ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Bruno Capponi intervista Gilda Policastro
Gilda Policastro è una studiosa di Letteratura italiana, una critica letteraria e una scrittrice. Ha pubblicato diversi saggi, libri di poesia, romanzi. Insegna scrittura creativa presso l’Accademia “Molly Bloom” (con sedi a Roma e Milano), cura la rubrica settimanale “La Bottega della poesia” per l’edizione romana de “La Repubblica”. Tiene seminari di Diritto e Letteratura presso l’Università Luiss-Guido Carli. Ad aprile uscirà il suo nuovo romanzo per La Nave di Teseo.
1) Cosa fa una letterata – poetessa, romanziera, critica – in un dipartimento di giurisprudenza?
C’è un aspetto destinale e uno occasionale. Il primo è legato a una mia passione molto precoce per la giustizia: il primo romanzo che ho letto da ragazzina è stato Delitto e castigo e ricordo discussioni interminabili con mio fratello maggiore su cosa fosse il “diritto”, inteso come possibilità o presunzione di conoscere, ed eventualmente perseguire, come pretende di fare Raskolnikov, il bene dell’umanità. Mi sarebbe piaciuto studiare Giurisprudenza, ma caso più unico che raro, la mia famiglia mi incoraggiò nella direzione della Letteratura, per cui ero evidentemente portata, stando agli insegnanti e ai voti del liceo. Grazie al mio secondo romanzo, che era ambientato all’Università e parlava anche di concorsi, mi sono ritrovata a un incontro con dei giuristi, tra cui il Prof. Capponi, che in quest’occasione veste gli inediti panni di intervistatore (sorrido). Da quell’incontro, l’idea di proporre agli studenti una serie di Testimonianze sul Diritto come tema letterario e, in seguito a un altro incontro decisivo, quello col Consigliere Alfredo Storto, che collabora con l’Accademia della Crusca, l’idea ulteriore di un ciclo di seminari sulla “semplificazione della lingua del Diritto”.
2) Quali considerazioni ti suggerisce la lettura delle sentenze della Corte di cassazione che hai discusso con i tuoi studenti?
Per un parlante comune, la lingua del diritto può risultare davvero oscura: ed è il motivo per cui gode di così cattiva fama presso gli scrittori. Nel mio percorso didattico, rileggo con gli studenti Boccaccio, Ariosto, Manzoni, e poi i grandi romanzieri moderni, da Dickens a Dostoevskij, arrivando naturalmente a Kafka, che mostra meglio di tutti l’ingranaggio perverso in cui ci può trascinare la mancata conoscenza della legge, anche dal punto di vista linguistico (com’è evidente, ad esempio, nella cavillosa spiegazione interna al romanzo delle parole che utilizza il custode a danno dell’uomo di campagna nella “parabola della legge”). Per un letterato, abituato a conoscere la lingua nei suoi aspetti “differenziali” (rispetto alla lingua della comunicazione corrente), non è poi così traumatico ritrovarsi di fronte a un testo altamente formalizzato, con una sintassi spesso tortuosa e delle parole che non sono di uso comune (i cosiddetti tecnicismi). Quello che mi sorprende di più è la difficoltà da parte degli specialisti di registrare e dar conto dei cambiamenti della lingua nel tempo: ma è un aspetto che riguarda finanche la poesia contemporanea, non solo i saperi e i linguaggi speciali. Un altro aspetto curioso è che a difendere la specificità della lingua del diritto e la necessità che rimanga distante dalla lingua “che si parla al bar” siano anche gli studenti, che probabilmente per i loro studi specialistici acquisiscono una precoce familiarità con gli strumenti e il linguaggio talvolta effettivamente impervio del diritto.
3) Nel 2015, una sentenza delle Sezioni Unite Civili ha deciso che gli atti del processo, e dunque anche la sentenza, non sono protetti dal diritto d’autore, e quindi possono essere replicati (copia-incollati) senza incorrere in violazioni. Che pensi di questa impostazione?
Non mi sorprende se penso alla concezione del diritto che ho visto più radicata, nei miei studi recenti sull’argomento. Un sapere millenario e pressoché immobile dal Placito Capuano alle sentenze dell’altro ieri che commentiamo in classe. Però, proprio in considerazione degli studi più aggiornati, ho preso a riflettere su quello che la linguista Patrizia Bellucci in un suo libro intitolato A onor del vero (fondamenti di linguistica giudiziaria), chiama “l’aspetto creativo” della formulazione di una sentenza. Se l’invito dei linguisti ai giuristi è a considerare una sentenza nel contesto particolare e a ricreare, di quel contesto, le specificità (culturali, sociali, politiche, caratteriali) in un senso latamente “letterario”, non capisco perché non si debba tutelare, di una sentenza, anche l’autorialità. Ma qui forse sono in gioco questioni troppo specifiche e il mio sapere si arresta sulla soglia.
4) Pur non essendo una giurista, sei una professionista della parola: come pensi debba essere redatta una sentenza per riuscire comprensibile?
Meglio di me lo hanno spiegato eminenti linguisti come Bice Mortara Garavelli, Tullio De Mauro e Luca Serianni: è necessario che la sentenza non replichi pedissequamente quegli stereotipi che hanno reso il linguaggio del diritto l’obiettivo polemico degli scrittori, dal latinorum manzoniano ai paradossi del Commissario Magrelli (alter-ego leguleio di uno dei più importanti poeti contemporanei). Dall’inversione dell’ordo naturalis (che è anche una tabe del “poetese”, ovvero della concezione della poesia più attardata e paludata) alla tendenza al nominalismo e all’astrazione, all’eccessivo impego di eufemismi, perifrasi, dittologie sinonimiche, arcaismi, tecnicismi e così via. È convinzione unanime che un modello di chiarezza e precisione ancora valido sia la Costituzione, che non a caso fu stesa da giuristi e linguisti insieme. Una riflessione molto importante che condivido da subito con gli studenti la mutuo da Gian Luigi Beccaria, che tra l’altro ha coniato la definizione di “linguaggi settoriali”: la lingua del diritto è un codice, quindi è pensata per una cerchia limitata di persone, e però per scopi che riguardano tutta la comunità. È un concetto fondamentale, che vale, in generale, per tutti i linguaggi speciali, dalla medicina all’economia: la precisione non deve andare a scapito dell’accessibilità e, aggiungeva De Mauro, se da parte dei parlanti deve esserci uno sforzo di acquisizione di competenze e di conoscenze, in generale, rispetto a tutti gli ambiti del sapere, chi detiene in partenza delle conoscenze specialistiche non deve far valere le proprie competenze come arma di potere e sopraffazione, ma metterle a servizio del bene comune.
4) Cosa pensi dei corsi universitari impartiti da remoto?
Nonostante viva, per lavoro, di fronte a uno schermo per la quasi totalità delle mie giornate (o forse proprio per questo), all’inizio per me è stato decisamente straniante rinunciare alla dimensione dell’incontro “reale” con la classe: ma credo di averci fatto presto l’abitudine e mi pare così sia stato a maggior ragione per le generazioni dei cosiddetti nativi digitali. Io la mia tesi di laurea l’ho scritta con un pc in prestito, perché ancora non ne avevo uno, e il mio primo cellulare l’ho avuto dopo la laurea. Pleistocene, rispetto alle competenze di mio nipote di sei anni, che manovra agilmente il pc e il telefono del papà da quando ne aveva tre. Dubito sia un vero problema, dal punto di vista dell’apprendimento, stare seduti alla scrivania di casa propria invece che su un banco in aula, specie per persone già adulte e formate come gli studenti universitari. Lo è di più per la socialità, che certamente è un nucleo importante delle nostre vite, ma in una emergenza sanitaria senza precedenti nella storia recente è stato un prezzo da pagare per tutti, e credo che stia alle famiglie non indulgere troppo alla retorica della giovinezza negata (dalla pandemia, più che dalle misure adoperata per contrastarla). Non siamo in guerra, per fortuna.
