ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il 19 gennaio 2024, giorno in cui Paolo Borsellino avrebbe compiuto 84 anni, a Marsala è stato inaugurato il “Museo Borsellino” su iniziativa promossa e condivisa dalla Sottosezione ANM di Marsala.
Lo spazio espositivo è stato realizzato nell’ufficio del vecchio Palazzo di Giustizia che dal 4 agosto dell’86 al 5 marzo 1992 fu destinato al Procuratore Borsellino: sono state utilizzate la sua stanza e l’antisala recuperandone gli arredi del tempo - poltrona, scrivania, divani, libreria, foto alle pareti ed anche i pacchetti delle sue immancabili sigarette - insieme ai faldoni in originale di alcuni procedimenti penali da lui promossi a Marsala.
È proprio tra queste carte poste sulla scrivania della stanza museo che il visitatore attento potrà trovare la misura di prevenzione personale e patrimoniale che, nel gennaio 1990, fu proposta a firma del Procuratore della Repubblica nei confronti di Francesco Messina Denaro, padre di Matteo. Si tratta di una delle prime applicazioni della normativa antimafia in materia, testimonianza della nuova attenzione investigativa nei confronti della criminalità organizzata che l’arrivo di Paolo Borsellino avrebbe comportato su quel territorio.
Paolo Borsellino si insedia alla Procura di Marsala una volta conclusa l’esperienza al Pool dell'Ufficio Istruzione di Palermo, dove, con Giovanni Falcone, aveva predisposto e sottoscritto l’ordinanza-sentenza nei confronti di “Abbate Giovanni + 706” che diede vita al grande processo a “Cosa nostra” – unico ed irripetibile nella storia giudiziaria italiana – passato alla storia come Maxiprocesso per il numero elevatissimo – 475 – di imputati con vari capi d’accusa tra cui quello di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Il suo “essere magistrato” si era immediatamente caratterizzato per il piglio rivoluzionario rispetto al contesto, sia interno che esterno alla magistratura di allora: pool, organizzazione mafiosa, criminalità economica, accertamenti bancari, riscontri a dichiarazioni eteroaccusatorie e condivisione professionale non erano termini solitamente usati già dentro i Palazzi di Giustizia.
Paolo Borsellino - così come Rocco Chinnici, e come anche tutti coloro che con lui composero il Pool antimafia, Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello – furono dei veri innovatori per l’intera magistratura, capaci di stabilire regole deontologiche prima che professionali, di far prevalere il NOI sull'IO, superando così gelosie, protagonismi, vittimismi e soprattutto, di svolgere l’attività con curiosità investigativa e riscontri necessari, nel segno di una cultura di indagine dove la prova sovrasta la cultura del sospetto o del pre-giudizio.
Ed è con tale spirito che le attività investigative si arricchiscono, attraverso scambio di notizie ed informazioni, sia all’interno dell’ufficio che con altre Procure, adottando un metodo che, soprattutto in ambiti di fenomeni delittuosi pervicaci e di organizzazioni criminali che operano senza distinzione di competenze e/o territori, diventa chiave di successo affermando il principio che processi e indagini non appartengono al singolo Pubblico Ministero o al singolo magistrato, ma sono (o dovrebbero essere) - patrimonio comune.
L’esempio che il Procuratore Borsellino ha fornito alla Procura di Marsala – testimoniato il 19 gennaio scorso dai preziosi e commossi ricordi di Alessandra Camassa, Giuseppe Salvo e Luciano Costantini tra i protagonisti del gruppo marsalese di quel periodo - invita a rifiutare il ruolo del magistrato-burocrate, attendista e superficiale, appiattito al formale rispetto dell’orario di lavoro o delle “carte a posto” (oggi, “numeri e dati statistici a posto”!) o del magistrato isolato nella sua torre eburnea o al contrario, di quello che gareggia all'interno di una scenografica arena incoraggiando tifoserie, dimentico di “essere” un servitore dello Stato.
Egli ha svolto il ruolo di Procuratore, di coordinatore di indagini, senza schermarsi dietro formalismi o rispetto del “quieto vivere”, operando a tutela dei colleghi e, al tempo stesso, con l’autorevolezza derivata dalla sua professionalità e dall’impegno etico nel rispetto assoluto delle norme su assetto organizzativo e strutturale della Procura, individuando itinerari investigativi rispettosi delle norme e del doveroso coordinamento tra i vari organi investigativi, senza ingerenze o stress test di natura aziendale sul corretto sviluppo delle indagini.
Il suo agire si caratterizzava per il modo di affrontare le indagini: indagare “senza se e senza ma”, penetrando nel circuito criminale grazie agli strumenti normativi del processo e del diritto penale, facendo emergere fenomeni delittuosi di non facile e immediata acquisizione; egli infatti, ha indagato dove altri non indagavano nel rispetto del principio di autonomia e indipendenza della magistratura, riconosciuto costituzionalmente non quale prerogativa e privilegio di libertà da vincoli, ma, piuttosto, come principio che ne contraddistingue e delimita competenze e ruoli rispetto agli altri poteri dello Stato.
Così Paolo Borsellino è stato al servizio dello Stato e della Giustizia, protagonista indiscusso e autorevole della nostra storia giudiziaria senza scrivere libri su indagini svolte, né esibire od ostentare il proprio servizio; senza tessere relazioni con poteri estranei alla magistratura alla ricerca di vacui consensi o di prebende e incarichi; ha svolto le indagini nel rispetto della legge, senza esitazioni né personalismi, svelando sacche di impunità e facendo emergere reti di protezione o clientele, senza tatticismi o titubanze, preoccupazioni o retropensieri.
Egli ha acquisito credibilità, autorevolezza e riconoscimento solo indossando la toga per entrare nelle aule di Giustizia; non ha fatto ricorso a scorciatoie, raccomandazioni, relazioni per far valere il suo “essere” magistrato.
Tutto ciò Paolo Borsellino l’ha fatto mantenendo sempre quel sorriso accogliente e trasparente che mostra nelle foto esposte nel Museo, luogo di doverosa memoria, aperto a studenti, a marsalesi, a cittadini e a tutti coloro che hanno voglia di “vedere” i luoghi di questa illustre storia, per recuperare e meglio comprendere il valore che rappresentano questi Uffici non per (o almeno non solo per) statistiche, buone prassi, monitoraggi – più facilmente riferibili alla produttività aziendale – ma, piuttosto, per la capacità di condurre e sviluppare indagini che, nel rispetto delle regole penali e processuali e di fronte a prove verificate, configurino ipotesi di reato senza sacrificare le reali esigenze della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa da sottoporre al vaglio del Giudice nel contraddittorio tra le parti.
Paolo Borsellino è stato un dirigente innamorato della funzione requirente in un momento storico nel quale tale figura cominciava ad essere al centro di polemiche tempestose degenerate in ingiuste e irragionevoli delegittimazioni, poiché molteplici sono stati e continuano ad essere i tentativi di assoggettare la Procura della Repubblica allo scopo di esercitare poteri di controllo e condizionamento o peggio, di indurre a forme di obbedienza.
Oggi a destare le preoccupazioni maggiori sono le preannunciate linee di fondo del progetto di riforma della giustizia penale che mirano a coinvolgere (o forse, a sconvolgere) l'assetto costituzionale che è proprio del Pubblico Ministero proponendo in modo ossessivo la separazione delle carriere giudicanti e requirenti, l'istituzione di due distinti Csm, l'incremento della percentuale della componente non togata in entrambi a scapito di quella togata, la prova psicoattitudinale, l'introduzione di un nuovo meccanismo disciplinare, un diverso rapporto tra polizia giudiziaria e pubblico ministero, in balia di un legislatore frenetico e allo stesso tempo contraddittorio perché sempre orientato a sanzionare esclusivamente in sede penale – con delega diffusa al P.M. e al Giudice penale - ogni accadimento ritenuto illegittimo o in contrasto con le regole democratiche.
In tal modo, viene svilito il ruolo del Pubblico Ministero additandolo come il male di tutti i guai del valore Giustizia, tristemente affermando una palese sfiducia nel suo operato con il desiderio di delegittimarlo.
Il Museo dedicato a Paolo Borsellino, riecheggiando il convincimento proustiano secondo il quale "la memoria è l'unico strumento in grado di cogliere le trasformazioni che il tempo causa alle cose e alle persone; conservare la memoria, quindi, significa conservare l'identità" ci aiuta a recuperare il reale significato della funzione della Procura: ricca, appassionata, capace di intervenire in favore della vittima e nel rispetto della persona indagata, affermandone l’identità secondo il principio di un’azione della magistratura inquirente svolta dentro la cultura della giurisdizione e della prova, distante ed estranea – per il bene della collettività - a ogni forma di controllo e influenza, diverse da quelle fisiologiche delle regole del Processo.
L’auspicio è che il Museo diventi, in tal senso, anche un luogo di riflessione attenta, dove, attraverso oggetti della memoria, possa cogliersi l’essenza di “esser magistrato” di una Procura della Repubblica che, nella sua, apparentemente, semplice quotidianità, nasconde fatica, impegno, passione, riuscendo a realizzare risultati che possono aiutarci “a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.
Sommario: 1. La lavorazione del “dato” e la “cassetta degli attrezzi” del giurista. - 2. L’algoritmo non è uno strumento “neutro”. - 3. L’importanza di una governance condivisa dell’innovazione tecnologica nella giurisdizione: l’esperienza di PCT e di APP - 4. Il caso delle Banche Dati di merito (Pubblica e Riservata). – 5. IA e anonimizzazione dei provvedimenti nella BDP e in PRO.DI.GI.T. – 6. IA e i rischi della giustizia predittiva. – 7. I diversi approcci sistemici nella regolazione dell’IA. - 8. Il “metodo” Osservatorio per migliorare la governance dell’innovazione giudiziaria.
1. La lavorazione del “dato” e la “cassetta degli attrezzi” del giurista.
Viviamo nell’era dei dati e dell’informazione – come ha ricordato recentemente anche il Presidente del Garante per la protezione dei dati personali (P. STANZIONE) – e le nostre politiche, le nostre economie, le nostre vite sono condizionate dal flusso di dati e da tecnologie che corrono più veloci della regolamentazione necessaria a garantirne uno sviluppo sostenibile.
Questo vale per tutti i cittadini, ma in particolar modo per il mondo dei giuristi, la cui professionalità consiste nel partire da un dato rilevante per il diritto, il fatto, verificarlo attraverso lo studio, l’esperienza, l’istruttoria se del caso, per poi sussumerlo e porlo a base di una informazione complessa, cristallizzando il processo logico-associativo in un atto giudiziario che contiene una domanda o una eccezione o in una sentenza che regola in diritto il dato iniziale rispondendo alla domanda e alla eccezione.
Il complesso e affascinante procedimento dello ius dicere si è svolto per molto tempo attraverso supporti materiali da organizzare, ma di per sé non tali da incidere sulla formazione del contenuto dell’atto o della decisione finale (D. PELLEGRINI) e, come tali, sono stati a lungo privi di reale interesse per i giuristi. Quando sono state adottate le Carte che tracciano la costellazione dei nostri diritti fondamentali, come la dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’ONU (approvata 10 dicembre 1948), la Convenzione Europea Dei Diritti dell’Uomo (firmata il 4 novembre 1950) e la stessa Costituzione della repubblica italiana (in vigore dal 1.1.1948), l'intelligenza artificiale non era conosciuta.
Allora, la collocazione degli Uffici nei Tribunali o negli studi legali, la presenza di solide scrivanie, di supporti cartacei al diritto contenuti in libri, fascicoli e faldoni, erano elementi nella “cassetta degli attrezzi” dell’operatore da ordinare con cura, ma tendenzialmente “neutri” per il procedimento ermeneutico della giurisdizione, ossia non idonei ad incidere in maniera significativa sul contenuto del dato giuridicamente rilevante e sulla sua lavorazione finale.
2. L’algoritmo non è uno strumento “neutro”.
Quel mondo antico è cambiato. Nel 1950 viene pubblicato sulla rivista Mind il geniale saggio (A.M. TURING) Computing machinery and intelligence in cui si descrive quello che poi sarebbe stato denominato come “il Test di Turing”, sul quale si basa la gran parte degli studi successivi sull’intelligenza artificiale. Fin dalle prime battute il paper si incentra sulle definizioni del significato dei termini “macchina” e “pensiero”, giungendo alla convinzione che si può raggiungere un'intelligenza artificiale, farlo imitando la mente umana e alimentarla seguendo i normali insegnamenti che si danno ad un bambino, efficiente ricettore di nuove informazioni.
Oggi, l’utilizzo del supporto tecnico-informatico attraverso il quale l’associazione del dato e la lavorazione dell’informazione giuridica avviene nell’ambito di un processo largamente dematerializzato, è divenuto un elemento decisivo sia sul piano dell'efficienza complessiva e dei tempi di risposta alla domanda di giustizia, sia sul piano della qualità del risultato. L’intelligenza artificiale amplifica esponenzialmente questa tendenza, nei suoi aspetti positivi e in quelli deteriori: pensiamo alla salute del lavoratore esposto a lunghissimi periodi di permanenza a video, al progressivo svuotamento dei tribunali come luoghi socialmente riconosciuti deputati al controllo dello ius dicere. Pensiamo ancora alla massificazione della giurisdizione, deriva in cui l’atto giudiziale e la sentenza rischiano di diventare agli occhi di molti dirigenti della stessa organizzazione giudiziaria un prodotto seriale di cui conta essenzialmente la quantità da esibire in statistica in assenza di vistose anomalie formali, elementi che rischiano di prevalere sulla funzione creativa e di garanzia nello specifico caso concreto e, in ultima analisi, sull’idoneità dell’atto giudiziale ad assicurare una reale e concreta composizione individualizzata della controversia.
Tutti noi giuristi dobbiamo rivendicare che l’informatica giuridica e l’intelligenza artificiale ad essa applicata non venga considerata un mero servizio che il Ministero della Giustizia deve erogare agli utenti degli Uffici giudiziari con adeguata continuità su tutto il territorio nazionale, dalla Sicilia alla Lombardia, obiettivo comunque non sempre raggiuto. È fondamentale che gli organi rappresentativi della Magistratura e dell’Avvocatura e consolidati corpi intermedi come l’Osservatorio Nazionale sulla Giustizia Civile, i quali realizzano quotidianamente da molti anni una sintesi interdisciplinare tra Accademia, Avvocatura e Magistratura, rivendichino e siano presenti ai tavoli di lavoro ministeriali sull’intelligenza artificiale, per condividere le responsabilità e contribuire a stabilizzare un segmento fondamentale per la governance della giurisdizione, dal momento che lo strumento dell’IA non è affatto neutro rispetto ai tempi e alla qualità del risultati attesi.
3. L’importanza di una governance condivisa dell’innovazione tecnologica nella giurisdizione: l’esperienza di PCT e di APP
Sul terreno della governance condivisa dell’innovazione tecnologica nella giurisdizione, l’Ufficio innovazione del Tribunale di Milano, l’Ordine degli avvocati di Milano e l’Osservatorio sulla Giustizia civile hanno messo a fuoco negli anni attraverso l’esperienza del processo civile telematico un metodo di lavoro straordinario, cui merita data ulteriore continuità. A partire dal 2011 è stato finalmente attuato il d.P.R. n.123/2001, recante le prime regole sul PCT e allora la Cancelleria dell’Ufficio (P. BOVE), pur all’avanguardia nelle sperimentazioni sin dal 2006 sui decreti ingiuntivi telematici, nutriva molte perplessità sulle reali possibilità che il Processo Civile Telematico potesse funzionare. Tuttavia, il Tribunale e l’Ordine degli avvocati, hanno sorpreso tutti gli addetti ai lavori, dimostrando che il processo civile davvero poteva essere dematerializzato. Fondamentale è stata la sinergia con l’Avvocatura, sia per le risorse umane che per quelle intellettuali impiegate, ad esempio ai fini del training capillare dei magistrati da parte di avvocati-formatori, molto più esperti di molti magistrati sugli applicativi. A distanza di oltre un decennio dal lancio di Consolle, il PCT ancora richiede continua lavorazione, non solo a livello di reingegnerizzazione dell’applicativo da parte del Ministero, ma anche on-the-job e ancora – nonostante l’aquis di esperienze ormai diffuse tra i colleghi - la collaborazione con l’Avvocatura è importante.
Molto diverso è il caso del Processo Penale Telematico, che per il momento non pare aver sfruttato a pieno il bagaglio di conoscenze, di errori e di emendamenti maturati dal suo omologo civile in sede di concezione, sviluppo e implementazione. Nel 2024 il PPT è un esempio di come la carenza dell’apporto multidisciplinare alla governance dell’innovazione crei consistenti difficoltà. L’elaborazione del PPT è avvenuta negli ultimi anni sostanzialmente “in vitro” nelle stanze della società appaltatrice e del Dicastero, in vista del perseguimento degli obiettivi PNRR dopo l’emergenza Covid-19. L’Applicativo per il Processo Penale (APP) è stato presentato in alcuni Uffici di Procura per la sperimentazione solo nel novembre 2023, quasi contemporaneamente sono stati coinvolti i RID e i MAGRIF, magistrati esperti di informatica in poche unità presenti in ciascun distretto, e il 1° gennaio 2024 lo strumento è stato lanciato in tutta Italia, riducendo per ora le iniziali ambizioni alle sole archiviazioni penali. È mancata una condivisa sperimentazione, protratta per un periodo di tempo significativo. Cospicue sono le criticità emerse sin da subito – certificate da un gruppo di analisi sul PPT individuato dal Consiglio Superiore della Magistratura - e gli sviluppi futuri sono affidati ad una nuova versione dell’applicativo in corso di progettazione “2.0”. La materia penale è sicuramente un terreno difficile per l’informatica giuridica, non è un caso che sconti un forte ritardo nella digitalizzazione, ma, in disparte da questo, è evidente che nella concezione di APP è stato seguito un metodo non inclusivo non solo nella definizione del “dominio” dell’applicativo e nel suo “disegno concettuale”, ma anche nel disegno “logico” e, infine, in quello “fisico”, metodo escludente apporti esterni che non ha permesso al Ministero e alla appaltatrice di individuare per tempo numerose criticità progettuali. Questa è una lezione per il futuro e in particolare per applicativi che fanno uso di intelligenza artificiale applicata al diritto: un’eccessiva rigidità di progettazione, escludente interlocutori fondamentali come un consistente numero di utenti primari, rischia di compromettere la fruibilità dello strumento alle prime prevedibili difficoltà nel suo utilizzo concreto.
4. Il caso delle Banche Dati di merito (Pubblica e Riservata).
Per il momento le problematiche che investono APP non hanno avuto molta eco al di fuori della Magistratura perché nell’immediato l’applicativo investe essenzialmente gli Uffici di Procura e la sua introduzione risponde ad esigenze amministrative di rispetto delle milestones fissate in sede di PNRR, ma l’attuale metodo di concezione unilaterale di primarie innovazioni tecnologiche destinate a rivoluzionare il lavoro quotidiano dei giuristi non pare isolato. Significativo è il caso della Banca Dati di merito Pubblica (BDP), on line dal 14 dicembre 2023, e quello della Banca Dati di merito Riservata (BDR) a disposizione dei magistrati. La base dati fa uso, tra l'altro, anche di intelligenza artificiale generativa per l'ausilio alla massimazione: ad esempio, l'algoritmo è abilitato a proporre al massimatore un completamento automatico della frase iniziata dal redattore, e così di sintetizzare il contenuto della decisione da massimare. Il risultato è più un sommario (summary in Common Law) che una vera e propria massima secondo gli standard in uso presso il Massimario della Corte di Cassazione o del Foro italiano. Prevede anche, attraverso una gestione dei permessi, un meccanismo di validazione della massima da parte del Dirigente e poi la pubblicazione e inserimento nella base dati. C'è un OCR per il riconoscimento di testi non nativi digitali con possibilità di indicizzazione di sezioni dei documenti più corposi.
