ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Diritto d’amore e responsabilità civile esprime un’endiadi che già solo al primo sguardo sembra contenere una serie di relazioni e contraddizioni.
Scomponendo l’endiadi, la locuzione Diritto d’amore perviene, come è noto, da un celebre saggio di Rodotà su Politica del diritto[1], esito di un intervento tenuto al Festival della filosofia di Modena e dopo confluito nel lavoro monografico che ne rielabora i concetti in maniera più approfondita. In quella sede, l’A. esordisce con un interrogativo che costituisce il filo che conduce a tutte le digressioni successive, ovvero quello della compatibilità fra diritto e amore, due profili dell’esistenza umana così distanti per fondamenti epistemologici, funzioni ed esiti d’esperienza: esprimendo, si potrebbe dire in una scontata contraddizione, l’apollineo (il primo) e il dionisiaco (il secondo), l’ordine e il caos, la categorizzazione e la sorpresa, Creonte (e l’obbedienza alle leggi dell’ordine normativo) e Antigone (e la supremazia delle leggi dell’amore).
Sulla base di questa prima relazione conflittuale, l’A. passa a indagare un secondo aspetto, si può dire fondativo delle riflessioni contemporanee sul diritto, ovvero, per dirla con parole di chi scrive, se sia possibile una contro-narrazione rispetto all’idea (di foucaultiana memoria[2]) che il diritto sia un dispositivo che ha la precipua funzione di controllo sociale e di dominio sui corpi, e, di qui, che sia uno strumento che concorre a neutralizzare l’amore - e anche quelle che l’A. chiama le eccedenze dell’amore, che pure sfuggono al diritto.
In quelle pagine, fra le altre, l’A. ci ha proposto una straordinaria rilettura della scienza giuridica, come esperienza che porta con sé, coesistendo con l’opposta tensione razionalizzante e sistematizzante dell’esistenza umana, anche un seme generativo e trasformativo - quando esso dà rilevanza a interessi fondativi, riconducibili a soggettività socialmente riconosciute e su di esse costruendo diritti e formalizzando tutele.
Ma Diritto d’amore e responsabilità civile non può esimersi dal confronto con l’altra misura dell’endiadi, rimandando all’altrettanto celebre lavoro del prof. Patti sulla responsabilità civile nelle relazioni familiari[3], risalente ancor di più nel tempo, dove lo stesso A., con un accostamento apparentemente provocatorio, elabora il pensiero, altrettanto rivoluzionario, che la configurabilità dello strumento risarcitorio nel mondo dell’amore non sono non sia incompatibile con quello (in presenza dei requisiti che l’istituto richiede), ma sia anche, in certo modo, doverosa, stante la natura degli interessi coinvolti: ciò pur a fronte delle interminabili digressioni argomentative di dottrina e giurisprudenza, in particolare, sul danno non patrimoniale, sulle allegazioni necessarie e sulle poliedriche funzioni della responsabilità civile, che in questo ambito si rendono evidenti e talvolta sono anche consapevolmente assunte (es. art. 709 ter c.p.c.).
Incontestati gli approdi di quel pensiero (e lasciando da parte gli strascichi relativi alla riconducibilità a questo o a quel regime), resta la consapevolezza che, discorrendo di rimedio risarcitorio, siamo in un ambito argomentativo ben diverso dal tema rodotiano: l’art. 2043 c.c. non è lo strumento per affermare il rilievo degli interessi, tutt’altro. Esso si colloca nella dimensione della tutela, e in quanto tale successivo e secondario.
E questa affermazione non potrebbe apparire palesemente inutile nella sua banalità, se non fosse che siamo tutte e tutti consapevoli della deriva presa, suo malgrado, dalla scienza giuridica, la quale assume risonanza e riconoscibilità sociale quasi esclusivamente nella dimensione patologica.
Data quest’ultima constatazione e facendo una sorta di ipotetica sintesi fra diritto d’amore e responsabilità civile, come lettura che superi l’esperienza foucaultiana del diritto come mero strumento di controllo sulla libertà, sull’amore, sul corpo e sulla felicità degli uomini e delle donne, appare profondamente fallace appiattire il diritto nella dimensione patologica: non solo perché ciò significa allocare la responsabilità della costruzione della dimensione simbolica del diritto al solo ambito giurisdizionale, abdicando l’imprescindibile funzione politica della costruzione dell’ordine normativo e la funzione etica della dottrina; ma anche, e forse soprattutto, perché il diritto, nella costruzione dell’argomentazione, ha una profonda capacità generativa dell’ordine sociale di riferimento; da quello è permeato e quello stesso ordine sociale il diritto influenza in una mutualità di senso che è vivifica.
Tutto ciò pur senza tralasciare l’implicita capacità contenitiva (c.d. holding)[4], di matrice psicologica e psicoanalitica, che è propria del diritto - razionalizzante e categorizzante delle pulsioni più emotive, negative o di ostilità o stereotipia -, va nondimeno rivendicata la sua dimensione precedente alla fase patologica, riscoprendo il valore culturale, trasformativo, parte dell’esperienza umana. Proiettando l’argomento sul piano della responsabilità collettiva, al giurista è dato il compito di un utilizzo intelligente del diritto, a favore del vivente e non solo delle disposizioni vigenti, secondo le logiche assiologiche e personalistiche che la Costituzione ci chiama a onorare.
Fatte queste brevi premesse, che chiariscono l’adesione genuina e convinta della compatibilità fra diritto e amore e fra diritto d’amore e rimedio risarcitorio, è utile interrogarsi ora su dove si collochino gli orizzonti più inusitati della convergenza fra amore e responsabilità civile e, forse - anzi sicuramente prima - dove si spingerà la rilevanza degli interessi che Rodotà asseriva giustamente essere il prius logico per dare consistenza giuridica soggettività socialmente riconosciute.
E sembra potersi affermare con una certa dose di sicurezza che lo spazio di senso che appare di maggiore interesse è quello della genitorialità e delle genitorialità. Perché mentre l’ambito delle relazioni familiari adulte è ormai schiacciato su una certa retorica dell’autonomia privata (v. accordi prematrimoniali o a latere, contratti di convivenza, clausole di inefficacia dei doveri, cumulo di domande separazione e divorzio), quello dei minori si rappresenta multiforme: per un verso, ancora ancorato a uno spazio di inderogabilità, a principi di interesse superiore, di matrice pubblicistica; per altro verso, obbligato a confrontarsi con una dimensione tutta autodeterminativa dell’esperienza genitoriale.
Mi spiego, utilizzando proprio Rodotà.
Ragionare in punto di genitorialità, di genitorialità sociale e di omogenitorialità, seguendo la strada segnata, significa partire dall’idea che il diritto, se vuole avvicinarsi all’amore, deve, in primo luogo, abbandonare i suoi pregiudizi e farsi “discorso aperto”, senza che ciò significhi una perdita in termini di tecnicità. Come a dire che, se “l’amore ha le sue regole”, tanto irrazionali, quanto eterogene e variabili, allora il diritto non può pensare di impadronirsene e di soggiogarle in fattispecie impermeabili, ma deve offrire soluzioni a istanze affettive, trasformando tecnicamente sé stesso all’interno di una cornice di senso che, pur mantenendo l’assetto valoriale di riferimento, sappia “cogliere e accettare contingenza, variabilità e persino irrazionalità”.
Quanto premesso pare essere fondamentale quando si ragiona di genitorialità e di omogenitorialità: il diritto, e vieppiù l’interprete, nella riflessione sulla categoria di riferimento, nella costruzione della norma come nel percorso argomentativo del caso concreto, non possono esimersi dalla considerazione e dalla valutazione dell’esperienza soggettiva. Se ciò è vero all’interno della tradizionale e confortevole categoria della genitorialità biologica, non può non valere pure nel contesto della genitorialità sociale che comprende una composita fenomenologia: famiglie adottive e affidatarie, create con tecniche procreative, allargate-ricomposte, monoparentali, persino quelle straniere dove, banalmente, i concetti di parentela e affinità possono esondare/divergere dai confini che la norma occidentale prevede.
Questa premessa consente di fare alcune ulteriori riflessioni: è evidente, ormai, che, a fronte di un modello codicistico di filiazione sostanzialmente unitario, archetipico, fondato sul paradigma dominante e tradizionalmente ordinatore della genitorialità biologica (composta di eterosessualità nella procreazione, duplicità delle figure genitoriali, derivazione genetica, gestazione e parto) si contrappongono e si affiancano modelli genitoriali che si costituiscono e vivono nelle forme più diverse, si fondano su differenti presupposti e che prescindono da riconoscimenti e divieti esistenti.
Questo non solo perché “l’amore ha le sue regole”, sempre parafrasando Pascal, contingenti, eterogenee e variabili; ma anche perché queste esperienze affettive si basano su un presupposto tanto semplice, quanto irrazionale: la genitorialità, prima ancora del discorso giuridico, ha radici profonde, saldamente fissate in un terreno antico; essa è legata agli aspetti più primordiali della corporeità, rappresentandosi come un desiderio atavico, una pulsione irrazionale di perpetuazione della vita e, in un senso di onnipotenza, della creazione di un altro da sé, di una ri-nascita, e non necessariamente sempre in un senso biologista[5].
Se questo è vero, anzi costituisce un pre-dato del discorso giuridico, elemento implicito, indiscusso, anche socialmente accondisceso nella dimensione della genitorialità “naturale”, non può stupire che altrettanto sia nelle dinamiche ricorrenti nella genitorialità sociale.
È certamente vero che l’avvento dei progressi scientifici e culturali ha mutato radicalmente il paesaggio, per un verso, rendendo la genitorialità uno degli ambiti dell’autodeterminazione personale e delle disposizioni del corpo, luogo e oggetto di una delle scelte realizzabili nel mondo della possibilità procreativa; per altro verso, la stessa maternità appare sciolta dal legame intenso con la femminilità e con una certa dimensione naturalistica dell’esperienza, per assumere una forte dimensione progettuale. Questa dimensione nuova della corporeità e della genitorialità, in luogo di una maternità per alcuni aspetti dismessa, diviene un fatto autodeterminativo, sociale e psichico. Il corpo (e con esso gli aspetti più tradizionali della corporeità - quali la gestazione, l’allattamento, il parto naturale) da “luogo” anche metafisico in cui si realizza la procreazione, diviene strumento per realizzare la scelta, in una inusitata relazione fra il soggetto e la sua stessa corporeità.
Acquisito questo fatto, non può sconcertare che la pulsione narcisistica del paradigma procreativo sia assunta, se non con forza maggiore, quanto meno in misura analoga nella genitorialità sociale, soprattutto se connessa alle tecniche assistite, dove il dominio sul proprio appare implicito, sconfinando, talvolta con esiti incerti, nel terreno di una procreazione davvero artificiale, nell’utilizzo del proprio corpo e degli strumenti della tecnica e della scienza per realizzare, anche “forzando la natura”, la scelta, l’ultimo e quasi estremo desiderio di procreazione.
Non si tratta di un discorso fattualista, che meramente accondiscende la dimensione esperienziale a discapito della costruzione normativa e dei valori, e men che meno con una propensione valutativa; ma piuttosto di un elemento che non può non tenersi in considerazione, a più livelli, e anche nel senso delle conclusioni a cui si vuole approdare: perché se tutto ciò è vero, e la struttura fondativa dell’esperienza genitoriale è divenuta un percorso estremamente ricercato, voluto, consapevole e non privo di ostacoli (naturali e giuridici), di sofferenze (fisiche ed emotive) e di costi (precedenti e successivi alle nascita) e di rischi, come è possibile non immaginare di oltrepassare i tradizionali confini risarcitori della responsabilità endofamiliare per violazione dei doveri parentali, che tendenzialmente si attestano alle fattispecie di abbandono del genitore, delle costituzioni tardive del legame genitoriale e delle contestazioni tardive del legame ma con la consapevolezza della difformità fra dato biologico e status, fino alle più tradizionali condotte ostacolanti dei doveri genitoriali e denigranti dell’altro genitore.
Ebbene, sul piano interno, si possono sicuramente intravedere almeno tre profili rilevanti in tema di genitorialità sociali, che ancora non trovano una compiuta definizione e che, in stretta correlazione con questo, lasciano purtroppo ancora spazio, in termini abusivi, all’esercizio di diritti, determinando nondimeno la violazione dei principi della responsabilità nella procreazione, dell’autoresponsabilità (nel senso pugliattiano del termine), della solidarietà e…del diritto d’amore dei nati e delle nate dalle tecniche procreative:
Ponendo lo sguardo oltre la dimensione della sola genitorialità, osservando quella delle relazioni in un senso più ampio, su più piani è feconda la prospettiva dell’art. 8 Cedu: nella necessità che la tutela nazionale sia celere e effettiva, anche nella dimensione risarcitoria (Kuppinger c. Germania); che gli accertamenti sulla genitorialità siano rapidi e efficaci (Mikulić c. Croazia); che le regole consentano concretamente di accertare la paternità presunta (Bocu c. Romania), e la genitorialità di intenzione (Mennesson c. Francia; Labassee c. Francia). Perché, richiamando sempre la corte Edu, la vita familiare è intesa sì come reciproco godimento della relazione genitori/figli (Monory c. Romania e Ungheria; K.-T. c. Finlandia), ma anche come vita potenziale e non solo già vissuta (Nylund c. Finlandia); come nella dimensione dei legami fattuali con gli affidatari (Moretti e Benedetti c. Italia; Jolie et a. c. Belgio), con gli ascendenti (Marckx c. Belgio; Bronda c. Italia) e con gli zii e (Butt c. Norvegia).
L’orizzonte delle prospettive risarcitorie - anche oltre la dimensione prettamente genitoriale - è decisamente ampio, ma, prima ancora, ciò che appare limpido è il delinearsi della fase performativa dell’argomentazione, quella della rilevanza degli interessi minorili e delle soggettività socialmente riconosciute e che il diritto d’amore è chiamato comprendere, nei più sensi del verbo.
Resta indiscussa l’idea che diritto e amore siano compatibili e che questa compatibilità sia imprescindibile. Ma, sempre parafrasando Pascal, se è vero che l’amore ha le sue leggi, anche il diritto ha le sue leggi. E la via della saggezza feconda ci chiede di essere al contempo Antigone (che osserva le leggi dell’amore) e Creonte (che obbedisce a quelle del diritto): bisogna essere al contempo Antigone e Creonte, per non essere integralmente né Antigone né Creonte.
(Lo scritto rielabora la relazione tenuta dall'autrice al XX Congresso nazionale dell'Associazione Cammino, “Diritto d’amore per i vent’anni di Cammino, costruendo percorsi per la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili”, che si è tenuto a Roma nei giorni 25-25-27 gennaio 2024. Si tratta della prima di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno.)
[1] S. Rodotà, Diritto d’amore, in Pol. Dir., 2014, p. 335; poi Id., Diritto d’amore, ed. Laterza, 2014.
[2] V. proprio S. Rodotà, Foucault e le nuove forme del potere, ed. L’Espresso, 2011.
[3] S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Giuffrè, 1984, passim.
[4] J. Abram, Il linguaggio di Winnicott, Franco Angeli, 2013, che rielabora il concetto di Winnicott.
[5] Si consenta il rinvio ad A. Cordiano, Dalle tecniche procreative all’utero artificiale: una storia di limiti e di desiderio, in Nuovi paradigmi della filiazione, a cura di V. Barba, E.W. Di Mauro, B. Concas, V. Ravagnani, Sapienza-University Press, 2023, p. 445.
Immagine: Giuseppe Diotti, Antigone condannata a morte da Creonte, olio su tela, 1845, Accademia Carrara, Bergamo.
Sommario: 1. Perché questa domanda? - 2. La normativa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro. - 3. Il tavolo di lavoro del 2019 sull’edilizia giudiziaria. - 4. L’individuazione del datore di lavoro. - 5. Gli uffici giudiziari sono articolazioni decentrate o uffici periferici del Ministero della Giustizia?
