Sulla natura giurisdizionale del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. L‘Adunanza Plenaria si pronuncia sulla violazione del principio di alternatività (nota a Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 7 maggio 2024, n. 11).
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il thema decidendum. – 2. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria. – 3. Sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: tra funzione giustiziale e forma provvedimentale. –– 4. Lo statuto della nullità dei provvedimenti amministrativi.
1. Premessa: i fatti di causa e il thema decidendum.
Con la sentenza n. 11 del 2024, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata in ordine alla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e al regime del decreto decisorio del Presidente della Repubblica reso erroneamente su ricorso straordinario ormai trasposto in sede giurisdizionale.
La vicenda da cui trae origine la questione sorge da un mancato coordinamento tra la decisione resa in sede giurisdizionale, a seguito di rituale trasposizione, ed il parallelo procedimento proseguito ai sensi degli artt. 8 ss. d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 e culminato con l’erronea emanazione del decreto decisorio.
In particolare, la vicenda contenziosa nasce dalla realizzazione, senza alcun previo titolo abilitativo, di un manufatto abusivo per il quale veniva poi presentata istanza di condono, cui il Comune rispondeva con un diniego; il diniego di condono veniva impugnato con un primo ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, trasposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria pronunciatosi con sentenza di rigetto, confermata in appello dal Consiglio di Stato.
Nel frattempo, il Comune adottava una prima ordinanza di demolizione dell’opera realizzata in assenza di titolo autorizzativo. Avverso tale ordinanza (n. 754/2006) il privato cittadino artefice del manufatto abusivo proponeva ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, trasposto in sede giurisdizionale dinnanzi al medesimo Tar[1].
Nelle more del giudizio da ultimo indicato, il Comune ingiungeva nuovamente la demolizione con una nuova ordinanza (n. 43/2008, ripetitiva della precedente n. 754/2006) impugnata innanzi al Tar[2], che respingeva la domanda[3].
Nonostante la rituale trasposizione in sede giurisdizionale del giudizio avente ad oggetto la prima ordinanza di demolizione, il 18 novembre 2020 veniva erroneamente emesso il decreto del Presidente della Repubblica con il quale veniva accolto il ricorso straordinario proposto avverso l’ingiunzione n. 754/2006.
Successivamente, in senso opposto interveniva la sentenza a definizione del giudizio (n.r.g. 1240 del 2006) relativo allo stesso ordine di demolizione n. 754/2006 con la quale il Tar, respingendo il ricorso, rilevava che “il decreto presidenziale […] è intervenuto dopo la rituale trasposizione del contenzioso innanzi a questo giudice, in cui si era radicata definitivamente la giurisdizione e, pertanto, esso non preclude una decisione sul merito nel presente giudizio”.
I giudici amministrativi, dunque, precisavano immediatamente come il radicamento della propria giurisdizione non potesse essere intaccato dall’emanazione del decreto del Presidente della Repubblica, essendo questo intervenuto solo dopo la rituale trasposizione del contenzioso in sede giurisdizionale.
Ciò nonostante, il privato cittadino appellava la predetta sentenza sulla scorta di tre motivi, tra cui l’asserita elusione del decreto del Presidente della Repubblica del 18 novembre 2010. L’appellante, muovendo dall’assunto della “natura sostanzialmente giurisdizionale” del ricorso straordinario “e dell’atto terminale della relativa procedura”, sosteneva l’impossibilità per il giudice di disattendere il parere recepito nel decreto presidenziale, pena la violazione della regola dell’alternatività tra i due mezzi di gravame espressa dall’art. 8 d.P.R. n. 1199/1971, sulla base di un’asserita lapalissiana influenza del decreto sul processo di convincimento del giudice.
In altri termini, la decisione contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica viene tratteggiata dal ricorrente come cosa giudicata.
A fronte del ricorso presentatole, la Sezione VI del Consiglio di Stato osservava come la controversia ponesse la questione inedita del rapporto esistente tra la decisione resa su un ricorso straordinario, nonostante il giudizio fosse stato ritualmente trasposto, e la sentenza adottata in sede giurisdizionale, nel caso in cui le due pronunce abbiano avuto esiti contrastanti.
La soluzione che l’Adunanza Plenaria è chiamata a fornire attiene, sì, al regime del decreto decisorio reso all’esito del ricorso straordinario, ma prima ancora alla natura stessa di tale strumento, questione strettamente funzionale alla risoluzione del quesito se la pronuncia resa sul ricorso straordinario sia idonea a passare in giudicato in una maniera assimilabile alla sentenza pronunciata dal giudice amministrativo.
La Sezione rimettente, infatti, ritiene sussistenti ancora profili di incertezza circa la natura del ricorso straordinario e la portata del principio di alternatività enunciati dall’art 8 d.P.R. n. 1199/1971, pertanto – affermando di propendere per la tesi della nullità sul rilievo della natura soggettivamente amministrativa della decisione che definisce il ricorso straordinario, con conseguente applicabilità delle norme che regolano le invalidità del provvedimento amministrativo – ha rimesso all’esame dell’Adunanza Plenaria il quesito volto a chiarire quale sia “il regime giuridico del decreto decisorio del Presidente della Repubblica reso erroneamente su ricorso straordinario ormai trasposto, ossia: se ad esso sia o non sia riferibile l’insegnamento consolidatosi che considera la decisione di un ricorso straordinario non trasposto avente valore di cosa giudicata e, nel caso in cui tale decreto decisorio del Presidente della Repubblica non abbia valore di cosa giudicata, se debba essere considerato nullo ai sensi dell’art. 21 septies della legge 241 del 1990 perché reso in astratta e totale carenza di potere per violazione del principio di alternatività dei rimedi”
2. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
L’Adunanza Plenaria, con la sentenza in commento, ha preso posizione netta sulla natura del ricorso straordinario, ponendosi in aperto contrasto con la tendenza, sempre maggiormente consolidata in seno a una parte della giurisprudenza[4], a riconoscere una sorta di progressiva “giurisdizionalizzazione”[5] del ricorso straordinario, che avrebbe una natura “formalmente amministrativa, ma sostanzialmente giurisdizionale”[6] .
I principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria[7] sono, infatti, i seguenti: “Il ricorso straordinario è un rimedio giustiziale alternativo a quello giurisdizionale, di cui condivide soltanto alcuni profili strutturali e funzionali. La decisione resa su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, sebbene il giudizio fosse stato ritualmente trasposto in sede giurisdizionale, è nulla ai sensi dell’art. 21 septies del c.p.a., in quanto emanata in difetto assoluto di attribuzione”.