È previsto anche un "chatbot", che fornisce tramite l'intelligenza artificiale risposte a quesiti giuridici posti con linguaggio naturale. Risponde sulla base delle massime contenute nella base dati e, in prospettiva, anche dei sommari delle sentenze di merito caricate: si dichiara che circa 3 milioni di provvedimenti sono già censiti, e oltre 1600 massime. La risposta individua anche la fonte, ossia la sentenza o ordinanza, da cui ha tratto le informazioni, per consentire una verifica da parte di chi legge e limitare i rischi di inganni (hallucinations). Tuttavia, non rende evidenti i bias, ossia i pregiudizi discriminatori che si annidano tra i criteri scelti dall'algoritmo per la selezione della giurisprudenza ritenuta rilevante.
Inoltre, come l’Osservatorio Nazionale sulla Giustizia Civile di Milano ha osservato in un recente condivisibile documento del Gruppo Europa IA e Diritto (E. RIVA CRUGNOLA, S. TOFFOLETTO), particolarmente disfunzionale pare la scelta, da un lato, di mettere a disposizione del pubblico la BDP, previa autenticazione tramite Spid, CIE e CNS, nonché di mettere a disposizione dei magistrati la BDR, e, dall’altro lato, di chiudere, sia per i magistrati che per gli avvocati, l’accesso, tramite Consolle PCT, all’Archivio Nazionale della giurisprudenza. Numerose sono le criticità riscontrate, soprattutto in materia di anonimizzazione dei provvedimenti da parte dell’IA e anche la query e il reperimento dei provvedimenti risultano difficili per gli utenti, abituati alla ricerca dei provvedimenti secondo criteri preimpostati di data, numero di registro, parti, relatore, con conseguente scarsa fruibilità e reperimento del dato raffinato. È stata riscontrata anche la non completezza della conservazione dei provvedimenti dichiarati, anche recenti, nell’archivio di BDP e BDR.
Un altro tema non pienamente messo a fuoco e da non sottovalutare è quello della sicurezza della Banca Dati Riservata, sia civile che penale, che riguarda anche le decisioni già prese, dense di dati sensibili.
Si può ragionevolmente ritenere che diverse delle criticità emerse avrebbero potuto tempestivamente essere individuate in presenza di una interlocuzione specifica con i giuristi interessati e soprattutto di una adeguata sperimentazione, coinvolgendo in specifici tavoli di lavoro permanenti anche l’Ordine Nazionale Forense e una pluralità di esponenti dell’Accademia.
5. IA e anonimizzazione dei provvedimenti nella BDP e in PRO.DI.GI.T.
L’intelligenza artificiale è strumento molto utile nei processi lavorativi e nell’analisi statistica del dato, anche negli Uffici giudiziari (B. FABBRINI). Ad esempio, è utilissima ad individuare i punti critici ove vi sono gravi falle di efficienza nella sequenza organizzativa, come nel caso si tratti di individuare, attraverso l’esame del dato strutturato, la ragione per cui un gran numero di notifiche non vanno a buon fine in un determinato Ufficio.
È invece opportuna la cautela nell’utilizzo dell’IA con riferimento alla lavorazione ed elaborazione del dato testuale dei provvedimenti: può essere utile per ricerche di base e per riassunti su questioni giuridiche, ma sempre da verificare attraverso le lenti di un giurista qualificato.
Anche per obiettivi apparentemente circoscritti come l’anonimizzazione delle decisioni l’IA pare uno strumento ancora non pienamente affidabile e il cui uso è utile a supporto del giurista, ma non in sistemico automatismo. Algoritmi ancora non raffinati e oggetto di training su dati non accuratamente scelti rischiano di dare risultati che possono incrinare la fiducia nella qualità della professione legale e della giurisdizione, consentendo da un lato la diffusione di dati sensibili sfuggiti nel testo e, dall’altro, oscurando parti delle decisioni essenziali per comprendere la motivazione. In tal senso vi sono esempi tratti anche da laboratori di diritto comparato: le banche dati in Austria (RIS-Justiz) sono accessibili da tutti anche non da avvocati e, per tale ragione, gran parte delle sentenze inserite on line sono anonimizzate su indicazione spontanea dei collegi giudicanti. In altri termini, non opera un meccanismo di anonimizzazione “a richiesta” dell’interessato, proprio per fronteggiare i rischi connessi ad una banca dati ad accesso indiscriminato. Orbene, è significativo che l’anonimizzazione non avvenga tramite IA, bensì manualmente e, a specifica interrogazione dell’Evidenzbüro - EB, l’Ufficio del Massimario della Corte Suprema d’Austria, è stato confermato che si tratta di una precisa scelta di prudenza, in quanto gli algoritmi disponibili sono ritenuti strumenti non ancora sufficientemente evoluti e idonei ad evitare rilevanti falle. La sfida è coniugare l’anonimizzazione generalizzata delle sentenze con la comprensibilità e controllabilità pubblica della motivazione a supporto della decisione.
L’Osservatorio sulla Giustizia Civile in Italia ha una vastissima esperienza in materia di Privacy, frutto di un attento approfondimento scientifico, oltre che di una raccolta del dato molto ampia e stratificata, ed è una risorsa per chi voglia intervenire in questo settore attraverso l’IA.
È discussa l’efficacia dell’IA adoperata nell’anonimizzazione dei provvedimenti inseriti nella Banche Dati di merito Pubblica, dove secondo alcuni autori (P. F. MONDINI) la generale estensione dell’”accecamento” alle date rende talvolta molto difficile comprendere lo sviluppo temporale delle vicende controverse e l’individuazione degli estremi delle sentenze citate nella motivazione attraverso la loro data, con nocumento per la stessa finalità della motivazione come strumento di controllo della decisione giudiziale.
Vi è almeno un altro caso importante di banche dati di merito destinate ad ampio pubblico in cui l’algoritmo con IA è chiamato ad operare per favorire il rispetto della Privacy, senza nuocere alla comprensione della motivazione, ed è quello dell’applicativo PRO.DI.GI.T., il progetto digitale sulle banche dati di merito della Giustizia Tributaria. Il progetto è incentrato su una banca dati di merito con sommari di decisioni di primo e secondo grado degli ultimi anni, scandagliate da un algoritmo che mira a rafforzare trasparenza e prevedibilità della Giustizia Tributaria, puntando a rendere 4.0 la nuova giurisdizione in materia, alla luce della l. n.130/2022 e del d.lgs. 220/2023. Il progetto è stato finanziato per 8 milioni di euro da PON Governance e React UE ed è stato portato a conclusione nel dicembre 2023, anche se non sono esclusi sviluppi futuri. PRO.DI.GI.T.è un progetto elaborato dal Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria in collaborazione col Ministero dell’Economia e delle Finanze e prevede che le banche dati siano accessibili a tutti, non solo a giudici e professionisti, ma anche a cittadini. L’anonimizzazione dei provvedimenti è disposta dall’intelligenza artificiale, ma con caratteristiche pare diverse da quelle proprie dell’algoritmo in uso per le Banca Dati di merito. Lo strumento al momento non è ancora di accesso pubblico.
6. IA e i rischi della giustizia predittiva.
PRO.DI.GI.T. presentata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze alla fine del 2023 pare concepita per assicurare un’accessibilità ampia, e potenzialmente rivolta ad ogni cittadino. L’uso dell’intelligenza artificiale in questa prospettiva può porre un vero e proprio tema di giustizia predittiva (R. E. KOSTORIS). La banca dati, una volta accessibile, potenzialmente potrebbe essere consultata autonomamente da contribuenti che hanno ricevuto una cartella di pagamento per contestate evasioni fiscali al fine di cercare in autonomia di individuare una possibile traiettoria decisoria, evitando di rivolgersi ad un avvocato affinché studi la questione giuridica e proponga al cliente una possibile soluzione, giudiziale o stragiudiziale. La finalità di rafforzare la “trasparenza” nella giurisdizione e l’accesso alla giudice attraverso l’algoritmo (F. CONTINI) è condivisibile, ma la questione è complicata dal fatto che in materia fiscale la giurisprudenza di merito elaborata dalla giurisdizione tributaria è spesso non in linea con la giurisprudenza di legittimità, esercitata anche in questa materia dal giudice ordinario. Ad esempio, le statistiche della Sezione tributaria della Corte di Cassazione da anni riportano il maggior tasso percentuale di cassazioni con rinvio tra tutte le sezioni civili della Corte: molte sentenze di merito vengono riformate.
Una visione complessiva del contenzioso tributario, ai fini dell’utilizzo della banca dati come strumento maggiormente aderente alla realtà dell’intero processo e dunque del suo ragionevole esito, suggerisce di tener conto anche della giurisprudenza di legittimità, ma questo richiederebbe la lavorazione e la predisposizione di sommari anche su di un vasto numero di sentenze della Sezione V Civile della Cassazione, affinché possano essere sottoposte al trainingdell’algoritmo di intelligenza artificiale, il “bambino” che assorbe qualsiasi informazione, per usare l’espressione cara a Turing.
In assenza di questo passaggio, il rischio è di fornire un’informazione parziale ad un utente non esperto che interroghi il sistema, circa il possibile esito del giudizio. Si pensi al caso di un cittadino privo delle cognizioni tecniche proprie del professionista del diritto, tanto più necessarie in una materia ad elevato tecnicismo. Il rischio è paradossalmente di contribuire ad aumentare l’entropia e non a rendere più prevedibile l’esito del processo. Il coordinamento in materia è particolarmente complesso anche perché i primi due gradi di giudizio sono amministrati da una giurisdizione, quella tributaria, diversa da quella ordinaria che esercita l’ultimo grado giurisdizionale, segmenti che la recente riforma sul giudice specialistico tributario rischia di separare in modo ancora più netto.
È evidente l’importanza di un metodo, come quello dell’Osservatorio sulla Giustizia Civile che, nella sintesi tra membri dell’Accademia, foro e giudici può svolgere quel ruolo di cerniera culturale indispensabile perché l’artificiale generativa sia uno strumento efficace per il cittadino in una materia fortemente specialistica e peculiare anche quanto all’organizzazione giudiziaria. Non si tratta di tornare ad imprigionare il “genio nella lampada”, ma serve molta cautela sull’uso della giustizia predittiva ed è consigliabile il mantenimento della fondamentale mediazione culturale di un professionista del diritto, quale è l’avvocato, al fine di indirizzare correttamente le query che interrogano l’algoritmo e di valutarne gli esiti.
7. I diversi approcci sistemici nella regolazione dell’IA.
Il tema dell’intelligenza artificiale, di enorme rilevanza per il mondo della giustizia, presenta anche rischi considerevoli per i diritti della difesa e per molti diritti fondamentali come la Privacy, il giusto processo, la terzietà e indipendenza del giudice, il controllo pubblico della decisione attraverso la motivazione, il diritto all’oblio ecc...
Per governare questi rischi, nel mondo occidentale si confrontano attualmente diversi approcci, che, volendo semplificare per chiarezza espositiva, si possono individuare in un binomio: eurounitario e atlantico.
L’UE pare aver scelto un approccio normativo e di disciplina regolamentare al fenomeno. Un primo settore di intervento normativo da parte dell’UE riguarda l’AI Act. Il voto definitivo del Parlamento europeo è intervenuto il 13 marzo 2024, ma lo stesso relatore (B. BENIFEI) ha schematizzato i blocchi di disciplina precisando che la loro entrata in vigore non è imminente:
1) entro sei mesi dal voto definitivo è prevista la vigenza dei “divieti assoluti” quali il divieto - salvo eccezioni - all'uso di sistemi biometrici, il divieto di sistemi di social scoring e di sistemi di controllo delle emozioni, il divieto di sistemi di polizia predittiva;
2) entro un anno dal voto definitivo vi sarà la vigenza degli obblighi di sicurezza per i sistemi più potenti creatori a loro volta di sistemi, degli obblighi di trasparenza per i contenuti creati tramite AI, e la vigenza della disciplina relativa alla tutela dei contenuti protetti dal diritto d’autore;
3) entro due anni dal voto definitivo è poi prevista la vigenza dell'intero sistema relativo ai cd usi sensibili, la certificazione di conformità ecc...
La dilazione della vigenza delle previsioni normative è stata giustificata dallo stesso relatore con la necessità di elaborare nel frattempo degli standard omogenei, e soprattutto di predisporre adeguati sistemi di governance.
Una seconda area di intervento UE normativo sull’IA riguarda la proposta di direttiva in tema di lavoro su piattaforme tecnologiche. La proposta della Commissione prevede in sintesi una presunzione relativa di subordinazione in presenza di dati-indice e di principi generali in tema di monitoraggio umano dei risultati algoritmici. È stato osservato (M. BARBERA) che la proposta è attualmente avversata da lobby molto agguerrite ed ostacolata da interventi governativi, e quindi per il momento il percorso di approvazione è ancora lungo.
Un terzo settore di intervento normativo UE riguarda la nuova direttiva sulla responsabilità da prodotti difettosi aggiornata all’IA (B. CAPPIELLO).
L’approccio atlantico, in parte diverso da quello UE e che è stato definito più cauto (G. PELLICANO), è attualmente adottato da Regno Unito e, soprattutto, da Stati Uniti, i quali privilegiano l’autoregolamentazione dei giganti digitali, veri e propri campioni nazionali da non penalizzare nella competizione tecnologica globale, non presenti nel contesto europeo (G. CARULLO).
L’Executive Order on Safe, Secure, and Trustworthy Artificial Intelligence, emanato il 30 ottobre 2023 dal presidente degli Stati Uniti, perimetra l’ambito dell’intervento prioritario del governo, circoscrivendolo alla cybersecurity, alla prevenzione dei rischi relativi a cd infrastrutture critiche, e ai rischi derivanti da un uso improprio di elementi chimici, biologici, radiologici e nucleari. È previsto che il 94 percento delle attività di programmazione e definizione di standard affidate alle diverse Agenzie sia completato entro ottobre 2024. Se tali milestones verranno rispettate a ridosso dello snodo elettorale delle presidenziali 2024, il governo USA avrà predisposto, quindi, il suo sistema di promozione e gestione dei sistemi di intelligenza artificiale, in anticipo rispetto ai tempi di completa implementazione dell’apparato normativo dell’UE sull’intelligenza artificiale. Il piano americano mira ad attuare da subito interventi per attrarre esperti di intelligenza artificiale nella sfera pubblica, ma, anche in questo caso, la governance distingue in maniera pragmatica i campi di intervento immediato e quelli cui rivolgere uno sforzo continuativo entro un lasso di tempo più ampio.
Un simile tipo di governance ha punti di forza e di debolezza. Si tratta di un’impostazione che può essere definita privatistica, critica che è stata mossa anche all’AI Act unionale (G. DE MINICO), ossia è un approccio che affida a autodichiarazioni e autovalutazioni momenti fondamentali della regolazione dell’IA. Nondimeno, è stato notato (C. FICK) che i casi di regolamentazione volontaria presentano vantaggi per più profili: in primo luogo non inibiscono la capacità di innovare in un importante settore soggetto a costante evoluzione tecnologica e, in secondo luogo, un approccio volontario è rapido, anche se realisticamente è solo un primo passo verso la costruzione di una struttura di regolazione che possa dirsi davvero solida, oltre che dinamica e flessibile.
Non è l’unica diversità di approccio rispetto al metodo normativo UE. Al di là delle norme programmatiche, nei contenuti la governance dipende molto dall’ordine di priorità sull’IA e dal concreto bilanciamento dei diritti fondamentali in gioco che verrà trovato sui tavoli tecnici, soprattutto in materie sensibili come sicurezza e immigrazione.
La normativa può prevedere determinati standard di accuratezza dei dati utilizzati per fare il training dei sistemi di IA. Maggiormente selezionati e accurati sono i dati, minori sono i rischi di un risultato impreciso e affetto da bias (U. GALETTA), ossia da pregiudizi discriminatori, ad es. per gruppi di migranti e minoranze religiose. Ma, sull’altro versante, si osserva che i risultanti travolgenti raggiunti sino a ora dall’artificiale generativa (A. GARAPON) derivano in gran parte da un utilizzo indiscriminato di enormi quantità di dati reperiti sulla rete e in banche dati precompilate, senza particolari controlli sulle fonti e sulla attendibilità. Una selezione e un controllo effettivo sul rispetto del diritto d’autore, così come rendere ostensibili le fonti dei dati posti a base degli esiti dell’elaborazione incide sull’efficacia e la rapidità di sviluppo dell’IA, senza contare che l’output algoritmico, ad esempio in caso di reti neurali artificiali, non sempre è replicabile.
La recente iniziativa sull’intelligenza artificiale della presidenza italiana del G7 sembra essere un passo nell’adozione di un approccio più vicino a quello atlantico. I lavori del forum sono in corsoil 14 marzo 2024 a Verona e il 15 marzo a Trento, con un focus speciale sulla pubblica amministrazione. È un G7 dei ministri dell’industria-tecnologia-digitale di Italia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti d’America – esteso a rappresentanti dell’Unione Europea -, e l’Italia ha la presidenza del forum per il 2024. L’obiettivo del Summit, rende noto la Presidenza del Consiglio dei ministri, è promuovere lo sviluppo e l’uso sicuro e affidabile dei sistemi di intelligenza artificiale. Il risultato delle discussioni sarà un compendio incentrato sulla fornitura e sull’accesso a servizi pubblici digitali efficienti, inclusivi e sicuri e un compendio sui Sistemi Pubblici Digitali adottati dai membri del G7. La Presidenza italiana realizzerà anche una cassetta degli attrezzi (Toolkit) per lo sviluppo e l’uso etico di applicazione di IA nel settore pubblico e integrerà i progressi del Processo di Hiroshima sull’Intelligenza Artificiale HAIP, frutto della presidenza giapponese del G7 nel 2023. Si mira anche a sviluppare meccanismi per il monitoraggio volontario dell’adozione del Codice di Condotta Internazionale per le Organizzazioni che Sviluppano Sistemi di IA Avanzati.
8. Il “metodo” Osservatorio per migliorare la governance dell’innovazione giudiziaria.
L’approccio atlantico all’IA punta essenzialmente sul ruolo dei privati e sul concorso di responsabilità volontaria nella gestione dell’innovazione. Ma anche l’approccio regolamentare UE richiederà un sistema di governance adeguato sia a livello europeo che nazionale, destinato a coinvolgere soggetti esterni al perimetro delle istituzioni statali, perché si tratta sì di una "sfida istituzionale", ma coinvolgente competenze plurime (F. DONATI). È difficile pensare che queste risorse materiali ed intellettuali possano trovarsi tutte solo ed esclusivamente all’interno dell’Amministrazione in un settore tecnologico sviluppato da enormi investimenti privati. È possibile prevedere, dopo l’adozione dell’AI Act da parte dell’UE, un ruolo di rilievo delle corti nazionali ed europee nella fase applicativa del regolamento (C. SCHEPISI), anche in considerazione del lasso di tempo che occorrerà alla sua piena attuazione. Ma gli interpreti del diritto che da tempo si occupano di IA, ben prima delle Corti, anche in Italia sono gli avvocati e i centri di studi dei migliori atenei, spesso interconnessi con l’industria.
