ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Profili applicativi della fiscalizzazione degli abusi edilizi. Nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 25 ottobre 2023, n. 9243
di Rocco Parisi
Sommario: 1. Premessa; 2. La vicenda contenziosa; 3. La riedizione del potere amministrativo a seguito dell’annullamento del titolo edilizio; 4. L’interpretazione dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 nella sentenza n. 17/2020 della Plenaria; 5. I principi chiarificatori espressi dalla sentenza n. 9243/2023 del Consiglio di Stato; 6. Conclusioni.
1. Premessa.
Con la sentenza 25 ottobre 2023, n. 9243, la seconda Sezione del Consiglio di Stato torna ad occuparsi della c.d. fiscalizzazione dell’abuso di cui all’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 (c.d. «T.U.E.»), svolgendo alcune importanti riflessioni in merito ai presupposti applicativi ed alle modalità di riesercizio del potere a seguito dell’annullamento del titolo edilizio.
Com’è noto, la «fiscalizzazione dell’abuso» rappresenta un ampio genus di matrice interpretativa in cui confluiscono diverse ipotesi, tassativamente previste dalla legge, in cui l’ordinamento giuridico ammette una mitigazione del trattamento sanzionatorio per la repressione di alcune tipologie di abusi edilizi, consentendo l’irrogazione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione delle opere abusive.
Invero, il T.U.E. prefigura diverse ipotesi di fiscalizzazione[1], inerenti ad abusi originati i) da interventi di ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale difformità (art. 33), ii) da interventi edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire (art. 34) e iii) da interventi edilizi eseguiti in conformità ad un titolo illegittimo e successivamente annullato (art. 38). Peraltro, le varie fattispecie di fiscalizzazione, essendo ancorate a ratio e logiche del tutto distinte, sono subordinate dalla legge a presupposti applicativi (nell’an) e criteri di quantificazione (nel quantum) altrettanto diversificati.
Per quanto qui di interesse, l’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001[2] disciplina il regime sanzionatorio dei c.d. «abusi edilizi sopravvenuti», realizzati in conformità ad un titolo abilitativo originariamente rilasciato dall’amministrazione (o formatosi ai sensi di legge) ma successivamente annullato, prevedendo che qualora non sia possibile procedere alla «rimozione dei vizi delle procedure amministrative» o alla «restituzione in pristino», l’amministrazione, «in base a motivata valutazione», applica in luogo della demolizione «una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite»[3].
La ratio della disposizione in esame è di graduare la risposta sanzionatoria in relazione alla gravità dell’abuso realizzato[4], introducendo un regime sanzionatorio più mite, rispetto a quello demolitorio ordinariamente previsto per la repressione degli abusi edilizi realizzati sine titulo, per le ipotesi in cui il privato abbia edificato confidando incolpevolmente nella legittimità del titolo edilizio rilasciato dall’amministrazione (o formatosi ai sensi di legge)[5], successivamente rivelatosi illegittimo ed annullato.
La gradualità del trattamento sanzionatorio si giustifica proprio in virtù della differenza tra l’animus di colui che realizza (in buona fede) un’opera conforme ad un titolo edilizio successivamente annullato, confidando nella legittimità dello stesso e dunque nella conformità dell’opera alla normativa urbanistico-edilizia[6], e lo stato soggettivo di colui che vìola scientemente la disciplina vigente, realizzando un’opera edilizia già in origine abusiva[7].
L’obiettivo perseguito dal legislatore è di individuare un giusto punto di equilibrio tra interessi antagonisti, ovvero – da una parte – quello del costruttore, che abbia legittimamente confidato nella conformità dell’opera edilizia realizzata sulla base di un titolo rilasciato dall’amministrazione, e – d’altra parte – l’interesse pubblico al corretto sviluppo urbanistico e l’interesse dei terzi danneggiati dalla realizzazione dell’opera abusiva. Composizione che, nell’ottica del legislatore, si realizza «per il tramite di una “compensazione” monetaria di valore pari al «valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite»»[8].
Peraltro, l’integrale pagamento della sanzione pecuniaria irrogata dall’amministrazione realizza ex lege i medesimi effetti sananti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’art. 36 del T.U.E.[9]
Tuttavia, deve precisarsi che l’equiparazione della fiscalizzazione dell’abuso ex art. 38 al permesso in sanatoria di cui all’art. 36 opera solo sul piano degli effetti, fermo restando la distinzione ontologica, strutturale e finalistica tra i due istituti. Nel caso della fiscalizzazione dell’abuso, infatti, il temperamento dell’obbligo di demolizione della costruzione abusiva si giustifica «in ragione, non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della stessa (oggetto della diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi»[10].
Invero, a differenza del permesso di costruire in sanatoria, la fiscalizzazione dell’abuso è una sanzione amministrativa, diversa da quella ordinaria della demolizione, costituente il prezzo che il privato è tenuto a pagare per accedere agli effetti sananti previsti dalla legge[11]. Proprio in ragione della diversa natura, l’importo viene determinato in base a criteri differenti, a seconda che si versi nell’ipotesi di sanatoria ex art. 36 o di fiscalizzazione dell’abuso di cui all’art. 38.
2. La vicenda contenziosa.
La sentenza in commento si pone all’esito di una vicenda sostanziale e processuale alquanto articolata, in cui, a seguito di diverse pronunce giudiziali ed altrettante riedizioni del potere amministrativo, gli appellanti contestavano la scelta dell’amministrazione di procedere, a fronte dell’annullamento dei titoli edilizi dei proprietari di unità immobiliari limitrofe, all’irrogazione nei confronti di questi ultimi della sanzione amministrativa pecuniaria in luogo della demolizione ex art. 38 del T.U.E.
La vicenda origina dal ricorso con cui la proprietaria di un fondo impugnava le concessioni edilizie rilasciate dal Comune di Parma per la realizzazione di due edifici sul terreno confinante, asserendone la contrarietà alle disposizioni urbanistico-edilizie sulla volumetria, le altezze e le distanze tra le costruzioni.
All’esito dei due gradi di giudizio, il Consiglio di Stato accertava la sussistenza dei profili di illegittimità contestati e, pertanto, annullava i titoli abilitativi impugnati[12].
In sede di riesercizio del potere, nel 2013 l’amministrazione adottava un provvedimento di rinnovazione dei titoli edilizi annullati, anch’esso impugnato in sede giurisdizionale e dichiarato nullo dal giudice dell’ottemperanza per violazione del giudicato[13].
A fronte della predetta declaratoria di nullità, l’amministrazione avviava un nuovo procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi, all’esito del quale, accertata l’impossibilità di procedere alla demolizione delle parti abusive senza pregiudizio della stabilità e della sicurezza delle parti conformi, disponeva l’irrogazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, ai sensi dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001.
Anche quest’ultimo provvedimento veniva impugnato dinanzi al TAR Parma dai proprietari del terreno confinante (aventi causa della ricorrente del primo giudizio), i quali asserivano che, a fronte delle precedenti pronunce di annullamento e di nullità dei titoli edilizi, l’amministrazione avrebbe dovuto necessariamente disporre la demolizione degli edifici abusivi.
Nel corso del giudizio di primo grado veniva disposta apposita verificazione, volta ad accertare l’effettiva possibilità di procedere alle demolizioni delle parti abusive degli edifici senza pregiudizio per le parti conformi.
Acquisite le risultanze istruttorie, da cui emergeva che gli interventi di demolizione sarebbero risultati – in parte – non eseguibili senza pregiudizio delle parti conformi e – per la restante parte – inidonei a consentire la conformazione del fabbricato alla normativa urbanistica, con sentenza n. 308/2022 il TAR rigettava il ricorso, accertando la legittimità della sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dal Comune.
La predetta sentenza veniva impugnata dalla parte soccombente dinanzi al Consiglio di Stato.
Con la sentenza 25 ottobre 2023, n. 9243, qui in commento, la seconda Sezione del Consiglio di Stato ha rigettato integralmente l’appello, ponendo fine ad una vicenda contenziosa durata circa vent’anni.
3. La riedizione del potere amministrativo a seguito dell’annullamento del titolo edilizio.
L’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 disciplina una peculiare ipotesi di riedizione del potere successivo all’annullamento, demandando all’amministrazione la scelta tra tre diverse alternative: i) esercizio del potere di convalida di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 con rinnovazione del titolo edilizio annullato, qualora l’annullamento fosse stato disposto per vizi procedurali o formali emendabili; ii) applicazione della sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere abusive, qualora il titolo fosse stato annullato per vizi procedimentali non emendabili o (indipendentemente dalla natura del vizio) sia comunque impossibile procedere alla rimessione in pristino; iii) demolizione delle opere abusive, ove non sussistano le condizioni per procedere secondo alcuna delle alternative precedenti.
Sicché, la demolizione dell’opera abusiva non rappresenta una conseguenza fisiologica ed automatica della pronuncia di annullamento, ricompresa tra i suoi effetti conformativi, costituendo al contrario una delle possibili soluzioni alternative (recte: quella di extrema ratio) che l’amministrazione può adottare in base alle condizioni del caso concreto[14].
La vicenda amministrativa, dunque, si riapre per intero al riesercizio del potere, che non appare affatto incastonato tra gli effetti conformativi del sindacato giurisdizionale, circoscritto invece alla sola caducazione dei titoli illegittimi, riferendosi di converso a segmenti di attività nuovi ed ulteriori rispetto a quello che in precedenza aveva condotto all’adozione del titolo abilitativo annullato.
L’unica eccezione è costituita dall’ipotesi in cui l’amministrazione proceda alla rinnovazione dei titoli edilizi annullati, così ritornando sullo stesso segmento di potere già esercitato e sindacato dal giudice[15].
Sul punto, la sentenza in commento, muovendo dal presupposto per cui l’annullamento del titolo edilizio non è idoneo a conformare in senso vincolato la successiva attività amministrativa, ha condivisibilmente sostenuto che la sentenza di annullamento «ha per oggetto il mero annullamento dei titoli edilizi e non si estende all’obbligo di demolizione delle opere realizzate sulla base dei titoli annullati»[16]. Infatti, dal giudicato deriva per l’amministrazione «un mero obbligo di risultato, consistente nell’eliminazione dei riscontrati vizi di legittimità dei titoli edilizi», demandandosi «alla discrezionalità amministrativa il quomodo, ossia l’individuazione della modalità più opportuna, tra quelle consentite dall’ordinamento, per realizzarlo alla luce delle circostanze del caso concreto»[17].
Ne deriva che la scelta dell’amministrazione di disporre la fiscalizzazione dell’abuso edilizio in luogo della demolizione, afferendo ad un’attività amministrativa del tutto diversa ed ulteriore rispetto a quella che ha condotto all’annullamento del titolo, non può essere sindacata dal giudice dell’ottemperanza (per violazione o elusione del giudicato), né tantomeno può essere assoggettata ai limiti del c.d. «one shot temperato»[18].
Diversamente opinando, infatti, verrebbe a realizzarsi un indebito sconfinamento del sindacato giudiziale, da parte del giudice dell’ottemperanza[19], in ambiti riservati a poteri amministrativi non ancora esercitati, connotati da presupposti e valutazioni del tutto diverse da quelle già compiute dall’amministrazione nell’adozione dei titoli edilizi.
L’esame realizzato dall’amministrazione a seguito dell’annullamento del titolo edilizio, nell’alternativa tra fiscalizzazione o demolizione, semplicemente non è un “riesame” dell’attività svolta in precedenza, riferendosi a profili fattuali e giuridici del tutto diversi da quelli che avevano condotto all’adozione dei titoli annullati[20], di tal guisa che viene necessariamente a realizzarsi “un azzeramento” della vicenda amministrativa ai fini dell’applicazione del «one shottemperato».
4. L’interpretazione dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 nella sentenza n. 17/2020 della Plenaria.
L’art. 38 del T.U.E. subordina l’applicazione della fiscalizzazione dell’abuso a taluni presupposti, che l’amministrazione deve puntualmente accertare ed esplicitare sulla scorta di una «motivata valutazione».
In particolare, la norma riporta due condizioni distinte ed alternative, accomunate dal medesimo presupposto costituito dall’annullamento (giudiziale o amministrativo)[21] del titolo edilizio: i) l’impossibilità di procedere alla «rimozione dei vizi delle procedure amministrative»; ii) l’impossibilità di procedere alla «restituzione in pristino» dell’opera abusiva.
A fronte di una certa genericità del dettato normativo, è sorto un acceso dibattito in ordine all’esatta perimetrazione del significato e della portata applicativa dell’istituto de quo.
In rifermento al primo presupposto delineato dalla norma, si è dibattuto circa l’effettivo significato della nozione «vizi delle procedure», discutendosi in merito alla possibilità di farvi rientrare i vizi solo formali o procedurali, ovvero anche quelli di natura sostanziale.
L’orientamento più restrittivo ha ritenuto che la fiscalizzazione dell’abuso per impossibilità di rimozione dei vizi delle procedure possa essere disposta soltanto ove il titolo edilizio sia stato annullato per vizi formali o procedurali, in caso contrario dovendo l’amministrazione necessariamente ordinare la demolizione dell’opera abusiva[22]. Secondo tale indirizzo, la fiscalizzazione non sarebbe viceversa possibile nel caso in cui il titolo sia stato annullato per vizi sostanziali, non potendo operare con effetti di condono extra legem.
Secondo un diverso orientamento, la fiscalizzazione degli abusi sopravvenuti sarebbe applicabile anche in presenza di vizi sostanziali emendabili, ammettendosi che il privato, apportando al progetto iniziale le modifiche necessarie a consentirne la conformazione alla normativa urbanistica, possa ottenere dall’amministrazione un provvedimento sanzionatorio con effetti sananti, anche in assenza della condizione della “doppia conformità” imposta dall’art. 36 del T.U.E.[23].
In virtù di una tesi ancor più permissiva, volta a massimizzare la tutela dell’affidamento del privato, la fiscalizzazione dell’abuso non sarebbe ex se preclusa neppure in presenza di vizi sostanziali non emendabili, dovendosi considerare «vizi delle procedure» tutti quelli idonei a condurre all’invalidità del titolo edilizio, indipendentemente dalla loro natura formale o sostanziale[24]. Sicché, la scelta di disporre o meno la fiscalizzazione in luogo della demolizione sarebbe demandata ad una valutazione prettamente discrezionale dell’amministrazione, da esplicitarsi attraverso una motivazione particolarmente approfondita, sindacabile dal giudice amministrativo in sede di legittimità.
Anche il riferimento normativo alla impossibilità della «restituzione in pristino» è stato oggetto di differenti ricostruzioni interpretative in giurisprudenza.
Alcune pronunce minoritarie hanno declinato l’impossibilità di demolire in senso ampio, secondo un’accezione economico-giuridica, attribuendo all’amministrazione la possibilità di effettuare una valutazione discrezionale sull’equità e sull’opportunità di disporre la fiscalizzazione in luogo della demolizione, attraverso un bilanciamento in concreto degli interessi in gioco[25].
Secondo la tesi maggioritaria, invece, l’impossibilità di demolire deve essere intesa restrittivamente, in senso tecnico-materiale, dovendo l’amministrazione accertare, all’esito di una valutazione squisitamente tecnica, l’impraticabilità concreta della demolizione, in virtù dei gravi pregiudizi (statici, antisismici, ecc.) che potrebbero derivare per le parti legittimamente edificate[26]. In tal senso, peraltro, l’interpretazione della norma risulterebbe coerente con quanto disposto dall’art. 34, comma 2, del T.U.E. in relazione all’ipotesi di fiscalizzazione per interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire.
Orbene, a fronte dell’eterogeneità delle tesi emerse, la questione inerente la corretta interpretazione dell’art. 38 del T.U.E. è stata rimessa all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[27], sia pur con precipuo riferimento al primo dei presupposti applicativi previsti dalla norma, su cui il Supremo Consesso si è pronunciato con la sentenza n. 17/2020.
In particolare, dopo aver ricostruito puntualmente i diversi orientamenti giurisprudenziali emersi sulla nozione di «vizi delle procedure», la Plenaria ha ritenuto di aderire a quello più restrittivo, ritenendo che l’art. 38 si riferisca esclusivamente a vizi formali e procedurali che, pur astrattamente emendabili, risultino in concreto, all’esito di una valutazione operata dall’amministrazione, di impossibile rimozione.
