ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
REGISTRAZIONE AUDIO E VIDEO DEL CONVEGNO A QUESTO LINK
https://www.radioradicale.it/scheda/725845/la-magistratura-e-lindipendenza
QUI È DISPONIBILE IL FASCICOLO 3/2024 DELLA NOSTRA RIVISTA CHE RACCOGLIE GLI ATTI DEL CONVEGNO
Roma, 12 aprile 2024
“LA MAGISTRATURA E L’INDIPENDENZA”
In memoria di Giacomo Matteotti
Quarto Convegno di Giustizia Insieme
DIRETTA SUL SITO DI RADIO RADICALE https://www.radioradicale.it/dirette (Special live) dalle ore 9
La terzietà, sia nell’essere che nell’apparire, è sufficientemente garantita dall’investitura di un organo estraneo al potere politico e al potere legislativo?
La terzietà deve riguardare tutti i magistrati o è sufficiente sia solo dei giudici?
Cosa accade negli ordinamenti dei paesi dell’Unione in cui la terzietà non è garantita?
L’attività interpretativa può essere del tutto indipendente dal bagaglio culturale e valoriale dell’interprete? È auspicabile che lo sia?
L’intelligenza artificiale garantisce l’assenza di condizionamenti?
Sono questi i temi a confronto del quarto Convegno di Giustizia Insieme.
Con la trasformazione da homo politicus a homo economicus anche lo iuris dicere fa i conti con gli effetti economici delle decisioni. Su altro terreno, con il PNRR, la celerità delle decisioni produce effetti economici: anche questo è spunto di riflessioni.
L’indipendenza è messa a rischio anche dall’interno, per effetto di riforme ordinamentali introduttive di gerarchie o di controlli indiretti sulle decisioni non condivise dalla politica.
Noi riteniamo essenziale l’indipendenza di tutti i magistrati, sia con funzioni requirenti, sia con funzioni giudicanti. L’indipendenza nello svolgimento delle indagini preliminari e nell’esercizio dell’azione penale è una condizione irrinunciabile in uno Stato di diritto.
La costante rappresentazione mediatica di vicende che interessano l’esercizio della funzione giurisdizionale determina suggestioni che possono influenzare le decisioni in termini di accondiscendenza a quanto voluto dalla gente. Anche la ricerca di popolarità può influenzare le scelte e minare per fatto proprio l’indipendenza del singolo magistrato.
In tema di indipendenza non può infine tralasciarsi di affrontare il tema dell’intelligenza artificiale. L’algoritmo dà certezza dell’assenza di condizionamenti e comunque della stretta attinenza alla fattispecie concreta?
Il Convegno di quest’anno non può che essere dedicato a Giacomo Matteotti, ucciso il 10 giugno 1924. Il processo contro i suoi assassini prova in maniera eclatante il vulnus derivante dalla soggezione dei magistrati al potere politico. Il giudice istruttore della Corte di assise di Roma Mauro del Giudice fu lasciato solo. Il processo fu trasferito a Chieti per legittima suspicione su richiesta del Procuratore generale. Le nostre riflessioni partiranno anche da questa vicenda, perché la memoria non sia vuota, ma esercitata nel quotidiano.
Sala Alessandrina presso S.Ivo alla Sapienza, sede dell'Archivio di Stato di Roma, Corso Rinascimento 40, Roma.
Evento accreditato presso l'ordine degli avvocati di Roma con riconoscimento di 8 crediti formativi.
Per informazioni e iscrizioni: convegno@giustiziainsieme.it
Brevi note in tema di giudicato esterno nel processo amministrativo. A proposito della sentenza Cons. St., Sez. III, 13 aprile 2023, n. 3754
di Nicolò Simeoni
Sommario: 1. La vicenda processuale – 2. La soluzione prospettata dal Consiglio di Stato – 3. Il rilievo del giudicato esterno nel processo amministrativo – 4. Conclusioni.
1. La vicenda processuale
Nella sentenza in rassegna il Consiglio di Stato prende in esame il regime dell’eccezione di giudicato esterno. Segnatamente, si sofferma a delineare da un lato gli oneri di allegazione in capo alle parti e dall’altro i limiti che incontra il giudice nel rilevare la questione. Nonostante si concentri più precisamente sul solo giudicato esterno sopravvenuto, la sentenza offre l’occasione di compiere più ampie riflessioni sul tema.
La vicenda processuale trae origine dal rigetto di un’istanza di adeguamento del prezzo contrattuale ex art. 115 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 [[1]], presentata da una società a seguito della proroga del contratto di affidamento del servizio di pulizia. La società prima impugnava il provvedimento di diniego davanti al T.A.R., chiedendone l’annullamento e la consequenziale condanna al pagamento della somma revisionale, e successivamente conveniva davanti al giudice ordinario la stessa amministrazione per una pluralità di domande, tra cui quella volta a ottenere la corresponsione dell’importo dovuto a titolo di adeguamento del prezzo.
Entrambi i processi terminavano con una pronuncia nel merito, senza che venisse rilevato il conflitto positivo di giurisdizione: mentre il giudice civile rigettava le pretese attoree, il T.A.R. annullava il provvedimento di diniego e riconosceva la spettanza dell’adeguamento richiesto.
La società impugnava tempestivamente la pronuncia davanti alla Corte d’Appello, tuttavia, senza gravare la parte di sentenza relativa alla richiesta di condanna al pagamento del prezzo revisionale, la quale passava in giudicato ai sensi dell’art. 329 co. 2 cod. proc. civ. Anche la pubblica amministrazione resistente proponeva appello avverso la sentenza del T.A.R., chiedendone la riforma sulla base dell’intervenuto passaggio in giudicato della pronuncia del Tribunale ordinario.
2. La soluzione prospettata dal Consiglio di Stato
Esaminando più nel dettaglio il ragionamento svolto nella sentenza in commento, si può notare come il Consiglio di Stato abbia preso atto fin da subito del possibile contrasto tra i dispositivi delle due sentenze. Sul punto, infatti, si ricorda che entrambi i giudici di primo grado, dopo avere esplicitamente affermato la propria competenza giurisdizionale [[2]], hanno statuito nel merito giungendo a due soluzioni diametralmente opposte: mentre il Tribunale ordinario ha rigettato la richiesta di adeguamento del prezzo, il T.A.R. al contrario l’ha ritenuta fondata.
Si è posto, dunque, il problema di qualificare il conflitto tra l’accertamento contenuto nella pronuncia del giudice ordinario e quello della sentenza del giudice amministrativo. A tale proposito, la Terza Sezione ha ritenuto di potere ravvisare una piena sovrapposizione tra gli oggetti delle due domande, non avendo alcuna rilevanza le differenti locuzioni utilizzate dall’attore in una sede e dal ricorrente nell’altra ovvero la diversa struttura del giudizio civile rispetto a quello amministrativo. Si è optato, pertanto, per un approccio sostanziale nella valutazione del petitum e della causa petendi. In entrambi i casi, infatti, la società allegava a fondamento della propria pretesa i medesimi fatti e mirava allo stesso risultato utile.
Alla luce di tali considerazioni, è stata ritenuta fondata l’eccezione di giudicato esterno sopravvenuto prospettata dall’amministrazione appellante. Secondo la tesi sostenuta nell’atto di gravame, infatti, la formazione del giudicato sulla sentenza del giudice ordinario, nella parte in cui accerta l’insussistenza del diritto alla revisione del prezzo, avrebbe precluso al giudice amministrativo di esprimersi sul merito della stessa domanda in virtù del principio del ne bis in idem. Per quanto concerne la definizione del regime processuale dell’eccezione di giudicato esterno, il Consiglio di Stato, dopo avere richiamato l’orientamento della Corte di cassazione sul tema [[3]], ha affermato che la presenza di una precedente sentenza irrevocabile sullo stesso oggetto e pronunciata tra le medesime parti non possa essere sottoposta a preclusioni né in punto di allegazioni né per quanto concerne la prova. Di conseguenza, il giudicato esterno formerebbe l’oggetto di una questione rilevabile dal giudice in ogni stato e grado del processo e non di un’eccezione in senso stretto. Tale configurazione discenderebbe dalla necessità di garantire la stabilità dei giudicati e di evitarne il contrasto.
3. Il rilievo del giudicato esterno nel processo amministrativo
La pronuncia annotata merita di essere segnalata nella parte in cui si occupa di definire la natura dell’exceptio rei iudicatae. L’argomento non risulta essere stato oggetto di approfondimento né da parte della dottrina processual-amministrativistica, salvo alcuni rari contributi sul tema [[4]], né in seno alla giurisprudenza amministrativa, la quale invero non ha avuto spesso occasione di esprimersi sul punto [[5]]. Al contrario, la natura dell’eccezione di giudicato esterno ha animato un grande dibattito nel campo processual-civilistico, vedendo per lungo tempo la giurisprudenza e la dottrina su due opposte posizioni [[6]]. Soltanto recentemente le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno riconosciuto nel giudicato esterno una questione rilevabile ope iudicis [[7]].
Ai fini della risoluzione del caso di specie, il Consiglio di Stato ha recepito e applicato i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, affermando che la prospettazione della questione di giudicato esterno non sia sottoposta a preclusioni. Si evidenzia, tuttavia, che questa presa di posizione sembra essere limitata al solo regime del giudicato esterno sopravvenuto nel corso del giudizio. Gli elementi sopravvenuti, infatti, non sono sottoposti ai limiti temporali, in quanto la parte non avrebbe mai potuto allegarli e produrli in precedenza [[8]]. Non viene chiarito, invece, se tale orientamento sia estendibile all’ipotesi in cui la questione, pur conosciuta dalle parti, non sia stata tempestivamente allegata entro i termini previsti. Sembra opportuno, quindi, svolgere alcune riflessioni allo scopo di offrire qualche spunto circa la natura dell’eccezione di giudicato esterno nel processo amministrativo.
In via preliminare si può osservare come, malgrado il d.lgs. 10 luglio 2010, n. 104, non si occupi direttamente del tema in oggetto, sia comunque possibile rintracciare alcuni indici che possono fungere da guida per l’interprete.
Un primo elemento può essere individuato nella lettera dell’art. 2909 cod. civ., nella parte in cui afferma che l’accertamento della sentenza passata in giudicato formale ex art. 324 cod. proc. civ. “fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa” [[9]]. Anche nel processo amministrativo opera l’effetto negativo-preclusivo del giudicato che impedisce alle stesse parti di riproporre una domanda con petitum e causa petendi identici a quella già oggetto di accertamento definitivo. Il secondo giudizio eventualmente instaurato si chiuderebbe con una sentenza di rigetto in rito per la mancanza di un presupposto di decidibilità della causa nel merito [[10]]. Questa prima considerazione, se suggerisce la sicura configurazione nel processo amministrativo dell’eccezione di giudicato esterno, ancora non ne definisce la fisionomia.
Un ruolo maggiormente incisivo sembra essere svolto dall’art. 106, co. 1, cod. proc. amm., secondo cui le parti possono impugnare con il rimedio della revocazione le sentenze del giudice amministrativo “nei casi e nei modi” stabiliti dagli artt. 395 e 396 cod. proc. civ. Tra i casi di revocazione è compresa anche l’ipotesi in cui una pronuncia sia contraria a una antecedente avente tra le parti l’autorità di cosa giudicata, purché non vi sia stata l’occasione per il giudice di esprimersi sulla relativa eccezione (art. 395, n. 5, cod. proc. civ.). Il contenuto della norma rende evidente il legame che intercorre con l’exceptio rei iudicatae. Si tratta in entrambi i casi di strumenti processuali complementari volti a fare valere l’esistenza di un precedente giudicato sullo stesso oggetto al fine di evitare la duplicazione e il contrasto delle decisioni giudiziali. Attraverso l’art. 395, n. 5, cod. proc. civ., il legislatore permette di impugnare la sentenza utilizzando tardivamente l’eccezione di giudicato, oltre la conclusione del giudizio di primo e di secondo grado, ma a patto che la questione non fosse già stata sollevata in precedenza [[11]].
Proprio quest’ultimo profilo sembra suggerire che l’eccezione di giudicato esterno non sia sottoposta a preclusioni né per l’allegazione del fatto né in punto di produzione della relativa prova. Non avrebbe senso, infatti, prevedere un termine perentorio entro cui sollevare la questione se successivamente una delle parti fosse libera di impugnare per revocazione la sentenza facendo valere il medesimo fatto [[12]].
Parte della dottrina [[13]], poi, ha sottolineato che a fronte della previsione dell’art. 395, n. 5, cod. proc. civ., la sentenza revocabile, in quanto pronunciata in contrarietà a quella ormai passata in giudicato, debba considerarsi viziata. Da questo punto di vista, apparirebbe complicato sostenere che la questione di giudicato esterno rientri nel monopolio esclusivo della parte interessata, in quanto si produrrebbe una sentenza viziata non per un errore compiuto dal giudice, bensì in virtù di una mancanza delle parti. Sembra preferibile, pertanto, ritenere che la questione relativa alla preesistenza di una sentenza irrevocabile sia direttamente rilevabile dal giudice senza la necessità di una preventiva e specifica eccezione in senso stretto sollevata dalla parte.
Queste conclusioni sembrano ulteriormente avvalorate dal regime processuale dell’eccezione di litispendenza. Il d.lgs. 10 luglio 2010, n. 104, non predispone direttamente una disciplina per regolare l’ipotesi in cui la stessa domanda sia contemporaneamente proposta dinnanzi a T.A.R. differenti. La lacuna è colmata applicando il disposto dell’art. 39, co. 1 e 3, cod. proc. civ., grazie alla clausola di rinvio esterno di cui all’art. 39, co. 1, cod. proc. amm. [[14]]. Nel processo amministrativo, dunque, la simultanea pendenza dei due giudizi è risolta attraverso il criterio cronologico dando prevalenza alla causa preveniente. Il giudice della causa prevenuta, invece, rileverà ex officio in ogni stato e grado la litispendenza e disporrà con ordinanza la cancellazione della causa dal ruolo. Anche l’istituto della litispendenza sembra presentare qualche affinità con l’eccezione di giudicato esterno dal punto di vista funzionale. Attraverso la previsione dell’art. 39, co. 1, cod. proc. civ., il legislatore mira a evitare la duplicazione dell’attività processuale in relazione all’identica vicenda sostanziale e, in definitiva, di giungere a due pronunce nel merito suscettibili di passare in giudicato. Da questo punto di vista, la litispendenza è stata definita come “un’anticipazione dell’eccezione di cosa giudicata” [[15]]. Se esiste questa soluzione di continuità tra litispendenza ed eccezione di cosa giudicata, allora sembra improbabile che il legislatore abbia previsto la rilevabilità d’ufficio per la prima e non per la seconda. In questo senso, è possibile sostenere che entrambe le eccezioni sottostiano allo stesso regime processuale espressamente stabilito dall’art. 39, co. 1, cod. proc. civ. [[16]].
Qualche perplessità suscita, invece, l’argomento tratto dall’art. 112, secondo periodo, cod. proc. civ., individuato dalla giurisprudenza civile [[17]] quale elemento rischiaratore della natura dell’eccezione di giudicato esterno. Secondo tale orientamento, la norma indicata non si limiterebbe solo a definire la vigenza del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ma sarebbe espressione di un ulteriore principio generale, secondo il quale i fatti estintivi, modificativi o impeditivi sarebbero di norma rilevabili d’ufficio dal giudice. Solo in alcuni casi specifici, poi, espressamente disciplinati dal legislatore, il fatto sarebbe subordinato alla proposizione di una specifica istanza della parte, configurandosi così un’ipotesi di eccezione in senso stretto. Tali conclusioni, poi, vengono impiegate anche in relazione all’eccezione di giudicato esterno. Non rinvenendo all’interno dell’ordinamento una norma che ne riservi l’utilizzo, se ne deduce la rilevabilità officiosa.
Anzitutto, si constata che il dettato dell’art. 112 cod. proc. civ. è pacificamente recepito dalla giurisprudenza all’interno del processo amministrativo [[18]]. E la pronuncia in rassegna sembra accogliere anche il principio della generale rilevabilità ex officio delle eccezioni, salvo indicazioni normative contrarie. Se ne potrebbe ricavare, dunque, un ulteriore elemento capace di definire la natura dell’eccezione di giudicato esterno. Più di un Autore [[19]], tuttavia, ha avanzato dei dubbi sulla ricostruzione prospettata dalla giurisprudenza, in quanto l’art. 112, secondo periodo, cod. proc. civ., si presterebbe anche a differenti interpretazioni. Vi è chi, ad esempio, richiama proprio tale disposizione per affermare la generale rilevabilità su istanza di parte delle eccezioni, restringendo i poteri officiosi del giudice ai casi tassativamente previsti [[20]]. L’ambigua formulazione dell’art. 112 cod. proc. civ., pertanto, sembra suggerire maggiore cautela nell’impiego di tale indice ai fini della presente indagine.