5. Alla luce dell’esperienza fatta in un dipartimento di giurisprudenza, cosa ti sentiresti di dire ai giovani giuristi?
Mi ha sorpreso molto vedere pochissime mani alzate quando ho chiesto chi avesse letto Delitto e castigo o Il Processo, quindi l’invito spero non troppo paternalistico è quello a conservare degli spazi di curiosità e di approfondimento della conoscenza non solo intesa in senso professionale o finalizzabile, ma anche come fonte di evasione e di godimento, perché la letteratura è anche, anzi, primariamente questo. Devo però anche confessare la soddisfazione provata nel ricevere la mail di un’ex studentessa, ormai laureata, che mi ringraziava per aver “declamato Eschilo in classe con tanta passione”. Magari non ho propriamente “declamato” (ma non ci giurerei…), e però è vero che la mia passione per la letteratura e il diritto viene anche dai miei trascorsi classici: confrontarmi con le aporie della tragedia, e col senso del tragico che si annida nell’esistenza, è stato per me uno dei momenti più alti della formazione e poterlo trasmettere ad altre generazioni, credo sia davvero un momento emozionante (un’emozione non “sentimentale”, ma “intellettuale”, come diceva un poeta a me caro, Nanni Balestrini). Il grande vantaggio dello studio è che puoi non smettere mai. Quanto all’insegnamento, non l’ho mai considerato un travaso di nozioni, ma un incontro stimolante al di qua come al di là della cattedra.
La confisca senza condanna nel giudizio di impugnazione [1]
di Pasquale Fimiani
Fin dalla sua introduzione l’art. 578-bis c.p.p. ha posto dubbi interpretativi relativamente alle tipologie di confische per le quali, in presenza di reato estinto, il giudice di appello o la Corte di Cassazione possono decidere sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato. Le questioni interpretative si sono ulteriormente ampliate a seguito della “spazzacorrotti” che ha modificato la norma estendendo i poteri del giudice dell’impugnazione in tema di confisca relativa a reato prescritto a quella prevista dall’art. 322-ter c.p. (anche quindi quella per equivalente). Temi sui quali le recenti sentenze Perroni delle Sezioni Unite del 2020 e Cipriani della quinta sezione del 2021 consentono di ricostruire un quadro sufficientemente omogeneo, sia pure con qualche chiaroscuro.
Sommario: 1. Premessa - 2. L’ambito di applicabilità dell’art. 578-bis secondo la sentenza Perroni -3. L’art. 578-bis e la confisca per equivalente - 4. L’art. 578-bis e la confisca facoltativa del profitto del reato prescritto - 5. Profili temporali dell’applicazione dell’art. 578-bis.
1. Premessa
Fin dalla sua introduzione con il d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21 (c.d. riserva di codice), l’art. 578-bis c.p.p. aveva posto dubbi interpretativi relativamente a:
1) le tipologie di confische per le quali, in presenza di reato estinto, il giudice di appello o la Corte di Cassazione possono decidere sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato ed in particolare la riferibilità della norma alla speciale confisca da lottizzazione urbanistica prevista dall’art. 44 TUE;
2) il rapporto tra l’art. 578-bis c.p.p. ed il principio di diritto affermato dalla sentenza Lucci delle Sezioni Unite, n. 31617/2015, secondo cui il giudice, nel dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell’art. 240, comma 2, n. 1, c.p., la confisca del prezzo e, ai sensi dell’art. 322-ter c.p., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio.
Le questioni interpretative si sono ulteriormente ampliate a seguito della legge n. 3/2019 “spazzacorrotti” che ha modificato l’art. 578-bis c.p.p. estendendo i poteri del giudice dell’impugnazione in tema di confisca relativa a reato prescritto a quella prevista dall’art. 322-ter c.p. (anche quindi quella per equivalente).
Il punto di partenza per esaminare tali questioni è il dictum delle Sezioni Unite penali con la sentenza Perroni del 30 aprile 2020, n. 13539, relativa ad un ricorso avverso una sentenza di appello confermativa della condanna per il reato di lottizzazione abusiva (art. 44 d.P.R. n. 380/2001).
Le Sezioni Unite, superato il dubbio di costituzionalità dall’art. 578-bis c.p.p. per eccesso di delega prospettato dall’ordinanza di rimessione, hanno enunciato i seguenti principi di diritto:
«La confisca di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva determinata dalla prescrizione del reato purché sia stata accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio non può, in applicazione dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento.
In caso di declaratoria, all’esito del giudizio di impugnazione, di estinzione del reato di lottizzazione abusiva per prescrizione, il giudice di appello e la Corte di cassazione sono tenuti, in applicazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen., a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001».
La sentenza, inoltre, ha ritenuto di non poter valutare l’illegittimità della statuizione della confisca urbanistica sotto il profilo del rispetto del principio di proporzionalità evocato dall’ordinanza di rimessione come questione rilevabile d’ufficio ed ha tratto la conseguenza di sistema della inapplicabilità della confisca in primo grado se il reato è già prescritto in quella sede, temi entrambi non oggetto del presente intervento.
2. L’ambito di applicabilità dell’art. 578-bis secondo la sentenza Perroni
Il dubbio di applicabilità dell’art. 578-bis c.p.p. alla confisca da lottizzazione abusiva veniva argomentato dall’ordinanza di rimessione [2] con la genesi della norma, frutto del trasferimento – ad opera dell’art. 6, comma 4, d.lgs. n. 21/2018, attuativo della delega della riforma Orlando per la riserva di codice – del comma 4-septies dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306/1992 in tema di confisca allargata.
Secondo tale comma, introdotto con la legge 21 ottobre 2017, n. 161 di riforma del Codice antimafia, «le disposizioni di cui ai commi precedenti, ad eccezione del comma 2-ter» (relativo alla confisca per equivalente) «si applicano quando, pronunziata sentenza di condanna in uno dei gradi di giudizio, il giudice di appello o la Corte di cassazione dichiarano estinto il reato per prescrizione o per amnistia, decidendo sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato».
L’art. 240-bis c.p. (parimenti riformulato e frutto del trasferimento dell’art. 12-sexies c.p. da parte del citato d.lgs. n. 21/2018), cui l’art. 578-bis c.p.p. fa richiamo, non contiene, a differenza dell’abrogato art. 12-sexies, riferimenti né all’art. 295 del d.P.R. n. 43/1973 (T.U. doganale), né all’art. 73, escluso il comma 5, del d.P.R. n. 309/1990 (T.U. stupefacenti). Ciò per il necessario allineamento all’art. 3-bis c.p. per il quale, se una materia è disciplinata in un testo unico, le disposizioni che la riguardano devono essere inserite all’interno di tale corpus normativo; ed infatti, nei menzionati testi unici sono state previste due nuove disposizioni sulla confisca allargata (art. 6, commi 5 e 6, d.lgs. n. 21/2018).
Secondo l’ordinanza di rimessione, tale essendo la genesi dell’art. 578-bis c.p.p., la riformulazione rispetto al comma 4-septies dell’art. 12-sexies era finalizzata solo a ripristinare la situazione precedente e quindi a consentire l’applicazione della confisca al giudice dell’impugnazione anche (ma solo) ai reati prescritti in materia di contrabbando e di sostanze stupefacenti: in tal modo si spiega l’inciso dopo il richiamo alla confisca di cui all’art. 240-bis c.p. «e da altre disposizioni di legge» che non avrebbe quindi portata di carattere generale.
