Il Consiglio giudiziario, questo sconosciuto
di Marcello Basilico
Sommario: 1. Premessa - 2. C’era una volta l’autogoverno “dal basso e condiviso” - 3. La riforma del 2006 nei fatti - 4. Ritornelli irrisolti e potenzialità inespresse - 5. La partecipazione allargata - 6. Il Consiglio giudiziario del futuro.
1. Premessa
Nella visione del legislatore il Consiglio giudiziario rappresenta lo snodo generale di collegamento tra territorio e vertice centralizzato delle decisioni in materia ordinamentale. Quanto agli incarichi direttivi e semidirettivi, in particolare, nel momento in cui il parametro dell’anzianità è stato fortemente ridimensionato, divenendo criterio di legittimazione e non più di selezione, si è reso necessario acquisire in sede locale una pluralità di elementi di conoscenza sulla figura del candidato, per consentire al Consiglio Superiore della Magistratura di valutare appieno l’attitudine e il merito.
Questi due parametri hanno esteso da un lato la discrezionalità della scelta di conferimento e avviato dall’altro la messa in discussione della concezione tradizionale della dirigenza nell’ambito giudiziario.
Il Consiglio giudiziario, identificato come l’organo consultivo deputato alla raccolta del materiale informativo essenziale, si è trovato al centro di questo mutamento normativo e prospettico. Esso, attraverso le proprie scelte istruttorie e le tecniche di redazione dei pareri, ha avuto l’occasione per rendersi interprete della riforma intrapresa nel 2005[1].
Nell’iter per il conferimento o la conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi, la funzione consultiva è resa particolare dal fatto che per lo stesso incarico direttivo o semidirettivo le candidature possono provenire – e di fatto solitamente provengono – da candidati di territori diversi. Regola vuole pertanto che il relativo procedimento sia partecipato da più Consigli giudiziari: i pareri confluiscono dunque al Consiglio Superiore della Magistratura da sedi differenti. La consultazione è dunque plurale.
Ci si potrebbe attendere pertanto che una delle principali difficoltà che incontri il CSM nell’esprimere la preferenza per il candidato più idoneo all’incarico venga dalla comparazione di profili professionali delineati diversamente, perché prevedibilmente diversa è risultata l’impostazione del parere attitudinale specifico per ciascun organo di provenienza, influenzato da prassi istruttorie e inclinazioni valutative eterogenee.
Vi sarebbe quindi da sorprendersi appurando che questo è invece l’unico problema insussistente: grazie al modello predisposto dal CSM, i pareri sono improntati tutti alla stessa logica ricognitiva, alla stessa selezione delle fonti, persino allo stesso lessico, indipendentemente dalla provenienza. Ci si potrebbe dunque compiacere del rigore con cui ciascun Consiglio giudiziario abbia saputo adattare tecnica e contenuti all’impronta uniformante centralizzata. Se però il risultato finale è quello di un’uniformità tendente all’appiattimento, così da rendere quasi indistinguibili i giudizi sui diversi candidati, al compiacimento non possono che subentrare lo sconcerto e, nel corso degli anni, la frustrazione per un’attività tanto laboriosa quanto improduttiva.
Un’analisi realistica del ruolo del Consiglio giudiziario nella valutazione attitudinale per le funzioni direttive e semi-direttive non può che muovere da una simile, amara constatazione, le cui cause sono difficili da comprendere, per la molteplicità dei fattori che vi hanno concorso nel corso di decenni di applicazione di un corpo normativo complesso, stratificatosi nel tempo.
2. C’era una volta l’autogoverno “dal basso e condiviso”
La riforma del biennio 2006-2007[2] ha incrementato notevolmente le competenze del Comitato Direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari, in collegamento con le verifiche individuali imposte dal nuovo ordinamento, a cominciare dalle valutazioni quadriennali[3]. E’ stato così attuato un decentramento in sé auspicato da tempo.
Lo stesso Consiglio Superiore aveva da tempo riconosciuto che “il modello di autogoverno della magistratura sin qui sperimentato, imperniato su un centro unico ed assolutamente preminente – il Csm – non è più sufficiente, da solo, a soddisfare le molteplici esigenze di una moderna ed efficiente amministrazione della giurisdizione”[4].
Tra le principali novità della riforma sulle valutazioni di professionalità vanno ricordate l’enumerazione puntigliosa dei “parametri oggettivi” su cui motivare i pareri, l’acquisizione obbligatoria di provvedimenti e verbali a campione del magistrato nonché dell’auto relazione dell’interessato e l’individuazione, per ciascuna funzione, di standard medi di definizione dei procedimenti; l’integrazione possibile dell’istruttoria mediante fonti non tipizzate nonché con l’assunzione d’informazioni, comprese segnalazioni su fatti specifici provenienti dal consiglio dell’ordine degli avvocati, tramite il rapporto del dirigente dell’ufficio o su iniziativa del Consiglio giudiziario stesso.
