscola, si presenta sempre uguale …”), e anche il bailame sonoro veicolato dagli accenti (“… che hanno buoni rapporti solo con le vocali, inesistenti con le consonanti … sì che in verità un certo mistero avvolge l’accento: gode del libero privilegio dell’invisibilità, tranne che non riguardi parole monche … oppure parole ambigue di senso. E così tra circùito e circuìto, tra àmbito e ambìto l’arbitro è l’accento, ben contento in questi casi di mostrarsi gongolante e ricevere i doverosi omaggi …”); l’apostrofo (“… corpo diafano nell’oralità …”); l’asterisco (“… che non ha suono né grandezze diverse…”); la < & > commerciale (“… che pare poltroncina stilizzata, comoda e accogliente …”); le parentesi (“… piccole barriere a fungere da contenitore di spiegazioni o di commenti …”); i trattini (“… elementi a geometria variabile, semplici, afoni e a forma rigida …”); le due letterine < o / a > in apice “… atte a far dire che siamo i primi, i secondi, i terzi al maschile e al femminile…”; il cancelletto (“… tipo allegro e gioviale…”); il percentuale < ###i#< > (“… il cui regno di coltura è la matematica … e che appare in grande spolvero in periodo di saldi …”).
In conclusione, ripeto che davvero ogni pagina del libro invita il lettore a ‘sorprendersi’ … e lo obbliga a riflettere, in modo non convenzionale, su temi di una ‘grammatica’ che nulla ha a che fare con quella tradizionale, quella appresa sui banchi di scuola: Dino Petralia ci invita, insomma, con intelligenza rigorosa e con metodo saldo, a guardare alle ‘parole’ della grammatica con gli occhiali della fantasia e della poesia. E per questo, a mio vedere, gli si deve essere molto grati.
Dino Petralia, Grammatica emozionale. Viaggio dentro le parole (prefazione di Arnaldo Colasanti; postfazioni di Alessandro Bergonzoni e Sarantis Thanopoulos), Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2025, pp. 161. ISBN 979-12-205-0404-1.
Sommario: 1. Introduzione al problema: un contesto fattuale e normativo inedito per la decarbonizzazione. 2. La ragionevolezza delle valutazioni ambientali sul fossile al tempo della “policrisi”. 3. Il parere AIA-IPPC e le sue quattro lacune. 4. L’AIA sull’ex Ilva tra diritto UE e CEDU, nel novum di “Verein KlimaSeniorinnen” e senza «interpretazioni annacquate». 5. L’analisi comparata del parere AIA-IPPC tra UE, CEDU e Costituzione italiana. 6. Omissione della decarbonizzazione e impossibilità geofisica senza previo calcolo del Carbon Budget residuo. 7. L’illegittimità costituzionale sopravvenuta del diritto vivente favorevole alle valutazioni atemporali della decarbonizzazione.
1. Introduzione al problema: un contesto fattuale e normativo inedito per la decarbonizzazione
Questo contributo si interroga sulla natura e la c.d. “latitudine” – come denominata dalla giurisprudenza amministrativa[1] – del potere di rinnovo dell’autorizzazione integrata ambientale (d’ora in poi, AIA) dell’installazione industriale pugliese nota come ex Ilva di Taranto, per due ragioni:
- da un lato, perché è stato reso noto il parere istruttorio AIA-IPPC in risposta all’istanza di rinnovo presentata da Acciaierie d’Italia S.p.A., oggi Acciaierie d’Italia S.p.A. in Amministrazione Straordinaria (A.S.)[2],
- dall’altro, perché gli interrogativi sui poteri di rinnovo sono imposti dall’inedito contesto fattuale e normativo che coinvolge i processi di decarbonizzazione.
Sul piano fattuale, infatti, questi processi sono ormai discussi nella presa d’atto della condizione di “policrisi” del pianeta[3], contrassegnata da quattro fattori negativi.
Il primo risiede nell’emergenza climatica, quale situazione di urgenza nella decarbonizzazione. Essa è stata più volte denunciata dalla scienza sia come “emergence” (emersione di processi geo-biofisici degenerativi e irreversibili a causa del fossile) sia come “emergency” (urgenza della decarbonizzazione, per limitare al massimo e controllare al meglio quelle degenerazioni)[4]. Inoltre, essa è stata più volte riconosciuta dalla UE «alla luce delle chiare e crescenti prove scientifiche» («in light of the clear and growing scientific evidence») e, per questo, reiteratamente dichiarata, al fine di rafforzare il proprio Green Deal[5].
Il secondo concerne la triplice crisi planetaria per interdipendenza negativa fra cambiamento climatico antropogenico, inquinamento antropogenico e perdita di biodiversità. Il suo riconoscimento ufficiale è stato effettuato dal Consiglio d’Europa, con la c.d. “Reykjavík Declaration”[6]. Da esso ha preso spunto la storica sentenza “Verein KlimaSeniorinnen”, emessa dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Umani, ai sensi dell’art. 43 CEDU[7], in data 9 aprile 2024 su ricorso n. 53600/20[8], per tracciare i requisiti necessari della valutazione dei rischi climatici e ambientali nelle politiche di mitigazione climatica e di decarbonizzazione ai fini di tutelare i diritti umani presidiati dall’art. 8 CEDU[9].
Il terzo deriva dalla denuncia scientifica sull’intrinseca nocività dei combustibili fossili, ormai incompatibili con la stessa sopravvivenza umana[10]. Tale constatazione chiama in causa il ruolo delle imprese ad energia fossile, nel loro concorso (per esempio, per quanto concerne l’Italia, secondo le modalità applicative dell’art. 2055 Codice civile[11]) ai danni da cambiamento climatico[12] e al c.d. “mortality cost” per mancata o ritardata decarbonizzazione[13].
L’ultimo è maturato a seguito della registrazione, nel 2024, del primo Overshoot del pianeta, ossia del primo sforamento annuale della soglia di sicurezza dell’aumento della temperatura media globale di +1,5°C, rispetto ai livelli preindustriali, con connesso incremento dei rischi e pericoli per la salute umana[14] oltre che precoce violazione dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015[15].
Per un’installazione fossile come l’ex Ilva di Taranto, per di più collocata in una “zona di sacrificio”, nel significato reso dal Rapporto del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, ovvero di «peggiore negligenza immaginabile dell’obbligo di uno Stato di rispettare, proteggere e realizzare il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile» («worst imaginable dereliction of a State’s obligation to respect, protect and fulfil the right to a clean, healthy and sustainable environment»)[16], e in un comparto industriale qualificato “nemico del clima”[17], si tratta di un intreccio di dati difficilmente eludibili o ignorabili, se non per apodittica loro negazione, non certo per dimostrabile confutazione scientifica.
Altrettanto ineludibili sono pure le cinque novità di contenuto normativo ovvero:
- le interpretazioni rese dalla Corte di Giustizia UE del 25 giugno 2024 nella causa C-626/2022, direttamente per l’ex Ilva di Taranto e nella presa d’atto della situazione territoriale di “zona di sacrificio”[18];
- le risposte della Grande Camera della Corte EDU in “Verein KlimaSeniorinnen”, formulate, come accennato, nei modi dell’art. 43 CEDU (ossia per risolvere «gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli» o comunque «un’importante questione di carattere generale»), in ordine alla natura del margine di apprezzamento degli Stati membri del Consiglio d’Europa nella triplice crisi denunciata a Reykjavík e, quindi, per la delimitazione dei poteri discrezionali di decarbonizzazione rispetto all’art. 8 CEDU, da quella triplice crisi minacciato;
- la decisione n. 28/CMA.5, assunta, col consenso in “buona fede climatica” dell’Italia[19], dalla COP28 del 2023, ossia dalla Conferenza delle Parti per l’attuazione del citato art. 2 dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015, contenente il riscontro della «necessità di riduzioni profonde, rapide e sostenute delle emissioni di gas serra in linea con percorsi di 1,5°C ... tenendo conto dell’Accordo di Parigi ...» («the need for deep, rapid and sustained reductions in greenhouse gas emissions in line with 1.5°C pathways … taking into account the Paris Agreement…») e il consequenziale impegno ad «abbandonare i combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere l’azzeramento netto entro il 2050, in linea con la scienza» («transitioning away from fossil fuels in energy systems, in a just, orderly and equitable manner, accelerating action in this critical decade, so as to achieve net zero by 2050 in keeping with the science»)[20];
- la riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione italiana, che la sentenza della Corte costituzionale del 19 giugno 2024 n. 105 ha definito nuovo «mandato» che «vincola così, esplicitamente, tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della sua efficace difesa»;
- la formalizzazione del paradigma One Health-Planetary Health, con l’art. 27, comma 2, del d.l. n. 36/2022, convertito con l. n. 79/2022, che riconosce i rischi e pericoli climatici come determinanti negativi della salute e della qualità della vita, attraverso l’istituzione del Sistema nazionale di prevenzione salute dai rischi ambientali e climatici[21].