Conclusione che sarebbe stata rafforzata con l’inserimento, dopo tale inciso, con l’art. 1, comma 4, lett. f ) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. spazzacorrotti), dell’ulteriore «o la confisca prevista dall’art. 322-ter c.p.» (confisca per equivalente), poiché «l’uso della congiunzione disgiuntiva “o”», renderebbe evidente «sia la diversa natura della natura ablativa, rispetto alla confisca di cui all’art. 240-bis c.p., sia la voluntas legis di limitare tassativamente l’applicabilità della norma processuale alle confische menzionate», per cui sarebbe esclusa dallo spettro applicativo della norma la confisca urbanistica, in quanto di natura diversa sia dalla confisca allargata che da quella per equivalente.
Per la verità, sulla portata dell’art. 578-bis c.p.p. le Sezioni Unite si erano pronunciate già prima dell’udienza del 15 maggio 2019 in cui l’ordinanza di rimessione fu deliberata.
Infatti, il 7 febbraio 2019 era stata depositata la sentenza n. 6141 delle Sezioni Unite, assertiva dell’ammissibilità, sia agli effetti penali che civili, della revisione della sentenza del giudice di appello che, prosciogliendo l’imputato per l’estinzione del reato dovuta a prescrizione o amnistia e decidendo sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, abbia confermato la condanna al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile.
La sentenza, non massimata sul punto, ha ritenuto applicabile la revisione anche alle sentenze previste dall’art. 578-bis in quanto, stante l’analogia con l’art. 578 c.p.p. «all’interessato va, sia pur incidentalmente, riconosciuto lo status soggettivo di “condannato” (sia pur limitatamente alle statuizioni di confisca che conseguano all’incidentale accertamento di responsabilità richiesto dalla norma)» e, nel riportare il testo dell’art. 578-bis, ha chiosato le parole «o da altre disposizioni di legge» con l’inciso, tra parentesi: «il riferimento evoca le plurime forme di confisca previste dalle leggi penali speciali» (p. 27).
Vero è che l’ampia lettura, da parte delle Sezioni Unite, della locuzione «altre disposizioni di legge» che prevedono la confisca non era accompagnata da alcun iter argomentativo, ma sembrava evidente come le Sezioni Unite avessero già avallato i plurimi precedenti della terza sezione penale della Cassazione assertivi dell’applicabilità dell’art. 578-bis c.p.p. alla confisca urbanistica, per cui sfuggivano le ragioni per le quali l’ordinanza di rimessione ad esse non facesse alcun riferimento, né espresso, né implicito.
La sentenza Perroni non si è limitata a richiamare tale precedente, ma ha svolto ampie ed autonome considerazioni per giustificare l’applicabilità dell’art. 578-bis alla confisca urbanistica.
Viene riconosciuta l’esattezza della genesi della norma da parte dell’ordinanza di rimessione, ma si osserva che la stessa non ha solo rappresentato il sostanziale trapianto, nel codice di rito, del contenuto dell’art. 12-sexies, comma 4-septies del d.l. n. 306/1992, ma ha ulteriormente aggiunto, sin dalla versione originaria, il richiamo alla confisca «prevista da altre disposizioni di legge» e, successivamente, per effetto della modifica intervenuta ad opera dell’art. 1, comma 4, lett. f ), legge 9 gennaio 2019, n. 3, il richiamo alla confisca «prevista dall’articolo 322-ter del codice penale».
Questa evoluzione rende «evidente che, quali che siano state le ragioni che hanno determinato il legislatore ad introdurre la norma in oggetto nel codice di rito, la stessa non può che essere letta secondo quanto in essa espressamente contenuto, in particolare non potendo non riconoscersi al richiamo alla confisca «prevista da altre disposizioni di legge», formulato senza ulteriori specificazioni, una valenza di carattere generale, capace di ricomprendere in essa anche le confische disposte da fonti normative poste al di fuori del codice penale».
Per confermare tale ampia lettura dell’art. 578-bis c.p.p., le Sezioni Unite si confrontano con i tre argomenti che secondo l’ordinanza di rimessione ne limiterebbero l’applicabilità alla sola confisca allargata ed a quella prevista dall’art. 322-ter c.p.
In primo luogo, ritenere l’inciso «altre disposizioni di legge» riferibile esclusivamente alla confisca allargata relativa al reato di cui all’art. 295, comma 2, d.P.R. n. 43/1973 ed a quella relativa al reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/1993 per il fatto che, in quanto disciplinate entrambe da testi unici, non avrebbero potuto, per il principio della “riserva di codice” di cui all’art. 3-bis c.p., essere espressamente menzionate nel codice penale, non considera che tale principio riguarda solo le «nuove disposizioni che prevedono reati», le quali «possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia», essendosi, cioè, voluto evitare che con leggi diverse da tali due fonti si possano introdurre nuove fattispecie di reato, mentre nella specie non si sarebbe trattato di introdurre nuove fattispecie di reato ma solo di menzionare, ai fini della regolamentazione della confisca per esse prevista, fattispecie già contemplate dall’ordinamento.
Non appare poi rilevante il fatto che la rubrica della norma riguardi unicamente la “confisca in casi particolari”, in tal modo sembrando alludere alla sola confisca “allargata” di cui all’art. 240-bis, che in rubrica riporta la stessa formulazione, in quanto «le partizioni sistematiche di una legge, in particolare titoli, capi e rubriche, non fanno parte né integrano il testo legislativo e quindi non vincolano l’interprete, in quanto la disciplina normativa sulla formazione delle leggi prevede che solo i singoli articoli siano oggetto di esame e di approvazione da parte degli organi legislativi» [3].
Ed infine, non riveste carattere ostativo ad una lettura inclusiva anche della confisca urbanistica il fatto che, alla “confisca in casi particolari” e a quella “prevista … da altre disposizioni di legge”, tra loro legate dalla congiunzione “e”, si sia poi aggiunta anche la confisca di cui all’art. 322-ter cit., attraverso la diversa congiunzione “o”, in quanto «la versione originaria era limitata ai soli due primi elementi mentre il riferimento alla confisca di cui all’art. 322-ter c.p. è stato il frutto di interpolazione successiva, sicché l’affidamento sull’appropriata utilizzazione delle congiunzioni (dapprima la “e” e, poi, la “o”) e sulle sue conseguenze interpretative appare in definitiva assai labile ove non rapportato, come necessario, alla formulazione primigenia caratterizzata dal semplice riferimento ad una confisca prevista dall’art. 240-bis nonché da altre leggi speciali; ed anzi, ben potrebbe dirsi che è la stessa aggiunta posteriore, in realtà, ed in senso opposto a quanto si vorrebbe, a rafforzare una lettura della disposizione inclusiva anche dei provvedimenti ablatori aventi portata lato sensu sanzionatoria, come indubbiamente è la confisca per equivalente e come è la confisca urbanistica, avente natura, per consolidata esegesi di questa Corte, di “sanzione amministrativa”».
Rinviando al paragrafo successivo per considerazioni specifiche sul riferimento alla confisca per equivalente, l’ampia lettura dell’art. 578-bis c.p.p. nel senso che il giudizio sulla praticabilità della confisca non debba arrestarsi in Cassazione in presenza di reato prescritto va condivisa, quanto alla confisca da lottizzazione abusiva, per due ulteriori ragioni specifiche.
La prima è che alla Cassazione non è preclusa, secondo il dictum della sentenza Matrone delle Sezioni Unite [4], la possibilità di pronunciare sentenza di annullamento senza rinvio «se ritiene superfluo il rinvio e se, anche all’esito di valutazioni discrezionali, può decidere la causa alla stregua degli elementi di fatto già accertati o sulla base delle statuizioni adottate dal giudice di merito, non risultando necessari ulteriori accertamenti».
Ben potrebbe, infatti, la sentenza di merito descrivere in modo puntuale lo stato dei luoghi, la consistenza dell’abuso ed i beni confiscati, in modo da consentire alla Corte di annullare senza rinvio per violazione del principio di proporzionalità e di decidere nel merito sulla confisca ai sensi dell’art. 620, lett. l), c.p.p.