Soppressa nel 2007 la competenza specifica relativa alla vigilanza sul comportamento dei magistrati, con obbligo di segnalazione dei fatti rilevanti ai fini disciplinari, della riforma dell’anno precedente è rimasta la più generale e qualificante vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari del distretto, orientata evidentemente ai profili dell’organizzazione, tanto da giustificare, in caso di “disfunzioni nell’andamento di un ufficio”, la segnalazione al Ministero della giustizia[5].
In questo quadro s’innesta il controllo devoluto al Consiglio giudiziario sui provvedimenti organizzativi periodici o modificativi degli assetti ordinari, i quali comprendono i dati sui carichi di lavoro e sui flussi degli affari nei singoli uffici.
Per il numero delle competenze e l’ampiezza dei poteri di accertamento attribuiti il Consiglio giudiziario (e non di meno il Comitato direttivo presso la Cassazione) catalizza insomma un complesso di conoscenze inestimabili sul profilo dei magistrati addetti o aspiranti alla direzione di un ufficio, giudicante e requirente, o di una sezione del suo distretto.
La centralità conferita all’auto relazione e la possibilità di avvalersi di fonti informative individuali, anche con un’attività istruttoria che ammette l’audizione di singoli componenti dell’ufficio, hanno indotto a suo tempo i più a formulare previsioni di evoluzione del governo autonomo locale nella direzione di una diffusa partecipazione, che avrebbe coinvolto in varia misura i magistrati del territorio, oltre alle categorie che hanno trovato rappresentanza nel Consiglio.
L’ampliamento delle sue conoscenze e dei suoi poteri istruttori hanno focalizzato nell’organo distrettuale un ruolo determinante nella “sfida su cui si misurerà la capacità della magistratura di operare un reale controllo sulla professionalità dei magistrati, sull’efficienza degli uffici, sul rispetto delle regole. Ma sarà più ancora la vera sfida per l’eliminazione delle incrostazioni corporative ed autoreferenziali di cui la magistratura viene, in talune circostanze, a ragione accusata”[6].
3. Il risultato concreto della riforma del 2006
Il procedimento per la valutazione di professionalità è regolato dalla legge in modo molto asciutto, senza che la valutazione di professionalità per gli incarichi dirigenziali sia distinta da quelle periodiche generali[7]. In attuazione della delega legislativa, riguardante anche la disciplina degli elementi per i giudizi rimessi ai Consigli giudiziari[8], il CSM ha predisposto un corpus normativo ripetutamente aggiornato e comunque integrato da deliberazioni aggiuntive, risposte a quesiti, protocolli e modulistica[9].
Il materiale a disposizione per la formulazione di un parere individualizzato, misurato sulla figura del singolo magistrato e denso di elementi di conoscenza non manca. E’ pur vero che i mestiere di giudice o pubblico ministero richiedono professionalità ben distanti da quella necessaria a dirigere un ufficio; perciò non può che risultare difficile pronosticare l’attitudine organizzativa concreta nei confronti di quanti non abbiano avuto esperienze di direzione o di coordinamento.
Ma se ad un buon magistrato non corrisponde necessariamente un buon organizzatore dell’attività altrui, il primo elemento è comunque condizione necessaria del secondo: è buon magistrato chi dimostri di sapere, tra le altre cose, anche gestire e programmare la propria attività. Dall’auto relazione, dai dati statistici, dall’adempimento dei singoli incarichi individuali ricevuti nel corso della vita professionale, dai risultati dell’attività giurisdizionale in coincidenza con situazioni critiche o particolari che ricorrono nell’esperienza comune si possono trarre tracce indicative della propensione, dell’attenzione e, prima ancora, dell’interesse espresso verso l’organizzazione.
Si aggiunga che da tempo ormai il CSM richiede all’aspirante dirigente la predisposizione di un progetto organizzativo dell’ufficio di destinazione[10]: Operando in un distretto diverso, il Consiglio giudiziario potrebbe non conoscere quell’ufficio; ma è da supporre che in linea generale sia ragionevolmente in grado di apprezzare la ragionevolezza delle soluzioni proposte nel progetto, la loro logicità rispetto alle premesse fattuali, il livello di approfondimento della conoscenza dell’assetto esistente nell’ufficio.
Sembra impossibile dunque che da cotanto materiale non possa sortire un atto che fotografi magari con approssimazione, ma in modo personalizzato e riconoscibile l’attitudine e financo la personalità del magistrato candidato. Eppure la realtà dice il contrario.
La sconfortata vulgata comune dei componenti non solo del CSM, ma dei Consigli giudiziari stessi è che i pareri attitudinali sono muti, incapaci per lo più di differenziare la figura di un candidato rispetto a quella dei suoi concorrenti, salvo che non nell’elenco formale degli incarichi assunti, ormai amaramente accomunati nel termine “medagliette”, rivelatore dell’assoluta sfiducia con cui questi sono valutati nel concreto.