Per giustificare tali conclusioni, i giudici affermano come l’individuazione della regola atta a dirimere il contrasto pratico loro sottoposto sia dipesa dalla qualificazione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e dal regime giuridico conseguentemente applicabile al decreto decisorio.
Attraverso un ineccepibile percorso argomentativo, di cui si dirà diffusamente a breve, volto a ribadire la tesi tradizionale della natura amministrativa, o meglio, giustiziale del rimedio, l’Adunanza Plenaria, avendo dato atto dei due orientamenti contrapposti sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e delle relative conseguenze del regime giuridico applicabile al decreto decisorio reso all’esito del procedimento, attraversa la storia dell’istituto ripercorrendo l’accidentato percorso normativo e giurisprudenziale che lo ha caratterizzato, per poi approdare al dibattito più recente, raffrontando la compatibilità dei diversi orientamenti contrapposti con il quadro normativo esistente.
Svolta tale approfondita ricostruzione, il Supremo Consesso Amministrativo ha ravvisato la necessità di affinare ulteriormente il quadro concettuale e ricostruttivo, a partire da un’imprescindibile indagine sulla portata della nozione di giurisdizione (e non sovrapponibilità della stessa con la nozione di giudice) e di cosa giudicata, senza tralasciare la ratio della regola dell’alternatività di cui all’art. 8 del d.P.R. n. 1199/1971 per poi tracciare, una volta data adesione alla teoria giustiziale, il regime giuridico dell’atto conclusivo che rappresenta un provvedimento amministrativo a tutti gli effetti e come tale trova la propria disciplina, nelle norme sull’invalidità amministrativa.
3. Sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: tra funzione giustiziale e forma provvedimentale.
Il punto di partenza da cui muove l’Adunanza Plenaria, su cui si spende gran parte della pronuncia, attiene alla qualificazione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Vengono immediatamente prospettate, in apertura della parte in diritto, le due letture[8] attorno alle quali si è polarizzato il dibattito sulla natura del rimedio in esame.
Da una parte la tesi tradizionale[9] – fondata originariamente sulla natura amministrativa dell’organo promanante la decisione, sulla natura obbligatoria ma non vincolante del parere del Consiglio di Stato[10], sull’inidoneità delle decisioni del Presidente della Repubblica a passare in giudicato, e sull’impossibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale e di effettuare rinvio pregiudiziale[11], nonché sul principio di alternatività – vede nel ricorso straordinario un rimedio di natura amministrativa[12].
Dall’altra, la tesi della natura “sostanzialmente giurisdizionale”[13] trova sostegno negli indici della presenza del parere del Consiglio di Stato, nello stesso principio di alternatività che starebbe a dimostrare l’equiordinazione rispetto al rimedio giurisdizionale, nella tendenziale immutabilità delle decisioni rese su ricorso straordinario, nella possibilità di esperire il rimedio della revocazione[14] e nel principio del contraddittorio, accentuato nell’ambito del ricorso straordinario.
Diverse sono le conseguenze che discendono sul piano pratico, per la questione sottoposta al vaglio dell’Adunanza, a seconda che si sposi l’una o l’altra teoria.
Seguendo l’impostazione tradizionale, la fattispecie andrebbe sussunta sotto le norme che disciplinano l’invalidità dell’atto amministrativo (segnatamente, la nullità per difetto di attribuzione) che in quanto tale sarebbe privo della forza e del valore giuridico per imporsi o condizionare l’accertamento giurisdizionale.
La tesi che invece configura il ricorso straordinario come sostanzialmente giurisdizionale dovrebbe comportare una soluzione diametralmente opposta: la pronuncia sul ricorso straordinario, in maniera non dissimile alla sentenza del giudice amministrativo, sarebbe idonea a passare in giudicato con una serie di conseguenze: la violazione della norma sull’alternatività tra sede straordinaria e giurisdizionale si tradurrebbe in un vizio del decreto che, in applicazione del principio generale della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, andrebbe fatto valere tramite il mezzo di impugnazione previsto dalla legge (nel caso di specie quello di cui all’art. 10 comma 3 del d.P.R. n. 1199/1971), risultando altrimenti sanato; il mezzo attraverso il quale dovrebbe essere rilevata l’esistenza di un precedente decreto decisorio (equiparato alla sentenza) ormai “stabile”, sarebbe l’eccezione di cosa giudicata; solo ove non fosse rilevata l’eccezione di cosa giudicata o proposta revocazione avverso la seconda sentenza[15] si determinerebbe, in caso di difformità tra le due pronunce, un contrasto tra giudicati in cui sarebbe l’ultimo giudicato a prevalere sul precedente.
Al fine di dimostrare la fondatezza della tesi tradizionale, la sentenza in commento, tralasciando la trattazione sull’origine storica dell’istituto[16], ripercorre il dibattito che lo ha caratterizzato.
Sino al 2009, l’orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza amministrativa intendeva il ricorso straordinario come un rimedio contenzioso di natura amministrativa. In quest’ottica non vi era spazio per il riconoscimento, in capo alle sezioni consultive del Consiglio di Stato, della legittimazione a sollevare l’incidente di costituzionalità né della proponibilità del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione delle decisioni rese su ricorso straordinario o della loro ricorribilità per motivi di giurisdizione.
La discussione sulla natura del rimedio venne rivitalizzata dall’entrata in vigore della l. 69/2009 che, all’art. 69, ha modificato l’art. 13 d.P.R. n. 1199/1971 prevedendo che la Sezione consultiva “se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l’espressione del parere e ordina alla segreteria l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale” nonché l’art. 14 del medesimo d.P.R., eliminando la potestà del Governo di deliberare in senso difforme rispetto al parere espresso dal Consiglio di Stato. A fronte anche delle ulteriori innovazioni introdotte dal codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104[17], a seguito del riconoscimento da parte della Corte di Cassazione di una serie di rimedi che spostavano l’asse del rimedio verso la natura giurisdizionale, quali l’ammissibilità dell’azione di ottemperanza per l’esecuzione dei decreti resi su ricorsi straordinari[18], nonché la loro impugnabilità per motivi inerenti alla giurisdizione[19], la giurisprudenza di legittimità ha sempre più mostrato la propria propensione a riconoscere nel decreto presidenziale un’estrinsecazione sostanziale della funzione giudiziaria.