Invero, nel ragionamento seguito dalla Plenaria, a seguito dell’annullamento del titolo edilizio, l’amministrazione è tenuta anzitutto ad accertare la natura del vizio causa dell’illegittimità e, solo nel caso in cui si tratti di illegittimità formali, verificata preliminarmente l’impossibilità della loro emendabilità attraverso il potere di convalida ex art. 21-nonies della l. n. 241/1990, può procedere alla fiscalizzazione di cui all’art. 38.
Viceversa, qualora il titolo sia stato annullato per violazioni (sostanziali) della disciplina urbanistica, la fiscalizzazione risulterebbe preclusa, non potendo in ogni caso operare come forma di condono amministrativo extra legem demandato alla discrezionalità dell’amministrazione.
Tale impostazione tende a preservare il giusto bilanciamento tra tutela dell’affidamento del costruttore, tutela dell’assetto urbanistico del territorio e tutela del terzo, atteso che, ove anche la fiscalizzazione non risulti possibile (per la sussistenza di vizi sostanziali), la tutela del legittimo affidamento del costruttore potrebbe essere garantita in sede risarcitoria, in ragione della possibilità di richiedere ed ottenere in sede giudiziale il ristoro dei danni derivanti dalla lesione dell’affidamento legittimamente riposto sulla legittimità del titolo e dell’opera realizzata[28].
La tesi della Plenaria risulta condivisibile[29], specie in virtù delle argomentazioni letterali e sistematiche[30] addotte dal Supremo Consesso.
Sennonché, la pronuncia della Plenaria ha destato qualche dubbio esegetico nella parte in cui è stato sostenuto che «il riferimento ad un vizio procedurale astrattamente convalidabile delimita operativamente il campo semantico della successiva e connessa proposizione normativa riferita all’impossibilità di rimozione, dovendo per questa intendersi una impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che, sul piano astratto sarebbe suscettibile di convalida, e che per le motivate valutazioni espressamente fatte dall’amministrazione, non risulta esserlo in concreto»[31].
È stato sostenuto, infatti, che sulla scorta di tale assunto il Supremo Consesso sia andato oltre il tenore letterale della norma e la ratio che la connota, individuando nei «vizi delle procedure» la condizione prioritaria d’accesso all’impianto normativo dell’art. 38, per nulla prevista dalla legge, rispetto alla quale l’impossibilità della riduzione in pristino resterebbe sullo sfondo. Ne deriverebbe una chiara alterazione in via interpretativa del rapporto di alternatività in cui i due presupposti sono collocati dalla norma, giungendo ad escludere a priori la fiscalizzazione dell’abuso ogniqualvolta vengano in rilievo vizi sostanziali, indipendentemente dalla possibilità o meno di procedere alla demolizione.
È di piana evidenza che tale lettura della sentenza della Plenaria[32] non potrebbe essere accolta con favore, in quanto foriera di una vera e propria interpretazione creativa e manipolativa del dato normativo[33], conducendo peraltro ad un effetto sostanzialmente abrogativo dell’art. 38 in ragione della crescente dequotazione dei vizi procedimentali o formali, ad oggi cristallizzata dall’art. 21-octies comma 2 della legge n. 241/1990, e della natura vincolata diffusamente attribuita al permesso di costruire[34].
Tuttavia, si ritiene che tali dubbi possano essere superati, oltre che per ragioni di coerenza giuridica-sistematica, soprattutto in virtù di un’accurata lettura della sentenza della Plenaria.
Anzitutto, è la stessa Plenaria a delimitare preliminarmente l’oggetto della propria pronuncia, rilevando che i quesiti posti dalla Sezione rimettente si riferivano unicamente alla proposizione normativa dei «vizi delle procedure», così riconducendo a tale proposizione i principi interpretativi enunciati[35].
In secondo luogo, nel ragionamento logico seguito dal Supremo Consesso, la natura procedimentale o formale del vizio assume una priorità logica nell’alternativa tra fiscalizzazione e rinnovazione del titolo nell’esercizio dei poteri di convalida di cui all’art. 21-nonies, precludendo la fiscalizzazione ove l’amministrazione possa emendare il vizio procedimentale, ristabilendo la conformità del caso di specie al paradigma normativo. Ove ciò non sia possibile, per la non emendabilità in concreto del vizio, la natura procedimentale o formale di quest’ultimo connota di significato la successiva proposizione normativa riferita all’impossibilità della «rimozione», per tale dovendosi intendere pur sempre l’impossibilità di rimozione dei vizi procedimentali o formali. Sicché, il principio espresso dalla Plenaria risulta saldamente circoscritto al primo presupposto applicativo descritto dall’art. 38, lasciando impregiudicato ogni ulteriore accertamento sull’applicazione della fiscalizzazione per impossibilità della riduzione in pristino (a prescindere dalla natura del vizio).
Infine, ad ulteriore conferma della lettura in esame, si consideri che, dopo aver interpretato «i vizi delle procedure» nel senso di ricomprendervi solo i vizi procedurali o formali, in riferimento al caso di specie la Plenaria ha rilevato l’impossibilità di ritenere integrato tale presupposto in ragione della sussistenza di vizi sostanziali, demandando tuttavia alla Sezione rimettente ogni accertamento in fatto circa la sussistenza «dell’altra condizione, pur prevista dall’art. 38, di “impossibilità della riduzione in pristino”».
È evidente, dunque, come la stessa Plenaria abbia riconosciuto che la sussistenza di vizi sostanziali, pur escludendo l’applicazione della fiscalizzazione dell’abuso sulla scorta del primo presupposto, non impedisca tout court l’applicazione dell’istituto de quo, dovendo l’amministrazione ulteriormente accertare l’impossibilità di procedere alla restituzione in pristino.
5. I principi chiarificatori espressi dalla sentenza n. 9243/2023 del Consiglio di Stato.
Conformandosi all’orientamento consolidato in giurisprudenza[36], la sentenza in commento ha fornito un’interpretazione dell’art. 38 conforme al tenore letterale della norma ed alla logica sistematica prefigurata dal legislatore.
Anzitutto, uniformandosi all’indirizzo più restrittivo espresso dalla Plenaria, i Giudici hanno circoscritto la nozione di «vizi delle procedure amministrative» ai soli vizi procedimentali o formali non emendabili, riconoscendo alla seconda condizione (della impossibilità della «restituzione in pristino») una valenza alternativa e distinta.
Invero, nel rimarcare il rapporto di alternatività tra i due presupposti applicativi previsti dalla norma in esame, il Collegio ha espressamente sostenuto che «l’art. 38 d.p.r. 380/2001 non trova applicazione nel solo caso di impossibilità di rimozione dei vizi delle procedure amministrative, ma anche nel caso di impossibilità di riduzione in pristino del bene, laddove il titolo edilizio sia stato annullato non per vizi formali o procedurali, bensì sostanziali. Si tratta, infatti, di due condizioni eterogenee poiché la prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art. 21 nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della relativa procedura, non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla restituzione in pristino dello stato dei luoghi»[37].
Peraltro, riprendendo tale principio espresso dalla Plenaria nella sentenza n. 17/2020, il Collegio ha precisato che la pronuncia de qua «si è occupata unicamente della prima delle due condizioni», così escludendo fermamente che il riferimento ai vizi procedurali possa precludere, in caso di vizi sostanziali, la fiscalizzazione dell’abuso per impossibilità della riduzione in pristino. È interessante notare come, nel sostenere tale assunto, il Collegio abbia espressamente rigettato il motivo di gravame con cui gli appellanti, richiamando proprio i principi espressi dalla Plenaria n. 17/2020, censuravano la sentenza di primo grado nella parte in cui il TAR non aveva considerato che «la sanzione pecuniaria dell’art. 38 T.U. non è applicabile ai titoli edilizi annullati per vizi sostanziali»[38].
Ciò posto, il Collegio si è ulteriormente soffermato sul secondo presupposto applicativo dell’art. 38, relativo alla impossibilità della riduzione in pristino.
In particolare, nel rilevare nel caso di specie l’effettiva impossibilità tecnico-costruttiva di procedere alla demolizione degli abusi senza pregiudizio per le parti conformi[39], la sentenza in commento riporta alcune importanti precisazioni in merito alla stessa possibilità di individuare la sussistenza di parti conformi dell’opera abusiva nelle ipotesi di annullamento integrale del titolo edilizio.
Tale questione, infatti, è attualmente dibattuta, essendo risolta in maniera tutt’altro che univoca dalla giurisprudenza amministrativa.
Da un lato, l’orientamento più restrittivo ritiene che dall’annullamento integrale del titolo edilizio derivi «la sopravvenuta abusività del fabbricato nella sua totalità», con conseguente preclusione in radice di «ulteriori valutazioni afferenti la possibilità, o meno, di procedere alla riduzione in pristino, posto che simili valutazioni sono finalizzate ad evitare la compromissione di opere – id est: parti del fabbricato – legittimamente realizzate, che nel caso di specie non sono esistenti»[40].
Dall’altro lato, la tesi più estensiva, cui aderisce la sentenza in commento, sostiene che l’annullamento integrale del titolo edilizio non renda necessariamente abusivo in toto il fabbricato, impedendo ex se l’individuazione di porzioni legittime (potenzialmente pregiudicate dalla demolizione delle parti abusive), dovendosi al contrario verificare se le abusività accertate abbiano «riguardato porzioni ben individuate e circoscritte degli immobili, con la conseguenza che la regula iuris discendente dal giudicato impone l’eliminazione delle sole parti abusive, senza incidere su quelle legittimamente realizzate»[41].
Di talché, la fiscalizzazione dell’abuso (per impossibilità tecnica della demolizione) può essere disposta anche ove il titolo edilizio sia stato annullato integralmente, purché la difformità (sopravvenuta) sia circoscritta ad una parte dell’edificio e ciò sia puntualmente desumibile dalla motivazione del provvedimento (amministrativo o giudiziale) di annullamento. Anche in tali casi, infatti, l’amministrazione, ove ritenga, sulla scorta di motivata valutazione tecnica[42], che la demolizione delle parti abusive non possa avvenire senza pregiudizio delle parti legittimamente edificate, potrà disporre l’irrogazione della sanzione pecuniaria con effetti sananti.
6. Conclusioni.
La sentenza in commento ricostruisce opportunamente la fiscalizzazione dell’abuso in maniera conforme alla ratio ed al tenore letterale dell’art. 38.
Invero, viene fermamente rimarcato il gradualismo logico sotteso alla disposizione legislativa in esame, per cui a seguito dell’annullamento del titolo edilizio, l’amministrazione, accertata preliminarmente l’impossibilità di procedere alla rinnovazione del titolo attraverso la rimozione dei vizi procedurali o formali ex art. 21-nonies della l. n. 241/1990, provvede, sulla scorta di «motivata valutazione», a disporre la fiscalizzazione dell’abuso in luogo della demolizione laddove: i) il titolo edilizio sia stato annullato per vizi procedimentali o formali non emendabili in concreto; ii)indipendentemente dalla natura del vizio, non sia tecnicamente possibile la riduzione in pristino, in quanto gravemente pregiudizievole per le parti conformi.
Così correttamente ricostruita, la disciplina della fiscalizzazione dell’abuso, nel mitigare il meccanismo sanzionatorio dei c.d. abusi sopravvenuti, è finalizzata a tutelare la buona fede ed il legittimo affidamento del privato che abbia costruito in virtù di un titolo legittimo successivamente annullato, individuando (attraverso la previsione di apposite condizioni applicative) un opportuno punto di equilibrio con gli altri (e contrapposti) interessi in gioco, costituiti dal corretto assetto urbanistico del territorio e dalla tutela dei terzi (controinteressati rispetto al titolo edilizio ed eventualmente ricorrenti vittoriosi nel giudizio di annullamento)[43].
Un punto di equilibrio che, risultando da una precisa scelta (lato sensu politica) del legislatore, non può in alcun modo essere alterato, in ossequio al fondamentale principio della separazione dei poteri, né in sede applicativa dall’amministrazione, attraverso un rinnovato bilanciamento in concreto degli interessi, né attraverso un’interpretazione (creativa) della giurisprudenza.
Non si trascura di certo che la fiscalizzazione dell’abuso per impossibilità della riduzione in pristino, ove disposta anche in presenza di difformità sostanziali dell’opera, possa arrecare un vulnus al corretto sviluppo urbanistico del territorio ed all’interesse dei terzi pregiudicati dall’edificazione abusiva, i quali potrebbero ottenere un vantaggio solo illusorio dall’accoglimento del ricorso di annullamento proposto avverso il titolo edilizio[44].
Limitazioni di tutela, tuttavia, che, oltre ad essere adeguatamente calibrate attraverso la previsione dei presupposti applicativi indicati dall’art. 38, devono essere accettate, in quanto espressamente autorizzate dalla legge, costituendo il “prezzo” individuato dal legislatore per ricucire il “corto circuito istituzionale” ingenerato dal rilascio di un titolo edilizio illegittimo e ciò nonostante idoneo, nelle more dell’annullamento, a legittimare l’edificazione in buona fede da parte del titolare.
Pare peraltro che la tutela dei terzi, pregiudicati dalla mancata demolizione delle opere abusive, possa essere sufficientemente recuperata in via risarcitoria, riconoscendo loro la possibilità di agire nei confronti dell’amministrazione[45] per ottenere il ristoro dei pregiudizi subiti in conseguenza del rilascio del titolo illegittimo.
La via del risarcimento dei danni, infatti, pare essere percorribile dai terzi, i quali possono dimostrare in giudizio la sussistenza di un danno ingiusto (non iure e contra ius) idoneo ad incidere negativamente sulla loro situazione giuridica sostanziale, avvinto causalmente all’esecuzione del titolo edilizio illegittimo adottato dall’amministrazione, dunque meritevole di risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c.
[1] Per un esame delle diverse ipotesi di fiscalizzazione degli abusi edilizi tipizzate dal d.p.r. n. 380/2001, si veda: F. Salvia, C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, III ed., Vicenza, 2017, 233 ss.; A. Fiale, E. Fiale, Diritto Urbanistico, Napoli, 2008, 903 ss.
[2] Le disposizioni dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 ripropongono la disciplina previgente contenuta nell’art. 11 della legge n. 47/1985, introducendo l’obbligo di «motivata valutazione» in capo all’amministrazione procedente e modificando la competenza per l’irrogazione della sanzione pecuniaria (in precedenza attribuita al Sindaco).
[3] Cfr. G.G.A. Dato, Sanzioni amministrative relative ad interventi eseguiti in base a permesso annullato, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F.F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia urbanistica, Torino, 2014, 605 ss.; D. Caldirola, L’annullamento del permesso di costruire e della DIA, in S. Battini, L. Casini, G. Vesperini, C. Vitale (a cura di), Codice di edilizia e urbanistica, Milano, 2013, 1407; R. Leonardi, M. Occhiena, Commento all'art. 38, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell'edilizia, II ed., Milano, 2009, 656 ss.; A. Fiale, E. Fiale, Diritto Urbanistico, op. cit., 945 ss. Per un inquadramento generale dell’art. 38 nell’ambito della disciplina dei controlli sull’attività edilizia e del sistema sanzionatorio di repressione degli abusi, si veda M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. Giur. Edil., 3, 2022, 171 ss.; Id., Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e potere di autotutela, in Federalismi, n. 18/2019.
[4] Cfr. G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2019, 743.
[5] Al contrario, non si ritiene sia configurabile, né tantomeno tutelabile, alcun affidamento in capo al proprietario/autore dell’abuso «giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo ad ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata», atteso che il decorso del tempo e l’inerzia dell’amministrazione nella repressione dell’abuso «non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo» (cfr. Cons. St., Ad. Pl., 17 ottobre 2017, n. 9. In termini, anche Cons. St., Sez. VI, 9 agosto 2016, n. 3559).
[6] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 28 novembre 2018, n. 6753; Id., 9 aprile 2018 n. 2155 e 10 maggio 2017 n. 2160.
[7] Sulla scorta di tali considerazioni, la giurisprudenza ha sostenuto che la fiscalizzazione dell’abuso non possa applicarsi laddove il privato abbia consapevolmente concorso alla formazione o al rilascio del titolo edilizio illegittimo, celando all’amministrazione la realtà materiale-giuridico o ponendo in essere una condotta contrastante con le prescrizioni di legge confidando nel mancato (o parziale) esercizio dei poteri amministrativi di vigilanza. Infatti, «il mendacio non è equiparabile a vizio formale e l'invocata fiscalizzazione contrasterebbe con il principio di carattere generale che esclude la possibile di conformazione degli effetti di quanto dichiarato falsamente» (cfr. Cons. St., Sez. VI, 26 settembre 2022, n. 8285 e 8 aprile 2021, n. 2854).