2. La ragionevolezza delle valutazioni ambientali sul fossile al tempo della “policrisi”
Fino ad oggi, le decisioni dei poteri pubblici sulle valutazioni ambientali, inclusa l’AIA, sono state contrassegnate da «ampia latitudine della discrezionalità esercitata dall’amministrazione nel giudizio»[22].
Per esse, nello specifico, si è insistentemente sostenuto che l’amministrazione eserciti un potere talmente ampio, da non esaurirsi «in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione»[23], comprendendo al contempo profili «particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti»[24], con la conseguenza che lo stesso sindacato giurisdizionale, «al fine di assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri»[25], sia possibile solo ove «risulti violato il principio di ragionevolezza»[26].
Tra gli elementi sintomatici di questa violazione, poi, sono stati individuati l’assente o inadeguata istruttoria, l’omessa considerazione di alternative in grado di attenuare in modo soddisfacente criticità note o evidenziate[27], l’emersione di illogicità, erroneità o inattendibilità, sia empiriche che metodologiche, purché dotate di «sufficiente grado di compiutezza, superiore alla mera opinabile valutazione di parte»[28].
Non è mai stati individuato il fattore tempo delle traiettorie di inerzia del sistema climatico come determinante del rischio e del pericolo[29].
In altre parole, la “latitudine” si è radicata su una presupposizione della realtà ambientale sempre uguale a sé stessa rispetto ai tempi degenerativi della “policrisi” e indipendentemente dalla natura fossile o meno dell’energia coinvolta nell’oggetto della valutazione.
Di conseguenza, la sua doppia dimensione di esercizio, come verificazione (tecnico-scientifica) sulla base di oggettivi criteri di misurazione, da un lato, e adeguata istruttoria nella ponderazione degli interessi e delle alternative coinvolte, dall’altro, si è mantenuta indifferente alle trasformazioni di contesto.
Allo stato attuale, però, i fattori negativi che attivano la “policrisi” sono ormai ampiamente verificati e misurati. Per esempio, i requisiti, richiesti dalla giurisprudenza italiana, “del più probabile che non” [30], ai fini dell’accertamento dei nessi causali su rischi, pericoli e danni per inerzia del sistema climatico, e della logicità “baconiana e pascaliana”, per l’imputazione delle responsabilità[31], risultano soddisfatti. Come soddisfatto è anche il «sufficiente grado di compiutezza, superiore alla mera opinabile valutazione di parte». Lo dimostrano le ricognizioni dell’IPCC, il Panel Intergovernativo dell’ONU sul Cambiamento Climatico, in particolare nell’ultimo Report Climate Change 2021: The Physical Science Basis[32], ignorando il quale nulla della complessità della “policrisi” è comprensibile.
Proprio da queste verificazioni emerge che l’elemento determinante per una decarbonizzazione efficace nella tutela della salute umana è la considerazione delle traiettorie di inerzia di tutte le sfere del sistema climatico, sia a livello globale che locale[33], in modo da considerare l’efficacia dei tempi di abbandono dei combustibili fossili in rapporto ai tempi di trasformazione inerziale dei territori[34].
In pratica, il tempo delle traiettorie di inerzia del sistema climatico è assurto a bene della vita prevalente e prioritario in qualsiasi giudizio sulla decarbonizzazione[35]: è divenuto il parametro della sua ragionevolezza; il “climate first”, come lo denomina l’IPCC[36].
Non a caso, tutte e cinque le novità normative, elencate nel primo paragrafo, al fattore tempo o al “climate first” si connettono. E la circostanza che, con riguardo a una di esse, la riforma costituzionale del 2022, si sia già preso atto del «superamento del bilanciamento tra valori contrapposti all’insegna di una nuova assiologia compositiva»[37], lascia presagire ulteriori reimpostazioni della “latitudine” del potere nel discutere e decidere sulla decarbonizzazione, anche in ragione del rinnovato quadro normativo.
Spunti, in tale duplice direzione, provengono dalla giurisprudenza comparata, per esempio in quelle decisioni che allargano il catalogo delle emissioni pericolose per la salute umana, includendovi i gas serra proprio a causa dei loro tempi inerziali sul sistema climatico[38].
Ma, in fin dei conti, è questa la filosofia a base dei cinque requisiti necessari, scanditi dalla Corte di Strasburgo nel § 550 di “Verein KlimaSeniorinnen”[39], per limitare dall’esterno il margine di apprezzamento degli Stati e, con esso, la discrezionalità dei poteri in qualsiasi valutazione di decarbonizzazione, in nome dell’art. 8 CEDU compromesso dal “climate first” (o dalla “closing window”, come preferisce metaforizzare la Corte sempre su spunto IPCC[40]). Lo ha fatto presente, di recente, l’Alta Corte Irlandese per l’ambiente, nella prima applicazione, tra i paesi del Consiglio d’Europa, della decisione CEDU[41].
Da qui, dunque, si devono prendere le mosse per una rimeditazione della valutazione ambientale integrata dell’ex Ilva di Taranto.
3. Il parere AIA-IPPC e le sue quattro lacune
Che l’installazione industriale pugliese contribuisca ai rischi climatici è stato già dimostrato e proprio sulla base della letteratura della “policrisi”, con un’evidenza che garantisce non solo il richiesto «sufficiente grado di compiutezza, superiore alla mera opinabile valutazione di parte» ma anche il rispetto della soglia del “più probabile che non” nel nesso causale[42].
D’altra parte, che un’impresa fossile possa essere esente da pericolosità climatica, in uno scenario bad-to-worst di emergenza climatica e triplice crisi, sarebbe del tutto surreale, prima ancora che illogico.
Bisogna, allora, verificare se e come questo dato di realtà venga tematizzato dal procedimento AIA che la riguarda.
La lettura del citato parere istruttorio della Commissione AIA-IPPC serve proprio a questo.
Giova ricordare che esso segue alla legge del 30 marzo 2025 n. 31, di conversione del decreto legge del 24 gennaio 2025, n. 3, adottata al fine non solo di dare compiuta attuazione alle disposizioni della direttiva 2010/75/UE, relativa alle emissioni industriali, secondo l’interpretazione resa dalla citata Corte di Giustizia UE nella causa C-626/2022, ma anche di introdurre, attraverso lo studio di valutazione di impatto sanitario (VIS), criteri predittivi completi su tutti (tutti, non alcuni) i rischi per la salute, associati all’esposizione alle suddette emissioni industriali e per come conosciuti dagli sviluppi delle conoscenze scientifiche[43].
Dentro questo quadro, il documento istruttorio, alla luce dei contesti di fatto e normativi richiamati nel primo paragrafo, presenta quattro lacune:
- due di carattere normativo;
- e due di natura scientifica.
Le due lacune normative derivano dai seguenti riscontri.
Il parere dichiara espressamente di perseguire una duplice finalità. Da un lato, esso mira a far garantire, da parte dello stabilimento, la completa attuazione della citata decisione della Corte di Giustizia UE nel caso C-626/2022. Dall’altro, il suo contenuto vorrebbe contribuire a preparare il percorso di transizione verso la decarbonizzazione del processo produttivo dell’impianto tarantino, in coerenza con gli obiettivi climatici del Green Deal e la neutralità climatica del comparto industriale, entro e non oltre il 2050. Al “climate first”, in qualche modo, accenna.