Diverso è, invece, il tenore delle pronunce della Corte Costituzionale[20] e del Consiglio di Stato che hanno, seppur quest’ultimo in maniera altalenante, negato la piena coincidenza dei due rimedi, per quanto possano dirsi assimilabili sotto taluni profili[21], senza che però ne venga mutata la natura amministrativa.
Da tale ricostruzione emerge innegabilmente un quadro complesso. In più, ragionevolmente, i giudici della Plenaria evidenziano come le formule linguistiche che, prudentemente e con diverse sfumature, alludono ad un’assimilazione del rimedio straordinario a quello giurisdizionale non appaiono, tuttavia, esaustive sul piano definitorio; in altri termini, non viene mai chiarito come “l’asserita antinomia – o ambivalenza – tra forma (di atto amministrativo) e sostanza (di atto decisorio) possa incidere sulla collocazione sistematica e sul regime giuridico dell’istituto”[22]; l’interprete, in altre parole, si mostra spesso restio ad abbandonare quella prudenza che lo trattiene in una costante incertezza definitoria.
Il progressivo riconoscimento della natura giustiziale del ricorso straordinario ha spinto, pertanto, a ingenerare quasi un equivoco lessicale fondato sull’arbitraria sovrapposizione dei concetti di giustiziale e giurisdizionale. Tale equivoco è particolarmente evidente a fronte di un istituto giuridico quale quello del ricorso straordinario, residuato invero di un’altra epoca del nostro diritto, ma pervenuto sino a noi, ove la natura amministrativa del rimedio giustiziale si colloca oggi in evidente contrasto col sentimento di tutela del diritto di difesa ormai imprescindibile nelle ipotesi di tutela giurisdizionale. Da ciò l’esigenza degli interpreti di piegare il lessico normativo e, di conseguenza, la sostanza del rimedio, per il perseguimento di questo obiettivo[23].
Proprio a fronte di tale incertezza lessicale e inconcludenza sul piano definitorio, il Supremo Consesso ravvisa l’esigenza di affinare ulteriormente il quadro concettuale e ricostruttivo, a partire dalla nozione di “giurisdizione” che, sin da subito, viene differenziata dalla rappresentazione ideale della funzione di rendere giustizia, dovendosi invece definire come attributo di specifica e concreta attività statale da disciplinare. Vanno scartati i tentativi dottrinali di definizione della giurisdizione sulla base di aspetti di tipo contenutistico o sulla base del dato strutturale – ossia quello di essere l’accertamento dei giudici contrassegnato dal particolare regime di cosa giudicata – dovendosi optare per l’unica definizione attendibile, basata non sul dato ontologico quanto sull’aspetto soggettivo: “la giurisdizione è l’attività di accertamento e decisoria che l’ordinamento imputa ai giudici, come individuati dalle norme costituzionali sulla competenza (artt. 101, 102 e 103 Cost.)”[24].
Partendo da tale concetto di attività giurisdizionale, demandata all’autorità giudiziaria ordinaria e agli altri organi di giurisdizione contemplati dalla Costituzione, tra cui i Tribunali Amministrativi Regionali ed il Consiglio di Stato, l’Adunanza Plenaria dimostra, a partire dalla qualificazione normativa dell’istituto, come gli indici normativi depongano tutti nel senso della natura amministrativa del rimedio del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Il d.P.R. n. 1199/1971 configura espressamente il ricorso come rimedio amministrativo, anche il procedimento[25]illumina la natura non giurisdizionale del rimedio. Difettano, infatti, tutti gli elementi propri dell’attività giurisdizionale in quanto: normalmente non viene garantito il contraddittorio e il parere è espresso in seduta non pubblica nella quale non è ammessa discussione orale; il parere del Consiglio di Stato è un atto endoprocedimentale, che acquista valore fino a quando non viene emanato il decreto del Presidente della Repubblica; il decreto conclusivo è un atto ministeriale perché controfirmato dal Ministro, che ne assume responsabilità politica e giuridica; la decisione finale viene imputata allora allo Stato come persona giuridica e non all’organo giurisdizionale; emerge, infine, un’autonomia strutturale della decisione del Presidente della Repubblica e Ministro rispetto a quella del Consiglio di Stato in quanto gli eventuali vizi propri del segmento successivo al parere possono essere fatti valere ai sensi dell’10 comma 3 d.P.R. 1199/1971 e il fatto che il Presidente della Repubblica abbia la facoltà di richiedere il riesame del parere restituendo gli atti al Ministro competente, sostiene la teoria che la decisione finale non sia meramente dichiarativa di una pronuncia dell’organo giurisdizionale.
Significativa, in questa ricostruzione, è la caratteristica – richiamata a fondamento di entrambe le teorie sulla natura del ricorso straordinario – dell’alternatività del rimedio rispetto a quello giurisdizionale. In quest’ottica, l’argomento è richiamato a sostegno dell’eterogeneità dei due rimedi, che, pur presentando punti di contatto, hanno natura diversa; non a caso è prevista la possibilità di trasporre il ricorso in sede giurisdizionale, evidenziandosi in tal modo la diversità e complementarietà dei due, che danno vita ad un sistema integrato di tutela. L’art. 8 d.P.R. n. 1199/1971 subordina, infatti, l’ammissibilità del ricorso straordinario alla condizione che lo stesso interessato non abbia impugnato il medesimo atto con ricorso giurisdizionale; il ricorso straordinario diviene improcedibile qualora l’amministrazione o il controinteressato abbiano trasposto il giudizio in sede giurisdizionale (art. 10).
Lo stesso c.p.a. prende allora in considerazione il ricorso straordinario al solo fine di disciplinare gli effetti processuali della predetta trasposizione. La generalizzazione della facoltà di opposizione estesa a tutte le parti art. 48 comma 1 c.p.a.) si spiega per salvaguardarne il diritto di azione in sede giurisdizionale: la locuzione di cui all’art. 48 c.p.a. (secondo cui se l’opposizione è dichiarata inammissibile il tribunale dispone la restituzione del fascicolo “per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria”) è semplicemente un meccanismo di raccordo con il rimedio amministrativo conseguente all’accertata inidoneità dell’opposizione a comportare la trasposizione.
A spiegare la natura giustiziale del ricorso straordinario è la stessa ratio dell’opposizione, volta a garantire ai controinteressati e alle parti resistenti la piena libertà di adire la tutela giurisdizionale e non quella di scegliere tra due rimedi entrambi giurisdizionali[26]: la trasposizione esprime allora “un rapporto di complementarietà tra il mezzo giustiziale e quello giurisdizionale, entrambi parti di un sistema comunicante e integrato di tutela”[27].