1. Perché questa domanda?
L’interrogativo su chi debba essere individuato come datore di lavoro negli uffici giudiziari può apparire inutile o superfluo: abbiamo avuto ben due decreti ministeriali, in tempi diversi che danno una risposta univoca: “sono datori di lavoro:…..g) per gli uffici giudiziari, i rispettivi capi, e , in particolare, per gli uffici del giudice di pace, il giudice di pace coordinatore, per i commissariati agli usi civici, i commissari, e per la direzione nazionale antimafia, il procuratore nazionale antimafia”. Dizione contenuta nel D.M 18 novembre 1996 e parimenti ripetuta nel D.M. 12 febbraio 2002.
I dubbi nascono sia sotto il profilo normativo, sia sotto il profilo sostanziale relativo ai poteri decisionali e di spesa di cui deve disporre il soggetto individuato come datore di lavoro.
A livello normativo va tenuto conto che entrambi i decreti ministeriali sono antecedenti alla normativa che ha cambiato, ed in alcuni casi rivoluzionato, sia la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro (D. lgs. 9 aprile 2008 n.81), sia i ruoli di direzione dell’ufficio giudiziario (D.lgs. 25 luglio 2006 n.240), sia ancora le competenze di Ministero e uffici giudiziari (Commi 526 e seguenti della L. 23 dicembre 2014 n.190).
In particolare questa individuazione nasceva in applicazione di una normativa (il D. lgs.19 settembre 1994 n.626 relativo a salute e sicurezza dei luoghi di lavoro) superata ed assorbita dal D. lgs. n.81/2008 che imponeva all’art.30 l’individuazione da parte del vertice dell’Amministrazione pubblica dei soggetti identificati come datori di lavoro. Ciò risulta evidente anche dal titolo del Decreto Ministeriale del 12 febbraio 2002 “Individuazione del datore di lavoro e vigilanza in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.” Norma chiaramente abrogata grazie all’entrata in vigore del D. lgs. n.81/2008.
La stessa poca giurisprudenza esistente aumenta le perplessità ed i dubbi. È recente il decreto di archiviazione 7 luglio 2023 nei confronti del Presidente del Tribunale di Milano da parte del G.I.P. presso il Tribunale di Brescia che, per l’incendio sviluppatosi tra il 27 ed il 28 marzo 2020 al settimo piano del palazzo di giustizia di Milano, ha ritenuto che l’attività svolta dai vertici degli uffici milanesi nei confronti del Ministero della Giustizia di segnalazione e richiesta di interventi fosse stata puntualmente effettuata e fosse sufficiente per escludere una sua responsabilità.
Significative sono alcune frasi. “Per quanto riguarda i doveri, in materia di sicurezza, gravanti sui vertici degli Uffici Giudiziari, a prescindere dalla questione relativa all’attribuibilità della qualifica del “datore di lavoro” – apparentemente risolta in senso positivo dall’art. 1 co. 1 lett.G del decreto del Ministero della Giustizia del 12 febbraio 2002 – può certamente ritenersi che costoro siano soggetti alle disposizioni di cui all’art. 18 co III d.lgs. 81/2008, secondo cui obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione, necessari per assicurare la sicurezza dei locali e degli edifici (che restano a carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione), si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente o al soggetto che ne ha l’obbligo giuridico.”
2. La normativa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Conviene allora verificare a livello normativo chi viene individuato come datore di lavoro. All’art.2 lettera b) del D. Leg. n. 81/2008, che si occupa delle definizioni, viene testualmente scritto:
b) «datore di lavoro»: il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo;
Una prima considerazione formale riguarda l’assenza di un’espressa indicazione successiva al Decreto legislativo n.81/2008 dei soggetti individuabili come datori di lavoro negli uffici giudiziari, anche se al riguardo si potrebbe forse far riferimento ai precedenti Decreti Ministeriali già emessi in materia o ancora al Decreto 18 novembre 2014 n.201 (Regolamento recante norme per l’applicazione, nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, delle disposizioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro) che pur senza alcuna espressa individuazione, fa riferimento al Decreto ministeriale 12 febbraio 2002.
Ma l’elemento sostanziale è determinante, ovvero che nessuno dei dirigenti degli uffici giudiziari ha alcuna autonomia decisionale e di spesa sui terreni relativi all’edilizia giudiziaria e ai luoghi di lavoro.
A ben vedere l’unico cenno al riguardo si ha all’art.3 del D. Leg.25 luglio 2006 n.240 che prevede che l’amministrazione centrale assegni al dirigente amministrativo preposto all’ufficio giudiziario le risorse finanziarie e strumentali per l’espletamento del suo mandato. Risorse che paiono riguardare la gestione ordinaria e non i ben più incisivi interventi necessari in tema di edilizia giudiziaria, per i quali vi è un canale del tutto diverso che deve passare attraverso la Conferenza Permanente. E va anche aggiunto, risorse che oggi vengono stanziate, in misura contenuta, in favore dell’ufficio giudiziario e non al dirigente.
In realtà il punto di discrimine che ha fatto esplodere il problema relativo all’individuazione del datore di lavoro è stato il trasferimento dai Comuni al Ministero della Giustizia di tutte le funzioni in materia di gestione delle risorse materiali, dei beni e servizi per l’amministrazione degli uffici giudiziari, dei loro acquisti, anche in relazione ai beni immobili adibiti ad uffici giudiziari e alle dotazioni serventi (commi 527 e seguenti della L. 23 dicembre 2014 n.190). Difatti tutte queste attività venivano svolte in precedenza sulla base di accordi e direttive da parte degli uffici giudiziari con il Comune di riferimento, ma con grande autonomia da parte dell’ente locale e con strutture tecniche dedicate. Il passaggio, per giunta in modo improvviso e senza preparazione alcuna, di queste complesse attività e delle conseguenti responsabilità al Ministero nella sua struttura centrale, ha semplicemente voluto dire, in assenza di strutture decentrate del Ministero - Dipartimento Organizzazione Giudiziaria, di riversarle sugli uffici giudiziari e sui relativi dirigenti.
Dirigenti, magistrati e (nei limitati uffici in cui sono presenti) amministrativi, che non solo non avevano alcuna struttura tecnica su cui appoggiarsi, ma che per ogni intervento di minima rilevanza erano comunque costretti a rivolgersi al Ministero non avendo alcuna autonomia di spesa (salvo che per la piccola manutenzione).
La precarietà della situazione risulta implicita nel DPCM 15 giugno 2015 n.84 che all’art. 16 prevede che entro 180 giorni venga stabilita l’entrata in funzione degli uffici dirigenziali generali di cui al D. Lgs. n.240/2006 (ovvero l’originario decentramento amministrativo, ora ristretto a tre direzioni) e che nel frattempo “le funzioni attribuite alle direzioni generali possono essere delegate anche in parte agli uffici giudiziari distrettuali”. Uffici dirigenziali generali che comunque non vedevano mai la luce.
Situazione, quella della delega implicita agli uffici giudiziari distrettuali, che quindi da provvisoria e momentanea diventava cronica, perdurando per anni, anche dopo che questa disposizione veniva abrogata nel 2020.
Si pensava altresì di tamponare il nuovo quadro che si era determinato con la creazione della Conferenza permanente in ogni circondario composta dai capi degli uffici giudiziari, dai dirigenti amministrativi e dal Presidente del locale consiglio dell'ordine degli avvocati, - organo comunque chiamato non a decidere, ma ad individuare i fabbisogni necessari per il funzionamento, a segnalare le esigenze e a richiedere gli interventi necessari.
Le Conferenze permanenti potevano quindi essere solo uno strumento consultivo, di propulsione e di raccolta e trasmissione delle esigenze, non certo decisionale[1].
La cronicità della situazione che comportava un forte aumento di responsabilità verso operatori e utenti, senza avere né capacità di spesa, né autonomia decisionale in questo settore, faceva sempre più esplodere il problema con richieste di intervento da parte dei dirigenti degli uffici sia al Ministero che al C.S.M.
3. Il tavolo di lavoro del 2019 sull’edilizia giudiziaria.
D’altro canto anche il Ministero della Giustizia non si trovava ad affrontare una situazione facile. Con l’art.5 comma 3 lett. b) del DPCM 15 giugno 2015 n.84 venivano attribuite alla Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologia, incardinata nel Dipartimento Organizzazione Giudiziaria, le competenze connesse alle spese di funzionamento degli uffici giudiziari secondo le previsioni normative vigenti tempo per tempo, nonché quelle relative alla predisposizione e attuazione dei programmi per l’acquisto, la costruzione, la permuta, la vendita, la ristrutturazione dei beni immobili, in tal modo concentrando presso una sola struttura la gestione delle risorse materiali, dei beni e dei servizi dell’amministrazione giudiziaria, in precedenza esercitata da diversi uffici dell’amministrazione centrale unificando quanto prima era suddiviso. Tale Regolamento prevedeva anche la competenza delle Direzioni Generali decentrate, poi mai costituite. In tal modo tutte le competenze in materia di spese obbligatorie relative agli uffici giudiziari, in precedenza attribuite ai Comuni, venivano riversate direttamente sulla Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologie del Ministero della Giustizia che pacificamente non aveva né uomini, né strutture per reggerle.
Alcuni dati fanno capire le dimensioni epocali dell’impatto che il passaggio di competenze comportava e l’impossibilità da parte del Ministero di farvi fronte: 971 immobili da gestire, 6000 contratti nei quali subentrava il Ministero, una media di 244 milioni di euro nel triennio per quanto concerne le spese di funzionamento.[2]
La situazione era ulteriormente complicata dal fatto che il trasferimento delle spese di funzionamento degli uffici giudiziari al Ministero della Giustizia determinava il passaggio della gestione di tali immobili nell’ambito della complessa disciplina generale del Sistema Accentrato delle Manutenzioni previsto dall’art. 12 del D.L. n. 98/2001 che assegna all’Agenzia del Demanio la competenza in ordine alle decisioni di spesa riguardanti gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sugli immobili demaniali e comunali, nonchè in quelli in locazione passiva, destinati ad uffici giudiziari. L’Agenzia del demanio veniva così ad assumere, sulla base dell’attività di validazione ed assegnazione delle priorità tecniche da parte dei competenti Provveditorati per le Opere pubbliche e dei limiti di fondi disponibili, le decisioni di spesa per la manutenzione ordinaria e straordinaria, sia pure con la possibilità di specifiche deroghe codificate.[3]
Situazione complicata sia per la ripartizione di competenze, sia per la difficoltà di rapportarsi con l’Agenzia del Demanio ed i Provveditorati per le Opere pubbliche, istituzioni anch’esse oberate e carenti di personale e spesso problematiche anche solo per arrivare ad un contatto, con tempi tutt’altro che certi per la stessa gestione della programmazione e affidamento dei lavori.
Tale situazione indubbiamente critica portava il Ministero della Giustizia – Dipartimento Organizzazione giudiziaria a costituire con provvedimento del 24 aprile 2019 il Tavolo tecnico in materia di spese di funzionamento e di edilizia giudiziaria al quale partecipavano gli organi apicali di diverse Corti di Appello e Procure generali unitamente ad alcuni dirigenti amministrativi e rappresentanti dell’Avvocatura. Il Tavolo, a differenza di quanto spesso accade, si dimostrava di rara rapidità ed efficienza e pur con poche riunioni (cinque) giungeva a produrre proposte e decisioni, poi riassunte nella Relazione conclusiva del Tavolo tecnico in materia di spese di funzionamento e di edilizia giudiziaria dell’8 ottobre 2019 a firma del Capo Dipartimento. Da un lato venivano indicati gli interventi di breve periodo con il reclutamento di nuovo personale tecnico, di cui veniva stabilita una dotazione organica di 200 unità (63 funzionari tecnici e 137 assistenti tecnici), ripartiti a livello territoriale ed inquadrati presso gli uffici distrettuali, di cui partivano le procedure per l’assunzione, realizzata in tempi estremamente celeri. Dall’altro venivano proposti interventi a regime con la creazione di strutture periferiche di livello dirigenziale non generale funzionalmente dipendenti dalla Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologie e dotata di sufficienti unità dei profili tecnici, amministrativi e contabili cui veniva affidata la gestione di tutte le attività di edilizia giudiziaria e connesse, comprendendo tutte le materie trasmesse dai Comuni al Ministero. In tal modo rimane in capo agli uffici giudiziari unicamente la gestione della spesa relativa alle spese ordinarie e di mero funzionamento dell’Ufficio.[4]
Il Tavolo tecnico si concludeva, nel tempo record di sei mesi, individuando altresì una serie di nodi ulteriori da sciogliere da affrontare successivamente. Tavolo che anche a causa del Covid e del passaggio di legislatura veniva ripreso con tempi ed efficacia molto più blanda solo nel 2022.
Una delle questioni pacificamente irrisolte era proprio quella relativa a chi dovesse essere individuato come datore di lavoro.
In ogni caso le direzioni territoriali non generali venivano istituite con il Decreto Ministeriale 14 aprile 2022 che individuava la loro localizzazione in sette uffici periferici, siti in Torino, Venezia, Roma, Napoli, Palermo, Firenze, Milano, con competenza interregionale. Gli organici delle stesse (complessivamente 333 unità) venivano determinati con Decreti Ministeriali del 31 maggio 2023. Allo stato risulta in atto la procedura di reclutamento, ma le direzioni non risultano ancora costituite.
La creazione di queste direzioni avrà comunque un impatto sull’individuazione del datore di lavoro proprio per le competenze in materia di edilizia e lato sensu sicurezza che ricadranno su di loro.
4. L’individuazione del datore di lavoro.
Al di là della determinazione formale operata dal Ministero occorre quindi rifarsi ai requisiti che il D.Lgs. n.81/2008, ma anche i precedenti decreti in materia, individuavano per verificare chi fosse il datore di lavoro: colui che è responsabile dell’organizzazione dell’ufficio in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa.
Ed è indubbio che i poteri decisionali e di spesa in materia di edilizia giudiziaria e di gestione degli uffici giudiziari spettino e ricadano sul Ministero della Giustizia e sulle sue articolazioni, ovvero oggi solo la Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologie e domani anche le direzioni decentrate, ovviamente nei limiti delle competenze e risorse che loro verranno attribuite. Direzioni decentrate che superano anche le inevitabili perplessità derivanti dalla evidente lontananza del Ministero dei vari luoghi ed ambienti di lavoro in cui si articolano gli uffici giudiziari. [5]
I magistrati dirigenti degli uffici ed i dirigenti amministrativi hanno ovviamente un ruolo assimilabile a quello di dirigente[6] o preposto[7], con i relativi obblighi che comunque sono ben delineati dall’art. 18 comma 3.
“Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico.”
Il principio generale è che al potere di gestione e di spesa corrispondono simmetriche responsabilità: è l’effettiva ripartizione dei poteri all’interno della struttura a conformare la posizione del garante – datore di lavoro. Per cui il magistrato dirigente ed il dirigente amministrativo di un ufficio giudiziario avranno obblighi e responsabilità solo per quel limitato campo, anche relativo a sicurezza e igiene del lavoro, su cui hanno potere di intervento diretto (ad esempio l’ergonomia delle postazioni, gli estintori e le vie di uscita), mentre per il resto hanno un obbligo di segnalazione e di richiesta di intervento. L’ipotesi da qualcuno avanzata di far ricadere tutti gli obblighi sul dirigente amministrativo, dando una valenza molto ampia al citato art. 3 D. Lgs. n.240/2006, pare francamente insostenibile a fronte di plurimi argomenti. Da un lato le competenze che gli vengono date dalla legge sono limitate e ben definite e non significano una reale autonomia di spesa, dall’altro in concreto le risorse oggi vengono attribuite all’ufficio e non al dirigente amministrativo. Occorre sempre ricordare che l’art. 1 comma 1 del D. Lgs.n.240/2006 attribuisce “al magistrato capo dell’ufficio la titolarità e la rappresentanza dell’ufficio, nei rapporti con enti istituzionali e con i rappresentanti degli altri uffici giudiziari, nonché la competenza ad adottare i provvedimenti necessari per l’organizzazione dell’attività giudiziaria e, comunque, concernenti la gestione del personale di magistratura ed il suo stato giuridico”. E ciò ha portato sinora ad investire il magistrato capo dell’ufficio di quanto concerne le spese di funzionamento, quanto meno nella determina e nella firma.