Ecco, dunque, l’importanza del “metodo Osservatorio” per l’implementazione dei progetti in corso sull’intelligenza artificiale. Contribuire ad una sinergia multidisciplinare magistrati-avvocati-Accademia significa investire su di un asset utilissimo per l’introduzione e il successo degli applicativi italiani sull’IA. Le esperienze raccolte in oltre un decennio di PCT suggeriscono che oltre al problema della concezione, disegno e ingegnerizzazione di un applicativo informatico, c’è tutto l’enorme impegno della messa a terra che richiede un lavoro culturale costante su migliaia di operatori del diritto: solo il numero degli avvocati in Italia è di circa 240.000 e quello dei magistrati ordinari è di poco inferiore a 10.000. Persone non sempre entusiasticamente ricettive dell’innovazione tecnologica, con necessità di un lasso di tempo significativo di formazione, parte di un costante e progressivo miglioramento dello strumento via via emendato dalle disfunzioni che solo nell’utilizzo quotidiano emergono compiutamente. Serve una formazione e un’assistenza all’uso capillare che il Ministero della Giustizia da solo non può assicurare in tempi brevi e che, da sola, anche la Scuola Superiore della Magistratura difficilmente può assolvere, perché fatta inevitabilmente di mille questioni concrete e quotidiane che richiedono una presenza e assistenza on-the-job. L’Avvocatura e l’Accademia hanno interesse a rendere l’infrastruttura efficace, user friendly e maggiormente rispettosa dei diritti fondamentali, e costituiscono nell’Osservatorio sulla Giustizia Civile un forum sperimentato da anni, dotato di risorse intellettuali e materiali utili a contribuire al successo dell’applicativo.
Non basta però la buona volontà, sono necessarie anche strutture chiare di governance. Vi è necessità di un tavolo tecnico permanete sui temi della digitalizzazione e sull’intelligenza artificiale applicata alla giurisdizione, in cui si possano confrontare non solo la DGSIA – attualmente spacchettata (C. CASTELLI) in una parte che gestisce la contrattualistica e un'altra che gestisce la tecnologia – e altre articolazioni del Ministero in paritetico con il CSM, ma anche le società appaltatrici dei servizi, il Consiglio Nazionale Forense, la Dirigenza amministrativa degli Uffici, l’Associazione Nazionale Magistrati. Come del resto è stato per il PCT dieci anni fa, seguendo una metodologia che permette anche un’adeguata pubblicità e condivisione dei passaggi e delle strategie necessarie. Vi è altrimenti il rischio di rallentare il processo di tecnologizzazione degli Uffici giudiziari da qui al 2026, mettendo in dubbio gli obiettivi del PNRR in materia di giustizia e rendendo il loro perseguimento molto più gravoso.
L'autore è consigliere della Corte di Cassazione. Le opinioni espresse sono strettamente personali e non impegnano in alcun modo la Corte. Il contributo riprende i contenuti della relazione svolta al convegno tenuto il 14 marzo 2024 presso il Palazzo di Giustizia di Milano, sul tema “Intelligenza Artificiale nella Giustizia Civile: Norme, Principi, Effetti e Strumenti”, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, dall’Università degli Studi di Milano e dall’Osservatorio sulla Giustizia Civile.
(Immagine: Ipparco di Nicea nell'Osservatorio di Alessandria, xilografia tratta da Hermann Göll, Die Weisen und Gelehrten des Alterthums, 2nd Ed. Leipzig, (Otto Spamer) 1876, p. 169, Berlin, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte e colorata successivamente)
Sommario: 1. Il delitto di peculato e le più recenti modifiche normative - 2. Il bene giuridico protetto dalla fattispecie di peculato - 3. Il c.d. “peculato per distrazione in danno” e le condotte di “distrazione a profitto” della Pubblica Amministrazione - 4. Una declinazione speciale del peculato con riferimento alla figura del notaio: il peculato mediante ritenzione di somme depositate dal privato - 5. Conclusioni.
1. Il delitto di peculato e le più recenti modifiche normative
L’attuale formulazione dell’art. 314 c.p., frutto di recenti modifiche, sanziona rispettivamente il c.d. peculato comune ed il peculato d’uso, prevedendo limiti edittali di pena assolutamente significativi (da tre anni di reclusione nel minimo a dieci anni e sei mesi nel massimo) al primo comma, e da sei mesi a tre anni per il peculato d’uso. Altra norma, l’art. 316 c.p., specificamente sanziona il c.d. peculato mediante profitto dell’errore altrui, punito anch’esso con la pena della reclusione, da sei mesi a tre anni, aggravata ove il fatto offenda gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto siano superiori a euro 100.000.
L’ordinamento, quindi, prevede e sanziona con pene edittali diversificate, univoco segno della diversa gravità dei fatti, tre ipotesi di peculato. Sistematicamente, le fattispecie sono tutte collocate nel TITOLO II “Dei delitti contro la pubblica amministrazione” e, in particolare, nel capo I “Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”, tanto che soggetto attivo può indifferentemente essere, tanto per il peculato comune che per quello d’uso, che, infine, per il peculato mediante profitto dell’errore altrui, sia il pubblico ufficiale che l’incaricato di pubblico servizio.
Le modifiche che hanno interessato l’art. 314 c.p. sono state sostanzialmente tre:
In sintesi, uno “strumentario” complesso che ha rafforzato tanto gli istituti sanzionatori (limiti edittali di pena, confisca) quanto i corrispondenti strumenti di indagine e tutela preventiva (in relazione all’esperibilità di indagini tecniche ed alla adozione di sequestri ingenti). La ratio di tale crescente tutela è indubbiamente costituita dalla insidiosità delle condotte dei reati contro la pubblica amministrazione e, quanto al peculato, dal particolare sfavore con cui l’ordinamento guarda alle condotte di soggetti che rivestano una posizione di rilevo pubblicistico e della stessa profittino per commettere fatti di appropriazione di beni mobili e di denaro dei quali abbiano la disponibilità per ragioni dell’ufficio o servizio.
Proprio per l’estrema gravità dei fatti sussumibili nell’alveo della fattispecie, occorre attentamente valutare quale sia oggi il perimetro del peculato comune ed il suo rapporto sia con l’art. 323 c.p. che con la fattispecie di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. (delitto oggi sempre punibile solo a querela di parte), anche, e soprattutto, considerando quale sia il bene giuridico protetto dalla norma di cui all’art. 314 c.p.
2. Il bene giuridico protetto dalla fattispecie di peculato
La collocazione sistematica della fattispecie di peculato depone certamente per la individuazione del bene giuridico da essa tutelato nei superiori interessi, di rango costituzionale, al buon andamento ed alla imparzialità dell’amministrazione: anzi, pare ragionevole ritenere che per la connotazione specifica del delitto in esame, il bene tutelato sia precipuamente quello del buon andamento, cui va ricondotto l’interesse della pubblica amministrazione alla migliore destinazione delle risorse delle quali la stessa disponga ovvero, con specifico riferimento a beni di proprietà di soggetti diversi dalla pubblica amministrazione, a che la disponibilità di un bene mobile venga impiegata ( e pertanto non distolta) al fine di soddisfare gli interessi di rilievo o interesse pubblicistico alla cui tutela quella disponibilità è funzionale. Si pensi ai patrimoni amministrati dai tutori, dai custodi, dai notai incaricati delle vendite.
Tuttavia, parimenti offesa da condotte di peculato è altresì l’imparzialità, che risulta pregiudicata da condotte che il pubblico ufficiale o l’esercente un pubblico servizio possono compiere solo in ragione della disponibilità materiale di una cosa che viene loro concessa in relazione alla posizione di rilievo pubblicistica rivestita. Si sanzionano, quindi, tutte le condotte attraverso le quali il soggetto attivo del reato assume una posizione per la quale “prevarica” le altrui ragioni, alla cui tutela è funzionale il potere sulla cosa.
Alla offesa di tali beni – interessi di rango costituzionale, si aggiunge la declinazione patrimoniale della fattispecie, del tutto affine a quella del delitto di cui all’art. 646 c.p..
Sicché, volendo individuare l’offensività del delitto di peculato, la giurisprudenza costante ne ritiene la natura plurima: in questa direzione, Cass. Sez. 6, Sentenza n. 8009 del 10/06/1993 Ud. (dep. 24/08/1993) Rv. 194920 – 01 così massimata “Il reato di peculato ha natura plurioffensiva. Esso, infatti, tutela non solo la legalità, efficienza, probità ed imparzialità dell'attività della pubblica amministrazione, ma altresì il patrimonio della stessa pubblica amministrazione o di terzi.”; eanalogamente, Cass. Sez. 6, Sentenza n. 29262 del 17/05/2018 Ud. (dep. 26/06/2018) Rv. 273445 – 01, che si sofferma sulle conseguenze dell’eventuale mancanza di un danno patrimoniale e per la quale “La natura plurioffensiva del reato di peculato implica che l'eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione non esclude la sussistenza del reato, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell'agente l'altro interesse protetto dalla norma, diverso da quello patrimoniale, cioè quello del buon andamento della pubblica amministrazione. (In applicazione di tale principio di diritto, la Corte ha ritenuto infondato il motivo con cui il ricorrente, condannato per il reato di cui all'art. 314 cod. pen. per essersi appropriato, quale amministratore di sostegno, del denaro destinato all'acquisto di una cappella cimiteriale per conto dell'amministrato, aveva dedotto l'assenza di qualunque danno conseguente alla propria condotta avendo lo stesso successivamente provveduto ad effettuare il pagamento dell'importo dovuto).
Premessa la natura plurioffensiva del reato, la conseguenza che se ne fa discendere è che il delitto di peculato risulta configurabile anche quando in concreto via sia stata lesione di uno solo dei ben interessi tutelati: l’affermazione, come visto, viene ribadita dalla giurisprudenza soprattutto allorquando nel fatto manchi una effettiva lesione dell’interesse patrimoniale, probabilmente in ragione della circostanza che, come si accennava sopra, proprio tale dimensione risulta essere quella che più caratterizza la fattispecie rispetto ad altre ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione (si veda, tra le molte, Cass. SS.UU., sent. n. 19054 del 20/12/2012 - dep. 2/05/2013- Rv. 255296). Nonostante questa conclusione (solo) apparentemente svilisca la prevalente dimensione patrimoniale del peculato, pare lecito osservare che se anche non sia di immediata percezione il danno patrimoniale conseguente a fatti di peculato, ovvero lo stesso venga poi eliso da condotte riparatorie, ciononostante il reato sussiste per la valenza e rilevanza anche di un danno potenziale o indiretto per l’amministrazione (anche legato alla circostanza che il bene venga distolto dalla destinazione prevista per esso), sicché deve comunque ribadirsi la connotazione patrimoniale del reato, intrinsecamente legata alla costruzione della fattispecie.
Proprio la valorizzazione della dimensione prevalentemente patrimoniale del peculato, quale emerge dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, impone all’interprete una seria verifica della attuale punibilità delle condotte di peculato c.d. “per distrazione”.
3. Il c.d. “peculato per distrazione in danno” e le condotte di “distrazione a profitto” della Pubblica Amministrazione
Come detto, la legge n. 86 del 1990 ha eccettuato dalla descrizione delle condotte di peculato la distrazione “a profitto proprio o di altri”. Espungendo la relativa previsione dal corpo dell’art. 314 c.p., il legislatore avrebbe quindi espunto dall’ambito applicativo della fattispecie di peculato quelle ipotesi di appropriazione per distrazione già incluse nella originaria formulazione, senza peraltro necessariamente prevederne una conseguente irrilevanza penale. Può trarsi una conferma di tale assunto nella pronuncia della Corte Costituzionale in tema di peculato militare (sentenza C. Cost. 4-13/12/1991 n. 448), che già all’epoca aveva tratteggiato i percorsi interpretativi che debbono anche oggi guidare l’operatore nell’applicazione delle fattispecie penali di peculato con particolare riferimento ai fatti di peculato per distrazione.
In quella pronuncia, la Corte precisava che “…l'abolizione della figura del peculato per distrazione non ha affatto significato decriminalizzazione di tutte le condotte che nella stessa venivano ricomprese, dato che molte di esse - come emerge dai lavori preparatori della legge n. 86 del 1990 ed è stato rilevato dalla dottrina - rientrano oggi nella nuova e più ampia figura del delitto di abuso d'ufficio introdotta con l'art. 13 di detta legge, che ha sostituito l'art. 323 del codice penale. È noto, infatti, - a prescindere da più sottili precisazioni, che non interessano in questa sede - che sull'individuazione della "distrazione" penalmente rilevante coesistevano due opzioni interpretative: ritenendosi, talora, che vi rientrasse anche la illegittima destinazione della cosa per finalità bensì proprie della pubblica amministrazione ma non corrispondenti a quelle imposte dalla disciplina amministrativa; talaltra, che vi fossero ricompresi solo i casi di destinazione indebita di risorse pubbliche al di fuori dei fini istituzionali dell'ente. In questa seconda ipotesi la "distrazione", in quanto comporta un'illecita utilizzazione dei poteri di ufficio (e quindi un "abuso") e mira a procurare all'agente o a terzi un vantaggio (o un danno) qualificabile come "ingiusto", integra - secondo la più accreditata dottrina - il delitto configurato nel nuovo testo dell'art. 323 cod. pen.: sicché è solo con riguardo alla prima ipotesi, di destinazione interna alle finalità istituzionali dell'ente, che l'abolitio criminis può dirsi verificata. Sotto altro profilo, poi, i fatti di uso momentaneo della cosa appartenente alla pubblica amministrazione, seguìto dalla sua immediata restituzione, che talora venivano qualificati come "distrazione" pur se implicanti una temporanea appropriazione, non hanno perduto rilevanza penale, dato che rientrano nell'ipotesi attenuata di peculato prevista nel secondo comma del novellato art. 314 cod. pen.”
Ne deriva che il peculato per distrazione resterebbe fuori, senza limiti secondo un primo approccio, dall’ambito dell’art. 314 c.p., ma conserverebbe rilievo penale, ove ne ricorrano gli attuali stringenti presupposti previsti dalla legge, quale fatto di abuso di ufficio, sempreché, quindi, la norma violata abbia rango primario e l’atto compiuto non costituisca espressione di discrezionalità. Quanto al peculato d’uso, dice la Corte, lo stesso ammetterebbe anche la condotta distrattiva.
Tuttavia, due osservazioni sembrano ragionevolmente fondate. La prima è che la condotta del peculato d’uso non può che essere mutuata dalle condotte del peculato comune, attesa la reciprocità della definizione concettuale dei fatti di cui al comma secondo dell’art. 314 c.p. rispetto a quelli del comma primo, laddove il peculato d’uso in effetti integra sempre una momentanea distrazione della cosa dall’uso cui è destinata.
La seconda osservazione è che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha valutato come fatti di peculato anche le condotte di “distrazione” (intesa come “deviazione”) del bene mobile dalla finalità pubblicistica o di rilievo pubblicistico se connotate da particolare gravità, in ragione della destinazione di quei beni ad interessi del tutto privati dell’agente qualificato, ovvero - e qui il tema offre spunti di interesse interpretativo - allorquando la destinazione impressa al bene sia diversa da quella stabilita ex ante e trovi fondamento in una causa illecita o illegittima, o, infine, nelle ipotesi in cui si assegni al bene una destinazione non consentita da norme di legge e/o di statuto e connotata da alea (cfr. quanto all’ipotesi di investimento in fondi Cass. Sez. 6 4-13 giugno 2014, sent. n. 25258 Rv. 260070-01 la cui motivazione espressamente recita : “Va, dunque, riaffermato il principio secondo il quale nel delitto di peculato il concetto di "appropriazione" comprende anche la condotta di "distrazione", in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene: principio già enunciato con riferimento ad una fattispecie in cui questa Corte ha riqualificato come peculato la condotta di pubblici amministratori che, invece di investire le risorse di cui avevano la disponibilità per le finalità pubbliche istituzionalmente previste, le avevano impiegate per acquistare, in violazione di norme di legge e di statuto, quote di fondi speculativi (così Sez. 6, n. 1247/14 del 17/07/2013, P.G., P.C., Boi e altri, Rv. 258411).”.
Nella sua composizione a Sezioni Unite, la Corte di Cassazione con la sentenza Vattani (sentenza n. 19054 del 20/12/2012, dep. 2013, Rv. 255296) ha chiaramente affermato che l'eliminazione della parola "distrazione" dal testo dell'art. 314 cod. pen., operata dalla legge n. 86 del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall'agente pubblico nell'area di rilevanza penale dell'abuso d'ufficio. Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato il delitto di peculato.
La condotta distrattiva, invece, può rilevare come abuso d'ufficio nei casi in cui la destinazione del bene, pur viziata per opera dell'agente, mantenga la propria natura pubblica e non vada a favorire interessi estranei alla p.a.: in particolare, la Corte chiarisce che il discrimine tra peculato per distrazione e abuso di ufficio risiede nella circostanza che si riscontri o meno, nel fatto concreto, una totale cesura del legame funzionale tra il bene e la pubblica amministrazione conseguente alla distrazione del bene dalla sua originaria destinazione.
Sempre la citata sentenza Vattani ha, altresì, chiarito che l’eliminazione della condotta di distrazione ad opera della novella del 1990 dalla norma penale incriminatrice non solo non ha prodotto un effetto generalmente abrogativo del disvalore penale di tali condotte, ma neppure ha espunto dall’alveo del peculato tutte le condotte di distrazione, deponendo a favore di tale conclusione anche un argomento testuale: basi pensare che benché la corrispondente fattispecie comune (ovvero quella di appropriazione indebita), non abbia mai incluso nominativamente le condotte di distrazione, le stesse sono pacificamente ricondotte all’alveo della norma penale incriminatrice ex art. 646 c.p. In particolare, la costante giurisprudenza in tema di appropriazione indebita descrive tale species della condotta di appropriazione quale deviazione della cosa dalla sua destinazione o nel divergere dall’uso legittimo (cfr. sul punto, a partire dalla sentenza Cass, SS.UU n. 9863 del 1989, plurime pronunce a sezioni semplici, fra le quali, tutte della Seconda Sezione della Corte, la Sentenza n. 50672 del 24/10/2017 Rv. 271385, la Sentenza n. 56935 del 31/10/2018 Ud. Rv. 274257 e la Sentenza n. 43634 del 23/09/2021 Rv. 282351).
Tanto premesso, al fine di consentire una adeguata valutazione del fatto ed una efficiente riconduzione dello stesso alla fattispecie incriminatrice astratta, l’interprete può avvalersi della distinzione elaborata dalla Corte di legittimità tra due momenti o passaggi successivi propri del peculato: il primo, negativo (c.d. "espropriazione"), di indebita alterazione dell'originaria destinazione del bene; il secondo, positivo (c.d. "impropriazione"), di strumentalizzazione della res a vantaggio di soggetto diverso dal titolare del diritto preminente.
Ed allora, le condotte di “distrazione” (generalmente significative solo della “diversa direzione” o “destinazione” impressa alla res) potrebbero non limitarsi ad integrare il momento di “espropriazione” se riguardate con riferimento all’originaria destinazione del bene, ma, a determinate condizioni, realizzare in concreto una disposizione della cosa uti dominus per interessi del tutto riconducibili ad una sfera meramente privata dell’agente (o di terzi a lui assimilabili o particolarmente vicini), o addirittura illeciti o aleatori, così verificandosi quella distrazione-impropriazione certamente riconducibile all’ambito sanzionatorio della fattispecie di cui all’art. 314 c.p. In sostanza, integra peculato la condotta appropriativa non solo se rivolta ad esclusivo vantaggio dell’agente ma anche se per la natura e per la causa (eventualmente illecita) della stessa, la distanza tra la destinazione consentita e quella realmente perseguita sia percepibile come estrinsecazione di un potere assoluto sulla cosa che l’agente, che ne dispone per ragioni dell’ufficio e del servizio, mai può avere e che darebbe luogo a quella impropriazione tipica del peculato.