Sarebbe anche in tal caso incongrua una soluzione che faccia dipendere la competenza del giudice penale piuttosto che della P.A. a decidere sulla ablazione delle aree abusivamente lottizzate dal come il giudice del merito abbia motivato nel descrivere gli elementi fattuali giustificativi della confisca da lui disposta o confermata.
La seconda considerazione si fonda sull’obbligatorietà dell’intervento del giudice penale quale garanzia dell’effettività della tutela in materia di illeciti urbanistici nel caso di inerzia della P.A. (retro).
Sarebbe invero incongruo consentire che il processo penale, sede propria di esercizio di tale funzione, debba arrestarsi senza consentirne il pieno e completo svolgimento, affidando la tutela ad un intervento dell’Amministrazione meramente eventuale, nell’an e nel quomodo.
Considerazioni queste che confermano come l’applicabilità dell’art. 578-bis c.p.p. alla confisca urbanistica potesse già fondarsi su ragioni di sistema, come rilevato da un primo commento alle Sezioni Unite Perroni [5] secondo cui «anziché intraprendere una faticosa interpretazione letterale, il più ampio consesso della nomofilachia avrebbe potuto privilegiare una lettura logico-sistematica», valorizzando «la circostanza che l’art. 578-bis c.p.p. costituisce il precipitato dei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale e convenzionale proprio in relazione ai rapporti fra confisca ex art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001» [6].
Va poi sottolineato come le Sezioni Unite si sono concentrate sulla risposta al quesito della applicabilità dell’art. 578-bis c.p.p. alla confisca urbanistica, ma non hanno esaminato in modo pieno ed esaustivo la questione di quali siano le ipotesi di confisca cui si riferisce l’inciso «altre disposizioni di legge», tema che si pone sotto un duplice versante:
1) se la valorizzazione da parte delle Sezioni Unite della comune natura sanzionatoria della confisca urbanistica e di quella per equivalente consenta di affermare che anche quest’ultima ricade, in ogni caso, nello spettro applicativo della norma;
2) se l’art. 578-bis sia riferibile alla sola confisca obbligatoria od anche a quella facoltativa.
Rinviando ai seguenti due paragrafi per l’esame di tali questioni, sembra opportuno precisare sinteticamente l’operatività della regola della confiscabilità in presenza di reato prescritto nel corso del giudizio di impugnazione.
L’applicazione di tale regola nel giudizio di appello presuppone in ogni caso una condanna in primo grado, non essendo consentita la confisca se questo si sia concluso con assoluzione e la prescrizione maturi durante il giudizio di secondo grado, poiché lo stesso dovrebbe proseguire al solo fine di compiere l’accertamento di responsabilità, in contrasto con il dictum delle Sezioni Unite.
Per le stesse ragioni, qualora la prescrizione maturi nel corso del giudizio di cassazione, l’art. 578-bis è inapplicabile non solo nel caso di doppia conforme di assoluzione, ma anche qualora la sentenza d’appello abbia assolto nel merito l’imputato già condannato in primo grado, non potendosi ammettere la reviviscenza della confisca disposta in tale giudizio [7].
Diverso è il caso di condanna in appello conseguente alla assoluzione in primo grado, con applicazione della confisca, poiché in tal caso la prescrizione viene a maturare nel corso del giudizio di cassazione dopo una precedente pronuncia di condanna.
3. L’art. 578-bis e la confisca per equivalente
La sentenza Perroni ha esaminato la specifica questione dell’applicabilità dell’art. 578-bis alla confisca da lottizzazione urbanistica sulla base di un’ampia lettura della locuzione “altre disposizioni di legge” affermando, tra l’altro, che l’aggiunta delle parole «o la confisca prevista dall’articolo 322-ter del codice penale» da parte della legge n. 3/2019 potrebbe contribuire a «rafforzare una lettura della disposizione inclusiva anche dei provvedimenti ablatori aventi portata lato sensu sanzionatoria, come indubbiamente è la confisca per equivalente e come è la confisca urbanistica, avente natura, per consolidata esegesi di questa Corte, di “sanzione amministrativa”».
Si pone dunque la questione se con tali affermazioni le Sezioni Unite abbiano inteso l’art. 578-bis c.p.p. riferibile a qualsiasi ipotesi di confisca per equivalente [8] e non solo a quella di cui all’art. 322-ter c.p.
Nonostante l’equivocità dell’incidentale riferimento alla confisca per equivalente tout court possa giustificare il dubbio [9], deve ritenersi preferibile la seconda opzione.
Occorre infatti considerare la genesi dell’art. 578-bis c.p.p., che ha trasferito nel codice di procedura il comma 4-septies dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306/1992 in tema di confisca allargata, il quale escludeva espressamente dal suo spettro applicativo il comma 2-ter, relativo alla confisca per equivalente e, fin dalla sua prima versione, fa espresso riferimento alla sola confisca diretta ex art. 240-bis, comma 1, c.p., con pretermissione dell’art. 240-bis, comma 2, c.p. disciplinante la confisca per equivalente.
Per tal verso, come è opinione diffusa [10], la norma ha inteso fotografare lo schema delineato dalla sentenza Lucci nella parte in cui escluse la possibilità per il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, di pronunciarsi sulla confisca per equivalente anche quando vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio, atteso il carattere “afflittivo e sanzionatorio“ della confisca per equivalente, preclusivo della c.d. condanna sostanziale.
Vero è che con la legge n. 3/2019 è stato aggiunto il rinvio all’art. 322-ter c.p., comprensivo dell’intero dettato della norma e dunque anche del suo comma 2 relativo alla confisca per equivalente, ma tale addizione non sarebbe stata necessaria se il rinvio alle altre disposizioni di legge fosse stato già inclusivo della confisca per equivalente.
Sembra allora che il legislatore del 2019, avvertito di una potenziale interpretazione restrittiva quale quella proposta dall’ordinanza di rimessione, abbia inteso eliminare ogni dubbio sull’ampia portata della clausola, precisando che essa comprende anche la confisca di cui all’art. 322-ter c.p. Soluzione, questa, condivisa da quanti ritengono che la legge n. 3/2019, «nell’aggiungere – mediante l’uso della disgiuntiva “o” la cui funzione è proprio quella di segnalare la diversa natura della misura ablatoria associata – il rinvio all’art. 322-ter c.p., esprime la volontà di limitare l’ambito di operatività dell’art. 578-bis c.p.p. alle confische ivi indicate in via tassativa, senza che siano possibili applicazioni analogiche o assimilazioni» [11].
È peraltro indubbio che, per tal via, la legge n. 3/2019 finisca per escludere l’originario stretto collegamento dell’art. 578-bis con la specifica materia di cui si è occupata la sentenza Lucci, rendendo meno significativa la circostanza che tale sentenza giustifica il suo esito decisorio con esclusivo riferimento alla confisca obbligatoria del prezzo o profitto del reato (misure ripristinatore non iscrivibili nel paradigma dell’art. 7 Cedu) [12].
Soluzione, questa, sulla cui tenuta convenzionale e costituzionale occorrerà riflettere, quantomeno per la tensione con il principio di ragionevolezza che genera, a causa della diversa disciplina in tema di applicazione della confisca per equivalente in presenza di prescrizione, tra i reati contro la P.A. e gli altri [13].
L’affermazione incidentale contenuta nella sentenza Perroni deve quindi ritersi giustificatrice non già dell’applicabilità dell’art. 578-bis a tutte le forme di confisca per equivalente ma, stante l’estensione della norma alla confisca per equivalente prevista dall’art. 322-ter c.p., quale mero (ulteriore) argomento a sostegno della sua riferibilità alla confisca urbanistica in ragione della comune natura sanzionatoria.
Tale identità di natura, va aggiunto, non può giustificare l’applicabilità dell’art. 578-bis a tutte le forme di confisca per equivalente, in quanto tra le due ipotesi sussiste una fondamentale differenza per essere quella urbanistica una confisca diretta [14].