4. Conclusioni
La mancanza di una chiara presa di posizione da parte del legislatore non sembra consentire allo stato di individuare delle conclusioni sicure a proposito della natura dell’eccezione di giudicato esterno. Nonostante tale indicazione di prudenza, alla luce dei dati raccolti appare preferibile accedere all’opinione più diffusa presso la dottrina [[21]] e la giurisprudenza [[22]], secondo cui si tratterebbe di una questione rilevabile ope iudicis e non soggetta alle preclusioni maturate nel corso del processo. Gli elementi che maggiormente confortano questa ricostruzione sono rappresentanti dalla disciplina della revocazione (art. 106, co. 1, cod. proc. amm., e art. 395, n. 5, cod. proc. civ.) e da quella della litispendenza (art. 39, co. 1, cod. proc. amm., e art. 39, co. 1, cod. proc. civ.). Più in generale, sembra che l’eccezione di giudicato esterno si inserisca all’interno di un sistema di strumenti processuali approntati dal legislatore allo scopo di evitare la presenza di più statuizioni sulla stessa domanda.
Se tale impostazione si ritiene corretta, l’esistenza di una precedente sentenza passata in giudicato pronunciata tra le stesse parti e vertente sullo stesso oggetto potrà essere semplicemente segnalata al giudice in ogni stato e grado del processo amministrativo, senza l’utilizzo di particolari formule sacramentali. Più precisamente, la parte interessata potrà sollevare la questione e produrre la copia autentica della sentenza irrevocabile per tutto il corso del primo grado e, nel caso in cui questa attività sia mancata, non incorrerà nelle preclusioni previste per i nova nel grado di appello dall’art. 104, co. 1 e 2, cod. proc. amm. [[23]]. Ad ogni modo, dovrà essere assicurato il contraddittorio delle parti, nel caso in cui il collegio dovesse rilevarne la fondatezza (art. 73, co. 3, cod. proc. amm.).
Qualche dubbio potrebbe porsi nel caso in cui la questione venisse prospettata per la prima volta all’udienza di discussione. In merito, si potrebbe immaginare una pluralità di soluzioni: a) il collegio potrebbe ammettere l’acquisizione della copia autentica della sentenza e provocare il contraddittorio delle parti sulla questione; b) il collegio potrebbe rinviare l’udienza per permettere la produzione della copia autentica della sentenza e la discussione delle parti sul punto; c) la questione potrebbe ritenersi ormai preclusa e la parte interessata dovrebbe farla valere eventualmente nel grado di appello. Non dovrebbero porsi problemi, invece, se la tardiva prospettazione della questione non sia imputabile alla parte [[24]], in quanto il collegio potrebbe autorizzare a seguito di esplicita richiesta una produzione tardiva della memoria e del documento (art. 54, co. 1, cod. proc. amm.).
Nell’ipotesi in cui nessuna delle parti abbia sollevato l’esistenza di un precedente giudicato né in primo grado né davanti al Consiglio di Stato, sarà allora possibile impugnare la sentenza di appello per revocazione facendo valere il quinto motivo previsto dall’art. 395 cod. proc. civ. [[25]]. Se non sarà promosso neanche il giudizio di revocazione, si verificherà un contrasto pratico tra i due giudicati. In applicazione del criterio cronologico, si ritiene che prevalga l’accertamento intervenuto per secondo [[26]].
[[1]] La disposizione citata, ratione temporis applicabile al caso di specie, prevedeva obbligatoriamente l’inserimento di una clausola di revisione del prezzo nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture. Si precisava, poi, che la revisione non operasse in via automatica, ma che fosse determinata sulla base di un’istruttoria compiuta dall’amministrazione tenendo conto dei costi standardizzati, calcolati avvalendosi degli indici ISTAT. Le parti contraenti, tuttavia, erano libere di inserire nel capitolato d’appalto anche clausole con meccanismi di revisione del prezzo dal contenuto determinato, escludendo o riducendo il successivo esercizio del potere discrezionale da parte della stazione appaltante.
[[2]] Il conflitto positivo di giurisdizione si spiega alla luce dell’interpretazione offerta dalla giurisprudenza in merito alla lettera dell’art. 133, lett. e, n. 2, cod. proc. amm., secondo cui le controversie “[…] relative alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell’ipotesi di cui all’articolo 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 […]” sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In realtà, si ritiene sussistente la giurisdizione del giudice ordinario in tutti quei casi in cui il contratto di appalto preveda una clausola di revisione del prezzo che disciplini nel dettaglio i criteri di adeguamento. In questo caso, infatti, non residuerebbe alcun potere in capo alla pubblica amministrazione e la controversia riguarderebbe l’esecuzione di una prestazione già pienamente definita in base al regolamento contrattuale (Cons. St., Sez. III, sent., 25 luglio 2023, n. 7291; Cass. civ., Sez. un., ord., 22 novembre 2021, n. 35952; Cass. civ., Sez. un., ord., 12 ottobre 2020, n. 21990; Cass. civ., Sez. un., ord., 13 luglio 2015, n. 14559).
[[3]] Tra le maggiormente incisive si indicano: Cass. civ., Sez. un., sent., 3 febbraio 1998, n. 1099 e Cass. civ., Sez. un., sent., 25 maggio 2001, n. 226.
[[4]] Si segnalano gli interventi di: C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, 88-89; M. Di Rienzo, L’eccezione nel processo amministrativo, Napoli, 1968, 154-155; G. Paleologo, L’appello al Consiglio di Stato, Milano, 1989, 340; F. Saitta, I novanell’appello amministrativo, Milano, 2010, 370-371; P. M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo, Milano, 1990, 230 (12).
[[5]] Si vedano le riflessioni degli Autori citati nella precedente nota.
[[6]] Per una rapida disamina si rinvia a M. Russo, Sull’eccezione di giudicato esterno formatosi nel corso del giudizio di merito, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2012, I, 646-648.
[[8]] Si segnala, infatti, che nel caso in esame il giudicato civile si era formato dopo la pubblicazione della sentenza del T.A.R. Non sarebbe stato possibile, dunque, sollevare la relativa questione nel giudizio di primo grado. Sul punto, si veda A. A. Romano, Questioni in tema di giudicato esterno sopravvenuto in corso di appello, in il Corriere giuridico, 2013, 3, 405-406, il quale ricorda che le preclusioni non trovano applicazione nei confronti della parte che incolpevolmente non fosse nelle condizione di rispettarle.
[[9]] Si ricorda che in caso di lacune il codice del processo amministrativo predispone una clausola di rinvio esterno alle norme del codice di procedura civile “in quanto compatibili o espressione di principi generali” (art. 39, co. 1, cod. proc. amm.). Il d.lgs. 10 luglio 2010, n. 104, invero, richiama in altre parti il concetto del giudicato, ad esempio per quanto riguarda il giudizio di ottemperanza. Sembra possibile affermare, dunque, che nonostante l’art. 2909 cod. civ. non sia collocato all’interno del codice di rito, esso trovi comunque applicazione nel processo amministrativo in quanto presupposto per il funzionamento di altre norme. La dottrina afferma pacificamente l’applicazione nel processo amministrativo sia dell’art. 2909 cod. civ. sia dell’art. 324 cod. proc. civ. (C. Cacciavillani, Il giudicato, in F. G. Scoca (a cura), Giustizia amministrativa, Torino, 2023, 644-645. Si segnala, sotto la vigenza della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, la posizione di P. M. Vipiana, Contributo, cit., 196-203, secondo la quale tali norme possono trovare applicazione con i dovuti adattamenti richiesti dalla struttura e dalle esigenze proprie del processo amministrativo). Anche la giurisprudenza non sembra avere dubbi al riguardo (Cons. St., Sez. IV, sent., 29 agosto 2022, n. 7504; Cons. St., Sez. III, sent., 7 novembre 2018, n. 6281).
[[10]] C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2019, 104-106 e 116-121.
[[11]] M. D’Orsogna, Le impugnazioni straordinarie contro le decisioni dei giudici amministrativi, in F. G. Scoca (a cura), Giustizia, cit., 495-496.
[[12]] Si è notato, tuttavia, come l’art. 395, n. 5, cod. proc. civ., utilizzi espressamente il termine “eccezione”, rimandando a una precisa tradizione giuridica. Da un punto di vista letterale, quindi, si potrebbe sostenere che il legislatore richieda che sia la parte interessata ad allegare specificatamente l’esistenza del precedente giudicato (S. Ziino, Disorientamenti della Cassazione in materia di giudicato “implicito” e di rilevabilità del giudicato esterno, in Rivista di diritto processuale, 2005, 4, 1401).
[[13]] C. Cacciavillani, Giudizio, cit., 89; G. Pugliese, voce Giudicato civile (dir. vig.), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 835.
[[14]] In questo senso si veda A. Police, La competenza, in F. G. Scoca, Giustizia, cit., 144. In giurisprudenza si segnalano: T.A.R. Campania (Salerno), Sez. III, sent., 24 maggio 2023, n. 1214; T.A.R. Molise (Campobasso), Sez. I, sent., 9 giugno 2017, n. 224; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia (Trieste), Sez. I, sent., 12 maggio 2016, n. 164; Cons. St., Sez. IV, sent., 5 giugno 2013, n. 3100.
[[15]] C. Cacciavillani, Giudizio, cit., 89. In senso analogo si vedano C. Consolo, Spiegazioni, cit., 123 e S. Menchini, voce Regiudicata civile, in Dig. disc. priv. Sez. civ., XVI, Torino, 1997, 467.
[[16]] Contra S. Ziino, Disorientamenti, cit., 1400-1401, il quale, riconosciuto che i due istituti condividono l’obiettivo di evitare il contrasto tra giudicati, ne sottolinea anche le differenze. In particolare, la litispendenza si preoccuperebbe di trovare una soluzione a un problema di competenza, caratteristica che invece sfuggirebbe all’eccezione di cosa giudicata. Si rinvia anche a G. Scarselli, Note in tema di eccezione di cosa giudicata, in Rivista di diritto processuale, 1996, 857-860.
[[17]] Cass. civ., Sez. un., sent., 3 febbraio 1998, n. 1099, con nota di M. Negri, L’eccezione di “aliunde perceptum” è preclusa in appello, in il Corriere giuridico, 1999, 8, 1013-1021.
[[18]] Secondo alcune pronunce la norma troverebbe applicazione quale sviluppo logico del principio della domanda (ex multis: Cons. St., Sez. IV, sent., 4 settembre 2023, n. 8153; Cons. St., Sez. VII, sent., 22 dicembre 2022, n. 11190; Cons. St., Sez. V, sent., 14 giugno 2019, n. 4024), altre invece ricorrono alla mediazione dell’art. 39, co. 1, cod. proc. amm. (ex multis: Cons. St., Sez. II, sent., 17 marzo 2021, n. 2293; Cons. St., Sez. II, sent., 7 settembre 2020, n. 5397; Cons. St., Sez. II, sent., 25 luglio 2020, n. 4753). Si precisa che le sentenze qui riportate si occupano solo dell’applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. nel processo amministrativo, senza soffermarsi sul tema delle eccezioni.
[[19]] Sul tema della distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato in relazione all’art. 112, secondo periodo, cod. proc. civ., si rinvia a: C. Cavallini, Eccezione rilevabile d’ufficio e struttura del processo, Napoli, 2003, 63-69; V. Colesanti, Nostalgie in tema di eccezioni, in Rivista di diritto processuale, 2016, 283-285; G. Fabbrini, L’eccezione di merito nello svolgimento del processo di cognizione, in Studi in memoria di Carlo Furno, Milano, 1973, 264-276; E. Grasso, La pronuncia d’ufficio, Milano, 1967, 315-333; E. Merlin, Eccezioni rilevabili d’ufficio e sistema delle preclusioni in appello, in Rivista di diritto processuale, 2015, 300-308; R. Oriani, voce Eccezione, in Dig. disc. priv. Sez. civ., VII, Torino, 1991, 270-272 e 279; S. Ziino, Disorientamenti, cit., 1399-1400.
[[20]] S. Ziino, Disorientamenti, cit., 1399-1400.
[[21]] S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, 229.
[[22]] Cons. St., Sez. VI, sent., 9 maggio 2023, n. 4651; Cons. St., Sez. IV, sent., 26 novembre 2020, n. 7422; Cons. St., Sez. IV, sent., 10 luglio 2013, n. 3654; Cons. St., Sez. VI, sent., 29 marzo 2013, n. 1848.
[[23]] Si segnala l’indirizzo giurisprudenziale per cui, anche in mancanza della produzione della sentenza passata in giudicato, il Consiglio di Stato potrebbe prenderne visione attraverso l’accesso al sito della giustizia amministrativa (Cons. St., Sez. VI, sent., 29 agosto 2022, n. 7504).
[[24]] È il caso in cui il giudicato si fosse formato allo spirare dei termini stabiliti dall’art. 73, co. 1, cod. proc. amm.
[[25]] Si ricorda che, secondo l’art. art. 395, co. 5, cod. proc. civ., la revocazione non può essere proposta avverso la sentenza che “abbia pronunciato sulla relativa eccezione [di giudicato esterno]”. La giurisprudenza amministrativa interpreta estensivamente la locuzione utilizzata dalla norma, ricomprendendovi non solo le ipotesi in cui il giudice si sia espresso sulla questione, ma anche tutti quei casi in cui ne ha avuto la mera occasione. È sufficiente, quindi, che una delle parti abbia prospettato l’esistenza di un giudicato esterno rilevante ai fini del giudizio per non potere più promuovere la revocazione (Cons. St., Sez. II, sent., 2 luglio 2023, n. 6419; Cons. St., Sez. II, sent., 20 febbraio 2023, n. 1695; Cons. St., Sez. VI, sent., 9 maggio 2023, n. 4651).
[[26]] C. Consolo, Spiegazioni, cit., 125-126; S. Menchini, voce Regiudicata, cit., 469; A. Proto Pisani, Appunti sul giudicato civile e i suoi limiti oggettivi, in Rivista di diritto processuale, 1990, 418; G. Pugliese, voce Giudicato, cit., 825. Per un approfondimento sul tema si rinvia a G. Scarselli, Note, cit., 851-852. Concorde anche la giurisprudenza: T.A.R. Piemonte (Torino), Sez. II, sent., 2 maggio 2023, n. 399; T.A.R. Sicilia (Catania), Sez. IV, sent., 9 aprile 2021, n. 1126; Cons. St., Sez. VI, sent., 26 ottobre 2020, n. 6503; Cons. St., Sez. V, sent. 6 giugno 2003, n. 3239.
Appunti redazionali in tema di revisione della Circolare CSM per la formazione delle tabelle degli uffici giudicanti per il quadriennio 2024-2027 (parte prima)
Sommario: 1. La procedura di modifica tabellare. - 2. La posizione tabellare. - 3. I tramutamenti interni. - 4. Il rapporto tra gip/gup e dibattimento negli uffici distrettuali. - 5. I magistrati collaboratori. - 6. Vacanze, assenze, supplenze, applicazioni. – 7. Carico di lavoro dei dirigenti degli uffici giudiziari giudicanti. - 8. La sezione feriale.
1. La procedura di modifica tabellare.
L’architettura del procedimento di modifica tabellare contenuta nella Circolare 10500/2020 (peraltro in gran parte ereditata dalle Circolari precedenti) si articola secondo diverse tipologie.
La tipologia ordinaria prevede che periodicamente il presidente del tribunale segnali al presidente della corte d’appello le variazioni tabellari non urgenti o di sistema, consentendo al presidente della corte di valutarle, eventualmente modificarle di concerto con il presidente del tribunale (ma anche in assenza del consenso di quest’ultimo, in ipotesi estreme), ed infine proporle al consiglio giudiziario per il parere pregresso alla trasmissione al consiglio superiore
La tipologia urgente riguarda invece i casi di assegnazione dei magistrati alle sezioni, ai gruppi di lavoro ed ai collegi, nonché l’assegnazione degli affari, e si divide a sua volta in due categorie.
La categoria urgente ed immediatamente esecutiva riguarda l’assegnazione dei magistrati alle sezioni, ai gruppi di lavoro ed ai collegi.