L’esempio concreto potrebbe essere quello dell’utilizzo, da parte del funzionario preposto, di fondi pubblici destinati ad una determinata opera per opera diversa: si pensi al caso in cui la deviazione avvenga per scopi e fini del tutto privati (bonifica di un’area pubblica attigua ad altra di proprietà del funzionario) o addirittura illeciti (quale, ad esempio, quello di favorire un’impresa compiacente). In tali casi la distrazione dei relativi fondi, secondo l’orientamento inaugurato dalla sentenza Vattani, resterebbe quindi riconducibile alla fattispecie di peculato.
A ben riflettere, peraltro, in queste ipotesi, la dimensione patrimoniale tipica del peculato è apprezzabile in due direzioni: la direzione pubblica (in ipotesi non accrescitiva), e quella privata (generalmente accrescitiva, sempre estrinsecazione di un potere sulla cosa non compatibile con la sua destinazione), posto che l’impropriazione produce un effetto patrimoniale (o suscettibile di valutazione economica) anche per il soggetto attivo del reato.
Si comprende, poi, correttamente valutando la dimensione patrimoniale del peculato, come sia astrattamente possibile formulare un addebito di responsabilità nei confronti del pubblico ufficiale o dell’esercente un pubblico servizio che, ad esempio, investa in fondi speculativi provviste economiche dell’ente pubblico (posto l’elevato rischio correlato all’alea tipica di tali forme di investimento) anche nel caso in cui questi prevedesse, ad esempio, di riversare eventuali guadagni all’ente medesimo (laddove il potenziale danno patrimoniale è legato al rischio di perdite ingenti), come anche del pubblico ufficiale che dichiari un prezzo di acquisto di un immobile inferiore al reale al solo fine di diminuire il carico delle conseguenti imposte (dichiarazione intrinsecamente contraria ad una norma imperativa che impone di dichiarare l’effettivo costo sostenuto ed espone l’ente alle conseguenti sanzioni).
In altra e più recente pronuncia (Cass., Sez. 6, sentenza n. 43133 del 13/07/2017, Rv. 271379) si afferma testualmente che “…, è vero che è ravvisabile un limite alla configurabilità del delitto di peculato nelle ipotesi di distrazione, con conseguente possibile applicazione della disposizione incriminatrice dell'abuso di ufficio, quando il pubblico agente destini il denaro o la cosa mobile nella sua disponibilità a finalità diverse da quelle istituzionali, ma senza che l'uno o l’altra abbandonino radicalmente il loro rapporto con gli interessi della Pubblica Amministrazione”. Ed allora, dobbiamo concludere che il danno patrimoniale che il peculato intende sanzionare è quello legato alla circostanza che il bene venga radicalmente distolto dalla originaria destinazione al perseguimento della finalità pubblicistica predeterminata o ad essa equivalente, laddove in ipotesi di causa illecita la radicalità sarebbe apprezzabile in re ipsa, posto che il soggetto attivo del delitto (pubblico ufficiale o esercente pubblico servizio), mai potrebbe invocare, per evitare di incorrere in responsabilità penale, un interesse equivalente che avesse un fondamento illecito o comunque antigiuridico.
Viceversa, la scelta di una finalità diversa da quella predeterminata ma pur sempre di interesse pubblico che sia al contempo una scelta disinteressata (rectius non privatistica o comunque conforme o non del tutto eccentrica rispetto all’interesse dell’ente) e non connotata da profili di illiceità o di alea resterebbe o riconducibile all’ipotesi di abuso di ufficio (nei soli casi di “distrazione” a favore della Pubblica Amministrazione commesse dal soggetto attivo qualificato in violazione di norme primarie e nell’esercizio di poteri non discrezionali), oppure, in via di ulteriore approssimazione, a quella di appropriazione indebita e, infine, in altri casi, penalmente irrilevante (residuando solo profili di responsabilità contabile o disciplinare).
Riepilogando i risultati di questa riflessione, si osserva che residuerebbe quindi come ambito estraneo a quello del peculato non l’intera casistica delle ipotesi di peculato per distrazione bensì solo la categoria di appropriazione del bene per “distrazione mera” (una sorta di “sviamento mero”), ipotesi nelle quali la destinazione impressa al bene sia diversa da quella imposta ex ante dall’amministrazione attraverso atti legislativi e/o amministrativi, ma risulti comunque in concreto perseguita una finalità pubblicistica d’interesse (equivalente) per l’ente medesimo (cfr. in questo senso Cass. Sez. 6, 13.04.2023 dep. 9 giugno 2023 n. 25173 Rv. 284790 – 01 così massimata “Non integra il delitto di peculato l'utilizzo di fondi di una società "in house", interamente partecipata da un comune, che provveda al perseguimento di finalità intrinsecamente pubbliche e di competenza dell'ente medesimo, in quanto difetta in tal caso alcuna forma di appropriazione, ovvero di distrazione del denaro pubblico per fini privatistici, ancorché possano ipotizzarsi irregolarità rilevanti sotto il profilo della responsabilità contabile. (Fattispecie in cui la società si faceva carico dell'indennizzo dovuto dal comune per la revoca di una concessione, al fine di recuperare un'area da destinare a riqualificazione urbana).
Ancora più esplicita la motivazione della citata sentenza: “…La tesi non è condivisibile in punto di diritto. Invero, la giurisprudenza più recente ha avuto modo di precisare che il peculato per "distrazione" presuppone in ogni caso che il denaro sia destinato a scopi incompatibili con il perseguimento di finalità di interesse pubblico. Si è affermato, infatti, che solo l'utilizzo per finalità esclusivamente personali ed estranee a quelle istituzionali di denaro pubblico determina la "distrazione" dello stesso, mentre il peculato non è ravvisabile nei casi in cui l'interesse privato dell'agente e quello istituzionale dell'ente siano sincroni e sovrapponibili, non risultando in alcun modo contrastanti (Sez.6, n. 36496 del 30/9/2020, Vasta, Rv. 280295).”.
Conclusivamente, si osserva che il dato giurisprudenziale sopra riportato e l’interpretazione prevalente offrono spunti di certa conferma quanto alla natura plurioffensiva del delitto di peculato: indubbiamente la fattispecie incriminatrice presidia l’interesse al buon andamento ed alla imparzialità della PA, risultando comunque prevalente la dimensione patrimoniale dell’offesa. Proprio con riferimento alle condotte distrattive, si ritiene che solo la distrazione in danno della pubblica amministrazione integri un fatto di peculato, confermando che la lesione del patrimonio (dell’ente pubblico o del privato secondo la attuale previsione testuale) sia in realtà un presupposto indefettibile del rilievo delle condotte di peculato per distrazione non mera e che tale danno sia inevitabile in tutti i casi in cui la causa della distrazione fondi su ragioni illecite.
4. Una declinazione speciale del peculato con riferimento alla figura del notaio: il peculato mediante ritenzione di somme depositate dal privato
La circostanza che, in uno alla riformulazione della fattispecie di peculato come fattispecie configurabile anche nel caso in cui l’oggetto della condotta appropriativa sia di appartenenza di privati, sia stata abrogata la fattispecie di malversazione in danno di privato (art. 315 c.p.), non osta alla configurabilità del peculato per tutti i casi in cui il notaio, prescelto quale depositario fiduciario di somme di proprietà di privati ma vincolate al pagamento di imposte, se ne appropri con ciò distraendole dallo scopo per le quali sono state presso di lui depositate.
Come sopra evidenziato, la nuova formulazione della norma di cui all’art. 314 c.p. compie ampio riferimento all’altruità della cosa, senza specificare se la stessa debba essere pubblica o privata, sicché pacificamente si ritiene che l’attuale formulazione del peculato includa le condotte precedentemente sussumibili nella malversazione a danno di privati[1].
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, risulta configurabile il peculato mediante ritenzione allorché il notaio, delegato dal giudice a curare le operazioni di vendita nell'ambito di procedure di esecuzione immobiliare, non adempia alle prescrizioni di cui all'art. 591 bis, 7° co., c.p.c. e si appropri delle somme corrisposte dagli aggiudicatari delle vendite, versando i relativi importi su conti correnti personali ed investendoli in operazioni speculative di borsa (Cass., Sez. VI, 10.7-30.7.2007, sent. n. 30976, Rv. 237419-01). Parimenti è stato affermato che incorre in responsabilità per violazione dell’art. 314 c.p. il notaio che ometta il versamento di somme, affidategli da clienti, destinate al pagamento dell'imposta di registro in relazione ad atti rogati (Cass. Sez. VI, 11.3-14.5.2015, sent. n. 20132 Rv. 263547; Cass. Sez. V, 16.10-11.12.2009, sent. n. 47178, Rv. 245383).
Così descritto, il peculato per ritenzione costituisce, senza dubbio, una forma di peculato per distrazione non mera secondo l’indirizzo interpretativo sopra richiamato.
A fronte di tale orientamento consolidato in tema di deposito finalizzato al soddisfacimento di pretese erariali (ovvero in tema di deposito disposto dal giudice), ci si interroga se sia lecito imputare di peculato il notaio che si appropri di somme depositate presso di lui ma non destinate al pagamento di tributi o altri crediti dello Stato, piuttosto a lui “affidate” affinché garantisca che non vengano destinati a scopi diversi da quelli concordati tra parti contrattuali, e delle quali invece, contrariamente al dovuto, disponga anche in proprio favore o in favore di terzi, in ipotesi anche per causa illecita. Si pensi al caso del deposito presso il notaio, con le forme contrattuali più opportune, di somme vincolate al compimento di determinati affari, o di complesse transazioni commerciali, seguite poi da atti dispositivi del notaio completamente eccentrici rispetto alla volontà del depositante, ovvero avvenuti in frode al medesimo.
Vero è che ogni fatto di peculato deve comunque trovare fondamento nella rilevanza pubblicistica della destinazione della cosa, anche quando essa non sia pubblica quanto alla spettanza del diritto di proprietà (come ad esempio nel caso del tutore che si appropri di beni dell’amministrato dei quali ha la disponibilità in ragione dell’incarico svolto a tutela dell’interesse pubblico alla corretta gestione del patrimonio di persona incapace o non del tutto capace di determinarsi nella propria sfera privata).
Pertanto, non ogni deposito notarile potrebbe generare responsabilità per peculato del notaio: piuttosto tale più grave reato, procedibile ex officio a differenza della diversa ipotesi di reato comune comunque astrattamente configurabile (ovvero quello della appropriazione indebita aggravata ex art. 61 n. 11 c.p.), potrebbe avere una propria area di applicazione ove il trasferimento della disponibilità della somma in capo al notaio non risulti meramente accidentale, bensì trovi la propria prevalente causa nell’affidamento da parte del privato proprio nella qualifica notarile.
Spunto in tale senso può trarsi dalla giurisprudenza della corte di legittimità in materia di malversazione in danno di privati e, in particolare, dalla sentenza Sez. 6, Sentenza n. 6087 del 06/12/1994 Ud. (dep. 25/05/1994) Rv. 199183 così massimata: “non può essere sufficiente a configurare il reato di malversazione (o di peculato) l'appropriazione di denaro privato detenuto da notaio, per mera occasionalità, ma occorre ricercare un collegamento fra funzione pubblica e possesso del denaro o della cosa, talché possa dirsi non solo che l'esercizio della funzione ha rappresentato la contingenza che favorisce l'insorgere del possesso, ma che il possesso stesso non sarebbe mai stato trasferito al notaio senza il contemporaneo affidamento fiduciario riposto dal privato nella qualifica notarile, cui contestualmente andava ad affidare la cura dei suoi interessi. (La S.C. ha rigettato il ricorso di un notaio, condannato per malversazione per essersi appropriato di parte di somma richiesta per il pagamento di imposte dovute in relazione ad atti di donazione, il quale aveva dedotto che l'appropriazione qualificata del pubblico ufficiale doveva essere punita solo ed esclusivamente negli atti tipici della sua funzione).”
Seguendo il percorso indicato dalla Corte, pare possa quindi ragionevolmente affermarsi che ove il notaio che abbia disponibilità di somme presso di lui depositate dal privato in ragione di un rapporto fiduciario fondato proprio sulla funzione pubblicistica che il medesimo riveste, le distragga dallo scopo impresso dal privato medesimo nell’esercizio della propria libertà negoziale, utilizzandole a fini eventualmente illeciti e di profitto assolutamente personale (movimentazione per favorire illegittimamente una controparte contrattuale, utilizzo della provvista per investimenti azionari o in fondi per ottenere rendimenti) possa incorrere nella sanzione prevista dalla legge penale in tema di peculato per distrazione non mera, applicandosi nel caso di specie tutti i canoni ermeneutici sopra richiamati.
5. Conclusioni
Il delitto di peculato costituisce, oggi, con l’innalzamento dei limiti edittali di pena previsti da quattro anni di reclusione, nel minimo, fino a dieci anni e sei mesi nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., un reato decisamente grave, procedibile ex officio, che ammette il sequestro e la confisca per equivalente e consente, in fase di indagini, l’utilizzo di ogni più ampio strumento di ricerca della prova.
La ratio del particolare disvalore della condotta di peculato risiede nella necessità di tutelare imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione soprattutto nella loro dimensione prettamente patrimoniale: lesive della imparzialità e del buon andamento sono, infatti, tutte quelle condotte che privano la pubblica amministrazione di una risorsa, sia essa di appartenenza pubblica o, se anche privata, comunque gestita da soggetto qualificato per consentire la tutela di interessi pubblicistici (amministrazione di patrimoni per altri). Espungere dall’ambito operativo dell’art. 314 c.p. le condotte di distrazione, attraverso le quali tipicamente la destinazione del bene sia mutata a piacimento dell’agente con danno anche solo potenziale per la Pubblica Amministrazione, significherebbe privare di effettiva tutela penale un ampio numero di comportamenti certamente meritevoli di sanzione in quella sede, anche se realizzati con condotte apparentemente meno plateali rispetto alle condotte appropriative in senso stretto, senz’altro più “subdole”, la cui tutela non può essere rimessa all’applicazione di una fattispecie certamente meno “significativa” quale quella dell’abuso di ufficio.
Confinare, poi, la responsabilità per fatti di distrazione commessi da soggetti preposti, ex lege o sulla base di una relazione negoziale correlata ad un affidamento fiduciario (riconosciuto dai privati in virtù di obblighi imposti a determinati soggetti dalla legge, come nel caso del notaio), all’ambito della residuale fattispecie di appropriazione indebita, creerebbe una disparità di trattamento non ragionevole sia rispetto alla posizione di altri soggetti qualificati (curatore fallimentare, amministratore di sostegno) sia rispetto alle condotte tenute dai notai in ipotesi di trattenimento di somme destinate al pagamento delle imposte e pacificamente ritenute come rilevanti in termini di peculato.
[1] In linea generale, circa l'assorbimento sotto l'art. 314 delle condotte fino al 1990 integranti il delitto punito dall'art. 315 c.p. cfr. C., Sez. VI, 7.3-5.10.2012, n. 39359 Rv. 254337, la cui motivazione espressamente afferma “… con la riforma del 1990, il delitto di malversazione a danno di privati è stato assorbito nel delitto di peculato. Secondo il nuovo testo di quest'ultima fattispecie, infatti, il requisito dell'altruità del denaro o della cosa mobile, oggetto di appropriazione, rende irrilevante la distinzione dell'appartenenza pubblica o privata del bene.”
Gli incerti confini della discrezionalità del legislatore nazionale in materia di incentivi alle rinnovabili: dubbio di compatibilità tra il meccanismo “a due vie” e il diritto europeo (nota a Consiglio di Stato, Sez. II, ordinanza 30 gennaio 2024, n. 926).
di Maria Francesca Tropea
Sommario: 1. Il caso di specie – 2. Le modalità di accesso agli incentivi nel settore dell’energia rinnovabile ai sensi del D.M. 4 luglio 2019. – 3. Il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. – 4. Le motivazioni del dubbio di compatibilità tra diritto interno ed europeo – 5. Osservazioni conclusive anche alla luce del principio di neutralità tecnologica e della giurisprudenza della CGUE (sentenza n. 306/2022).
1. Il caso di specie.
L’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. II, 30 gennaio 2024, n. 926[1] risulta di particolare interesse in quanto ha determinato il rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, alla Corte di Giustizia dell’Unione europea per un dubbio di compatibilità tra la normativa interna in materia di incentivi delle rinnovabili[2] e la normativa eurounitaria di promozione dello sviluppo delle medesime fonti energetiche.
La pronuncia in commento trae origine dall’impugnazione – ad opera di una società titolare di un impianto fotovoltaico – del provvedimento amministrativo di ammissione alle tariffe incentivanti di cui al decreto del Ministro dello Sviluppo Economico del 4 luglio 2019[3] e del contratto stipulato con il Gestore dei Servizi Energetici (G.S.E.)[4] per il riconoscimento degli incentivi nella parte in cui si prevede che «nel caso in cui il valore dell’incentivo, ottenuto come differenza tra la tariffa spettante e il prezzo zonale orario, risulti negativo, il G. provvederà a chiedere al soggetto responsabile la restituzione di tale differenza»[5].
La società appellante sostiene che tale meccanismo non garantisca l’equa remunerazione dei costi; violi i principi europei di concorrenza sostanziandosi nell’imposizione di un ricavo; contrasti con l’obiettivo di garantire condizioni stabili, eque, favorevoli e trasparenti per le imprese che investono in energia rinnovabile; leda il diritto di proprietà e il legittimo affidamento essendo la corresponsione dell’incentivo per la durata di 20 anni un credito idoneo ad essere considerato un “bene” tutelabile ai sensi dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU[6].
Il T.A.R. del Lazio, con sentenza n. 3010/2023[7], ha respinto il ricorso in primo grado, ritenendo la previsione de qua non irragionevole, poiché metterebbe comunque al riparo dall’aleatorietà del prezzo di mercato l’imprenditore garantendogli un importo fisso tramite cui recuperare quanto investito nell’impianto e riconoscendogli, a fronte di tale vantaggio, un “ristorno” al Gestore dei Servizi Energetici quando il prezzo dell’energia aumenta.
La società ha appellato la pronuncia di primo grado sostenendo che il T.A.R. non avesse considerato che, in ipotesi di aumento del prezzo dell’energia, il meccanismo comporta invero l’azzeramento dell’incentivo, precludendo così la remunerazione dei costi di investimento e di esercizio e contrastando così con la ratio sottesa ai regimi di sostegno nazionali e con gli obiettivi europei in tema di energia rinnovabile, volti a garantire condizioni stabili, eque, favorevoli e trasparenti per gli investitori, che non vadano a minare la sostenibilità economica dell’investimento, nel rispetto dei principi di legittimo affidamento e di certezza del diritto.
Il Consiglio di Stato, dubitando dell’esistenza di un conflitto tra la normativa interna e quella eurounitaria, ha effettuato un rinvio pregiudiziale di interpretazione ai sensi dell’art. 267 TFUE.
In particolare, la disposizione del diritto nazionale rilevante nel caso di specie, della cui contrarietà al diritto dell’Unione si dubita, è l’art. 7, comma 7, del decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 4 luglio 2019, il quale stabilisce che per gli impianti di potenza pari o superiore a 250 kW «il G.S.E. calcola la componente incentivo come differenza tra la tariffa spettante e il prezzo zonale orario di mercato dell’energia elettrica e, ove tale differenza sia positiva, eroga gli importi dovuti in riferimento alla produzione netta immessa in rete, secondo le modalità individuate all’art. 25 del decreto ministeriale del 23 giugno 2016[8]. Nel caso in cui la predetta differenza risulti negativa, il G.S.E. conguaglia o provvede a richiedere al soggetto responsabile la restituzione o corresponsione dei relativi importi. In tutti i casi, l’energia prodotta da questi impianti resta nella disponibilità del produttore»[9].