[8] Cfr. Cons. St., Ad. Pl., 7 settembre 2020, n. 17.
[9] Su tale istituto, si veda A. Crosetti, Art. 36 Accertamento di conformità, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo Unico dell’Edilizia, Milano, 2015, 434; S. Gatto Costantino, P. Savasta, Manuale dell’urbanistica, dell’edilizia e dell’espropriazione, II ed., Lecce, 2012, 656 ss.; G. Mengoli,Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2009, 1157 ss.; P.F. Gaggero, Regolarizzazione edilizia successiva atipica e accertamento di conformità, in Riv. Giur. Ed., 2004, 4, 1397.
[10] Cfr. capo 10.2 della sentenza in commento.
[11] In tal senso anche A. Giusti, La fiscalizzazione dell’abuso edilizio fra esigenze punitive e di ripristino dell’equilibrio urbanistico, in Giur. It., 4, 2021, 925.
[12] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 2 novembre 2010, n. 7731.
[13] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 26 marzo 2019, n. 1986.
[14] Sulla scorta di tali premesse, TAR Campania, Sez. III, 2 dicembre 2022, n. 7543, ha sostenuto l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione adottata a seguito dell’annullamento del titolo edilizio, laddove nel corso del relativo procedimento l’amministrazione non abbia adeguatamente consentito al destinatario del provvedimento di esercitare le prerogative partecipative previste dalla legge n. 241/1990.
[15] La vicenda ad oggetto della sentenza in commento è emblematica delle diverse soluzioni amministrative e delle relative conseguenze processuali che si possono prospettare a seguito dell’annullamento del titolo edilizio. Si consideri, infatti, che a seguito del primo giudicato di annullamento dei titoli edilizi (intervenuto con la sentenza del Consiglio di Stato n. 7731/2010), l’amministrazione aveva adottato un provvedimento di riedizione dei titoli edilizi che, impugnato in sede di ottemperanza, era stato dichiarato nullo per contrasto con il precedente giudicato (cfr. sentenza del Consiglio di Stato n. 1986/2019). A seguito di quest’ultima declaratoria di nullità, l’amministrazione aveva deciso di procedere ai sensi dell’art. 38 con l’irrogazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, che, in quanto afferente ad una porzione di attività amministrativa distinta dalla precedente, ha seguito la strada processuale del giudizio ordinario di legittimità, non incontrando alcun limite conformativo derivante dalle pronunce precedenti.
[16] Cfr. capo 8.3 della sentenza in commento.
[17] Cfr. capo 8.5 della sentenza in commento.
[18] Com’è noto, in virtù del principio del c.d. «one shot temperato» l’amministrazione che abbia subìto l’annullamento di un proprio atto ha il potere di rinnovarlo, ma per una sola volta, dovendo riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza poter in seguito tornare a decidere sfavorevolmente, per una terza volta, neppure in relazione a profili non ancora esaminati (cfr. T.A.R. Pescara, 1 marzo 2023, n. 107; C.G.A.R.S, 18 maggio 2022, n. 597; Cons. St., Sez. VI, 4 maggio 2022, n. 3480; Cons. St., Sez. II, 14 aprile 2020, n. 2378; Cons. St., Sez. V, 8 gennaio 2019, n. 144; Cons. St., Sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660). Sulle più recenti evoluzioni giurisprudenziali in materia di «one shot temperato» e sulle questioni ivi sottese, sia consentito rimandare a R. Parisi, Il difficile punto di equilibrio tra l’effettività della tutela giurisdizionale e l’inesauribilità del potere amministrativo. Nota a T.A.R. Abruzzo - Pescara, 1 marzo 2023 n. 107, in Le note a sentenza di Giustizia insieme. Annuario della giurisprudenza amministrativa annotata 2023 (1° semestre), Napoli, 2023.
[19] Negli stessi termini si è espresso anche, in sede di ottemperanza, TAR Marche, Sez. I, 25 luglio 2022, n. 437.
[20] È interessante rilevare come nella diversa ipotesi in cui a seguito dell’annullamento del titolo edilizio l’amministrazione adotti un provvedimento di fiscalizzazione dell’abuso fondato sul primo dei presupposti previsti dall’art. 38, e questi sia annullato dal giudice amministrativo, in sede di riesercizio del potere l’amministrazione non perda comunque il potere di adottare un nuovo provvedimento di fiscalizzazione dell’abuso fondato sull’altro presupposto applicativo previsto dall’art. 38, ossia sull’impossibilità della riduzione in pristino, atteso che dal primo giudicato di annullamento non è derivato «alcun vincolo quanto all'inapplicabilità dell'art. 38 D.P.R. 380/2001 per la parte in cui consente la fiscalizzazione dell'abuso nel caso di impossibilità di riduzione in pristino» (cfr. T.A.R. Venezia, Sez. II, 3 giugno 2021, n. 736).
[21] La giurisprudenza amministrativa ormai consolidata, in cui si inserisce anche la sentenza in commento e la pronuncia n. 17/2020 della Plenaria, sostiene che ai fini dell’applicazione dell’art. 38 del T.U edilizia è indifferente che l’annullamento del titolo edilizio sia stato disposto (in autotutela) dall’amministrazione o in sede giurisdizionale, in ragione sia del tenore letterale della disposizione de qua – che «non si sofferma sulla natura giurisdizionale o amministrativa dell’annullamento» (Cons. di Stato, A.P., n. 17/2020) – che della sua ratio, volta a tutelare l’affidamento «del titolare del permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al rilascio del titolo» (cfr. capo 8.7 della sentenza in commento). Al riguardo, TAR Parma, Sez. I, 7 novembre 2022, n. 308 (sul cui appello si è pronunciata la sentenza in commento), ha sostenuto in maniera ancor più approfondita che «dalla semplice lettura della norma […] si evince chiaramente che la stessa non distingue il tipo di annullamento del permesso di costruire (amministrativo o giurisdizionale) e, dunque, la predetta norma non può certo essere oggetto di una lettura restrittiva, del tutto illogica peraltro, in base alla quale l’annullamento previsto dalla medesima sarebbe unicamente quello disposto in sede amministrativa. Il fatto che l’art. 38 non parli di “annullamento giurisdizionale” non significa, dunque, che tale tipologia di annullamento sia esclusa ma solo che la norma si applica a tale tipologia ed anche a quella (diversa) dell’annullamento amministrativo. Senza considerare che, come rilevato dallo stesso Collegio, «la casistica concreta relativa all’applicazione dell’art. 38 del DPR n. 380/2001 concerne molto più spesso gli annullamenti intervenuti in sede giurisdizionale, a seguito dei quali l’Amministrazione riemette il titolo edilizio o irroga la sanzione pecuniaria».
[22] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 9 maggio 2016, n. 1861; Id., 11 febbraio 2013, n. 753 e 16 marzo 2010 n. 1535.
[23] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 10 settembre 2015, n. 4221; Id., 8 maggio 2014, n. 2355 e 17 settembre 2012, n. 4923.
[24] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 19 luglio 2019, n. 5089; Id., 28 novembre 2018 n. 6753.
[25] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 28 novembre 2018, n. 675; Id., 16 marzo 2010, n. 1535.
[26] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 4 gennaio 2023, n. 136, laddove è stato precisato che «La riduzione in pristino, pertanto, deve risultare impraticabile alla luce di una valutazione tecnica e non di una ponderazione dei vari interessi in gioco, fra cui l'affidamento del privato nella legittimità delle opere». Infatti, «diversamente opinando, l’art. 38 d.P.R. 380/2001 si presterebbe a letture strumentali, consentendo sanatorie 'ex officio' di abusi attraverso lo strumento dell'annullamento in autotutela del titolo edilizio originario (Cons. di Stato, Sez. IV, 19/04/2022, n. 2919)». Negli stessi termini, anche Cons. St., Sez. IV, 26 settembre 2022, n. 8285; Id., 22 aprile 2021, n. 3270 e 15 dicembre 2020, n. 8032.
[27] Cfr. Cons. St., Sez. IV., 11 marzo 2020, ordinanza n. 1735, con cui si è chiesto alla Plenaria di pronunciarsi sulla «corretta interpretazione dell’art. 38 del T.U. 6 giugno 2001 n.380, nel senso di stabilire, nel caso di intervento edilizio eseguito in base a permesso di costruire annullato in sede giurisdizionale, quale tipo di vizi consenta la sanatoria che la norma prevede, ovvero l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria il cui pagamento produce, ai sensi del comma 2 dell’articolo in questione, “i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria”, istituto che comunemente si chiama “fiscalizzazione dell’abuso”».
[28] Cfr. Cons. St., Ad. Pl., n. 17/2020, capo 8.1 in diritto.
[29] In senso contrario A. Giusti, La fiscalizzazione dell’abuso edilizio fra esigenze punitive e di ripristino dell’equilibrio urbanistico, op. cit., 926 ss., laddove l’Autrice mette in luce talune criticità derivanti dall’adesione all’indirizzo restrittivo sostenuto dalla Plenaria, soprattutto in riferimento all’incerta delimitazione della categoria dei vizi formali, alla dequotazione della tutela dell’affidamento del privato ed alla complessiva coerenza dell’istituto risultante dall’interpretazione della Plenaria.
[30] A fondamento di tale assunto, la Plenaria pone ragioni, sistematiche, di tutela del corretto sviluppo urbanistico del territorio – astrattamente compromesse ove per il tramite dell’art. 38 si attribuisse all’amministrazione «una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica», nonché di tutela dei terzi, controinteressati rispetto al titolo abilitativo ed eventualmente ricorrenti vittoriosi nel giudizio di annullamento proposto dinanzi al giudice amministrativo, ritenendo che «la tutela dell’affidamento del costruttore, attraverso la fiscalizzazione dell’abuso anche in relazione a vizi sostanziali, di fatto vanificherebbe la tutela del terzo ricorrente, il quale, all’esito di un costoso e defatigante giudizio, si troverebbe privato di qualsivoglia utilità, essendo la sanzione pecuniaria incamerata dall’erario».
[31] Cfr. Cons. St., Ad. Pl., n. 17/2020, capo 5.3 in diritto.
[32] Tale lettura della Plenaria viene proposta in senso critico da C. Silvano, La “fiscalizzazione dell’abuso alla luce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato: un istituto destinato a scomparire?, in Riv. Giur. Edil., 4, 2021, 1251B ss.
[33] Tendenza, che, a dire il vero, negli ultimi anni si è manifestata in alcune pronunce della Plenaria, come dimostrato dalle sentenze “gemelle” adottate in materia di concessioni balneari marittime (sentenze 9 novembre 2021, n. 17 e n. 18), per il cui approfondimento si rimanda a: M.A. Sandulli, Sulle «concessioni balneari» alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, in Giustizia insieme, 16 febbraio 2022; A. Police, A.M. Chiariello, Le concessioni demaniali marittime: dalle sentenze dell'Adunanza Plenaria al percorso di riforma. Punti critici e spunti di riflessione, in Amministr@tivamente, 2, 2022; F. Di Lascio, Le concessioni di spiaggia tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, in Dir. Amm., 4, 2022, 1037; A. Giannelli, G. Tropea, Il funzionalismo creativo dell'adunanza plenaria in tema di concessioni demaniali marittime e l’esigenza del katékon, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 5-6, 2021, 723 ss.; M. Gola, Il Consiglio di Stato, l’Europa e le concessioni balneari: si chiude una annosa vicenda o resta ancora aperta?, in Dir. Soc., III, 2021, 401 ss.; M. Matassa, Il Consiglio di Stato “immagina” il nuovo regime giuridico delle concessioni demaniali, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 5-6, 2021, 825 ss.; R. Dipace, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, in Giustizia Insieme, 15 luglio 2021. Com’è noto, peraltro, la sentenza n. 18/2021 della Plenaria è stata impugnata ex art. 111 Cost. dinanzi alla Corte di Cassazione, sulla scorta di plurimi motivi di gravame, tra cui: illegittimo diniego della giurisdizione (per dichiarata inammissibilità degli interventi spiegati in giudizio da alcune associazioni di categoria e dalla Regione); eccesso di potere giurisdizionale, superamento dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa ed indebito esercizio di poteri legislativi ed amministrativi. Sul punto, è recentemente intervenuta la sentenza 23 novembre 2023, n. 32559 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, accogliendo il primo motivo di ricorso inerente al diniego di giurisdizione e dichiarando assorbiti gli altri.
[34] Cfr. A. Giusti, La fiscalizzazione dell’abuso edilizio, op. cit., 926.
[35] Cfr. capo 4.3.1 in diritto della sentenza n. 17/2020 della Plenaria.
[36] In termini analoghi alla sentenza in commento, si segnala anche Cons. St., Sez. VI, 4 gennaio 2023, n. 136.
[37] Cfr. Cons. St., n. 9243/2023, capi 12.2 e 12.3.
[38] Cfr. Cons. St., n. 9243/2023, capo 12. Infatti, nella sentenza di primo grado (n. 308/2022), il TAR Parma aveva espressamente rilevato che «la distinzione tra “vizi sostanziali” e “vizi procedurali” assume significato nel solo caso in cui il provvedimento ex art. 38 del DPR n. 380/2001 sia motivato con il richiamo all’impossibilità della rimozione dei “vizi delle procedure amministrative” e non anche quando il provvedimento sia motivato (come nel caso di specie) con il richiamo all’impossibilità di procedere alla “restituzione in pristino” degli abusi».
[39] Sul punto, la sentenza in commento ritiene sufficientemente motivati i provvedimenti impugnati, che richiamano i pareri tecnici con cui gli uffici tecnici amministrativi rilevavano che «l’eventuale demolizione della porzione di fabbricato oggetto di abuso può ridurre in modo significativo i livelli di sicurezza per la parte di fabbricato rimanente» (cfr. capo 13.2 della sentenza in commento).
[40] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 4 gennaio 2023, n. 136.
[41] Cfr. capo 13.7 della sentenza in commento.
[42] Alla luce del dato normativo, tale motivata valutazione può (e deve) essenzialmente riguardare due aspetti fondamentali: l’impossibilità della rinnovazione del titolo edilizio ex art. 21 nonies l. 241/1990 (ove non sia possibile e per quali ragioni); il dato tecnico, con precipuo riferimento alle ragioni sostanziali che rendono impossibile la riduzione in pristino.
[43] Aderendo a quanto recentemente sostenuto da Cons. St., Sez. II, 6 dicembre 2023, n. 10589, può definirsi «terzo» il soggetto «titolare di un interesse legittimo ‘oppositivo’, come tale legittimato ad impugnare l’altrui atto ampliativo e, specularmente, controinteressato sostanziale nel giudizio contro l’altrui diniego (o altro atto sanzionatorio-repressivo)», che «vanta una posizione qualificata nella misura in cui invoca l’osservanza di regole preordinate alla protezione (anche) della sua sfera giuridica», deducendo in giudizio «un interesse legittimo uguale e contrario a quello del destinatario dell’atto». Sulla definizione del «terzo», con particolare riferimento alla materia edilizia, si veda anche Cons St., Ad. Pl., 9 dicembre 2021, n. 22, con commento di M.A. Sandulli, La radicata incertezza intorno alla legittimazione a ricorrere in base al criterio della vicinitas, in S. Toschei (a cura di), L'attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2022.
[44] Il vulnus di tutela dei terzi era stato già evidenziato da G. Poli, La cd. fiscalizzazione dell’abuso edilizio nell’art. 38, t.u.e., in Riv. Giur. Edil., 4, 2020, 925.
[45] Diversamente, C. Silvano, La “fiscalizzazione dell’abuso” alla luce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, op. cit., 1262, ritiene che i terzi possano agire nei confronti del «soggetto intestatario del permesso di costruire annullato», al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti a causa della costruzione illegittima.
Il risiko dei termini e ambiguità sulla disciplina del reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nel rito del silenzio (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 8 gennaio 2024, n. 254)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Sulla (in)certezza e (in)stabilità degli effetti giuridici del provvedimento del commissario ad acta nel risikodei termini. 2. Il caso di specie. 3. La fase esecutiva del rito del silenzio, la disciplina e la giurisdizione sul reclamo. 4. La natura del commissario ad acta nel contesto del rito del silenzio. 5. Gli atti del commissario e l’attività. 6. Le ambiguità. 7. Una chiave di lettura.