I pareri vengono visti come stolidamente tributari dei rapporti dei dirigenti, a loro volta spesso appiattiti sull’autorelazione e quasi sempre positivi, se non “sperticatamente elogiativi”[11]. Dunque, una volta che sia stata completata la faticosa raccolta delle risultanze delle fonti informative, la funzione valutativa affidata ai Consigli giudiziari, la quale implica il vaglio di atti e di esperienze dell’interessato e l’espressione di un relativo giudizio critico, viene a confondersi con un’operazione molto più fiacca e, per il candidato medio, rassicurante: l’apposizione ai termini che dovrebbero descrivere le sue esperienze di aggettivi o avverbi di segno immancabilmente positivo o addirittura encomiastici.
È del resto significativo che nella prima intervista di questa rubrica monografica nessuno dei tre componenti del CSM abbia menzionato i pareri dei Consigli giudiziari come fonti di rilievo per la nomina o la conferma di direttivi o semidirettivi: si è andati al contrario da chi ha individuato nell’autorelazione del candidato l’elemento saliente di conoscenza a chi, più drasticamente, affermato che “i pareri dei Consigli giudiziari sono sempre positivi a non segnalano alcuna criticità”[12].
La comparazione degli aspiranti nel concorso per una funzione direttiva o semidirettiva finisce per diventare impossibile, giocata su sfumature che poco hanno a che vedere con l’esercizio di una discrezionalità basata sugli esiti del raffronto tra le caratteristiche umane e professionali e la posizione da ricoprire. Motivare l’atto di conferimento dell’incarico diventa impresa giocoforza difficile e scivolosa, tanto più a fronte se misurata su parametri tanto numerosi e articolati quanto modesti nella portata definitoria.
Malgrado gli sforzi vistosi che traspaiono dai provvedimenti, risulta complicato garantire in tal modo il buon andamento e l’efficacia del governo autonomo della magistratura. L’appiattimento delle valutazioni diviene quindi l’anticamera delle doglianze di chi si ritiene pretermesso e del sindacato del giudice amministrativo sul provvedimento consiliare.
Il discorso potrebbe variare in una certa misura per le conferme alla scadenza del primo quadriennio di esercizio dell’incarico. La disponibilità di provvedimenti organizzativi e il controllo che questi consentono sull’attitudine organizzativa fa sì che nel giudizio del Consiglio giudiziario la diagnosi possa prevalere sulla prognosi. Ciò malgrado l’opinione che identifica la scadenza quadriennale come un passaggio dall’esito quasi scontato non trova smentita nella statistica o negli interventi dei componenti del CSM né risulta l’esistenza di un orientamento decisionale di sistematico favore che travolga i pareri negativi dell’organo periferico.
V’è dunque una consequenziale discrasia tra le criticità diffusamente attribuite alla direzione di molti uffici giudiziari[13] e i risultati del procedimento di conferma.
4. Ritornelli irrisolti e potenzialità inespresse
Malgrado la centralità assegnata loro dalla riforma del 2006-2007, manca tuttora un’analisi sulla struttura e sull’operato dei Consigli giudiziari che vada al di là di qualche contributo dottrinale, isolato per quanto illuminato.
Della direzione degli uffici giudiziari si discute essenzialmente in riferimento ai poteri e, di conseguenza, alla natura delle funzioni del CSM, all’interferenza nelle scelte delle correnti dell’ANM, al modello di dirigente, alla latitudine del ruolo gerarchico del procuratore della Repubblica e, più di recente, alla partecipazione degli avvocati nelle valutazioni.
Quasi paradossalmente le ragioni dell’inadeguatezza dell’operato dei Consigli giudiziari restano invece sottotraccia e inesplorate, confinate in un dibattito per pochi iniziati, quasi che l’idea dell’autogoverno esteso ai territori e alla base dei magistrati appartenesse alla sfera dei principi desiderabili, ma illusori.
Il sistema informatico del CSM non è predisposto per estrapolare dei dati sul numero pareri negativi pervenuti in un periodo predeterminato in ordine alle conferme per funzioni direttive o semi-direttive. Men che meno dispone di dati sui pareri relativi ai nuovi incarichi o sugli scostamenti delle decisioni consiliari rispetto alle valutazioni dei CG. Mancando quindi una base oggettiva ed estesa a tutti i Consigli giudiziari da cui muovere, la riflessione sul loro operato si sposta necessariamente sulle questioni teoriche aperte.
Si è detto del recepimento acritico nei pareri del rapporto del dirigente o dell’eccesso di aggettivazione. Ma sono anche altri i temi perennemente all’ordine del giorno di quel dibattito di retroguardia: il diritto di tribuna degli avvocati; l’indagine sui risultati effettivi degli incarichi assolti dal magistrato; l’acquisizione di notizie sul suo conto per iniziativa autonoma del Consiglio giudiziario; l’an, il quando e il quomodo dell’attività istruttoria.
Se ne discute da lustri e la stanchezza non ha ancora prevalso grazie ai sussulti che periodicamente rianimano il confronto, sul piano nazionale in presenza di qualche impulso formatore e a livello locale a ogni rinnovo dei Consigli, come se ciascun organo, cambiando i componenti eletti, perdesse la memoria delle esperienze acquisite e delle prassi maturate nei quadrienni precedenti e tanto meno fosse in grado di riconoscere quelle di altri distretti.