È su tale disposizione che si fonda il provvedimento di ammissione impugnato e l’art. 4 del contratto stipulato dall’appellante con il Gestore dei Servizi Energetici, il quale prevede che «la tariffa incentivante, costante in moneta corrente, da utilizzare ai fini dell’incentivazione dell’impianto», è pari a 0,090000 Euro/kWh e che il Gestore, da un lato, «riconosce la differenza, qualora positiva, tra la suddetta tariffa incentivante e il prezzo zonale orario», dall’altro «conguaglia o provvede a richiedere all’Operatore la differenza, qualora negativa, tra la suddetta tariffa incentivante e il prezzo zonale orario».
2. Le modalità di accesso agli incentivi nel settore dell’energia rinnovabile ai sensi del D.M. 4 luglio 2019.
Per meglio comprendere il contesto entro il quale si inserisce la disposizione oggetto del rinvio pregiudiziale che ci occupa, occorre ricordare le modalità di accesso agli incentivi[10], di cui al citato Decreto ministeriale del 2019.
Il Decreto ministeriale del 4 luglio 2019 prevede due differenti meccanismi incentivanti, in funzione della potenza dell’impianto.
Nella specie, il primo meccanismo è rappresentato dal ritiro dell’energia elettrica prodotta da parte del Gestore, il quale eroga all’operatore la tariffa a questi spettante.
Il secondo meccanismo è invece costituito dall’attribuzione all’impresa di un incentivo, calcolato come differenza tra la tariffa spettante e il prezzo zonale orario che, se positiva, integra il ricavo connesso alla vendita sul mercato dell’energia prodotta, mentre, quando è negativa, ossia quando la tariffa è inferiore al prezzo di mercato, comporta che l’impresa non solo non percepisca alcuna sovvenzione, ma debba versare la differenza al Gestore dei Servizi Energetici.
Tale secondo meccanismo, di cui all’art. 7, comma 7 del decreto ministeriale in questione, è definito come sistema “a due vie”.
Orbene, se da un lato, gli impianti di potenza non superiore a 250 kW possono optare indifferentemente tra uno dei due meccanismi, dall’altro lato, quelli di potenza pari o superiore, come quello dell’appellante, possono accedere al solo incentivo.
Vista la potenza dell’impianto oggetto di causa, il meccanismo incentivante applicato nel caso di specie non poteva che essere quello “a due vie”.
L’impresa appellante lamenta dunque non solo di non aver ottenuto alcun incentivo, ma anzi, di aver ricevuto richieste di pagamento della differenza da parte del Gestore dei Servizi Energetici, avendo stipulato il contratto durante la crisi energetica del 2022, quando il prezzo orario dell’energia era superiore alla tariffa spettante.
3. Il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.
Il Collegio ha così effettuato un rinvio pregiudiziale d’interpretazione ai sensi dell’art. 267 TFUE[11] alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, dubitando della compatibilità tra il meccanismo incentivante c.d. “a due vie”, come delineato dall’art. 7, comma 7, del D.M. 4 luglio 2019, da un lato, e l’art. 3 della Direttiva n. 2009/28/CE[12] e l’art. 4 della Direttiva n. 2018/2001/UE[13], dall’altro.
In particolare, l’art. 3 della direttiva n. 2009/28/CE, abrogata a partire dal 1° luglio 2021, ma in vigore all’epoca di adozione del D.M. del 4 luglio 2019, prevedeva che ogni Stato membro «promuove e incoraggia l’efficienza ed il risparmio energetico» e adotta «misure efficacemente predisposte» in modo da raggiungere entro il 2020 la quota di energia da fonti rinnovabili sul consumo finale fissata quale obiettivo nazionale, e che, a tal fine, può adottare «regimi di sostegno» (definiti dall’art. 2, co. 2, lett. k) dalla medesima direttiva come «ogni strumento, regime o meccanismo […] inteso a promuovere l’uso delle energie da fonti rinnovabili riducendone i costi, aumentando i prezzi a cui possono essere vendute o aumentando, per mezzo di obblighi in materia di energie rinnovabili o altri mezzi, il volume acquistato di dette energie», quali per esempio «le sovvenzioni agli investimenti, le esenzioni o gli sgravi fiscali, le restituzioni d’imposta, i regimi di sostegno all’obbligo in materia di energie rinnovabili, compresi quelli che usano certificati verdi e i regimi di sostegno diretto dei prezzi ivi comprese le tariffe di riacquisto e le sovvenzioni».
Come già anticipato, l’art. 4 della direttiva n. 2018/2001/UE prevede quale termine per il recepimento la data del 30 giugno 2021, dunque un momento successivo rispetto a quello di emanazione del D.M. del 4 luglio 2019.
Tuttavia, da tale direttiva è comunque derivato l’obbligo per gli Stati membri di astenersi dall’adottare disposizioni che potessero compromettere gravemente l’obiettivo posto da questa (c.d. obbligo di “standstill”).
Ebbene, tale termine era già spirato al momento dell’adozione del provvedimento di ammissione agli incentivi impugnato con il ricorso di primo grado e la direttiva era già stata recepita dal Legislatore italiano con il D.lgs. 8 novembre 2021, n. 199.
La Direttiva conferma la possibilità per gli Stati membri di istituire dei regimi di sostegno che prevedano l’erogazione di incentivi, precisando che questi meccanismi debbano basarsi su criteri di mercato, rispondere ai segnali di mercato (evitando inutili distorsioni dei mercati dell’energia elettrica, tenendo conto degli eventuali costi di integrazione del sistema e della stabilità dell’energia elettrica) e garantire che i produttori di energia rinnovabile reagiscano ai segnali di prezzi del mercato e massimizzino i loro ricavi sul mercato.
Inoltre, la Direttiva prevede che gli incentivi vengano concessi con modalità aperte, trasparenti, competitive, non discriminatorie[14] ed efficaci sotto il profilo dei costi.
4. Le motivazioni del dubbio di compatibilità tra diritto interno ed europeo.
Definito il quadro normativo esistente a livello eurounitario, occorre a questo punto ripercorrere le ragioni che hanno portato il Collegio giudicante ad effettuare il rinvio pregiudiziale de quo.
Nella specie, il dubbio sulla compatibilità tra il diritto nazionale e le direttive, secondo il Consiglio di Stato, discende da tre considerazioni.
In primo luogo, alla luce del diritto dell’Unione, il meccanismo incentivante in quanto tale, dovrebbe agevolare la promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili, favorendo l’investimento nella realizzazione di nuovi impianti o nel potenziamento di quelli esistenti, mediante un contributo pubblico a sostegno dei relativi costi.
I costi, grazie a tali meccanismi incentivanti verrebbero così posti parzialmente a carico della collettività in ragione delle esternalità positive che si ricollegano al perseguimento di obiettivi di transizione ecologica.
Tale prima considerazione stride necessariamente con l’incentivo negativo configurato dall’art. 7, comma 7, del decreto del Ministero dello sviluppo economico del 4 luglio 2019.
Tale previsione, infatti, comporta che, nel caso in cui il prezzo zonale orario dell’energia aumenti, le imprese, pur avendo effettuato degli investimenti, non ottengono alcuna sovvenzione che ne riduca il costo.
Anzi, nella predetta ipotesi, l’impresa deve riversare al gestore del Servizio Energetico parte degli introiti derivati dalla vendita sul mercato dell’energia prodotta con la conseguenza che queste potrebbero essere indotte ad abbandonare l’incentivo, così compromettendo il raggiungimento dei risultati perseguiti dalle direttive.
La seconda considerazione che lascia dubitare della compatibilità tra l’art. 7 e le direttive è che l’incentivo negativo non può considerarsi una contropartita della garanzia di una tariffa costante, considerato che l’impresa vende l’energia sul mercato, soggiace alle sue dinamiche ed è esposta ai relativi rischi, dunque l’obbligo di versare la differenza tra il prezzo zonale orario e la tariffa spettante al singolo operatore potrebbe pregiudicarne la capacità di reazione alle dinamiche del mercato.
In altri termini, vi sarebbe in tal senso un contrasto tra il meccanismo di incentivi “a due vie” e i regimi di sostegno contemplati dal legislatore sovranazionale che devono essere configurati in modo tale da rispondere ai segnali di mercato, evitando inutili distorsioni.
In terzo luogo, la tariffa “a due vie”, che può tradursi nell’applicazione dell’incentivo negativo, è imposta quale unico meccanismo incentivante per tutti gli impianti di potenza pari o superiore a 250 kW, mentre i titolari di impianti di potenza inferiore, possono optare per il diverso regime che prevede il ritiro dell’energia da parte del gestore del Servizio energetico con corresponsione della tariffa spettante a loro favore.
In questo senso, si delinea il dubbio di compatibilità tra l’art. 7 del decreto ministeriale citato e le direttive eurounitarie, che, invero, richiedono la definizione di regimi di sostegno non discriminatori.
In sostanza, ciò che si domanda il Consiglio di Stato nell’effettuare il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE è se, in effetti, l’art. 7, comma 7 del Decreto del Ministero dello Sviluppo economico del 4 luglio 2019 sia conforme con le prescrizioni del Legislatore eurounitario in forza delle quali i regimi di sostegno devono essere in grado di promuovere la produzione di energia da fonti rinnovabili, devono essere definiti in modo tale da rispondere ai segnali di mercato e devono in ultimo essere definiti in modo tale da non creare discriminazioni.
Il Collegio ha così posto il seguente quesito alla Corte di Giustizia dell’Unione europea: «se i principi recati dall’art. 3 della direttiva 2009/28/CE e dall’art. 4 della direttiva 2018/2001/UE ostano o non ostano a una normativa interna, quale l’art. 7, comma 7, del decreto del Ministero dello sviluppo economico del 4 luglio 2019, che, nell’ambito di un regime nazionale di sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili, preveda, con riferimento a fattispecie in cui i produttori vendono l’energia sul libero mercato, un meccanismo incentivante (c.d. “a due vie”) in forza del quale, rispetto ai soli impianti di nuova costruzione di potenza pari o superiore a 250 kW, l’incentivo è calcolato come differenza tra la tariffa spettante all’impresa (determinata tenendo conto, da un lato, delle tariffe di riferimento previste per ciascuna tipologia di impianto e d’intervento, dalla normativa applicabile e, dall’altro, delle riduzioni offerte al ribasso dall’operatore nell’ambito delle procedure di asta o registro, nonché delle ulteriori decurtazioni previste in via generale dalla normativa interna) e il prezzo zonale orario, con conseguente obbligo di riversare le somme eccedenti il valore della tariffa spettante quanto il prezzo zonale orario sia a essa superiore (c.d. “incentivo negativo”)»[15].
5. Osservazioni conclusive anche alla luce del principio di neutralità tecnologica e della giurisprudenza della CGUE (sentenza n. 306/2022).
Ricostruito il fatto da cui è occasionata la pronuncia di rinvio pregiudiziale e richiamate le considerazioni per cui il Collegio ha ritenuto sussistere un dubbio di compatibilità tra la normativa interna e il diritto europeo, possono a questo punto svolgersi alcune osservazioni conclusive.
Ad avviso di chi scrive, dal confronto tra la normativa interna e il diritto europeo in materia di fonti energetiche rinnovabili, emerge un evidente contrasto tra i risultati dell’applicazione del c.d. incentivo negativo e gli obiettivi di promozione delle rinnovabili proclamati dalle Direttive richiamate e, da ultimo riconfermati con la Direttiva 2023/2413/UE[16].
Il meccanismo di incentivazione contemplato dall’art. 7, comma 7, del Decreto ministeriale del 4 luglio 2019, infatti, nel contemplare non solo la possibilità di un non incentivo – pur a fronte di investimenti effettuati – ma anche la possibilità di una richiesta di riversare al Gestore del Servizio Energetico parte degli introiti derivanti dalla vendita sul mercato dell’energia prodotta, condivisibilmente rispetto a quanto prospettato dal Consiglio di Stato, parrebbe porsi in contrasto con il diritto europeo.
In particolare, si condividono le tre considerazioni effettuate dal Collegio giudicante in ordine alla natura del meccanismo incentivante contemplato dal decreto ministeriale più volte richiamato che non è idoneo ad agevolare la promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili se, a fronte di investimenti effettuati, non contempla alcune sovvenzioni che ne riducano i costi e, addirittura, prevede che le imprese riversino al Gestore parte degli introiti derivati dalla vendita sul mercato dell’energia prodotta.
Ancora, è condivisibile la seconda considerazione in ordine alla incapacità del regime di sostegno contemplato dal Legislatore italiano di rispondere ai segnali di mercato, soprattutto nell’odierno contesto di crisi energetica.
Parimenti condivisibile è il dubbio in ordine alla discriminatorietà del regime di sostegno contemplato dal Legislatore nazionale, nella misura in cui la tariffa a due vie, che talvolta può tradursi nell’applicazione dell’incentivo negativo è imposta quale unico meccanismo incentivante per tutti gli impianti di potenza pari o superiore a 250 kW, mentre i titolari di impianti di potenza inferiore possono optare per il diverso regime (più favorevole) del ritiro dell’energia da parte del Gestore con corresponsione della tariffa spettante.
Il trattamento che ne deriva, infatti, è evidentemente discriminatorio, contemplando, peraltro, un regime ben più favorevole per impianti che sono per loro stessa natura destinati a produrre minor quantità di energia da fonti rinnovabili, poiché di minor potenza, sfavorendo invece gli impianti di maggiore potenza.
In relazione a tale ultimo aspetto, si rende necessario un seppur rapido richiamo al principio di neutralità tecnologica[17], che, dall’applicazione di un simile meccanismo incentivante, ne risulterebbe evidentemente pregiudicato.
Tale principio, infatti, predica la libertà di scegliere la tecnologia più appropriata e adeguata alle esigenze e ai requisiti per lo sviluppo, l’acquisizione, l’uso o la commercializzazione, senza dipendenze di conoscenza implicate come informazioni o dati.
Il principio di neutralità tecnologica, applicato alla materia della transizione energetica[18], è realizzabile attraverso un approccio flessibile alle tecnologie disponibili, vale a dire attraverso un mix di tecnologie di cui disporre di volta in volta in base alla loro maturità ed efficacia nel ridurre le emissioni.
La decarbonizzazione, infatti, può realizzarsi solo attraverso una pluralità di tecnologie da applicare a seconda del contesto di riferimento.
L’approccio flessibile secondo il principio di neutralità tecnologica favorisce l’utilizzo di tutte le opzioni in maniera complementare.
Secondo tale strategia, le energie rinnovabili svolgono al meglio il loro ruolo nella transizione energetica quando abbinate ad altre misure di mitigazione, quali possono essere appunto, oltre all’efficienza energetica, le misure di sostegno e i meccanismi incentivanti delle rinnovabili.
Ebbene, sostenere un meccanismo incentivante che si applichi solo per determinate tipologie di impianti equivarrebbe in ultimo anche a ledere il suddetto principio di neutralità tecnologica.
A sostegno della tesi secondo la quale parrebbe sussistere un contrasto tra la normativa interna e il diritto dell’Unione nei predetti termini, peraltro, può pervenirsi anche tenendo a mente quanto statuito dalla medesima Corte di Giustizia dell’Unione europea con la sentenza n. 306/2022[19], resa nelle cause riunite C-306/19, C-512/19, C-595/19 e da C-608/20 a C-611/20.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, in tale occasione, ha avuto modo di pronunciarsi in materia di incentivi alle rinnovabili e, nella specie, in tema di riduzione degli incentivi al fotovoltaico, a conferma dell’incertezza dei confini della discrezionalità del legislatore in materia di meccanismi incentivanti[20].
In particolare, in tal caso, la Corte ha ritenuto la conformità al diritto UE della normativa interna che contemplava la rimodulazione degli incentivi del G.S.E. sull’energia da fonti rinnovabili considerato che un operatore economico prudente, sulla base del quadro normativo vigente, avrebbe dovuto essere in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi.
Nei casi decisi con tale pronuncia, gli imprenditori interessati dalla riduzione degli incentivi lamentavano la lesione del legittimo affidamento e la violazione del principio di certezza del diritto, nonché della Direttiva 2009/28/UE, nella misura in cui l’articolo 26 del Decreto-Legge n. 91/2014[21] ha introdotto retroattivamente misure incentivanti meno favorevoli, tali da sovvertire le condizioni iniziali di investimenti già realizzati.
In questo caso, ciò che maggiormente ha rilevato ai fini della decisione è stato il richiamo alla formulazione dell’art. 3 paragrafo 3, lettera a), della Direttiva 2009/28/UE e, in particolare, all’utilizzo del termine «possono».
Gli Stati membri, sulla scorta di tale disposizione, infatti, non sono affatto obbligati, al fine di promuovere l’uso dell’energia da fonti rinnovabili, ad adottare regimi di sostegno per le rinnovabili.
Essi godono di un potere discrezionale quanto alle misure ritenute appropriate per raggiungere gli obiettivi nazionali generali obbligatori fissati all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, di detta Direttiva, in combinato disposto con l’Allegato I della medesima.
Un siffatto potere discrezionale implica che gli Stati membri siano liberi di adottare, modificare o sopprimere regimi di sostegno purché tali obiettivi siano stati raggiunti[22].
In tal caso, la stessa formulazione dell’articolo 7, comma 2, del D.lgs. n. 387/2003 indicava all’operatore economico prudente e accorto, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE[23], che gli incentivi in questione non erano garantiti a tutti gli operatori interessati per un periodo determinato, tenuto conto, in particolare, del riferimento a un importo decrescente delle tariffe incentivanti nonché alla durata limitata dell’incentivo e della fissazione di un limite massimo di potenza elettrica cumulata ammissibile all’incentivo medesimo.
Parimenti, anche il D.lgs. n. 28/2011, che ha abrogato il D.lgs. n. 387/2003, dispone, all’art. 25, che l’incentivo alla produzione di energia elettrica da impianti fotovoltaici è disciplinato da un decreto ministeriale che fissa un limite annuale della potenza elettrica cumulata di simili impianti ammissibili a beneficiare delle tariffe incentivanti e che prevede tali tariffe tenendo conto della riduzione del costo delle tecnologie e degli impianti nonché delle misure incentivanti applicate negli altri Stati membri e della natura del sito degli impianti.
La pronuncia ha inoltre chiarito la natura delle convenzioni sottoscritte con il G.S.E. che si limitavano a definire le modalità di erogazione degli incentivi, senza tuttavia attribuirli.
Pertanto, in tal caso, secondo la Corte di giustizia non v’è stata lesione del legittimo affidamento, trattandosi di posizione giuridica non acquisita, che non rientra nella tutela prevista all’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[24].
Sotto un secondo profilo, si è esclusa altresì la violazione dell’art. 16 della Carta in materia di libertà di esercitare un’attività economica o commerciale, in quanto le convenzioni concluse con i proprietari di impianti fotovoltaici prevedevano unicamente le condizioni pratiche per l’erogazione degli incentivi, assegnati invero con decisioni amministrative precedenti.
Pertanto, gli imprenditori non disponevano di alcun potere negoziale in ordine al contenuto delle convenzioni stipulate con il G.S.E., trattandosi di un contratto-tipo redatto da una parte contrattuale, ove la libertà contrattuale della controparte consiste, in sostanza, solo nel decidere se accettare o meno le condizioni del contratto stesso.