Così pure non convince l’idea di scindere le responsabilità tra magistrato dirigente e dirigente amministrativo, l’uno per quanto riguarda i magistrati e l’altro per ciò che concerne il personale amministrativo. Chi pensa ad un’ipotesi di tal fatta non si rende conto come la normalità è che i magistrati ed il personale amministrativo operino negli stessi ambienti di lavoro e che la finalità del D. Lgs. n.240/2006, ben espressa nell’art. 4, è proprio quella di creare una direzione integrata che punti sull’unicità dei programmi e delle finalità e che pertanto non consente scissioni.
Ne consegue che il datore di lavoro è il Ministero, ma che vi sono obblighi concorrenti che riguardano anche chi opera sul territorio e che, come tale, è in grado di rendersi conto di manchevolezze e fonti di rischio e di conseguentemente di segnalarle e chiedere i necessari interventi.
5. Gli uffici giudiziari sono articolazioni decentrate o uffici periferici del Ministero della Giustizia?
Va infine sfatata o, almeno, posta in dubbio l’idea diffusa che gli uffici giudiziari siano articolazioni decentrate o uffici periferici del Ministero della Giustizia. La stessa scelta del decentramento operata (pur senza essere poi seriamente coltivata) nel D. Lgs. n.240/2008 evidenzia come lo stesso Ministero non ritenesse di avere fino a quel momento articolazioni decentrate. Emblematici sono i titoli del Capo II “Articolazioni decentrate del Ministero della Giustizia” e dell’art 6 “Uffici periferici dell’organizzazione giudiziaria”. La stessa dizione di uffici periferici dell’organizzazione giudiziaria viene usata nel Decreto ministeriale 14 aprile 2022 quando si parla delle nuove direzioni territoriali. E laddove il Ministero ha voluto coinvolgere gli uffici giudiziari lo ha detto espressamente. Nell’art. 6 comma 1 del DPR 18 agosto 2015 n.133 si chiarisce che le Conferenze permanenti operano “nell’ambito degli indirizzi e secondo le linee di pianificazione strategica stabiliti dal Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi del Ministero”. E nello stesso articolo 6 al comma 3 si prevede che “possono essere delegate ai capi degli uffici giudiziari le competenze relative alla formazione dei contratti necessari all’attuazione dei compiti di cui all’art. 4 comma 1.[8]Nella materia della sicurezza le medesime competenze possono essere delegate al procuratore generale.” Come del resto si faceva nel già citato art.16 comma 4 del DPCM 15 giugno 2015 n.84 laddove si prevedeva che nell’attesa della costituzione delle Direzioni generali decentrate “le funzioni attribuite alle direzioni generali possono essere delegate anche in parte agli uffici giudiziari distrettuali”. Norma poi abrogata.
Del resto se uno legge con attenzione da un lato il complesso disposto normativo che oggi si può definire come Ordinamento Giudiziario o, dall’altra parte, il Regolamento del Ministero della Giustizia non troverà alcuna interazione, trattandosi da una parte degli uffici destinati ad amministrare la giustizia e dall’altra l’istituzione centrale cui sono demandati, senza alcun rapporto gerarchico, ma semmai servente, “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” come recita l’art.110 della Costituzione. Una delega potrà essere sempre possibile trattandosi di organi con competenze (anche) amministrative, e dovendosi mantenere un costante rapporto di leale collaborazione, ma dovrà essere di volta in volta accettata, creando un quadro di obblighi a carico del delegato.
La questione in realtà è estremamente delicata perché deve coniugare profili di efficienza dell’intero sistema con le garanzie di indipendenza da assicurare agli uffici giudiziari. Uffici dipendenti dal Ministero, anche solo funzionalmente, rischiano comunque di essere condizionati. D’altro canto le esigenze di organizzazione e di efficienza impongono un’ottica nazionale. Al riguardo l’idea di direzione decentrate, come sorta di centro servizi degli uffici sulla base di un livello minimo di prestazioni assicurate, può essere un passo in avanti.
Una prospettiva forse nuova ed inusuale, ma che merita quanto meno una riflessione.
[1] “La Conferenza permanente, tenuto conto del decreto di cui all'articolo 1, commi 528 e 529, della legge, individua e propone i fabbisogni necessari ad assicurare il funzionamento degli uffici giudiziari e indica le specifiche esigenze concernenti la gestione, anche logistica e con riferimento alla ripartizione ed assegnazione degli spazi interni tra uffici, la manutenzione dei beni immobili e delle pertinenti strutture, nonché quelle concernenti i servizi, compresi il riscaldamento, la climatizzazione, le utenze, la pulizia e la disinfestazione, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il giardinaggio, il facchinaggio, i traslochi, la vigilanza e la custodia, compresi gli aspetti tecnici e amministrativi della sicurezza degli edifici. Restano ferme le competenze dei titolari dei poteri di spesa.”
[2] I dati sono ripresi dalla Relazione conclusiva del Tavolo tecnico in materia di spese di funzionamento e di edilizia giudiziaria dell’8 ottobre 2019.
[3] Le deroghe che si sostanziano nel fatto che gli interventi sono effettuati con fondi del Ministero della Giustizia riguardano i seguenti casi: 1. Nuove costruzioni e ampliamenti, 2. Piccola manutenzione, 3. Somma urgenza, 4. Interventi per l’adeguamento alla sicurezza sul lavoro. 5.Valutazioni di vulnerabilità sismica. 6.Ipotesi minori.
[4] Un’altra delle determinazioni uscite dal Tavolo tecnico è stato l’inserimento stabile da prevedersi a livello normativo della presenza dell’Avvocatura nelle Conferenze permanenti, poi recepito nella legge di bilancio 2020.
[5] Comunque sia pure in materia aziendale la Cassazione ha ritenuto di qualificare come datore di lavoro il soggetto che esercita i poteri decisionali e di spesa “con riferimento a tutta l’operatività aziendale” “l’unicità del concetto di datore di lavoro” porterebbe ad “escludere che la relativa figura possa essere sotto-articolata a seconda delle funzioni svolte o dei settori produttivi”.(Cassazione sezione III 15 febbraio 2022 n.9028)
[6] La definizione che dà del dirigente l’art 2 lettera d) del D. Lgs n.81/2008 è la seguente: "dirigente": persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa.
[7] La definizione che dà del preposto l’art 2. Lettera e) del D. Lgs n.81/2008 è la seguente: "preposto": persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa esercitando un funzionale potere di iniziativa.
[8] “La Conferenza permanente, tenuto conto del decreto di cui all'articolo 1, commi 528 e 529, della legge, individua e propone i fabbisogni necessari ad assicurare il funzionamento degli uffici giudiziari e indica le specifiche esigenze concernenti la gestione, anche logistica e con riferimento alla ripartizione ed assegnazione degli spazi interni tra uffici, la manutenzione dei beni immobili e delle pertinenti strutture, nonché quelle concernenti i servizi, compresi il riscaldamento, la climatizzazione, le utenze, la pulizia e la disinfestazione, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il giardinaggio, il facchinaggio, i traslochi, la vigilanza e la custodia, compresi gli aspetti tecnici e amministrativi della sicurezza degli edifici. Restano ferme le competenze dei titolari dei poteri di spesa.
“Unpacking the courts”: prevenzione e reazione agli attacchi all’indipendenza dei giudici. Brevi riflessioni a partire dal Convegno “Giudice e stato di diritto”
di Simone Pitto
Sommario: 1. Introduzione – 2. Indipendenza dei giudici e stato di diritto – 3. Bersagli e custodi - 4. Rule of law, CEDU e Consiglio d’Europa – 5. L’indipendenza dei giudici come valore fondante dell’Unione europea - 6. La Consulta e l’espansione del principio dell’indipendenza del giudice - 7. Alcune osservazioni di chiusura
1. Introduzione
Il presente scritto muove dalle riflessioni su indipendenza e imparzialità delle corti svolte dai relatori del Convegno “Giudice e stato di diritto”, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura il 20.10.2023 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, alla presenza del Presidente della Repubblica, i cui atti sono stati recentemente raccolti nel volume “Il giudice e lo stato di diritto. Indipendenza della magistratura e interpretazione della legge nel dialogo tra le Corti”, Milano Giuffré, 2024[1].
I lavori del convegno si sono focalizzati su un tema di particolare attualità: il significato odierno dell'indipendenza delle corti a livello nazionale ed europeo e il suo valore per lo stato di diritto[2].
In una società libera e democratica, l’indipendenza della magistratura rappresenta per i cittadini la prima garanzia di una decisione giudiziaria fondata esclusivamente sulla legge[3] e dell’uguaglianza effettiva di tutti d’innanzi alla stessa[4]. Autonomia e l’indipendenza della magistratura, inoltre, costituiscono un baluardo a protezione del principio della separazione dei poteri. Sono infatti naturalmente orientate ad evitare che le decisioni del giudice risultino condizionate da interessi politici, personali o logiche di carattere maggioritario estranee a quelle del solo diritto[5].
Tali garanzie rappresentano l’eredità del costituzionalismo liberaldemocratico inteso come processo di progressiva limitazione del potere[6] e di affermazione di un nucleo di diritti inviolabili dell’individuo[7], i quali trovano nella giurisdizione la sede privilegiata per la loro protezione di fronte ad eventuali limitazioni e lesioni, anche da parte dei pubblici poteri[8].
In questo quadro, uno degli elementi di più attuale interesse rispetto ai temi del convegno riguarda le minacce all’indipendenza delle corti e le relative misure di reazione. Le recenti vicende di regressione democratica che hanno caratterizzato alcune esperienze di democrazie c.d. illiberali nel cuore dell’Europa ed il conseguente tentativo di “impacchettare le corti” nazionali e costituzionali[9], hanno contribuito a riportare la tematica al centro delle preoccupazioni delle istituzioni unionali e della giurisprudenza delle corti europee[10]. Vicende centrali anche negli interventi del convegno dei Lincei svolti dalla Presidente emerita della Corte costituzionale Marta Cartabia, dalla Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Siofra O’Leary, dal Presidente della Corte di giustizia dell’Unione europea Koen Lenaerts, dalla Presidente uscente della Consulta Silvana Sciarra e dal Presidente della Scuola Superiore della Magistratura Giorgio Lattanzi[11].
2. Indipendenza dei giudici e stato di diritto
Il concetto di stato di diritto ha subito un’evoluzione dall’originaria visione ottocentesca di mera soggezione dello Stato al diritto da esso emanato, come osservato da Natalino Irti nell’intervento di apertura del convegno[12]. Dall’indicare un modello, inedito per l’epoca, di Stato contrapposto a quello assolutistico e fondato sulla soggezione dei poteri pubblici alla legge e la separazione di quegli stessi poteri, lo stato di diritto si è così via arricchito di significati ulteriori. Tra questi, il controllo giurisdizionale garantito da giudici indipendenti a garanzia delle libertà individuali[13], attuato anche nei confronti dei poteri pubblici ma anche la prevedibilità del diritto[14].
Si può osservare che l’indipendenza dei giudici risulta centrale in tutte le principali (e non sempre pienamente sovrapponibili) declinazioni esistenti in altri contesti giuridici del lemma concettuale dello stato di diritto, quali i concetti di rechtsstaat[15], état de droit[16], estado de derecho e rule of law[17].
L’indipendenza della magistratura, d’altra parte, assume un valore peculiare all’interno dello stato di diritto. Per usare le parole di Giuliano Amato, tale valore si coglie considerando che «il cuore vero del costituzionalismo» risiede proprio in «quella dialettica iurisdictio/gubernaculum, in cui prese corpo il limite al potere e quindi la stessa rule of law»[18].
Lo stato di diritto, rimasto a lungo oggetto di interesse solo per gli studiosi, come osserva la Presidente emerita Marta Cartabia, è tornato in tempi più vicini a noi fortemente al centro della vita pubblica, sia a livello nazionale, sia europeo e internazionale. Lo dimostrano i numerosi interventi e moniti preoccupati di istituzioni come la Commissione europea ma anche il Consiglio d’Europa e la Commissione di Venezia, promotori di diverse raccomandazioni a vari Stati proprio sul rispetto dello stato di diritto.
Desta particolare interesse, inoltre, il discorso del Segretario Generale delle Nazioni Unite citato dall’ex Presidente della Consulta[19], secondo il quale saremmo di fronte ad un declino dei valori fondanti della rule of law a livello globale. Valori da molti considerati come acquisiti, tanto sono scolpiti nelle fondamenta della tradizione giuridica liberaldemocratica, ma che risultano minacciati, da più fronti, anche in ordinamenti che si ispirano dichiaratamente al principio democratico.
Lo stato di diritto risulta sotto attacco da parte di regimi restii ad accettare la limitazione delle proprie prerogative da parte del giudiziario e intenzionati a sovvertire i meccanismi legali che garantiscono ai giudici di svolgere le proprie funzioni. È accaduto in Polonia, fra l’altro, con la “cattura” della Corte costituzionale da parte della compagine governativa guidata dal partito Diritto e Giustizia (PiS) e le modifiche alle norme dell’ordinamento giudiziario tese a realizzare pensionamenti anticipati di magistrati sgraditi. Ma anche in Ungheria, con le modifiche sull’accesso in magistratura, le promozioni e i trasferimenti tesi a penalizzare e isolare la magistratura indipendente[20]. O ancora in Israele, dove la proposta di una discussa riforma della giustizia – da molti considerata lesiva delle prerogative della magistratura – aveva dato avvio ad un’ondata di proteste prima dei drammatici recenti eventi dell’ottobre 2023 e della successiva escalation militare[21]. Tra gli altri esempi che residuano, si può citare anche il recente e forse meno esplorato caso della Romania[22].
Le minacce non sono del tutto inedite ma l’elemento che le rende particolarmente insidiose si apprezza con particolare riguardo all’utilizzo dei nuovi e potenti mezzi dell’era della comunicazione digitale che, alimentando fake news e disinformazione, contribuiscono all’inasprimento del clima. A ciò si aggiunge che, in molti casi, bersagli di tali “attacchi digitali” sono stati direttamente i magistrati. Ciò è avvenuto ancora in Polonia con il tentativo di raccogliere dati sull’appartenenza ad associazioni, fondazioni e gruppi d’opinione finalizzati alla creazione di un bollettino pubblico (Biuletyn Informacji Publicznej), in seguito dichiarato contrario al GDPR e al diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 7 della Carta di Nizza in una recente decisione della Corte di Lussemburgo[23].
3. Bersagli e custodi
L’emersione di modelli democratici illiberali si accompagna quindi a crescenti tensioni nei rapporti istituzionali e ad attacchi che hanno come obiettivo privilegiato i giudici e la loro indipendenza. Si tratta di fenomeni non solo circoscritti all’area europea e piuttosto eterogenei quanto alle modalità e alla gravità. Nella bipartizione proposta dalla Presidente emerita Marta Cartabia si distinguono in primo luogo i tentativi di “court-packing” perpetrati attraverso un indebolimento dei giudici e delle garanzie della loro indipendenza[24]. Vari sono gli esempi di questo genere: si possono citare gli interventi sulle nomine per allargare l’influenza delle componenti politiche maggioritarie, l’anticipazione dell’uscita dei magistrati sgraditi attuata tramite misure di pensionamento o retrocessioni di carriera o ancora l’intervento sulle disposizioni che regolano il funzionamento interno delle corti e le maggioranze necessarie alle deliberazioni[25].
Una seconda categoria di attentati all’indipendenza del giudiziario individuata verte più direttamente sui poteri e le funzioni dei giudici e trova il proprio bersaglio privilegiato nel controllo di legittimità costituzionale. Vi rientrano i tentativi di limitare il vaglio delle corti costituzionali a determinati atti ovvero a specifici vizi, ovvero di intervenire sulle norme che regolano il funzionamento dei tribunali costituzionali[26]; ma anche, più in generale, le misure volte a sterilizzare le potenzialità dello strumentario a disposizione dei giudici di legittimità costituzionale. Ne è un esempio il tentativo di limitare il vaglio di ragionevolezza sulle leggi attuato recentemente in Israele[27].