La categoria urgente ma esecutiva solo all’esito del parere favorevole unanime del consiglio giudiziario si riferisce all’assegnazione degli affari ai magistrati.
La tipologia urgente, con riferimento ad entrambe le categorie che la compongono, si caratterizza per il fatto che la proposta di modifica tabellare, dichiarata urgente dal dirigente dell’ufficio che la segnala, viene proposta dal dirigente dell’ufficio non già al presidente della corte d’appello (come nella procedura ordinaria), ma direttamente al consiglio giudiziario, e va trasmessa nel termine breve al consiglio superiore anche nel caso in cui il consiglio giudiziario non sia riuscito, entro tale termine, ad esprimere il proprio parere – che in tal caso viene trasmesso successivamente, a sèguito atti.
Tali procedure di modifica tabellare potrebbero essere oggetto di alcune modifiche.
Deve osservarsi, in primo luogo, che la procedura in disamina si svolge ormai esclusivamente in vita telematica, mediante il sistema csmapp. Materialmente, l’ufficio proponente inserisce in csmapp la variazione, indicando attraverso apposito flag se sia ordinaria oppure urgente. In questo modo, il presidente della corte d’appello è in grado di visualizzare la segnalazione su csmapp e di lavorarci a sua volta.
Una volta ricevuta la variazione, il presidente della corte d’appello può farla propria e trasmetterla al consiglio giudiziario apponendo il proprio flag, oppure può trasmettere un messaggio di risposta al dirigente dell’ufficio che ha inserito la segnalazione, indicando che la segnalazione non può essere accolta oppure sollecitando una interlocuzione.
Quando si tratta di segnalazione ordinaria, csmapp funziona in maniera abbastanza soddisfacente, con l’unico limite per cui non è consentita più di una interlocuzione ed il campo riservato al contenuto dell’interlocuzione è assai ristretto, il che costringe il presidente della corte ad interloquire con il presidente del tribunale autore della segnalazione mediante una parallela interlocuzione cartacea, certamente legittima ma obiettivamente estera al sistema telematico che dovrebbe consentire la gestione e la conoscenza dell’intera procedura.
Quando invece si tratta di segnalazione urgente, non solo il presidente della corte d’appello può visualizzare la segnalazione stessa, ma può farlo anche il consiglio giudiziario, e tale sistema è coerente con la norma della circolare per cui la segnalazione urgente è proposta direttamente dal dirigente al consiglio giudiziario.
Nel contempo, tuttavia, il consiglio giudiziario non ha il potere di trasmettere la segnalazione urgente al consiglio superiore, anche dopo avere espresso il proprio parere, fino a che il presidente della corte d’appello non appone il suo flag sulla segnalazione – si tratta dello stesso flag che il presidente della corte appone, in sede di variazione ordinaria, per trasmettere al consiglio giudiziario come propria proposta la segnalazione ordinaria ricevuta dal presidente del tribunale.
In questo modo, il sistema csmapp finisce per vanificare l’esigenza di urgenza prevista dalla circolare, perché il presidente della corte resta di fatto unico titolare del potere di trasmettere la segnalazione urgente al consiglio superiore, apponendo oppure no il proprio flag, mentre il consiglio giudiziario non è titolare di alcun potere al proposito.
Tale divisione è senz’altro coerente con la regola per cui l’obbligo di trasmettere, entro il termine breve, la segnalazione urgente al consiglio superiore, grava sul presidente della corte d’appello, tuttavia rimette di fatto la funzionalità dell’intero sistema alla buona organizzazione dell’ufficio di presidenza della corte d’appello.
Al contrario, potrebbe essere maggiormente utile prevedere che la segnalazione urgente inserita su csmapp sia immediatamente visibile al consiglio superiore, sicché quest’ultimo possa, scaduto il termine breve, prendere atto degli altri documenti eventualmente inseriti in sèguito – ad es. il parere del consiglio giudiziario – e possa provvedere tempestivamente.
Del resto, occorre in proposito osservare che la tempistica delle decisioni del consiglio superiore in relazione alle modifiche tabellari urgenti è senz’altro assai più estesa nel tempo rispetto al termine breve che, per obbligo derivante dalla circolare, deve essere osservato dal presidente della corte d’appello per trasmettere la segnalazione urgente al consiglio superiore, possibilmente corredata del parere del consiglio giudiziario.
Il sistema delle segnalazioni urgenti presenta, poi, possibilità di miglioramento anche dal punto di vista della efficacia esecutiva delle modifiche tabellari.
La tipologia ordinaria di modifica diventa in generale esecutiva quando approvata dal consiglio superiore.
Poiché i tempi di approvazione sono solitamente estesi nel tempo, è frequente il ricorso alla tipologia urgente, da parte del dirigente dell’ufficio proponente, mediante interpretazioni innovative delle norme secondarie.
Al fine di evitare tale distorsione, alcuni interpreti osservano che la proposta di approvazione del documento organizzativo generale e del progetto tabellare diventa immediatamente esecutiva quando il consiglio giudiziario formuli, in relazione ad essa, parere favorevole unanime.
Tale effetto giuridico non è previsto espressamente in relazione alle modifiche tabellari ordinarie, ma poiché la procedura seguita è sostanzialmente la stessa, si ritiene da più parti che le modifiche tabellari ordinarie, per quanto in sé non urgenti, acquisiscano efficacia esecutiva laddove il consiglio giudiziario formuli parere favorevole unanime in relazione ad esse.
Tale interpretazione, non priva di ragionevolezza, parrebbe consigliare di introdurre una specifica disposizione di tale natura, in attesa che i tempi di approvazione da parte del consiglio superiore si giovino di una auspicabile significativa riduzione.
Con riferimento, invece, alle modifiche tabellari dichiarate urgenti dal dirigente dell’ufficio proponente, si è già fatto cenno al fenomeno per cui talvolta l’impossibilità di attenere i tempi necessari al consiglio superiore per approvare una modifica tabellare inducono i dirigenti degli uffici ad utilizzare la procedura urgente mediante interpretazioni non sempre condivisibili delle norme secondarie.
Una simile opzione incontra nella circolare del 2020 una sorta di sanzione, consistente nel fatto che quando risulta che il dirigente dell’ufficio abbia adottato la procedura urgente al di fuori dei casi previsti dalla circolare, la delibera che lo dichiara viene inserita nel fascicolo personale del dirigente e valutata per la futura progressione in carriera.
Tale norma è di fatto depotenziata – e forse non è un danno – da alcuni aspetti legati al funzionamento di fatto del sistema.
Anche volendo trascurare il fatto che spesso i dirigenti degli uffici sono prossimi al collocamento in quiescenza, sicché la disposizione ha scarso effetto preventivo, deve considerarsi che i tempi necessari al consiglio superiore per la valutazione della proposta di modifica tabellare, anche quando urgente, sono in media talmente estesi che il dirigente ha ormai cambiato incarico o è arrivato alla conclusione del quadriennio o dell’ottennio o magari ha in sèguito meritato, sicché l’inserimento nel fascicolo personale resta del tutto privo di concreta efficacia sanzionatoria, e dunque preventiva.
Ma ciò che maggiormente rileva è che la ragione per cui la sanzione è prevista non deve ritenersi legata tanto alla valutazione della capacità dei dirigenti, ma alla necessaria e prioritaria garanzia di funzionamento del sistema.
In altre parole, la sanzione per i dirigenti tende a garantire che questi non utilizzino la procedura urgente per proporre modifiche tabellari che invece, per loro natura, sono ordinarie e devono essere segnalate al presidente della corte d’appello che – all’esito delle proprie valutazioni – può farle proprie proponendole al consiglio giudiziario per il parere.
Tale esigenza di garanzia del funzionamento del sistema, in sé senz’altro apprezzabile, è però tradita non solo dall’inefficacia concreta della sanzione prevista, ma anche e soprattutto dal cattivo funzionamento del sistema stesso.
Ed infatti, quando la proposta di modifica abusivamente dichiarata urgente ed immediatamente esecutiva viene adottata dal dirigente, essa deve essere obbligatoriamente trasmessa al consiglio superiore entro il termine breve, anche in assenza del parere del consiglio giudiziario, il che significa che anche se il consiglio giudiziario, e il presidente della corte d’appello, rilevano la violazione, ed anche se la rilevano tempestivamente, non hanno alcun potere di sospenderne l’efficacia esecutiva.
Addirittura la circolare 2020 prevede che se la modifica tabellare viene fatta oggetto di parere contrario dal consiglio giudiziario, il dirigente dell’ufficio che l’ha erroneamente proposta ha il potere, invece che il dovere, di sospenderne l’efficacia esecutiva.
Pertanto, risulta evidente che quando il dirigente dell’ufficio propone una modifica tabellare dichiarandola urgente ed immediatamente esecutiva, anche se essa ha natura ordinaria, il sistema non ha alcuna difesa, dal momento che nel corso del lungo tempo necessario al consiglio superiore per pronunziarsi, né il parere contrario del consiglio giudiziario né alcuna iniziativa del presidente della corte d’appello possono determinare la sospensione dell’efficacia esecutiva di tale modifica – né al dirigente che si è reso responsabile della violazione accade di fatto alcunché.
Sarebbe pertanto senz’altro auspicabile una modifica della circolare ove si prevedesse che nel caso in cui il consiglio giudiziario – od anche il solo presidente della corte d’appello – abbia dichiarato che la proposta sia stata dichiarata urgente ed immediatamente esecutiva dal dirigente dell’ufficio al di fuori dei casi previsti dalla circolare, è automaticamente sospesa l’efficacia esecutiva della proposta medesima.
Tale problematica non si pone, invece, in relazione alle modifiche tabellari dichiarate urgenti ma non immediatamente esecutive, dal momento che in relazione ad esse l’efficacia esecutiva dipende dal parere favorevole unanime del consiglio giudiziario.
In ordine a tale categoria, si osserva invece altra disfunzionalità del sistema.
Ed in effetti da un lato è prevista l’immediata esecutività dell’assegnazione dei magistrati alle sezioni, ai gruppi di lavoro ed ai collegi, mentre dall’altro lato è prevista solo al parere favorevole unanime del consiglio giudiziario l’assegnazione degli affari ai magistrati.
Sul punto, il consiglio superiore ha mostrato particolare rigidità, specificando in successive risposte a quesito che non è consentito inserire provvedimenti di assegnazione degli affari in provvedimenti di assegnazione dei magistrati ai posti, al fine di rendere entrambe le disposizioni immediatamente esecutive, dal momento che si tratta di disposizioni soggette in sé a discipline diverse dal punto di vista della tempistica dell’efficacia esecutiva.
In proposito, occorre osservare che nel momento in cui si assegna un magistrato ad una posizione tabellare, con decreto immediatamente esecutivo, è irrazionale postergare l’esecutività dell’assegnazione degli affari, dal momento che nel periodo intermedio quel magistrato resterebbe senza affari assegnati fino al parere favorevole unanime del consiglio giudiziario o addirittura fino all’approvazione del consiglio superiore.
Tale quadro determina, di conseguenza, prassi illegittime quali quelle consistenti nell’assegnare, all’esito di concorso, ai magistrati internamente tramutati o assegnati, i ruoli “ex-” così confondendo la posizione tabellare con il ruolo di affari e finendo per tradire proprio la netta separazione prevista dalla circolare tra le modalità e la tempistica di assegnazione dei magistrati alla posizione tabellare e le modalità e la tempistica di assegnazione degli affari ai magistrati.
Occorrerebbe, pertanto, prevedere che anche l’assegnazione degli affari segue la disciplina dell’efficacia esecutiva prevista per l’assegnazione dei magistrati alla posizione tabellare.
2. La posizione tabellare.
Diverse norme della circolare 10500/2020 fanno riferimento, a diverso titolo, alla posizione tabellare, determinando interpretazioni diverse, tra loro incompatibili, del contenuto giuridico di tale concetto.
La questione principale e sostanzialmente assorbente è se per “posizione tabellare” debba intendersi il posto nella sezione o nel collegio.
Le conseguenze pratiche sono piuttosto evidenti, quando si pensi che se si trattasse di posto nel collegio e non nella sezione, l’ultradecennalità potrebbe essere superata cambiando collegio all’interno della stessa sezione. Se si trattasse di posto nella sezione invece che nel collegio, non potrebbe essere espletato concorso interno per tramutamento nel collegio ma solo nella sezione.
L’interpretazione che pare doversi preferire è quella che individua come contenuto della posizione tabellare il posto nella sezione e non già il posto nel collegio.
Se infatti dovesse intendersi detta posizione come posto nel collegio, dovrebbero essere banditi concorsi interni per il posto nel collegio, ai quali potrebbero concorrere i magistrati assegnati ad altri collegi della stessa sezione, così rischiando di complicare, invece che risolvere, la condizione di criticità che ha indotto il dirigente dell’ufficio ad espletare il concorso interno.
Inoltre, è chiaro che l’ultradecennalità non può essere risolta mediante il cambio di collegio interno alla medesima sezione, ciò che vanificherebbe la disciplina stessa del termine decennale di permanenza e la ratio della stessa.
La questione assume maggiore rilievo, in realtà, per i casi in cui all’interno della stessa sezione esistano ruoli – monocratici o collegiali – che trattino materia specializzata, perché evidentemente i colleghi potrebbero essere interessati ad essere tramutati non tanto in quella sezione, ma a trattare il ruolo specializzato.
Tale evenienza discende direttamente da quanto argomentato al precedente §1, nella misura in cui occorre sempre ricordare che all’interno della sezione non esistono posti specializzati, ma esclusivamente ruoli di affari specializzati.
Pertanto, una volta che sia stato coperto il posto, sarà compito del presidente di sezione, secondo i criteri tabellari, assegnare gli affari, tra i quali il ruolo specializzato.
Ciò, pertanto, non pare una fondata ragione per ritenere che la posizione tabellare corrisponda al posto nel collegio invece che, come pare doversi correttamente ritenere, il posto all’interno della sezione.
Tale specificazione potrebbe essere utilmente oggetto di precisa norma secondaria nella circolare per il prossimo quadriennio.
(Immagine: Particolare da Charles Demuth, Business, olio e grafite su tela, 1921)
Sommario: 1. La procedura di modifica tabellare. - 2. La posizione tabellare. - 3. I tramutamenti interni. - 4. Il rapporto tra gip/gup e dibattimento negli uffici distrettuali. - 5. I magistrati collaboratori. - 6. Vacanze, assenze, supplenze, applicazioni. – 7. Carico di lavoro dei dirigenti degli uffici giudiziari giudicanti. - 8. La sezione feriale.
3. I tramutamenti interni.
La disciplina dei tramutamenti interni costituisce un fiume carsico che riappare frequentemente in diversi punti della circolare ed è incisa anche da disposizioni secondarie esterne, non sempre ben coordinate con la circolare per la formazione delle tabelle.
Sarebbe auspicabile che detta disciplina fosse reducta ad unum.
La finalità della disciplina che regola i tramutamenti interni, siano essi conseguenti all’assegnazione di nuovi magistrati provenienti da altri uffici o di nuova nomina, piuttosto che a concorso interno, o a scambio di posti, o a unione o separazione di sezioni, o a rientro in ruolo dal CSM o da altre amministrazioni esterne, o ad ultradecennalità o incompatibilità o necessità di potenziare sezioni o settori (e non si è certi di avere esaurito la gamma delle possibilità), è unica, e consiste nell’evitare che le posizioni tabellari possano essere assegnate fuori sacco, secondo un’espressione del passato, o comunque senza consentire la partecipazione al concorso a tutti gli interessati.
A fronte di tanto, in luogo della congerie di norme che regola ciascuno di tali casi di tramutamento o assegnazione, sarebbe maggiormente preferibile una singola disposizione la quale preveda, in linea generale, che ogni assegnazione di un magistrato ad un posto diverso da quello che occupava al momento del provvedimento debba essere preceduta da concorso interno, ad eccezione dei soli casi in cui la legge preveda il rientro in ruolo nella medesima posizione tabellare occupata al momento del collocamento fuori ruolo – sostanzialmente, soltanto i consiglieri superiori.
In questo modo, si supererebbero innumerevoli questioni interpretative determinate dalle diverse discipline recate dalla normativa secondaria in ordine alle diverse ipotesi prima richiamate.
Non si ignora che anche il rientro in ruolo di magistrati diversi dai consiglieri superiori è disciplinato da norma che prevede il rientro nella posizione tabellare occupata al momento del collocamento fuori ruolo, se ancora disponibile.