1. Sulla (in)certezza e (in)stabilità degli effetti giuridici del provvedimento del commissario ad acta nel risikodei termini
Il codice del processo amministrativo non ha espressamente chiarito se la fase esecutiva del rito del silenzio possa equipararsi alla generale azione di ottemperanza prevista dagli artt. 112 e ss. c.p.a. creando nel corso degli anni una serie di posizioni giurisprudenziali “non del tutto univoche”[1] e quindi diverse “con intuitivi effetti anche sul piano della certezza e stabilità degli effetti giuridici discendenti dal provvedimento commissariale”[2].
La questione emerge in sede di eccezioni preliminari di irricevibilità del reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nella procedura avverso l’inerzia della pubblica amministrazione, cioè di un non-provvedimento della pubblica amministrazione, per violazione del termine stabilito dall’art. 114, c. 6, c.p.a., che è di sessanta giorni, a fronte invece di chi ha promosso reclamo secondo il rito del silenzio ai cui termini, pertanto, la proposizione del reclamo resta assoggettata, con la conseguenza di risultare tempestiva, atteso il rispetto dei termini decadenziali previsti per il rito ex art. 117 c.p.a.
A fronte di un’eccezione di irricevibilità, si pone il dilemma, che diventa un vero risiko, se nel caso del reclamo continuerebbero ad applicarsi i termini previsti per il rito del silenzio di cui all’art. 31, c. 2, c.p.a. o quelli dimidiati per i riti speciali o i termini di cui all’art. 114, c. 6. La complessa decisione di selezionare i termini appropriati implica un rischio significativo, in quanto una scelta errata potrebbe determinare conseguenze rilevanti. Questo rischio crea non poche ansie per gli operatori del diritto, in particolare gli avvocati, che devono considerare attentamente le implicazioni di ogni scelta.
Da qui scaturisce il dibattito sulla possibile applicabilità per “analogia”[3] del disposto dell’art. 114, c. 6, c.p.a. (analogia che si estende non solo alla forma del rimedio, ma anche al suo termine di impugnazione)[4] oppure perché è “implicita nel disposto del comma 4 dell’art. 117 la disciplina dell’art. 114, c. 4”[5] o ancora perché “è evidente la ratio legis di concentrare in capo al giudice la cognizione di tutte le vicende conseguenti alla pronuncia avverso il silenzio-inadempimento, ivi incluso il sindacato sugli atti commissariali eventualmente emanati”[6].
Quindi il ragionamento seguirebbe il filo logico che la previsione della nomina di un commissario ad acta nel rito del silenzio[7] “presenta somiglianze con il giudizio di ottemperanza”, anch’esso soggetto alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, come stabilito dagli artt. 112 e ss c.p.a[8].
Ulteriore ragionamento si rinviene nella considerazione pratica dello scopo dei fautori del Codice che insieme alla giurisprudenza si sono concentrati sull’obiettivo di ridurre i costi legati all’individuazione precisa del giudice competente. Questo è stato fatto cercando strumenti più semplici e chiari per definire le rispettive competenze. L’adozione di un unico procedimento che copra tutti gli atti del commissario nominato dal giudice, sia nel contesto di un giudizio di ottemperanza stricto sensu che in un giudizio sul silenzio, rientra in questa logica. Questo approccio non solo semplifica gli adempimenti richiesti alle parti coinvolte, ma contribuisce anche a rendere l’intero processo più efficiente[9]. Sul punto anche la Plenaria n. 8 del 2021 fa riferimento alla “sussistenza di una disciplina unitaria in tutte le citate ipotesi di nomina giudiziale” e quindi “sia esso un giudizio di ottemperanza, un giudizio sul silenzio ovvero un giudizio cautelare”[10].
L’applicabilità di una disciplina rispetto all’altra sposta, in particolare, i termini per l’esercizio dell’azione ma fa anche emergere in radice una serie di questioni che ruotano attorno alla natura stessa del commissario ad acta, del tipo di attività che il commissario è chiamato a svolgere, la natura degli atti posti in essere, ma anche il tipo di giurisdizione applicato al reclamo. Da qui le ulteriori questioni se in caso di contestazione da parte dell’amministrazione quest’ultima al posto di esercitare il reclamo possa agire in autotutela sugli atti del commissario stesso e, ancora, quale sia la posizione processuale dello stesso. Questioni già affrontate dalla giurisprudenza e sviluppate dalla dottrina, in particolare, in questa Rivista con gli interventi di Scognamiglio[11].
2. Il caso di specie
La questione riguarda il reclamo avverso la decisione assunta dal commissario ad acta nominato nel giudizio avverso l’illegittimo silenzio dell’ASP di Catanzaro, culminato con sentenza Tar Catanzaro sez. I, n. 725/2017 di condanna a concludere, con determinazione espressa, il procedimento di evidenza pubblica avviato nel lontano 14 giugno 2005, relativo all’affidamento in concessione di una Residenza Sanitaria Assistenziale per Anziani. Nello specifico la sentenza dichiarava l’obbligo dell’amministrazione resistente “di assumere una determinazione espressa, sia essa positiva o negativa rispetto all’interesse ad ottenere la stipulazione”, nominando al contempo, “nel caso di persistente inerzia (…) quale Commissario ad acta il Prefetto di Catanzaro, con facoltà di delega ad altro funzionario dell’ufficio, il quale assumerà la relativa decisione entro il termine dei successivi 30 giorni, quale organo straordinario dell’amministrazione”.
Il commissario ad acta, in esecuzione di quanto statuito, ha concluso il procedimento manifestando la sua “determinazione negativa, in ordine alla stipulazione di un contratto per l’affidamento in concessione novennale della gestione della residenza Sanitaria Assistenziale sita nel Comune di San Mango d’Aquino, di proprietà dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro”. In sostanza egli aveva proceduto alla revoca in autotutela degli atti di gara e dell’aggiudicazione, (piuttosto che all’annullamento d’ufficio[12]), in ragione del sostrato motivazionale del provvedimento, dal quale emergono prevalenti ragioni di inopportunità fondate su un ripensamento, anche per effetto delle sopravvenienze verificatesi, dei modi di perseguimento dell’interesse pubblico all’avvio dell’attività della Struttura. Aspetto oggetto di contestazione nel merito della controversia che va a denotare il tipo di attività svolta dal commissario stesso in base alla citata sentenza sull’inerzia che ha ritenuto sussistente “indubbiamente l’inadempimento dell’Amministrazione, che non ha concluso il procedimento di evidenza pubblica” e quindi ha statuito che “deve essere dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di assumere una determinazione espresso, sia essa positiva o negativa rispetto all’interesse ad ottenere la stipulazione”.
Avverso la determina del Commissario ad acta ha proposto reclamo ex art. 114, c. 6, c.p.a. “recte, come poi dalla stessa dichiarato: art. 117, c. 4”, la ATI aggiudicataria della concessione della R.S.A, lamentando violazione del contraddittorio (in particolare sulle ragioni ostative addotte dall’A.S.P. di Catanzaro a proposito della stipula del contratto, sulle quali non avrebbe potuto interloquire) e delle norme sull’autotutela non avendo il Commissario proceduto nelle forme dell’annullamento d’ufficio degli atti di gara. L’ATI ha pure avanzato, in subordine alla richiesta di accertamento del diritto alla stipula del contratto, domanda di risarcimento danni per responsabilità precontrattuale dell’amministrazione.
La A.S.P. di Catanzaro, costituitasi in giudizio, ha eccepito, tra l’altro, l’irricevibilità del reclamo per tardività del deposito ex art. 114, comma 6, c.p.a.[13].
Il Tar adito decideva la causa con la sentenza n. 1541 del 3 settembre 2019 che ha ritenuto infondate le eccezioni preliminari sull’irricevibilità del reclamo in quanto considera “applicabile al reclamo promosso avverso gli atti del commissario ad acta ex art. 117, comma 4, c.p.a., il rito del silenzio inadempimento (Cons. di Stato, Sez. III, 5 marzo 2018, n. 1337), ai cui termini, pertanto, la proposizione del reclamo resta assoggettata, con la conseguenza di risultare tempestiva, atteso il rispetto dei termini decadenziali dimidiati previsti per il rito ex art. 117 c.p.a.”. Inoltre ha argomentato anche sulla sussistenza della “conversione del rito in annullatorio, tenuto pure conto della domanda risarcitoria (Cons. di Stato, Sez. III, n. 1337/2018 cit.)”. Nel merito invece il Tar rigettava le censure rivolte contro la deliberazione commissariale e anche quelle sulla domanda risarcitoria.
La sentenza appellata in via principale dalla ricorrente ATI veniva altresì appellata incidentalmente dall’A.S.P. la quale l’ha ritenuta manifestamente erronea e ingiusta nelle parti in cui ha respinto le eccezioni preliminari di irricevibilità e inammissibilità del reclamo, sollevate in primo grado. Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello incidentale e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava irricevibile il ricorso di primo grado e improcedibile l’appello principale assumendo la massima che: “Il reclamo, ex art. 114, comma 6, c.p.a., rappresenta lo strumento attraverso il quale le parti, anche in un giudizio incardinato sul silenzio-inadempimento della p.a., possono impugnare gli atti del commissario ad acta, dinanzi allo stesso giudice che ha accolto il ricorso avverso il silenzio. In virtù del combinato disposto con l’articolo 117, comma 4, c.p.a., l’analogia si estende non solo alla forma del rimedio, ma anche al suo termine di impugnazione”[14].
Dalle osservazioni emerse nel paragrafo 1 e dalla ricostruzione della vicenda, emergono questioni che necessitano di un’analisi, anche se sintetica.
3. La fase esecutiva del rito del silenzio, la disciplina e la giurisdizione sul reclamo
Il procedimento del rito del silenzio, com’è noto, si compone di due fasi: una fase di cognizione e una fase di esecuzione, quest’ultima attivata solo se necessario. La fase di cognizione riguarda l’accertamento da parte del giudice della violazione dell’obbligo di adottare un provvedimento e la condanna dell’amministrazione a farlo. È ben possibile nella fattispecie ex art. 31 c. 3, c.p.a. che il giudice stesso possa pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa. Fuori da questi casi vi è la fase (eventuale) di esecuzione che viene attivata nel caso in cui l’amministrazione non adotti il provvedimento entro il termine stabilito dal giudice. Questa fase prevede la nomina di un commissario ad acta, il quale provvede a sostituire l’amministrazione nell’adozione dell’atto, come stabilito dall’articolo 117, c. 3, c.p.a. il quale prevede che “il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente su istanza della parte interessata”. L’esigenza di una supplenza giudiziaria si manifesta quando non vi possa essere un vuoto di tutela giurisdizionale e debba essere assicurata l’effettività della pronuncia.
Nella fase di esecuzione si innesta l’ulteriore fase (eventuale) data dal reclamo avverso gli atti del commissario ad acta, con l’inciso del comma 4 in base al quale “il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”.
Nel testo del Codice non viene fornita alcuna indicazione riguardo alla procedura di reclamo, avviando così il dibattito sulla disciplina da seguire per i reclami riguardanti gli atti del commissario ad acta all’interno del rito del silenzio. Vi è solamente l’inciso del richiamato comma 4 dell’art. 117 c.p.a., il quale prospetta la possibilità, di impugnare questi atti mediante reclamo al medesimo giudice del rito del silenzio, al pari di quanto accade tra le parti nel giudizio di ottemperanza per l’impugnativa degli atti commissariali ai sensi dell’art. 114, c. 6, c.p.a[15].
Quindi, in base a questa ricostruzione, il reclamo si colloca nella fase del processo esecutivo di ottemperanza e quindi rientra nella giurisdizione di merito.
4. La natura del commissario ad acta nel contesto del rito del silenzio
Oggettivamente, anche a voler sostenere l’analogia della prima parte del comma 6 dell’art. 114 con quella del comma 4 dell’art. 117, la designazione del commissario ad acta presenta aspetti concettuali e operativi distinti a seconda che avvenga nell’ambito del procedimento di ottemperanza o nel contesto del rito del silenzio[16].
Nel caso dell’ottemperanza, il commissario assume il ruolo di mandatario del giudice, incaricato di attuare una decisione già presa dal giudice stesso, con la possibilità per quest’ultimo di esaminare tutte le questioni correlate, conformemente a quanto previsto dal dall’art. 114, c. 6, c.p.a.
Al contrario, nel contesto dell’inerzia, l’organo commissariale è chiamato per la prima volta a pronunciarsi su una richiesta rimasta inevasa, seguendo un ordine giudiziario volto a superare l’inerzia.
Quindi si è dibattuta la natura del commissario ad acta nel contesto del rito del silenzio, chiedendosi se egli agisca come ausiliario del giudice o dell’amministrazione. Mentre nell’ambito dell’ottemperanza è consolidato il ruolo del commissario come ausiliario del giudice[17], nel contesto del rito del silenzio questo ruolo presenta alcune peculiarità che hanno indotto la dottrina e la giurisprudenza ad assumere posizioni di distinzione rispetto alla figura nell’ottemperanza, almeno fino alla Plenaria n. 8 del 2021. La questione sebbene cristallizzata dalla Plenaria stessa in termini di unitarietà di disciplina secondo la quale le soluzioni: “valgono in tutte le ipotesi in cui il processo amministrativo contempla la nomina di un commissario ad acta la quale può essere disposta con la sentenza che definisce il giudizio di merito; in sede di ottemperanza al giudicato; in sede di esecuzione di una pronuncia esecutiva o di una ordinanza cautelare; all’esito del ricorso contro il silenzio”[18] non convince del tutto e non è esente da critiche dalla dottrina molto attenta sul tema[19].
In termini ricostruttivi, si notava che il commissario ad acta nel rito del silenzio disponesse di poteri più ampi rispetto a una semplice sentenza di accertamento dell’obbligo di adottare un provvedimento. Sulla base di questa considerazione il commissario ad acta non fungerebbe propriamente da ausiliario del giudice, bensì assumerebbe un ruolo di ausiliario dell’amministrazione. Ciò avviene poiché il suo compito non è tanto quello di adottare direttamente il provvedimento, dal momento che la sentenza non può sostituirsi all’amministrazione in tal senso, ma piuttosto di impegnarsi affinché siano soddisfatti tutti i requisiti necessari affinché l’amministrazione possa prendere una decisione e quindi avviare l’attività procedimentale e organizzativa come ad es. indire una conferenza di servizi o addivenire ad accordi amministrativi[20].
In situazioni in cui una sentenza impone all’amministrazione l’obbligo di provvedere, il commissario si trova spesso a prendere decisioni senza alcun vincolo sul contenuto sostanziale dell’atto da adottare, a meno che il giudice del silenzio non si sia pronunciato sull’oggetto della pretesa, come previsto dall’articolo 31, c. 3, c.p.a. Il commissario ad acta assume la funzione di redigere l’atto sostitutivo, valutando ogni aspetto, anche discrezionale, come farebbe l’amministrazione stessa.
Nel contesto del giudizio di ottemperanza, invece il vincolo è costituito dall’effetto conformativo del giudicato. Di conseguenza, emerge comunque la differenza dal giudizio di ottemperanza sul punto che non si potrebbe considerare il commissario nell’inerzia come una mera estensione del giudice in quanto egli svolge un’attività di pura sostituzione nell’esercizio del potere proprio dell’amministrazione soccombente. Il collegamento alla pronuncia giudiziale insiste solo per quanto attiene al presupposto della prolungata inerzia dell’amministrazione medesima[21].
Per altro verso, non senza le riserve sopra evidenziate, si ritiene oggi che il commissario ad acta nominato nello speciale rito avverso il silenzio dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 117, c. 3, c.p.a. così come quello nominato in sede di ottemperanza, sia un ausiliario del giudice e non un organo straordinario dell’amministrazione instaurando con l’amministrazione una relazione intersoggettiva e non interorganica[22].
5. Gli atti del commissario e l’attività
Inoltre volendo indagare la posizione processuale del commissario ad acta in base alla tesi del sostituto dell’amministrazione, il commissario agisce come uno degli attori processuali ed è tenuto ad attenersi alle regole applicabili a tali soggetti, comprese le modalità di costituzione in giudizio. Invece se il commissario opera come ausiliario del giudice, è possibile ammettere una certa flessibilità nei mezzi, poiché egli agisce all’interno di un ambito di competenza del giudice stesso[23]. La giurisprudenza sembra preferire questa seconda posizione e nota come l’intervento del commissario ad acta nel processo avverso il silenzio inadempimento non necessiti di un ricorso ma di una semplice istanza[24].