Non può poi ignorarsi lo stesso art. 69 della legge n. 69/2009 che, rubricato “Rimedi giustiziali contro la pubblica amministrazione”, sottolinea esplicitamente l’intenzione legislativa di incrementare le garanzie di un rimedio giustiziale e non di certo di trasformarlo in mezzo di impugnazione giurisdizionale.
Il dato positivo è allora inequivoco e, poiché le norme processuali rinviano a una nozione formale di giurisdizione, le relative disposizioni non possono estendersi ad attività poste in essere da soggetti diversi dai giudici. Pur a fronte dell’indeterminatezza dei termini del linguaggio naturale, l’interpretazione non è mai un atto libero da vincoli e deve pur sempre muoversi, nell’attribuzione del significato, nel perimetro della volontà del legislatore. La nozione di rimedio “formalmente amministrativo, ma sostanzialmente giurisdizionale” non trova alcun riscontro nel dato normativo ed è priva di un effettivo significato.
Perciò l’Adunanza Plenaria nega la possibilità di riqualificare in via pretoria un intero istituto, ricollocando una classe di ipotesi da una sede normativa ad un’altra, in quanto tale operazione trascende il testo ed è destinata a creare ulteriori antinomie: affidare agli interpreti una tale discrezionalità significa esporsi ad esiti imprevedibili, fondati su criteri ondivaghi ed evanescenti[28].
Né si può dal contesto sovranazionale estrapolare una definizione autonoma di giurisdizione, distorcendo una definizione funzionale che, nell’elaborazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte di Strasburgo, ha semplicemente lo scopo di assicurare allo strumento del rinvio pregiudiziale la garanzia dell’“effettività” del diritto europeo, e certamente non di ampliare la nozione, inglobando un rimedio amministrativo nel sistema giurisdizionale[29].
La possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale o di effettuare il rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia non può essere assunta quale indice della natura giurisdizionale del rimedio in quanto le nozioni di giurisdizione, e ancor più quella di giudice[30], adottate a tal fine sono, dunque, più ampie rispetto a quelle delineate dal diritto interno e rispondono ad un diverso fine che ne giustifica la connotazione in senso sostanziale.
Su queste basi, l’Adunanza Plenaria, tira le fila della digressione, dettando[31] le proprie conclusioni:
- Il ricorso straordinario è un “rimedio giustiziale”, alternativo a quello giurisdizionale, con cui condivide solo alcuni tratti strutturali e funzionali;
- Il decreto presidenziale non è atto di amministrazione attiva, ma un atto “della” Amministrazione (formalmente imputato alla responsabilità dell’organo ministeriale), trattandosi di una “decisione” che definisce una controversia nell’ambito di un procedimento contenzioso in contraddittorio con le parti e avente carattere vincolato in ragione della sua funzione dichiarativa (in quanto espressione della volontà del diritto nel caso concreto). Tale natura puramente contenziosa distingue il ricorso straordinario dai ricorsi amministrativi, nell’ambito dei quali invece l’amministrazione può rivedere, nel proprio interesse, le precedenti determinazioni;
- L’esistenza della comune finalità di giustizia tra strumenti giurisdizionali e giustiziali giustifica la condivisione di alcune forme e garanzie, ma – per quanto l’amministrazione contenziosa esiga un modello che valorizzi l’indipendenza, l’imparzialità e l’autorevolezza del soggetto decidente, oltre che una specifica struttura del procedimento – l’incremento delle garanzie (il parere vincolante, la possibilità di sollevare la questione di legittimità costituzionale e l’esperibilità del ricorso per l’ottemperanza) non comporta l’assimilazione alla giurisdizione;
- Anche nel caso dell’amministrazione giustiziale vi sono ragioni, di utilità sociale e opportunità pratica, che inducono a introdurre un limite alla discutibilità di quanto statuito, tuttavia la stabilità della decisione amministrativa non impone di certo l’applicazione di tutte le specifiche norme processuali proprie del giudicato. La decisione resa su ricorso straordinario non può dunque configurare un giudicato in senso tecnico, senza che per questo venga privata delle comuni garanzie, prima fra tutte, l’ottemperanza, strutturata come garanzia ampia dell’adempimento dell’obbligo dell’amministrazione di conformarsi a decisioni immodificabili, anche non giurisprudenziali[32].
Proprio alla luce dell’impossibilità di qualificare la decisione amministrativa come cosa giudicata in senso tecnico, la Plenaria fa un ultimo passaggio mettendo in discussione anche quell’orientamento[33] che la ritiene impugnabile ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost.: la posizione favorevole al ricorso di cui all’art. 362 c.p.c., infatti, sembrerebbe collidere con l’art. 10 comma 3 d.P.R. n. 1199/1971, ove si prevede la possibilità di impugnare la decisione resa su ricorso straordinario davanti al giudice amministrativo: per le parti del giudizio, unicamente per vizi di forma o di procedimento; per il soggetto pregiudicato dalla decisione straordinaria, ma non evocato in sede straordinaria, anche per tutti altri possibili errori di giudizio della decisione[34].
Sicché sembrerebbe quantomeno asistematico fare discendere dalla (asserita) “ambivalenza” del ricorso straordinario finanche una divaricazione del regime delle impugnazioni: il giudizio amministrativo di legittimità con riguardo alla “forma amministrativa”; il ricorso per cassazione in ragione della “sostanza giurisdizionale”. Impugnazioni che, per giunta, sarebbero concorrenti tra di loro, mancando una qualsivoglia norma di coordinamento.
Ad opinione della Plenaria appare, quindi, preferibile ritenere che l’art. 7, comma 8, del c.p.a. – il quale ammette il ricorso straordinario “unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa” – contenga una norma che delimita l’ambito di applicazione del ricorso giustiziale, la cui violazione è censurabile in sede giurisdizionale (e nei vari gradi di giudizio) tramite l’impugnazione di cui al predetto art. 10, comma 3..
4. Lo statuto della nullità dei provvedimenti amministrativi.
Una volta sposata la teoria giustiziale, può finalmente completarsi il quadro delineando il regime giuridico dell’atto finale: inquadrata la decisione del Presidente della Repubblica come provvedimento amministrativo a tutti gli effetti, il regime giuridico non può che essere quello delineato dalla legge n. 241/1990.
Viene, dunque, scartata l’ipotesi del contrasto tra giudicati – corollario della tesi della natura giurisdizionale del ricorso straordinario – e affermato che il regime della decisione resa, per tutto quanto non previsto dal d.P.R. n. 1199/1971 e dalle pertinenti norme del c.p.a., è quello dettato dalle disposizioni in materia di procedimento amministrativo, segnatamente dalle norme sull’invalidità amministrativa.