Ciononostante, entrambe le finalità, alla prova del testo, si dimostrano disattese e ignorate:
- quella di ottemperare alla Corte di Giustizia viene disattesa, perché non tutte le interpretazioni fornite dal Giudice lussemburghese sono state accolte dal parere;
- quella di promuovere la decarbonizzazione nel “climate first” è totalmente ignorata, sia perché di decarbonizzazione non si parla affatto nell’istanza di rinnovo dell’AIA, dove, al contrario, si preannuncia l’aumento della produzione dell’acciaio a 6 milioni di tonnellate annuali nella persistenza del ciclo a combustione fossile, sia perché, nel parere IPPC, nulla si dice degli obblighi ineludibili di decarbonizzazione per la neutralità climatica alla luce dell’art. 8 CEDU, che la citata Grande Camera della Corte EDU in “Verein KlimaSeniorinnen” ha invece posto a limite esterno del margine di apprezzamento degli Stati e, di riflesso, della discrezionalità di tutti i suoi organi in materia climatica, con il citato suo § 550.
Le due lacune scientifiche, invece, investono il concetto di rischio sanitario e di nocività delle emissioni industriali nei percorsi di decarbonizzazione, alla luce, per l’appunto, degli sviluppi delle conoscenze sul tema.
Come si è già fatto presente, il compendio ufficiale, perché richiesto dagli Stati aderenti all’ONU, di questi sviluppi si legge nei rapporti dell’IPCC, specificamente nei due testi intitolati “Global Warming of 1,5°C”, del 2018[44], e “Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability”[45]. La loro sintesi per i decisori politici, dunque per i poteri pubblici chiamati a decidere sulla decarbonizzazione, è offerta anche dall’AR6 Synthesis Report: Climate Change 2023, redatto, tra l’altro, con il concorso e il consenso del Governo italiano[46].
Questi documenti sono stati completamente ignorati dalla Commissione AIA.
Eppure il loro contenuto fornisce almeno quattro spunti salienti per la tutela della salute nelle emissioni industriali fossili. Conviene elencarli:
- la decarbonizzazione, allo scopo di scongiurare incrementi di rischi sanitari e nocività delle emissioni, deve operare all’interno delle soglie di sicurezza dell’aumento della temperatura media globale, fissate dagli Stati con il ricordato art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015;
- affinché queste soglie di sicurezza siano effettivamente rispettate dagli Stati, è necessario il calcolo del Carbon Budget residuo (c.d. CRB[47]) da parte di ciascuno di essi, ovvero l’individuazione della quantità di emissioni di gas serra che si possono ancora emettere sul territorio sovrano, tenendo conto delle concentrazioni di gas serra esistenti, di quelli già emessi in precedenza e della temperatura media già raggiunta;
- solo all’interno delle citate soglie di sicurezza, i rischi sanitari e la nocività delle emissioni industriali possono dirsi effettivamente accettabili;
- di conseguenza, l’accertamento del quadro climatico in relazione al Carbon Budget residuo assurge a presupposto indefettibile di qualsiasi predizione a tutela della salute umana, esposta alle suddette emissioni industriali fossili[48].
Tra l’altro, questi elementi salienti si fondano sulla constatazione, scientificamente inconfutabile[49], del c.d. “doppio rischio sanitario” per aria e clima alterati[50] ossia su quella reciproca interazione negativa di inquinamento e cambiamento climatico, fatta propria dalla citata “Reykjavík Declaration”.
Ne deriva che l’esclusione di uno inficia la corretta valutazione sull’altro[51], mentre l’omissione, per entrambi, del previo calcolo del Carbon Budget residuo ne svuota ogni carattere di attendibilità[52].
È quanto, purtroppo, sembra sussistere nel procedimento riferito all’ex Ilva di Taranto.
4. L’AIA sull’ex Ilva tra diritto UE e CEDU, nel novum di “Verein KlimaSeniorinnen” e senza «interpretazioni annacquate»
Sorprende, infatti, l’espunzione dei richiamati parametri di tutela della salute dall’intero parere AIA-IPPC, anche perché, se, da un lato, la giurisprudenza amministrativa ha già censurato come illogici e manifestamente carenti i provvedimenti fondati su valutazioni scientificamente incomplete in presenza di «rischi accertati e dimostrabili»[53] (e tali sono i rischi da emissioni fossili), dall’altro, ora, la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani ha erto il Carbon Budget residuo, in accordo proprio con le risultanze scientifiche dell’IPCC sul rischio sanitario, a requisito necessario per l’esercizio legittimo dei poteri statali sulla decarbonizzazione e la mitigazione climatica.
Questo significa che quella espunzione, una volta confermata nel provvedimento finale dell’AIA, difficilmente si sottrarrà alle censure di legittimità per violazione del novum offerto dalla Grande Camera della Corte EDU con “Verein KlimaSeniorinnen”; perché quel novum, come l’ha definito la Corte costituzionale nel quadro delle fonti dell’ordinamento italiano e nei riguardi dell’art. 43 CEDU[54], non può essere ignorato da alcun giudice comune, ma al massimo, se ritenuto lesivo della Costituzione, rimesso al vaglio della Corte costituzionale[55].
Diversamente concludendo, paradossalmente si farebbe del rischio alla salute, con tanto di violazione degli artt. 8 e 43 CEDU, la ragione stessa dell’immunità dei poteri statali nella decarbonizzazione; il che sempre la Corte di Strasburgo ha reputato inammissibile (con la decisione sul caso “Walęsa c. Polonia” del 23 novembre 2023 su ricorso n. 50849/21).
D’altronde, come già schematizzato[56], i temi della valutazione di impatto sanitario e dell’AIA per l’ex Ilva di Taranto rientrano nelle competenze concorrenti tra Stato e Unione europea, così come individuate dagli artt. 191 e 193 del TFUE, ma non si esauriscono in essi. Oggi, a seguito per l’appunto della citata sentenza della Corte EDU nel caso “Verein KlimaSeniorinnen” del 9 aprile 2024, essi intersecano direttamente anche la CEDU, per lo specifico profilo della protezione intertemporale e intergenerazionale dei diritti desumibili dal suo art. 8.
Questo nuovo intreccio fra Stati-UE e CEDU ha, dunque, attivato un doppio livello di limiti ai poteri statali nella materia climatica: uno “assoluto” e l’altro “relativo”[57]. Il limite “assoluto” si desume dai paragrafi 441-444, 453, 550 e 571 della decisione di Strasburgo e consiste nel “dovere primario” – Primary Duty – di proteggere i diritti, di cui all’art. 8 CEDU, in qualsiasi decisione impattante sulla mitigazione climatica (inclusa la decarbonizzazione); quello “relativo”, invece, si riferisce alle competenze del diritto derivato UE, i cui contenuti possono essere integrati in melius dagli Stati membri per una migliore tutela dell’ambiente e della salute umana, come si legge nell’art. 193 TFUE.
In definitiva, i poteri statali, nel decidere se e come decarbonizzare un impianto produttivo fossile ai fini della mitigazione climatica, quale ovviamente è l’ex Ilva di Taranto, non sono tenuti semplicemente alla mera esecuzione del diritto unionale derivato: da un lato, essi lo possono migliorare ai sensi dell’art. 193 TFUE; dall’altro, lo devono integrare con il “dovere primario”, imposto loro dall’art. 8 CEDU, come interpretato dalla Grande Camera della Corte europea in “Verein KlimaSeniorinnen” ai sensi dell’art. 43 CEDU.
Se, invece, lo ignorano, consumano un’illegittimità di rango costituzionale. Tertium non datur.
Il “dovere primario” CEDU, come accennato, funge da novum nell’ordinamento italiano, per tre ragioni:
- perché proveniente da una decisione della Grande Camera della Corte EU ex art. 43 CEDU;
- perché interposto, ai sensi dell’art. 117 comma 1 Cost., tra Costituzione e legislazione interna di settore[58];
- infine perché gerarchicamente sovraordinato al diritto derivato europeo, per il suo contenuto rafforzativo e migliorativo dei diritti umani indicati dall’art. 6 TUE.