La ripetitività delle questioni in assenza di soluzioni comuni – rese difficili dal permanere di sensibilità distanti tra loro su ciascun punto – rischia di sterilizzare la carica ideale che le accompagna e presta il fianco ad interventi legislativi che, come dimostrano molti dei progetti presentati nel tempo, si rivelano incapaci di cogliere la ricaduta effettiva d’una riforma sugli equilibri delicati dell’ordinamento giudiziario.
Ricette condivise sono difficili da trovare. Si va da chi ritiene che i Consigli giudiziari non abbiano né le fonti di conoscenza né la capacità per valutarle[14], a chi reputa invece che un modo corretto – ma purtroppo quasi ignorato – di esercitare le funzioni di consigliere giudiziario renderebbe i pareri davvero selettivi[15], a chi non intende comunque abbandonare la ricerca delle prassi e degli interventi che ne vivifichino una rilevanza mai sopita[16].
I risultati del governo della magistratura dirigente hanno generato un’insoddisfazione quasi generalizzata, pur se fondata su ragioni diversificate. In ogni caso essa è talmente radicata da richiedere un’analisi molto netta. Restando all’esperienza dei Consigli giudiziari occorre mettere a fuoco i fattori molteplici che hanno portato a quei risultati.
I primi sono di ordine culturale. E’ invalsa nei magistrati – occorre ammetterlo – una certa pigrizia nell’estensione dei provvedimenti giudiziari[17], basata su una tecnica ripetitiva, su un lessico e su una sintassi troppo spesso distanti dalle esigenze di chiarezza del testo. Questo difetto si accentua fatalmente nel parere redatto in sede di Consiglio giudiziario: le sue fonti non vengono raccolte, così come avviene invece nel processo, personalmente dal redattore, ma provengono invece da meccanismi automatici di acquisizione. L’organo collegiale e il componente nominato relatore sovente gli si approcciano con un contegno d’istintiva difesa verso l’interessato: sia perché questi è pur sempre un collega e di solito un diretto conoscente sia perché al parere è estranea la comparazione con gli altri candidati.
Il parere finisce così per essere predisposto senza mirare all’obiettivo di selezione cui è diretto. Il distacco tra fonti d’informazione e procedura cui sono destinate induce perciò un atteggiamento di passività[18], che si riflette sul contenuto dell’atto che il CSM riceve dal Consiglio giudiziario.
Nell’esperienza comune la domanda per l’incarico direttivo è preceduta da alcune esperienze avute dal candidato in incarichi semidirettivi e di collaborazione (deleghe del presidente o del procuratore; coordinamento dei magistrati in tirocinio; referente per l’informatica nell’ufficio; componente della Commissione flussi presso il Consiglio giudiziario; responsabile della formazione; ecc.). Quasi mai si hanno però riscontri sui risultati dell’attività svolta adempiendo a questi incarichi. Una delle falle principali del sistema vigente è data dall’assenza di metodi verifica che riguardino non si dice la qualità del servizio, ma almeno l’assiduità di chi vi è stato addetto.
L’incarico di collaborazione diventa così un titolo acquisito automaticamente col suo conferimento, che ciò nulla dica in realtà sui meriti dell’interessato.
Le fonti d’informazione tratte dall’attività giurisdizionale non hanno un rilievo molto superiore: le statistiche comparate possono essere lette in modi molteplici e alternativi; le notizie sulle sentenze pronunciate o sulle indagini condotte possono dire ben poco dell’attitudine organizzativa.
I contenuti degli atti istruttori vengono dunque raccolti e trasferiti acriticamente nel testo del parere, andando a comporre un elaborato più o meno denso di elementi privi di una concreta utilità allo scopo. La personalità del magistrato, la sua predisposizione a coordinare l’attività di molte persone, la capacità di prendere posizione in situazioni critiche e, più in generale, ad adottare decisioni efficaci per la funzionalità di un ufficio giudiziario rappresentano dei connotati sui quali l’attività del Consiglio giudiziario non prende, di fatto, posizione.
Eppure le basi per fare meglio ci sarebbero.
L’autorelazione è un atto potenzialmente rivelatore di indici significativi: dimostra se l’interessato sia ripiegato in una visione individualistica della funzione o se abbia una consapevolezza delle esigenze generali del servizio; evidenzia i p.m. attenti solo alle indagini o anche al loro esito processuale, se un giudice organizzi il proprio ruolo solamente per produrre di più oppure per elevare la qualità delle decisioni e collegare la propria attività a quella dell’ufficio o della sezione; spiega in che misura l’adempimento d’incarichi precedenti sia stato inserito in una visione di sistema.
I risultati dei progetti organizzativi precedenti – per chi abbia già svolto funzioni direttive – dovrebbero costituire apporti fondamentali tanto ravvisare i presupposti della riconferma quanto per la valutazione relativa a nuovi incarichi.