Se è vero che l’indipendenza delle corti rappresenta uno degli elementi fondamentali dello stato di diritto, o rectius dello stato costituzionale europeo di diritto, sotto altra prospettiva, va considerato che i giudici possono assumere anche un ruolo da custodi del sistema[28].
In primo luogo, le componenti fondanti dello stato di diritto, tra cui le garanzie di indipendenza del giudiziario, la separazione dei poteri e la tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi risultano di norma tutelate nei testi delle costituzioni nazionali. Tali disposizioni, dunque, possono essere invocate nell’ambito dei meccanismi di controllo di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge limitativi dell’indipendenza della magistratura[29].
Ma gli strumenti a disposizione delle corti, almeno nel contesto europeo, non si limitano ai meccanismi di controllo giurisdizionale e costituzionale propri del solo contesto nazionale. I giudici europei, infatti, possono contare sul rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea a presidio dei valori fondanti dello stato di diritto tutelato dall’art. 2 del TUE[30]. Proprio con riguardo alle vicende polacche e ungheresi, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dimostrato il proprio ruolo di interlocutore privilegiato per autorità giurisdizionali nazionali in sofferenza siccome minacciate nelle proprie prerogative di indipendenza. La giurisprudenza evolutiva della CGUE, inoltre, ha progressivamente affinato gli strumenti di enforcement dei valori fondamentali dell’Unione[31].
Alla Corte di Lussemburgo si affianca ancora il Consiglio d’Europea e, soprattutto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha ricondotto le lesioni all’indipendenza della magistratura e della rule of law alle garanzie procedurali di cui all’art. 6 CEDU. Accanto a questi meccanismi di tutela, dei quali si dirà di più nelle pagine seguenti, si accostano naturalmente gli strumenti giurisdizionali di cui dispongono i giudici come individui, grazie ai quali possono reagire agli eventuali attacchi diretti e lesivi delle proprie libertà costituzionali.
4. Rule of law, CEDU e Consiglio d’Europa
L'intervento della Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Siofra O'Leary ha fornito una panoramica completa della presenza dello stato di diritto nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e nel sistema della CEDU. Il rispetto della rule of law, innanzitutto, rappresenta uno dei principi costitutivi l’appartenenza degli Stati al Consiglio d’Europa, come testimoniato dall’art. 3 dello Statuto di tale organo[32]. Gli stessi principi animano del resto in larga parte le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e, in particolare, il suo art. 6[33].
Nella relazione della Presidente O’Leary risulta di particolare interesse la riflessione sui problematici contorni definitori della poliedrica nozione di rule of law, punto di convergenza di visioni del diritto anche piuttosto distanti tra i diversi Stati aderenti al Consiglio d’Europa[34]. Proprio in virtù di queste criticità definitorie assume maggior importanza il lavoro svolto dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, comunemente nota come Commissione di Venezia. La “checklist” sulla rule of law elaborata dalla Commissione[35], infatti, rappresenta un riferimento giuridico e culturale primario per enucleare le componenti minime del principio valevoli per gli Stati parte del Consiglio d’Europa. Ad avviso della Commissione di Venezia, in sintesi, sono cinque gli elementi fondamentali della rule of law: (i) legalità, (ii) certezza del diritto, (iii) prevenzione dell'abuso o dell'uso improprio dei poteri; (iv) uguaglianza davanti alla legge e non discriminazione e, infine, (iv) l’accesso alla giustizia. Per ogni componente sono altresì indicate alcune sottocomponenti. Tra queste, la prima sottocomponente del principio dell’accesso alla giustizia è proprio l’indipendenza della magistratura, a sua volta vagliata tramite la verifica dell’indipendenza dell’ordine giudiziario nel suo complesso, nonché dei singoli giudici. Tra le altre sottocomponenti relative all’accesso alla giustizia vi sono, ancora, il controllo di costituzionalità delle leggi ed il giusto processo (fair trial). La garanzia di quest’ultimo tramite la sottoposizione di reclami e ricorsi ad un «tribunale indipendente e imparziale» è del resto espressamente sancita anche dall’art. 6 CEDU.
Proprio sulle garanzie del giusto processo si sono incentrate alcune delle principali pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo dedicate allo stato di diritto nel sistema della CEDU e all’indipendenza della magistratura. A partire dal caso Golder v. Regno Unito del 1975[36], richiamato dalla Presidente O’Leary[37], la Corte rigetta una lettura del principio della rule of law come formula meramente retorica, ammettendo invece la sua rilevanza quale ausilio ermeneutico nell’interpretazione della Convenzione.
Ma la Corte europea dei diritti dell’uomo non si esime dall’entrare direttamente nell’arena della garanzia dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice quando questa risulta minacciata, come dimostrano alcuni recenti casi. Su tutti, i numerosi giudizi che coinvolgono il reclutamento dei giudici e altre disposizioni dell’ordinamento giudiziario in Polonia[38].
Nella recentissima decisione Wałęsa c. Polonia del 23 novembre 2023[39], la Corte di Strasburgo ha nuovamente condannato la Polonia per la violazione di diverse disposizioni della CEDU, tra cui proprio l’art. 6. La decisione origina da una denuncia per diffamazione proposta dall’ex Presidente polacco Lech Wałęsa, premio Nobel per la pace e leader di Solidarność, accusato di aver collaborato con i servizi di sicurezza[40]. La Corte europea ha negato la natura di giudice indipendente e imparziale della Camera di Controllo Straordinario e degli Affari Pubblici istituita presso Corte Suprema polacca che aveva esaminato l'appello straordinario proposto nel caso Wałęsa avverso la decisione di condanna di primo grado. La Camera polacca è stata ritenuta priva delle garanzie di imparzialità dell’art. 6 CEDU, tra l’altro, in ragione della sua composizione, del ruolo del procuratore generale (che nel sistema polacco è anche ministro della giustizia) e in relazione al principio di certezza del diritto[41]. Significativamente, anche tenuto conto della presenza di oltre 400 giudizi pendenti nei confronti della Polonia in argomento, il caso Wałęsa è stato considerato dalla Corte alla stregua di una sentenza pilota[42]. Si riconoscono infatti violazioni sistemiche dal punto di vista delle garanzie della rule of law che si traducono in ripetute violazioni dell’art. 6 CEDU, con un chiaro messaggio alle autorità polacche ed un complesso di indicazioni relative alle aree in cui sono necessari interventi per ripristinare lo stato di diritto[43].
In altri casi, quali Baka c. Ungheria, ulteriori disposizioni della CEDU, come gli articoli 8 (diritto alla vita privata e familiare) e 10 (libertà di espressione), sono state utilizzati come presidi a tutela di turbative dell’indipendenza dei giudici[44]. La Corte ha messo in relazione tali disposizioni con interferenze da parte di poteri politici passibili di incidere sull’autonomia dei giudici. Come osservato dalla Presidente O’Leary, la Corte fornisce così una risposta perentoria di fronte al possibile effetto paralizzante offerto dai tentativi di sanzionare i giudici per la partecipazione al dibattito pubblico.
In nuce, se è vero che la Convenzione e la Corte non prescrivono un solo modello uniforme e generale per i sistemi giudiziari nazionali, la centralità dei principi della rule of law nell’impianto della CEDU richiede in ogni caso l’adozione di garanzie concrete per proteggere l'indipendenza giudiziaria e la separazione dei poteri, la cui mancanza può comportare la violazione delle disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
5. L’indipendenza dei giudici come valore fondante dell’Unione europea
La giurisprudenza delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo sullo stato di diritto e l’indipendenza delle Corti pare presentare derive in parte sovrapponibili, come evidenziato dal Presidente della Corte di Giustizia Koen Lenaerts nella propria relazione[45]. L'indipendenza del potere giudiziario, sancita nella maggioranza delle costituzioni degli Stati membri dell’Unione europea, costituisce un elemento di precipua importanza anche per i rapporti e la fiducia tra gli Stati membri. Si deve infatti considerare la forte integrazione raggiunta tra i sistemi giudiziari dei diversi sistemi europei, favorita dai regolamenti che ormai da decenni garantiscono il mutuo riconoscimento delle decisioni ed altre forme di cooperazione giudiziaria alla base, ad esempio, del mandato d’arresto europeo[46]. Tali istituti si reggono sulla fiducia riposta da ciascuno Stato membro sul rispetto delle garanzie minime di imparzialità, indipendenza delle corti e tutela dei principi del giusto processo facenti parte delle tradizioni costituzionali comuni da parte degli altri Stati.
Si colloca proprio in questo contesto la decisione dei giudici portoghesi citata dal Presidente Lenaerts, considerata un “momento costituzionale” di fondamentale importanza nell'applicazione del principio di indipendenza giudiziaria[47]. Il Presidente Lenaerts richiama un dibattito attualissimo nel diritto costituzionale europeo che vede proprio nella partita giocata sulla rule of law e la condizionalità al bilancio dell’UE una nuova possibile fase costituzionale per l’Unione[48].
La Corte ha in particolare ricondotto l'articolo 19 del Trattato sull'Unione Europea – e segnatamente il riferimento all’obbligo degli Stati di stabilire i rimedi necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto unionale – ai valori dell'Unione sanciti dall'articolo 2 del trattato e, in particolare, alla garanzia dello stato di diritto[49]. Nell’ottica della CGUE, in altre parole, l'indipendenza giudiziaria è vista anche come una forma di protezione dei valori fondanti dell’Unione.
Un altro ambito ove è stata evidenziata la centralità dell’indipendenza delle corti nazionali nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo è quello della cooperazione in materia penale. Le fattispecie più ricorrenti riguardano il mandato d’arresto europeo (MAE). Va richiamata, a questo riguardo, la giurisprudenza sulle c.d. circostanze eccezionali: elementi insuperabili che minano quella fiducia presunta tra autorità giurisdizionali degli Stati membri impedendo di dar seguito ad un MAE in ragione di gravi carenze degli organi giudiziari nazionali[50]. I tribunali di alcuni Stati membri hanno così ritenuto opportuno inoltrare rinvii pregiudiziali ex art. 267 TFUE alla Corte di giustizia per evitare di diventare complici involontari nella violazione dei principi di indipendenza del giudiziario alla base della rule of law in caso di cooperazione giudiziaria con autorità giurisdizionali polacche.
Ancora, nel caso LM[51], una corte irlandese aveva proposto un rinvio pregiudiziale dubitando di poter dare esecuzione ad un MAE richiesto da autorità polacche in presenza di timori circa la violazione dello stato di diritto e dell’indipendenza dei giudici nel paese[52]. In quell’occasione, la Corte di Giustizia ha ribadito l’obbligo di tutte le autorità giudiziarie degli Stati membri di garantire il rispetto dei valori comuni europei e ricondotto in capo alle corti nazionali il dovere di valutare in concreto la presenza di violazioni dello stato di diritto[53]. Secondo la Corte, più nel dettaglio, l’autorità giurisdizionale nazionale dovrà valutare “l’esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo, connesso a una mancanza di indipendenza dei giudici di detto Stato membro, a causa di carenze sistemiche o generalizzate in quest’ultimo Stato”[54].
La lezione della giurisprudenza della Corte di giustizia, sotto altro profilo, si coglie non solo rispetto all’affermazione di garanzie a presidio dei valori fondanti dell’Unione in materia di rule of law e indipendenza del giudiziario ma anche laddove la Corte mette in guardia di fronte al rischio di una loro successiva alterazione o diminutio. La dottrina della c.d. “non regressione” ha così fatto frequentemente ingresso nelle decisioni dei giudici di Lussemburgo, i quali hanno ricordato la necessità degli Stati membri di non compiere passi indietro negli impegni assunti in relazione all’amministrazione della giustizia, pena il rischio di apertura di procedure di infrazione[55].
6. La Consulta e l’espansione del principio dell’indipendenza del giudice
Le Corti europee possono dunque giocare un ruolo di rilievo nel vigilare sul rispetto dei principi dello Stato di diritto in materia di indipendenza del giudiziario. Ma tali principi, come si è detto, non possono che trovare nella rigidità costituzionale e nel controllo di costituzionalità delle leggi da parte dei giudici costituzionali le primarie e più immediate difese. L’intervento della Presidente Sciarra[56], in tale prospettiva, ha così evidenziato il ruolo svolto della Corte costituzionale italiana nell'interpretazione dei valori costituzionali rilevanti per lo stato di diritto e nella loro armonizzazione con la normativa europea e le letture ermeneutiche offerte da autorità sovranazionali, nel segno di quel dialogo tra corti ormai consolidato da tempo[57].
Nel suo discorso, la Presidente uscente della Consulta ha sottolineato la centralità della presenza di indicatori trasparenti e non estemporanei per individuare il livello di aderenza allo stato di diritto. Vi rientrano, oltre alla checklist sopra richiamata, la relazione sullo stato di diritto della Commissione Europea ed il rapporto del segretario generale del Consiglio d'Europa. Questi indicatori, uniti agli approdi ermeneutici delle Corti europee, costituiscono preziosi ausili per i giudici nazionali al fine di compiere quella valutazione sul rispetto della rule of law anche ai fini della cooperazione giudiziaria eurounitaria.
L’indipendenza dell’autorità giudiziaria viene così a costituire un prerequisito per qualsiasi giudice che intenda intervenire nel sistema multilivello di protezione dei diritti ovvero beneficiare dei meccanismi di cooperazione giudiziaria e dialogo tra corti a livello europeo[58].
Tali principi possono estendersi anche al sistema di cooperazione tra consigli giudiziari e, in particolare, al CCEJ (Consultative Council of European Judges), organo consultivo del Consiglio d’Europa e all’ENCJ (European Networks of Councils for the Judiciary)[59]. Quest’ultimo, peraltro, ha mostrato l’intenzione di applicare detti principi alla lettera, escludendo il Consiglio Nazionale della magistratura polacco dalla Rete europea dei consigli di giustizia in ragione del venir meno delle fondamentali garanzie di indipendenza del giudiziario[60].
Meccanismi di questo tipo – osserva la Presidente Sciarra – concorrono a creare una sinergia tra corti e consigli giudiziari che consente un controllo “tra pari” per garantire il rispetto dell’indipendenza dei giudici, considerata un prerequisito per ogni corte nazionale che intenda dialogare con le Corti europee[61].
In tale contesto, anche la Corte costituzionale italiana si è fatta partecipe di questi sforzi sinergici a presidio dell’indipendenza dei giudici. La Corte ha riconosciuto la centralità dell’indipendenza nel sistema costituzionale a partire da sé stessa: la Consulta ha infatti affermando che, alla luce delle attribuzioni della Corte come “altissimo organo di garanzia dell'ordinamento repubblicano”[62], devono essere “assicurate sotto ogni aspetto - anche nelle forme esteriori - la più rigorosa imparzialità e l'effettiva parità rispetto agli altri organi immediatamente partecipi della sovranità”[63]. Nella medesima decisione, la Corte ha aggiunto che “[u]na tale esigenza, per l'appunto, è testualmente affermata nell'art. 137 della Costituzione, laddove, nel primo comma riserva alla legge costituzionale di stabilire - tra l'altro – “le garanzie di indipendenza dei giudici”. La Consulta ricorda in questa pronuncia anche la lungimiranza della scelta dei Costituenti di sottoporre le guarentigie dell’indipendenza della Corte costituzionale alla protezione ulteriore offerta dal procedimento aggravato previsto per la legge costituzionale. L’importanza di tale primaria garanzia si apprezza muovendo lo sguardo oltre confine e pensando all’“impacchettamento” della Corte costituzionale polacca da parte della maggioranza guidata dal PiS, avvenuta – diversamente dal caso ungherese – a costituzione invariata[64].
Sotto altro profilo, la Consulta si è fatta promotrice dell’espansione del principio dell’autonomia e dell’indipendenza del giudiziario e dell’armonizzazione tra le disposizioni della CEDU, l’interpretazione della Corte di Strasburgo e le norme costituzionali interne[65]. Ha così supportato una lettura dell’indipendenza funzionale del giudice e della sua soggezione soltanto alla legge in combinato disposto con le previsioni dell’art. 47 della Carta di Nizza e dell’art. 6 CEDU[66].