I giudici di Palazzo Spada tracciano il regime del provvedimento nullo, evidenziandone tutta la distanza rispetto alla disciplina dell’invalidità in ambito negoziale.
L’art. 21 septies l. n. 241/1990, si legge, ha confermato le precedenti acquisizioni giurisprudenziali circa l’inserimento a pieno titolo della nullità nell’ambito dell’invalidità del provvedimento amministrativo, che diviene così una categoria composita e idonea a ricomprendere i diversi stati vizianti entro una cornice sistematica unitaria.
Tra i vizi che determinano la nullità, la norma contempla il difetto assoluto di attribuzione, il quale è il portato del principio di tipicità del potere amministrativo, a sua volta corollario del principio di legalità cui è soggetta l’attività amministrativa di diritto pubblico. Il difetto assoluto di attribuzione è ravvisabile nell’ipotesi in cui venga esercitato un potere non previsto né attribuito dall’ordinamento (cd. carenza di potere in astratto), nonché come conseguenza del divieto, da parte di un’Amministrazione, di esercitare un potere che, ancorché definito dall’ordinamento, sia attribuito ad una diversa Amministrazione (incompetenza assoluta) ovvero per il quale sussista un impedimento legale assoluto al suo esercizio (la categoria pretoria della carenza di potere in concreto, invece, rientra oramai nell’area dell’annullabilità).
La fattispecie de qua, ad opinione della Plenaria, ricade senza dubbio nell’ipotesi del difetto assoluto di attribuzione. L’intervenuta opposizione e la rituale riassunzione del giudizio in sede giurisdizionale spogliano, infatti, l’amministrazione del potere di definire la controversia (l’art. 10 d.P.R. n. 1199/1971, inibisce qualsiasi pronuncia, di rito e nel merito, sul ricorso straordinario che sia stato trasposto in sede giurisdizionale). Se ne desume che l’istruzione dell’affare da parte del Ministero competente, il parere del Consiglio di Stato ed il decreto stesso di definizione del ricorso, sono assolutamente preclusi dall’atto con il quale si opera la trasposizione del ricorso dalla sede straordinaria a quella giurisdizionale (salva l’ipotesi dettata dall’art. 10, comma 2, d.P.R. n. 1199/1971).
L’Adunanza si spende poi in una ricostruzione, anche storica, del regime dell’invalidità del provvedimento, valorizzando le innovazioni apportate dal c.p.a.
Nell’assetto anteriore all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, annullabilità e nullità rappresentavano il precipitato di tecniche normative marcatamente diverse: l’atto nullo (nel solco della teoria generale del negozio giuridico) veniva considerato giuridicamente rilevante (in quanto sussumibile in una fattispecie normativa, in primis quella che contempla le diverse ipotesi di nullità), ma improduttivo di effetti; il regime dell’annullabilità, rispondendo all’esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, consentiva, a differenza della nullità, che il provvedimento illegittimo si consolidasse rapidamente in caso di mancata impugnazione e comunque producesse i suoi effetti fino all’eventuale caducazione.
L’entrata in vigore del c.p.a., ha tuttavia consacrato una disciplina dell’azione di nullità del tutto difforme rispetto alla tradizione civilistica.
Ai sensi dell’art. 31, comma 4, del c.p.a. “la domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni”. L’azione di nullità, dunque, non può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (art. 1421 c.c.) e senza essere soggetta a prescrizione (art. 1422 c.c.), ma solo da coloro che sono legittimati a far valere ogni altra illegittimità del provvedimento ed entro un breve termine di decadenza (sia pure più lungo di quello previsto per l’azione di annullamento). Essendo configurata come vizio la cui contestazione è soggetta a termine decadenziale, la nullità si atteggia in termini di illegittimità “forte”, suscettibile anch’essa di consolidamento per coloro che ne subiscono gli effetti pregiudizievoli.
Le principali differenze tra le due forme di invalidità si manifestano nelle tecniche di sindacato: il giudizio sulla nullità si misura in termini “parametrici” di difformità dell’atto rispetto allo schema legale; il giudizio di l’annullabilità consente, invece, di sanzionare anche la devianza “funzionale” dell’atto rispetto al perseguimento dell’interesse pubblico assegnato alla cura dell’Amministrazione, ovvero di controllarne la ragionevolezza e proporzionalità (sia pure con il divieto di procedere a valutazioni sostitutive di merito).
La pronuncia si sofferma, infine, sui quesiti interpretativi sollevati con riguardo al secondo periodo del comma 4 dell’art. 31 c.p.a., il quale precisa che “la nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice”.
Con riguardo a tale aspetto, viene precisato che il potere del giudice di rilevare in via officiosa l’esistenza di una causa di nullità va contemperato e coordinato con il principio dispositivo della domanda e con la struttura impugnatoria del giudizio amministrativo.
Il rilievo d’ufficio della nullità – possibile solo ex actis, sulla base cioè dei fatti ritualmente introdotti o comunque acquisiti in causa – non trova ostacoli se volto a paralizzare la domanda di annullamento del ricorrente (com’è per l’ipotesi oggetto dell’ordinanza di rimessione). Il rilievo della nullità da parte del giudice non può invece sopperire alla carenza di allegazioni del ricorrente, introducendo un tema decisorio che non era stato dedotto nell’atto di impugnazione: l’esercizio del potere officioso, in tale caso, renderebbe vana la previsione stessa del termine decadenziale per la deduzione del vizio da parte del ricorrente[35]; sussistendone i presupposti e in ossequio al principio di legalità e di parità delle armi, non può riconoscersi alcuna discrezionalità in capo al giudice nel rilevare la nullità.
[1] Con ricorso iscritto al n.r.g. 1240 del 2006.
[2] Con ricorso iscritto al n.r.g. 528 del 2008.
[3] Con sentenza n. 584 del 5 giugno 2009, confermata poi dal Consiglio di Stato con sentenza n. 2906 del 2020.
[4] Si segnala, in particolare, Cass. SS.UU., 28 gennaio 2011, n. 2065 che, fungendo da modello per le successive pronunce che hanno spostato l’asse del rimedio verso la natura giurisdizionale, ha chiarito come le modifiche apportate alla disciplina del ricorso straordinario dalla legge 69 del 2009 sono tali da eliminare alcune determinanti differenze del procedimento per il ricorso straordinario rispetto a quello giurisdizionale: l’eliminazione del potere della PA di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato confermerebbe che il provvedimento finale, che conclude il procedimento, è meramente dichiarativo di un giudizio, per cui che questo sia vincolante, se non trasforma il decreto presidenziale in atto giurisdizionale (in ragione della natura dell’organo emittente e della forma dell’atto), lo assimila a questo nei contenuti (si legge che “il provvedimento è amministrativo nella forma, ma assimilato a quello giurisdizionale nei contenuti”).