La vigilanza affidata al Consiglio giudiziario è un’occasione di avvicinamento alla realtà degli uffici del distretto. Le segnalazioni raccolte, i contatti coi magistrati locali, lo studio congiunto di rimedi alle eventuali disfunzioni, l’esame delle soluzioni organizzative che pur non abbiano rilevanza tabellare costituiscono altre fonti d’informazioni che dovrebbero rivelarsi utili anche per i pareri attitudinali specifici.
Se opportunamente regolamentate e riferite con trasparenza, anche le notizie apprese direttamente o indirettamente dai consiglieri giudiziari possono avere un rilievo importante.
Va ricordato che “alla scadenza del periodo di valutazione” il Consiglio giudiziario è ammesso ad acquisire e valutare “le informazioni disponibili presso il Consiglio superiore della magistratura e il Ministero della giustizia anche per quanto attiene agli eventuali rilievi di natura contabile e disciplinare, ferma restando l’autonoma possibilità di ogni membro del consiglio giudiziario di accedere a tutti gli atti che si trovino nella fase pubblica del processo per valutarne l’utilizzazione in sede di consiglio giudiziario”[19].
È prevista dunque una facoltà autonoma del singolo consigliere giudiziario di acquisire atti anche di un procedimento penale, purché in fase pubblica. Ciò non implica l’automatico utilizzo dell’atto da parte del Consiglio, poiché a tale fine occorre una sua delibera[20].
Per altro verso un potere d’ufficio di assunzione d’informazioni è riconosciuto all’intero Consiglio giudiziario. In tal caso il magistrato in valutazione ha diritto, all’esito dell’istruttoria, di riceverne comunicazione dal Consiglio, prendere visione ed estrarre copia dei relativi atti.
L’esercizio di questi poteri officiosi è eccezionale, quasi sempre riconducibile alla notizia pubblica di fatti di reato o ai più rari casi di segnalazioni di singoli magistrati in servizio nel distretto. E’ d’altronde intuitivo che il Consiglio giudiziario non veda motivo di assumere iniziative quando non sia conoscenza dell’esistenza di notizie rilevanti presso il CSM o il Ministero.
Si registra così un cortocircuito comunicativo, che peraltro talvolta arriva a risultati apparentemente inspiegabili. Vi sono stati casi di conversazioni di magistrati pubblicate più volte dalla stampa – su tutte quelle delle cosiddette chat di Luca Palamara – sfociati in procedimenti disciplinari davanti al CSM degli stessi soggetti, senza che il Consiglio giudiziario, valutando gli stessi soggetti per incarichi direttivi, ne abbia tenuto alcun conto perché all’oscuro formalmente della loro esistenza.
Il tema è indubbiamente delicato per il rischio intuitivo di strumentalizzazione di fonti incontrollate. Sino a oggi, però, si è caduti quasi sempre nell’eccesso opposto, rappresentato dal silenzio totale su fatti notori, una volta che il presidente ne abbia taciuto all’interno nel proprio rapporto e che essi non siano entrati a fare parte per altra via del materiale istruttorio.
È bene chiarire che con ciò non si vuole certo avallare una torsione in senso inquisitorio dell’operato del Consiglio giudiziario. Si tratta piuttosto di stabilire una volta per tutte di quali atti esso possa disporre e in che misura il parere che gli è affidato debba davvero esprimersi sulle capacità del magistrato di essere un dirigente capace, affidabile e credibile.
5. La partecipazione degli avvocati
Tra le occasioni perdute della stagione successiva alla riforma 2006-2007 v’è quella di una proficua collaborazione con l’Avvocatura. Divenuta componente stabile del Consiglio giudiziario, seppure nell’assetto dedicato esclusivamente alle competenze d’ordine organizzativo, essa ha avuto modo comunque di fornire un contributo rilevante anche sulle valutazioni di professionalità, poiché i loro ordini professionali locali rientrano tra le fonti tipizzate d’informazioni su fatti specifici[21].
A conti fatti purtroppo si hanno esempi molto ridotti di contributi in tal senso. L’esperienza di chi ha fatto parte o fa parte tuttora dei Consigli giudiziari è di un’Avvocatura pressoché silente pure sulla casistica di magistrati particolarmente controversi (e criticati nei corridoi dei palazzi) nei rispettivi distretti. Neppure si ha notizia di segnalazioni effettuate a seguito delle audizioni dei presidenti dei Consigli dell’ordine sentiti dal CSM nelle pratiche per eventuale trasferimento d’ufficio.
Sui controlli di professionalità in definitiva le istituzioni dell’Avvocatura non hanno sino a oggi espresso una visibile volontà di partecipazione.
È mancato, più in generale, un apporto corale e consapevole al governo della giustizia, tanto che anche rispetto all’organizzazione degli uffici giudiziari gli apporti sono stati sporadici e prevalentemente di carattere censorio. La stessa designazione dei componenti da parte dei Consigli dell’ordine avviene generalmente senza che vi sia una platea di aspiranti ampia e nota nel distretto: chi vi è chiamato, spesso vi partecipa più per spirito di servizio verso il proprio ordine professionale che per reale convincimento dell’utilità della funzione svolta.