Tuttavia tale disposizione – che dimostra ulteriormente l’urgenza di specificare il contenuto giuridico del concetto di “posizione tabellare” di cui al precedente §2 – non corrisponde ad un obbligo di legge e determina diverse problematiche interpretative, come ad esempio la necessità di specificare che il periodo trascorso fuori ruolo determini l’interruzione oppure la sospensione del termine decennale e del termine minimo di permanenza nella posizione tabellare occupata prima del collocamento fuori ruolo.
Sarebbe pertanto preferibile che il rientro in ruolo di magistrati diversi dai consiglieri superiori venisse disciplinato in modo uniforme a tutte le altre assegnazioni di posti.
Se così non dovesse ritenersi, occorre coerentemente osservare che il rientro in ruolo dei magistrati diversi dai consiglieri superiori dovrebbe essere oggetto di norma specifica quanto all’efficacia sospensiva o interruttiva della quale si è detto.
In verità, come sostenuto da taluni interpreti, parrebbe corretto sostenere che durante il periodo trascorso fuori ruolo si verifica una forma di decantazione, con termine non nostro, che pare non potersi ritenere meno efficace rispetto alla decantazione verificatasi in ruolo mediante l’assegnazione ad un posto diverso.
Pertanto, dovrebbe ragionevolmente affermarsi, mediante specifica disposizione, che il periodo di collocamento fuori ruolo ha effetto equipollente all’assegnazione a diversa posizione tabellare, ai fini del termine decennale di permanenza in detta posizione nonché al termine minimo di permanenza in altra posizione tabellare prima di potere essere riassegnato alla posizione tabellare precedentemente occupata.
In tale disciplina assume poi diretta rilevanza la disciplina del concorso interno.
In particolare, la circolare 2020 prevede – del tutto condivisibilmente – che i posti di risulta che saranno coperti all’esito del concorso debbano essere indicati in sede d’interpello.
Sempre condivisibilmente, la circolare 2020 non pone limiti al numero di posti di risulta che possano essere indicati nel bando di concorso, sicché può accadere – e di fatto accade soprattutto negli uffici di maggiori dimensioni – che il dirigente indichi come risulta tutti i posti che si libereranno all’esito del concorso.
Questo sistema è senz’altro conforme a quanto poco sopra si osservava in relazione alla necessità di individuare con unica norma la disciplina di assegnazione dei posti previo concorso interno, ma incontra una difficoltà legata al numero di domande.
Se infatti, come è previsto, i magistrati possono presentare soltanto un numero limitato di domande di tramutamento interno, a fronte di un numero indefinito di posti di risulta, accadrà necessariamente che le domande dovranno essere presentate come una sorta di scommessa.
Ed in effetti, il magistrato che abbia interesse a quattro diverse posizioni tabellari, che non siano tutte comprese tra i posti pubblicati per il concorso interno, e che possa presentare solo tre domande, non potrà sapere, fino all’esito del concorso, se e quale delle posizioni tabellari a lei/lui gradite saranno pubblicate nella risulta.
In questo modo, si determinano assegnazioni sgradevolmente casuali, si alimenta sfiducia nel funzionamento del sistema e soprattutto si mortificano senza alcun motivo organizzativo le aspettative dei colleghi.
Occorrerebbe pertanto prevedere che i magistrati interessati a partecipare ad un concorso interno possano presentare domande senza un limite massimo, con l’unico obbligo – già previsto peraltro a pena di inammissibilità – di indicarne l’ordine gerarchico di gradimento.
Sempre con riferimento alla disciplina del concorso interno, occorrerebbe poi fissare espressamente un principio, e cioè che il concorso interno, quando non tutti i posti banditi siano coperti, non può chiudersi per mancanza di aspiranti, dal momento che ai posti non occupati devono essere assegnati d’ufficio magistrati non richiedenti, secondo i criteri fissati dalla circolare.
Accade invece, non di rado, che il concorso interno sia semplicemente abbandonato, limitandosi il dirigente a non coprire i posti banditi e rimasti senza aspiranti. In tal caso, può prevedersi al massimo che il dirigente possa motivare specificamente la revoca della pubblicazione interna di quei posti, mentre appare errata l’idea che quei posti restino semplicemente non assegnati.
Non sfugge, naturalmente, che la ragione di una tale scelta possa risiedere in prevalenti esigenze organizzative. Ma in tal caso il dirigente deve esplicitarle in un provvedimento motivato che possa essere valutato dal circuito del governo autonomo, non limitarsi ad abbandonare il concorso.
Per questo appare senz’altro necessaria una norma specifica in tal senso.
Altra questione che merita specifica trattazione è quella attinente alla disciplina delle attitudini.
La circolare prevede – del tutto condivisibilmente – che le attitudini prevalgano sull’anzianità, entro i noti limiti, in relazione ad una serie di materie specializzate.
A tali materie dovrebbero essere aggiunte tre materie di speciale complessità e rilevanza.
La prima è la materia delle misure di prevenzione. È noto che con decreto legislativo n. 161/2017 il Legislatore ha addirittura riformato la legge di ordinamento giudiziario (art. 7 bis) per assegnare priorità alla materia della prevenzione, in particolare per quanto attiene agli aspetti patrimoniali della stessa. Detta materia, peraltro, impone conoscenze non solo del diritto penale, ma anche del diritto commerciale, delle successioni, delle questioni fondiarie, di elementi notarili, delle procedure fallimentari. Appare pertanto assai sostenibile la necessità di inserire anche tale materia tra quelle per le quali, in sede di concorso interno, le attitudini prevalgono sull’anzianità.
La seconda è la materia della cooperazione internazionale passiva. Si tratta di materia propria delle sole corti d’appello, alle quali è attribuita dalla legge. Ebbene, detta materia si è nel tempo arricchita del mandato di arresto europeo passivo, del riconoscimento passivo di sentenze penali straniere, di misure cautelari straniere, di sanzioni pecuniarie straniere, di confische straniere, che si sono aggiunte alla tradizionale estradizione passiva e che costituiscono un quadro normativo di natura e fonti internazionali di elevatissima complessità e di sempre maggiore rilevanza pubblica (si pensi alla recente vicenda denominata giornalisticamente “Qatargate”), sicché appare senz’altro necessario prevedere, anche in relazione a tale materia, la prevalenza delle attitudini sull’anzianità.
La terza è la materia della riparazione per l’ingiusta detenzione e l’errore giudiziario. La materia, di per sé assai delicata e caratterizzata da valutazioni molto complesse, è divenuta via via di sempre maggiore interesse pubblico anche in considerazione del fatto che il Legislatore ha più volte preso atto della presenza di proposte di legge che vorrebbero collegare direttamente la responsabilità disciplinare del magistrato all’ipotesi in cui sia accolta l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione relativa ad una custodia cautelare disposta dal magistrato medesimo. Peraltro, la circolare 2020 già prevede la prevalenza delle attitudini in relazione a materia analoga, sebbene assai meno delicata e complessa, che è quella della riparazione per l’irragionevole durata del processo, sicché è paradossale l’esclusione della riparazione per ingiusta detenzione ed errore giudiziario. Poiché trattasi, dunque, di materia assai complessa e delicata, nonché di rilevante interesse pubblico, assegnata peraltro dalla legge alle sole corti d’appello, appare senz’altro ragionevole prevedere anche in relazione ad essa la prevalenza delle attitudini rispetto all’anzianità, in sede di assegnazione dei magistrati all’esito di concorso interno.
Ultima notazione relativa alla materia deve essere dedicata all’assegnazione interna provvisoria.
È noto che tale disciplina prevede che il dirigente dell’ufficio in attesa dell’esito del concorso interno possa assegnare provvisoriamente, per non oltre sei mesi, un magistrato ad un posto scoperto.
Accade non di rado che, anche per la durata di alcuni concorsi interni, l’assegnazione provvisoria sia rinnovata oltre il semestre, così tradendo la ratio dell’istituto.
Occorrerebbe, sul punto, prevedere espressamente il divieto di rinnovare l’assegnazione interna dello stesso magistrato a qualunque posto, una volta scaduto il semestre, od il minore periodo, di assegnazione interna. Almeno fino a quando il magistrato sia stato assegnato ad un posto a sèguito di concorso interno.
4. Il rapporto tra gip/gup e dibattimento negli uffici distrettuali.
Occorre considerare che il rapporto tra attività del gip/gup e attività del dibattimento è ormai profondamente inciso dalla nuova disciplina dell'udienza predibattimentale per i processi monocratici a citazione diretta nonché dall’elevatissimo carico di lavoro cautelare gravante sul gip, potenzialmente aggravato da ipotesi di collegialità allo studio del Legislatore.
A fronte di tanto, si osserva spesso il fenomeno per cui il medesimo magistrato, impegnato quale gup a definire impegnativi processi cumulativi con il rito abbreviato, abbia meno tempo da dedicare all'esame di importanti richieste cautelari, essendo prioritaria in linea generale l’esigenza di evitare la scadenza dei termini di fase relativi ai processi da definire in abbreviato.
Potrebbe essere assai utile prevedere espressamente la possibilità di coassegnare i giudici del dibattimento all’ufficio gip/gup, così da determinare l’effetto per cui i giudizi da definirsi con il rito abbreviato vengano definiti da giudici del dibattimento, mediante un turno di abbinamento gup/dibattimento.
Ciò consentirebbe ai magistrati del gip/gup di dedicare maggiori energie all’esame delle richieste cautelari di maggiore rilievo, riducendo i tempi di attesa che negli uffici distrettuali di maggiori dimensioni diventano talvolta assai rilevanti.
Lo stesso sistema di coassegnazione potrebbe consentire, negli uffici di piccole dimensioni, di distribuire il carico delle pre-dibattimentali su tutti i giudici penali dell’ufficio.
5. I magistrati collaboratori.
Soprattutto negli uffici di maggiori dimensioni, i magistrati collaboratori, che a tanto si prestino per effettivo servizio e non per acquisire titoli, costituiscono una ossatura indispensabile sui quali si regge spesso l’attività amministrativa dell’ufficio.
La previsione di durata massima di un anno nell’incarico, prorogabile per un altro anno, di cui all’art. 107 della circolare 10500/2020, appare particolarmente disfunzionale.
Accade infatti ordinariamente che alla fine del periodo i magistrati collaboratori abbiano ormai preso confidenza con le funzioni e le gestiscano al meglio, e proprio in quel momento devono necessariamente scadere.
Può essere invece maggiormente razionale immaginare che alla scadenza del periodo il dirigente dell’ufficio, previo interpello, nomini altri magistrati collaboratori per un periodo di affiancamento, all’esito del quale valutare se procedere all'avvicendamento.
Al contrario, l’attuale previsione priva l’ufficio di magistrati capaci ed esperti e rischia di esporre magistrati che non abbiano interesse a tale ruolo a doverlo svolgere per forza, senza interesse e senza entusiasmo.
Sistema senz’altro disfunzionale per l'ufficio.
Non si ignora il pur fondato tentativo di evitare il proliferare di “medagliette”, ma si ritiene che tale negativa prassi possa essere contrastata, se non privando di rilievo l’incarico in sé ai fini della nomina ad incarichi direttivi, in maniera tale da non sacrificare sull’altare di essa la funzionalità degli uffici.
6. Vacanze, assenze, supplenze, applicazioni.
Non è questa la sede per trattare del complesso rapporto tra la circolare per la formazione delle tabelle degli uffici giudicanti del 2020 e la circolare in materia di applicazioni e supplenze del 2018, arricchita nel 2021 con i magistrati delle piante organiche flessibili distrettuali, conseguiti all’abrogazione dei magistrati distrettuali.
È necessario tuttavia svolgere alcune considerazioni di sistema, dal momento che l’art. 77 della circolare 10500/2020 tocca il punto a proposito delle supplenze per il tribunale del riesame.
Occorre raccordare i presupposti ed i criteri previsti dall’art. 77 con i presupposti ed i criteri per le applicazioni endodistrettuali previsti dalla Circolare 2018 nella materia delle supplenze, applicazioni, coassegnazioni, tabelle infradistrettuali, magisttrati delle piante organiche flessibili distrettuali.
Detti criteri, già di per sé di difficile utilizzo perché posti in ordine non gerarchico e tra di loro spesso contraddittori, rischiano di divenire del tutto ingestibili, all’atto pratico, posti a confronto con le ulteriori indicazioni dell’art. 77.
Occorrerebbe pertanto prevedere che l’intera disciplina delle supplenze e applicazioni venisse rimessa alla sola circolare del 2018, eliminandone ogni aspetto dalla circolare per la formazione delle tabelle degli uffici giudicanti.
A tal proposito, appare utile rammentare che numerosi istituti prevedono discipline diverse a seconda che il posto sia vacante o scoperto per assenza.
Pur comprendendosi la ragione di fondo che determina diversità di disciplina, occorre tuttavia considerare che quando occorre garantire temporaneamente la copertura di un posto, il fatto che esso sia vacante o scoperto per assenza dovrebbe assumere un valore secondario rispetto alla disciplina delle sue modalità di temporanea copertura.
In altri termini, quando un posto non occupato deve essere coperto urgentemente e temporaneamente, sarebbe opportuno fare ricorso ad una unica disciplina (fondata su interpello, consenso, attitudini, rotazione, anzianità nel ruolo), indipendentemente dalla causa per cui quel posto non è occupato.
Ciò renderebbe assai più semplice, per il dirigente, individuare il magistrato da destinare provvisoriamente a quel posto e, per il consiglio giudiziario, verificare la fondatezza della scelta organizzativa e dell’individuazione del magistrato.
È poi necessario che le varie disposizioni coinvolte operino una precisa scelta di campo, se cioè abbia rilievo l’anzianità di ruolo, come previsto in ordine ad alcuni istituti, o l’anzianità di servizio, come previsto in ordine ad altri istituti.
È necessario, ancora, precisare se il collegio possa essere composto anche da due supplenti interni all’ufficio individuati presso altre sezioni, come prevede l’art. 5 della circolare applicazioni e supplenze del 2018, oppure no, come prevede la circolare 10500/2020.
7. Carico di lavoro dei dirigenti degli uffici giudiziari giudicanti.
È noto che l’art. 85 della circolare 10500/2020 prevede che il capo dell’ufficio debba essere assegnatario di un carico di lavoro determinato in base ad una percentuale del lavoro dell’ufficio.
Occorre indicare con maggiore precisione quale sia la base di calcolo della percentuale. La media di tutti i magistrati dell'ufficio? La media di settore? La media delle assegnazioni o delle definizioni? La media dei soli giudici o dei semidirettivi o di entrambi?
Tale specificazione appare indispensabile al fine di evitare disparità di trattamento piuttosto evidenti tra diversi uffici omologhi sul territorio nazionale.
Sempre ove si ritenga necessario, particolarmente negli uffici di maggiori dimensioni ove il lavoro amministrativo del capo è realmente assorbente, che tale carico di lavoro sia effettivamente assegnato – occorrerebbe valutare se la risposta di giustizia così ottenuta sia effettivamente funzionale al migliore interesse dei cittadini i cui processi siano assegnati al capo dell’ufficio nella misura percentuale indicata.
8. La sezione feriale.
Non è infrequente osservare alcune insolite caratteristiche delle sezioni feriali.
Particolarmente complessa è la disposizione, da taluni dirigenti adottata, secondo la quale i magistrati che non siano riusciti, entro il periodo di distacco (già cuscinetto) del mese di luglio, a depositare le motivazioni arretrate, possano restare in servizio durante il periodo feriale senza tuttavia comporre la sezione feriale, partecipando alle udienze, ai turni ed all’assegnazione degli affari di quella sezione.
Si tratta di una opzione interpretativa che, di fatto, rimette al magistrato la possibilità di deliberare di non depositare tempestivamente alcune motivazioni e, grazie a tale sua deliberazione, di precostituirsi un monte ferie da utilizzare in sèguito, restando in servizio durante il periodo feriale solo al fine di scrivere le motivazioni e non contribuendo al lavoro della sezione feriale.
Tale opzione dovrebbe essere espressamente vietata dalla circolare, essendo consentito senz’altro che il magistrato resti in servizio durante il periodo feriale per estendere motivazioni arretrate, ma sempre a condizione che partecipi al lavoro della sezione feriale mediante l’assegnazione degli affari, la partecipazione alle udienze ed ai turni di reperibilità che la tabella feriale appositamente predisposta prevede.
Altro e diverso è invece – e non pare attenere a questione tabellare – il potere del capo dell’ufficio di richiamare in servizio il magistrato in casi eccezionali per depositare motivazioni il cui ritardo determinerebbe effetti di straordinaria gravità per l’interesse pubblico.