Queste tre ragioni non trovano alcun ostacolo, neppure nella volontà del legislatore ambientale italiano, il quale, al contrario, ha letteralmente disposto, con l’art. 3-bis del d.lgs. n. 152/2006, non solo che «i principi posti dalla presente Parte prima [del decreto] e dagli articoli seguenti costituiscono i principi generali in tema di tutela dell’ambiente, adottati in attuazione degli articoli 2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44, 117 commi 1 e 3 della Costituzione e nel rispetto degli obblighi internazionali e del diritto comunitario» (primo comma,), ma anche che qualsiasi deroga, modifica o abrogazione debba comunque garantire «il rispetto del diritto europeo [e] degli obblighi internazionali» (terzo comma).
Insomma, è il legislatore italiano a dire tertium non datur. Del tutto inammissibile, di conseguenza, appare la “dimenticanza” del parere AIA-IPPC.
5. L’analisi comparata del parere AIA-IPPC tra UE, CEDU e Costituzione italiana
Forse, allora, simile “dimenticanza” è giustificata espressamente dal diritto europeo derivato?
Evidentemente no: l’hanno ricordato, sempre per la materia ambientale, sia la stessa Corte di Giustizia UE, da ultimo con la decisione del 15 aprile 2021 nelle cause riunite C‑798/18 e C-799/18, dove si ribadisce il vincolo posto dall’art. 52 n. 3 della Carta dei diritti fondamentali sovraordinato al diritto derivato (§§ 35-36)[59], e con quella del 21 gennaio 2025, nella causa C-188/23, dove si spiega che gli accordi internazionali in materia ambientale, sottoscritti anche dalla UE, prevalgono sugli atti di diritto derivato dell’Unione, imponendo un’interpretazione conforme ad essi (§§ 44, 73, 74), sia la Corte costituzionale italiana ai fini della lettura dei riformati artt. 9 e 41 Cost., da inquadrare, come si legge nella sentenza del 19 giugno 2024 n. 105, «attraverso il prisma degli obblighi europei e internazionali in materia».
Insomma, scordarsi del sistema delle fonti, richiesto dall’art. 3-bis del d.lgs. n. 152/2006, è praticamente illegittimo; a meno che non si voglia considerare plausibile un’interpretazione «annacquata» («watered-down interpretation») del “Primary Duty” scandito in nome dell’art. 8 CEDU dalla Grande Camera della Corte Europea ai sensi dell’art. 43 CEDU, come ha denunciato la già ricordata Alta Corte Irlandese per l’ambiente[60].
Ma se l’esclusione dell’interpretazione «annacquata» vale per un sistema costituzionale, come quello irlandese, privo di una struttura ordinamentale corrispondente all’art. 117 comma 1 della Costituzione italiana e all’art. 3-bis del d.lgs. n. 152/2006, c’è da interrogarsi su quale altro riscontro normativo ci si potrebbe appigliare per tollerare le lacune del parere in commento.
Piaccia o meno, i parametri di legittimità del procedimento AIA, in un caso come quello dell’ex Ilva di Taranto, si stagliano su tutti e tre i livelli della tridimensionalità ordinamentale europea: norme statali, costituzionali e legislative; norme unionali europee, originarie e derivate; art. 8 CEDU e sua interpretazione ex art. 43 CEDU.
Alla luce di questa conclusione, è possibile procede alla comparazione di dettagli tra i contenuti del parere AIA-IPPC, da un lato, e, dall’altro, le acquisizioni fornite dalla Corte di Giustizia UE, dal novum della Grande Camera di Strasburgo in “Verein KlimaSeniorinnen” e dalla Corte costituzionale sui riformati artt. 9 e 41 Cost.
I punti di discordanza più evidenti risultano essere quattro.
Prima di tutto, come già constatato, il parere esclude totalmente, dalle proprie fonti di riferimento, la tridimensionalità normativa europea e la sua collocazione rispetto al diritto derivato europeo, invocando esclusivamente quest’ultimo, in modo da declinare solo su di esso concetti e argomentazioni di valutazione e giudizio (cfr. § 2.2 del parere).
Questo modo di procedere non corrisponde affatto a quello suggerito dalla Corte di Giustizia UE, nel citato caso riguardante appunto l’ex Ilva di Taranto, visto che in quest’ultimo si legge che il diritto secondario UE in materia deve essere interpretato per rendere effettivi gli obiettivi di cui all’articolo 191 TFUE (§ 67) e gli artt. 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali della UE (§ 71), affinché tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente e protezione della salute umana non solo siano collegati nel procedimento AIA (§ 68) ma mirino a conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso (§ 69). Ma non corrisponde neppure all’inquadramento richiesto in “Verein KlimaSeniorinnen”, dove si ricorda che l’applicazione della CEDU deve essere effettuata in buona fede e in conformità con le fonti del diritto internazionale che riguardano tutti gli effetti nocivi per la tutela dei diritti umani (§§ 452 ss.), né alla sentenza della Corte costituzionale italiana n. 105/2024, secondo cui i riformati artt. 9 e 41, vincolando tutte le pubbliche autorità ad attivarsi per l’efficace difesa intertemporale e intergenerazionale dell’ambiente, devono essere letti alla luce degli obblighi europei e internazionali in materia (§ 5.1.2 del Considerato in diritto).
In secondo luogo, il parere ignora totalmente la natura “nociva” delle emissioni climalteranti dell’impianto fossile (cfr. § 1 e ivi la definizione di “inquinamento” appiattita alle sole fonti derivate UE), quando proprio la Corte di Giustizia UE, sempre nel citato caso ex Ilva, ha sottolineato l’obbligo, in sede di rinnovo dell’AIA, di considerare, oltre alle sostanze inquinanti prevedibili, tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come “nocive” (“harmful”) che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale di tale installazione (§ 122), in coerenza, dunque, con la lettura da parte della Grande Camera CEDU, che inquadra come “harmful”, per la tutela intergenerazionale dei diritti di cui all’art. 8 CEDU, le emissioni climalteranti (§§ 472, 518-519, 544-545).
Ma il parere ignora pure, e siamo al terzo profilo, le migliori acquisizioni scientifiche sul nesso cambiamento climatico-inquinamento e sul citato “doppio rischio sanitario” delle emissioni industriali fossili (cfr. ancora il § 1 e ivi la definizione di “inquinamento”); “doppio rischio”, confermato dallo stesso diritto europeo[61], dallo stesso legislatore italiano, con le sue proposte di legge per il clima[62], e dal nuovo citato paradigma One Health-Planetary Health, accolto, come detto, dall’ordinamento giuridico italiano. D’altra parte, senza queste acquisizioni scientifiche, la valutazione della “nocività” scadrebbe, come stigmatizzato sempre dalla citate Corte di Giustizia UE, in mero rispetto dei valori limite per le sole sostanze inquinanti elencate, dunque in una logica di “numero chiuso” della pericolosità che, senza tener conto delle emissioni effettivamente generate dall’installazione interessata nel corso del suo esercizio e dei nuovi impatti conosciuti (§ 117), si dimostrerebbe contro natura e antiscientifico, condannando qualsiasi decarbonizzazione, come concluso dalla Grande Camera della CEDU, al “fallimento” (“failure”) rispetto alle traiettorie di inerzia del sistema climatico (§§ 509, 542, 546, 635).
Di conseguenza, il parere non indica affatto tutte le misure necessarie per assicurare un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso, come vorrebbero la Corte di Giustizia, in nome degli artt. 35 e 37 della Carta UE dei diritti (§ 4), e la stessa Grande Camera, per garantire l’art. 8 CEDU con i requisiti elencati nel citato § 550.
6. Omissione della decarbonizzazione e impossibilità geofisica senza previo calcolo del Carbon Budget residuo
Invero, l’effettiva decarbonizzazione dell’ex Ilva di Taranto appare del tutto fuori dell’orizzonte applicativo dell’AIA.
Il parere lo evidenzia su tre fronti.
In primo luogo, esso testualmente «conferma che gli aspetti relativi alla decarbonizzazione non sono stati oggetto dell’istanza del Gestore» (cfr. Risposte alle Osservazioni nn. 27 e 31). Il che rappresenta un’ulteriore dimostrazione della difformità dalle interpretazioni della Corte di Giustizia, secondo cui, al contrario, la valutazione sistematica dei rischi ambientali deve basarsi su tutti gli impatti, potenziali e reali, delle installazioni interessate, riguardanti salute umana e ambiente, in coerenza, ancora una volta, con le parallele indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (§§ 92 e 93), la quale precisa pure che la mancata considerazione delle misure necessarie indicate dal § 550, a presupposto della discrezionalità, produce una “lacuna critica” insanabile (§§ 561, 562 e 573).