Sulla base di questi ragionamenti la giurisprudenza[25] ha escluso che gli atti adottati dal commissario ad actanominato dal giudice in esito allo speciale giudizio avverso il silenzio-inadempimento della pubblica amministrazione possono essere rimossi in autotutela dall’amministrazione sostituita dal commissario[26]. Gli atti del commissario non sono “geneticamente riconducibili all’ordinario esercizio della potestà amministrativa”, ma conseguono proprio al rilievo giurisdizionale di un illegittimo esercizio di tale potestà o di un’illegittima omissione di tale doveroso esercizio[27].
Oggi la posizione prevalente, confermata anche dalla giurisprudenza commentata, assume che l’istituto del reclamo da attività commissariale, espressamente previsto dal Codice solo in relazione al giudizio di ottemperanza, è applicabile anche per le attività surrogatorie dell’ausiliario del giudice volte a superare il silenzio-rifiuto dell’amministrazione.
Da qui poi si sviluppa il duplice discorso sulla natura “giudiziaria” degli atti, alla stregua degli atti del commissario designato in sede di giudizio di ottemperanza e la questione sul tipo di attività (di valutazione discrezionale o di mero adempimento) che il commissario è chiamato a svolgere nel giudizio di ottemperanza e nel giudizio avverso il silenzio.
Quindi la natura degli atti del commissario ad acta è sempre giudiziale, come nel giudizio di ottemperanza, e si attribuisce la massima estensione allo strumento del reclamo applicandolo a tutti gli atti commissariali, indipendentemente dal loro contenuto, in funzione della natura dell’atto. Tuttavia in caso di terzi estranei al giudicato, gli atti commissariali sono impugnabili secondo il rito ordinario come del resto prevede il 117, c. 6 ultimo periodo. Di conseguenza sul punto però la dottrina ha ritenuto lecito porsi il quesito se dalla duplicità di rimedi possa discendere una duplicità di natura giuridica (amministrativa e giudiziale) degli atti commissariali[28]. La giurisprudenza, oggi minoritaria, ha assunto invece la posizione che l’atto del commissario ad acta va impugnato con l’ordinario ricorso impugnatorio anche dalle parti (e non solo da terzi) e quindi non con il rito camerale del reclamo[29].
Questa teoria poi subisce alcuni temperamenti in quanto vi è l’ulteriore posizione che ammette il reclamo ex art. 117, c. 4, c.p.a., solo quando il giudice risolve gli incidenti di esecuzione strictu sensu intesi, dando direttive e istruzioni per la corretta esplicazione dei compiti del commissario[30].
Vi sono ulteriori estensioni e posizioni che distinguono il tipo di attività svolta dal commissario, discrezionale o vincolata, e quindi anche di trovarsi di fronte a fattispecie di “inadempimento” (inerzia a fronte di attività vincolata) o “rifiuto” (inerzia a fronte di attività discrezionale). In effetti dalla lettura delle sentenze è agevole individuare nel corpo l’espressione concettuale di silenzio-inadempimento e altre volte quella di silenzio-rifiuto; quindi, a rigor di logica, andrebbero indagate le singole pronunce al fine di capire il tipo di inerzia oggetto di trattazione e l’ambito del potere del giudice in considerazione sempre dell’inciso del comma 2 dell’art. 117 che distingue il totale accoglimento dal parziale accoglimento del ricorso.
6. Le ambiguità
Sulla scia di quanto detto va considerata l’ipotesi per la quale, il commissario ad acta è incaricato ad attuare una decisione giudiziale che ha semplicemente accertato l’obbligo di provvedere. In questa circostanza, il commissario valuta autonomamente e sin dall’inizio il merito della questione. In questo contesto, il commissario non andrebbe considerato come una estensione del giudice, bensì organo straordinario dell’amministrazione pubblica.
L’altra ipotesi, inversa, presuppone invece che il commissario ad acta si trovi ad attuare una sentenza del giudice del silenzio che ha riconosciuto fondatezza della pretesa. In questo caso, il commissario trova nella sentenza un’indicazione precisa e vincolante sul contenuto dell’atto da adottare, assumendo un ruolo di ausiliario del giudice e agendo come un organo sostanzialmente giudiziario.
Nel primo caso, gli atti risultano essere provvedimenti amministrativi autonomi, non soggetti all’impugnativa tramite reclamo come previsto dalla normativa in questione. Al contrario, l’impugnativa dovrebbe avvenire secondo le procedure ordinarie.
Nel secondo caso, invece, le parti coinvolte potrebbero contestare l’atto emesso dal commissario qualora non rispetti le disposizioni della sentenza, in conformità con quanto stabilito dall’articolo 117, c. 4[31].
Tuttavia altra giurisprudenza vede nella teoria che sostiene che il commissario ad acta in fase di silenzio abbia una “piena autonomia decisoria” un’incongruenza con il dato testuale dell’art. 117, c. 4, c.p.a. Quest’ultimo prevede che “il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto”, facendo così a opinione di questo filone giurisprudenziale, risaltare come il commissario stesso si muova in un contesto governato dal giudice, che ne indirizza, eventualmente anche in senso contenutistico, l’azione[32].
Su questo gioca il “carattere testuale”, degli artt. 114 e 117 che “parlano, con una uniformità terminologica significativa” di un giudice che “conosce di tutte le questioni”[33].
Tuttavia ancora la dottrina ha rilevato come “l’opzione evidentemente fatta propria dal legislatore non ha però sopito il dibattito intorno alla figura e al ruolo del commissario”[34]. Sul punto la dottrina, in particolare Scognamiglio, evidenzia, come già prima sopra rilevato, che si “configurerebbe il paradosso di un sostituto del giudice che gode rispetto a questo di poteri più ampi” ogniqualvolta “l’azione va oltre l’effetto conformativo della sentenza” e il commissario è chiamato a compiere valutazioni discrezionali “in luogo degli organi (ordinari) dell’amministrazione ogni qualvolta il giudice si sia limitato ad accertare l’inadempimento dell’obbligo di provvedere e ad emettere sentenza di mera condanna”.
7. Una chiave di lettura
La questione, se non affrontata con una soluzione decisiva, persiste nel creare incertezze e cicli giurisprudenziali lesivi dell’effettività e della certezza da cui può diventare difficile uscire. Affrontare, infatti, una questione senza una risoluzione chiara porta inevitabilmente alla creazione di una situazione problematica, in cui dubbi e incertezze si moltiplicano, alimentando una spirale negativa spesso difficile da interrompere. Questo circolo vizioso, una volta instaurato, diventa un labirinto di complicazioni da cui è arduo trovare una via d’uscita. La chiave sta nel riconoscere l’importanza di una posizione che indica la via per evitare l’insorgere di dinamiche contrarie.
Si consideri il potenziale vulnus all’effettività della tutela evidenziato dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento che riforma la sentenza di primo grado la quale prevedeva il regime temporale dell’azione previsto dall’art. 31 c.p.a. in un anno e in alcuni passaggi si richiamava a termini dimidiati, cioè di sei mesi. Termine che appare decisamente incongruo, in quanto estende all’impugnazione di un atto avente indubbio contenuto provvedimentale il regime elaborato dal legislatore per una situazione ontologicamente diversa, ossia per l’azione proposta avverso una inerzia, un non-provvedimento dell’amministrazione, “con intuitivi effetti anche sul piano della certezza e stabilità degli effetti giuridici discendenti dal provvedimento commissariale”, in particolare quando il giudice di primo grado si fa sfuggire, omettendo di indicare il dies ad quem di esperibilità del reclamo e quindi intende far decorrere ex novo il termine annuale dall’atto (commissariale) sopravvenuto, ma non si capisce bene da quando (potendo eventualmente intuire la data della pubblicazione o comunicazione)[35]. Nel contesto dell’incertezza dei termini, l’alto risiko sulla scelta dei termini e quindi del rito assomiglia a una roulette russa, dove ogni scelta rispetto a quella del termine più breve è potenzialmente rischiosa con esiti incerti.
La chiave di lettura, e la soluzione, è data dalla posizione di Scognamiglio sul meccanismo di reclamo previsto dall’art. 117, c. 4. Questo ragionamento mette in evidenza il ruolo del giudice e il controllo (sindacato) sugli atti del commissario ad acta e offre la prospettiva su come il sistema funzioni e su quali siano gli ambiti di intervento del giudice. Sebbene la questione dei termini non sia il fulcro centrale della discussione emerge comunque incidentalmente.
L’art. 117, c. 4. conferisce al giudice la competenza di esaminare “tutte le questioni” relative agli atti del commissario ad acta, estendendo il suo controllo a ogni aspetto dell’atto, inclusa la sua conformità ai principi di buon andamento, legalità e imparzialità. Quindi il “sindacato” menzionato nella norma si riferisce alla capacità del giudice di valutare e controllare gli atti del commissario ad acta. La norma stabilisce che tale controllo è ampio, implicando che il giudice può esaminare non solo la legalità dell’atto, ma anche la sua opportunità, efficacia e correttezza secondo i principi di buon governo. La particolarità di questo meccanismo di reclamo risiede nel fatto che si inserisce in una fase esecutiva o di ottemperanza del processo, ovvero quella fase in cui si attua concretamente quanto deciso in precedenza.
In questa fase, il giudice agisce all’interno della giurisdizione di merito, il che significa che il suo intervento è finalizzato a garantire l’effettiva realizzazione di quanto stabilito nel corso del processo.
In tale contesto il giudice non assume un ruolo sostitutivo o direttivo nei confronti dell’amministrazione o del commissario ad acta prima dell’emanazione dell’atto (ex ante), ma interviene dopo (ex post), valutando l’adeguatezza dell’azione dell’ausiliario (il commissario ad acta) in termini sia di legittimità che di merito. Questo significa che il giudice non dirige l’azione amministrativa prima che essa si realizzi, ma valuta l’operato del commissario ad acta dopo che l’atto è stato compiuto, con la possibilità di attribuire una maggiore ampiezza di poteri in questa fase, rispetto a quelli che avrebbe in un contesto di controllo ex ante[36].
In sintesi, il concetto chiave è che, in sede di reclamo, il giudice dispone di un ampio potere di controllo sugli atti del commissario ad acta, potendo esaminare ogni aspetto dell’atto, sia sotto il profilo della legittimità che del merito, in una fase successiva all’emanazione dell’atto stesso, al fine di garantire il rispetto dei principi fondamentali dell’azione amministrativa.
[1] Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335.
[2] Cons. St., sez. III, 8 gennaio 2024, n. 254.
[3] Cons. St., sez. III, 5 marzo 2018, n. 1337.
[4] Cfr. Sentenza in comento n. 254/2022 pt. 11.5.
[5] Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335.
[6] Cons. St., sez.. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[7] Sul tema in ordine sparso se senza pretese di esaustività oltre ai Manuali di: M.A. SANDULLI, Il giudizio amministrativo, Napoli 2024, F.G. SCOCA (a cura di) Giustizia amministrativa, Torino 2023, M. CLARICH, Manuale di giustizia amministrativa, Bologna 2023; E. PICOZZA, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 2016; A. POLICE, Lezioni sul processo amministrativo, Napoli, 2021 si segnala L. BERTONAZZI, Il giudizio sul silenzio, in B. SASSANI – R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, p. 986 ss.; G. MARI, L’azione avverso il silenzio, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Vol. I, Milano, 2013, p. 250 ss.; A. CIOFFI, Il dovere di provvedere nella legge sull’azione amministrativa, in A. ROMANO (a cura di), L’Azione amministrativa, Torino, 2016, p. 134 ss.; F. SCALIA, Profili problematici del rito sul silenzio dell’amministrazione nella prospettiva dell’effettività e pienezza della tutela, in Federalismi.it, n. 10/2016; G. TROPEA, La domanda cautelare, l’azione di ottemperanza e quella avverso il silenzio nel sistema del codice del processo amministrativo: per un inquadramento sistematico, in https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/195539/nsiga_4641007.pdf/54be7576-04a1-a216-ac73-976f3a9fa7e9?t=1646993082000; R. CHIEPPA, Il danno da ritardo (o da inosservanza dei termini di conclusione del procedimento), in https://www.giustizia-amministrativa.it, 4 aprile 2011. N. DURANTE, I rimedi contro l’inerzia dell’amministrazione: istruzioni per l’uso, con un occhio alla giurisprudenza e l’altro al codice del processo amministrativo, in https://www.giustizia-amministrativa.it, 13 settembre 2010; V. SALAMONE, I riti speciali nel nuovo processo amministrativo, in https://www.giustizia-amministrativa.it, 17 novembre 2010
[8] Per una ricostruzione della letteratura di riferimento si rinvia altresì al lavoro di S. D’ANTONIO, Il Commissario ad acta nel processo amministrativo. Qualificazione dell’organo e regime processuale degli atti, Napoli, 2012.
[9] Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[10] Cons. St., Ad. Plen. 25 maggio 2021 n. 8.
[11] A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), in questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1940-sul-potere-di-provvedere-anche-dopo-la-nomina-del-commissario-ad-acta-nel-giudizio-sul-silenzio-della-p-a-nota-ad-ad-plen-25-05-2021-n-8?hitcount=0, 16 settembre 2021. I.d., Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in questa Rivista, 19 gennaio 2021; S. CAREGGI, L’esecuzione della pronuncia silenziosa, in questa Rivista, https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/118-diritto-processo-amministrativo/1199-l-esecuzione-della-pronuncia-silenziosa, 1 luglio 2020; R. FUSCO, Autotutela sugli atti del commissario ad acta nel giudizio avverso il silenzio (nota a Cons Stato, Sez. IV, 18 03 2021, n. 2335), in questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1708-autotutela-sugli-atti-del-commissario-ad-acta-nel-giudizio-avverso-il-silenzio, 3 maggio 2021.
[12] Il TAR qualifica l’impugnata determinazione commissariale alla stregua di “una revoca in autotutela degli atti di gara e dell’aggiudicazione, piuttosto che sub specie di annullamento d’ufficio e ciò in ragione del sostrato motivazionale del provvedimento, dal quale emergono prevalenti ragioni di inopportunità fondate su un ripensamento, anche per effetto delle sopravvenienze verificatesi, dei modi di perseguimento dell’interesse pubblico all’avvio dell’attività della Struttura”. Ritiene che: “a differenza del potere di annullamento d’ufficio, che postula l’illegittimità dell’atto rimosso d’ufficio, quello di revoca esige solo una valutazione di opportunità, seppur ancorata alle condizioni legittimanti dettagliate all’art. 21-quinquies l. cit. (e che, nondimeno, sono descritte con clausole di ampia latitudine semantica), sicché il valido esercizio dello stesso resta rimesso, in buona sostanza, a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’Amministrazione procedente”.
[13] Aveva altresì insistito sull’inammissibilità sul rilievo che la ricorrente non avrebbe interesse all’annullamento della delibera impugnata, non potendo raggiungere lo scopo prefissato mediante l’auspicata sottoscrizione del contratto in ragione dei profondi mutamenti intervenuti, nel corso del tempo, nel quadro normativo, anche regionale, di riferimento.
[14] News Reclamo avverso gli atti del commissario ad acta e termine di impugnazione, in https://www.giustizia-amministrativa.it/-/105486-197.
[15] F. D’ALESSANDRI, Ottemperanza, come si impugnano provvedimenti adottati dal commissario ad acta in sede di rito del silenzio? in il QG, 23 marzo 2018.
[16] Per una ricostruzione della dottrina in generale senza esaustività si rinvia a F.G. SCOCA, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, p. 4 ss, S. GIACCHETTI, Il giudizio d'ottemperanza nella giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa, in Giur. amm. sic., 1988, II, p. 36 ss. e in www.lexitalia.it (par. 6); L. MAZZAROLLI, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, p. 253; M. CLARICH, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 3/2018, p. 540.
[17] Sul punto Ad. Plen. 25 maggio 2021, n. 8.
[18] Per una ricostruzione delle teorie si rinvia a R. FUSCO, op. cit. , in questa Rivista.
[19] A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), cit.; S. CAREGGI, L’esecuzione della pronuncia silenziosa, cit.