Sulla soglia dell'umanità: l’art. 35 ter della L. 354/1975. Un dialogo interrotto tra Roma e Strasburgo.
di Ezio Romano
Sommario: 1. Introduzione. - 2. L’art. 35 ter L. 354/1975. - 3. Il rimando alla giurisprudenza della Corte EDU: una inedita formula legislativa di individuazione per relationem del dettato normativo. – 3.1. Violazione dell’art. 3 CEDU per insufficiente spazio personale: nozione, criteri di calcolo e regole di giudizio nella giurisprudenza EDU. - 4. La giurisprudenza di legittimità sul metodo di calcolo e sulle regole di giudizio: a volo d’uccello sul prima e dopo le Sezioni Unite. – 5. Mobilio fisso e letto singolo: un problema tutto italiano? –5.1. L’applicazione delle regole di giudizio da parte della Grande Camera e la mancata detrazione degli arredi. - 5.2. La lettura congiunta delle proposizioni sul calcolo dello spazio personale e di quello di libero movimento; un errore metodologico. - 5.3. Meubles, Mobili e Furnitures, una questione linguistica. – 5.4. La più ampia garanzia dei diritti possibile: tra buone intenzioni ed inefficacia della tutela. - 6. Conclusioni.
1. Introduzione.
Il presente contributo si propone di analizzare, a circa dieci anni dalla sentenza Torreggiani v. Italy della Corte EDU, l’attuale assetto normativo e giurisprudenziale in relazione al divieto di trattamenti inumani e degradanti sancito dall’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, con particolare riferimento alla disciplina di cui all’art. 35 ter della L. 354/1975 (d’ora innanzi anche O.P.) ed al diritto vivente formatosi in seno alla giurisprudenza di merito e, soprattutto, di legittimità sulla nozione di trattamento inumano e degradante.
Ciò tanto in generale quanto con specifico riferimento al tema dello spazio personale minimo, su cui la giurisprudenza di Cassazione si è più volte espressa negli ultimi anni, tenendo vivo un dibattito che non risulta essersi placato neppure dopo l’intervento delle Sezioni Unite del 2021.
Intervento che, come si avrà modo di evidenziare funditus nel prosieguo della trattazione, pare aver in parte ecceduto gli standard accolti dalla giurisprudenza convenzionale, con argomenti non del tutto condivisibili e soluzioni che hanno posto ulteriori dubbi interpretativi, facendo emergere nuovi contrasti nella giurisprudenza.
Un dibattito nato a Roma ed in gran parte estraneo a Strasburgo il cui rischio, certamente non voluto, è quello di trasformare geneticamente il giudizio nella subjecta materia in una mera applicazione di regole aritmetiche stringenti ed automatiche in cui l’esercizio della giurisdizione, chiamata a individuare l’atteggiarsi della regola al caso concreto, si arrende alla calcolatrice del geometra.
2. L’art. 35 ter L. 354/1975.
L’art. 35 ter della L. 354/1975 disciplina uno strumento di tipo risarcitorio teso a fornire tutela rispetto a quelle situazioni in cui le modalità esecutive della detenzione abbiano prodotto in via indiretta una lesione dell’art. 3 CEDU, che stabilisce, tra gli altri, il divieto di trattamenti inumani e degradanti.
Si è trattato, in verità, di una normazione forzata dalla condanna dell’Italia nel caso Torreggiani, in cui la Corte di Strasburgo aveva censurato l’assenza di un rimedio effettivo nell’ordinamento nazionale che potesse riparare alle violazioni dell’art. 3 CEDU riscontrate nel nostro paese a causa del sovraffollamento carcerario.
La norma, come confermato dalla Cassazione con la sentenza n. 3117/2016 e poi ribadito dalle Sezioni Unite Civili[1], ha introdotto un meccanismo riparatorio del tutto nuovo e atipico, con carattere prevalentemente indennitario e di matrice solidaristica, non inquadrabile in alcun modo nella disciplina civilistica come eventuale sotto partizione della generale azione risarcitoria da illecito aquiliano (ex art. 2043 c.c.).
Il meccanismo di tutela previsto si articola in due modalità di ristoro, disciplinate dai commi 1 e 2 dell’art. 35 ter O.P., secondo un criterio di quantificazione fisso e non direttamente ancorato all’entità del danno patito, come in tutti gli istituti di natura indennitario-risarcitoria.
La prima modalità, che potremmo assimilare ad un ristoro lato sensu in forma specifica, prevede che, laddove la persona abbia vissuto condizioni tali da violare l’art. 3 CEDU per un periodo superiore ai quindici giorni, il Magistrato di Sorveglianza riconosca una riduzione della pena espianda pari ad un giorno ogni dieci.
La seconda trova applicazione “quando il periodo di pena ancora da espiare non è tale da consentire la detrazione dell’intera misura percentuale di cui al comma 1 […]”, prevedendo un rimedio di tipo monetario, liquidato nella misura fissa di euro 8,00 per ogni giorno di detenzione subita in condizioni tali da violare l’art. 3 CEDU.
Presupposto per il reclamo ex art. 35 ter O.P. è il grave pregiudizio all’esercizio di diritti richiamato dagli artt. 35 bis e 69 comma 6 lettera b) O.P. con una necessaria precisazione: a differenza di quanto previsto dall’art. 69 comma 6 lettera b) O.P., il pregiudizio rilevante consiste non in una generica violazione di legge o del regolamento, ma si concreta nell’esser stato il reclamante detenuto in condizioni tali da violare l’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della L. 4 agosto 1955 n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto tradottesi in un trattamento inumano e degradante.
Ulteriore elemento peculiare del rimedio in esame rispetto al reclamo giurisdizionale di cui all’art. 35 bis O.P., attiene all’assenza del requisito dell’attualità del pregiudizio, sicché il reclamo previsto dalla norma è azionabile fisiologicamente anche in relazione a periodi detentivi già espiati.
Quando è ancora in atto la pena è, pertanto, possibile proporre reclamo innanzi al Magistrato di Sorveglianza anche in relazione a periodi detentivi antecedenti che, tuttavia devono essere afferenti al titolo in esecuzione (ad esempio periodi detentivi attribuiti a titolo di pre-sofferto o di fungibilità, ovvero ancora detenzioni imputabili a più titoli, ma poste in successione cronologica tra loro senza soluzione di continuità).
Una volta terminata l’espiazione della pena o laddove il periodo detentivo non sia afferente al titolo in esecuzione, il detenuto potrà adire direttamente il Tribunale ordinario in sede civile, come stabilito dal terzo comma dell’art. 35 ter O.P., per ottenere il ristoro di tipo monetario.
3. Il rimando alla giurisprudenza della Corte EDU: una inedita formula legislativa di individuazione per relationem del dettato normativo.
In virtù dell’espresso richiamo normativo alla giurisprudenza della Corte EDU, l’art. 35 ter O.P. individua il proprio contenuto precettivo per relationem attraverso il rinvio alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, chiamata a sua volta a definire e concretizzare i diritti e le libertà elencate nella Carta Europea dei Diritti dell’Uomo, generalmente racchiusi in enunciati e formule tendenzialmente aperti.
Si tratta, a ben vedere, di una operazione di non facile momento e che pone diversi problemi sia all’interprete che al giudice, tanto sul piano del sistema delle fonti quanto, più in concreto, sul piano della selezione della giurisprudenza EDU rilevante.
Sotto il profilo sistematico, la tecnica normativa utilizzata appare non del tutto coerente con la collocazione che la giurisprudenza della Consulta ha attribuito alla Convenzione nella gerarchia delle fonti, quale parametro interposto di costituzionalità, superiore alla legge ordinaria ma sotto-ordinato alla stessa Costituzione[2].
In un quadro così congeniato, l’art. 35 ter O.P. rinviando per la determinazione del proprio contenuto normativo alla giurisprudenza EDU, sembra consentire alla magistratura di sorveglianza di dare diretta applicazione dei principi in essa affermati e, dunque, degradare la stessa CEDU al rango di legge ordinaria.
Sotto il profilo più pragmatico della individuazione della norma rilevante, non può non osservarsi che la Corte EDU esprime una giurisprudenza necessariamente variegata, che potrebbe apparire non sempre coerente, in ragione dell’oggetto dei giudizi in cui sono chiamati a pronunciarsi i giudici di Strasburgo: la violazione nel caso sottoposto di uno dei diritti o principi enunciati dalla Convenzione.
L’approccio casistico adottato dalla Corte di Strasburgo, dunque, richiede al giudice di individuare quale interpretazione dell’art. 3 CEDU debba assurgere a parametro di integrazione del precetto normativo.
Sul punto, importanti statuizioni di principio e di metodo possono rinvenirsi nella giurisprudenza della Corte Costituzionale sul terreno dell’interpretazione convenzionalmente orientata.
Con la celebre Sentenza n. 49/2015 del 14.1.2015, infatti, la Consulta ha affermato che solo la giurisprudenza EDU espressiva di un orientamento consolidato, racchiusa in una sentenza c.d. pilota, ovvero proveniente da statuizioni della Grande Camera della Corte di Strasburgo, può assumere quel ruolo cogente per l’interprete, tale da doverne orientare l’ermeneutica in senso conforme al dettame convenzionale, e divenire parametro interposto di costituzionalità attraverso il richiamo di cui all’art. 117 della Costituzione[3].
Quanto affermato dalla Consulta sul terreno dell’interpretazione da parte del giudice deve valere evidentemente a fortiori laddove, come nel caso inedito dell’art. 35 ter O.P., la giurisprudenza EDU venga richiamata per integrare il dettato normativo: il giudice nazionale è dunque tenuto a conoscere ed attuare la giurisprudenza di Strasburgo, non avventurandosi in interpretazioni più ampie di quelle fornite dalla consolidata giurisprudenza della Corte EDU nella subjecta materia.
E ciò, si badi bene, primariamente con riferimento a quella ormai consolidata in tema di individuazione di uno spazio vitale minimo garantito (Sulejmanovic v. Italia del 16.7.2009; Ananyev c. Russia del 10.4.2012; Torreggiani c. Italia del 8.1.2013; Grande Camera del 20.10.2016 Mursic v. Croatia), ma anche rispetto ad altri profili che possono ridondare in una violazione dell’art. 3 CEDU.
Se è vero, infatti, che statisticamente il tema più indagato e di applicazione dell’art. 35 ter O.P. in ambito nazionale riguarda le condizioni di sovraffollamento carcerario e dello spazio minimo da garantire all’interno della cella, occorre precisare che il tema in esame si iscrive nel solco più ampio della giurisprudenza CEDU inerente alle condizioni della detenzione contrarie all’art. 3 CEDU.
Si tratta di una consolidata giurisprudenza, che comprende tutti quei casi in cui la violazione dell’art. 3 CEDU sotto il profilo dei trattamenti inumani e degradanti è stata ritenuta indirettamente derivante dalle modalità esecutive della privazione della libertà personale allorquando le stesse, in una valutazione complessiva, abbiano ecceduto l’inevitabile sofferenza legata alla detenzione e superato quella che la Corte indica quale soglia minima di gravità.
I parametri da ultimo indicati (superamento della sofferenza intrinseca nella privazione della libertà; superamento di una soglia minima di gravità) sono stati richiamati in numerose pronunce della Corte EDU in materia (tra le tante, Kudla v. Polonia del 1996; Kalachnikov v. Russia del 15.7.2002; Alver v. Estonia del 8.2.2006; Popov v. Russia del 13 luglio 2006; recentemente anche Georgia v. Russia II del 29 gennaio 2021 § 240 e seguenti), in cui si è affermato e consolidato il principio secondo cui “In the context of deprivation of liberty the Court has consistently stressed that, to fall under Article 3, the suffering and humiliation involved must in any event go beyond the inevitalble element of suffering and humiliation connected with detention. The State must ensure that a person in detainded in conditions which are compatible with respect of human dignity, that the manner and method of the execution of the measure do not subject him to distress or hardship of an intensity exceeding the unavoidable level of suffering inherent in detention […] When assessing conditions of detention, account has to be taken of the cumulative effects of these conditions, as well as of specific allegations made by the applicant […] The length of the period during which a person is detained in the particular conditions also has to be considered […]”[4].
3.1. Violazione dell’art. 3 CEDU per insufficiente spazio personale: nozione, criteri di calcolo e regole di giudizio nella giurisprudenza EDU.
In materia di violazione dell’art. 3 CEDU per insufficiente spazio personale derivante da sovraffollamento carcerario, giova osservare che la Corte Europea nelle proprie pronunce, pur avendo spesso fatto riferimento ad un parametro orientativo di 3 mq, ha asserito l’impossibilità di stabilire in maniera certa e definitiva lo spazio personale che deve essere riconosciuto a ciascun detenuto ai termini della Convenzione, dovendosi adottare un approccio complessivo che guardi alle particolari, specifiche condizioni della realtà vissuta dal detenuto[5].
Tale affermazione è il punto di partenza della sentenza della Grande Camera Mursic vs Croatia che rappresenta, allo stato, il principale e più solido arresto della giurisprudenza EDU in materia, non solo perché proveniente dal più ampio consesso della Corte di Strasburgo, ma anche perché con tale pronuncia la Grande Camera ha individuato le regole di giudizio e le situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 3 CEDU attraverso un’opera di raccordo e selezione degli orientamenti emersi in seno alla Corte negli anni precedenti.
È a tale sentenza, dunque, che secondo la citata giurisprudenza costituzionale occorre primariamente fare riferimento per individuare il portato precettivo dell’art. 35 ter O.P.
La sentenza Mursic v. Croatia ha, anzitutto, stabilizzato l’indirizzo secondo cui nelle celle con più occupanti a ciascun detenuto dovrebbero essere garantiti almeno 3 mq di spazio personale.
Si tratta di un approdo non del tutto scontato né condiviso all’unanimità dai giudici di Strasburgo[6], atteso che vi era forte dibattito in seno alla Grande Camera circa la necessità di adottare il più elevato standard indicato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura (d’ora innanzi CPT) nei propri report, fissato in 4 mq di spazio personale, che era stato accolto in alcune pronunce minoritarie (Cotleţ v. Romania (no. 2), n. 49549/11, §§ 34 e 36, 1.10.2013; Apostu v. Romania, n. 22765/12, § 79, 3.2.2015).
Tuttavia, la Grande Camera, a maggioranza, ha inteso ribadire che gli standard del CPT indicano livelli minimi auspicabili e svolgono, dunque, una funzione preventiva, laddove la Corte è chiamata a valutare situazioni reali ed effettive; pertanto, l’adozione di un parametro auspicabile per la valutazione dell’esistente, comporterebbe un giudizio non coerente con il tipo di tutela che la Corte EDU può assicurare nel sistema della Convenzione, andando a sovrapporsi a quella del Comitato[7].
Stabilito questo primo punto, la Corte EDU ritiene importante chiarire il metodo di calcolo dello spazio personale all’interno delle celle, affermando di fare proprio il sistema accolto dal CPT[8], secondo cui per determinare lo spazio a disposizione di ciascun detenuto occorre calcolare l’area della camera detentiva al netto del locale bagno[9] – necessariamente separato dal resto della stanza nelle celle con più occupanti[10] – ma al lordo degli arredi[11], dividendo poi tale area per il numero di detenuti ristretti.
La Corte, tuttavia, evidenzia la necessità di considerare l’incidenza dello spazio occupato dal mobilio sulla a concreta vivibilità degli ambienti, indicando che occorre anche valutare “se i detenuti avevano la possibilità di muoversi normalmente all’interno della cella”[12] (su questo passaggio della motivazione della sentenza Mursic v. Croatia si appuntano i dubbi emersi nella giurisprudenza interna, che saranno affrontati funditus più avanti nella trattazione).
Una volta determinati in linea di massima lo spazio pro capite ed il relativo criterio di calcolo, la Corte passa in rassegna le diverse situazioni che possono riscontrarsi in concreto e indica quali siano le regole di giudizio applicabili a ciascuna di esse.
Qualora lo spazio personale fruibile individuale risulti inferiore ai 3 mq per ciascun detenuto non si verifica un’automatica violazione dell’art. 3 CEDU, bensì di una “forte presunzione” di violazione della Convenzione cui si accompagna un’inversione dell’onere della prova, che pone in capo allo Stato l’obbligo di dimostrare la sussistenza di elementi in grado di escludere la violazione dell’art. 3 CEDU, secondo quello che la Corte indica come lo “strong presumption test” stabilito nel precedente Ananyev and Others v. Russia ed accolto dalla numerosa giurisprudenza successiva.