È innegabile del resto che l’Avvocatura stessa sia oggi attraversata da problematiche pressanti, legate a fattori di cambiamento che rischiano di stravolgerne la fisionomia. La marginalità del suo contributo si deve dunque in parte imputare alla responsabilità anche della magistratura, incapace, in quel contesto, di fare apprezzare agli avvocati le prospettive dei concreti benefici che possono derivare da una collaborazione comune.
Resta il fatto che, per ammissione di chi fa parte di uno dei maggiori Consigli, ancora oggi “sono pochi gli avvocati che sanno cosa sia il Consiglio giudiziario”[22].
Nel quadro descritto la loro partecipazione alle valutazioni di professionalità – una delle questioni più controverse sui temi delle riforme ordinamentali – rischia di avvenire in condizioni non sufficientemente mature.
Va aggiunta un’ulteriore constatazione, relativa alla tendenza di larga parte della componente non togata di aderire quasi per istinto, nelle pratiche in materia tabellare, alle posizioni del presidente della Corte d’appello e del Procuratore generale. E’ possibile che ciò sia conseguenza, almeno in parte, del disorientamento provocato dalla dialettica, talvolta accesa, invalsa tra i magistrati che siedono nei Consigli giudiziari. Traspare comunque l’idea di una concezione dell’assetto della magistratura ancorata a una relazione gerarchica che non si può ovviamente condividere.
Può sembrare superfluo precisare che queste riflessioni sulle tendenze di fondo relative ai risultati dell’ingresso degli avvocati nei Consigli giudiziari non hanno pretesa di assolutezza. Rappresentano il frutto di esperienze dirette e notizie raccolte in incontri periodici con componenti di diversi organi distrettuali, nelle quali v’è spazio anche per alcuni esempi di collaborazione fattiva e d’impulso proficuo all’attività conciliare.
Ma le tendenze meno confortanti, ancora diffuse, hanno nel tempo spiazzato quella stessa parte di magistratura che nei decenni passati aveva perorato la causa della partecipazione degli avvocati al governo autonomo, convinta della necessità di coltivare una comune visione costituzionale della giurisdizione. Una volta che queste aspettative sono andate deluse, il futuro di Consigli giudiziari maggiormente partecipati dall’esterno richiede obiettivamente una ponderazione più profonda e matura, che rifugga peraltro da logiche di parte.
La maturità sta proprio nell’avere il coraggio di guardare con realismo all’esistente, per interrogarsi sulle prospettive effettive di possibili evoluzioni che oggi la stragrande maggioranza della magistratura non accetta. Occorre farlo per evitare che i Consigli giudiziari, soprattutto in alcuni distretti, diventino terreno di scontro tra visioni contrapposte e strumentali (o strumentalizzabili), aprendo così nuovi fronti di contrapposizione sulla giustizia di cui davvero non si avverte il bisogno.
6. Il Consiglio giudiziario del futuro
Il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario pendente in Parlamento interessa anche i Consigli giudiziari. Il “diritto di tribuna” per avvocati e docenti universitari previsto dal progetto del Ministro Bonafede diventerebbe, a seguito dell’emendamento dell’attuale Governo (n. 3.34), facoltà per i primi di “esprimere un voto unitario .. nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione”.
La proposta fa riferimento alle segnalazioni che dovrebbero essere già pervenute dal Consiglio dell’ordine al dirigente dell’ufficio giudiziario e che, purché riferite “a fatti specifici incidenti sulla professionalità”, attengano “a situazioni eventuali concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”[23].
Nell’assenza quasi assoluta di segnalazioni, la nuova norma aggiungerebbe ben poco al controllo di professionalità. Per converso se essa dovesse provocare una vitalità improvvisa dei Consigli dell’ordine sorgerebbero altri rischi, legati evidentemente agli interrogativi sulle ragioni della rinnovata attenzione dell’Avvocatura per questa tematica.
Ulteriori novità concernenti i giudizi di professionalità riguardano l’articolazione del giudizio positivo in “discreto, buono o ottimo con riferimento alla capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro” (già ribattezzato “pagelle” ai magistrati) e la rilevanza delle condanne disciplinari definitive anche per fatti accaduti in un quadriennio precedente a quello in valutazione.
Entrambe le proposte investono il tema degli incarichi direttivi e semidirettivi: la prima più direttamente, poiché riguarda la capacità auto-organizzativa del magistrato; le critiche iniziali dell’ANM si sono appuntate soprattutto sul fatto che la previsione di una pagella alimenterebbe inevitabilmente l’ansia di arrivismo che la riforma vorrebbe invece debellare. Vale la pena cogliere però un altro aspetto di contraddizione, collegato al fatto che, di fronte all’abuso invalso di aggettivazioni roboanti che si constata nei pareri attitudinali, si ricorra proprio ad un crescendo di aggettivi per valutare la capacità del magistrato di organizzarsi, senza tenere conto che tale capacità potrebbe essere stata messa in luce da eventi contingenti specifici (ad esempio un cambio di funzioni, un improvviso vuoto d’organico) in difetto dei quali quella di altri magistrati non ha potuto essere invece sollecitata.