Sempre la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con una serie di sentenze successive (Cass. SSUU., 19 dicembre 2012, n. 23464; 8 settembre 2013, n. 20659; 5 ottobre 2015, n. 19786) sembrava aver superato la natura amministrativa del rimedio, riconoscendo l’idoneità del decreto stesso a formare il giudicato.
Tale tesi, sostenuta dalle Sezioni Unite, è stata successivamente avallata dal Consiglio di Stato che, con Ad. Plen. 5 giugno 2012, n. 18, pur avendo chiarito che il ricorso straordinario al Capo dello Stato costituisce un rimedio giustiziale che si colloca in simmetrica alternativa con quello giurisdizionale, ancorché di più ristretta praticabilità quanto al novero delle azioni esperibili, testualmente afferma come non sia dubitabile che il petitum proposto in sede di ricorso straordinario sia perfettamente equiparabile (e produca lo stesso effetto) ad una “domanda giurisdizionale”.
Nello stesso solco si colloca poi anche Cons. Stato, Ad. Plen., 6 maggio 2013, n. 9 che ha riconosciuto “la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio in parola e dell’atto terminale della relativa procedura”.
Gli stessi argomenti sono stati poi ripresi, da ultimo, da Cons. stato, Ad. Plen, 2015, n. 7 per la quale la decisione resa all’esito di un ricorso straordinario è da ricondurre all’apporto consultivo del Consiglio di Stato, connotato da una suitas giurisdizionale tale da trasformare il provvedimento reso dal Presidente della Repubblica in meramente dichiarativo: secondo tale ricostruzione, il decreto presidenziale che recepisce il parere, pur non essendo, in ragione della natura dell’organo e della forma dell’atto, un atto formalmente e soggettivamente giurisdizionale, è comunque “estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale” che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato, all’esito di una procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti (la sentenza, che di fatto ha riconosciuto la portata innovativa e non meramente interpretativa della modifica legislativa del 2009, nel precisare come tali modifiche debbano considerarsi “inidonee ad incidere sulla natura giuridica” di decreti presidenziali adottati prima della loro entrata in vigore, ha sostanzialmente ravvisato, al contrario, un mutamento della natura giuridica dei decreti presidenziali adottati all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009..
[5] Sul punto si segnalano: per un’ampia trattazione critica sulla natura del rimedio e sulla sua attualità, C. Volpe, Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, in www.giustizia-amministrativa.it; per una ricostruzione sulla natura del rimedio alla luce della sua “giurisdizionalizzazione” e sulla compatibilità con l’ottemperanza, S. Casilli, La tutela esecutiva per la decisione resa in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: gli ultimi sviluppi, tra evoluzione e arresti giurisprudenziali (nota a Consiglio di Stato, Sezione Prima, 28 febbraio 2022, n. 475), in questa Rivista, 1 febbraio 2023.
[6] Definizione, questa, affermatasi in via pretoria, ma che non trova alcun riscontro effettivo nel dato normativo (non si dimentichi la fondamentale incidenza del principio di legalità nella materia amministrativa), come evidenziato dalla stessa sentenza in commento al punto 3.1 ove si legge che “la creazione pretoria di una nuova categoria di atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente giurisdizionali contrasta anche con la qualificazione scolpita nella legge 12 gennaio 1991, n. 13 (Determinazione degli atti amministrativi da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica) che, nel tipizzare gli «atti amministrativi» (non previsti espressamente dalla Costituzione o da norme costituzionali) da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio o del ministro competente, all’art. 1, comma 1 lettera bb), vi include espressamente la «[…] decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica».
[7] Al punto 8 della sentenza in commento.
[8] Il fulcro di detto contrasto giurisprudenziale, afferendo all’estensione delle forme di tutela disponibili sulla base del dato formale dello strumento di tutela attivato, pur a fronte della medesima situazione giuridica soggettiva (e, segnatamente, al riconoscimento della possibilità di accedere alla tutela esecutiva), ricorda, per certi versi, la tensione sottesa al concetto di Rechtsschutzbedürfnis nel pensiero di Schönke (cfr. P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 107 ss.).
[9] Cass. SSUU, 2 ottobre 1953, n. 3141; Cons. Stato, sez. V, 9 luglio 1954, n. 724.
[10] Natura poi mutata dalla legge n. 69/2009 che ha modificato gli artt. 13 e 14 del d.P.R. 1199/1971 rendendo obbligatorio e vincolante nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica il parere del Consiglio di Stato e prevedendo la possibilità, per quest’ultimo, di sollevare, anche in sede consultiva, questioni di legittimità costituzionale.
Il mutato carattere vincolante del parere ha costituito, per taluni, argomento a sostegno della tesi della natura giurisdizionale.
In senso contrario, tuttavia, è stato escluso che possa essere significativo il fatto che la riforma del 2009 abbia reso vincolante il parere del Consiglio di Stato, in quanto la vincolatività di tale provvedimento non ne muterebbe la natura, che rimarrebbe amministrativa ed ancorata ad una funzione giustiziale: in questo senso deporrebbe anche la rubrica dell’art. 69 l. 69/2009. Così G. D’Angelo, La «giurisdizionalizzazione» del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: profili critici di un orientamento che non convince, in www.giustamm.it, 2013, 6, secondo cui semmai la vincolatività muta i termini del rapporto con il decreto del Presidente della Repubblica. Del resto, è stato evidenziato che nel procedimento del ricorso straordinario la natura decisoria è riconoscibile, con maggiore evidenza oggi in ragione del carattere vincolato, al parere del Consiglio di Stato, il quale avrebbe carattere formale di atto consultivo ma dal punto di vista sostanziale sarebbe caratterizzato dagli stessi contenuti di una decisione amministrativa (cfr. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2013, 165).
[11] Anche in relazione all’esperibilità del rinvio pregiudiziale lo scenario è oggi mutato alla luce della spinta favorevole operata dalla Corte di Giustizia già con sentenza del 16 ottobre 1997, cause riunite da C-69/96 a C-79/96. In quell’occasione la Corte, infatti, giunse ad ammettere la possibilità per il Consiglio di Stato, in sede di emissione del parere su ricorso straordinario, di effettuare il rinvio pregiudiziale. A tale conclusione la Corte di Giustizia pervenne sulla base della considerazione per cui anche in tale sede al Consiglio di Stato va riconosciuta la qualifica di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 177 (ora 234) del Trattato CE.