In secondo luogo, il parere, nel tentativo di sopperire all’omessa previsione della decarbonizzazione, dispone una sola prescrizione di decarbonizzazione, per di più di carattere secondario perché successiva all’AIA (cfr. Prescrizione n. 5.1.1. n. 3 e pp. 42 e 371), dunque anche in questo modo contravvenendo tanto alla Corte di Giustizia, secondo cui, invece, la valutazione degli impatti dell’attività dell’installazione deve essere sempre preventiva e procedere per atti interni al procedimento di riesame dell’autorizzazione (§ 105), quanto alla Corte EDU, per la quale l’adozione delle misure in grado di mitigare gli effetti attuali e futuri, potenzialmente irreversibili, del cambiamento climatico costituisce dovere primario di qualsiasi potere dello Stato (§ 545).
Infine, il contenuto della decarbonizzazione, prescritta dal parere, dovrebbe consistere nella sostituzione del carbone e dei combustibili fossili, all’interno del ciclo integrale di produzione dell’acciaio, con la plastica, più precisamente con l’utilizzazione di polimeri.
Questo è tutto: nulla si spiega sul fronte del nesso fra decarbonizzazione proposta e tutela dei diritti ex art. 8 CEDU; nulla si dice sui tempi della decarbonizzazione rispetto al calcolo del Carbon Budget residuo, richiesto dal § 550 di “Verein KlimaSeniorinnen”; si ignora persino l’incidenza della soluzione indicata sul criterio del Do Not Significant Harm (DNSH) nei contenuti indicati dal Regolamento UE n. 2020/852, specificamente agli artt. 10 e 14 (DNSH per la mitigazione climatica e l’inquinamento) e all’art. 18 (“garanzie minime di salvaguardia” dei diritti umani da assumere a requisito non surrogabile di eco-sostenibilità dell’attività economica).
La soluzione a un’omissione del gestore sfocia in un’altra omissione dell’autorità istruttoria; più rigorosamente, sfocia proprio in quella “lacuna critica” del potere, che la Corte di Strasburgo identifica come lesiva dei diritti ex art. 8 CEDU.
Del resto, dopo la sentenza CEDU del 9 aprile 2024, qualsiasi decarbonizzazione senza previo calcolo del Carbon Budget residuo nazionale è un’arrampicata sugli specchi[63].
È inevitabile ed è oggettivo per tre ragioni, rinvenibili nei citati Rapporti dell’IPCC: perché solo con il previo calcolo del Carbon Budget residuo nazionale è possibile decarbonizzare
- nella legalità dell’agire all’interno delle soglie di sicurezza dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi e quindi, come ha spiegato il Consiglio di Stato, col parere della Commissione speciale del 26 settembre 2017, n. 2065, secondo quella precauzione che «impone al decisore pubblico di prediligere, tra quelle possibili, la soluzione che bilancia meglio la minimizzazione dei rischi e la massimizzazione dei benefici, previa individuazione, in esito a un test di proporzionalità, di una soglia di pericolo accettabile, sulla base di una conoscenza completa e accreditata dalla migliore scienza disponibile»[64];
- nel controllo geofisico dei rischi delle traiettorie di inerzia del sistema climatico, se dentro le soglie di sicurezza dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi, come chiarito anche dalla Corte di Strasburgo nel § 444 di “Verein KlimaSeniorinnen”;
- nell’uso ragionevole e proporzionato, rispetto all’ambiente e alla salute umana da tutelare, dei gas serra disponibili, per esempio nel mercato delle emissioni, in quanto risorsa resa scarsa dalle soglie di sicurezza fissate dall’art. 2 dell’Accordo di Parigi.
In conclusione, il calcolo del Carbon Budget residuo è il presupposto geofisico necessario per qualsiasi processo di decarbonizzazione (in forza delle leggi di natura delle traiettorie temporali di inerzia) e fondamento normativo di qualsiasi decisione su di esso (in forza dei parametri normativi richiamati sin dal primo paragrafo di questo contributo).
7. L’illegittimità costituzionale sopravvenuta del diritto vivente favorevole alle valutazioni atemporali della decarbonizzazione.
Non si intravede “latitudine” del potere alternativa a quella di calcolare il Carbon Budget residuo, per poi decidere se e come decarbonizzare un’installazione fossile (la più grande installazione fossile italiana) come l’ex Ilva di Taranto.
Il che è un problema, considerato che l’Italia, ad oggi, è ancora priva di questo calcolo[65].
Può, tale circostanza, portare alla sospensione delle attività, nei termini indicati dal § 128 della decisione della Corte di Giustizia UE? In effetti, la Corte ha chiarito che, lì dove sussistano violazioni che producono «un pericolo immediato per la salute umana» o «ripercussioni serie ed immediate sull’ambiente», «l’articolo 8, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2010/75 esige che l’esercizio di tale installazione sia sospeso».
L’assenza del calcolo del Carbon Budget residuo, però, non attesta semplicemente un pericolo: come ha spiegato la Corte di Strasburgo, essa consuma una “lacuna critica” nella traiettoria di decarbonizzazione; una lacuna evidentemente incostituzionale, nella misura in cui essa si pone in violazione dell’art. 8 CEDU nell’impostazione ermeneutica formulata secondo l’art. 43 CEDU.
Pertanto, diventa difficile continuare a predicare come ragionevoli le precedenti “latitudini” del potere di valutazione della decarbonizzazione, indifferenti alla dimensione temporale della “policrisi” e viziate da questa “lacuna critica”.
Un’incostituzionalità sopravvenuta, attraverso la porta d’ingresso dell’art. 117 comma 1 Cost., è ormai subentrata relativamente agli orientamenti giurisprudenziali pregressi e alle stesse leggi che quegli orientamenti, in relazione alla decarbonizzazione, hanno potuto permettere, a partire dall’art. 35, comma 2, lett. c) del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300 (per come modificato dal d.l. 1 marzo 2021, n. 22, convertito con modificazioni dalla l. 22 aprile 2021, n. 55), che, attribuendo al MASE le «funzioni e i compiti spettanti allo Stato relativi allo sviluppo sostenibile … [nelle] politiche per il contrasto dei cambiamenti climatici e … la riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra», nulla dispone nei termini dei requisiti necessari elencati dalla Corte di Strasburgo al § 550 di “Verein KlimaSeniorinnen” a tutela dell’art. 8 CEDU.
Una parte della dottrina, invero minoritaria, sembra invocare la separazione dei poteri come baluardo resistente alle nuove sfide, con conseguente primato dell’autonomia della politica indifferente ai (e prevalente sui) tempi inerziali del sistema climatico, come se questi fossero una mera predizione scientifica[66].
In realtà, il baluardo della separazione dei poteri non è affatto venuto meno né è venuta meno l’autonomia della politica: semplicemente è cambiata la “latitudine” di entrambi[67], come spiega rigorosamente “Verein KlimaSeniorinnen” in forza dell’art. 8 CEDU e, non a caso, nella modalità ermeneutica ex art. 43 CEDU[68]; mentre i tempi inerziali non sono per niente un’invenzione della scienza, che pretende di imporsi sulla politica con le sue predizioni, bensì un fatto di natura, di cui prendere atto (come si è preso atto da parte anche dell’Italia, con la sua adesione ai riscontri effettuati dall’IPCC)[69].
La vicenda del rinnovo dell’AIA dell’ex Ilva di Taranto è probabilmente il primo banco di prova per verificare tutto questo.
Nella revisione comune del testo, i paragrafi 1, 6 e 7 sono stati elaborati da Michele Carducci, i rimanenti da Gianvito Campeggio.
[1] La “latitudine” è solitamente evocata in parallelo al principio di “inesauribilità” del potere pubblico: si v. M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018, p. 21 ss. e ivi giurisprudenza.