Altro contesto nel quale l’indipendenza del giudice è frequentemente comparsa nella giurisprudenza del giudice costituzionale italiano è quello delle norme sull’ordinamento giudiziario, rispetto alle quali la Corte ha chiarito la portata del principio della soggezione del giudice soltanto alla legge. Nella sentenza 50/1970 richiamata dalla Presidente Sciarra, la Corte esclude la violazione del principio per il caso in cui la pronuncia del giudice si fondi non direttamente su una disposizione di legge bensì su un'altra decisione[67]. Nella sentenza n. 263/1991, ancora, l’art. 101 Cost. è utilizzato per ribadire l’indipendenza del giudice all’interno dello stesso ordinamento giudiziario, arricchendo e specificando il principio della distinzione tra magistrati solamente in base alle funzioni ricoperte di cui all’art. 107 Cost.
Va anche ricordata la giurisprudenza sull’accesso in magistratura, ove la Consulta riconduce l’accesso tramite concorso di cui all’art. 106 proprio alle garanzie dello stato di diritto e, in particolare, alla separazione tra funzione giurisdizionale e altri poteri dello Stato[68].
La Corte italiana ha in effetti coperto quasi l’intero ventaglio delle fattispecie di possibile rilevanza del principio dell’indipendenza del giudice descritte nei precedenti paragrafi con riguardo alla giurisprudenza delle Corti europee. Lo si apprezza con ulteriore riguardo alla fissazione del punto di equilibrio tra diritti fondamentali, prerogative e doveri dei magistrati. In relazione alla partecipazione a partiti politici, così, la Corte ha affermato la necessità di equilibrio e misura nella garanzia della libertà di manifestare le proprie idee, limitando le forme di partecipazione sistematica e continuativa ma comunque garantendo a tutti i magistrati il diritto alla libera espressione[69].
Parimenti presente nella giurisprudenza del giudice delle leggi è il nesso tra funzione giurisdizionale indipendente e stato di diritto, espresso tra l’altro nella sentenza n. 127/2022. In tale occasione, la Corte ha affermato che “prescrizioni restrittive degradanti per la persona, per quanto previste dalla legge e necessarie a perseguire il «fine costituzionalmente tracciato» che le giustifica (sentenza n. 219 del 2008), non possono sfuggire alla riserva di giurisdizione, perché esse, separando l'individuo o un gruppo circoscritto di individui dal resto della collettività, e riservando loro un trattamento deteriore, portano con sé un elevato tasso di potenziale arbitrarietà, al quale lo Stato di diritto oppone il filtro di controllo del giudice, quale organo chiamato alla obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza e imparzialità”.
Il quadro giurisprudenziale così tratteggiato delinea, quindi, una nozione ampia di indipendenza del giudice scolpita dalla Consulta tra le righe degli artt. 101 e ss. della Costituzione e prova della piena aderenza dell’ordinamento costituzionale ai principi dello Stato di diritto[70].
7. Alcune osservazioni di chiusura
Nel contesto giuridico contemporaneo, le corti hanno assunto un ruolo crescente, specialmente in questioni come i nuovi diritti, la bioetica e le sfide della tecnologia[71]. Tale ruolo è reso anche più difficile dall’accresciuta complessità dell’attività ermeneutica giudiziale, favorita dalla pluralità di fonti di riferimento, dall’integrazione sovranazionale e dalla tendenza alla specializzazione delle discipline giuridiche emergenti[72]. Il processo di integrazione delle corti nell’ambito nel sistema unionale ha incrementato inoltre i casi in cui il giudice può discostarsi dalla legge nazionale, consentendo la disapplicazione del diritto interno contrario a quello unionale.
L’attuale ruolo del giudice accresce però la sua esposizione ed il rischio di conflittualità, sia più “fisiologiche”, per l’adeguamento della dialettica tra poteri negli ordinamenti costituzionali, sia più propriamente patologiche. Riguardo a queste ultime, non pare casuale che i primi “mattoni” dell’edificio democratico che i regimi illiberali tentano di smantellare siano proprio i presidi dell’indipendenza dei giudici, al fine di arginare i possibili ostacoli al disegno di ridefinizione della vita pubblica da questi propugnato. Si coglie così l’importanza, in ottica di prevenzione, della presenza nei testi costituzionali di riserve di legge non troppo ampie ovvero di rinforzate, come quella prevista dalla nostra Costituzione per la Corte costituzionale a salvaguardia delle guarentigie di indipendenza dei giudici.
Sotto altro profilo, le corti – e in particolare quelle costituzionali – si pongono come custodi della garanzia dello stato di diritto e rappresentano i primi soggetti in grado di reagire di fronte alle sue violazioni.
Non sono però le sole: gli altri “anticorpi” forniti dal diritto dell’Unione consentono di rispondere a possibili regressioni democratiche e lesioni dei principi dello stato di diritto con strumenti sempre più sofisticati[73]. La giurisprudenza sviluppata dalle corti europee sul punto e richiamata a più voci durante il convegno e nei relativi atti, oltre a rappresentare un prezioso supporto per i casi più gravi, consente di diffondere una visione integrata dei valori comuni in tema di rule of law, attraverso la quale andranno lette ed interpretate le disposizioni nazionali.
L’indipendenza del giudice, onnipresente nelle diverse declinazioni che assume lo stato di diritto, rappresenta la primaria garanzia di un giudizio imparziale e dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, come sottolineato, fra l’altro, nell’intervento del Presidente Lattanzi[74]. Le limitazioni all’indipendenza del giudiziario, pertanto, costituiscono oggetto di interesse non solo con riguardo al principio della separazione dei poteri ma anche, più direttamente, per la vita di tutti i consociati.
Nell’ottica della prevenzione di possibili lesioni all’indipendenza del giudice, come sottolineato dalla Presidente Cartabia, assume così particolare rilievo la diffusione della cultura della difesa dei valori dello stato di diritto anche presso la società civile ed il suo mantenimento, in uno sforzo che deve costituire un impegno costante[75].
1 G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), Il giudice e lo stato di diritto. Indipendenza della magistratura e interpretazione della legge nel dialogo tra le Corti, Milano, 2024, reperibile in open access nel sito web della Scuola Superiore della Magistratura.
[2] I lavori integrali del Convegno sono parimenti disponibili sul canale YouTube della Scuola Superiore della Magistratura.
[3] In ottemperanza al principio di legalità e alla soggezione del giudice soltanto alla legge di cui al nostro art. 101 Cost.
[4] Così ponendosi in relazione anche col principio di legalità. In argomento si vedano le sempre attuali considerazioni di A. PIZZORUSSO, Principio democratico e principio di legalità, in Questione giustizia, 2, 2003.
[5] Sul punto si vedano le considerazioni finali di G. CASCINI, Quello che serve davvero per la giustizia, in Giustizia Insieme, 18 novembre 2023.
[6] Già l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, peraltro, affermava che “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”. In argomento, G. ROLLA, L'organizzazione costituzionale dello Stato, Milano, 2007.
[7] Cfr. J. HABERMAS, Between Facts and Norms: Contributions to a Discourse Theory of Law and Democracy, Londra, 1992. Si veda anche L. PEGORARO, A. RINELLA, Sistemi costituzionali, Torino, 2020.
[8] S. Holmes, Constitutions and constitutionalism, in M. ROSENFELD, A. SAJO, The Oxford Handbook of comparative constitutional law, Oxford, 2012, 189 ss.
[9] L’espressione “packing” riferita alle corti è diffusa nella letteratura scientifica anglosassone. Cfr. ex multis, M.K. LEVY, Packing and unpacking state courts, in Wm. & Mary L. Rev., 61, 2019, pp. 1121 ss.
[10] L. PECH, K.L. SCHEPPELE, Illiberalism Within: Rule of Law Backsliding in the EU, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies, 2017
[11] Gli interventi dei presidenti delle Corti sono stati preceduti da relazioni introduttive svolte da Raffaele Sabato, Marisaria Maugeri e Gianluca Grasso, mentre i lavori sono stati aperti dal Presidente dell’Accademia dei Lincei Roberto Antonelli.
[12] Cfr. N. IRTI, Le ragioni del tema, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), cit., 7 ss. Si veda anche in argomento L. FERRAJOLI, Sul futuro dello stato di diritto e dei diritti fondamentali, in Jura Gentium, 2005.
[13] C. FUSARO, A. BARBERA, Corso di diritto pubblico, Bologna, 2018, 37 ss.
[14] Sul quale Natalino Irti si è diffusamente soffermato durante la propria relazione, richiamando il noto aneddoto del Mugnaio di Sans Souci. N. IRTI, cit., 7.
[15] Cfr. E. BERTOLINI, Indipendenza e autonomia della magistratura senza un organo di autogoverno: il modello tedesco, in DPCE Online, 4, 2020, 4995 ss.
[16] Si vedano J. CHEVALLIER, L’etat de droit, Paris, 1994, M.J. REDOR, De l’etat legal a l’etat de droit : l’evolution des conceptions de la doctrine publiciste francaise, 1879-1914, Paris, 1992.
[17] Nell’impossibilità di entrare nel merito delle complesse sfaccettature delle diverse versioni del principio in questa sede, si rinvia, ex multis, a R. TARCHI, L’approdo europeo del Rule of Law. Riflessioni introduttive e di sintesi, in R. TARCHI, A. GATTI (a cura di), Il rule of law in Europa, Genova, 2023, R. BIN, Rule of Law e ideologie, in G. PINO, V. VILLA (a cura di), Rule of Law. L’ideale della legalità, Bologna, 2016, 38 ss. Come osservato da G. AMATO, peraltro, è importante notare nell’espressione anglosassone la centralità della legge come prius rispetto alla costruzione statale. Inverso è invece l’ordine logico della dottrina tedesca e francese, recepito anche dalla dottrina italiana, che vede lo stato autolimitare sé stesso attraverso la legge.
[18] G. AMATO, Passato, presente e futuro del costituzionalismo, in Nomos, 2, 2018.
[19] M. CARTABIA, I giudici e lo stato di diritto, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), cit., 14.
[20] J. SAWICKI, Democrazie illiberali? L’Europa centro-orientale tra continuità apparente della forma di governo e mutazione possibile della forma di Stato, Milano, 2018; M.A. ORLANDI, La “democrazia illiberale”. Ungheria e Polonia a confronto, in Dir. pubbl. comp. eur., 2019, 167.
[21] Cfr. L. PIERDOMINICI, La riforma della giustizia israeliana: cronache dall’ultima frontiera costituzionale, in Giustizia Insieme, 31.3.2023.
[22] Cfr. G. VOSA, Sulla problematica tutela dello Stato di diritto nell’Unione europea: spunti di diritto costituzionale e comparato a partire dal “caso Romania”, in DPCE Online, 4, 2022, 1886 ss.
[23] Cfr. Corte di Giustizia Europea (Grande Sezione), sentenza del 5 giugno 2023, C-204-21 Commissione europea contro Repubblica di Polonia, sulla quale, si consenta il rinvio (per meri richiami) a S. PITTO, Judicial Independence Under Siege in Poland. The Last Landmark Ruling by the ECJ: repetita iuvant?, in DPCE Online, 3, 2023, 3015 ss.
[24] Cfr. M. CARTABIA, I giudici e lo stato di diritto, cit., 17 ss.
[25] Il caso polacco è ancora paradigmatico al riguardo perché sono state attuate tutte queste misure, anche in assenza di una revisione costituzionale stante l’insufficienza delle maggioranze necessarie da parte della compagine governativa guidata dal PiS. Ma anche in Ungheria e Romani si riscontrano interventi tentati o effettuati in termini analoghi.
[26] Si può citare ancora il caso polacco con la querelle che ha condotto ad una prolungata inattività della Corte costituzionale polacca proprio in ragione delle modifiche alle maggioranze per le deliberazioni. Cfr. Č. PIŠTAN, Giustizia costituzionale e potere giudiziario. Il ruolo delle corti costituzionali nei processi di democratizzazione ed europeizzazione, in A. DI GREGORIO (a cura di), I sistemi costituzionali dei paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica (Trattato di diritto pubblico comparato, fondato e diretto da G.F. Ferrari), Walters Kluwer, Milano, 2019, 357 ss. e J. SAWICKI, La conquista della Corte costituzionale ad opera della maggioranza che non si riconosce nella Costituzione, in Nomos, 3, 2016.
[27] L. PIERDOMINICI, cit., passim.
[28] Il dato emerge in particolare dal passaggio della relazione della Presidente Marta Cartabia in cui si afferma che i giudici si trovano al crocevia tra un ruolo da bersagli e da presidi dello stato di diritto. Cfr. M. CARTABIA, I giudici e lo stato di diritto, cit., 17 ss.
[29] Nei sistemi di controllo di tipo diffuso, la verifica verrà operato direttamente dal giudice mentre, nei sistemi accentrati, mediante rinvio ai tribunali costituzionali o ricorso diretto. Sul punto si vedano inoltre infra le considerazioni del par. 7.
[30] A questo si aggiunge anche il rimedio politico (rivelatosi più problematico alla prova dei fatti) dell’art. 7 TUE e, a seguito dei recenti sviluppi nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, anche l’ulteriore garanzia offerta dal regolamento n. 2092/2020 UE sulla condizionalità al bilancio dell’UE.
[31] E. CUKANI, Condizionalità europea e giustizia illiberale: from outside to inside?, Napoli, 2021, 131 ss.
[32] Verbatim dall’art. 3 dello Statuto: «Ogni Membro del Consiglio d’Europa riconosce il principio della preminenza del Diritto e il principio secondo il quale ogni persona soggetta alla sua giurisdizione deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Esso si obbliga a collaborare sinceramente e operosamente al perseguimento dello scopo definito nel capo I». Cfr. https://rm.coe.int/1680306052. Vale la pena rilevare che, mentre nella versione ufficiale italiana la sezione dello Statuto che contiene l’art. 3 è denominata “Composizione” nella versione inglese questa è indicata come “Membership”, o appartenenza, così manifestando forse anche più efficacemente il collegamento tra il rispetto della rule of law e l’adesione dello Stato al Consiglio d’Europa e ai suoi valori.
[33] La Presidente O’Leary ha ricordato altresì come lo spazio di applicazione della CEDU copra attualmente 46 Stati e circa 700 milioni di persone. S. O’LEARY, L’indipendenza del giudice alla luce della giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO, cit., 29.
[34] A un concetto già ampio e sfaccettato in una singola tradizione giuridica, peraltro, si sommano le accennate peculiarità presenti nelle altre declinazioni del principio frutto di patrimoni giuridici differenti e condensati nelle definizioni di rule of law, rechtsstaat, estado de derecho e état de droit.
[35] La checklist è reperibile sul sito web del Consiglio d’Europa.
[36] Corte europea dei diritti dell’uomo, Golder v. United kingdom, application n. 4451/70, 21 febbraio 1975.
[37] S. O’LEARY, cit., 32.
[38] Tra le altre Grzęda v. Poland, application n. 43572/2018 del 15 maggio 2021 e Xero Flor w Polsce sp. Z o.o. v. Poland del maggio 2021. In argomento, A. WOJCIK, Defiance of EU Law by the Polish Constitutional Tribunal, in IACL-AIDC Blog, 28 novembre 2023.
[39] Wałęsa v. Poland, application n. 50849/21, decisione del 23/11/2023.
[40] Più nel dettaglio, Walesa aveva vinto una causa per diffamazione contro Wyszkowski, ex collega e membro dell'opposizione anticomunista, per le accuse, mosse da quest'ultimo, di aver collaborato con i servizi comunisti negli anni Settanta. Wyszkowski si è in seguito scusato pubblicamente per le accuse, rivelatesi interamente infondate. Nel gennaio 2020, però, il Procuratore generale polacco ha presentato, molti anni dopo la data in cui la sentenza era divenuta esecutiva, un "appello straordinario" per conto di Wyszkowski presso la Camera di revisione straordinaria e affari pubblici della Corte Suprema, tramite la procedura introdotta con la legge del 2017 sulla Corte Suprema del PiS. Tale iniziativa aveva condotto nel 2021 al ribaltamento della prima sentenza favorevole a Walesa.