La forte presunzione, infatti, deve poter ammettere una prova contraria e può essere ribaltata dallo Stato laddove sussistano elementi positivi che, cumulativamente considerati, riescano ad escludere che nel caso concreto si sia prodotto un pregiudizio rilevante. Sarà certamente difficile, continua la Grande Camera, che la forte presunzione possa essere superata a fronte di una flagrante o prolungata carenza dello spazio minimo; ma, almeno in astratto, una prova contraria non è impossibile[13].
Conseguentemente, la sentenza Mursic v. Croatia ha affermato che, normalmente, per ribaltare la forte presunzione dovranno ricorrere congiuntamente le seguenti condizioni: a) i periodi detentivi sotto soglia dovranno essere occasionali, brevi e minori; b) il detenuto dovrà aver avuto sufficiente libertà di movimento fuori dalla cella e accesso a congrue attività trattamentali; c) la detenzione dovrà esser stata svolta in quello che può considerarsi un carcere in adeguate condizioni generali e in assenza di ulteriori fattori negativi aggravanti (cfr. §138).
Nella giurisprudenza EDU, in verità, non vi sono indicazioni univoche su cosa debba intendersi per detenzione breve, occasionale e relativamente minore; tuttavia poiché nel caso Mursic v. Croatia la Corte ha riscontrato una violazione in un periodo di ventisei giorni continuativi trascorsi dal ricorrente sotto-soglia, la giurisprudenza successiva si è orientata nel ritenere periodi superiori o prossimi a tale soglia sufficienti per affermare la sussistenza di una violazione dell’art. 3 CEDU.
Diverse sentenze più recenti, nell’applicare lo “strong presumption test”, inoltre, hanno primariamente valutato la durata del periodo detentivo, arrestandosi a tale stadio ove lo stesso fosse ritenuto non breve, occasionale e relativamente minore e, dunque, riconoscendo la produzione del danno rilevante senza ulteriore indagine sugli altri elementi compensativi (cfr. in particolare la recente J.M.B. and Others v. France del 30.1.2020).
Il dato temporale, dunque, appare il primo da tenere in considerazione.
Il secondo fattore compensativo guarda alla possibilità per i detenuti di trascorrere adeguato tempo fuori dalla cella ed avere accesso ad una congrua offerta trattamentale.
Particolarmente rilevante, in senso negativo, è l’impossibilità per il detenuto di stare fuori dalla cella o comunque di godere di un numero di ore al giorno sufficiente, e l’impossibilità di svolgere esercizio quotidiano all’aria aperta; fattori che incidono pesantemente sulla qualità della vita in Istituto, così come affermato dal secondo rapporto generale del CPT più volte citato dalla giurisprudenza della Corte EDU (v. in particolare sentenza Torreggiani) quale riferimento per i criteri valutativi da adottare in ordine alla presenza di una lesione dell’art. 3 CEDU pregiudizio.
Anche in questo caso, non vi è un parametro temporale fisso nella giurisprudenza di Strasburgo, ma può valutarsi certo come elemento fortemente positivo il rispetto del parametro delle otto ore di uscita dalla cella al giorno espressamente indicato dal secondo rapporto generale del CPT.
Sebbene tale indicazione è, infatti, da intendersi quale misura auspicabile e non rappresenta un parametro tassativo il cui mancato rispetto evidenzi un elemento autonomamente negativo, per converso, la disponibilità di un numero di ore pari o superiore allo standard auspicabile può essere fattore particolarmente idoneo ad escludere la produzione di una violazione del dettato convenzionale e, dunque, la produzione di un danno rilevante ai sensi dell’art. 35 ter O.P.
Per converso, qualora sia garantita la possibilità di uscire dalla cella per ampi lassi temporali inferiori alle otto ore, tale possibilità va attentamente bilanciata con le ulteriori condizioni detentive cumulativamente considerate.
Analoghe considerazioni possono svolgersi per l’accesso ad una congrua offerta trattamentale. Ciò che rileva è, secondo le parole del CPT, che i detenuti non vengano “lasciati a languire per settimane, a volte mesi, chiusi nelle loro celle”, venendo impegnati in attività utili al loro reinserimento sociale.
L’ultimo fattore compensativo attiene alla valutazione complessiva dell’istituto penitenziario, secondo un giudizio volto a verificare l’adeguatezza della struttura, della sua organizzazione, delle condizioni di igiene e di ogni altro elemento rilevante nel caso di specie.
Qualora lo spazio individuale in cella sia superiore a 3 mq, ma inferiore a 4 mq per ciascun detenuto, non essendovi una forte presunzione di violazione, l’elemento spaziale, comunque particolarmente ridotto, deve essere valutato unitamente ad altri fattori ambientali carcerari negativi tali da integrare il grave pregiudizio, secondo una considerazione complessiva delle condizioni detentive.
Il relativo giudizio consiste nel valutare l’incidenza dei già citati fattori compensativi – che non dovranno necessariamente ricorrere in via cumulativa – unitamente ad altri fattori di carattere positivo o negativo, esaminando tutti gli elementi che concorrono nella valutazione unitaria delle condizioni di detenzione.
In questo caso, non è il solo dato metrico a rilevare, ma l’effetto complessivo dei fattori allevianti, di ulteriori ed accertate condizioni di disagio e di altri elementi positivi che ricorrono nel caso concreto e, dunque, non espressamente tipizzati.
La valutazione, ancora una volta, dovrà essere effettuata guardando alla realtà delle condizioni di detenzione effettivamente sperimentate dal reclamante.
Da ultimo, qualora lo spazio pro capite all’interno della camera detentiva risulti pari 4 mq o superiore ai 4 mq non sussiste violazione in relazione al parametro spaziale, essendo lo stesso conforme all’indice auspicabile contemplato nelle decisioni della Corte EDU (non inferiore a 4 mq per detenuto allocato in cella collettiva in osservanza di quanto espresso da report CPT).
In questo caso, dunque, non sussiste lesione dell’art. 3 CEDU, quantomeno sotto il profilo dello spazio minimo garantito.
4. La giurisprudenza di legittimità sul metodo di calcolo e sulle regole di giudizio: a volo d’uccello sul prima e dopo le Sezioni Unite.
Sui criteri di determinazione dello spazio personale disponibile espressi dalla sentenza Mursic v. Croatia si è innestato un dibattito nella giurisprudenza interna alla Corte di Cassazione circa la necessità o meno di scomputare in fase di determinazione dello spazio pro capite l’area occupata dagli arredi tendenzialmente fissi tra cui letti e armadi.
Il filone giurisprudenziale maggioritario ha ritenuto che lo spazio occupato dai letti e armadi dovesse essere sottratto dalla metratura della camera di pernottamento, in quanto lo stesso inciderebbe sullo spazio vitale minimo nel quale i detenuti hanno la possibilità di muoversi (v. Cass. 9/9/2016 n. 52819/16).
Tale interpretazione ha ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite (SS. UU. Sentenza n. 6551 del 29/4/2021) che – valorizzando il passaggio in cui la Corte EDU ha fatto espresso riferimento alla possibilità di libero movimento dei detenuti all’interno della cella – hanno rilevato come “la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti, nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile”.
Nella sentenza citata, le Sezioni Unite hanno indicato espressamente, tra gli arredi fissi armadi pesanti, ancorati al muro e letti a castello, senza specificare se analoghe considerazioni debbano valere anche per i letti singoli.
Sul punto, pertanto, si è creata una successiva giurisprudenza che, nel solco delle affermazioni di principio rese dalle Sezioni Unite circa la necessità di detrarre dallo spazio netto della cella quegli arredi fissi e che non si possono in alcun modo spostare, suole distinguere tra letti singoli fissati al suolo ovvero amovibili.
Tale indirizzo è stato espresso dalla Suprema Corte con sentenza n. 18682/2022, in cui si afferma: “Se il letto singolo è ancorato al suolo - non è, cioè, mobile – i detenuti all’interno della cella non possono utilizzare lo spazio dallo stesso occupato per camminare e spostarsi; se, invece, non è ancorato al suolo, c’è la possibilità di spostarlo durante il giorno per specifiche necessità, al pari delle sedie e dei tavolini, e, quindi, di utilizzare il relativo spazio” (Cass. Sez. I, Sent. n. 18682/2022).
Tuttavia, successivi e più recenti arresti (Cass. Sez. I. n. 18760/2023 depositata il 4.5.2023), hanno contestato tale orientamento, evidenziando che la circostanza che il letto singolo sia o meno ancorato al pavimento non incide sulla idoneità dello stesso di rappresentare un ostacolo alla libertà di movimento del detenuto all’interno della camera detentiva, che rappresenta la statuizione principale espressa dalle Sezioni Unite.
Ciò in quanto il letto singolo, anche se non ancorato al pavimento, è comunque un arredo da intendersi quale “arredo tendenzialmente fisso” e di non facile movimentazione all’interno della stanza[14].
In tal senso, la pronuncia da ultimo citata, ribaltando la prospettiva accolta dall’attuale giurisprudenza maggioritaria, ha ritenuto che il letto singolo debba sempre essere rimosso dal calcolo della superficie netta della cella, a meno che lo stesso non sia facilmente amovibile.
Tale arresto è, per verità, allo stato minoritario, ma pare nel complesso più coerente con la ratio della lettura offerta dalle Sezioni Unite del metodo di calcolo dello spazio personale rilevante ai sensi dell’art. 3 CEDU.
Non vi è dubbio, infatti, che la giurisprudenza precedente (Cass. Sez. I, Sent. n. 18682/2022) abbia omesso di considerare che, specialmente in celle di piccole dimensioni, la possibilità per i detenuti di spostare all’occorrenza un arredo ingombrante come il letto singolo non ancorato al pavimento si risolve in una facoltà meramente teorica ed in concreto difficilmente praticabile.
Le statuizioni di principio della sentenza n. 18760/2023 del 4.5.2023, viceversa, sembrano più vicine al dictum delle Sezioni Unite e non vi è motivo di ritenere che tale orientamento non venga poi seguito dalla giurisprudenza maggioritaria in sede penale; anche perché, giova evidenziarlo, in sede civile la giurisprudenza si è già assestata in tal senso[15].
Quanto alle regole di giudizio applicabili al caso in cui lo spazio personale sia inferiore a 3 mq, le Sezioni Unite hanno richiamato (quasi) pedissequamente i paragrafi 138 e seguenti della sentenza Mursic v. Croatia, affermando il principio di diritto secondo cui i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a 3 mq solo se ricorrono congiuntamente (omettendo l’avverbio normally/normalement).
Anche la Cassazione, inoltre, ritiene primario il dato temporale; tuttavia, poiché l’art. 35 ter O.P. fissa normativamente un parametro temporale, pari a quindici giorni, per stabilire la rilevanza o meno del periodo ai fini del riconoscimento della riduzione di pena, nella giurisprudenza interna è ormai consolidato l’orientamento per cui qualsiasi periodo superiore a tale soglia sia da considerarsi non breve.
Quanto agli ulteriori criteri compensativi, non vi sono rilevanti divergenze rispetto a quanto già esposto supra al § 2.1, cui si rimanda per brevità.
5. Mobilio fisso e letto singolo: un problema tutto italiano?
Muovendo dalla rapida disamina sin qui svolta non ci si può esimere dal notare che le Sezioni Unite, nello stabilire i principi di diritto per cui nella determinazione dello spazio di 3 mq deve essere sottratta l’area occupata dagli arredi di difficile movimentazione e che i criteri compensativi debbano necessariamente ricorrere congiuntamente hanno adottato regole di giudizio più stringenti rispetto a quelle espressa dalla giurisprudenza EDU su quali condizioni detentive possano assurgere a trattamento disumano o degradante.
Se il secondo principio di diritto (necessaria compresenza dei fattori compensativi) può essere, comunque, valutato coerente con gli indirizzi CEDU, alla luce delle sentenze successive emerse nella giurisprudenza di Strasburgo, quello più problematico è il punto di partenza delle Sezioni Unite, laddove la sentenza n. 6551/2021 finisce col sovrapporre i concetti di spazio personale e quello di spazio di libero movimento ai fini della determinazione dell’operatività o meno della regola di giudizio dello strong presumption test.
Non si tratta, per verità, di una scelta inconsapevole, ma di un arresto interpretativo che le Sezioni Unite costruiscono sulla base del passaggio motivazionale in cui la Corte EDU indica che lo spazio debba essere calcolato al lordo degli arredi, ma è importante verificare se i detenuti avessero la possibilità di muoversi normalmente all’interno della cella: “On the other hand, calculation of the available surface area in the cell should include space occupied by furniture. What is important in this assessment is whether detainees had a possibility to move around within the cell normally”.
Secondo le Sezioni Unite una lettura disgiunta delle due proposizioni porterebbe a considerare la valutazione sulla libertà di movimento quale mero dato empirico, che dovrebbe essere accertato caso per caso dal Magistrato di Sorveglianza. Viceversa, una lettura sistematica delle due proposizioni porta il Collegio a ritenere che: “le stesse debbano essere lette congiuntamente, sì da attribuire loro un significato effettivo e conforme alle finalità perseguite dalla Corte e dalla legge in relazione al divieto di pene inumane e degradanti. L'interpretazione separata delle due proposizioni renderebbe il secondo parametro - quello della possibilità di muoversi normalmente nella cella - assai generico e di difficile applicazione da parte del magistrato di sorveglianza, se non in casi eclatanti di manifesta impossibilità di spostamento. Non è un caso che la Corte EDU, sia nella sentenza Ananyev c. Russia che nella decisione Muri e c. Croazia, utilizzi alternativamente due termini: «normalmente» (normally) e «liberamente» (freely), espressivi dell'evanescenza del criterio se adottato autonomamente, con conseguente rischio di penalizzazione del detenuto. La lettura combinata delle due proposizioni permette, invece, di attribuire rilievo, ai fini della possibilità di movimento in una stanza chiusa, quale è la cella, ad un armadio fisso oppure ad un pesante letto a castello che equivalgono ad una parete: in tale ottica la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti, nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile.”
A sostegno, le Sezioni Unite adducono un ulteriore argomento, di tipo etimologico, sostenendo che tale lettura sarebbe avallata dall’utilizzo da parte della Corte EDU del sostantivo "meuble" nella traduzione ufficiale della sentenza in lingua francese “En revanche, le calcul de la surface disponible dans la cellule doit inclure l'espace occupé par les meubles”. Secondo la Corte, poiché il sostantivo “indica un oggetto che può essere spostato, che è, appunto, mobile”, lo stesso può riferirsi esclusivamente a quegli arredi di facile movimento quali tavolini e sgabelli e non già al mobilio fisso o non agevolmente rimuovibile, il cui ingombro deve essere sottratto da quello valutabile ai fini dell’art. 35 ter O.P.
Da ultimo, le Sezioni Unite si preoccupano di specificare che tale interpretazione trova una propria ragione nella necessità di adottare nella subjecta materia l’interpretazione più “favorevole al benessere dei detenuti, ai quali viene garantito uno spazio più ampio concretamente utile per il movimento rispetto a quello ricavabile dalla soluzione opposta”.
A ben guardare, l’opzione ermeneutica delle Sezioni Unite non è così pianamente sostenibile ove la si ponga in relazione all’effettivo atteggiarsi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo nella materia in esame, ed appare foriera di esiti non coerenti con il sistema di tutela garantito della Convenzione.
Pur condividendo, dunque, in linea di principio gli scopi fatti propri dalla Cassazione, l’interpretazione offerta eccede evidentemente i limiti fissati dalla giurisprudenza EDU, tradendo le indicazioni espresse dalla Corte Costituzionale nella Sentenza 49/2015, fatte proprie anche dalle stesse Sezioni Unite, quantomeno in premessa del proprio iter motivazionale[16].
5.1. L’applicazione delle regole di giudizio da parte della Grande Camera e la mancata detrazione degli arredi.
Un primo rilievo critico che si può muovere alla Sentenza n. 6551 del 2021 è che nella sua ricostruzione della giurisprudenza convenzionale rilevante manca qualsiasi riferimento al caso concreto oggetto di valutazione da parte della Grande Camera nel giudizio Mursic v. Croatia, nonché a qualsiasi concreta e pratica applicazione dei principi enunciati dalla Corte di Strasburgo in altri giudizi in materia.
Come si è rilevato in premessa, infatti, la Corte EDU esprime una giurisprudenza casistica e particolare, sicché omettere di considerare il caso sottoposto all’attenzione della Corte non consente di apprezzare in che termini sia stata riscontrata una violazione della Convenzione nel caso concreto; ciò mina irrimediabilmente la comprensione dei principi e delle regole di giudizio assunte, nonché della loro applicazione.