4. L’art. 578-bis e la confisca facoltativa del profitto del reato prescritto
La quinta sezione della Cassazione, con ordinanza n. 7881/2020 [15], aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione «inerente la legittimità o meno della confisca facoltativa diretta del profitto del reato ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 1, in presenza di pronuncia di prescrizione, pur facente seguito a condanna di primo grado; altrimenti detto, quella del se la confisca facoltativa citata presupponga o meno un giudicato formale di condanna o, piuttosto, se la stessa possa semplicemente accedere ad un completo accertamento da parte del giudice del merito in ordine al profilo soggettivo e oggettivo del reato di riferimento, accertamento che può essere ribadito anche in una sentenza di proscioglimento per prescrizione».
Nella fattispecie la Corte territoriale, in qualità di giudice del rinvio, aveva confermato la confisca ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., del profitto del reato di cui all’art. 416 c.p., già disposta con precedente sentenza dichiarativa della prescrizione del reato, poi annullata dalla Sez. I penale della Corte di Cassazione n. 42887/2018, con rinvio limitatamente alla confisca del profitto derivante all’imputato dal reato associativo, chiedendo di “qualificare” la natura della confisca, se cioè disposta ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 240 c.p.
La Corte d’appello aveva sostenuto che, nel rimettere ad essa, quale giudice del rinvio, la qualificazione della confisca del profitto come obbligatoria o facoltativa, la Corte di Cassazione aveva, implicitamente, preso posizione in termini inequivoci in ordine alla applicabilità dei principi della sentenza Lucci anche alla confisca facoltativa di cui all’art. 240, comma 1, c.p. Sul punto la Corte territoriale aveva argomentato, sostenendo che «se il S.C. avesse ritenuto inapplicabile alla confisca facoltativa il principio affermato dalla sentenza S.U. Lucci, non avrebbe annullato la sentenza della Corte di assise d’appello demandando al giudice di rinvio di qualificare la confisca come obbligatoria o facoltativa e di accertarne i relativi presupposti. Infatti, una volta qualificati i beni in questione come profitto del (provato) reato di associazione per delinquere, il S.C. avrebbe potuto decidere direttamente in ordine alle statuizioni relative alla confisca». Infatti, l’esclusione dell’applicabilità dei principi affermati dalla sentenza Lucci avrebbe determinato, stante la mancanza di una sentenza di condanna, l’annullamento senza rinvio della sentenza relativamente alla confisca facoltativa. Dunque, secondo la Corte d’appello l’annullamento con rinvio sì giustifica in quanto la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile il principio della sentenza Lucci anche al caso di confisca facoltativa, essendo il rinvio funzionale ad operare una «valutazione connotata da margini di discrezionalità, come tale preclusa al giudice di legittimità».
Questa lettura era confermata, secondo la Corte d’appello, dalla circostanza che la sentenza di annullamento della Corte di cassazione «non ha accolto l’esplicita deduzione della difesa che lamentava proprio il mancato rispetto dei principi affermati dalla sentenza S.U. Lucci», in quanto riferibili alla sola confisca obbligatoria del prezzo o del profitto e non alla confisca facoltativa del profitto, oggetto del processo.
Con provvedimento del 20 aprile 2020 [16] il Presidente aggiunto ha restituito gli atti alla Sezione remittente osservando che il giudice del rinvio aveva ritenuto essersi formato una sorta di giudicato implicito interno in ordine alla possibilità di disporre la confisca facoltativa in presenza di un reato estinto per prescrizione e che su questo tema l’ordinanza non si era soffermata, mentre avrebbe dovuto preliminarmente valutare l’eventuale esistenza della preclusione così come ritenuta dalla Corte d’appello e, solo dopo averla esclusa, rimettere la questione alle Sezioni Unite.
Va condiviso il dissenso dell’ordinanza nei confronti di una equiparazione tra confisca obbligatoria del prezzo del reato ex art. 240 c.p., comma 2, n. 1, e del profitto del reato ex art. 322-ter c.p. (fattispecie alla base della sentenza Lucci) e la confisca facoltativa del profitto ex art. 240 c.p., comma 1, fondata sulla comune finalità specialpreventiva.
Al contrario, come osservato dalla sezione quinta, le Sezioni Unite Lucci hanno «elaborato le loro tesi attorno ad una peculiare tipologia di confisca, fortemente connotata dalla funzione specialpreventiva di sterilizzare tutte le utilità prodotte dal reato in capo al suo autore. Una funzione, infatti, che, nell’interpretazione proposta dalle Sezioni Unite e nel bilanciamento con diritti fondamentali dell’individuo, come il diritto di proprietà e di iniziativa economica, è stata ritenuta prevalente con riferimento alla speciale tipologia di provvedimento ablativo obbligatorio considerato, ma che, proprio per tale peculiarità non sembra poter divenire criterio univoco di interpretazione in malam partem, anche laddove quel bilanciamento sia operabile partendo da presupposti diversi. E che la funzione socialpreventiva comune alla confisca facoltativa del profitto e a quella obbligatoria del prezzo del reato non possa valere ad esaurire il tema del rapporto fra le due misure, rendendole sovrapponibili quanto a disciplina applicativa, è dimostrato anche dal fatto che solo la seconda viene ritenuta, dal legislatore, compatibile col decreto penale di condanna (art. 460 c.p.p., comma 2)».
L’obbligatorietà delle confische cui si riferiscono la sentenza Lucci e l’art. 578-bis appare quindi decisiva per escluderne l’estensione alla confisca facoltativa del profitto, anche per coerenza con il principio di legalità che sovraintende al regime delle misure ablative [17].
Questa è stata la conclusione cui è pervenuta la quinta sezione con la sentenza n. 52/2021, negando una possibile “interpretazione generalizzante di sezioni unite Lucci che ne consenta l’applicabilità alla confisca facoltativa”.
Nell’argomentare tale esito la Corte ripropone la propria lettura della sentenza Lucci come riferita ad “una peculiare tipologia di confisca, fortemente connotata dalla funzione specialpreventiva di sterilizzare tutte le utilità prodotte dal reato in capo al suo autore”.
Rispetto a questa impostazione, già presente nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite cui è seguita la restituzione in sezione, del tutto nuova invece è l’interpretazione che la sentenza in discorso dà alla novella dell’art. 578-bis c.p.p.
Ed infatti, nell’ordinanza si era soltanto delimitata la sua riferibilità non ad “ogni ipotesi di confisca, ma solo con riferimento ad ipotesi di confisca obbligatoria specificamente enunciate (ex art. 240-bis, comma 1 ed ex 322-ter c.p.)”.
Veniva pertanto omesso nell’ordinanza ogni richiamo alla locuzione “altre disposizioni di legge” di cui invece in sentenza si ritiene di esaminare la portata con un richiamo alla giurisprudenza delle Sezioni Unite (sentt. 6141/2019 e 13539/2020) per le quali si tratterebbe di “espressione riferita alle fonti legislative diverse dal codice penale”.
Va subito rimarcato, come già anticipato, che le Sezioni Unite 6141/2019 hanno affermato che l’inciso in discorso “evoca le plurime forme di confisca previste dalle leggi penali speciali” e, pertanto, adotta un verbo, “evoca”, che non esclude la riferibilità anche a confische obbligatorie previste dal codice penale come ad esempio quella ex art. 416-bis, comma 7, c.p.
Quanto poi alla sentenza 13539/2020, le Sezioni Unite riconoscono senz’altro all’inciso in questione una valenza generale, capace di ricomprendere “anche” quelle disposte da fonti normative extra codice penale.
È evidente, dunque, come non possa ancorarsi al diritto vivente delle Sezioni Unite l’affermazione della sentenza 52/2021 per la quale “esulano dalla disposizione di nuovo conio dell’art. 578-bis le ipotesi di confisca dell’art. 240 c.p.”.