[41] Anch’esso facente parte delle componenti della rule of law come ricordato nella checklist della Commissione di Venezia. Sul punto la Corte ha in particolare censurato il potere illimitato attribuito al Procuratore generale per la contestazione delle pronunce dell’organo ed il difetto di chiarezza della normativa processuale.
[42] Cfr. G. REPETTO, L’effetto di vincolo delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nel diritto interno: dalla riserva di bilanciamento al ‘doppio binario’, in Dir. pubbl., 2014, 1092 ss.
[43] Alle quali si richiede di adottare misure generali per la garanzia dell’imparzialità e l’indipendenza delle corti. Di recente, a seguito del risultato delle ultime elezioni, il governo polacco guidato da Donald Tusk ha peraltro stabilito un dialogo preliminare con le istituzioni dell’Unione europea per avviare riforme volte a ripristinare, anche nel settore della giustizia, lo stato di diritto. Le indicazioni della Corte EDU, in questa prospettiva, possono fornire un prezioso ausilio per supportare tale processo di riforma.
[44] Baka. V. Ungheria, application n. 20261/12, Grande Chambre, 23/06/2016.
[45] Cfr. K. LENAERTS, La giurisprudenza della Cgue sull’indipendenza della magistratura, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO, cit., 61 ss.
[46] In argomento cfr. S.M. CARBONE, et al., Cooperazione giudiziaria civile e penale nel diritto dell’Unione europea, Torino, 2008.
[47] Corte di giustizia, 5 novembre 2019, Commissione v. Polonia, causa C-192/18, ECLI:EU:C:2019:924. La pronuncia originava infatti da un rinvio pregiudiziale della Corte amministrativa suprema del Portogallo.
[48] In argomento si vedano le riflessioni sul costituzionalismo trasformativo di A. VON BOGDANDY, L.D. SPIEKER, Transformative Constitutionalism in Luxembourg: How the Court Can Support Democratic Transitions, in Columbia Journal of European Law e A. VON BOGDANDY et al., Un possibile «momento costituzionale» per lo Stato di diritto europeo. L’importanza delle linee rosse, in Forum Quaderni Costituzionali, 12 luglio 2018, 865 ss. esposte dall’autore, da ultimo, durante la sessione plenaria del Convegno ICON-S svoltosi all’Università Bocconi nell’ottobre del 2023.
[49] In argomento, E. CIMADOR, La Corte di giustizia conferma il potenziale della procedura d’infrazione ai fini di tutela della rule of law. Brevi riflessioni a margine della sentenza Commissione v. Polonia (organizzazione tribunali ordinari), in Eurojus, 1, 2020.
[50] Cfr. tra le altre Corte di giustizia, 19 settembre 2018, RO, causa C-327/18, PPU, ECLI:EU:C:2018:733. In argomento si veda anche G. MICHELINI, Stato di diritto ed integrazione processuale europea. La Corte di giustizia ed il caso Polonia, in Questione Giustizia, 27/07/2018.
[51] Corte di Giustizia, causa C-216/18 PPU, sentenza (Grande sezione) 25 luglio 2018.
[52] Verso la Polonia, infatti, era stata attivata la procedura di cui all’art. 7 c. 1 TUE e ciò poneva la Corte irlandese di fronte al dubbio di esporre l’imputato a violazioni ai principi del giusto processo in caso di trasferimento in carico alle autorità polacche. Cfr. amplius C. PINELLI, Violazioni sistemiche dei diritti fondamentali e crisi di fiducia tra Stati membri in un rinvio pregiudiziale della High Court d’Irlanda, in Quad. cost., 2, 2018, 510 ss.
[53] Per fare ciò, precisa la Corte, il giudice deve prendere in considerazione l’esistenza di eventuali violazioni sistemiche e accertarsi che dall’esecuzione della condanna dell’imputato nello Stato richiedente non derivi una violazione dei principi dello stato di diritto.
[54] V. par. 89 sent. Corte di Giustizia, caso LM, C- 216/18.
[55] Si veda in particolare il caso Repubblika v Il-Prim Ministru, 20 aprile 2021, C-896/19. In argomento, cfr. J. SAWICKI, La collisione insanabile tra diritto europeo primario e diritto costituzionale interno come prodotto della manomissione ermeneutica di quest’ultimo, in DPCE Online, 4, 2021 e M. LELOUP, D.V. KOCHENOV, A. DIMITROVS, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen-Dilemma’? All the Eyes on Case C-896/19 Repubblika v Il Prim-Ministru, in Reconnect Working Paper, No. 15, 2021.
[56] Cfr., nel volume inclusivo degli atti del Convegno, S. SCIARRA, L’indipendenza del giudice alla luce della giurisprudenza della corte costituzionale, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO, cit., 85 ss.
[57] Sul punto E. CECCHERINI, L’integrazione fra ordinamenti e il ruolo del giudice, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2, 2013, 467 ss.
[58] In argomento, S. SCIARRA, Identità nazionale e corti costituzionali. il valore comune dell’indipendenza, in AA.VV., Identità nazionale degli stati membri, primato del diritto dell’unione europea, stato di diritto e indipendenza dei giudici nazionali, 6 ss.
[59] Sulla cooperazione tra consigli giudiziari in Europa si rinvia a D. KOSAŘ, Beyond Judicial Councils: Forms, Rationales and Impact of Judicial Self-Governance in Europe, in German Law Journal, 19.7, 2018, 1567-1612 e O.P. CASTILLO ORTIZ, Councils of the judiciary and judges’ perceptions of respect to their independence in Europe, in Hague Journal on the Rule of Law, 9, 2017, 315-336.
[60] Cfr. Deliberazione dell’Assemblea Generale dell’ENCJ del 17 settembre 2018.
[61] Cfr. S. SCIARRA, L’indipendenza del giudice, cit., 86-87.
[62] La citazione è da farsi risalire alle parole di Vezio Crisafulli.
[63] Corte cost. sent. n. 15/1969, estensore Vezio Crisafulli. Si riporta di seguito il passaggio per esteso: “Ed è chiaro che compiti siffatti postulano che l'organo cui sono affidati sia collocato in posizione di piena ed assoluta indipendenza rispetto ad ogni altro, in modo che ne risultino assicurate sotto ogni aspetto - anche nelle forme esteriori - la più rigorosa imparzialità e l'effettiva parità rispetto agli altri organi immediatamente partecipi della sovranità. Postulano, in altri termini, un adeguato sistema di guarentigie, attinenti sia al collegio nel suo insieme, sia ai singoli suoi componenti, tra queste ultime rientrando le particolari incompatibilità sancite nei loro confronti durante la carica, che sono indubbiamente ordinate al medesimo principio”.
[64] Il PiS non disponeva di maggioranze sufficienti per modificare la Costituzione ma ha potuto nondimeno svuotare di significato il principio della separazione dei poteri (affermato dalla Carta polacca) semplicemente intervenendo sulle norme primarie che regolano il funzionamento della Corte e le garanzie dell’imparzialità dei suoi giudici, anche grazie a riserve di legge rivelatesi forse troppo ampie.
[65] Cfr. sentenza Corte cost. n. 215/2016, secondo cui “È costante, nella giurisprudenza di questa Corte, l'affermazione in forza della quale indipendenza e imparzialità devono ritenersi connotazioni imprescindibili dell'azione giurisdizionale, sia essa esercitata dalla magistratura ordinaria, dagli organi di giurisdizione speciale costituzionalizzati (ex art. 103 Cost.: Consiglio di Stato, Corte dei conti, Tribunali militari), dai giudici speciali pre-costituzionali ritenuti compatibili con la carta costituzionale (artt. 108 Cost. e VI delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione), dalle sezioni specializzate della giurisdizione ordinaria, composte anche da giudici non togati ex art. 102, secondo comma, Cost. (ex plurimis la sentenza n. 193 del 2014, già citata, che aveva ad oggetto lo stesso organo di giurisdizione speciale oggetto della attuale disamina; ancora, le sentenze n. 353 del 2002, sulla composizione del Tribunale regionale delle acque pubbliche e n. 262 del 2003, sulla composizione della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura)”.
[66] Cfr. ex multis, Corte cost. n. 223/2012.
[67] Il tema si è recentemente riproposto in termini simili con la sentenza n. 137/2023.
[68] Nella sentenza 41/2021, in particolare, la Corte afferma che “La regola generale del pubblico concorso è stata individuata come quella più idonea a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza, a presidio dell'ordinamento giurisdizionale, posto dalla Costituzione, nel Titolo IV della sua Parte II, quale elemento fondante dell'ordinamento della Repubblica”. Cfr. S. SCIARRA, Il giudice, cit., 96.
[69] Cfr., tra le altre, Corte cost. sent. n. 224/2009.
[70] Malgrado la Costituzione italiana non utilizzi espressamente la formula “stato di diritto”, essa è del resto presente diffusamente nella giurisprudenza della Consulta ma anche nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente come osserva R. BIN, cit., passim.
[71] Rispetto alle quali in molti casi i tempi della legislazione, si rivelano spesso molto più lenti rispetto alle esigenze impellenti della società e degli operatori giuridici.
[72] Le nuove complessità dell’interpretazione giudiziale sono state menzionate in diversi interventi, tra cui quello di Natalino Irti.
[73] La tensione tra Polonia, Ungheria e Unione Europea ha stimolato un miglioramento nelle garanzie della rule of law europea, come dimostrato dall’entrata in vigore del meccanismo della condizionalità di cui al regolamento 2020/2092. In argomento, cfr. E. CUKANI, cit., passim e A. VON BOGDANDY, cit., passim.
[74] Cfr. G. LATTANZI, Saluti introduttivi, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), cit., 1 ss.
[75] Cfr. M. CARTABIA, The rule of law and the role of courts, in Italian Journal of Public Law, 1, 2018, 2.
Immagine fonte: Rijks Museum, Amsterdam.
Parecchio tempo fa Paolo Murialdi ha scritto un bel libro per l’editore Laterza che si intitolava: “Come si legge un giornale”, in cui oltre a fornire una dettagliata spiegazione di cosa sia un quotidiano dalla prima all’ultima pagina, egli indicava pure una serie di regole da seguire per una corretta e ragionevole lettura di esso. Lo scopo era quello di diffondere la lettura del quotidiano nelle scuole sulla scia e in continuità con l’impegno di altri intellettuali orientati in tal senso. Per tutti Roberto Berardi, (“Insegnare a leggere il giornale” nel volume Didattica della Storia, Giappichelli, Torino) il quale riconosceva nel giornale un potente strumento di conoscenze dell’oggi, ma anche un documento insostituibile per lo storico di domani che in esso cercherà le testimonianze dei fatti e dei costumi che si appresta a ricostruire. I testi di cui sopra sono comparsi negli anni ’70 del secolo scorso, eppure mantengono una significativa attualità specie se si tiene conto della crisi dei giornali in carta stampata e della proliferazione di giornali online non sempre di buona qualità. Quelli che si appassionano alla lettura in genere sono spinti dalla curiosità, dalla coscienza critica, dal bisogno di confrontare opinioni, commenti, chiavi di lettura, posizioni ideali, filosofie di pensiero. Un giornale si legge e si consuma in un giorno, in poche ore. Può essere questo un argomento per convincere le persone a distogliere un po' lo sguardo dal cellulare? A quanto risulta dalle statistiche i lettori di giornali diminuiscono e molte edicole chiudono anche nei luoghi storici delle grandi città dove si era abituati a comprarli e, nel passato, a leggere titoloni in bella vista sulle loro pareti esterne. Se si passa dai giornali ai libri sicuramente il discorso è più complesso. C’è chi fin da giovane ha capito che la lettura, nelle sue varie forme, oltre che un impegno è un piacere, un divertimento, un’avventura. Sei tu che scegli, non c’è qualcuno sopra di te che ti assegna un compito. In libreria, tra le varie sezioni, ti muovi come fossi in viaggio: devi prendere una direzione, qualche volta guidato dall’umore del momento, più spesso da una serie di esperienze, di stati d’animo, di bisogni, comunque e sempre dalla curiosità. Ma chi può leggere e che cosa? A mio avviso tutti possono leggere di tutto, tranne le idiozie. Nella prefazione ad un testo di Kant, l’autore si chiedeva: "può leggere Kant chi è ancora inesperto di problemi di filosofia? Crediamo di sì. Può smettere di leggere Kant chi è ormai molto esperto di filosofia? Crediamo di no”. Già Schopenhauer diceva che la lettura di Kant è come l’operazione della cataratta: dà la vista a chi non ci vede. D’altra parte, questa convinzione suffragata da così illustri pareri è avvalorata anche dal fatto che non c’è lettura più ardua di quella dei libri sacri e non per questo ogni volta che una persona apre la Bibbia deve avere accanto a sé un maestro che ne fa una dotta esegesi. Certo, ben venga l’esegesi, ma è anche avvincente misurarsi col testo, ricavarne suggestioni, provare a intenderne il contenuto senza mediazione. Non nego, con questo, la difficoltà oggettiva di districarsi, oggi, in una produzione vastissima dove spesso nei vari generi predomina la moda, il conformismo, la falsa novità, la babele delle lingue. Non sempre è chiaro il rapporto funzione-produzione-circolazione perciò bisogna mantenersi vigili, non seguire l’onda, quell’effetto alone che di solito nasconde la fregatura. Molti titoli mi hanno disturbata, incuriosita o intrigata negli ultimi anni specialmente nella saggistica e nella letteratura. Di tutti vorrei raccontare una briciola, ovvero l’impatto che ebbe e continua ad avere su di me un piccolo grande libro di Gustavo Zagrebelsky, noto professore di diritto costituzionale e presidente della Corte Costituzionale nel 2004. Si tratta di: Il “Crucifige!” e la democrazia, Einaudi Contemporanea. Il contenuto è di una attualità sconcertante, direi che esso è frutto di una visione profetica della società in cui adesso viviamo. Attraverso l’analisi del processo a Gesù, l’autore esemplifica le varie, possibili forme della democrazia. È affascinante la descrizione di quel mondo in cui si muoveva Gesù Cristo, quel mondo dove i poteri erano chiari e gli strumenti dell’affermazione erano deboli. Il Sinedrio e Caifa sono espressioni di una democrazia “dogmatica” tutta risolta nella legge, nell’inoppugnabilità dei principi che vengono opportunisticamente riproposti come litanie: “Il dogmatico può accettare la democrazia solo se e fino a quando serve come forza, una forza indirizzata ad imporre la verità. Lo scettico a sua volta poiché non crede in nulla, può tanto accettarla che ripudiarla”. Pilato è il campione della “democrazia scettica”; a lui che, come narra Matteo, si rimette alla folla per la scelta tra Gesù e Barabba, importa solo il potere, il suo e quello di Roma. “Blandire la folla, allora, può essere in certe circostanze, non un cedimento ma un accorgimento prudente di quanti hanno a cuore prima di tutto la salvezza del governo…La vicenda di Gesù dimostra come possa esserci un’alleanza, apparentemente impossibile tra l’assolutismo del dogma e il nichilismo della scepsi, e come questa alleanza possa assumere esteriormente un aspetto democratico”. C’è dunque la folla, il popolo che urla “crucifige”: è la massa manovrata, è la parte per il tutto; essa ha un valore rappresentativo. L’autore si riferisce senza mezzi termini a ciò che avviene anche oggi (mentre scrivo queste modeste riflessioni), in modi solo apparentemente diversi, quando si ricorre alla piazza, quando si fanno i sondaggi come campioni rappresentativi, quando la parte sta per il tutto. Dalla democrazia dogmatica, alla democrazia scettica, alla democrazia dispotica (la chiamano adesso democratura): quante parvenze di democrazia! Oggi è possibile una democrazia critica? Qui è la pars construens di questo lessico civile, il luogo in cui l’autore analizza la possibilità di una democrazia in cui il popolo non diviene dispotico, non ha poteri illimitati, non è divinizzato, ma riesce a vivere nel rispetto delle singole individualità, nella “reciproca mitezza”. Un libro così me lo porterei sulla famosa isola deserta e anche lassù…davanti agli occhi di Dio. Perché spesso mi chiedo come fossi bambina: ma lassù si potrà leggere? Tutti quelli che amo li rivedrò secondo la fede e secondo la kantiana ragionevole speranza, ma i libri? Se non li avessi…me ne morrei di nostalgia!