Sulla scia della sentenza della Corte di Giustizia si pose poi lo stesso Consiglio di Stato, sez. I, 19 maggio 1999, n. 850, giungendo ad ulteriori conseguenze e ritenendosi legittimato, anche in sede di parere reso su ricorso straordinario, a sollevare questione di legittimità costituzionale.
Deve però rilevarsi come a più riprese, prima dell’entrata in vigore della modifica legislativa del 2009, si fossero espresse la Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 21/1975, n. 148/1982, n. 254/2004) al fine di negare alle Sezioni consultive del Consiglio di Stato la legittimazione a sollevare incidente di costituzionalità e le Sezioni Unite (con sentenza del 18 dicembre 2001, n. 15978) al fine di confinare la portata del precedente offerto dalla Corte di Giustizia, osservando come la nozione di “organo giurisdizionale – rilevante al fine dell’individuazione delle autorità legittimate a rimettere in via pregiudiziale all’esame della Corte di Giustizia questioni relative all’interpretazione del Trattato – dovesse essere ricavata esclusivamente dalle norme di diritto comunitario, mentre nel caso di specie essa avrebbe dovuto essere desunta dalle disposizioni di diritto interno” per cui tra le due nozioni non doveva esservi, dunque, necessaria coincidenza.
[12] In tal senso pronunce fondamentali sono le già citate Cass. SS.UU. n. 15978/2001 e Corte Cost. n. 254/2004.
[13] Si rinvia, a fondamento dell’orientamento sostanzialmente giurisdizionale, supra, alla nota 4.
[14] Come previsto dall’art. 12 d.P.R. n. 119/1971, ma anche ribadito da TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 30 settembre 2022, n. 2582 in cui si legge che “Per giurisprudenza consolidata, la decisione del ricorso straordinario al Capo dello Stato o al Presidente della Regione può essere impugnata per revocazione nei casi previsti dall'art. 395 c.p.c., nonché davanti al giudice amministrativo solo per i vizi formali e procedurali successivi al vincolante parere di rito del Consiglio di Stato. Tali limitazioni all'impugnativa della decisone sono opponibili solo al ricorrente e alle controparti del procedimento giustiziale, le quali non avendo chiesto la trasposizione alla sede giurisdizionale hanno così accettato tutte le peculiarità e conseguenze di tale procedimento.
In particolare, la rinuncia del ricorrente straordinario successiva alla trasmissione del parere dell'organo consultivo, ma anteriore al decreto presidenziale, non può essere utilmente presentata e, ove prodotta, non può essere considerata e dispiegare i pretesi effetti estintivi.
L'espressione del parere obbligatorio esaurisce la fase decisionale del ricorso straordinario; la sua rivalutazione in sede giurisdizionale è inammissibile stante il principio di alternatività fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale, che non consente che vengano rimesse in discussione questioni, di forma e/o di sostanza, afferenti gli atti ed i provvedimenti opposti in via straordinaria, onde evitare che l'impugnazione in sede giurisdizionale porti ad un riesame del medesimo giudizio espresso in sede consultiva, per effetto della sovrapposizione della decisione giurisdizionale a quella del ricorso straordinario”.
[15] Ai sensi dell’art. 395 n. 5 c.p.c.
[16] Il più lontano antenato del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è rinvenibile nel sistema di “giustizia ritenuta”, tipico delle monarchie assolute. La prima codificazione di questo rimedio risale al 1739, nel 1975 fu poi istituito il Consiglio del Re e si stabilì che il sovrano potesse ascoltarne il parere, anche se non vincolante, prima di decidere sui ricorsi a lui indirizzati; fu poi Carlo Alberto nel 1831, a modificarne la denominazione in “Consiglio di Stato” il cui parere venne reso obbligatorio in tutti i casi di ricorso al Re dalla Legge del Regno di Sardegna n. 3707/1859.
Con l’istituzione nel 1889 della IV Sezione del Consiglio di Stato venne meno la funzione del ricorso straordinario di rimedio generale per l’impugnazione, per motivi di legittimità, dei provvedimenti amministrativi definitivi. La legge n. 5992/1889, infatti, attribuiva definitivo sbocco giurisdizionale anche agli interessi legittimi, fino ad allora tutelabili solo attraverso lo strumento dei ricorsi amministrativi.
Pur ritenendo alcuni che il rimedio avesse esaurito la sua utilità, l’istituto venne mantenuto in vita e disciplinato dal d.P.R. n. 1199/1971 e, per evitare che vi fossero problematiche duplicazioni, in ossequio al principio del ne bis in idem, si fece ricorso al principio di alternatività tra ricorso giurisdizionale e ricorso straordinario di modo da evitare da un lato che sullo stesso atto intervenissero due pronunce giustiziali diverse e dall’altro che il Consiglio di Stato si pronunciasse due volte sulla medesima questione.
[17] Il quale: ha stabilito che il ricorso straordinario è ammissibile unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (art. 7 comma 8); ha, sia pur non espressamente, definitivamente riconosciuto la possibilità di azionare il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione del decreto presidenziale (art. 112); ha generalizzato la facoltà di opposizione di cui all’art. 10 d.P.R. n. 1199/1971 in favore di tutte le parti nei cui confronti sia stato proposto il ricorso straordinario (art. 48 comma 1); ha previsto che “qualora l’opposizione sia inammissibile, il Tribunale amministrativo regionale dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria”, delineando, secondo alcuni, una particolare ipotesi di translatio iudicii (art. 48 comma 3 c.p.a.)
[18] In tal senso le già citate SS.UU. n. 2065/2011.
[19] Cass. SS.UU. n. 23464/2012, n. 20596/2013, n. 10414/2014.
[20] Corte Cost. n. 73/2014, n. 24/2018, n. 63/2023.
[21] Recentemente il Consiglio di Stato in sede consultiva (Sez. I, 22 novembre 2019, n. 2935), pur riconoscendo che il ricorso straordinario “ha perso la sua connotazione, tipicamente ed esclusivamente, di rimedio amministrativo”, ha concluso che “non vi è coincidenza tout court con gli altri rimedi giurisdizionali sul piano dei principi applicabili” e che l’atto conclusivo della procedura va qualificato come provvedimento amministrativo, “solo per certi aspetti equiparato” ad una sentenza (proprio su queste basi è stata giustificata la non perfetta operatività delle garanzie della pubblicità e oralità).