Un chiaro infortunio ermeneutico, finalizzato ad un ulteriore conforto della tesi di inapplicabilità alla confisca facoltativa di una confisca senza formale condanna, ma che dimentica la presenza nell’art. 240 c.p. anche del comma 2, n. 1, disciplinante la confisca obbligatoria del prezzo del reato, decisamente inclusa nello spettro applicativo della sentenza Lucci.
5. Profili temporali dell’applicazione dell’art. 578-bis
L’incidenza temporale della “spazzacorrotti” riguarda due profili.
Il primo concerne le conseguenze del nuovo regime della sospensione della prescrizione con la pronuncia della sentenza di primo grado, introdotto con la modifica dell’art. 159 c.p. a decorrere dal 1° gennaio 2020.
Considerato che la nuova disciplina è inapplicabile retroattivamente, trattandosi di novità produttiva di effetti sostanziali in malam partem (come anche l’ordinanza di rimessione n. 40380/2019 precisa), l’applicabilità dell’art. 578-bis finisce per impattare sui reati commessi precedentemente, sempre che, stante il dictum della sentenza Perroni, la prescrizione sia maturata dopo la sentenza di condanna in primo grado [18].
Per i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, essendo sospeso il corso della prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, l’art. 578-bis non può essere applicato dal giudice dell’impugnazione.
Il secondo versante in cui la “spazzacorrotti” pone questioni di regime transitorio riguarda l’applicabilità dell’art. 578-bis alla confisca di cui all’art. 322-ter c.p. per i reati contro la P.A. commessi prima dell’entrata in vigore della modifica della norma da parte della legge n. 3/2019 (31 gennaio 2019).
La questione non si pone per la confisca diretta del profitto e del prezzo prevista obbligatoriamente dall’art. 578-bis, in quanto il principio di irretroattività della legge penale non opera, trattandosi di misura di sicurezza (art. 200 c.p.).
Si pone invece per la confisca per equivalente, considerata la sua natura sanzionatoria.
Secondo un orientamento[19] «la norma in discorso, smussando la fisionomia punitiva della confisca per equivalente, non ha natura meramente processuale, ma almeno mista, dunque anche sostanziale. Ciò importa l’indefettibile ossequio al principio di irretroattività».
Altri[20] ritengono che l’art 578-bis c.p.p. è norma di carattere processuale per cui vige il principio tempus regit actum, pur criticando le conseguenze di tale qualifica, in quanto «si consentirebbe l’operatività del provvedimento di confisca per equivalente anche in via retroattiva, in contrasto con l’art. 2 c.p. e 25 Cost., 7 CEDU in punto di irretroattività della legge penale sfavorevole».
Sviluppando tali considerazioni si dovrebbe però affermare l’operatività di tale principio non solo nel caso in cui il legislatore introduca, per un determinato reato, la confisca per equivalente[21], ma anche quando, come nel caso di specie, la sua applicabilità sia estesa per effetto di una modifica di una norma processuale. Se, infatti, la ratio del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole è quella di tutelare l’affidamento e la libertà di autodeterminazione, questa esigenza di tutela dovrebbe valere anche in caso di applicazione di legge processuale, ma con effetti sostanziali in malam partem, come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32/2020 [22], in merito al divieto di applicazione retroattiva delle modifiche peggiorative della disciplina delle misure alternative alla detenzione.
Coerentemente con tale impostazione, si dovrebbe concludere che, per i reati contro la P.A. commessi prima dell’entrata in vigore della modifica dell’art. 578-bis da parte della legge n. 3/2019, il giudice, nel dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non potrebbe disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente.
Tale soluzione è stata peraltro esclusa da una recente decisione della S.C.[23], in tema di peculato prescritto, la quale ha ritenuto l’art. 578-bis norma processuale di immediata applicazione, secondo il principio "tempus regit actum", anche ai fini della conferma o meno della confisca per equivalente del prezzo o del profitto del reato prevista dall’art. 322-ter c.p., poiché in essa «connotata, al pari di quella urbanistica, da un prevalente carattere afflittivo e sanzionatorio ..., convergono evidenti finalità ripristinatorie, di semplificazione probatoria ed esecutiva, che la differenziano sostanzialmente da una pura e semplice pena patrimoniale»[24].
Trattasi di un salto in avanti rispetto alla sentenza Lucci che, partendo dalla «funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l'imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile», aveva concluso nel senso che la confisca per equivalente è «connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza», affermando in altro punto che trattasi di «una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti", avente "carattere preminentemente sanzionatorio».
Il riferimento ad entrambi i profili, già presente nella sentenza Lucci non senza una certa ambiguità di fondo[25], viene ripreso e valorizzato per attribuire sostanzialmente una natura mista alla confisca per equivalente, senza però spiegare perché l’aspetto sanzionatorio risulti recessivo rispetto a quello ripristinatorio per consentire la piena applicazione principio "tempus regit actum", mentre, di contro, risulti prevalente per affermare che «la confisca di beni per un valore corrispondente al prezzo o profitto di taluni reati contro la pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 322-ter c.p. deve, per il suo carattere sanzionatorio, trovare fondamento in una norma sostanziale entrata in vigore prima dei fatti per cui si procede (vedi, L. n. 300 del 2000, art. 15)»[26].
La natura sanzionatoria sembra invece costituire un dato caratterizzante l’istituto in ogni sua applicazione, sol che si consideri che, secondo un orientamento consolidato, ai fini della confisca per equivalente rileva l'effettiva disponibilità giuridica dei beni, anche per interposta persona, al momento in cui sia disposto il vincolo, essendo ininfluente la circostanza che gli stessi siano stati acquisiti antecedentemente o dopo la commissione del reato[27] (situazione evidentemente incompatibile con la natura anche ripristinatoria).
Resta quindi in campo la possibilità di una interpretazione coerente con la sentenza della Corte costituzionale n. 32/2020 con la conseguente inapplicabilità dell’art. 578-bis alla confisca per equivalente relativa ai reati contro la P.A. commessi prima dell’entrata in vigore della sua modifica da parte della legge n. 3/2019 (31 gennaio 2019).
[1] Articolo tratto, con modifiche ed aggiornamenti, dal capitolo “La confisca senza condanna: la modifica dell’art. 578‐bis c.p.p.” dell’opera collettanea a cura di G. Fidelbo, Il contrasto ai fenomeni corruttivi, Dalla "spazzacorrotti" alla riforma dell'abuso d'ufficio, Giappichelli, 2020. Si ringraziano il curatore e editore per la concessione.
[2] In linea con l’impostazione di parte della dottrina (A. Esposito, Il dialogo imperfetto sulla confisca urbanistica Riflessioni a margine di sentenze europee e nazionali, in Archivio penale Web, 22 maggio 2019, alle cui argomentazioni l’ordinanza all’evidenza si ispira ampiamente).
[3] Viene sul punto richiamata Cass. pen., Sez. I, n. 16372/2015, De Gennaro.
[4] Sentenza n. 3464/2018, in Cass. pen., 2018, VI, Sez. II, p. 1880, con nota di R. Rizzuto, Le Sezioni Unite ampliano il potere di annullamento senza rinvio della Cassazione, in Dir. pen. proc., 2018, VI, p. 766 con nota di M. Cecchi, Annullamento senza rinvio: la Cassazione rimodula i propri poteri ed in Giur. it., 2018, III, p. 748, con nota di C. Morselli, Annullamento senza rinvio della Cassazione (quale “Corte Suprema”): contenimento dei costi ed effetti deflattivi.
[5] A. Bassi, Confisca urbanistica e prescrizione del reato, cit.