[2] Si v. il sito https://va.mite.gov.it/it-IT/Oggetti/info/2038
[3] Sugli elementi identificativi della “policrisi”, si v. M. Lawrence, T. Homer-Dixon, S. Janzwood, J. Rockström et al., Global polycrisis: the causal mechanisms of crisis entanglement, in Global Sustainability, 7, 2024, pp. 1-16.
[4] Sull’emergenza climatica come “emersione” (emergence) di un processo degenerativo bad-to-worst per tutti i segni vitali della stabilità del pianeta, con conseguente “urgenza” (emergency) di intervento rapido di decarbonizzazione per evitare il peggio, si v. almeno B. Gills, J. Morgan, Global Climate Emergency: after COP24, climate science, urgency, and the threat to humanity, in Globalizations, 17(6), 2020, pp. 885-902, W.J Ripple, C. Wolf, J.W. Gregg, K. Levin et al., World Scientists’ Warning of a Climate Emergency 2022, in BioScience, 72(12), 2022, pp. 1149-1155, L. Kemp, C. Xu, J. Depledge, K. L. Ebi et al., Finale di partita sul clima, trad it. in Ingegneria dell’ambiente, 9(3), 2022, pp. 194-207, e W.J. Ripple, C. Wolf, J.W. Gregg, J. Rockström et al., The 2024 state of the climate report: Perilous times on planet Earth, in BioScience, 74 (12), 2024, pp. 812-824.
[5] In particolare, cfr., in ordine di tempo: Risoluzione del Parlamento europeo del 28.11.2019 sull’emergenza climatica e ambientale (2019/2930(RSP)); Risoluzione del Parlamento europeo del 15.1 2020 (2019/2956(RSP); Comunicazione della Commissione europea su «l’ultima generazione che può intervenire in tempo» (COM/2021/550 final); Considerando n. 19 del Regolamento UE n. 2021/1119; Risoluzione del Parlamento europeo del 14.3.2023 (P9_TA (2023)0065); Raccomandazione CM/Rec(2024)6 del Comitato dei Ministri degli Stati membri, su «young people and climate action». Sul significato e il rilievo giuridico delle dichiarazioni di emergenza climatica, cfr. M. Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra concetto scientifico e categorie giuridiche: da situazione di pericolo a fatto ingiusto permanente sul Carbon Budget residuo, dopo KlimaSeniorinnen, in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline, 8 ottobre 2024.
[6] La “Reykjavík Declaration” è stata adottata dal Quarto Vertice dei Capi di Stato e di Governo del Consiglio d’Europa, il 17 maggio 2023, riconoscendo, tra le altre cose, l’esistenza di una crisi planetaria intrecciata e interdipendente fra cambiamento climatico, inquinamento e perdita di biodiversità, a discapito della salute umana e della salubrità dell’ambiente.
[7] L’art. 43 CEDU consente l’adozione di sentenze a contenuto determinante su questioni interpretative controverse oppure su importanti questioni di carattere generale, al fine di orientare la successiva giurisprudenza della Corte europea: cfr. S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Padova, Cedam, 2012, sub art. 43.
[8] Si veda il § 200 della sentenza. I commenti alla decisione CEDU sono numerosissimi, sia in Italia che all’estero. Per gli spunti della dottrina italiana, si possono consultare le seguenti voci dal sito www.contenziosoclimaticoitaliano.it: Accesso al giudice; Acquiescenza scientifica; Ambiente; Art. 8 CEDU e art. 193 TFUE; Attività pericolose; Bilanciamento e proporzionalità; Carbon Budget residuo; Separazione dei poteri.
[9] Si vedano i §§ 419-444 della sentenza.
[10] Cfr. W. Shaye, R. Bullard, J.J. Buonocore, N. Donley et al., Scientists’ warning on fossil fuels, in Oxford Open Climate Change, 5(1), 2025, kgaf011.
[11] Ci si riferisce alla sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. 27 aprile 2022 n. 13143, in merito all’ammissibilità dell’applicazione dell’art. 2055 Cod. civ., anche in presenza di autonome condotte lesive, discendenti da titoli diversi.
[12] Cfr. C.W. Callahan, J.S. Mankin, Carbon majors and the scientific case for climate liability, in Nature, 640, 2025, pp. 893-901, e ivi bibliografia.
[13] Cfr. R.D. Bressler, The mortality cost of carbon, in Nature Communication, 12, 2021, pp. 1-12, J.M. Pearce, R. Parncutt, Quantifying Global Greenhouse Gas Emissions in Human Deaths to Guide Energy Policy, in Energies, 16, 2023, 6074, e T.M. Lenton, C. Xu, J.F. Abrams, A. Ghadiali et al., Quantifying the human cost of global warming, in Nature Sustainability, 6, 2023, pp. 1237-1247.
[14] Sulla situazione di Overshoot e sulle sue implicazioni sui rischi climatici, si v. E. Bevacqua, C.F. Schleussner, J. Zscheischler, A year above 1.5 °C signals that Earth is most probably within the 20-year period that will reach the Paris Agreement limit, in Nature Climate Change, 15, 2025, pp. 262-265, SNPA, Copernicus: nel 2024 temperatura globale a +1,6°C su livello pre-industriale, in www.snpambiente.it, 10 gennaio 2025, MET-Office, Rise in carbon dioxide off track for limiting global warming to 1.5°C, in www.metoffice.gov.uk, 17 gennaio 2025, WMO report documents spiralling weather and climate impacts, in https://wmo/int/, 19 marzo 2025.
[15] Com’è noto, l’art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015 impegna gli Stati a ridurre le proprie emissioni, al fine di mantenere «l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di +2°C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a +1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, riconoscendo che questo potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici».
[16] Human Rights Council Forty-ninth session 28 February–1 April 2022, The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment. Report of the Special Rapporteur on the issue of human rights obligations relating to the enjoyment of a safe, clean, healthy and sustainable environment, A/HRC/49/53, 12 gennaio 2022, p. 11.
[17] Cfr. Legambiente, I nemici del clima: città di Taranto, in www.changeclimatechange.it, da cui si desume che la città ionica è la capitale d’Italia delle emissioni di gas serra.
[18] Sulla decisione europea che prende avvio dalla questione pregiudiziale insorta presso il Tribunale delle imprese di Milano, si v. i Commenti raccolti nella sezione Inibitoria collettiva [Cittadini tarantini c. Acciaierie d'Italia Holding Spa, Acciaierie d'Italia Spa e Ilva Spa in amministrazione straordinaria], in www.contenziosoclimaticoitaliano.it/i-casi/.
[19] Sul concetto di buona fede climatica, si v. la corrispondente voce in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[20] Per un approfondimento delle decisioni della COP28, si rinvia a M. Carducci: Le novità della COP28 tra uso delle parole e Costituzione, in www.laCostituzione.info, 17 dicembre 2023; e La buona fede “climatica” dopo la COP28, in Eunomia. Rivista di studi su pace e diritti umani, 2, 2023, pp. 127-144.
[21] Il paradigma è ormai ampiamente riconosciuto anche dalla dottrina giuridica e dalla giurisprudenza. Per una sintesi, si v. S. Ragone, One Health e Costituzione italiana, tra spinte eco-centriche e nuove prospettive di tutela della salute umana, ambientale e animale, e F. Vivaldelli, Corti supreme e One Health. Vent’anni di giurisprudenza, entrambi in Corti supreme e salute, rispettivamente 3, 2022, pp. 809-826, e 3, 2024, pp. 1-14.
[22] Così, testualmente, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 1° ottobre 2024 n. 7884, punto 4.5.3.
[23] Così, testualmente, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30 maggio 2022, n. 4355, punto 6.1.
[24] Ibidem.
[25] Così, testualmente, Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza del 2 agosto 2024 n. 6947, punto 7.1.
[26] Ibidem.
[27] Cfr., per esempio, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 1° marzo 2024, n. 2044, e Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28 giugno 2023, n. 633.
[28] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 1° ottobre 2024 n. 7884, punto 18.3.
[29] Cfr., per la qualificazione del tempo come “bene della vita”, A. Nicodemo, Il tempo come bene della vita, Torino, Giappichelli, 2024.