(In foto la biblioteca privata del professor Richard Macksey, Baltimora, fonte New York Times)
La responsabilità dell’hosting provider nella vendita on line di biglietti sui mercati secondari (nota a Sentenza Consiglio di Stato, Sez. VI, 05/12/2023, n. 10510).
di Francesco Di Iorio
Sommario: 1. Premessa. 2. I fatti per cui è causa. 3. (Segue) Il giudizio di primo grado. 4. Il giudizio di appello. La sentenza n. 10510/2023 del Consiglio di Stato. 5. La differenza tra hosting provider “passivo” e hosting provider “attivo” delineata dal Consiglio di Stato e il regime di responsabilità degli “Internet Service Providers”. 6. (Segue) Vendita telematica dei titoli di accesso ad attività di spettacolo nei mercati secondari: ratio del divieto (introdotto dal d. lgs. 232/2016) e responsabilità dell’hosting provider. 7. (Segue) La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 545 l. 232/2016. 8. Profili sanzionatori a carico dell’hosting provider: presupposti per la determinazione della sanzione e principio di proporzionalità. 9. Conclusioni.
1. Premessa
La pronuncia in commento risulta particolarmente interessante perché ripercorre in maniera puntuale gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa dei c.d. “Internet Service Providers”, delineando altresì le condotte astrattamente contra legem e idonee a violare (tra gli altri) il divieto di vendita sancito dall’art. 1, c. 545 della l. 11 dicembre 2016, n. 232.
La sentenza, inoltre, approfondisce e individua la ratio sottesa all’introduzione del divieto di vendita di biglietti sui mercati secondari e conferma la conformità al dettame costituzionale di tale divieto nonché la ragionevolezza dell’apparato sanzionatorio introdotto in materia dal legislatore.
Ulteriori profili di interesse sono infine rinvenibili nell’ultima parte della pronuncia, dove il Giudice Amministrativo perimetra e individua gli elementi che l’amministrazione deve valutare ai fini della determinazione della sanzione di cui all’art. 1, c. 545 della l. 232/2016.
2. I fatti per cui è causa.
A seguito della ricezione di esposti da parte di associazioni di categoria, di soggetti operanti nel settore dell’organizzazione di eventi musicali e di società di vendita nel mercato primario di titoli ad eventi musicali, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni avvia un’attività di controllo sul sito dell’operatore segnalato.
In esito all’espletamento di tale attività, l’Autorità accerta che, nel periodo marzo – maggio 2009, tramite il sito dell’operatore sono stati venduti biglietti relativi a trentasette eventi (concerti e spettacoli) a prezzi maggiorati rispetto ai prezzi nominali presenti sui siti di vendita primari autorizzati.
Sulla base di tale presupposto, l’Autorità contesta all’operatore di non essersi limitato “…a consentire la connessione dei potenziali venditori e acquirenti tramite modalità puramente tecniche, passive ed automatiche…”, ma di aver (attivamente) agevolato la vendita dei biglietti a prezzo maggiorato, fornendo una “…complessa attività di assistenza ai potenziali venditori e acquirenti .. attraverso una “massiccia operazione di promozione” effettuata tramite una strategia “multi-piattaforma”…”; attività di assistenza questa interessante “…tutte le varie fasi della compravendita fino alla relativa esecuzione, compresa la riscossione del pagamento…”.
Il tutto, per fini lucrativi e allo specifico scopo di “…trattenere le somme ad essa dovute a titoli di commissione .. oltre al rimborso delle spese di spedizione…”.
Per tali motivi, l’Autorità – ritenendo integrata da parte dell’operatore una violazione dell’art. 1, c. 545 della l. 232/2016[1] - adotta nei confronti di quest’ultimo una sanzione pecuniaria di € 3.700.000,00.
3. (Segue) Il giudizio di primo grado.
L’operatore impugna la sanzione innanzi al Tar Lazio, Roma, chiedendone il relativo annullamento.
A sostegno della richiesta di annullamento formulata, l’operatore denuncia l’illegittimità del provvedimento (anche) nella parte in cui ha qualificato in termini di “vendita” l’attività svolta dallo stesso per il tramite del proprio sito, non avvedendosi invece che tale attività avrebbe “…ad oggetto esclusivamente l’intermediazione tra le parti della compravendita, anche tramite la fornitura di servizi di supporto “logistico”, senza tuttavia alcun potere decisionale sugli elementi che determinano la eventuale illiceità della transazione…”; nonché nella parte in cui ha omesso di rilevare che l’attività dell’operatore “…consisterebbe nella gestione di una “bacheca virtuale” e dovrebbe .. essere qualificata in termini di hosting provider “neutrale” o “passivo” ai sensi della direttiva e-commerce, con applicazione del regime di esenzione della responsabilità previsto da quest’ultima e dalla normativa nazionale di recepimento…”.
Con il medesimo ricorso, il ricorrente denuncia altresì:
- il contrasto tra l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 (in attuazione del quale è stata comminata la sanzione da parte dell’Autorità) e gli artt. 41 e 117, c. 1 della Costituzione;
- l’abnormità della sanzione, avendo a suo dire l’Autorità erroneamente ritenuto integrate una “…pluralità di azioni ripetute nel tempo (dal ricorrente) in relazione ai diversi eventi…” e (conseguentemente) applicato, in sede di determinazione della sanzione, il c.d. regime del “…cumulo materiale delle violazioni…”. A dire dell’operatore, la condotta contestata sarebbe connotata da “violazioni” “…commesse in tempi ravvicinati…” e “… riconducibili ad una programmazione unitaria…”, talché le stesse dovrebbero “…considerarsi unitariamente…” (con conseguente, doverosa, applicazione - ai fini de computo della sanzione - del “…più mite regime del cumulo giuridico…”).
Con la sentenza n. 3955/2021, il Tar Lazio, Roma rigetta il ricorso proposto dall’operatore.
Nella pronuncia il Giudice di primo grado sottolinea innanzitutto che l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 vieta l’attività di rivendita di titoli di accesso ad attività di spettacolo da parte di soggetti distinti dai titolari dei sistemi di emissione[2] al fine di contrastare l'elusione e l'evasione fiscale, nonché di assicurare la tutela dei consumatori e garantire l'ordine pubblico.
La condotta vietata – chiarisce il Tar - è delineata dalla norma in termini volutamente ampi (“vendita” e “qualsiasi altra forma di collocamento”), tali da ricomprendere ogni attività contrastante e/o elusiva del divieto ivi sancito.
Fatta tale premessa, il Tar Lazio, Roma ritiene che l’attività dell’operatore – concretizzandosi nella “…gestione di un sito web che fornisce in via esclusiva, tramite un’articolata gestione imprenditoriale .. servizi finalizzati a favorire la conclusione di negozi giuridici…” e ad “…agevola(re) .. la conclusione di vendite illecite in ragione del pagamento di un prezzo superiore a quello nominale…” – sia violativa del richiamato art. 1, c. 545 della l. 232/2016, non potendo tale condotta “…essere assimilata a quella di un “trasportatore” ignaro del contenuto della merce trasportata…”
Nella medesima pronuncia il Giudice amministrativo ritiene non applicabile all’operatore il regime di esonero dalla responsabilità previsto per il c.d. “hosting passivo” dall’art. 16 del d.lgs. 70/2003[3] (“Attuazione della direttiva 2000/31/CE inerente i servizi della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico”).
A dire del Tar, infatti, la condotta dell’operatore – essendo connotata da “…articolate attività di ottimizzazione e promozione pubblicitaria dei titoli in vendita, definizione dei parametri giuridici ed economici della transazione, inclusi i termini di consegna e il prezzo…” nonché “…nella gestione operativa e nella riscossione di quest’ultimo…” - non è qualificabile in termini di “hosting passivo” (ma in termini di “hosting attivo”[4]), con conseguente inapplicabilità dell’anzidetto regime di esonero (previsto dall’art. 16 d. lgs 70/2003).
Nella pronuncia di primo grado viene inoltre:
- rigettata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 545 l. 232/2016 sollevata dal ricorrente. La disposizione risulta infatti coerente con il principio europeo di libera circolazione dei servizi (che ammette deroghe funzionali a garantire la tutela dei consumatori e l’ordine pubblico nonché ad evitare fenomeni di elusione/evasione fiscale) e con l’art. 106 TFUE[5] (non attribuendo la norma “diritti esclusivi” nei confronti di nessun soggetto e risultando la stessa proporzionata e adeguata rispetto alle finalità perseguite), con conseguente rispetto dell’art. 117, c. 1 Cost.[6] e dei “vincoli derivanti dall’ordinamento UE”. La disposizione risulta inoltre rispettosa della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.[7], in quanto “…gli obiettivi perseguiti con l’introduzione della disciplina sanzionatoria all’esame (contrasto evasione /elusione fiscale, tutela dei consumatori) costituisc(o)no interessi di rilievo tale da integrare la deroga prevista dall’art. 41 comma II della Costituzione alla libertà di iniziativa economica…”
- ritenuta congrua e proporzionata la sanzione comminata dall’amministrazione, avendo l’autorità correttamente ritenuto che la condotta dell’operatore abbia integrato “…plurime violazioni della stessa norma (art. 1, c. 545 l. 232/2016)poste in essere in tempi e con riferimento ad eventi diversi…”.
4. Il giudizio di appello. La sentenza n. 10510/2023 del Consiglio di Stato.
L’operatore impugna innanzi al Consiglio di Stato la sentenza (n. 3955/2021) del Tar Lazio, Roma, contestando la sentenza nella parte in cui ha qualificato l’attività dell’appellante in termini di “hosting provider attivo”, in violazione degli artt. 3, 14 e 15 della direttiva 2000/31/ce e degli artt. 16 e 17[8] del d.lgs. di n. 70/2013 e sulla base di presupposti erronei e travisanti.
Con il medesimo appello, l’appellante censura la pronuncia di primo grado (anche) nella parte in cui ha ritenuto – sulla base di una motivazione asseritamente “carente” – compatibile l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 con l’art. 41 cost. nonché laddove ha ritenuto proporzionata e congrua la sanzione comminata dall’Autorità in suo danno.
L’appello proposto pone quindi all’attenzione del Consiglio di Stato la soluzione di tre macro questioni, ovvero:
a) quali sono gli elementi tipici dell’attività dell’hosting provider “attivo” (e di quello “passivo”) e quali sono le condotte del “provider” astrattamente idonee ad integrare una responsabilità amministrativa dello stesso;
b)in quali casi e/o a quali condizioni l’attività di hosting provider “attivo” può determinare una violazione del divieto di vendita di cui all’art. 1, c. 545 d. lgs. 232/2006;
c) se, in linea generale, il divieto di vendita sancito dall’art. 1, c. 545 del d. lgs. 232/2006 sia costituzionalmente legittimo e rispettoso dell’art. 41 della Costituzione.
5. La differenza tra hosting provider “passivo” e hosting provider “attivo” delineata dal Consiglio di Stato e il regime di responsabilità degli “Internet Service Providers”.
Nella pronuncia in esame, il Consiglio di Stato ripercorre innanzitutto il quadro normativo di riferimento e la disciplina recata dal d. lgs. 9.4.2003, n. 70 in materia di “hosting provider”.
In tale prospettiva, il giudice – dopo aver ricordato che per “provider” si intende il “…soggetto che organizza l’offerta ai propri utenti dell’accesso alla rete internet e dei servizi connessi all’utilizzo di essa…”[9] - rimarca l’ontologica differenza (delineata a livello giurisprudenziale) intercorrente tra la figura dell’hosting provider “passivo” e quella dell’hosting provider “attivo”.
Il primo (hosting provider “passivo”) è il soggetto che “…pone in essere un’attività di prestazione di servizi di ordine meramente tecnico e automatico…”, senza conoscere le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono il servizio; laddove il secondo (hosting provider “attivo”) è invece il soggetto la cui attività ha “…ad oggetto anche i contenuti della prestazione resa…”.
Fatta la suvvista premessa, la pronuncia delinea il regime di responsabilità degli “Internet service providers”, chiarendo che – con riferimento a tali soggetti – l’ordinamento ha affiancato alla “…disciplina generale sulla responsabilità da fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c…” alcune “…norme speciali, ad alto contenuto tecnico…”, disciplinanti una tipica ipotesi di responsabilità (amministrativa) per colpa.
Si chiarisce quindi che, in linea generale, è esclusa la responsabilità del provider in tutti casi in cui non vi è una “manipolazione dei dati memorizzati”, rilevando quindi (in punto di responsabilità) solo le condotte che hanno “…in sostanza l’effetto di completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti…”.
Il regime di responsabilità degli “Internet Service Providers” passa quindi dall’accertamento di una condotta attiva dell’operatore, che può estrinsecarsi, ad esempio, nell’attività di “selezione”, “indicizzazione”, “organizzazione”, “catalogazione”, “aggregazione”, “valutazione”, “uso”, “modifica”, “estrazione” o “promozione” dei contenuti pubblicati dagli utenti[10].
6. (Segue) Vendita telematica dei titoli di accesso ad attività di spettacolo nei mercati secondari: ratio del divieto (introdotto dal d. lgs. 232/2016) e responsabilità dell’hosting provider.
Dopo aver ricostruito il regime di responsabilità in materia di “Internet Service Providers”, il Consiglio di Stato sottolinea che l’art. 1, comma 545 della l. 11.12.2016, n. 232 vieta, in linea generale, “…la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuato da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione…”; e sottolinea altresì che l’unica eccezione a tale regola (rectius: divieto) si ha nell’ipotesi in cui ad effettuare la vendita del biglietto sia “…una persona fisica in modo occasionale (e) senza finalità commerciali…”, fermo restando che in tal caso la vendita deve comunque essere effettuata “…ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale di titoli di accesso ad attività di spettacolo…”.
Le anzidette previsioni – precisa il Giudice Amministrativo – hanno chiara matrice “fiscale” e sono dirette a reprimere il c.d. bagarinaggio ovvero la vendita secondaria di biglietti da parte dei soggetti che non risultino titolari dei relativi sistemi di emissione. Il tutto, al fine di tutelare gli interessi del fisco e la disciplina in materia di diritto d’autore.
Richiamate le suvviste coordinate normative, il Giudice ritiene la sentenza impugnata immune da vizi: secondo il Consiglio di Stato, infatti, il Tar (e, prima ancora, l’AGCOM) ha correttamente qualificato l’attività dell’appellante in termini di “hosting provider attivo” (e ritenuto conseguentemente sussistenti a suo carico una responsabilità ex art. 1, c. 545 l. 232/2016).
Il contegno serbato dall’operatore è infatti rilevatore di “..una serie di elementi indicativi dello svolgimento di un’attività connotata in termini di non mera passività…”. Depongono in tal senso, ad esempio, la “predisposizione grafica dell’offerta, organizzata per ogni singolo evento (indicizzazione)”, la “predisposizione e messa a disposizione delle piante degli impianti (organizzazione)”, il “suggerimento dei prezzi (catalogazione e valutazione)” e l’ “aggregazione dei contenuti per singolo evento (aggregazione)”.
Secondo il Consiglio di Stato, dunque, l’adozione da parte dell’operatore di una serie di misure “attive” - indicizzazione, organizzazione, aggregazione, catalogazione e valutazione dei prodotti - funzionali ad agevolare la vendita online di biglietti (ad un prezzo superiore al loro valore nominale) unitamente alle finalità commerciali/lucrative sottese all’adozione di tali misure consuma una violazione dell’art.1, comma 545 della l. 11.12.2016, n. 232 da parte dell’operatore, con conseguente legittimità del provvedimento sanzionatorio adottato in suo danno.
7. (Segue) La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 545 l. 232/2016.
Nel prosieguo della pronuncia, il Consiglio di Stato chiarisce poi che l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 si sottrae a possibili profili e censure di incostituzionalità.