La pendenza (e non solo la condanna) di procedure disciplinari (ma anche per incompatibilità ambientali) tocca un nodo irrisolto dell’operato dei Consigli giudiziari. Essi solitamente ne sono all’oscuro, non avendo strumenti per esserne posti a conoscenza. A sua volta il CSM non è solito adottare comunicazioni al riguardo. Accade pertanto che i primi esprimano valutazioni attitudinali senza sapere di fatti che, anche nella loro stessa storicità, indipendentemente dalla caratura disciplinare, possono assumere rilievo fondamentale. E’ paradossale che proprio l’organo periferico, che potrebbe meglio collocare l’evento nella realtà locale, non possa tenerne conto nel giudizio sulla capacità organizzativa concreta.
Appare quanto mai necessario che la stagione delle riforme riparta dunque da una rinnovata collaborazione tra CSM e Consigli giudiziari, attraverso un dialogo e una circolazione d’informazioni che va certamente procedimentalizzata, ma che non può mancare se si voglia uscire dall’impasse di una consultazione territoriale prevalentemente inutile, quale si dimostra essere quella attuale.
L’esperienza insegna che in un’organizzazione complessa le spinte al cambiamento non sono mai spontanee, ma vengono da fattori esterni o, meglio ancora, dal vertice.
Spetta dunque al CSM – tanto più nel momento in cui urgono segnali di cambiamento – rivitalizzare il contributo dei Consigli giudiziari in primo luogo attraverso un’operazione-trasparenza da troppo tempo reclamata e tuttavia inattuata.
Vi sono almeno quattro direzioni verso cui si può orientare tale operazione. Urge innanzi tutto rendere accessibili in tempo reale le notizie sullo stato di qualsiasi procedimento consiliare: un software neppure troppo sofisticato potrebbe consentire a tutti gli interessati la visione in tempo reale a che punto si trovi una pratica, quali elementi istruttori manchino ancora, quali passaggi ulteriori il suo iter ancora preveda. Si ridurrebbero così drasticamente, tra l’altro, le ragioni per cui il magistrato si trovi costretto a mettersi in contatto personale coi consiglieri o i segretari del CSM, sgravando questi ultimi d’incombenze informative e limitando i pericoli di tentativi indiretti (e talvolta involontari) d’influenzare le decisioni.
Secondariamente ai Consigli giudiziari dovrebbero essere messi a disposizione, nelle parti rilevanti per i pareri di loro competenza, i materiali acquisiti nel sistema ad altri scopi. Ci si riferisce anche ad elementi che siano di portata obiettivamente positiva, come l’elaborazione di una buona prassi, oppure neutri, come l’audizione di un magistrato dell’ufficio del dirigente in valutazione.
Al CSM compete necessariamente la ricerca del punto di equilibro tra gli spazi che ritenga di riconoscere all’organo locale per l’istruttoria e le esigenze di rispetto del segreto istruttorio o della riservatezza del magistrato interessato[24].
Va in terzo luogo risolta la questione della misurazione dell’attività del magistrato. L’affermazione vale in generale per l’attività giurisdizionale, poiché si è compreso che il dato statistico quantitativo non porta di per sé a giudizi probanti sulle capacità del magistrato, quando sia dissociato da parametri che consentano di comprendere la qualità del suo lavoro.
Per la valutazione delle attitudini direttive si pone un problema più specifico, che riguarda il vaglio dei risultati degli incarichi di collaborazione assolti dal magistrato. La rielaborazione del testo unico sulla dirigenza è sul punto ancora incompleta: ai Consigli giudiziari dovrebbero affidarsi strumenti concreti e diversificati di verifica (ad es. raccolta dei giudizi dei destinatari dell’attività; questionari rivolti all’interessato; report specifici; audizioni mirate), che diano garanzia sufficiente di utilità dell’incarico per il bene comune del loro svolgimento e al contempo lo rendano meno appetibile per quanti vi aspirino per mera ambizione personale.
Un’ultima più generale sollecitazione è di ordine spiccatamente culturale. Se davvero si vogliono responsabilizzare i singoli magistrati e indurli a partecipare attivamente al governo autonomo della giustizia sembra necessario che il CSM, quale organo preposto istituzionalmente alla tutela delle garanzie costituzionali della categoria e dei singoli, avvii e mantenga un dialogo costante, fatto di incontri, di trasmissioni di saperi, di formazione specifica che – distintamente da quella della Scuola Superiore – miri a diffondere e a rendere praticati nella giurisdizione l’indipendenza, l’autonomia, l’indipendenza per funzioni, la cura di un servizio che non sia incentrato sulle preoccupazioni disciplinari o performanti, ma abbia a cuore la tutela dei diritti dei cittadini. Solo così il Consiglio giudiziario potrà beneficiare a sua volta di apporti effettivi dagli uffici territoriali e operare senza apparire un controllore occhiuto del lavoro dei magistrati.