[20] S.n., Il processo amministrativo alla prova dei fatti: tutela cautelare e riti speciali. Il punto di vista del primo grado e il punto di vista dell’appello, Riti Speciali, in https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/195539/nsiga_4643866.pdf/1c2ea4e3-4e48-70fb-77fc-ed63cff32a41?t=1646993005000
[21] Cons. St., sez. IV, 25 giugno 2007, n. 3602, quest’ultima parla di un’ottemperanza “anomala o speciale” poichè “si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza, e, soprattutto si ammette l’intervento del commissario nell’ambito del medesimo processo, senza più bisogno di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio” e in quanto l’attività del commissario “può atteggiarsi come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia dell’amministrazione”.
[22] Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006 in base alla quale: “È pacifico in giurisprudenza (per tutti, Cons. Stato, IV, 22 ottobre 2019, n.7172) che quando il commissario ad acta è nominato da un’autorità per consentire lo svolgimento delle funzioni dell’ente locale, senza l’indicazione degli specifici atti che deve emanare, la relazione che si instaura con l’ente è di natura interorganica e il provvedimento commissariale va qualificato come atto di un organo straordinario, che può essere rimosso dallo stesso ente locale nell’esercizio dei suoi poteri istituzionali di autotutela. Invece, laddove il commissario è nominato nell’esercizio dei poteri di controllo sostitutivo, per l’adozione di uno specifico atto indicato dall’autorità controllante, la relazione ha carattere intersoggettivo e le statuizioni del commissario possono essere solo impugnate dall’ente locale innanzi al giudice amministrativo. La correttezza di tale ricostruzione appare confermata, in termini di diritto positivo, dall’art. 57 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”, dedicato proprio alla “equiparazione del commissario ad acta agli ausiliari del magistrato”, in quanto ivi si è previsto che “al commissario ad acta si applica la disciplina degli ausiliari del magistrato, per l’onorario, le indennità e spese di viaggio e per le spese sostenute per l’adempimento dell’incarico”.
[23] Sul tema in generale: A. IANNOTTA, La natura giuridica del commissario ad acta e il regime di impugnazione dei suoi atti, in I Tribunali amministrativi regionali, 1993, II, p. 414.
[24] Cons. Stato, VI, 9 febbraio 2016, n. 557.
[25] Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335
[26] In particolare, la natura intersoggettiva, esclude che l’atto emanato vada imputato all’ente sostituito, impedisce non solo che questo stesso possa rimuoverlo in autotutela, ma anche che all’atto possano applicarsi decadenze e preclusioni derivanti dalle omissioni dello stesso ente inadempiente cfr. Tar Veneto, II, 19 dicembre 2019, n.1379.
[27] L’Amministrazione sostituita, pertanto, non viene indebitamente “espropriata” del potere di autotutela, che, nel caso degli atti commissariali, in radice non le compete, proprio perché il commissario non è un organo straordinario dell’Amministrazione, bensì un organo ausiliario del giudice. Di converso, l’Amministrazione non è privata della facoltà di contestare gli atti commissariali, potendo attivare l’apposito rimedio del reclamo, cfr. Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335.
[28] P.M. VIPIANA, L’ottemperanza al giudicato amministrativo fra l’attività del commissario ad acta e quella dell’amministrazione “commissariata”, in Urb. e app., n. 10/2015, p. 1055. Tema sviluppato in questa Rivista da R. Fusco, cit. supra.
[29] Tar Napoli, 17 luglio 2017, n. 3797, sostiene che gli atti di un Commissario ad acta nominato per porre rimedio alla persistente inerzia dell’amministrazione sono impugnabili con l’ordinario ricorso impugnatorio, e non già con lo strumento del reclamo.
[30] Tar Calabria, sez. I, 26/01/2017, n. 82, Cons. Stato Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 338.
[31] Cons. Stato Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 338.
[32] Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[33] Se gli atti del commissario fossero provvedimenti imputabili all’ente, ossia se la sua attività fosse un’azione amministrativa autonoma, unicamente legittimata dal giudice solo per il suo avvio, questa estensione della cognizione del giudice non avrebbe senso: non avrebbe senso in rapporto all’esito finale perché, trattandosi di provvedimento amministrativo, questo sarebbe comunque autonomanente impugnabile senza una previsione esplicita; non avrebbe senso in relazione alle attività precedenti all’emissione del provvedimento, in quanto il giudice si ingerirebbe in poteri amministrativi ancora non esercitati (in violazione dell’art. 34 comma 2 c.p.a.) e, anzi, li connoterebbe, cfr. Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[34] L’opzione evidentemente fatta propria dal legislatore non ha però sopito il dibattito intorno alla figura e al ruolo del commissario. In particolare, e in specie con riferimento all’ipotesi della nomina del commissario in sede di ricorso avverso il silenzio, è restata in campo la tesi secondo la quale si tratta di un organo straordinario dell’amministrazione in quanto egli esercita attività discrezionale in senso proprio; ovvero di un organo misto in quanto assume di volta in volta l’uno o l’altro ruolo a seconda che la sentenza abbia altresì accertato la “fondatezza della pretesa” o abbia un contenuto di mera condanna a provvedere; o ancora di un organo ausiliario del giudice, il quale però pone in essere atti soggetti a reclamo dinanzi al giudice che lo ha nominato ovvero con ricorso ordinario di legittimità a seconda che essi siano si muovano o meno entro il perimetro dell’accertamento svolto in sede di giudizio di cognizione. La tesi dell’organo misto è riproposta anche nella giurisprudenza successiva al codice e fino all’Adunanza Plenaria del 9 maggio 2019, n. 7. Cfr. A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8) in questa Rivista, cit. e Stessa A., Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in questa Rivista, cit.
[35] Cfr. Sentenza in commento n. 254/2024 pt. 11.8.
[36] Cfr. A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. cit.
1. Le Sezioni Unite hanno definito le questioni di diritto sottese alla vicenda dei criptofonini. Sorta in sordina, la problematica dell’uso processuale ha progressivamente interessato tutto il mondo della giustizia non solo italiana, ma anche quella di altri paesi europei nonché le giurisdizioni sovranazionali (attivate da alcuni Paesi stranieri).
In Italia, i contenuti delle comunicazioni intercorse tra tantissimi soggetti, implicati in rilevanti traffici illeciti, sono stati posti a fondamento di misure cautelari, la cui verifica è approdata rapidamente (art. 309 e 311 c.p.p.) in Cassazione prospettando moltissimi interrogativi sulla loro utilizzabilità quale gravità indiziaria.
L’origine della vicenda è molto nota, come pure i suoi sviluppi investigativi – legati a significative attività e tecniche di indagine (non tutte ancora conosciute) che hanno portato alla decriptazione del contenuto delle comunicazioni ed alla loro trasmissione nei vari processi dove operavano i soggetti coinvolti.
Per una esauriente ricostruzione sul punto di questi elementi si può fare riferimento alla Memoria della procura generale della Cassazione (Giordano).
Tre, sintetizzando, erano i nodi da affrontare, che peraltro sottointendevano rilevanti sottoquestioni, prima fattuali e poi giuridiche.
Come si era espletata l’attività, in Francia; quale era la natura degli atti trasmessi o richiesti; chi era legittimato a richiederli alle autorità francesi o per il tramite di meccanismi transnazionali; quali poteri di controllo sulle modalità di svolgimento dell’attività investigativa potevano essere svolti e chi doveva valutarli nel porli a fondamento della decisione a tutela dei diritti riconosciuti ai suoi destinatari.
Su questi profili sono state interessate le Sezioni Unite che hanno depositato il 29.2.2024 risposte ai quesiti prospettati.
Erano stati prospettati i seguenti quesiti:
a) se il trasferimento all’Autorità giudiziaria italiana, in esecuzione di ordine europeo di indagine, del contenuto di comunicazioni effettuate attraverso criptofonini e già acquisite e decrittate dall’Autorità giudiziaria estera in un proprio procedimento penale, costituisca acquisizione di documenti e di dati informatici ai sensi dell’art. 234 bis c.p.p. o di documenti ex art. 234 c.p.p. ovvero sia riconducibile ad altra disciplina relativa all’acquisizione di prove;
b) se il trasferimento di cui sopra debba essere oggetto di verifica giurisdizionale preventiva della sua legittimità, nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine;
c) se l’utilizzabilità degli esiti investigativi di cui al precedente punto a) sia soggetta a vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine.
Da un’altra sezione, si era chiesto di chiarire se:
a) se l’acquisizione, mediante ordine europeo d’indagine, dei risultati di intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera, in un proprio procedimento, su una piattaforma informatica criptata e su criptofonini integri l’ipotesi disciplinata, nell’ordinamento nazionale, dall’art. 270 c.p.p.;
b) se, ai fini dell’emissione dell’ordine europeo di indagine finalizzato al suddetto trasferimento, occorra la preventiva autorizzazione del giudice;
c) se l’utilizzabilità degli esiti investigativi di cui al precedente punto a) sia soggetta a vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine.
Oltre al contenuto delle questioni di diritto prospettate, un aspetto interessante della questione risiede alla dinamica che ha condotto due sezioni, in tempi diversi a sollecitare le Sezioni Unite, oggetto di pura contrapposizione ad alta densità, ancorché sottotraccia. Il dato è, del resto, noto, ancorché fosse non in tutti i suoi risvolti. La questione sottende sia la questione di merito, sia questioni legate alle dinamiche interne al Supremo Collegio, considerato il suo elevato ruolo. Sul punto sarebbe necessario ritornare con ulteriori riflessioni.
Come emerge dai quesiti questi si differenziavano per la natura da attribuire agli atti trasmessi dalla Francia, prospettandosi per un verso l’operatività, sostenuta da un lato in modo piuttosto diffuso dall’art. 234 bis c.p.p. e da un altro, minoritario, alla base appunto del contrasto, che faceva riferimento all’art. 270 c.p.p.
Entrambi si interrogavano, invece, con possibili ricadute diversificate tuttavia, legate a questo aspetto pregiudiziale, sulla legittimazione alla richiesta tramite oie degli atti francesi, e sui poteri di controllo del giudice sulla loro utilizzabilità.
Con la decisione sui quesiti si delinea il seguente quadro: integrando le pronunce dei quesiti, si afferma che gli atti provenienti dall’estero – (escluso il riferimento all’art. 234 bis c.p.p.) – possono essere valutati come prova ai sensi dell’art. 78 disp. c.p.p., degli artt. 238 e 270 c.p.p. e così le preclusioni di cui all’art. 6 della direttiva 2014/41/UE (ove si prevede che l’attività sia necessaria e proporzionata, tenendo conto della persona sottoposta alle indagini), in quanto sono considerati singolarmente nella loro natura.
Per entrambi i quesiti si afferma che l’oie può essere richiesto dal p.m.; per entrambi i quesiti, che il giudice è legittimato a controllare il rispetto dei diritti fondamentali, del diritto di difesa e del giusto processo.
Considerato che i due ricorsi che hanno dato origine all’intervento delle Sezioni Unite sono stati rigettati, deve ritenersi, pur in assenza della motivazione, che le disposizioni di garanzia per la loro utilizzabilità sono state riconosciute.
Invero, oltre al riferimento al p.m., per ogni attività dell’oie, le perplessità riguardano, considerate le modalità con le quali si è svolta l’attività in Francia, da un lato, il rispetto dell’art. 6 d. lgs. 2014/41/UE e dall’altro quello del rispetto del diritto di difesa e del giusto processo nel riconoscimento della loro utilizzabilità.
2. Proprio perché la “partita”, stante la blindatura delle misure cautelari deve ritenersi chiusa, anche sotto il profilo degli esiti dei giudizi di merito, e pur nella consapevolezza delle non secondarie implicazioni che ciò avrebbe potuto e poteva determinare, non deve ritenersi improprio anche in pendenza del deposito della motivazione, chiedersi se non era possibile prospettare alla luce di quanto è dato sapere sulle modalità di svolgimento dell’attività di indagine e di acquisizione attraverso la decriptazione delle comunicazioni dei titolari dei criptofonini, se un’altra conclusione in punto di rispetto delle garanzie non risultava prospettabile.
Sotto questo profilo, innanzitutto, non può negarsi che l’attività di indagine in Francia abbia riguardato tutta l’attività di comunicazione delle conversazioni, in modo del tutto indistinto, salvo poi, diffondere ai paesi interessati la posizione, in sfregio al principio di proporzionalità.
In secondo luogo, bisognerebbe interrogarsi, alla luce del rispetto dei diritti fondamentali, se siano date e assicurate alla difesa le adeguate informazioni (si parla di società olandese che ha usato degli algoritmi) sull’attività e sulle modalità delle decriptazioni (si parla di uso di troyan e di altro).
Aspettiamo ancora una volta l’Europa. “Non è finita finché non è finita” (dal Caso Thomas Crawford).
Sommario: 1. Alla ricerca di un pubblico ministero “sensibile” – 2. Tempestività e coordinamento delle indagini - 3. Il sopralluogo e il sequestro – 4. La raccolta di informazioni - 5. Il tema d’indagine e la condotta del lavoratore - 6. Formazione, informazione, vigilanza, sorveglianza sanitaria - 7. Le responsabilità soggettive e le posizioni di garanzia - 8. Il caso della pluralità di imprese – 9. La responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. 231/2001.
(contributo di approfondimento in tema di infortuni v. L'emergenza nazionale degli infortuni sul lavoro e la risposta delle istituzioni: uno sguardo di insieme pubblicato su questa Rivista il 1 marzo 2024)
1. Alla ricerca di un pubblico ministero “sensibile”
Il settore della salute e sicurezza del lavoro è purtroppo uno dei – non pochi per la verità – settori “di nicchia” per le indagini: intendo dire che non sono molti i pubblici ministeri che studiano sistematicamente questa materia e che quindi partecipano con passione, e non solo per dovere, ai gruppi specializzati (laddove ve ne sono) competenti per tali reati e dimostrano quindi una maggiore sensibilità al tema. Per lo più i reati in questione vengono – necessariamente – affrontati nel corso del turno esterno, in occasione di decessi o lesioni gravissime sul lavoro, e per il resto costituiscono oggetto di procedimenti del tutto routinari, per quanto attiene alle contravvenzioni oggetto della procedura di cui al d.lgs. 754/1994 – fondata sull’emanazione di prescrizioni nella finalità di regolarizzazione della violazione e di estinzione del reato – ovvero “quasi” routinari, per quanto attiene alle denunce (raramente querele) che impongono, per lo più ad impulso dell’ispettorato del lavoro o della ASL, indagini in una certa azienda, in relazione ad un certo infortunio.
Non è raro quindi che il pubblico ministero si lasci guidare dalle indicazioni della polizia giudiziaria specializzata in materia (ciò vale soprattutto per la redazione dei capi di imputazione oggetto della richiesta di decreto penale, all’esito della conclusione negativa della procedura di cui al d.lgs. 754/1994) ed affronti “senza entusiasmo” le complesse indagini - in tema, ad esempio, di individuazione delle posizioni di garanzia e di rapporto di causalità - che vengono in rilievo quando si tratta di accertare le responsabilità per un infortunio.
Ancor più complesse – e dunque ancor meno “appassionanti”, almeno per i più – sono poi le indagini in tema di malattie professionali, nell’ambito delle quali – tutt’altro che routinarie - è spesso la parola del consulente tecnico a guidare le scelte del pubblico ministero e a contrapporsi sovente, in una materia complicatissima, alle conclusioni – diametralmente opposte – dei consulenti degli indagati/imputati, soprattutto laddove si tratti di patologie (come quelle correlate all’amianto) che originano in grossi complessi industriali, i cui dirigenti sono assistiti per lo più da grandi avvocati, esperti in materia e assai battaglieri.
Che le indagini in tema di salute e sicurezza del lavoro non facciano troppo breccia negli interessi di gran parte dei pubblici ministeri trova conferma, per quanto posso ricavare dalla mia esperienza professionale, sia nella scarsa propensione alla materia che ho rinvenuto nei, peraltro validissimi, colleghi delle due procure che ho diretto e nelle quali ho coordinato il settore in questione, sia nella circostanza per cui, chiedendo, in occasione degli incontri formativi per uditori/MOT, ai colleghi prossimi a terminare il tirocinio, quanti tra di loro avessero affrontato questa materia nel corso del tirocinio stesso, ho ricevuto quasi sempre risposta negativa.