[6] Nella stessa prospettiva avevamo ritenuto applicabile l’art. 578-bis nel Nostro, La confisca urbanistica nella lottizzazione abusiva prescritta, ne Il Penalista, 5 dicembre 2019., in cui si osservava: «L’art. 578-bis, al di là dell’idea originaria del legislatore, ben si presta a questa operazione di adattamento del sistema in funzione del controllo effettivo della legalità convenzionale della confisca urbanistica – sanzione; uno schema di adattamento, questo, già praticato e diffusamente argomentato dalla citata Sez. III, n. 8350/2019 nella parte in cui ha ritenuto che il principio enunciato dalla sentenza G.I.E.M. della necessaria partecipazione della persona giuridica al processo penale di cognizione in materia di lottizzazione abusiva, può essere attuato “nel rispetto dei principi convenzionali, attraverso l’applicazione estensiva di norme interne quali, l’art. 197 c.p. e l’art. 89 c.p.p.”, in tema di obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende)». Analogo approccio si rinviene in A. Pulvirenti, Il difficile connubio dell’art. 578-bis c.p.p., cit., secondo cui dell’art. 578-bis c.p.p. si deve «proporre una lettura convenzionalmente orientata, in virtù della quale la Cassazione, tutte le volte in cui non possa confermare la sentenza di proscioglimento e debba dichiarare estinto il reato per prescrizione o amnistia, deve annullare con rinvio al giudice di merito affinché accerti, nel rispetto degli indefettibili requisiti probatori, la responsabilità dell’imputato e la conseguente sussistenza dei presupposti applicativi della confisca».
[7] Conforme A. Bassi, Confisca urbanistica e prescrizione del reato, cit., secondo cui, in tal caso, «stante la divaricazione dei giudizi di primo e di secondo grado sulla penale responsabilità e l’impossibilità di far continuare il giudizio in sede di rinvio ai fini dell’”accertamento” dei presupposti del reato di lottizzazione abusiva strumentale all’adozione della confisca, pare arduo ritenere che la Corte di legittimità possa stimare “accertata” la sussistenza della lottizzazione abusiva, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nel senso prescritto dalle Sezioni Unite e dalla Corte di Strasburgo».
[8] Come sembra adombrare G. Civello, La confisca nell’attuale spirito dei tempi: tra punizione e prevenzione, in Archivio penale Web, 20 maggio 2019, secondo cui l’emanazione di una previa condanna rispetto al maturare della prescrizione è un canone generale traibile dall’art. 578-bis c.p.p. destinato a valere a fortiori nell’ambito di quelle confische che, come quella urbanistica, non abbiano natura di mera misura di sicurezza, bensì di vera e propria sanzione penale afflittiva.
[9] Alimentato dal fatto che nella “Documentazione per l’esame di Progetti di legge, Contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, prescrizione e trasparenza dei partiti e movimenti politici A.C. 1189-A”, predisposta dalla Camera dei deputati, è chiaramente indicato che la riforma dell’art. 578-bis c.p.p. estendeva la disciplina della confisca nel caso di prescrizione alla confisca per equivalente (p. 31).
[10] A. Dello Russo, Prescrizione e confisca dei suoli abusivamente lottizzati: non è necessaria una sentenza di condanna, neppure in primo grado? in Archivio penale Web, 17 marzo 2019; G. Ranaldi, Principio della “riserva di codice” e decisione sul reato estinto: prolegomeni di una tendenza in progressivo consolidamento, in Archivio penale Web, 18 giugno 2018.
[11] G. Varraso, La decisione sugli effetti civili e la confisca senza condanna in sede di impugnazione. La legge n. 3 del 2019 (c.d. “spazzacorrotti”) trasforma gli artt. 578 e 578-bis c.p.p. in una disciplina “a termine”, in dirittopenalecontemporaneo.it, 4 febbraio 2019. Conforme R. Tuzzi, L’art. 578-bis c.p.p.: tra vecchi orientamenti pretori e nuove formulazioni codicistiche, in discrimen.it, 12 marzo 2019, per il quale sebbene la riforma dell’art. 578-bis c.p.p. non possa essere degradata a espressione di mero “lapsus calami”, l’adozione della confisca per equivalente “senza condanna” «suscita una contrapposizione con il principio di legalità di cui agli artt. 25, comma 2, 27, 117 Cost., 7 CEDU e 1 cod. pen., essendo … un vero e proprio provvedimento di natura sanzionatoria».
[12] Conforme V. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in dirittopenalecontemporaneo.it, 27 maggio 2019, secondo cui «il dipanarsi di questa creazione giurisprudenziale sino alla confisca ex art. 322-ter c.p. ribalta gli approdi a cui erano pervenute le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza Lucci, che in nome di un asserito carattere afflittivo e sanzionatorio della value confiscation aveva escluso – a differenza della confisca diretta del prezzo o profitto storico del reato (art. 240 c.p.) – la possibilità di applicarla in caso d’intervenuta prescrizione. Tale innovazione normativa assesta pertanto un duro colpo agli sforzi giurisprudenziali – invero non del tutto convincenti – di sistematizzare la materia delle confische attorno alla dicotomia tra misura di sicurezza patrimoniale a scopo di prevenzione di una pericolosità di tipo obiettivo (confisca diretta, confisca allargata), com’è noto sottratta a svariate garanzie penalistiche, e confisca sanzionatoria (quella per equivalente), assoggettata a tutti i corollari del principio di legalità, al principio di colpevolezza, alla presunzione di non colpevolezza (e quindi alla necessità di una condanna), ecc.».
[13] Dubbi di costituzionalità di carattere generale sono espressi da L. Roccatagliata, Confisca per equivalente e prescrizione del reato. Le contrastanti indicazioni del Giudice di legittimità e i seri dubbi sulla compatibilità con il dettato costituzionale, in Giurisprudenza penale Web, 13 maggio 2020, il quale, commentando Cass. pen., Sez. III, n. 14218/2020, PG C/Palmieri, assertiva, sulla base della sentenza Lucci, della inapplicabilità della confisca per equivalente prevista dall’art. 12-bis, d.lgs. n. 74/2000, in ipotesi di reati tributari (nella specie, sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ex art. 11) dichiarati estinti per intervenuta prescrizione, ritiene che «una norma che permetta di irrogare la confisca per equivalente nei casi in cui il reato si sia estinto per intervenuta prescrizione sembra porsi in contrasto con il principio di colpevolezza e di presunzione di innocenza ex art. 27 Cost., dal quale si ritiene discenda l’ulteriore principio per cui l’irrogazione di una sanzione penale può conseguire solo ad un provvedimento di condanna». Non è invece condivisibile il diverso dubbio di costituzionalità espresso da G. Varraso, La decisione sugli effetti civili e la confisca senza condanna in sede di impugnazione, cit., il quale ritiene l’art. 578-bis non compatibile «con il nucleo assiologico della presunzione di innocenza» già nella parte in cui si riferiva all’art. 240-bis, comma 1, c.p., considerato dall’Autore, non già misura di sicurezza atipica, ma sanzione punitiva, dovendosi invece ribadire la natura della confisca allargata quale “misura di sicurezza patrimoniale atipica” con funzione dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione antimafia, affermata dalla giurisprudenza fin dalle Sezioni Unite Montella del 2004 e confermata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 33/2018 (richiamata adesivamente da Corte costituzionale n. 24/2019 nella quale espressamente si afferma che confisca di prevenzione e confisca allargata costituiscono altrettante species di un unico genus di confische di beni di sospetta origine illecita accertata mediante uno schema legale di carattere presuntivo).
[14] Emblematico il punto 11 della sentenza Lucci: «la confisca per equivalente … viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza».
[15] In sistemapenale.it, 9 marzo 2020, con nota redazionale di E. Florio, Alle Sezioni Unite la questione relativa alla applicabilità della confisca facoltativa ex art. 240 co. 1 c.p. in caso di proscioglimento per intervenuta prescrizione.