Alla luce di tutti i rilievi richiamati, la Corte di Giustizia UE, in tale occasione, ha stabilito che l’art- 3, paragrafo 3, lettera a) della Direttiva 2009/28/UE e gli artt. 16 e 17 della Carta, letti alla luce dei principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, dovessero essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che prevede la riduzione o il rinvio del pagamento degli incentivi per l’energia prodotta da impianti solari fotovoltaici.
Tale conclusione, come sottolineato in dottrina, evidenzia l’esistenza di un attuale sistema normativo che non costituisce uno stimolo adeguato e sufficiente per la realizzazione di investimenti nel campo dell’energia sostenibile, potendo anzi determinarne la disincentivazione[25].
Ad ogni modo, con il rinvio pregiudiziale effettuato dalla pronuncia in commento, si è chiesto alla Corte di Giustizia UE di stabilire non tanto se il legislatore nazionale, nell’esercizio della facoltà di prevedere (o meno) un meccanismo incentivante nel settore del fotovoltaico, a seguito della conclusione di convenzioni con il G.S.E., possa prevedere che gli incentivi ivi previsti siano ridotti, ma, diversamente, se il meccanismo incentivante possa determinare effetti contrari e, nella specie, discriminatori, non rispondenti ai segnali di mercato, e, per l’effetto, disincentivanti.
In entrambi i casi rimessi alla Corte, può dirsi che i dubbi di compatibilità tra il diritto nazionale e il diritto europeo siano fondati sull’esistenza di un quadro normativo interno che pare mal conciliarsi con le esigenze sottese alla transizione ecologica[26], in un contesto di crisi ambientale e, soprattutto, energetica, segnato dalla consapevolezza di essere ormai prossimi a un collasso ecologico dovuto al superamento dei cc.dd. “Planeraty Boundaries”, al cui interno sono stati individuati alcuni spazi per poter prosperare in modo sicuro sia da un punto di vista ambientale che sociale (cc.dd. Safe Operating Spaces – SOS)[27], ove ben si inseriscono, appunto, gli impianti alimentati da fonti rinnovabili.
Concepire modelli di incentivazione come quelli di cui al D.M. del 4 luglio 2019, a sommesso avviso di chi scrive, oltre a contrastare con il diritto europeo, equivale a legittimare una contraddizione interna al sistema, nel quale è la stessa Carta costituzionale a rendere finalmente “giustizia” al bene “ambiente” con la sua introduzione negli artt. 9 e 41 Cost.[28].
Ne deriva che il compito di cui è investito il Giudice europeo a fronte del rinvio pregiudiziale in commento è se non altro strategico, poiché idoneo ad individuare, da ultimo, gli strumenti giuridici più idonei alla realizzazione a alla mobilizzazione della transizione ecologica.
Ad ogni modo, anche laddove il Giudice europeo ritenesse che il meccanismo incentivante “a due vie” costituisca espressione del legittimo esercizio dell’(ampia) discrezionalità attribuita agli Stati membri, è auspicabile che i futuri interventi normativi in materia, in linea con il P.N.R.R. nazionale[29], contemplino nuovi ed ulteriori incentivi, nonché nuovi meccanismi di accesso caratterizzati da una disciplina chiara, certa, semplificata e non discriminatoria, in modo tale da garantire sempre maggiori investimenti nel settore e, con essi, la massima diffusione delle fonti energetiche rinnovabili nel perseguimento degli obiettivi sottesi alla transizione ecologica e in conformità con il chiaro favor espresso dal legislatore eurounitario nei confronti delle fonti energetiche rinnovabili[30].
[1] Cons. Stato, Sez. II, 30 gennaio 2024 n. 926, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] In giurisprudenza, sullo specifico tema dei meccanismi incentivanti delle rinnovabili, cfr. Cons. St., Sez. II, 19 aprile 2023 n. 3992, in Riv. giur. ed., 2023, 4, I, 911, in materia di applicabilità della tariffa incentivante alla serra fotovoltaica; Cons. St., Sez. II, 28 novembre 2022 n. 10409, in Red. Giuffrè amm., 2022, sulla disciplina degli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili contenuta nel d.m. 6 luglio 2012, ove, già in tale occasione la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di affermare che la disciplina degli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili ha la finalità di sostenere la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili attraverso la definizione di incentivi e modalità di accesso semplici e stabili, che promuovano l’efficacia, l’efficienza e la sostenibilità degli oneri di incentivazione in misura adeguata al perseguimento dei relativi obiettivi, stabiliti nei Piani di azione per le energie rinnovabili. Per una ricostruzione dell’ampia casistica di giurisprudenza delle giurisdizioni superiori esistente in materia di incentivi energetici e relative controversie, si rinvia alla rassegna monotematica dell’Ufficio massimario della Giustizia amministrativa a cura di D. Caminiti, Le controversie in materia di incentivi energetici. Il G.s.e., in www.giustizia-amministrativa.it, 15 novembre 2023.
In dottrina, in materia di incentivi alle rinnovabili, A. Castelli, M. Loche, Produzione di energia da fonti rinnovabili e incentivi pubblici: il punto sul fotovoltaico dopo il d.l. “Rilancio”, in Ambiente e sviluppo, 7, 2020, 589, i quali affermano, appunto, che: «Lo sfruttamento dell’energia da fonti rinnovabili rappresenta, da tempo, una delle finalità centrali della politica di crescita dell’Unione Europea, indirizzata verso la promozione di un utilizzo ed uno sviluppo sempre maggiori di tale metodologia di produzione energetica, coerentemente con le politiche ambientali degli Stati membri, sempre più orientate verso la sostenibilità e la mitigazione degli impatti sull’ambiente delle attività umane»; M. De Focatiis, Il sistema italiano tra incentivi, obblighi e contraddizioni, in P. Biandrino, M. De Focatiis (a cura di), Efficienza energetica ed efficienza del sistema dell’energia: un nuovo modello?, Milano, 2017, 97-103; C. Vivani, I procedimenti di autorizzazione alla realizzazione e alla gestione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, in Urb. & app., 2011, 7, 775, ove si legge che: «L’incremento del ricorso all’energia da fonti rinnovabili costituisce indubbiamente uno dei capisaldi dell’attuale politica energetica dell’Unione Europea, permettendo di coniugare alcuni obiettivi prioritari: non solo la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, ma anche la riduzione della dipendenza dell’Europa dalle importazioni di combustibili fossili tradizionali e l’incremento della crescita economica europea tramite lo sviluppo di tecnologie innovative e competitive a livello globale»; B. Pozzo, a cura di, Le politiche energetiche comunitarie. Un’analisi degli incentivi allo sviluppo delle fonti rinnovabili, Milano, 2009, 14 ss.. Occorre sottolineare che, rispetto al panorama internazionale, l’Unione europea, nel mondo, è sempre stata considerata all’avanguardia nella ricerca e nell’impiego delle fonti rinnovabili di energia. Esiste, infatti, già da tempo, una Direttiva Quadro, appunto la 2001/77/CE, con la quale è stato dato avvio ad una politica energetica, fondata sull’incentivazione del ricorso alle fonti rinnovabili di energia, cui è stato accompagnato un apparato amministrativo semplificato che non ostacolasse l’iter burocratico connesso con l’installazione degli impianti energetici, ma che anzi lo favorisse. Così si è espresso, ormai molti anni orsono, A. Cutera, Introduzione, in Le politiche energetiche comunitarie. Un’analisi degli incentivi allo sviluppo delle fonti rinnovabili, a cura di, B. Pozzo, cit., XIII. Si segnala tuttavia, nella giurispridenza amministrativa nazionale, l’esistenza di un orientamento consolidato in forza del quale, sebbene si riconosca che la ratiodell’attribuzione degli incentivi alla produzione di energia da fonti rinnovabili sia certamente costituita dall’incremento della produzione di detta energia, si afferma che la stessa non può comunque giustificare violazioni delle procedure finalizzate alla corretta attribuzione degli stessi che, diversamente, si tradurrebbero in un aiuto di Stato illegittimamente erogato. In questo senso, si veda, da ultimo, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 3 febbraio 2022 n. 1281, in Red. Giuffrè amministrativo, 2022.
[3] Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico, 4 luglio 2019, recante «Incentivazione dell’energia elettrica prodotta dagli impianti eolici on shore, solari fotovoltaici, idroelettrici e a gas residuati dei processi di depurazione», in G.U. Serie Generale n. 186, del 9 agosto 2019.
[4] Sulla natura del Gestore del Servizio energetico, quale soggetto privato svolgente pubbliche funzioni, posto che, pur rivestendo formalmente la veste di società di capitali di diritto privato, è soggetto munito dalla legge di funzioni pubbliche correlate alla diffusione delle energie da fonte rinnovabile, al controllo ed alla gestione dei flussi energetici di tale provenienza e all’assolvimento degli obblighi imposti dalla legge agli operatori del settore energetico, cfr. Cons. St., Ad. plen., 3 settembre 2019 n. 9, con nota di A. Colavecchio, Provvedimento amministrativo e atti di accertamento tecnico, in Giorn. Dir. Amm., 2020, 1, 90).
[5] Cons. Stato, Sez. II, n. 926/2024, cit., punto 3.
[6] «La nozione di “beni” contenuta nella prima parte dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 è autonoma, e comprende sia i “beni esistenti” che i diritti patrimoniali, compresi i crediti, in relazione ai quali il ricorrente può sostenere di avere almeno una “aspettativa legittima”. Il termine “beni” comprende i diritti “in rem” e “in personam”. Il termine comprende beni immobili, beni mobili nonché altri diritti patrimoniali». Tale nozione si rinviene nella Guida all’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo della Corte Europea dei diritti dell’uomo, in www.echr.coe.int, p. 7
[7] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 22 febbraio 2023 n. 3010, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico del 23 giugno 2016, recante «Incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili diverse dal fotovoltaico», in G.U. Serie Generale n.1 50 del 29 giugno 2016.
[9] Cons. Stato, Sez. II, n. 926/2024, cit., punto 9.
[10] In materia di incentivi, in dottrina, si rinvia, da ultimo ai saggi di L. Anibali, Gli incentivi alle fonti rinnovabili e gli interventi rimodulatori, in Giorn. dir. amm., 2022, 481, che in particolare approfondisce il rapporto tra regimi incentivanti e il legittimo affidamento; E. Traina, Incentivi alla produzione di energie rinnovabili, poteri amministrativi e legittimo affidamento nella giurisprudenza, in Federalismi.it, 5 giugno 2023.
[11] Cons. Stato, Sez. II, n. 926/2024, cit., punto 8, ove il Collegio giudicante spiega le ragioni della necessità del rinvio pregiudiziale d’interpretazione «anche considerato che avverso le decisioni del Consiglio di Stato non può proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno e che, nella specie, la corretta interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione rilevanti ai fini del giudizio non s’impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi, né queste sono già state oggetto d’interpretazione da parte [della] Corte di giustizia, dunque non ricorrono le condizioni in cui il giudice di ultima istanza può ritenersi esonerato dall’obbligo di rimessione (sulle quali si v., tra le tante, Corte giust., Grande Sez., sent. 6 ottobre 2021, C-561/19 [ECLI:EU:C:2021:799], Consorzio I.M., ot. 27 e ss., e, più di recente, Corte giust., sent. 22 dicembre 2022, C-83/21 [ECLI:EU:C:2022:1018], A.I., pt. 79 e ss. e ord. 27 aprile 2023, C-482/22 [ECLI:EU:C:2023:404], Associazione R.V., pt. 28 e ss.)».
[12] Direttiva 2009/28/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009 «sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE», in G.U.U.E. L 140/16 del 5 giugno 2009. L’Italia ha recepito la Direttiva con il D.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, recante «Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili», con il quale, ai sensi dell’art. 1, «Finalità», sono stati definiti «gli strumenti, i meccanismi, gli incentivi e il quadro istituzionale, finanziario e giuridico, necessari per il raggiungimento degli obiettivi fino al 2020 in materia di quota complessiva di energia da fonti rinnovabili sul consumo finale lordo di energia e di quota di energia da fonti rinnovabili nei trasporti» nonché le «norme relative ai trasferimenti statistici tra gli Stati membri, ai progetti comuni tra gli Stati membri e con i paesi terzi, alle garanzie di origine, alle procedure amministrative, all’informazione e alla formazione nonché all’accesso alla rete elettrica per l’energia da fonti rinnovabili e fissa criteri di sostenibilità per i biocarburanti e i bioliquidi». Con specifico riferimento ai regimi di sostegno, l’art. 23, comma 1, del D.lgs. n. 28/2011 ha previsto il riordino e il potenziamento degli allora vigenti sistemi di incentivazione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili tramite l’introduzione di «un quadro generale volto alla promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica (...), attraverso la predisposizione di criteri e strumenti che promuovano l’efficacia, l’efficienza, la semplificazione e la stabilità nel tempo dei sistemi di incentivazione, perseguendo nel contempo l’armonizzazione con altri strumenti di analoga finalità e la riduzione degli oneri di sostegno specifici in capo ai consumatori». Il D.lgs. n. 28/2011, nella specie, sulle energie rinnovabili riforma i meccanismi incentivanti la produzione di elettricità da fonti rinnovabili per gli impianti entrati in esercizio dal 1° gennaio 2013, abrogando il vecchio sistema incentrato sui certificati verdi. I nuovi meccanismi di incentivazione consistono in tariffe fisse per i piccoli impianti (fino a 5 MW) e in aste al ribasso per gli impianti di taglia maggiore. Anche per gli impianti entrati in esercizio entro il 2012, a partire dal 2016, i certificati verdi saranno sostituiti - per il residuo periodo di spettanza - da una tariffa fissa tale da garantire la redditività degli investimenti realizzati. Il GSE ritira annualmente i certificati verdi rilasciati per gli anni dal 2011 al 2015, in eccesso di offerta, ad un prezzo di ritiro pari al 78% del prezzo definito secondo i criteri vigenti.
[13] Direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, in G.U.U.E. L 328/82 del 1° dicembre 2018. In attuazione della Direttiva 2018/2001/UE, è stato adottato il D.L. 8 novembre 2021, n. 199, recante “Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”. Nella specie, il Titolo II del D.L. n. 199/2021 disciplina i regimi di sostegno e sugli strumenti di incentivazione al fine di promuovere l’efficacia, l’efficienza e la semplificazione, al fine di raggiungere gli obiettivi previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tale nuovo sistema di incentivi prevede per i grandi impianti, con potenza superiore a una soglia almeno pari a 1 MW, l’attribuzione dell’incentivo attraverso procedure competitive di aste al ribasso effettuate in riferimento a contingenti di potenza, mentre per impianti di piccola taglia (<1 MW), è previsto l’accesso diretto alle tariffe.
[14] Sul principio di non discriminazione dei produttori di energia da fonti rinnovabili, alla Direttiva 2009/28/CE cfr. i Consideranda n. 40, sulle procedure di autorizzazione all’installazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili e n. 62, sui costi della connessione alla rete elettrica; cfr. altresì l’art. 15, sulle «Garanzie di origine dell’elettricità, del calore e del freddo prodotti da fonti energetiche rinnovabili», ove si stabilisce che « […] l’origine dell’elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili sia garantita come tale ai sensi della presente direttiva, in base a criteri obiettivi, trasparenti e non discriminatori» e l’art. 16, in materia di «Accesso e funzionamento delle reti», ove si precisa che il mantenimento dell’affidabilità e della sicurezza della rete è basato su criteri trasparenti e non discriminatori definiti dalle autorità nazionali competenti. Successivamente, il principio di non discriminazione ha trovato disciplina nella Direttiva 2018/2001/UE, ai consideranda n. 19, ove si stabilisce che per accrescere l’efficacia delle procedure di gara e ridurre al minimo i costi generali di sostegno, le procedure di gara dovrebbero essere, in linea di principio, aperte a tutti i produttori di energia elettrica da fonti rinnovabili su base non discriminatoria; n. 43, in materia di procedure di autorizzazione; n. 65; n. 68 e n. 69; n. 71; n. 92 e n. 112; nonché all’art. 4, paragrafo 4, ove si stabilisce che gli Stati membri assicurano che il sostegno per l’energia elettrica da fonti rinnovabili sia concesso con modalità aperte, trasparenti, competitive, non discriminatorie ed efficaci sotto il profilo dei costi.
[15] Cons. Stato, Sez. II, n. 926/2024, cit., punto 19.
[16] Direttiva 2023/2413/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 ottobre 2023, che modifica la direttiva (UE) 2018/2001, il regolamento (UE) 2018/1999 e la direttiva n. 98/70/CE per quanto riguarda la promozione dell’energia da fonti rinnovabili e che abroga la direttiva (UE) 2015/652 del Consiglio, su G.U.U.E., Serie L, del 31 ottobre 2023.
In dottrina, sul punto, si rinvia a A. Muratori, Più spazio alle fonti rinnovabili con la nuova direttiva 2023/2413/UE, in Ambiente e diritto, 2023, 725.
[17] A livello europeo, il principio di neutralità tecnologica è sorto già nel 1999, anno in cui la Commissione Europea ha declinato tale principio come principio normativo in un documento ufficiale sulla revisione del quadro normativo per le comunicazioni elettroniche. Il riferimento è alla comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni, del 10 novembre 1999, dal titolo «Verso un nuovo quadro per l’infrastruttura delle comunicazioni elettroniche e i servizi correlati. Esame del 1999 del quadro normativo delle comunicazioni» [COM(1999) 539 def., 10.11.1999 - Non pubblicata nella Gazzetta ufficiale]. Il consolidamento del principio della neutralità tecnologica è avvenuto con la Direttiva 2009/140/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009 recante modifica delle direttive 2002/21/CE che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica, 2002/19/CE relativa all’accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate, e all’interconnessione delle medesime e 2002/20/CE relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica, in G.U.U.E. del 18.12.2009, n. L 337/37.
[18] Sulla transizione energetica, cfr. l’opera monografica di L. Ammanati, a cura di, La transizione energetica, Torino, 2018, passim.
[19] Il riferimento è alla sentenza Corte Giustizia UE, cause riunite C-306/19, C-512/19, C-595/19 e da C-608/20 a C-611/20, Sez. X, 1° marzo 2022 n. 306, in Foro Amm. (Il), 2022, 3, II, 355. La pronuncia è di particolare rilievo anche in considerazione della ricostruzione del quadro ordinamentale interno in materia di incentivi, cui si rinvia, per quanto qui di interesse.
[20] Ad ulteriore conferma dell’incertezza dei confini della discrezionalità del legislatore in materia di meccanismi incentivanti, va segnalato che v’è un ulteriore interrogativo posto dal Giudice amministrativo italiano (con l’ordinanza Con. St., Sez. II, 8 agosto 2023 n. 7673, in www.giustizia-amministrativa.it) ove la questione posta alla Corte di Giustizia dell’Unione europea è analoga anche se riferita ad una fattispecie per certi aspetti differente (in primo luogo, è diversa la normativa nazionale della cui compatibilità si dubita – D.M. del 23 giugno 2016, in un caso, D.M. del 4 luglio 2019 nel caso in commento; in secondo luogo, nel caso in commento, quando è stato adottato il D.M. del 2019 era già stata adottata la Direttiva 2018/2001/UE; in terzo luogo, nel regime di cui al decreto del 2016 l’applicazione della tariffa “a due vie” era correlata alla modalità di accesso all’incentivo – mediante iscrizione al registro o mediante asta – mentre in quello configurato dal decreto del 2019 essa discende dalla sola potenza dell’impianto, quindi cambia l’elemento su cui si fonda la diversità di trattamento tra imprese; da ultimo, le parti sono diverse e solo con un nuovo e autonomo rinvio si garantisce il diritto di difesa del ricorrente). In particolare, il quesito posto con tale pronuncia di rinvio è il seguente: «Dica la Corte di giustizia se i principi recati dagli articoli 3 della direttiva 2001/28/CE e 4 della direttiva 2018/2001/UE ostano o non ostano a una normativa interna che nell’ambito di un regime nazionale di incentivi prevede, con riferimento a fattispecie in cui i produttori vendono l’energia sul libero mercato, una tariffa incentivante che garantisce un prezzo minimo, che è al contempo anche un prezzo massimo, in virtù di un meccanismo di conguaglio-restituzione delle somme eccedenti il valore dell’incentivo qualora il prezzo di mercato sia superiore a quest’ultimo (cosiddetto incentivo negativo), applicandosi inoltre il meccanismo di conguaglio soltanto laddove il produttore che vende l’energia sul libero mercato acceda all’incentivo mediante iscrizione al pertinente registro e non anche laddove vi acceda mediante partecipazione a una procedura di asta». Si segnala che il Giudice del rinvio ha sollecitato alla Corte di Giustizia una valutazione circa l’opportunità di una trattazione congiunta delle due cause.