È vero che nelle procure più grandi, e soprattutto in quelle il cui territorio è caratterizzato da contesti assai industrializzati, l’attenzione alla materia è più estesa, ma non v’è dubbio che ovunque vi sia attività d’impresa - grande, media, piccola, con lavoratori in regola o in nero e, tanto più, ove vi siano imprese “in odore” di caporalato – il rischio di incidenti e malattie sul lavoro è presente e costante e per giunta accresciuto in periodi, come questo, di crisi economica, nei quali tanti imprenditori fanno fatica a pagare i dipendenti, per cui certamente non riescono, o non vogliono, investire nel settore della sicurezza. L’azione di un pubblico ministero “sensibile” è dunque assai importante.
E ciò, vale aggiungere, tanto più in quanto il bene protetto dalle previsioni normative assistite da un così vasto apparato sanzionatorio, quali sono quelle della materia in questione, è quello della vita e dell’integrità, fisica e psichica, dell’individuo, e dunque un bene primario, che il nostro ordinamento giuridico, seppure sul punto immensamente complesso, tutela al massimo e che dunque richiede il massimo impegno in sede giudiziaria.
È quindi auspicabile che l’attenzione, se non anche la sensibilità, dei pubblici ministeri per tali tipologie di reati si incrementi, così da perfezionare le competenze e da migliorare anche le modalità di coordinamento e direzione dei diversi organi di polizia giudiziaria che operano in materia.
Senza voler attribuire all’autorità giudiziaria una non dovuta attività di supplenza, in questo campo, dell’azione amministrativa, sarebbe altresì auspicabile, per il pubblico ministero, affinare la conoscenza della realtà e delle caratteristiche del territorio, con riguardo al settore della sicurezza del lavoro e sviluppare, laddove ve ne siano i presupposti, quel bagaglio conoscitivo che deriva da ispezioni amministrative, da esposti delle organizzazioni sindacali o da denunce dei singoli lavoratori, al fine di pervenire all’acquisizione di notizie di reato che molto spesso rimangono, in questo settore, nascoste, perché si temono, da parte dei lavoratori, sia ritorsioni del datore di lavoro che la perdita stessa del posto di lavoro.
A queste considerazioni di carattere generale si affianca indubbiamente il dato della delicatezza e complessità delle gran parte delle indagini in materia, tali da rendere necessaria, almeno in ogni ufficio che sia di dimensioni sufficienti da poterselo permettere, la specializzazione.
Ad ogni modo, anche laddove specializzazione non vi sia, la delicatezza dell’intervento del pubblico ministero di turno in caso di infortunio, mortale o gravissimo, impone di provare a delineare talune metodiche standard di intervento, che non sono altro, del resto, che suggerimenti che l’esperienza consente di apprezzare e che possono rendere più rapida e completa l’azione investigativa che deve seguire alla notizia di un decesso o di un infortunio gravissimo sul lavoro.
Diverse, e del tutto peculiari, sono, invece, le caratteristiche dell’azione investigativa in materia di malattie professionali, laddove la causa, non immediata, dell’evento lesivo origina temi di indagine parzialmente diversi ed ulteriori e comunque non richiede, per lo più, un intervento immediato, quale quello che compete al pubblico ministero di turno.
Gran parte delle notazioni che vado a delineare con riferimento precipuo alle iniziative del pubblico ministero – per lo più quello di turno – notiziato di un infortunio mortale o gravissimo sul lavoro, valgono comunque anche per l’articolazione delle indagini che, sempre in tema di infortunio, muovono dalla ricezione di una denuncia o di un esposto.
2. Tempestività e coordinamento delle indagini
Giova premettere come sia opportuno che, poiché le indicazioni operative concernono anche l’azione della polizia giudiziaria e di altri operatori del settore, le stesse formino oggetto di una specifica direttiva, che venga portata a conoscenza di tali soggetti e sia da essi recepita, compresa e condivisa.
Si tratta, dunque, di delineare - con riferimento ad infortuni sul lavoro mortali ovvero produttivi di lesioni gravi o gravissime - prassi operative comuni, in grado di rendere maggiormente efficace l’intervento investigativo immediatamente conseguente all’infortunio e di garantire un adeguato coordinamento tra i diversi uffici di polizia giudiziaria. È invero comunemente nota l’importanza delle attività di accertamento effettuate nell’immediatezza dell’infortunio, ai fini di un buon esito dell’indagine complessiva, per cui è necessario operare in modo sollecito e finalisticamente orientato all’acquisizione del più ampio bagaglio di informazioni, nella prospettiva ovviamente tipicamente probatoria.
In questo senso è dunque essenziale che l’intervento dell’organo specializzato di polizia giudiziaria sul luogo dell’infortunio sia il più tempestivo possibile rispetto all’acquisizione della notizia. Funzionale a tale esigenza e a quelle, ulteriori, di coordinamento delle indagini e di tempestivo coinvolgimento del pubblico ministero è che i servizi P.R.E.S.A.L. (servizio prevenzione e sicurezza ambienti di lavoro) della ASL e il servizio ispettivo della Direzione provinciale del lavoro provvedano a comunicare tempestivamente alla Procura ed alle forze dell’ordine che operano sul territorio il turno di reperibilità dei rispettivi ispettori, così da consentire appunto la necessaria azione di coordinamento e un’adeguata e tempestiva circolazione delle informazioni inerenti l’infortunio.
La notizia dell’infortunio deve essere nel più breve tempo possibile comunicata al pubblico ministero di turno in Procura, onde consentire allo stesso, ove necessario, l’eventuale accesso sul luogo dell’infortunio, e comunque il coordinamento delle indagini e l’emanazione di specifiche direttive.
Vale sottolineare, a questo proposito, come l’esperienza insegni che il sopralluogo del pubblico ministero in esito ad un infortunio mortale sia lo strumento insostituibile per acquisire una efficace visione degli eventi e per organizzare in modo coordinato ed efficace le indagini.
È opportuno, allo scopo di privilegiare le specifiche competenze investigative in materia e di non determinare una sovrapposizione di interventi che rischi di pregiudicare l’utile esperimento delle indagini, che l’organo di polizia giudiziaria immediatamente competente per lo svolgimento delle indagini finalizzate alla rilevazione delle cause e dei responsabili dell’infortunio sia individuato nel servizio P.R.E.S.A.L., ovvero nel servizio ispettivo provinciale per i settori di specifica competenza di quest’ultimo. In proposito è indispensabile che l’individuazione dell’organo specializzato che deve intervenire sia stabilmente compiuta a monte, sulla base di indicazioni operative predeterminate, al fine di consentire anche agli organi di polizia giudiziaria non specializzati (Carabinieri, Polizia di Stato, Polizia Municipale) che di solito intervengono per primi sul logo dell’infortunio di allertare immediatamente gli ispettori del lavoro di turno.
È comunque compito degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dei Carabinieri, della Polizia di Stato o della Polizia Municipale, che siano intervenuti per primi, prestare il necessario supporto operativo ed investigativo e porre in essere i pertinenti atti di indagine con modalità tali da non creare sovrapposizioni con gli ispettori del servizio P.R.E.S.A.L. o del servizio ispettivo provinciale e da garantire a questi l’ausilio che le circostanze del caso rendano di volta in volta necessario.
Sempre al fine di garantire l’esigenza di coordinamento è bene che gli ispettori della Direzione Provinciale del Lavoro che abbiano eventualmente ad accedere al luogo di lavoro non per l’espletamento delle indagini inerenti l’infortunio ma per l’espletamento dei compiti amministrativi istituzionalmente spettanti abbiano cura di non determinare una sovrapposizione di interventi idonea a pregiudicare l’utile esperimento delle indagini, ma di coordinare, al contrario, il proprio intervento con quello del servizio P.R.E.S.A.L., fornendo anche il proprio eventuale contributo investigativo.
In quest’ottica di collaborazione, è bene precisare, nell’ambito delle direttive la cui emanazione preventiva è – come si diceva- opportuna, che il servizio P.R.E.S.A.L. di volta in volta competente sia autorizzato a fornire al servizio ispettivo della Direzione Provinciale del Lavoro le notizie, acquisite nel corso delle indagini, che quest’ultimo abbia a richiedere per finalità d’istituto, con modalità e tempistiche tali da non pregiudicare il tempestivo ed adeguato svolgimento delle indagini inerenti l’infortunio. Ancor più necessaria è, all’evidenza, tale collaborazione con riferimento ad indagini che originino non già dalla notizia di un infortunio grave, ma da una denuncia, un esposto o comunque da una delega del pubblico ministero.
In caso di indagini conseguenti ad infortunio è necessario che tutti gli organi di polizia giudiziaria garantiscano adeguate modalità operative e bagaglio conoscitivo al medico legale, il cui intervento è doveroso in caso di decesso immediato, a differenza di quanto avviene nel caso di lesioni, allorquando sono primarie l’esigenza di soccorso dell’infortunato ed il suo trasferimento in ospedale.
3. Il sopralluogo e il sequestro
Come è noto a chiunque abbia un minimo di esperienza in materia, è fondamentale che il luogo dell’infortunio non venga alterato prima della conclusione di tutti i necessari accertamenti. Va sottolineata in via generale – e fatte salve eventuali, contingenti esigenze di tipo diverso - la necessità di redigere un accurato verbale di sopralluogo che contenga la descrizione dello stato dei luoghi, il posizionamento dei macchinari, delle attrezzature, dei dispositivi, ecc. interessati dall’infortunio, la posizione del cadavere (in caso di decesso) nonché ogni altra annotazione specificamente rilevante. Deve essere cura della polizia giudiziaria operante corredare il verbale di adeguata documentazione fotografica, mentre gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria appartenenti ad altri organi devono prestare il necessario supporto all’organo di PG specializzato per la redazione del verbale. Stante la natura di atto irripetibile, inseribile nel fascicolo del dibattimento, il verbale di sopralluogo non deve comprendere indicazioni di carattere valutativo, che devono invece essere contenute in autonoma annotazione, ovvero nell’informativa di reato.
Per altro verso è palese - fatte salve eventuali esigenze di tipo diverso che dovessero nei congrui casi manifestarsi - la necessità di sottoporre a sequestro probatorio tutti i macchinari, le attrezzature, i dispositivi di protezione ed eventualmente i locali interessati dall’infortunio e comunque ogni oggetto, bene, materiale sul quale sia necessario compiere accertamenti tecnici o che sia comunque rilevante a fini probatori. Si tratta, invero, di beni, oggetti, ecc. soggetti a possibile modificazione, la cui integrità è perciò essenziale per un’esatta ricostruzione degli eventi e per la doverosa verifica circa carenze ed omissioni causalmente rilevanti nella produzione dell’evento lesivo. La valutazione da compiere in proposito deve estendersi, in un momento in cui le cause dell’infortunio sono ancora tutte da accertare, anche ad eventuali profili di rilevanza probatoria che, seppur non ancora compiutamente definiti, appaiano suscettibili di un successivo sviluppo investigativo, pur con l’accortezza di porre estrema attenzione all’esigenza di non bloccare inutilmente l’attività dell’impresa o dell’ufficio nel cui ambito si è verificato l’infortunio.
La stretta connessione tra la verifica delle condotte rilevanti per la produzione dell’evento lesivo e l’individuazione dei potenziali responsabili è alla base dell’esigenza di adoperare in modo quanto mai accorto, ma esteso, lo strumento del sequestro probatorio. È, invero, indiscutibile l’esigenza di sottoporre a sequestro tutta la documentazione pertinente all’infortunio e necessaria all’accertamento delle responsabilità; così è a dire quanto alla documentazione inerente macchinari, apparecchiature, dispositivi, ecc., interessati dall’infortunio (istruzioni di montaggio, di funzionamento, atti di collaudo, ecc.); quanto alla documentazione inerente la valutazione dei rischi (a seconda dei casi, documento di sicurezza e/o documento di valutazione dei rischi da interferenze, piano di sicurezza e coordinamento, piano operativo di sicurezza); quanto alla documentazione inerente eventuali direttive, ordini di servizio, provvedimenti di carattere generale ecc. predisposti nell’azienda o nell’ufficio in tema di sicurezza; quanto alla documentazione inerente contratti di appalto, subappalto, contratti d’opera; quanto ad atti inerenti alla ripartizione delle competenze (deleghe, ordini di servizio, delibere, statuto, organigrammi, lettere di incarico, ecc.); quanto alla documentazione relativa allo svolgimento dell’attività di formazione, informazione, vigilanza, sorveglianza sanitaria; quanto alla documentazione inerente eventuali precedenti verifiche e/o ispezioni. V’è al riguardo anche l’esigenza di far constare per iscritto ai soggetti richiesti che non esiste altra documentazione oltre quella reperita e sequestrata, onde evitare la successiva produzione di documentazione non genuina, creata ad arte.
4. La raccolta di informazioni
E sempre allo scopo di non disperdere la genuina e sollecita acquisizione delle fonti di prova, è altresì evidente l’esigenza di assumere urgentemente a sommarie informazioni, sul posto e nell’immediatezza dell’intervento, il lavoratore infortunato – sempreché in grado di rispondere e privilegiando comunque l’esigenza di tutelarne le condizioni di salute - i colleghi di lavoro dell’infortunato presenti e comunque ogni persona presente e a conoscenza dei fatti; ciò allo scopo di sfruttare il maggior coinvolgimento emotivo conseguente all’infortunio (che rende verosimile la possibilità di acquisizione di dichiarazioni genuine nel predetto contesto) e di evitare invece successive dichiarazioni che possano essere concordate con il datore di lavoro o comunque motivate dall’esigenza di evitare ritorsioni e dunque non genuine.
5. Il tema d’indagine e la condotta del lavoratore
Più in generale, va osservato che il tema dell’accertamento investigativo – sia in caso di indagini avviate d’urgenza in esito ad un infortunio mortale o gravissimo, che in caso di indagini conseguenti a denuncia/querela/esposto - deve sempre muovere dall’esatta ricostruzione delle modalità e delle cause dell’infortunio, accertando, in particolare, in questo senso, se lo stesso sia riconducibile a violazioni di una o più disposizioni del complesso apparato normativo in tema di salute e sicurezza sul lavoro. Tale accertamento deve anche mirare all’individuazione delle abituali modalità di esecuzione della prestazione cui era addetto l’infortunato, allo scopo di verificare se l’infortunio sia riconducibile ad eventuali prassi lavorative contra legem, ovvero sia frutto di una condotta o di una situazione estemporanee.
A quest’ultimo riguardo è bene però ricordare – e questa considerazione deve essere sempre tenuta presente dal pubblico ministero, come una sorta di canovaccio alla cui stregua condurre l’apprezzamento valutativo della fattispecie e poi determinarsi nelle scelte definitorie – che principio ormai stabilmente consolidatosi in giurisprudenza è quello che, muovendo dalla considerazione della finalità delle norme di prevenzione, che è quella di tutelare i lavoratori da ogni tipologia di rischio concretamente o anche astrattamente ipotizzabile, ivi compreso quello riconducibile ad eventuali condotte disaccorte, negligenti, imprudenti del lavoratore, afferma che, una volta riscontrato un deficit di approntamento nelle misure di sicurezza concernenti la prestazione da cui è derivato l’evento lesivo, dette tipologie di condotte del lavoratore non valgono certamente ad elidere il nesso di causalità tra la violazione della o delle misure di sicurezza e l’evento lesivo. All'interno dell'area di rischio considerata, infatti, la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia, oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure ancora rientri in tali mansioni, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro. In ogni caso, perché possa ritenersi che il comportamento negligente, imprudente e imperito del lavoratore, pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate, costituisca concretizzazione di un "rischio eccentrico", con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio del comportamento imprudente (in questo senso, tra le più recenti pronunce espressive di un orientamento consolidato, vale citare Cass., sez. IV pen., 22.11.2023, n. 46841 - ud. 3.10.2023).
6. Formazione, informazione, vigilanza, sorveglianza sanitaria
Per altro verso è bene ricordare, già all’atto degli accertamenti esperiti nell’immediatezza del fatto, ed al fine sia di individuare possibili, specifiche violazione della normativa di prevenzione che di giudicare in modo appropriato la condotta del lavoratore da cui è conseguito l’infortunio, che è indispensabile porre particolare attenzione alla verifica circa l’assolvimento (e in quali termini) delle funzioni specifiche di informazione, formazione e vigilanza e, se pertinenti, di sorveglianza sanitaria. Tali funzioni rientrano, invero, nei doveri principali del datore di lavoro e dei suoi collaboratori e la relativa violazione è assai spesso – come la prassi giudiziaria dimostra – causalmente rilevante nella produzione dell’evento.