[30] Cfr. P. Bertolini, Nesso causale: criterio del “più probabile che non” anche per il Consiglio di Stato, in https//rgaonline.it/, 2 giugno 2023.
[31] Si v. la voce “Probabilità baconiana e pascaliana” in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[32] IPCC, www.ipcc.ch/report/ar6/wg1/.
[33] Sulla centralità delle leggi di inerzia del sistema climatico, spesso sottovalutate dai formanti giuridici, si rinvia a M. Carducci, Costituzionalismo ambientale e leggi della natura, in www.federalismi.it, 12, 2025, pp. 23-36.
[34] L’evidenza è nota sin dal 2001: cfr. IPCC, Climate Change 2001: Synthesis Report: What is known about the inertia and time scales associated with the changes in the climate system, ecological systems, and socio-economic sectors and their interactions?, in https://archive.ipcc.ch/ipccreports/tar/vol4/011.htm.
[35] Cfr. J. Marquardt, L.L. Delina, Making time, making politics: Problematizing temporality in energy and climate studies, in Energy Research & Social Science, 76, 2021, 102073, e R. Maier, J. Behrens, M. Hoffman, F. Kullman et al., Impact of foresight horizons on energy system decarbonization pathways, in Advances in Applied Energy, 18, 2025, 100217 e ivi bibliografia.
[36] Cfr. M. Macrì, Emergenza climatica e funzione amministrativa. Il provvedere nel climate first, Torino, Giappichelli, 2024.
[37] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23 settembre 2022 n. 8167, su cui F. Motta, La riforma dell’art. 41 Cost. davanti al Consiglio di Stato: scelte pubbliche, dati scientifici e transizione ecologica, in www.LaCostituzione.info, 6 ottobre 2022.
[38] Cfr., per i casi: G. Naglieri, Valutazioni di impatto ambientale e downstream emissions. La sentenza Finch v. Surrey della Corte Suprema del Regno Unito, guardando ad Oslo, e L. Cardelli, Utilità sociale intergenerazionale e incompatibilità costituzionale delle emissioni antropogeniche fossili, alla luce di tre recenti decisioni giurisprudenziali, entrambi in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline, 17 luglio 2024, G. Trivi, Cambiamento climatico e inquinamento, alla luce di sei recenti decisioni giudiziali: l’analogia come analisi dei “co-benefici” della mitigazione climatica e attuazione del principio europeo di “integrazione”, in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline, 2 luglio 2024, e sempre G. Trivi, Catalogo aperto delle emissioni pericolose e tutela della persona tra diritto interno ed europeo, in www.LaCostituzione.info, 1 luglio 2024, nonché S. Pitto, Valutazione d’impatto ambientale ed emissioni indirette: la lettura estensiva e il “favor climatis” della UK Supreme Court nel caso Finch v. Surrey, e M. Carducci, Le affinità “emissive”, entrambi in www.diritticomparati.it, rispettivamente 24 settembre 2024 e 11 luglio 2024.
[39] Così dispone il § 550: «Nel valutare se uno Stato sia rimasto all’interno del suo margine di apprezzamento (si veda il precedente paragrafo 543), … le autorità nazionali competenti, siano esse a livello legislativo, esecutivo o giudiziario, [devono tenere] in debito conto la necessità di: (a) adottare misure generali che specifichino un obiettivo temporale per il raggiungimento della neutralità del carbonio e il bilancio complessivo del carbonio rimanente per lo stesso periodo di tempo, o un altro metodo equivalente di quantificazione delle future emissioni di gas serra, in linea con l'obiettivo generale degli impegni nazionali e/o globali di mitigazione dei cambiamenti climatici; (b) definire obiettivi e percorsi intermedi di riduzione delle emissioni di gas serra (per settore o altre metodologie pertinenti) che siano ritenuti in grado, in linea di principio, di raggiungere gli obiettivi nazionali complessivi di riduzione dei gas serra entro i tempi previsti dalle politiche nazionali; (c) fornire prove che dimostrino se hanno debitamente rispettato, o sono in procinto di farlo, i relativi obiettivi di riduzione dei gas serra (vedere i precedenti sottoparagrafi (a)-(b)); (d) mantenere aggiornati gli obiettivi di riduzione dei gas serra con la dovuta diligenza e sulla base delle migliori prove disponibili; e (e) agire tempestivamente e in modo appropriato e coerente nell'elaborazione e nell'attuazione della legislazione e delle misure pertinenti».
[40] Si v. i §§ 118, 403 e 542 della sentenza, nonché la voce “The closing window” in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[41] Cfr. M. Carducci, Effettività intertemporale e legalità formale nella lotta all’emergenza climatica, alla luce dell’art. 8 CEDU, secondo l’Alta Corte di Irlanda in www.diritticomparati.it, 25 marzo 2025.
[42] O.V. Giannico, S. Baldacci, L. Bisceglia, S. Minerba et al., Il “mortality cost” delle emissioni di CO2 di uno stabilimento siderurgico nel Sud Italia: una valutazione degli impatti sanitari derivanti dal cambiamento climatico, in Epidemiologia e Prevenzione, 47(4-5), 2023, 273-280.
[43] Cfr. G. Arconzo, Per la Corte di giustizia i decreti Salva Ilva ledono il diritto alla salute degli abitanti di Taranto, in Quaderni Costituzionali, 4, 2024, 947-950.
[44] https://www.ipcc.ch/sr15/.
[45] https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg2/.
[46] https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-cycle/.
[47] Cfr., per tutti, J. Rogelj, P.M. Forster, E. Kriegler, C.J. Smith, R. Séférian, Estimating and tracking the remaining carbon budget for stringent climate targets, in Nature, 571, 2019, pp. 335-340.
[48] Si v. la voce “Carbon Budget Residuo” in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[49] Come si desume dai glossari dell’IPCC: https://apps.ipcc.ch/glossary/
[50] Sul “doppio rischio sanitario”, cfr. M. Williams, Tackling climate change: what is the Impact on Air Pollution?, in Journal of Carbon Management, 3(5), 2012, pp. 511-519, e C. Facchini, Inquinamento atmosferico e cambiamenti climatici, in C. Mangia, G. Rubbia, M. Ravaioli, S. Avveduto et al. (a cura di), Ambiente e clima. Il presente per il futuro, CNR, 2021, p. 23.
[51] Cfr. C. Mangia, P. Ielpo, R. Cesari, M.C. Facchini, Crisi climatica e inquinamento atmosferico, in Ithaca. Viaggio nella scienza, 15, 2020, pp. 57-58.
[52] Cfr. A. Haines, Use the remaining carbon budget wisely for health equity and climate justice, in The Lancet, 400, 2022, pp. 477-479, e K. Abbass M.Z. Qasim, H. Songm M. Murshed et al., A review of the global climate change impacts, adaptation, and sustainable mitigation measures, en Environmental Science and Pollution Research, 29, 2022, pp. 42539–42559.
[53] Cfr., da ultimo Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16 novembre 2023 n. 9852, p. 12.
[54] Nell’ordinanza n. 150/2012, la Corte costituzionale ha qualificato le sentenze della Grande Camera ex art. 43 CEDU un novum nel sistema delle fonti, puntualizzando che «la sopravvenienza della sentenza della Grande Camera impone di ricordare che la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la questione dell’eventuale contrasto della disposizione interna con la norme della CEDU va risolta, per quanto qui interessa, in base al principio in virtù del quale il giudice comune, al fine di verificarne la sussistenza, deve avere riguardo alle norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (tra le molte, sentenza n. 236 del 2011, richiamando le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e tutte le successive pronunce che hanno ribadito detto orientamento), specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione (da ultimo, sentenza n. 78 del 2012), poiché il contenuto della Convenzione (e degli obblighi che da essa derivano) è essenzialmente quello che si trae dalla giurisprudenza che nel corso degli anni essa ha elaborato (per tutte, sentenze n. 311 del 2009 e n. 236 del 2011), occorrendo rispettare la sostanza di tale giurisprudenza, con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2011 e n. 317 del 2009), ferma la verifica, spettante a questa Corte, della compatibilità della norma CEDU, nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione (sentenza n. 349 del 2007; analogamente, tra le più recenti, sentenze n. 113 e n. 303 del 2011)».