Andando ad esaminare il caso della sentenza Mursic v. Croatia ci si può rendere conto che la Corte ha ritenuto sussistente una violazione dell’art. 3 CEDU esclusivamente in relazione ad un periodo di ventisei giorni consecutivi in cui il ricorrente aveva potuto disporre di uno spazio personale di 2,62 mq.
Nel periodo indicato il sig. Mursic era stato ristretto in una cella di 22,88 mq al lordo del bagno, 20,98 mq al netto del bagno, unitamente ad altri sette detenuti, per un numero complessivo di otto occupanti.
Il calcolo operato dalla Corte, dunque, è il seguente: 20,98 diviso 8, uguale 2,62 mq.
Poiché lo spazio personale così determinato risulta inferiore ai 3 mq, la Corte applica lo strong presumption test e, ritenendo che ventisei giorni continuativi non possano essere considerati un periodo breve, accoglie, in parte qua il reclamo.
Viceversa, negli ulteriori periodi valutati dalla Grande Camera il dato metrico è molto variabile, ma sono riportati periodi lunghi e certamente significativi in cui la persona aveva a disposizione uno spazio personale tra i 3 ed i 4 mq, calcolato secondo il criterio del CPT (al netto del bagno e al lordo degli arredi).
Ebbene, in questi casi, la Corte di Strasburgo non procede mai a rettificare le misurazioni fornite, detraendo oltre al bagno lo spazio degli arredi; operazione che, ove effettuata, avrebbe evidentemente portato il dato metrico ben al di sotto dei 3 mq di suolo calpestabile secondo l’interpretazione accolta dalle Sezioni Unite ed avrebbe, pertanto, dovuto condurre all’applicazione dello strong presumption test.
Nulla di tutto ciò avviene nella sentenza e, anzi, la Corte evidenzia che mantenendosi il dato tra i 3 ed i 4 mq al lordo degli arredi, non opera la regola di giudizio più gravosa, rigettando il reclamo del sig. Mursic per tutti gli altri periodi rispetto ai quali vi era stata richiesta.
Per meglio comprendere il punto, si riporta una porzione della tabella delle misurazioni accolte dalla Grande Camera nel caso Mursic v. Croatia e sulla base delle quali è stato operato il relativo giudizio:
Esaminando alcuni dei periodi in cui la Grande Camera non ha ritenuto integrata una lesione dell’art. 3 CEDU, ci si accorge che in gran parte di questi le regole di giudizio affermati dalle Sezioni Unite avrebbero, viceversa, comportato l’applicazione della regola di giudizio dello strong presumption test e portato ad un accoglimento del reclamo avanzato ai sensi dell’art. 35 ter O.P.
In particolare, si osservi la detenzione espiata dal sig. Mursic nella cella 1/O, di dimensioni al netto del bagno 17,8 mq ed in cui il numero degli occupanti era variabile tra i 5 ed i 6.
È evidente che la cella prevedesse una capienza massima di sei persone, il che significa che potevano essere ivi presenti o sei letti singoli o tre letti a castello da due posti o due letti a castello da tre posti.
Immaginando le dimensioni standard di un letto singolo, che occupa circa uno spazio di 1,79-1,80 mq, anche nella migliore delle ipotesi, laddove la Corte di Strasburgo avesse inteso dare rilievo nella determinazione dello spazio personale agli arredi non mobili, come ritenuto dalle Sezioni Unite, lo spazio di 17,8 mq sarebbe stato ridotto di 3,6 mq (ingombro di due letti a castello da tre posti), giungendosi a 14,2 mq di spazio di effettivo movimento all’interno della cella.
Lo spazio di libero movimento pro capite, dunque, avrebbe dovuto essere considerato pari a 2,84 mq laddove la cella era occupata da cinque detenuti e 2,36 mq quando erano presenti sei ristretti.
Viceversa, la Grande Camera esprime il suo giudizio sui calcoli indicati nella tabella su riportata, rigettando il ricorso, quanto ai periodi in cui il dato metrico di spazio personale al lordo degli arredi è superiore ai 3 mq, considerando gli stessi come spazio compreso tra i 3 ed i 4 mq e senza applicare lo strong presumption test.
Quanto al periodo 20.11.2009 -05.02.2010, in cui lo spazio personale al lordo degli arredi è appena sotto i 3 mq (2,96), la Corte applica lo strong presumption test, ma rigetta il ricorso sul punto, motivando, da un lato sulla ritenuta insufficienza delle allegazioni del ricorrente circa l’inadeguatezza del regime detentivo subìto; dall’altro sulla valutazione secondo cui il mero dato metrico era comunque prossimo ai 3 mq (sicché la restrizione era valutata di minore importanza), la persona poteva godere di un regime detentivo che assicurava cinque ore da trascorrere fuori dalla cella (numero di ore ritenuto idoneo ad alleviare gli effetti della ristrettezza di spazio personale) e l’istituto era in buone condizioni generali[17].
L’applicazione concreta che la Corte di Strasburgo fa della propria giurisprudenza, dunque, pare porsi in antitesi con la regola di giudizio espressa dalle Sezioni Unite circa lo scomputo dei mobili, nonché sulla validità del mero dato metrico a determinare, anche in situazioni non brevi, un’automatica violazione dell’art. 3 CEDU.
5.2. La lettura congiunta delle proposizioni sul calcolo dello spazio personale e di quello di libero movimento; un errore metodologico.
Passando ad esaminare l’ulteriore argomento speso dalla Cassazione, vale a dire la necessità di leggere le due proposizioni sul calcolo dello spazio e la valutazione della libertà di movimento congiuntamente e non disgiuntamente, pena rendere il secondo criterio “assai generico e di difficile applicazione da parte del magistrato di sorveglianza, se non in casi eclatanti di manifesta impossibilità di spostamento”, le Sezioni Unite sembrano non considerare il tipo di giudizio reso dalla Corte di Strasburgo e le peculiarità della giurisprudenza EDU, il cui faro è la verifica della realtà detentiva effettivamente sperimentata dal ricorrente.
La lettura disgiunta delle due proposizioni, infatti, significa esattamente che, posto che il calcolo sullo spazio personale deve essere effettuato senza considerare l’ingombro degli arredi (tutti, indistintamente), occorre tuttavia verificare se in concreto uno spazio di 3 mq o di poco superiore, dunque in astratto non problematico secondo i parametri EDU, sia reso insufficiente dalla presenza di un numero di arredi tale da non consentire il normale/libero movimento tra gli stessi.
Ma tale profilo (come si è evidenziato sopra) non incide nella determinazione della regola di giudizio applicabile, venendo al più in considerazione quale ulteriore elemento di pregiudizio (ove dedotto) da valutare unitamente agli altri elementi che hanno caratterizzato la detenzione di cui il reclamante denuncia la non conformità al divieto di trattamenti inumani e degradanti.
Questa lettura, lungi dall’essere estranea alle finalità di massima tutela dei diritti fondamentali, è in verità pienamente coerente con il tipo di giudizio che effettua la Corte EDU.
Del resto, anche da una lettura della sentenza Ananyev & others v. Russia, che rappresenta il case-law in cui per la prima volta è stato chiaramente espresso il principio della libertà di movimento ripreso poi dalla Grance Camera, ci si rende conto che tale affermazione è logicamente subordinata rispetto a quella del calcolo dello spazio personale e che, peraltro, non riguarda esclusivamente gli arredi fissi.
Il passaggio motivazionale rilevante, sul punto, si trova ai paragrafi 143 e seguenti della sentenza Ananyev & others v. Russia[18]in cui la Corte evidenzia che in alcune situazioni già giudicate si era potuto ritenere che, pur a fronte di un dato metrico di spazio personale di 3 mq, calcolato al lordo degli arredi, lo spazio in concreto consentiva a stento di camminare da una parte all’altra della cella per l’ingombro dei letti, di un tavolo e di un lavabo ricavato in una nicchia.
I casi citati dalla Corte, tuttavia, riguardano una serie di precedenti pronunce contro la Russia in cui si era accertato che il reclamante avesse avuto a disposizione uno spazio nominalmente di 3 mq secondo la metodologia di calcolo del CPT, ma in cui non era effettivamente possibile muoversi per la presenza del mobilio. In particolare, viene citata la sentenza Yevgeniy Alekseyenko v. Russia, no. 41833/04, in cui la impossibilità di movimento è stata valutata in relazione ad un periodo in cui il ricorrente aveva occupato una cella di 6 mq unitamente ad altro detenuto; cella in cui erano presenti due letti singoli, un tavolo ed un lavabo. È in queste circostanze, dunque, che il criterio del libero movimento viene in considerazione, quale valutazione suppletiva e concreta rispetto ad un formale rispetto del parametro dei 3 mq[19].
5.3. Meubles, Mobili e Furnitures, una questione linguistica.
Ulteriore argomento che le Sezioni Unite utilizzano per sostenere la propria interpretazione fa leva sull’etimologia del francese meubles, mobili in italiano, che secondo la Cassazione indicherebbe solo gli arredi che si possono spostare. Pertanto, laddove la Corte EDU indica che nella determinazione dello spazio pro capite all’interno di una cella con più occupanti non deve tenersi conto dello spazio occupato dai mobili è solo a tali elementi di arredo che la stessa si riferisce; viceversa, gli arredi fissi o non movimentabili devono essere computati quale estensione delle pareti e, dunque, detratti dall’area disponibile ai detenuti.
Il passaggio motivazionale, tuttavia, oltre a suscitare perplessità da un punto di vista etimologico[20], risulta poi intrinsecamente contraddittorio laddove le stesse Sezioni Unite evidenziano che il ragionamento condotto sul sostantivo meubles presente nel testo francese non può essere esteso all’omologo termine utilizzato nella traduzione inglese della sentenza, “furniture, che ha un'etimologia differente”.
Furniture, infatti, è un sostantivo di cui il Cambridge Dictionary fornisce la seguente definizione: “things such as chairs, tables, and beds that you put into a room or building” (cose quali sedie, tavoli e letti che si mettono in una stanza o un edificio; grassetto aggiunto dal redattore); nella lingua italiana può essere tradotto con “mobile - elemento di arredo” e sta ad indicare, etimologicamente, tutto ciò di cui è fornito un ambiente domestico e che è essenziale alle esigenze di vita.
L’indizio offerto dalla presenza del sostantivo furnitures nella versione inglese, dunque, avrebbe dovuto più correttamente orientare la comprensione del testo della sentenza Mursic v. Croatia nel senso di adottare l’interpretazione che restituisse un significato comune ad entrambe le versioni linguistiche ufficiali, intendendo il termine meubles – furniture come utilizzato per indicare gli elementi di arredo; peraltro senza distinzione tra mobili o fissi.
Se, secondo un vecchio adagio, tradurre significa tradire, il tradimento di senso in questo caso appare lampante e non condivisibile.
5.4. La più ampia garanzia dei diritti possibile: tra buone intenzioni ed inefficacia della tutela.
Da ultimo, l’interpretazione che le Sezioni Unite hanno reso della sentenza Mursic v. Croatia è dal supremo collegio giustificata sulla scorta di un argomento teleologico: quello di offrire, nel dubbio tra le due interpretazioni possibili della giurisprudenza EDU, la soluzione che assicuri la più ampia tutela possibile ai diritti delle persone ristrette, promuovendone il benessere e garantendo che le stesse abbiano maggiore spazio a disposizione.
Sebbene l’obiettivo perseguito sia certamente condivisibile (ed infatti, in linea di principio, è condiviso), da un lato non può non osservarsi che il ragionamento condotto non convince appieno e, dall’altro, lo strumento giuridico in oggetto appare, di fatto, inidoneo o comunque insufficiente allo scopo.
In primo luogo, ciò che non convince è l’asserita necessità di comporre un dubbio interpretativo che, alla luce della disamina compiuta supra, sembra, invero, non sussistere: la Corte EDU, infatti, nella concreta applicazione dei principi da essa stessa enunciati non detrae lo spazio occupato dagli arredi, se non in alcuni casi limite (in cui, peraltro, sono stati valorizzati sia gli arredi fissi che quelli non fissi letti, tavolo etc.), accogliendo per l’individuazione della regola di giudizio una nozione di spazio personale al netto del bagno e al lordo del mobilio, secondo le indicazioni del CPT.
E che tale dubbio non sussista può desumersi anche dalla circostanza che le varie dissenting opinions allegate alla sentenza Mursic v. Croatia hanno criticato la decisione della maggioranza solo nella parte in cui non ha accolto lo standard dei 4 mq indicato dal CPT, mentre in nessuna di esse si critica il metodo di calcolo adottato asserendo la necessità di detrarre lo spazio degli arredi fissi. Anzi, proprio su tali calcoli la più articolata di esse, redatta dal giudice Pinto de Albuquerque, costruisce la propria critica al decisum della maggioranza.
Ma, ponendosi in un’ottica prospettica ed evolutiva, anche la giurisprudenza di Strasburgo successiva a Mursic v. Croatia ha mantenuto fermo il metodo di calcolo indicato dal CPT, confermando l’impressione che in ambito CEDU non vi sono tentennamenti sul punto [21].
In secondo luogo, non può non evidenziarsi che la tutela offerta dall’art. 35 ter O.P. è di tipo meramente indennitario-risarcitorio, giacché interviene quando ormai la lesione del diritto fondamentale si è già prodotta, ed offre un magro ristoro rispetto alla violazione di un diritto fondamentale che sarebbe da considerarsi assoluto. In altri termini, ampliare le maglie per l’accoglimento dei reclami 35 ter O.P. anche in situazioni che in Corte EDU non determinerebbero il riconoscimento di una violazione dell’art. 3 della Convenzione, non comporta necessariamente un miglioramento per la condizione dei detenuti.
È chiaro che, a fronte di un elevato numero di accoglimenti dei reclami da parte della magistratura, potrebbe prodursi un effetto di pressione sull’Amministrazione Penitenziaria affinché adotti scelte organizzative sull’allocazione dei detenuti e sui regimi detentivi volte ad evitare che possa essere riconosciuto un pregiudizio rilevante ai sensi dell’art. 35 ter O.P.; ma si tratta, appunto, di una mera eventualità che non giustifica lo stravolgimento della giurisprudenza convenzionale in materia e, sul piano delle fonti, la messa in discussione dei limiti al potere di interpretazione della convenzione da parte del giudice nazionale.
6. Conclusioni.
La scelta ermeneutica delle Sezioni Unite della Cassazione, dunque, amplia in via pretoria la nozione di spazio personale, calcolata al lordo degli arredi, facendola coincidere con quella di spazio di libero movimento, calcolata detraendo solo gli arredi fissi o di non facile movimentazione; l’esito di tale operazione comporta l’attrazione all’interno della regola di giudizio dello strong presumption test di condizioni detentive che non verrebbero così valutate a Strasburgo.
Il combinato disposto di tale regola di giudizio con quella della necessaria compresenza di tutti i fattori compensativi, comporta in concreto il riconoscimento da parte della giurisprudenza interna di una soglia di tutela dell’art. 3 CEDU più elevata di quella fatta propria dalla Corte di Strasburgo.
Un esempio per tutti.
Un detenuto ristretto in una cella di dimensioni pari 9,50 mq, già detratto lo spazio del bagno, che condivida la stessa con un altro compagno di detenzione ha uno spazio personale di 4,75 mq.
Pertanto, quantomeno sotto il profilo spaziale, secondo la giurisprudenza della Corte di EDU si trova in una condizione compatibile con la Convenzione e, anzi, gode di uno spazio superiore a quello che il Comitato di Prevenzione della Tortura considera lo standard minimo in ottica preventiva per evitare la violazione dell’art. 3 CEDU (4 mq pro capite nelle multy occupancy cells).
Laddove lamentasse condizioni di sovraffollamento in sede convenzionale, molto probabilmente otterrebbe il rigetto del ricorso per essere la sua condizione non idonea ad assurgere a trattamento inumano o degradante.
Il medesimo giudizio, tuttavia, avrebbe esito diverso in ambito nazionale, alla luce dei principi di diritto affermati dalla Cassazione e fatti propri dalla magistratura di merito sia in sede civile che in sorveglianza. Immaginando che i due detenuti dispongano di due letti singoli di 1,80 mq ancorati al pavimento o comunque non eliminabili dalla cella, oltre a un paio di mobili da 0,35 mq ancorati al muro, dunque, non liberamente movimentabili, il giudice nazionale che applicasse i principi di diritto espressi da S.S. U.U. n. 6551 del 29/4/2021, dovrebbe rimuovere tale ingombro, pervenendo ad un dato metrico di spazio pro capite di libero movimento inferiore a 3 mq e, nello specifico, prossimo a 2,60 mq.