7. Le responsabilità soggettive e le posizioni di garanzia
Ma parallelamente all’investigazione in ordine alle cause dell’infortunio, che investe la condotta e il nesso di causalità, il pubblico ministero e la polizia giudiziaria, che a volte ha bisogno di essere specificamente indirizzata sul punto, devono preoccuparsi dell’aspetto soggettivo della vicenda, e dunque pervenire all’individuazione dei soggetti che, nella concreta organizzazione lavorativa oggetto di investigazione ed alla luce delle qualifiche normative, rivestono il ruolo di datore di lavoro, ovvero altre qualifiche rilevanti ai fini della normativa di salute e sicurezza (a seconda della specificità del caso concreto, dirigenti, preposti, responsabile e addetti al servizio di prevenzione, medico competente, committente, coordinatori ecc.) con l’accertamento, per ciascuno di essi, dei compiti rilevanti con riguardo alla prestazione lavorativa nel cui ambito è avvenuto l’infortunio. In questo senso va sottolineato in particolare che l’individuazione della condotta, per lo più omissiva, che ha costituito la causa efficiente dell’infortunio deve condurre anche ad individuare le cd “posizioni di garanzia” che vengono in rilievo con riferimento alla predetta condotta; in questo senso il parametro per così dire oggettivo dell’investigazione viene a coniugarsi strettamente con quello soggettivo, posto che, come è noto, la responsabilità penale è personale e non possono valere forme di responsabilità oggettiva.
Si tratta, dunque, di appurare – anche con quella sollecitudine che è necessaria per il compimento di “atti garantiti” – chi sono i soggetti ai quali, alla stregua della concreta organizzazione aziendale, competeva attuare quegli adempimenti e quelle cautele previsti dalle norme ed in concreto omessi o inadeguatamente o non correttamente attuati. Questo profilo dell’indagine ha perciò necessariamente ad oggetto l’organizzazione aziendale (e con il termine “azienda” la normativa prevenzionistica intende, come è noto, non solo la struttura imprenditoriale ma anche l’ufficio che eroghi un servizio) e va condotto sia alla stregua della raccolta di informazioni dalle persone in grado di fornirle (eventualmente con l’assistenza del difensore, se già si profilano i presupposti per l’iscrizione di una certa persona nel registro degli indagati) che in base all’analisi della documentazione aziendale al riguardo rilevante, con particolare riferimento ad eventuali atti di delega di funzioni.
Con specifico riguardo alle indagini conseguenti ad un infortunio o mortale o gravissimo del quale il pubblico ministero sia notiziato durante il turno, è bene segnalare come sia palese, pur tenendo conto dell’urgenza degli accertamenti, l’opportunità di compiere il più celermente possibile l’individuazione, per quanto possibile completa, dei soggetti da sottoporre ad indagine, quanto meno al fine delle comunicazioni degli avvisi per gli atti urgenti (ad esempio per l’affidamento dell’eventuale incarico ex art.360 cpp). A tal fine bisognerà prendere in adeguata considerazione sia la documentazione reperita, sia le indicazioni fornite, anche informalmente, dalle persone ascoltate. È preferibile estendere, nel dubbio, il numero delle persone da sottoporre ad indagini, a scopo di garanzia ed al fine di non precludere la successiva utilizzabilità di atti non compiuti in contraddittorio con soggetti a carico dei quali potevano già individuarsi indizi di reità. È in ogni caso necessario un coordinamento della polizia giudiziaria con il pubblico ministero di turno, al quale, se non presente sul luogo dell’infortunio, andranno rappresentate, in modo chiaro e sintetico, le circostanze rilevante ai fini in questione.
8. Il caso della pluralità di imprese
Nel caso di incidenti verificatisi in ambiti in cui operano più imprese è poi fondamentale chiarire, nel più breve tempo possibile, i rapporti tra le stesse (acquisendo la pertinente documentazione: contratti d’appalto, di prestazione d’opera, ecc.) quale sia la posizione del lavoratore infortunatosi, se siano stati adottati atti di cooperazione e coordinamento per l’attuazione delle cautele di sicurezza, se vi sia stata informazione specifica sui rischi propri dell’ambiente nel quale le altre impresse erano chiamate ad operare. Nel caso di incidenti verificatisi in uffici pubblici è poi fondamentale chiarire, nel più breve tempo possibile, se l’amministrazione proprietaria dell’edificio sia diversa da quella che opera nell’edificio stesso e, in questo caso, quali siano i rapporti tra le due amministrazioni in materia di sicurezza, allo scopo di appurare se i responsabili dell’ente proprietario dell’immobile siano stati tempestivamente notiziati delle carenze riscontrate in materia di sicurezza e quindi richiesti di intervenire.
9. La responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. 231/2001
Un pubblico ministero “sensibile” non può non porre attenzione al tema della responsabilità dell’ente/società per illecito dipendente da reato; si tratta dell’ “universo” di cui al d.lgs. 231/2001, con riferimento al quale i contributi interpretativi più rilevanti di giurisprudenza e dottrina hanno trovato terreno fertile proprio nel settore della salute e sicurezza sul lavoro, una volta introdotto nel citato decreto l’art. 25 septies.
Si pensi, ad esempio, ai temi complessi e suggestivi della colpa di organizzazione, dell’individuazione dei soggetti in posizione apicale o sottoposta, ai concetti di interesse o vantaggio dell’ente, al contenuto dei modelli di organizzazione e gestione. Si tratta di questioni complesse che certamente non possono essere affrontate in questa sede. Basta dunque ricordare che ogni indagine in materia non può ormai non dedicare specifica attenzione anche al tema della responsabilità dell’ente, preoccupandosi di verificare, qualora ve ne siano i presupposti, a quali categorie delineate dall’art. 5 del d.lgs. 231/2001 vadano ricondotti gli autori del reato, se il reato sia stato commesso nell’interesse dell’ente/società, se questo ne abbia tratto un vantaggio (in termini di risparmio di spesa o di mancato decremento della produzione), se sia stato adottato ed efficacemente attuato un modello organizzativo, se, in definitiva, via sia stata quella colpa di organizzazione che la giurisprudenza più recente qualifica come il riflesso della responsabilità in parola.
Sommario: 1. Premessa. - 2. La nota informativa del Gruppo di Lavoro sulla giustizia cibernetica e sull’intelligenza artificiale. - 2.1. Il funzionamento dell’intelligenza artificiale generativa. - 2.2. I rischi dell’impiego dell’intelligenza artificiale generativa. - 2.3. Come avvalersi dell’intelligenza artificiale generativa. - 2.4. Quando non usare l’intelligenza artificiale generativa. - 3. Cenni al seminario del 20 febbraio 2024.
1. Premessa.
In materia di intelligenza artificiale e giustizia il Consiglio d’Europa ha costituito, nell’ambito dell’European Cyberjustice Network e quale articolazione della CEPEJ, cioè la Commissione europea per l’efficienza della giustizia, il Gruppo di lavoro sulla giustizia cibernetica e sull’intelligenza artificiale [“CEPEJ Working group on Cyberjustice and Artificial Intelligence (CEPEJ-GT-CYBERJUST)].
Tra le iniziative permanenti, si segnala il “Resource Centre on Cyberjustice and AI”, che costituisce un sito pubblicamente accessibile per informazioni affidabili sui sistemi di intelligenza artificiale ed altri strumenti chiave in tema di giustizia cibernetica applicati alla digitalizzazione del sistema giudiziario; e che consente di ottenere uno sguardo d’insieme di tali strumenti, costituendo il punto di partenza per gli approfondimenti sui loro rischi e benefici per i professionisti e gli utenti finali, in linea con la Carta etica europea sull’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e nel loro ambiente (risalente, ormai, già al 2018, reperibile al sito https://rm.coe.int/charte-ethique-fr-pour-publication-4-decembre-2018/16808f699b).
Il gruppo di lavoro ha rilasciato, il 12 febbraio scorso, una nota informativa sull’Uso dell’Intelligenza artificiale generativa da parte dei professionisti del diritto in ambito lavorativo (avallata dal Comitato consultivo sull’Intelligenza artificiale - Artificial Intelligence Advisory Board - AIAB della CEPEJ; e reperibile all’indirizzo https://www.coe.int/en/web/cepej/resource-centre-on-cyberjustice-and-ai); ed ha organizzato, nel pomeriggio del 20 febbraio, un webinar “European Cyberjustice Network (ECN) Webinar #7/2024 Generative Artificial intelligence (AI) in the field of Justice”
2. La nota informativa del Gruppo di Lavoro sulla giustizia cibernetica e sull’intelligenza artificiale.
La nota si apre con un paragrafo introduttivo, nel quale fornisce una definizione di Intelligenza artificiale generativa (d’ora in avanti, IAG): si tratta di programmi che comunicano in linguaggio naturale, capaci di fornire risposte a domande relativamente complesse e di creare contenuti (somministrare un testo, un’immagine o un suono) a seguito della formulazione di una domanda o di specifiche istruzioni (“prompt”): strumenti che includono OpenAI®, Copilot®, Gemini® e Bard®, tutti in rapida evoluzione. Lo scopo dichiarato della nota è di fornire alcune riflessioni su quanto i giudici e gli altri professionisti del settore della giustizia possono aspettarsi dall’uso degli strumenti di intelligenza artificiale generativa in un contesto giudiziario.
2.1. Il funzionamento dell’intelligenza artificiale generativa.
La nota prosegue con l’esame del modo di funzionamento dell’IAG: questa apprende regole e caratteristiche da ampie raccolte di dati ed è basata sulla comprensione statistica del linguaggio; il suo scopo è definire, con la maggiore possibile affidabilità, la parola più affine, senza conoscerne il significato. Ad esempio, quando il sistema scrive che J.F. Kennedy fu presidente degli Stati Uniti, non è perché si sta basando su di una base di conoscenza con un legame diretto tra i due frammenti di informazione, ma perché, nei dati di addestramento (training data) forniti, ha riscontrato una rilevante frequenza statistica dell’associazione tra Kennedy e “presidente degli Stati Uniti”: in tal modo, il programma ha dedotto che questa associazione doveva essere rilevante. Per la maggior parte, i dati di addestramento sono le informazioni fornite da altri utenti alla macchina attraverso i prompt.
IAG sembra offrire buoni risultati in un contesto chiaramente delimitato, come la traduzione di testi o la generazione di testi coerenti (ma non necessariamente veri) o di immagini o suoni, di sommari automatici di testi, di analisi semantiche e di rilevamento di opinioni, il “text mining” (tecnica che utilizza l'elaborazione del linguaggio naturale per trasformare il testo libero, non strutturato, di documenti/database in dati strutturati e normalizzati) e l’accesso ai contenuti.
2.2. I rischi dell’impiego dell’intelligenza artificiale generativa.
Quanto ai rischi, la nota del Gruppo di lavoro lucidamente li cataloga separatamente.
In primo luogo, c’è il rischio di potenziale produzione di informazioni fattualmente inaccurate (risposte false, “allucinazioni” e pregiudizi). Le risposte sbagliate possono derivare, prima di tutto, da dati di addestramento insufficienti o sbagliati; da dati falsi originano false risposte. Per allucinazioni si intendono le risposte semplicemente inventate: se non è rinvenuta nessuna risposta, l’algoritmo “inventa” una risposta plausibile o probabile, talvolta per l’elaborazione di una falsa correlazione tra i dati. Fondamentalmente, tutti i sistemi di IAG sono profondamente influenzati dai dati su cui sono stati addestrati. Per questo, essi non sono mai neutrali, ma, al contrario, incorporano tutti i pregiudizi, le inesattezze, le lacune o gli sbagli contenuti nelle basi di dati di addestramento o i pregiudizi culturali di quelli che hanno progettato il sistema e guidato il suo addestramento, validando alcune delle sue risposte. Possono esserci perfino casi in cui un pregiudizio può essere intenzionalmente stato immesso nell’algoritmo. L’opacità di programmazione dell’algoritmo e dei collegamenti dei sottostanti dati porta ad una ulteriore incomprensibilità e quindi a difficoltà nel riscontro di verità delle risposte fornite.
In secondo luogo, c’è il rischio di rivelazione di dati sensibili o riservati.
Le informazioni immesse sono trasmesse al fornitore del sistema e potenzialmente usate come dati di addestramento per gli utenti futuri e per generare futuri risultati: questo può portare ad una violazione della protezione dei dati personali o una non intenzionale rivelazione di dati riservati o altrimenti sensibili. Non è, per lo più, garantita la protezione dei dati trasmessi attraverso i sistemi di IAG; ne deriva che le conversazioni ed i relativi dati sono registrati nei server delle compagnie, spesso non europee, tanto da poter essere rivenduti (o esposti a razzie informatiche, a seconda del livello di sicurezza di questi server).
In terzo luogo, si segnala il pericolo di una perdita dei riferimenti dei dati forniti e di una possibile violazione del diritto di autore o di proprietà intellettuale. C’è scarsa trasparenza sull’origine delle informazioni adoperate per popolare le basi di dati e per l’addestramento. La maggior parte dei sistemi non può elencare e accreditare i testi usati per creare i risultati: e questo può non soltanto causare difficoltà nella verificazione di questi, ma anche integrare violazioni dei diritti d’autore. Mentre le cornici normative differiscono da paese a paese, tuttavia esse si applicano anche all’uso di IA, tanto che il contenuto realizzato potrebbe essere qualificato plagio.
Ancora, è limitata la capacità di fornire la stessa risposta ad una domanda uguale. La maggior parte dei sistemi di IAG contengono un grado di casualità che permette loro di proporre differenti risposte alla stessa domanda: le risposte possono differire, a seconda del momento in cui sono formulate o delle sfumature nella formulazione delle rispettive domande; pertanto, non si può sempre garantire lo stesso livello di qualità nelle risposte.
Inoltre, il risultato dei sistemi di IAG non è in alcun modo unico e può essere identico o simile a quello generato per un altro utente, sicché la sua fonte non dovrebbe mai essere tenuta nascosta. Inoltre, specialmente nel campo giudiziario, è essenziale essere trasparenti sull’uso di IA: la relazione con la parte è basata sulla fiducia.
Infine, mentre è variabile la stabilità e l’affidabilità dei modelli di IAG quanto a tempi di risposta e disponibilità dei servizi offerti (ciò che andrebbe quindi tenuto in debito conto nei processi per i quali il tempo è un fattore determinante), la relazione tra l’uomo e la macchina è di per sé pregiudicata dalle nostre capacità cognitive: anzi, tale relazione tende ad esaltare questi pregiudizi, poiché l’interazione con la macchina aumenta la percezione, da parte di questa, del fatto che quella sia “umana”. Lo scambio non è mai neutrale.
2.3. Come avvalersi dell’intelligenza artificiale generativa.
La nota del Gruppo di lavoro prosegue con il suggerimento delle cautele con cui è possibile avvalersi di IAG:
2.4. Quando non usare l’intelligenza artificiale generativa.
Il gruppo di lavoro conclude la sua nota informativa lanciando anche i suoi moniti, invitando a non fare uso di IAG:
3. Cenni al seminario del 20 febbraio 2024.
Il seminario, che ha visto la partecipazione di oltre una sessantina di professionisti della Giustizia, ha visto la presentazione di due esperienze nazionali: quella portoghese, di impiego di autentici chatbot per una guida pratica all’accesso alla giustizia, aperta al pubblico e con la premessa che non si tratta affatto di somministrazione di consigli legali, ma solo – appunto – di informazioni di orientamento per le procedure da seguire ed i relativi costi (https://justica.gov.pt/en-gb/Servicos/Justice-Practical-Guide-Beta-Version), per di più, al momento, limitata ad alcuni specifici settori, verosimilmente di più immediato interesse per la generalità dei cittadini; quella spagnola, che consente ai professionisti (e, soprattutto, ai giudici) di gestire la mole di informazioni contenute nei testi per estrarne sommari e dati rilevanti ai fini della formazione degli atti successivi, idonei a presentare il contenuto e perfino, talvolta, a conseguentemente classificare l’atto (https://www.mjusticia.gob.es/es/JusticiaEspana/ProyectosTransformacionJusticia/Documents/Transparencia%20de%20los%20medios%20empleados%20en%20la%20construcci%C3%B3n%20de%20algoritmos%20de%20inteligencia%20artificia.pdf).
Alle relative presentazioni è seguito un interessante dibattito coi relatori in ordine ai limiti, alle potenzialità, all’affidabilità, alla struttura stessa, alla replicabilità dei sistemi. Nessuna specifica esperienza è stata addotta per la realtà italiana.
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