[1] Ci si riferisce alla legge delega 150/2005, attuata col d. lgs. 160/2006.
[2] Le competenze del Comitato Direttivo e dei Consigli giudiziari sono state disciplinate dal d. lgs. 25/2006 (rispettivamente agli artt. 7 e 15) e modificate con la legge 111/2007.
[3] Introdotte e disciplinate dall’art. 11 d. lgs. 160/2006.
[4] Delibera del Csm 20 ottobre 1999, Risoluzione sul decentramento dei Consigli giudiziari, p. 2 ss. Per un particolare consuntivo del lavoro di un Consiglio giudiziario nel biennio antecedente la riforma, cfr. D. Ceccarelli, I pareri dei Consigli giudiziari e il Consiglio Superiore della Magistratura, 12 maggio 2005, in www.movimentoperlagiustizia.org, consultato il 4 aprile 2022.
[5] Art. 15, primo comma, lett. d), d. lgs. 25/2006.
[6] Così P. Di Nicola, I poteri istruttori del Consiglio Giudiziario e dei suoi componenti, 1 aprile 2008, in www.movimento perlagiustizia.it, consultato l’8 aprile 2022. Vi si legge anche che “ai Consigli Giudiziari è attribuito un ruolo assai rilevante, specialmente nell’ambito delle valutazioni di professionalità: costruire “dal basso” un patrimonio conoscitivo sul magistrato che seguirà questo in tutta la sua carriera e che consentirà al CSM di svolgere, con cognizione di causa e sulla base di parametri fattuali, il proprio potere decisionale”.
[7] Art. 11, ottavo comma, d. lgs. 160/2006: “Il Consiglio superiore della magistratura procede alla valutazione di professionalità sulla base del parere espresso dal consiglio giudiziario e della relativa documentazione, nonché sulla base dei risultati delle ispezioni ordinarie; può anche assumere ulteriori elementi di conoscenza”.
[8] Art. 11, terzo comma, d. lgs. 160/2006.
[9] A oggi la circolare in materia di conferimenti degli incarichi direttivi e semidirettivi confluita nel cd. Testo unico sulla dirigenza giudiziaria è stata definitivamente aggiornata il 16 giugno 2021. E’ reperibile in www.csmapp.csm.it.
[10] Art. 56 del citato testo unico sulla dirigenza giudiziaria.
[11] Così A. Volpi, La legge sull’ordinamento giudiziario a tredici anni dalla riforma: bilancio e prospettive, relazione per la Scuola Superiore della Magistratura, 8 febbraio 2021.
[12] Cfr. R. Ionta e F. Salvatore, Dirigenza giudiziari: la parola al CSM. Intervista a Alberto Benedetti, Giuseppe Cascini e Loredana Miccichè, 4 aprile 2022, in www.giustiziainsieme.it.
[13] E. Bruti Liberati, La “carriera” in magistratura. Problemi aperti, soluzioni apparenti e soluzioni possibili, 30 marzo 2022, in www.giustiziainsieme.it, pur affermando che nell’ultimo mezzo secolo “il livello medio della dirigenza è cresciuto in una progressione costante e significativa”, riconosce che l’inefficienza diffusa dell’organizzazione giudiziaria.
[14] C. Castelli, La nomina dei dirigenti: problemi dei magistrati o del servizio?, 9 giugno 2020, in www.questionegiustizia.it.
[15] A. Natale, Quali consigli giudiziari, in L’orgoglio dell’autogoverno: una sfida possibile per i 60 anni del Csm, rivista trimestrale di Questione giustizia, 4, 2017.
[16] C. Valori, I consigli giudiziari, dieci anni dopo, 28 novembre 2017, in www.questionegiustizia.it.
[17] Di pigrizia e altri vizi della scrittura dei magistrati parla spesso G. Carofiglio, ad esempio in Con parole precise, Breviario di scrittura civile, 2015, Laterza.
[18] Il termine è impiegato da S. Benvenuti, Il conferimento degli incarichi direttivi. Riflessioni comparate a partire dell’affaire CSM, in Gruppo di Pisa, relazione al seminario Il Consiglio Superiore della magistratura: snodi problematici e prospettive di riforma, 23 ottobre 2020, p. 254.
[19] Art. 11, quarto comma, lett. a), d. lgs. 160/2006.
[20] Cfr. delibera CSM del 21 dicembre 2016.
[21] Art. 11, quarto comma, lett. f), d. lgs. 160/2006.
[22] C. Limentani, Consigli giudiziari: riforma cercasi”, giugno 2021, in www.agorapenale.it, consultato il 12 aprile 2022.
[23] Art. 11, quarto comma, lett. f), d. lgs. 160/2006.
[24] Cfr. P. Serrao d’Aquino, Le valutazioni di professionaità dei magistrati. Parte seconda. I nodi problematici: le fonti di conoscenza, il rapporto con il disciplinare, gli sfasamenti temporali, le modalità espressive, 23 settembre 2020, in www.giustiziainsieme.it.