[21] Sulla legittimità costituzionale della norma si è pronunciata la Corte cost., 24 gennaio 2017 n. 16, in Giur. Cost., 2017, 1, 85, ove si è affermato che «detta disposizione costituisce un intervento rispondente a un interesse pubblico, in termini di equo bilanciamento degli opposti interessi in gioco, volto a coniugare la politica di supporto alla produzione di energia da fonte rinnovabile con la maggiore sostenibilità dei costi correlativi a carico degli utenti finali dell'energia elettrica. Essa ha inoltre dichiarato che la modifica del regime di incentivi di cui ai procedimenti principali non è stata imprevedibile né improvvisa, per cui un operatore economico prudente e accorto avrebbe potuto tener conto della possibile evoluzione legislativa, considerate le caratteristiche di temporaneità e mutevolezza dei regimi di sostegno».
[22] Corte Giustizia UE, Sez. V, 15 aprile 2021, n. 798, C-798/18 e C-799/18, in Foro Amm. (Il), 2021, 4, 581, punto 28.
[23] Cfr. punto 44 della sentenza Corte Giustizia UE, Sez. V, 15 aprile 2021, n. 798, C-798/18 e C-799/18, cit., ove si precisa che: «Secondo giurisprudenza parimenti costante della Corte, la possibilità di avvalersi del principio della tutela del legittimo affidamento è prevista per ogni operatore economico nei cui confronti un’autorità nazionale abbia fatto sorgere fondate aspettative. Tuttavia, qualora un operatore economico prudente e accorto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, esso non può invocare detto principio nel caso in cui il provvedimento venga adottato. Inoltre, gli operatori economici non possono fare legittimamente affidamento sul mantenimento di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali [sentenza del 15 aprile 2021, Federazione nazionale delle imprese elettrotecniche ed elettroniche (Anie) e a., C-798/18 e C-799/18, EU:C:2021:280, punto 42 nonché giurisprudenza ivi citata]».
[24] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000/c 364/01), su G.U.C.E. C 364/1 del 18 dicembre 2000.
[25] In questo senso, si rinvia al saggio di E. Traina, Incentivi alla produzione di energie rinnovabili, poteri amministrativi e legittimo affidamento nella giurisprudenza, cit., 204.
[26] Sul concetto di transizione ecologica, in dottrina, si rinvia a F. de Leonardis, La transizione ecologica come modello di sviluppo di sistema: spunti sul ruolo delle amministrazioni, in Dir. amm., 2021, 4, 779 ss.; A, Moliterni, Il Ministero della Transizione Ecologica: una proiezione organizzativa del principio di integrazione, in Giorn. dir. amm., 2021, 4, 439 ss..
[27] La teoria dei Planetary Boundaries (P.B.) e del Safe Operating Space (SOS) è il frutto di uno studio di un gruppo di 29 eminenti scienziati guidati da Johan Rockström (Aa. VV., J. Rockström, guidati da, A Safe Operating Space for Humanity, in Nature, 461, 2009, 472 ss.; Id., Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity, in Ecology and Society, 14, 2, 2009, 32 ss.). In dottrina, si rinvia al saggio di M. Monteduro, La tutela della vita come matrice ordinamentale della tutela dell’ambiente (in senso lato e in senso stretto), in Riv. quad. dir. amb., 2022, 1, 423 ss.; F. Albione, I nuovi equilibri giuridici tra ambiente e paesaggio sullo sfondo della transizione ecologica, in Riv. giur. ed., 4, 2023, 235.
[28] Il riferimento è alla riforma costituzionale di cui alla Legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, «Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente», su G.U. n. 44 del 22 febbraio 2022. Approvata in prima lettura dall’Assemblea del Senato della Repubblica, il 9 giugno 2021, con 224 voti favorevoli, 23 astensioni e nessun voto contrario. aggiunge all’art. 9 della Costituzione un nuovo terzo comma che attribuisce alla Repubblica italiana il dovere di tutelare l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni e introduce, altresì, una riserva di legge statale in materia di tutela degli animali. In origine, l’art. 9 della Costituzione prevedeva la sola promozione della cultura e della ricerca scientifica e tecnica e la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. La riforma ha avuto ad oggetto anche l’art. 41 della Costituzione e, nella specie, il secondo e il terzo comma. Al secondo comma, è stato aggiunto il riferimento al «danno alla salute» e al «danno all’ambiente», a integrazione dei limiti che si impongono all’esercizio della libertà di iniziativa economica privata, nel senso che quest’ultima «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana». Al terzo comma, si registra poi l’aggiunta dei fini ambientali nel novero delle finalità cui può essere espressamente «indirizzata e coordinata» l’attività economica, sia essa pubblica o privata, mediante i programmi e i controlli opportuni che la legge è chiamata a determinare. Il nuovo terzo comma, nello specifico, all’esito della modifica, così recita: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali». Sulla riforma che ha portato all’introduzione dell’ambiente in Costituzione, la dottrina è ampissima, tra i tanti, si segnalano F. Fracchia, L’ambiente nell’art. 9 della Costituzione: un approccio in “negativo”, in Dir. econ. (Il), 2022, 15 ss.; F. de Leonardis, La riforma “bilancio” dell’art. 9 Cost. e la riforma “programma” dell’art. 41 Cost. nella legge costituzionale n. 1/2022: suggestioni a prima lettura, inApertaContrada, 2022; M. Cecchetti, La revisione degli artt. 9 e 41 della Costituzione e il valore costituzionale dell’ambiente: tra rischi scongiurati, qualche virtuosità (anche) innovativa e molte lacune, in Forum quad. cost., 2021, 285 e ss.
[29] In dottrina, sugli obiettivi perseguiti dal P.N.R.R. in materia di massima diffusione delle fonti energetiche rinnovabili, cfr. S. Spuntarelli, Le rinnovabili per la transizione energetica: discrezionalità e gerarchia degli interessi a fronte della semplificazione dei procedimenti autorizzatori nel PNRR, in Dir. amm., 2023, 1, 59 ss.
Nella specie, il P.N.R.R. prevede numerose misure riguardanti la materia dell’energia, allocate principalmente nella Missione n. 2, in materia di «Rivoluzione verde e transizione ecologica», che prevede ingenti investimenti in materia di «economia circolare e agricoltura sostenibile», «tutela del territorio e delle risorse idriche», «efficientamento energetico», «energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile». Si tratta di interventi (per 15,9 miliardi di euro) che mirano tutti a realizzare un sistema di energia sostenibile che assicuri risorse energetiche sufficienti capaci di determinare positivi impatti sull’ambiente.
[30] Con specifico riferimento al tema degli incentivi, la giurisprudenza amministrativa ha più volte ribadito che il sistema degli incentivi deve essere tale da garantire il perseguimento degli obiettivi di promozione delle fonti energetiche rinnovabili. In questo senso, ex multis, cfr. Cons. St., Sez. II, 28 novembre 2022 n. 10409, cit.; più in generale, in tema di favor verso le energie rinnovabili, cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, 4 novembre 2022, n. 1750, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si è detto che, nel bilanciamento tra i diversi interessi confliggenti, quello all’approvvigionamento di energia da fonti rinnovabili, è da considerarsi “strategico” e che “la strada tracciata dalla governance nazionale e sovranazionale è tutta nel senso dell’assoluto favor verso le energie rinnovabili in generale” (T.A.R. Puglia, Lecce, 9 febbraio 2023, n. 251, inwww.giustizia-amministrativa.it). Esiste poi una vastissima giurisprudenza, nel panorama nazionale, a conferma del chiaro favor manifestato dalla Comunità internazionale (e, soprattutto, europea) per le fonti energetiche sulla base degli impegni assunti con il Protocollo di Kyoto. A tal proposito, ex multis, si vedano: T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 3 luglio 2013, n. 1082, in Foro amm.-T.A.R., 2013, 2508 ss.; Corte cost., 11 ottobre 2012, n. 224, in Giur. cost., 2012, 3363 ss.; Cons. Stato, Sez. V, 10 settembre 2012, n. 4768, in Vita notarile, 2012, 1347 ss.;Corte cost., 12 aprile 2012, n. 85, in Giur. cost., 2012, 1180 ss., «la normativa internazionale (Protocollo di Kyoto addizionale alla Convenzione-quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, adottato l’11 dicembre 1997, ratificato e reso esecutivo con l. 1 giugno 2002 n. 120) e quella comunitaria (direttiva 27 settembre 2001 n. 2001/77/Ce e direttiva 23 aprile 2009 n. 2009/28/Ce) manifestano un favor per le fonti energetiche rinnovabili al fine di eliminare la dipendenza dai carburanti fossili»; nello stesso senso, T.A.R., Sardegna, Cagliari, Sez. I, 8 aprile 2011, n. 327, in Foro amm.-T.A.R., 2011, 1431 ss.. Più di recente, Corte Cost., 23 marzo 2021 n. 46, in Foro Amm. (Il), 2021, 10, 1405 ss., ove si legge il seguente principio di diritto: «Le fonti energetiche rinnovabili (FER), definite talvolta alternative, sono quelle forme di energia che per loro caratteristica intrinseca si rigenerano o non sono esauribili nella scala dei tempi “umani” e, per estensione, il cui utilizzo non pregiudica le risorse naturali per le generazioni future, e verso le quali sia la normativa internazionale (Protocollo di Kyoto e Statuto dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili IRENA) che quella comunitaria manifestano un deciso favor, al fine di eliminare la dipendenza dai carburanti fossili, con conseguente esigenza di semplificazione dei relativi procedimenti autorizzatori. (Precedenti, sentenze n. 237 del 2020, n. 148 del 2019, n. 177 del 2018, n. 275 del 2012 e n. 85 del 2012)»; Id., 13 novembre 2020, n. 237, in Giur. Cost., 2020, 6, 2803 ss.; Id., 18 aprile 2019, n. 98, ivi, 2019, 2, 1072 ss..
La dottrina che sostiene la tesi del favor espresso nei confronti delle fonti energetiche rinnovabili è ampissima. Nella specie, tra i richiami più recenti, si rinvia a D. Bevilacqua, La dialettica tra la promozione delle fonti energetiche rinnovabili e la tutela di altri beni ambientali, in Giorn. dir. amm., 2024, 1, 125 ss..
La dimensione di un lavoro dignitoso
di Tiziana Orrù
Relazione di Tiziana Orrù alla Tavola Rotonda organizzata da Area D.G. a Firenze il 23.02.2024 sul tema: "Alla ricerca di una retribuzione adeguata: la contrattazione collettiva alla prova dell’art. 36 della Costituzione".
Sommario: 1. Introduzione - 2. Dignità del lavoro: valore e sviluppo nell’attuale scenario economico-sociale - 2.1. Il Salario minimo: la direttiva europea del 19 ottobre 2022 - 2.2. La proposta di legge del 4 luglio 2023 sul salario minimo e la successiva legge delega - 2.3. La relazione del CNEL - 2.4. Il lavoro povero - 3. Alla ricerca di una retribuzione adeguata - 3.1 L’individuazione dei parametri di commisurazione del giusto salario minimo costituzionale: Il quadro giurisprudenziale antecedente - 3.2. Il giudizio di congruità della retribuzione - 3.3. Gli specifici parametri di raffronto - 3.3.1. I parametri collettivi - 3.3.2. I parametri economici e statistici - 3.4. L’adeguamento della retribuzione al salario minimo costituzionale.
1. Introduzione
Il lavoro dignitoso è un concetto universale che si applica a qualsiasi categoria di lavoratori e pone in luce il ruolo chiave dell’occupazione, con la sua dimensione quantitativa (posti di lavoro creati) e qualitativa (condizioni di lavoro), nella determinazione delle condizioni di esistenza degli individui e nella lotta alla povertà e alla disuguaglianza.
La tutela di un lavoro dignitoso, caratterizzato da un’equa retribuzione, dalla sicurezza nei luoghi di lavoro e dalla protezione sociale, è di fondamentale importanza non solo per i paesi in via di sviluppo ma anche per le economie industrializzate.
Il lavoro non è una merce e non può essere considerato semplicemente un costo di produzione. Il lavoro è una fonte di dignità e di benessere personale e familiare, è sorgente di autostima e di soddisfazione.
Ma non sempre i nostri lavori sono pieni di significato e di opportunità di crescita. Ci sono lavori indegni che rubano senso e dignità alle persone.
Troppo spesso il lavoro viene inteso unicamente come una necessità economica, come uno strumento per ottenere un reddito, ma il lavoro è molto di più.
Il lavoro è soprattutto l’ambito in cui la persona esprime la propria personalità, sperimenta la propria creatività, sviluppa i legami sociali.
La persona che non ha un “lavoro dignitoso” ha un lavoro “povero”, che è concetto più ampio rispetto allo stato di bisogno e/o di deprivazione materiale.
Un lavoro può essere “povero” per via di un salario troppo basso per la sussistenza del lavoratore e della sua famiglia oppure perché soffre di deprivazione non economica. Esiste, infatti, la povertà non di tipo economico: la solitudine, la mancanza di relazioni interpersonali, la bassa qualità della convivenza collettiva, la povertà culturale, la povertà spirituale ecc.
La povertà è un problema democratico che non si risolve senza cultura dei diritti, quegli stessi diritti garantiti dall’art. 23 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dall’art. 2 della Costituzione – per i quali la dignità del lavoro e del lavoratore è un diritto fondamentale- dall’art. 36, comma 1 Cost. – che individua in una esistenza libera e dignitosa il contenuto minimo essenziale dei diritti del lavoratore e della sua famiglia – dall’art. 41, comma 2 Cost. che pone la dignità umana come limite alla libertà di iniziativa economica privata.
È lecito quindi affermare che lavoro e dignità costituiscono il binomio sul quale si basa il nostro assetto costituzionale.
Nelle considerazioni che seguono cercherò di sviluppare alcune riflessioni circa il significato e i risvolti pratici della dignità del lavoro nell’attuale scenario economico-sociale a cominciare dall’accordo sul salario minimo appena raggiunto a livello europeo e dal significato di “lavoro povero”, per concludere con l’analisi dei recenti approdi giurisprudenziali in tema di retribuzione “adeguata” e dei rapporti con la contrattazione collettiva.
2. Dignità del lavoro: valore e sviluppo nell’attuale scenario economico-sociale
2.1. Il Salario minimo: la direttiva europea del 19 ottobre 2022
La tematica del salario minimo riveste importanza centrale, soprattutto a seguito dell’approvazione della Direttiva 2022/2041 UE del 19 ottobre del 2022, con cui sono stati delineati principi, quali la necessità di garantire al lavoratore un trattamento retributivo adeguato, che devono orientare l’interprete.
In Europa il salario minimo legale è stabilito nella maggioranza dei Paesi tranne che in Danimarca, Finlandia, Svezia, Austria e Italia; l’ultimo Paese che ha introdotto il salario minimo legale è stata la Germania nel 2015 che ha previsto nell’ottobre del 2022 la retribuzione oraria minima in 12 euro l’ora.
La Direttiva prevede che gli Stati membri dovranno recepirne i principi ed il contenuto entro il 15 novembre 2024, con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’Unione, in particolare l’adeguatezza dei salari minimi per i lavoratori al fine di contribuire alla convergenza sociale verso l’alto e alla riduzione delle diseguaglianze retributive.
Nella Direttiva viene ricordato tra l’altro, che “Il capo II del pilastro europeo dei diritti sociali («pilastro»), proclamato a Göteborg il 17 novembre 2017, stabilisce una serie di principi che fungono da guida per garantire condizioni di lavoro eque. Il principio 6 del pilastro ribadisce il diritto dei lavoratori a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso. Secondo tale principio devono inoltre essere garantiti salari minimi adeguati che soddisfino i bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l’accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro. Il principio ricorda infine che la povertà lavorativa deve essere prevenuta e che tutti i salari devono essere fissati in maniera trasparente e prevedibile, conformemente alle prassi nazionali e nel rispetto dell’autonomia delle parti sociali”.
Con l’adozione della Direttiva, le istituzioni dell’UE hanno inoltre ricordato che non tutti i lavoratori dell’Unione ricevono una tutela efficace quanto al salario minimo, e le conseguenze di questa lacuna ricadono soprattutto sulle donne, sui lavoratori giovani, sui lavoratori scarsamente qualificati, sui lavoratori migranti, sui genitori soli o sui lavoratori part time o a tempo.
Nel capo II, all’art. 5, viene così disposto: “Gli Stati membri in cui sono previsti salari minimi legali istituiscono le necessarie procedure per la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali. Tale determinazione e aggiornamento sono basati su criteri stabiliti per contribuire alla loro adeguatezza, al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso, ridurre la povertà lavorativa, promuovere la coesione sociale e una convergenza sociale verso l’alto e ridurre il divario retributivo di genere”.
La Direttiva ribadisce, infine, il ruolo dell’autonomia collettiva in tema di salario minimo: gli Stati che presentano una copertura della contrattazione collettiva pari all’80% non hanno l’obbligo di introdurre il salario minimo mediante una legge.
Nella Direttiva, dunque, non è contenuto l’obbligo per gli Stati membri di prevedere un salario minimo legale, ma l’invito ad attuare misure che contribuiscano a rendere effettiva la riduzione del divario sociale.
In Italia ad esempio l’attribuzione di efficacia erga omnes ai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative costituirebbe certamente un punto di partenza efficace per orientare la discussione sul salario minimo.
La maggioranza parlamentare attuale, al contrario ha affrontato le questioni del lavoro in tutt’altra prospettiva.
2.2. La proposta di legge del 4 luglio 2023 sul salario minimo e la successiva legge delega
Il 4 luglio 2023 è stata presentata alla Camera la proposta di legge n° 1275 per l’istituzione anche in Italia del salario minimo firmata da PD e M5S.
Dalla relazione che accompagna la proposta si evince che la quota di lavoratori poveri definiti con riferimento al reddito di lavoro annuo netto risulta, nel 2017, pari al 16,5 per cento tra gli uomini e al 27,8 per cento tra le donne, collocandosi in totale al 22,2 per cento, in forte crescita dal 17,7 per cento del 2006. Si evidenzia inoltre che il rischio di bassa retribuzione risulta elevatissimo, pari al 53,5 per cento, tra chi nel corso di un anno lavora prevalentemente a tempo parziale.
Viene inoltre sottolineato che “Per quanto attiene ai lavoratori subordinati, ciò è quanto emerge dall’ultimo rapporto annuale dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) che, ipotizzando la regolazione per legge di diversi importi di salario minimo, individua: 2.596.201 lavoratori «sotto soglia», se si considera un salario minimo tabellare con importo minimo pari a 8 euro all’ora, e 2.840.893 lavoratori «sotto soglia», se si includono nella nozione di salario minimo anche le mensilità aggiuntive e il salario minimo viene fissato a 9 euro”.