A questo punto, il giudice sarebbe costretto ad applicare lo strong presumption test e, laddove l’intervallo temporale fosse superiore ai 15 giorni, dovrebbe riconoscere il pregiudizio, non potendo ritenere breve la detenzione in esame.
E ciò anche laddove sussistano, in concreto, elementi ulteriori tali da bilanciare adeguatamente la ristrettezza degli spazi, quale ad esempio la vigenza del regime a celle aperte adottato in moltissimi istituti italiani, che garantisce ai detenuti otto ore al giorno da trascorrere al di fuori della propria cella, secondo lo standard del CPT, o una congrua offerta lavorativa e trattamentale che abbia impegnato la persona in un reale percorso di reinserimento.
La condizione qui descritta (che è ipotetica, ma rappresentativa della realtà di diversi istituti di pena italiani) restituisce un dato algebrico analogo a quello valutato dalla Grande Camera nel caso Mursic v. Croatia, 2,60-2,66 mq; tuttavia, è di palmare evidenza la profonda differenza intercorrente in concreto tra chi come il sig. Mursic abbia trascorso 26 giorni in una cella di 20 mq con altre cinque persone, con sole cinque ore di uscita al giorno e chi debba condividere una cella di 9,50 mq con un solo altro compagno di detenzione, potendo trascorrere almeno otto ore al di fuori della camera detentiva.
Assoggettare entrambe le situazioni alla medesima regola di giudizio, appare non solo tecnicamente, ma anche ontologicamente scorretto, svilendo il concetto stesso di trattamento inumano e degradante.
L’effetto distorsivo dell’interpretazione accolta dalle Sezioni Unite è, dunque, primariamente, quello di far scivolare nell’ambito di applicazione della regola dello strong presumption test situazioni che non dovrebbero rilevare in tal senso, almeno secondo l’attuale assetto della giurisprudenza di Strasburgo.
Ulteriore profilo problematico è l’elusione del generale divieto del giudice nazionale di adottare nozioni più ampie di quelle espresse dalla giurisprudenza di Strasburgo nell’interpretazione della Convenzione mediante la prospettazione di un dubbio ermeneutico di cui non vi è traccia in Corte EDU, con l’esercizio di un potere che (anche nell’equilibrio tra i poteri dello Stato) non compete certo al giudice nazionale.
Se, infatti, la tutela offerta dalla CEDU ai diritti fondamentali individua la soglia minima sempre derogabile in melius dai singoli Stati della Grande Europa, tale scelta pare più correttamente rientrante nelle facoltà del legislatore. Legislatore che, quantomeno rispetto all’art. 35 ter O.P., ha inteso chiaramente non volersi discostare dallo standard minimo accolto a Strasburgo, che Roma sembra aver sorpassato.
Da ultimo, l’operazione condotta si traduce in una sostanziale eliminazione degli spazi valutativi del giudice, rendendo il giudizio de quo una mera applicazione di criteri matematici fissi (su presupposti in parte anche errati) che non consentono di valutare la concreta realtà detentiva vissuta dal detenuto cui la CEDU fa costante riferimento nelle proprie sentenze.
Il cammino intrapreso dalla giurisprudenza italiana, dunque, pare assumere i tratti di quella proverbiale strada lastricata di buone intenzioni, che porta, però, lontano da porti sicuri.
[1] Cass. civ., Sez. Un., sent. 30 gennaio 2018 (dep. 8 maggio 2018) n. 11018.
[2] Si vedano le celebri sentenze gemelle 348 e 349 del 2007.
[3] Con le parole della Consulta: “Non sempre è di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all’impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano. Nonostante ciò, vi sono senza dubbio indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.
Quando tutti, o alcuni di questi indizi si manifestano, secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto.
Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011). Quest’ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripetutamente affermato di non poter «prescindere» (ex plurimis, sentenza n. 303 del 2011), salva l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del 2012), di stretta competenza di questa Corte.
Mentre, nel caso in cui sia il giudice comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale.”.
[4] ECHR, Case Mursic v. Croatia § 99.
[5] ECHR, Case Mursic v. Croatia, § 103-123: “The Court has stressed on many occasions that under Article 3 it cannot determine, once and for all, a specific number of square metres that should be allocated to a detainee in order to comply with the Convention. Indeed, the Court has considered that a number of other relevant factors, such as the duration of detention, the possibilities for outdoor exercise and the physical and mental condition of the detainee, play an important part in deciding whether the detention conditions satisfied the guarantees of Article 3 […] Accordingly, the Court’s assessment whether there has been a violation of Article 3 cannot be reduced to a numerical calculation of square metres allocated to a detainee. Such an approach would, moreover, disregard the fact that, in practical terms, only a comprehensive approach to the particular conditions of detention can provide an accurate picture of the reality for detainees”.
[6] Rilevanti, sul punto, le opinioni parzialmente dissenzienti allegate alla sentenza, tutte in massima parte concordi tra loro nel ritenere scorretta la scelta della maggioranza di adottare uno standard più basso di quello accolto dal CPT.
[7] ECHR, Case Mursic v. Croatia, § 110“[…] the Court performs a conceptually different role to the one assigned to the CPT, whose responsibility does not entail pronouncing on whether a certain situation amounts to inhuman or degrading treatment or punishment within the meaning of Article 3(see paragraph 52 above). The thrust of CPT activity is pre-emptive action aimed at prevention, which, by its very nature, aims at a degree of protection that is greater than that upheld by the Court when deciding cases concerning conditions of detention (see paragraph 47 above, the First General Report, § 51). In contrast to the CPT’s preventive function, the Court is responsible for the judicial application in individual cases of an absolute prohibition against torture and inhuman or degrading treatment under Article 3 (see paragraph 46 above). Nevertheless, the Court would emphasise that it remains attentive to the standards developed by the CPT and, notwithstanding their different positions, it gives careful scrutiny to cases where the particular conditions of detention fall below the CPT’s standard of 4 sq. m (see paragraph 106 above)”.
[8] ECHR, Case Mursic v. Croatia, § 114 “Lastly, the Court finds it important to clarify the methodology for the calculation of the minimum personal space allocated to a detainee in multi-occupancy accommodation for its assessment under Article 3. The Court considers, drawing from the CPT’s methodology on the matter, that the in-cell sanitary facility should not be counted in the overall surface area of the cell (see paragraph 51 above). On the other hand, calculation of the available surface area in the cell should include space occupied by furniture. What is important in this assessment is whether detainees had a possibility to move around within the cell normally (see, for instance, Ananyev and Others, cited above, §§ 147-148; and Vladimir Belyayev, cited above, § 34)”.
[9] La necessità di escludere lo spazio dedicato ai sanitari dal computo della cella, infatti, è stata affermata dal Comitato di Prevenzione della Tortura nei suoi report sin dagli anni ‘90, per esser poi adottata come regola di giudizio dalla Corte di Strasburgo in numerose pronunce, tra cui anche Sulejmanovic v. Italia, ove il computo dello spazio individuale è stato attuato al netto della metratura relativa all’annesso servizio igienico. Si veda ECHR, Case Sulejmanovic v. Italia v. in sentenza b) n. 3 sulle Condizioni detentive e sub Valutazioni della Corte paragrafo b) -3).
[10] Venendo, viceversa, a crearsi una condizione di promiscuità tale sufficiente, secondo la giurisprudenza EDU, a ridondare in una violazione dell’art. 3 CEDU a prescindere dal dato metrico dello spazio personale; si veda sul punto il caso. Peers v. Greece del 19 aprile 2001, in cui la Corte ha riconosciuto una violazione dell’art. 3 CEDU nell’esser stato il ricorrente ristretto unitamente ad altri detenuti in una cella in cui il bagno era a vista, costringendo gli occupanti ad espletare le proprie funzioni corporali alla presenza degli altri compagni di detenzione.
[11] ECHR, Case Mursic v. Croatia, § 114 “On the other hand, calculation of the available surface area in the cell should include space occupied by furniture. What is important in this assessment is whether detainees had a possibility to move around within the cell normally”.
[12] Già la sentenza Corte EDU Torreggiani v. Italia del 8.1.2013 aveva affermato come anche la dimensione di 3 mq pro capite, in concreto, potesse risultare non adeguata perché ridotta dall’area occupata dagli arredi, adottando un principio di valutazione già accolto l’anno prima nella sentenza Ananyev v. Russia del 10.4.2012.
[13] ECHR, Case Mursic v. Croatia, § 125 “The “strong presumption” test should operate as a weighty but not irrebuttable presumption of a violation of Article 3. This, in particular, means that, in the circumstances, the cumulative effects of detention may rebut that presumption. It will, of course, be difficult to rebut it in the context of flagrant or prolonged lack of personal space below 3 sq. m. The circumstances in which the presumption may be rebutted will be set out below.”
[14] Cass. Sez. I. n. 18760/2023, cit. § 8 e ss.
[15] Cass. civ., Sez. 6, n. 5441 del 18/02/2022; Sez. 1, n. 5064 del 24/02/2021; Sez. 3, n. 1170 del 21/01/2020, Rv. 656636-01; Sez. 1, n. 25408 del 10/10/2019; Sez. 3, n. 16896 del 25/06/2019; Sez. 3, n. 4561 del 15/02/2019; Sez. 1, n. 4096 del 20/02/2018, Rv. 647236-01.
[16] Le stesse Sezioni Unite, infatti, censurano espressamente parte della giurisprudenza interna che si era avventurata in interpretazioni della Convenzione più ampie rispetto quanto enunciato dalla Corte di Strasburgo: “Benché tali pronunce siano ispirate dalla giusta esigenza di garantire al meglio i diritti fondamentali dei detenuti, in ossequio al dettato costituzionale, è il sistema fin qui delineato che impedisce al giudice nazionale di adottare un'interpretazione dell'art. 3 della CEDU differente da quella consolidata fornita dalla Corte EDU su uno specifico aspetto, perché ciò violerebbe sia il principio dell'obbligo per il giudice comune di uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidata sulla norma conferente, sia lo stesso art. 35-ter ord. pen. che, appunto, ha reso la predetta giurisprudenza consolidata la fonte normativa mediante il rinvio per relationem più volte ricordato.” (SS. UU. Cit. § 10).
[17] ECHR, Case Mursic v. Croatia, cit. § 162 e ss. “162. Furthermore, it is undisputed by the applicant that he was allowed three hours per day of free movement outside his cell within the prison facility. Taking also into account the period of two hours of outdoor exercise, as well as the periods necessary for serving breakfast, lunch and dinner, it cannot be said that the applicant was left to languish in his cell for a significant proportion of his day without any purposeful activity. This is particularly true given the entertainment facilities available in Bjelovar Prison, such as the possibility of watching TV or borrowing books from the local library, as follows from the material available before the Court (compare Valašinas, cited above, § 111).
163. Against the above background, the Court finds that, even taking into account that the applicant was unable to obtain work, which related not only to the objective impossibility (see paragraph 20 above) but also arguably to the applicant’s previous behaviour (see paragraph 13 above), the possibility of free out-of-cell movement and the facilities available to the applicant in Bjelovar Prison could be seen as significantly alleviating factors in relation to the scarce allocation of personal space.”
[18] ECHR, Case Ananyev & others v. Russia, 10.1.2012 (final 10.4.2012): “143. The extreme lack of space in a prison cell weighs heavily as an aspect to be taken into account for the purpose of establishing whether the impugned detention conditions were “degrading” from the point of view of Article 3 (see Karalevičius v. Lithuania, no. 53254/99, § 36, 7 April 2005).[……] 147. Where the cell accommodated not so many detainees but was rather small in overall size, the Court noted that, deduction being made of the place occupied by bunk beds, a table, and a cubicle in which a lavatory pan was placed, the remaining floor space was hardly sufficient even to pace out the cell (see Yevgeniy Alekseyenko v. Russia, no. 41833/04, § 87, 27 January 2011; Petrenko v. Russia, no. 30112/04, § 39, 20 January 2011; Gladkiy, § 68, Trepashkin (no. 2), § 113, both cited above; Arefyev v. Russia, no. 29464/03, § 59, 4 November 2010; and Lutokhin, cited above, § 57).
148. It follows that, in deciding whether or not there has been a violation of Article 3 on account of the lack of personal space, the Court has to have regard to the following three elements:
(a) each detainee must have an individual sleeping place in the cell;
(b) each detainee must have at his or her disposal at least three square metres of floor space; and
(c) the overall surface of the cell must be such as to allow the detainees to move freely between the furniture items.
The absence of any of the above elements creates in itself a strong presumption that the conditions of detention amounted to degrading treatment and were in breach of Article 3.”
[19] Vale, inoltre, la pena evidenziare che nel caso sottoposto la persona aveva una sola ora di uscita dalla cella e spesso, nel corso della detenzione, aveva dovuto dormire per terra per assenza di letti.
[20] Si veda la voce della Treccani sul sostantivo/aggettivo mobile laddove si indica che:
“Un MOBILE è un oggetto d’arredamento (come un tavolo, una sedia, un letto, un armadio, un divano ecc.) che in genere ha una collocazione fissa all’interno di un edificio, ma che può essere spostato; i mobili sono solitamente presenti in tutti gli edifici, sia nelle abitazioni, sia nei luoghi di lavoro e locali pubblici (mobili in noce; fabbrica, negozio di mobili; mobili di design). 2. Quando è usato in funzione di aggettivo, mobile indica qualcosa che può essere spostato o rimosso (scaffale a piani mobili; l’invenzione della stampa a caratteri mobili), 3. oppure che si muove o può essere mosso (l’occhio e la lingua sono organi mobili). 4. In senso figurato, mobile significa mutevole, riferito soprattutto al volto di una persona (ha un viso, uno sguardo molto m.), 5. oppure incostante o volubile, riferito al carattere (temperamento m.). Il termine si usa anche in alcuni linguaggi di settori specifici: 6. in medicina, per esempio, si dice mobile un organo che si sposta in modo rilevante, molto più del normale, dalla propria sede (cuore, rene m.); 7. in fisica e chimica si dice di sostanze fluide molto scorrevoli (l’alcol è un liquido m.); 8. in filosofia, infine, si chiama mobile tutto ciò che è soggetto al movimento, in contrapposizione all’immobilità dell’assoluto, cioè di ciò che esiste di per sé ed è fondamento di tutte le cose.”
[21] Si veda la già citata sentenza J.M.B. and Others v. France del 30.1.2020. Con riferimento alla posizione del ricorrente F.R., infatti, la Corte osserva che “Dans son formulaire de requête, le requérant indique partager une cellule de 9 m2 avec deux codétenus, espace encore réduit par l’ameublement” ed accetta le misurazioni dello spazio personale sulla base delle informazioni fornite dal Governo Francese (§ 76-78), da cui risulta che lo spazio della cella al netto del bagno fosse pari 7,45 mq. Lo spazio personale valutato dalla Corte per ciascun detenuto è, pertanto quello di 2,48 mq quando vi era la presenza di due detenuti e di 3,72 mq quando il ricorrente aveva condiviso la cella con altro detenuto. La stessa pronuncia, poi, valuta le condizioni detentive nei seguenti termini: “279. La Cour note qu’il ressort du paragraphe précédent que le requérant a disposé pendant plusieurs périodes non consécutives d’un espace personnel compris entre 3 et 4 m² – de 3,72 m² exactement. 280. La Cour rappelle que lorsqu’un détenu dispose d’un espace personnel compris entre 3 et 4 m2, le facteur spatial demeure un élément de poids dans l’appréciation du caractère adéquat ou non des conditions de détention. En pareil cas, elle conclura à la violation de l’article 3 si le manque d’espace s’accompagne d’autres mauvaises conditions matérielles de détention, notamment d’un défaut d’accès à la cour de promenade ou à l’air et à la lumière naturelle, d’une mauvaise aération, d’une température insuffisante ou trop élevée dans les locaux, d’une absence d’intimité aux toilettes ou de mauvaises conditions sanitaires et hygiéniques (Muršić, précité, § 139). Dunque, la Corte valuta uno spazio personale di 3,72 mq calcolato dividendo per due 7,45 mq, applicando la regola di giudizio compresa tra 3 e 4 mq, senza ridurre ulteriormente lo spazio in ragione della presenza dei mobili.
(Immagine: 24-4-13, prison de Fresnes, intérieur de cellule, Agence Rol, 1913. Fonte: Bibliothèque Nationale de France)
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.