[22] Punto 2.4 della sentenza in commento.
[23] La questione della corretta lettura lessicale dei termini di diritto è peraltro non frutto solo della recente ipertrofia interpretativa, ma era noto già alla dottrina ottocentesca ove si poneva il problema di coordinare un testo normativo ritenuto vago e incompleto con la sentita necessità di garantire adeguata tutela. Così, “l’appello al sentimento giuridico del giudice è il segno che non ci sono altre parole: il sentimento giuridico è la reazione sociale alla frustrazione del desiderio del testo. Sussiste una correlazione necessaria tra afasia normativa e senso giuridico. Una società è in afasia normativa quando non riesce a verbalizzare norme per l’insuperabilità di contrasti sugli oggetti da regolare. Giunta al limite del linguaggio regolativo, mediante le formule di autotrascendenza la società scopre quanto possa esserle provvidenziale l’afasia” (P. Femia, Sentimento e moltitudine. Rudolf von Jhering tra interessi ideali e beni comuni, Il Mulino, 2024, 225 ss).
[24] Si legge al punto 3 della sentenza.
[25] Il legislatore, in ordine al procedimento che conduce alla decisione, prevede che: il ricorso venga notificato all’organo che ha emanato l’atto o al Ministero competente, il quale ordina, se del caso, l’integrazione del procedimento (art. 9): l’Amministrazione competente per materia svolge l’istruttoria (art. 11); l’affare già istruito viene trasmesso alle Sezioni Consultive del Consiglio di Stato (art. 12) per l’adozione del parere vincolante (art. 13).
[26] È stato autorevolmente rilevato che, se si optasse, al contrario, per la natura “sostanzialmente giurisdizionale” del rimedio in esame, il significato dell’opposizione dei controinteressati (e delle parti resistenti) non sarebbe più quello di scegliere tra un rimedio giurisdizionale e uno amministrativo, ma quello di scegliere tra due rimedi giurisdizionali (l’uno semplificato e l’altro ordinario), con una conseguente notevole limitazione dell’oggetto del consenso di tutte le parti: l’espressione “sostanzialmente giurisdizionale” da un lato lascerebbe intendere l’impossibilità di sostenere la tesi della natura effettivamente giurisdizionale, dall’altro lato introdurrebbe una distinzione tra giurisdizione in senso sostanziale e giurisdizione in senso formale, che è giustificabile in altri sistemi giuridici ma non nel nostro, in considerazione della disciplina costituzionale della funzione giurisdizionale (in tal senso F.G. Scoca, Osservazioni sulla natura del ricorso straordinario al Capo dello Stato; Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2012, n. 18, in Foro it., 2012, III, 2378).
[27] Punto 3.1 della sentenza in commento.
[28] Le conseguenze rischiose sono presto dette: il diritto giurisprudenziale “diviene un diritto di lotta combattuta con le armi dell’interpretazione, cioè delle norme modellate dall’attività interpretativa: lotta ermeneutica contro fenomeni che non si ritengono adeguatamente tutelati dalla legge” (P.L. Portaluri, Immagini da un futuro possibile: il paradigma della legittimazione ad agire, in CERIDAP. Rivista Interdisciplinare sul Diritto delle Amministrazioni Pubbliche, fasc. 2/2023, 227 ss).
[29] In tal senso deve essere ridimensionata la portata della pronuncia – che per taluni avrebbe segnato la conclusione del processo di giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario – della Corte Edu, Sez. I, 8 settembre 2020, Mediani c. Italia, che ha affermato che le tutele previste dalla Convenzione (e segnatamente l'art. 6 sulla ragionevole durata dei processi) sono riferibili anche al ricorso straordinario.
[30] Nel diritto interno, infatti, già le due nozioni si differenziano in quanto quella di “giudice”, ai fini dell’applicazione dell’art. 1 legge costituzionale n. 1/1948 e dell’art. 23 l. n. 87/1953, è più ampia di quella di “giurisdizione”.
[31] Al punto 5 ss.
[32] Come è stato osservato da Cons. Stato, Ad. Plen. 14 luglio 2015, n. 7, l’ottemperabilità di una decisione è una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge. Inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il diritto all’esecuzione delle decisioni definitive e vincolante che le ha pronunciate, è parte integrante del “diritto a un tribunale” nell’ampia accezione ‘convenzionale’ (inclusiva cioè anche di organi non inseriti nell’apparato giudiziario). Che la decisione resa su ricorso straordinario non configuri un giudicato in senso tecnico non comporta, tuttavia, alcuna modifica dell’orientamento espresso dalla medesima Adunanza Plenaria, nelle sentenze n. 9 e 10 del 2013, secondo cui il ricorso per l’ottemperanza deve essere proposto dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta.
[33] Sul punto si segnala nuovamente Cass. SS.UU. n. 10414/2014, sentenza che, con un’opera di equilibrismo giuridico, ha segnato un’apertura verso l’impugnabilità delle decisioni rese all’esito del ricorso straordinario per motivi inerenti alla giurisdizione, ma non con la medesima ampiezza prevista dall’art. 9 c.p.a.; la Corte estrae una regola processuale assente nell’ordinamento, conformata alla specialità del procedimento (che si svolge in unico grado) che preclude l’impugnazione delle pronunce laddove non sia stata contestata nel corso del procedimento la giurisdizione, fondatasi, così, per accordo delle parti (potendosi diversamente impugnare la decisione per motivi di giurisdizione ove una delle parti l’abbia contestata durante il procedimento).
Le Sezioni Unite consentono tuttavia il ricorso per motivi di giurisdizione ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost. sotto un diverso profilo, ossia quello dell’eccesso di potere giurisdizionale, in quanto in tal caso la questione di giurisdizione non attiene alla giurisdizione come presupposto che deve sussistere, ma riguarda un momento successivo, quello della decisione, che astrattamente potrebbe eccedere dai limiti del potere giurisdizionale, come quando il giudice amministrativo esercita una prerogativa spettante alla PA; evenienza questa (eccezionale), che legittimerebbe le parti, che sul punto non possono dirsi soccombenti, a proporre ricorso ex art. 111 comma 8 Cost. e art. 362 c.p.c.
[34] Cons. Stato, Ad. Plen., 27 giugno 2006, n. 9.
[35] Così come osservato da Cons. Stato, Sez. III, 3 luglio 2019, n. 4566.