Tale disposizione – a dire del Consiglio di Stato – risulta infatti del tutto ragionevole, ben potendo “…il legislatore fiscale (..) decidere di vietare fenomeni che siano per la loro dimensione o per il loro impatto contrari all’ordine economico…” (fenomeni tra questi tra i quali rientra il c.d. “…bagarinaggio informatico…”, vietato dalla disposizione de qua e che costituisce un vero e proprio “rischio” per l’ordine economico).
In siffatte ipotesi, il divieto non determina alcuna violazione della libertà d’impresa degli operatori, non potendosi tale libertà svolgersi “…in contrasto con l’utilità sociale…”.
Sempre secondo il Consiglio di Stato, la costituzionalità della sopra richiamata disposizione è confermata anche dal fatto che:
a) la stessa non vieta in modo assoluto la “vendita secondaria”, ammettendo tale vendita a certe condizioni di prezzo e in condizioni di “occasionalità”;
b) la Corte Costituzionale ritiene legittime le limitazioni alla libertà contrattuale (in materia commerciale) introdotte per scopi previsti o consentiti dalla costituzione o al fine di evitare che apparecchi di svago fossero utilizzabili come gioco o scommessa[11]. Tali ragioni sarebbero “…ancora attuali a fronte di un fenomeno di nuova portata come il c.d. bagarinaggio informatico…”;
c)l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 “…sceglie la via dell’illecito amministrativo…” per punire il soggetto sanzionato e non già quella “…penale…”. Sul punto, la norma appare quindi del tutto “…proporzionata…” in quanto – pur non integrando il c.d. bagarinaggio una fattispecie di rilevanza penale (poiché non lesivo dell’ordine e della sicurezza pubblica) - il fenomeno della “…rivendita massiva di biglietti a prezzi maggiorati…” è comunque “…in grado di produrre effetti negativi sia per i privati che vogliono partecipare a concerti o a partite di calcio, sia per gli organizzatori di eventi e gli artisti, che vedono lucrare sconosciuti sul proprio lavoro…”[12].
8. Profili sanzionatori a carico dell’hosting provider: presupposti per la determinazione della sanzione e principio di proporzionalità.
Da ultimo, la pronuncia si concentra sulla proporzionalità della sanzione applicata dall’AGCOM nei confronti dell’operatore.
Il Consiglio di Stato principia sul punto affermando che la circostanza che l’operatore abbia venduto sulla propria piattaforma “…diversi biglietti…” in relazione a “…diversi eventi…” integra una “…pluralità e generalità di operazioni, tali da dare vita ad una vera e propria ulteriore piattaforma di vendita…”; ciò concorrerebbe a “…definire la gravità del fatto…”[13] e ad escludere la possibilità di applicare (ai fini del computo della sanzione) l’istituto del c.d. cumulo giuridico di cui all’art. 8 l. 689/1981 (applicabile solo nell’ipotesi in cui la pluralità di violazioni discenda da un’unica condotta e non già in presenza di distinte condotte, anche se identiche o analoghe[14]).
Sulla scorta di tali presupposti concettuali, il Consiglio di Stato conclude quindi affermando che, nella vicenda all’attenzione, “…l’Autorità ha fatto corretto utilizzo dei parametri di quantificazione di cui alla normativa di principio, valorizzando i seguenti elementi: la gravità della condotta anche per la rilevante diffusione della stessa attraverso i più diffusi social media; l’assenza di qualsiasi comportamento, nel corso del procedimento, finalizzato a eliminare o attenuare le conseguenze della violazione e anzi, all’opposto, l’aver dato vita a comportamenti omissivi alla richiesta di elementi; la personalità dell’agente, dotato di una struttura adeguata e qualificata, e le condizioni economiche dello stesso…”.
Sulla scorta delle sopra riportate considerazioni, il Consiglio di Stato rigetta l’appello proposto dall’appellante e conferma la sentenza di primo grado (che aveva, a sua volta, ritenuto legittima la sanzione adottata dall’AGCOM).
9. Conclusioni.
La pronuncia in esame risulta particolarmente interessante poiché adottata su una materia - quella della vendita online di prodotti sui mercati secondari e della responsabilità amministrativa del “provider” – nuova e particolarmente “attuale”, in considerazione, tra le altre cose, dell’elevato numero di transazioni/vendite effettuate in rete dai consociati e del “ruolo” svolto ad oggi dal fenomeno della digitalizzazione delle operazioni commerciali.
La sentenza pone alcuni punti fermi su quelli che sono i profili e/o le tipologie di attività del provider giuridicamente rilevanti (anche in punto di responsabilità amministrativa del provider stesso), individuando altresì alcune ipotesi/casistiche specifiche che andranno sicuramente ad “arricchirsi” con l’evolversi del fenomeno della digitalizzazione (e della vendita online) e con il registrarsi di nuove pronunce giurisprudenziali in materia.
Il dato di particolare rilievo che emerge dalla pronuncia è che, sotto un profilo strettamente giuridico, il provider – in tutte quelle ipotesi in cui non si limiti ad adottare misure meramente “passive” (ad esempio, raccogliendo e memorizzando dati di terzi) - dovrà assicurarsi che le misure adottate sulla propria piattaforma/sito (al fine di “arricchire” la fruizione dei contenuti da parte dell’utenza) non violino interessi protetti e/o comunque non siano funzionali ad eludere divieti introdotti dal legislatore per la tutela di diritti tutelati a livello nazionale o comunitario (es. ordine pubblico; salute; concorrenza; libera iniziativa economica).
[1] L’art. 1, comma 545 della legge 11 dicembre 2016, n. 232 stabilisce che “…Al fine di contrastare l'elusione e l'evasione fiscale, nonché di assicurare la tutela dei consumatori e garantire l'ordine pubblico, la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione è punita, salvo che il fatto non costituisca reato, con l'inibizione della condotta e con sanzioni amministrative pecuniarie da 5.000 euro a 180.000 euro, nonché, ove la condotta sia effettuata attraverso le reti di comunicazione elettronica, secondo le modalità stabilite dal comma 546, con la rimozione dei contenuti, o, nei casi più gravi, con l'oscuramento del sito internet attraverso il quale la violazione è stata posta in essere, fatte salve le azioni risarcitorie. L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, di concerto con l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, effettua i necessari accertamenti e interventi, agendo d'ufficio ovvero su segnalazione degli interessati e comminando, se del caso, le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente comma. Non è comunque sanzionata la vendita ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da una persona fisica in modo occasionale, purché senza finalità commerciali…”.
[2] Nella sentenza Tar Lazio, Roma n. 3955/2021 si chiarisce che “…Per “titolari di sistemi di emissione” dei titoli si intendono i soggetti cui è stata conferita specifica autorizzazione dall’Agenzia delle Entrate, ai sensi del provvedimento della stessa Agenzia del 22 ottobre 2002 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 258 del 4 novembre 2002) recante “Autorizzazione al rilascio delle carte di attivazione relative a sistemi di emissione di titoli di accesso e di riconoscimento di idoneità di apparecchiature”, che presuppone la conformità dei sistemi di emissione dei titoli di accesso al decreto del Ministero delle Finanze del 13 luglio 2000, riguardante le caratteristiche degli apparecchi misuratori fiscali, il contenuto e le modalità di emissione dei titoli di accesso per gli intrattenimenti e le attività spettacolistiche. Le misure tecniche di dettaglio sono, inoltre, contenute nel provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 27 giugno 2019 che, al capo III, punti 6.3 e 6.4, indica i parametri tecnici della procedura di cambio nominale dei titoli di accesso e della procedura di intermediazione per la rivendita, e che, come evidenziato dall’Avvocatura dello Stato, è stato oggetto di notifica alla Commissione Europea ai sensi della Direttiva (UE) 2015/1535…”.
[3] L’art. 16 del d. lgs. 9 aprile 2003, n. 70 prevede che “…1. Nella prestazione di un servizio della società dell'informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso. 2. Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano se il destinatario del servizio agisce sotto l'autorità o il controllo del prestatore. 3. L'autorità giudiziaria o quella amministrativa competente può esigere, anche in via d'urgenza, che il prestatore, nell'esercizio delle attività di cui al comma 1, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse…”.
[4] Secondo la Corte di Cassazione ricorre la figura dell’ “…hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato (di cui all’art. 16 del d. lgs. 70/2003), quando sia ravvisabile una condotta di azione (..) gli elementi idonei a delineare la figura o “indici di interferenza”, da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono - a titolo esemplificativo e non necessariamente tutte compresenti - le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l'effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati…” (Cass. Civ., Sez. I, 19 marzo 2019, n. 7708).
Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che “…allorché il prestatore del servizio, anziché limitarsi ad una fornitura neutra di quest'ultimo, mediante un trattamento puramente tecnico e automatico dei dati forniti dai suoi clienti, svolge un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo di tali dati…”, in particolare consistente “…nell'ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte, si deve considerare che egli non ha occupato una posizione neutra tra il cliente venditore considerato e i potenziali acquirenti, ma che ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte. In tal caso non può avvalersi, riguardo a tali dati, della deroga in materia di responsabilità di cui all'art. 14 della direttiva 2000/31…” (Corte UE, Grande Sezione, 12 luglio 2011, C-324/09, L’Orèal c. eBay, punti 112 – 117; in termini analoghi, id., 23 marzo 2010, C-236/08, Google c. Louis Vuitton, punti 109 e seguenti).
[5] L’art. 106 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea stabilisce che “…1. Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme dei trattati, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 18 e da 101 a 109 inclusi. 2. Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell'Unione. 3. La Commissione vigila sull'applicazione delle disposizioni del presente articolo rivolgendo, ove occorra, agli Stati membri, opportune direttive o decisioni…”.
[6] Ai sensi dell’art. 117, comma 1 della Costituzione “…La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali…”.
[7] Ai sensi dell’art. 41 della Costituzione “…1. L'iniziativa economica privata è libera. 2. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 3. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali…”.
[8] L’art. 17 del d. lgs. 9 aprile 2003, n. 70 prevede che “…1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. 2. Fatte salve le disposizioni di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore è comunque tenuto: a) ad informare senza indugio l'autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza, qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario del servizio della società dell'informazione; b) a fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l'identificazione del destinatario dei suoi servizi con cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire attività illecite. 3. Il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto dall'autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l'accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l'accesso, non ha provveduto ad informarne l'autorità competente…”.
[9] Nella pronuncia n. 10510/2023, il Consiglio di Stato chiarisce, nello specifico, che “…Il provider è il soggetto che organizza l’offerta ai propri utenti dell’accesso alla rete internet e dei servizi connessi all’utilizzo di essa. Si distinguono, ai sensi del decreto in esame (d. lgs. 70/2003), tre figure di soggetti che operano nel presente mercato, articolate in ragione della tipologia di prestazione resa a cui corrisponde una specifica forma di responsabilità: i) attività di semplice trasporto – mere conduit (art. 14); ii) attività di memorizzazione temporanea – caching (art. 15); iii) attività di memorizzazione di informazione – hosting (art. 16)…”.
[10] La pronuncia in esame ribadisce i principi affermati dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 7708/2019, nella quale la Suprema Corte ha riconosciuto che “…La distinzione tra hosting provider attivo e passivo può, a ben vedere, agevolmente inquadrarsi nella tradizionale teoria della condotta illecita, la quale può consistere in un'azione o in un'omissione, in tale ultimo caso con illecito omissivo in senso proprio, in mancanza dell'evento, oppure, qualora ne derivi un evento, in senso improprio; a sua volta, ove l'evento sia costituito dal fatto illecito altrui, si configura l'illecito commissivo mediante omissione in concorso con l'autore principale. La figura dell'hosting provider attivo va ricondotta alla fattispecie della condotta illecita attiva di concorso. Al riguardo, vale la pena di ricordare l'osservazione della dottrina, secondo cui il diritto privato Europeo è pragmatico e non si cura delle architetture concettuali, avendo il legislatore comunitario il difficile compito di ottenere effettività con il "minimo investimento assiologico" ed un "minimo tasso di riconcettualizzazione"; ed il rilievo, secondo cui le norme di derivazione Europea provengono da sistemi giuridici segnati da una "tendenziale sottoteorizzazione". Dal suo canto, le pronunce della Corte di giustizia sono delimitate dai quesiti sottoposti dai giudici a quibus. Eppure, come del pari si osserva, nell'esigenza di trovare una nuova dogmatica universalmente fruibile, oltre le dogmatiche municipali, gli esponenti dell'accademia e delle corti, nei rispettivi ruoli, sono chiamati a preservare il valore della certezza del diritto: il che passa anche attraverso la riconduzione ad un sistema concettuale efficiente delle norme di derivazione Europea. Dunque, si può parlare di hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato, quando sia ravvisabile una condotta di azione, nel senso ora richiamato. Gli elementi idonei a delineare la figura o "indici di interferenza", da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono - a titolo esemplificativo e non necessariamente tutte compresenti - le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l'effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati…” (Cass. Civ., Sez. I, 19/03/2019, n. 7708).
[11] Si fa riferimento alle sentenze della Corte Costituzionale nn. 125/1963, 30/1965 e 12/1970.
[12] Nella sentenza in esame si riconosce che “…La norma poi sceglie la via dell’illecito amministrativo e non penale ed in ciò appare proporzionata. Va ricordato che l’illecito penale in tempi risalenti era stato ravvisato ipoteticamente per “la violazione del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 115, (Tulps) per attività di vendita di biglietti di ingresso ad una manifestazione, costituendo tale attività un’operazione riconducibile all’apertura di un’agenzia d’affari in assenza della prescritta licenza” e per l’art. 665 codice penale ( poi depenalizzato ). Tale inquadramento non ha retto nemmeno al vaglio della giurisprudenza civile. Per Cass. Civ. n. 10881 del 2008 “chi acquista per poi rivendere a proprio rischio e pericolo biglietti per spettacoli e manifestazioni in genere non è tenuto a chiedere alcuna licenza al questore. L’attività in esame, detta volgarmente di “bagarinaggio”, non è riconducibile, infatti, all’esercizio di un’agenzia d’affari per la quale il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza all’art. 155 prevede il permesso dell’autorità locale competente, poiché il bagarino, che rivende biglietti nel proprio esclusivo interesse ed al fine di lucrare un prezzo maggiore di quello d’acquisto, non esercita alcuna intermediazione - neppure atipica – riconducibile all’agenzia d’affari. Per lo svolgimento di questa attività, dunque, non sussistono le ragioni di specifica vigilanza per motivi d’ordine pubblico e sicurezza da cui sorge la necessità della licenza ( in senso analogo Cass. Civ. n. 12826 del 2007 si tratta di sentenze relative al bagarinaggio dei c.d. ambulanti). A fronte dell’esplosione del “bagarinaggio” c.d. informatico, invero molto impattante sull’economia del settore dei pubblici spettacoli, il legislatore fiscale è intervenuto con norma limitativa, ma compatibile con l’orientamento della giurisprudenza civile perché introduttiva di un mero illecito amministrativo. La rivendita massiva di biglietti a prezzi maggiorati, unitamente all’incetta dei biglietti che si può fare alla fonte mediante programmi informatici, è un fenomeno che ha attratto l’attenzione del legislatore intervenuto con la norma di cui si eccepisce l’incostituzionalità. Il fenomeno si è ritenuto in grado di produrre effetti negativi sia per i privati che vogliono partecipare a concerti o a partite di calcio, sia per gli organizzatori degli eventi e gli artisti, che vedono lucrare sconosciuti sul proprio lavoro…”.
[13] Nella pronuncia in esame il Consiglio di Stato sottolinea che “…In linea generale, i criteri generali di cui fare applicazione in sede di commisurazione delle sanzioni pecuniarie sono rinvenibili nell'ambito dell'art. 11 della l. 689 del 1981, per il quale, "nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche" (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. VI, 24 agosto 2011, n. 4799)…”.
[14] Sui presupposti ai fini dell’applicabilità del principio del cumulo giuridico di cui all’art. 8 l. 689/1981 si veda anche Cass. civ., Sez. II, 22 giugno 2022, n. 20129.
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