Dalla lettura della proposta emerge inoltre chiaramente come l’introduzione del salario minimo non è certo volta a depotenziare la contrattazione collettiva, in quanto “l’attuale assetto della contrattazione collettiva necessita di essere sostenuto e promosso dall’ordinamento statuale al fine di garantire a tutti i lavoratori in Italia l’applicazione di trattamenti retributivi dignitosi”.
All’art. 2 della proposta viene dunque stabilito che il trattamento economico minimo orario stabilito dal CCNL non può essere comunque inferiore a 9 euro lordi. La soglia si applicherebbe soltanto alle clausole relative ai cosiddetti “minimi”, lasciando al contratto collettivo la regolazione delle altre voci retributive.
Conformemente a quanto previsto anche nella Direttiva (UE) 2022/2041 è prevista inoltre la garanzia dell’ultrattività dei contratti scaduti o disdettati.
Sul tema il dibattito è stato molto ampio con posizioni favorevoli e contrarie abbastanza trasversali tra maggioranza, opposizioni e parti sociali.
All’esito dell’esame delle Commissioni, il 6 dicembre 2023 l'aula di Montecitorio ha votato a maggioranza la delega al Governo in materia di protezione dei lavoratori che sostituisce l'art. 1 della proposta di legge n. 1275 del 4 luglio 2023.
Si tratta di un testo radicalmente modificato che di fatto svuota la proposta iniziale con la finalità di: a) assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi; b) contrastare il lavoro sottopagato; c) stimolare il rinnovo dei contratti collettivi; d) contrastare i fenomeni di concorrenza sleale attuati mediante la proliferazione di sistemi contrattuali finalizzati alla riduzione del costo del lavoro e delle tutele dei lavoratori (cosiddetto “dumping contrattuale”).
Come si evince dal testo, nell’esercizio della delega, il Governo è tenuto ad attenersi ad una serie di principi e criteri direttivi, primo fra tutti “definire, per ciascuna categoria, i contratti collettivi più applicati, al fine di prevedere che il trattamento economico complessivo minimo del contratto maggiormente applicato costituisca la condizione economica minima da riconoscersi ai lavoratori appartenenti alla medesima categoria”;
In sostanza la previsione di un salario minimo legale è sostituita dalle condizioni economiche dei contratti collettivi “maggiormente applicati” per una data categoria che in ipotesi potrebbero anche prevedere condizioni economiche che non garantiscono una retribuzione dignitosa.
Analoga previsione è indicata nella materia degli appalti ove deve essere posto un obbligo in capo alle società appaltatrici e subappaltatrici di prevedere trattamenti economici minimi per i lavoratori non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali.
Per i lavoratori non contrattualizzati a livello collettivo la previsione è di “estendere i trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi, applicando il contratto della categoria più affine”.
2.3. La relazione del CNEL
Al dibattito parlamentare approdato nella delega al Governo del 6 dicembre 2023 hanno senz’altro contribuito in maniera preminente le osservazioni conclusive in materia di salario minimo elaborate dal CNEL nella relazione del 7 Ottobre 2023.
Le osservazioni conclusive hanno, tra l’altro, posto in rilievo che le rilevazioni sui principali contratti collettivi dimostrano che la tariffa legale di 9 euro lordi prevista dalla proposta di legge è addirittura inferiore alle tariffe orarie minime di tutti i contratti collettivi, sottoscritti dalle confederazioni presenti al CNEL, se letti non fermandosi alla paga base, e questo anche senza tenere conto del trattamento economico complessivo grazie alle prestazioni di welfare aziendale.
Il focus del documento è dato dal punto 2, dedicato alle proposte al Governo in relazione alla prossima legge di Bilancio e al provvedimento denominato "collegato lavoro" e consistono:
2.4. Il lavoro povero
Come ben si evince dai rilievi del CNEL, la povertà del lavoro in Italia non sarebbe legata ai salari bassi e per tale motivo l’introduzione del salario minimo non avrebbe un forte impatto sociale.
La questa considerazione è stata contraddetta, nei fatti, da alcuni casi giurisprudenziali di recente sottoposti all’esame della Corte di Cassazione, giunta a conclusioni diametralmente opposte.
Tuttavia, la relazione del CNEL ha il pregio di avere messo in rilievo il fenomeno del lavoro povero legato alla precarietà dell’impiego.
L’ XXII Rapporto annuale INPS ha sottolineato che i lavoratori poveri in Italia sono tali soprattutto perché precari. Il disagio economico non dipende perciò solo dallo stipendio basso ma soprattutto dalle condizioni di lavoro.
L’Istituto ha focalizzato l’attenzione sui “working poors”, cioè i lavoratori con retribuzione inferiore al 60% del valore mediano degli stipendi nazionali.
I lavoratori dunque, sono detti “poveri” se hanno una retribuzione giornaliera lorda di:
• 24,9 euro per i part time, pari a 588 euro al mese;
• 48,3 euro per i full time, pari a 1.116 euro netti mensili.
I lavoratori poveri in Italia sono pari al 6,3%, ovvero a 871.800 unità.
Secondo i dati INPS, che tiene fuori dal calcolo il lavoro agricolo e quello domestico, di tali lavoratori poveri –– 355.000 sono a tempo pieno e 517.000 a part-time.
Secondo le rilevazioni ISTAT, i lavoratori precari sono risultati circa 3 milioni (2.919.000) a luglio 2023.
Per valutare quante persone guadagnano troppo poco per vivere si dovrebbe quindi tener conto del reddito annuo e non prendere come riferimento il salario orario in quanto in Italia ci sono interi settori produttivi interamente basati sul part time e sul precariato come ad esempio il turismo, l’edilizia, i servizi.
Se quindi è vero che il lavoro povero dipende sia dai bassi salari sia dalle poche ore di lavoro (effetto del frequentissimo part time involontario) guardare solo ai salari orari è miope ed impedisce di mettere a fuoco la vera dimensione del fenomeno.
Da quanto detto emerge senza dubbio che il tema del un salario adeguato è complesso ed articolato e non può in alcun modo prescindere da uno sguardo d’insieme sul mercato del lavoro concentrando l’attenzione sui mezzi per contrastare la precarietà e l’utilizzo sempre maggiore di contratti non standard, e sul tema relativo al potere d’acquisto dei salari, inadeguato a contrastare i fenomeni inflattivi.
Tuttavia, in questi ultimi anni i provvedimenti del governo Meloni in tema di lavoro vanno in tutt’altra direzione: il DL n. 43 del 4 maggio 2023 (noto come decreto lavoro) non porta con sé alcuna forma di contrasto al lavoro precario, anzi: si estende l’uso dei voucher ad alcuni settori e si introduce per i contratti a termine l’ipotesi di una causale individuale.
3. Alla ricerca di una retribuzione adeguata
In dottrina è stato acutamente evidenziato che l’art. 36 Cost. disvela il superamento dell’usuale principio di corrispettività tra le prestazioni tipiche del contratto di lavoro (sulla base del quale vi sarebbe, altrimenti, semplicemente la stretta corrispondenza tra lavoro e retribuzione). In virtù dell’art. 36 Cost. tra le ragioni di scambio è, quindi, ricompresa anche la tutela della personalità del lavoratore.
È stato anche puntualizzato che l’art. 36 Cost., nell’integrare in senso sociale la proporzionalità tramite la sufficienza, evidenzia la sua connessione funzionale con l’art. 3, comma 2, Cost. tendendo a rimuovere uno di quegli ostacoli di ordine economico che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Le ultime sentenze della Corte di Cassazione (cfr. per tutte Cass. 02.10.2023 n° 27722) hanno messo in discussione il ruolo di “autorità salariale” del contratto collettivo stipulato dalle OO.SS. maggiormente rappresentative che da sempre era riconosciuto come fonte privilegiata per la definizione della retribuzione minima.
In sintesi, il livello retributivo minimo fissato dalle parti sociali può essere disatteso in sede giudiziaria, qualora, in concreto, non risulti conforme ai parametri di proporzionalità e sufficienza indicati dall’art. 36 della Costituzione.
La Corte di Cassazione, in sostanza, legittima il potere giudiziario a sindacare nel merito la retribuzione fissata dalle parti collettive e contestualmente lancia un monito al legislatore stabilendo che anche ove fosse approvata una legge sul salario minimo, questo non potrebbe comunque sottrarsi alla verifica giudiziaria circa la conformità ai parametri costituzionali.
L’orientamento della sezione Lavoro della Corte di Cassazione è condiviso anche dalla sezione Penale chiamata a pronunciarsi sulla fattispecie di reato di cui all’art. 603 bis c.p. in tema di sfruttamento del lavoro.
In proposto la recentissima sentenza n° 2573/2024 del 22.01.2024 (relatore Giordano) ove è affermato che: la proporzione tra l'obbligazione retributiva e la qualità e quantità del lavoro prestato, quale limite costituzionale volto a garantire equità e dignità, deve essere mantenuta anche quale metro della difformità e deve prevalere "comunque" anche su una contrattazione collettiva che ipoteticamente non l'abbia rispettata. L'autonomia delle parti sociali non può infatti derogare al principio della retribuzione quale soglia minima di dignità umana e sociale, personale e familiare, espressione degli artt. 2,3,4,36 e 41 Cost.
In breve, non v'è proporzione tra retribuzione e lavoro prestato quando, tenendo conto delle variabili mansionali, dell'effettiva prestazione patrimoniale, comprensiva della paga base e delle eventuali indennità, sviluppato un calcolo per un arco di tempo quotidiano, settimanale o mensile, considerato dalla contrattazione o dagli usi, l'importo del corrispettivo non assicurerebbe al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera dal bisogno che lo ha costretto ad accettare quelle date condizioni di lavoro. Tale deve considerarsi una retribuzione al di sotto della soglia di povertà assoluta pur sempre in presenza dell'approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore. Tale sproporzione nel caso concreto non va colta, come invece prospetta la difesa dei ricorrenti, con un semplice raffronto tra la somma oggetto di effettiva retribuzione e quella astrattamente prevista dal contratto collettivo di lavoro, ma tra la quantità e qualità del lavoro prestato e quindi tenendo conto dell'attività, delle complessive condizioni di lavoro, e della determinazione delle ore di lavoro prestate rispetto a quanto previsto contrattualmente. Il riferimento per gli operai agricoli non solo al CCNL ma anche a quello provinciale, nella fattispecie di Trapani.
Al riguardo basti osservare che nel caso concreto il confronto non può risolversi tra la somma dei 45 euro netti effettivamente riconosciuti ai quattro lavoratori e la somma di 51 euro netti astrattamente previsti perché si tratta di due somme risultanti da una quantificazione oraria notevolmente diversa: nel caso concreto si riferisce alla somma prodotta da una attività lavorativa di almeno 9 ore al giorno, in condizioni indegne e particolarmente faticose, a fronte invece di una somma contrattualmente riconosciuta per poco più di sei ore al giorno, per cinque giorni a settimana, con tutele, pause, riposo, ferie etc, del tutto sconosciute nel rapporto di lavoro irregolare. La condizione di lavoro emergente dagli atti e ben più gravosa e non riducibile alla mera quantificazione oraria dell'attività lavorativa.
La contrattazione collettiva e le aziende sono perciò chiamate a confrontarsi, nella determinazione dei livelli retributivi minimi, con i parametri utili a verificare la coerenza con il minimo costituzionale costituente la soglia inderogabile sotto la quale una retribuzione diventa illegittima.
3.1. L’individuazione dei parametri di commisurazione del giusto salario minimo costituzionale: Il quadro giurisprudenziale antecedente
La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che il giudice ben può utilizzare, quali parametri di riferimento, non solo i contratti collettivi nazionali ma anche i contratti collettivi locali o aziendali e che legittimamente esercita la propria discrezionalità sia nell’esame del rispetto dei canoni di cui all’art. 36 Cost. sia nella stessa scelta dei parametri di commisurazione (in tal senso per tutte Cass. Civ. n. 19467/2007 e Cass. Civ. n. 944/2021).
Analogamente può discostarsi, in relazione al settore del lavoro nelle cooperative, dalla retribuzione determinata per legge poiché deve pur sempre prestarsi ossequio ai principi di cui all’art. 36 Cost. In ogni caso, la retribuzione corrisposta può essere reputata costituzionalmente inadeguata.
In tali casi il giudice può, quindi, far ricorso, sempre a fini parametrici, alla retribuzione stabilita da altri contratti collettivi o anche a risultanze non di natura collettiva quali la natura e le caratteristiche della concreta attività svolta, le nozioni di comune esperienza e anche criteri equitativi (per tutte Cass. Civ. n. 1415/2012 e Cass. Civ. n. 23925/2014).
La giurisprudenza costante ha inoltre sottolineato che la retribuzione prevista dal contratto collettivo è dotata di una presunzione soltanto semplice di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza (per tutte Cass. Civ. n. 12356/2020).
Una conseguenza del riconoscimento della suddetta presunzione semplice è l’onere del dipendente, oltre che di dimostrare le prestazioni lavorative rese e la paga ricevuta, di specificare le motivazioni che inducono a ritenere inadeguato il trattamento stabilito dalla fonte collettiva e praticato nei suoi confronti e cioè di prospettare i parametri di raffronto che, a suo dire, dimostrerebbero l’incongruità della retribuzione spettando poi al giudice l’effettivo riscontro del rispetto dell’art. 36 Cost.
In caso di mancata prospettazione, da parte del lavoratore, di tali differenti parametri di riferimento il trattamento collettivo deve quindi ritenersi adeguato.
In ultimo, nella giurisprudenza è acclarato che nel caso in cui la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore alla soglia minima stabilita dall’art. 36 Cost., la relativa clausola contrattuale debba essere reputata nulla e, in applicazione del principio di conservazione espresso nell’art. 1419, comma 2, c.c., il giudice debba adeguare la stessa retribuzione secondo i criteri di sufficienza e proporzione e con valutazione discrezionale. (per tutte Cass. Civ. n. 944/2021).
3.2. Il giudizio di congruità della retribuzione
Il giudizio di congruità della retribuzione prevede due fasi logiche: la prima è quella della verifica dell’effettiva rispondenza all’art. 36 Cost. del salario corrisposto, la seconda è quella dell’adeguamento ai precetti dell’art. 36 Cost. della retribuzione che sia stata riscontrata come effettivamente ingiusta.
Con riferimento alla prima fase la giurisprudenza di legittimità non è stata finora prodiga di indicazioni sul come utilizzare i parametri di riferimento e, comunque, sul quando un trattamento retributivo (anche conforme ad un contratto collettivo) possa essere ritenuto concretamente violativo dell’art. 36 Cost.
La novità delle sentenze in commento consiste appunto nell’aver fornito all’interprete alcuni utili riferimenti.
Innanzitutto, si sottolinea il richiamo al contenuto della Dir. UE 2022/2041 per evidenziare che il concetto di “sufficienza” significa che deve essere garantito il diritto del lavoratore ad una vita non solo non povera (cioè orientata solo al soddisfacimento di bisogni essenziali) ma, più propriamente, dignitosa. Perciò una retribuzione che si collochi al di sotto o anche sullo stesso piano dell’indice Istat di povertà assoluta non può mai essere reputata congrua.
Il raffronto tra retribuzione effettivamente corrisposta (con esclusione delle maggiorazioni per il lavoro straordinario svolto), da un lato, e l’indice di povertà, dall’altro lato, deve vertere su poste omogenee sicché in concreto deve valutarsi se l’importo netto della retribuzione corrisposta sia o no al di sopra dell’indice di povertà (che, appunto, rispecchia la capacità di acquisto di determinati beni).
Un ragionamento analogo a quello operato in relazione alla soglia di povertà potrebbe essere svolto anche laddove ci si trovi al cospetto di una retribuzione inferiore o pari all’importo della Naspi o della CIG, o del reddito di cittadinanza o inferiore o pari alla soglia di reddito personale per l’accesso alla pensione di inabilità civile.
La Corte ha, difatti, riscontrato l’inutilizzabilità di tali ultimi indicatori come parametri di riferimento sulla base di ragioni assimilabili a quelle appena illustrate circa la soglia di povertà (ha specificato, cioè, che tali indici denotano solo la disponibilità di somme minime utili a garantire al percettore una mera sopravvivenza).
3.3. Gli specifici parametri di raffronto
Il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini per mansioni analoghe o anche di indicatori economici e statistici.
3.3.1. I parametri collettivi
C. App. Milano n. 579/2022: “Il paragone con gli altri CCNL serve, pertanto, a valutare l’adeguatezza della retribuzione perché il fatto che i rappresentanti delle medesime organizzazioni sindacali, nell’ambito di vari altri contratti collettivi, abbiano stimato proporzionata alla stessa quantità e qualità della prestazione una retribuzione nettamente superiore, grava la retribuzione in questione della presunzione contraria (ovvero di non essere conforme all’art. 36 Cost)”
Dall’esame delle decisioni di merito sembra potersi ritenere che il giudice del merito possa utilizzare, quale parametro di commisurazione, il trattamento retributivo stabilito da contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe allorquando, confrontando questi contratti con il contratto collettivo di settore applicato, emerga che i primi stimino come proporzionata e sufficiente una retribuzione nettamente superiore a quella posta dal contratto collettivo di settore. (App. Milano n. 755/2023; App. Torino n. 640/2023; Trib. Bari n. 2720/2023; Trib. Parma n. 18/2023; Trib. Venezia n. 188/2021; Trib. Milano n. 225/2020; Trib. Torino n. 1128/2019).
In tutti questi casi il giudizio di non conformità ai parametri costituzionali del trattamento economico praticato (che sia stato conforme al contratto collettivo di settore) è reso in caso di significativa/non trascurabile divergenza tra quest’ultimo e gli altri addotti come parametri di riferimento.
3.3.2. I parametri economici e statistici
Le sentenze della Corte di Cassazione in commento hanno il merito di suggerire ulteriori strumenti per il giudizio di congruità richiamando nozioni di comune esperienza, valutazioni equitative e quindi indicatori economici e statistici come quelli menzionati dalla Dir. UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 (tra i quali il 60% del salario lordo mediano ed il 50% del salario lordo medio, anche ricavabili dai dati Uniemens gestiti dall’I.N.P.S.).
3.4. L’adeguamento della retribuzione al salario minimo costituzionale
Una volta verificata la insufficienza della retribuzione concretamente corrisposta, si deve procedere alla determinazione del quantum del salario costituzionale.
In questa seconda operazione la giurisprudenza di merito utilizza, al fine dell’adeguamento, il contratto collettivo-parametro statuente il trattamento retributivo più basso (limitando il riconoscimento alle sole componenti retributive integranti il c.d. “minimo costituzionale”) o statuente il trattamento retributivo mediano.
Se è, quindi, frequente e legittimo il ricorso a parametri anche di natura non contrattuale nella verifica della effettiva rispondenza della retribuzione corrisposta all’art. 36 Cost., una volta che si sia riscontrato il mancato rispetto di tale precetto, l’adeguamento è pur sempre svolto facendo esclusiva applicazione della contrattazione collettiva (seppure, ovviamente, diversa).
L’allontanamento dalla contrattazione collettiva nella valutazione ai sensi dell’art. 36 Cost. è, quindi, solo parziale in quanto il giudice farà pur sempre applicazione della regolamentazione economica collettiva (diversa rispetto a quella eventualmente applicata) nel momento in cui procederà all’adeguamento.
(Immagine: Telemaco Signorini, L’alzaia, 1864, olio su tela, cm 54 x 173, Collezione privata)
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