[55] Cfr. M. A. Scurati Manzoni (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Roma, Palazzo della Consulta, 2023.
[56] Cfr. G. Campeggio, L’installazione ex Ilva e la conformità e adeguatezza della valutazione di impatto sanitario dopo la riforma costituzionale dell’art. 41 Cost. e nel quadro della giurisprudenza UE e CEDU, in www.contenziosoclimaticoitaliano.it, febbraio 2025.
[57] M. Cunha Verciano, Il doppio limite del potere di mitigazione climatica dell’Italia dopo le sentenze CEDU del 9 aprile 2024, in www.giustiziainsieme.it, 22 gennaio 2025.
[58] Di «forza vincolante delle pronunce della Corte di Strasburgo» parla la Corte costituzionale nella sentenza n. 7/2024/2024, in una prospettiva di «solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU, che consente di leggere in stretto coordinamento i parametri interni con quelli convenzionali al fine di massimizzarne l’espansione in un rapporto di integrazione reciproca» (Corte costituzionale, sentenze n. 145/ 2022 e n. 4/2024).
[59] Il n. 3 dell’art. 52 dispone che «Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa».
[60] Caso “Coolglass v. An Bord Pleanála”, 10 gennaio 2025.
[61] Sull’estensione del concetto di “nocivo” (harmful) nel diritto UE e sull’inclusione, in esso, della dimensione climatica, si v., tra le altre, la Direttiva IED 2024/1785 del 24 aprile 2024 (in particolare con riferimento alle previsioni di cui all’art. 27-quinquies), la Direttiva sulla qualità dell’aria 2024/2881 del 23 ottobre 2024, il Piano d’Azione della Commissione Europea sull’Acciaio e i Metalli (COM(2025) 125 final) del 19/03/2025.
[62] Si v. la Relazione al Disegno di legge sul clima (Senato della Repubblica, XIX legislatura Atto 743), in cui testualmente si parla di «emissioni nocive di carbonio».
[63] A.T. Cohen, L’Italia senza “quota equa” e Carbon Budget viola Costituzione e CEDU, in www.LaCostituzione.info, 9 ottobre 2024.
[64] Cfr. M. Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra giudice e vincoli normativi: sulla soglia accettabile del pericolo, in www.LaCostituzione.info, 13 giugno 2022, nonché le proposte di legge, depositate in Parlamento, per la sua introduzione (cfr. Senato della Repubblica, XIX legislatura, Atto 1007).
[65] Cfr. G. Trivi, La nullità della valutazione ambientale strategica del PNIEC per assenza di Carbon Budget residuo, in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline.it, 24 gennaio 2025.
[66] Ci si riferisce alle posizioni di G. Scarelli, Contenzioso climatico e giurisdizione, in www.giustiziainsieme.it, 26 novembre 2024, e M. Magri, Lineamenti dell’amministrazione pubblica del clima, in Diritto pubblico, 2, 204, pp. 321-348.
[67] Lo argomenta bene C. Eckes, “It’s the democracy, stupid!” in defence of KlimaSeniorinnen, in ERA Forum, 25, 2024, 451-470.
[68] Il dettaglio dell’art. 43 CEDU sembra essere sfuggito all’analisi di Scarselli (art. cit.), secondo il quale la sentenza “Verein KlimaSeniorinnen” non vincolerebbe in alcun modo i giudici comuni italiani.
[69] Cfr., per una spiegazione sufficientemente semplice, Q. Wu, G.R. North, Climate sensitivity and thermal inertia, in Geophysical Research Letters, 29(15), 2002, pp. 2-1/2-2.
Avvilente e pericolosa. Non sovvengono altri aggettivi per qualificare la telenovela mediatico-giudiziaria sul caso Garlasco, che da molti giorni egemonizza i palinsesti della televisione, della radio e della stampa, sollecitando e soddisfacendo un ossessivo interesse per indagini che potrebbero rimettere in discussione la condanna di Alberto Stasi per l’orribile omicidio di Chiara Poggi.
Ma come, si obietterà, non abbiamo sempre detto che è diritto sacrosanto del popolo conoscere come viene amministrata la giustizia in suo nome (art.101 Cost.)?
La verità è che questo polverone di indiscrezioni, di nuovi accertamenti, di illazioni, di recriminazioni, di nuovi sospetti, di sensazionalismi, con una rigorosa e consapevole narrazione dell’attività giudiziaria ha poco a che fare; non risponde a un interesse pubblico, ma a un morboso interesse del pubblico; nelle sue espressioni deteriori ricorda “gli strilloni” del yellow journalism americano di fine Ottocento. Pochi rinunciano a una comparsata: giornalisti, avvocati, magistrati, consulenti, vistosamente esondando dai rispettivi codici deontologici, gareggiano nell’insufflare nel circuito mediatico-giudiziario qualche sconvolgente insinuazione. Per non farci mancare nulla, anche il Ministro della giustizia ha ritenuto di far sentire la sua voce, bollando come irragionevole e irrazionale la condanna di Stasi. Noi popolo, poi, contribuiamo con la nostra insana attrazione per delitti efferati e successive inchieste: siamo il Paese, nei cui giornali la cronaca nera occupa più del doppio di quanto mediamente avviene negli omologhi organi di informazione europei.
Una siffatta sarabanda mediatica, oltre che deplorevole, è anche pericolosa per più ragioni.
Anzitutto, perché instilla nella collettività una sfiducia nella giustizia, sulla fallace idea che questa, quando funziona bene, debba partorire sempre la verità. Ma la Verità non è umano appannaggio, e il nostro sforzo di accertamento di episodi del passato si deve muovere “nel crepuscolo delle probabilità” (John Locke). L’itinerario processuale che ogni collettività predispone per rendere giustizia è quello che ritiene il meno imperfetto per orientarsi in tale crepuscolo; e il cui risultato è disposta ad accettare pro veritate, al posto della verità. Vi possono essere quindi sentenze giuste, ma orfane della verità. Basta tornare con la mente al recente, doloroso caso Zuncheddu, pastore sardo che ha scontato 33 anni di prigione da innocente: in presenza di un testimone oculare che asseriva di riconoscere in lui l’assassino, le sentenze che lo hanno condannato erano “giuste” - cioè emesse al termine di un corretto iter cognitivo e motivazionale - ma drammaticamente fallaci. Inaccettabile conseguenza dei nostri limiti umani che dobbiamo, purtroppo, imparare ad accettare. Ogni altro modo di rendere giustizia, del resto, sarebbe drammaticamente peggiore. Un popolo che non crede nella propria giustizia si rassegna fatalmente a quella del più forte; prospettiva pericolosa, in uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della Provvidenza.
Naturalmente, non è mancato chi, sull’onda emotiva di questa dolorosa vicenda, ha subito stentoreamente invocato un urgente cambiamento del nostro sistema giustizia. Se ad ogni vero o presunto errore giudiziario dovessimo ridisegnare l’itinerario cognitivo elaborato sulla base di pluriennale esperienza, vivremmo in una disorientante incertezza. Non si intende certo dire che le regole del nostro giudizio penale non possano e quindi non debbano essere migliorate; ma il modo peggiore per intervenire è quello d’impulso, nel momento in cui è ancora vivissimo lo sconcerto per una drammatica vicenda umana e giudiziaria.
Questo chiassoso e indecifrabile polverone informativo è foriero di un’ultima deleteria conseguenza: ingenera nell’opinione pubblica spasmodiche attese di risposta ai suoi angoscianti dubbi ed esercita un’incalzante pressione soprattutto sugli organi inquirenti, rischiando di indurli a rovinose scorciatoie (come ad es. nell’altrettanto famoso processo per il delitto di Meredith Kercher: «l’inusitato clamore mediatico della vicenda - rilevò la Cassazione - ha fatto sì che le indagini subissero una accelerazione nella spasmodica ricerca di un colpevole da consegnare all’opinione pubblica internazionale e non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale»). Con la paradossale conseguenza che poi, anche in tal caso, si solleveranno dubbi sulla correttezza del risultato che ne è conseguito. E saremmo daccapo, con un altro scomposto clamore mediatico.
Contributo pubblicato sul quotidiano “Avvenire” del 1.6.2025.
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