[17] L’ordinanza ricorda al riguardo la sentenza della Corte costituzionale n. 24/2019 in tema di confisca di prevenzione, nella parte in cui ha affermato che l’applicazione della misura ablativa non può non tenere conto del compendio di garanzie che la Costituzione (artt. 41 e 42) e le Carte internazionali dei diritti umani (art. 1 Prot. add. Cedu) accordano ai suddetti diritti, tra le quali va annoverata la garanzia della legalità, ossia l’esistenza di una previsione di legge, che consenta al destinatario della misura limitativa del diritto di prevederne la futura possibile applicazione. Nella stessa prospettiva v. G. Civello, Confisca facoltativa e reato prescritto: rimessa alle Sezioni unite la questione della “confisca senza condanna”, in Archivio penale Web, 10 aprile 2020, per il quale «non appare ammissibile sostenere che una determinata confisca possa operare “senza condanna” nella misura in cui essa esibisca la medesima ratio special-preventiva di un’analoga misura ablatoria prevista altrove dall’ordinamento, poiché tale ragionamento sottende evidentemente una analogia in malam partem».
[18] Notazione fatta anche da G. Varraso, La decisione sugli effetti civili e la confisca senza condanna in sede di impugnazione, cit.
[19] V. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo, cit.
[20] R. Tuzzi, L’art. 578-bis c.p.p.: tra vecchi orientamenti pretori e nuove formulazioni codicistiche, cit.
[21] Cfr. Sez. Un., Adami, n. 18374/2013, secondo cui «la confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dall’art. 1, comma 143, l. n. 244 del 2007 ha natura eminentemente sanzionatoria e, quindi, non essendo estensibile ad essa la regola dettata per le misure di sicurezza dall’art. 200 c.p., non si applica ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge citata».
[22] Per primi commenti si rinvia a: A. Apollonio, I guardiani della legge: le ragioni dell’intervento della Consulta sulla “spazzacorrotti”, in giustiziainsieme.it, 13 febbraio 2020; F. R. Dinacci, Psoriasi interpretative: la legge nel tempo in tema di prescrizione e termini di custodia nell'emergenza Covid. Alla ricerca di una "legalità" perduta, in Archivio penale Web, 22 maggio 2020; F. Gianfilippi, Lo Stato di diritto e l’incostituzionalità di una interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in tema di concedibilità delle misure alternative. Una prima lettura della sentenza Corte cost. 32/2020 sulla “spazzacorrotti”, in giustiziainsieme.it, 2 marzo 2020; I. Giugni, La differenza fra “dentro” e “fuori” il carcere è radicale: la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’art. 1, co. 6, lett. b), della legge cd Spazzacorrotti, in diritticomparati.it, 11 marzo 2020; F. Martin, La sentenza 12 febbraio 2020 n. 32: la Consulta sancisce la prevalenza dello Stato di diritto e della tutela del cittadino, in giurisprudenzapenale.com, 24 marzo 2020.
[23] Cass. pen., Sez. VI, n. 14041/2020, Malvaso + 2.
[24] Precisa la decisione che «la confisca per equivalente ex art. 322 c.p. non ha la capacità di infliggere un quid pluris afflittivo, poichè si limita a privare l'autore di uno dei reati contro la pubblica amministrazione contemplati dalla norma di un valore equivalente a quanto da lui illecitamente ed effettivamente conseguito attraverso il reato e di cui sia divenuta impossibile l'apprensione diretta. Si tratta, in altre parole, di una forma di confisca che trova il proprio fondamento e limite nel vantaggio tratto dal reato e per la quale, non a caso, si ritiene applicabile il principio di solidarietà passiva, proprio delle misure riparatorie, che limita la misura ablatoria alla quota di prezzo o profitto conseguita effettivamente e personalmente da ciascuno degli imputati».
[25] In tema, cfr. V. Mongillo, Confisca per equivalente e risparmi di spesa, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, II, 716 e, più di recente, G. Nuara, Confisca del profitto del reato e prescrizione: fra vecchi e nuovi orientamenti, in Dir. Pen. e Processo, 2020, VIII, 1049.
[26] La conseguenza, “ratione temporis” è che «ai fatti oggetto dell'accertamento demandato al giudice di rinvio, potrà eventualmente applicarsi solo la confisca di beni il cui valore sia equivalente al prezzo del reato di peculato, ma non quella del profitto di tale reato, atteso che mentre la prima è stata introdotta dalla L. 29 settembre 2000, n. 300 e, quindi, in data anteriore ai fatti per i quali si procede, la seconda è stata introdotta dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, e quindi in epoca successiva ai reati oggetto di accertamento».
[27] Ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, n. 41135/2019.
Postilla a Il controverso requisito della permanenza in servizio del consigliere C.S.M. la decisione spetta al giudice ordinario (nota a Cons. St., Sez. V, 7 gennaio 2021 n. 215).
di Enrico Zampetti
1. La decisione in commento dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla controversia relativa alla delibera del C.S.M. recante l’anticipata cessazione dalla carica nei confronti di un consigliere collocato a riposo nel corso del mandato. Il sopravvenuto collocamento a riposo è la causa della disposta cessazione, che di fatto impedisce l’assolvimento del mandato per l’intero periodo di quattro anni previsto dall’articolo 104 della Costituzione.
Nel pronunciare il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, il Consiglio di Stato conferma le conclusioni del giudice di primo grado che già si era espresso a favore della giurisdizione ordinaria[i]. In particolare, il giudice d’appello rileva che l'impugnata delibera sarebbe il “frutto di una mera attività ricognitiva della volontà di legge e puramente intesa all’automatica applicazione della stessa” ovvero di una “attività (vincolata) di verifica della sussistenza dei requisiti legalmente necessari per il mantenimento della carica, ivi compresi quelli costituenti un prius logico del diritto di elettorato passivo”. Conseguentemente, esclude che la delibera in contestazione possa inquadrarsi in una “manifestazione di autoritatività”, non essendo riconducibile ad alcun potere discrezionale e restando estranea a qualsiasi “apprezzamento comparativo di interessi in conflitto”. In quanto atto meramente “ricognitivo”, la delibera del C.S.M verrebbe pertanto ad incidere su una posizione di diritto soggettivo inquadrabile nel “diritto di elettorato passivo” nella sua “duplice portata genetica e funzionale: di diritto all’acquisizione, non meno che alla conservazione dello status elettivo”. La qualificazione della situazione giuridica in termini di diritto soggettivo radicherebbe così la giurisdizione ordinaria sulla controversia, in coerenza con i consolidati criteri di riparto affermati in materia elettorale[ii].
2. Nel qualificare la delibera del C.S.M. quale espressione di una “attività (vincolata) di verifica della sussistenza dei requisiti legalmente necessari per il mantenimento della carica”, la sentenza non indica il preciso fondamento normativo che sancirebbe la correlazione tra il mantenimento della carica e l’attualità del rapporto di servizio. Ciò non di meno, parrebbe presupporre l’esistenza di un’espressa disposizione che, ai fini della conservazione della carica, richieda lo status di magistrato in servizio per l’intera durata del mandato. Solo l’esistenza di una siffatta disposizione consentirebbe, infatti, di qualificare la delibera di cessazione anticipata come atto meramente ricognitivo “della volontà di legge”, ossia alla stregua di un atto che, senza implicare alcuna valutazione discrezionale, si limiti a certificare l’insussistenza del diritto di elettorato passivo, nella sua dimensione funzionale di “diritto alla conservazione dello status elettivo”.
Va, tuttavia, osservato che, nell’attuale contesto normativo, non sussiste una esplicita previsione che condizioni il mantenimento della carica allo status di magistrato in servizio. La permanenza in servizio per l’intera durata della carica non è, infatti, annoverata né tra le cause di sospensione, decadenza e incompatibilità previste dagli articoli 33 e 37 della legge sul C.S.M. n. 195 del 1958, né tra i requisiti di eleggibilità previsti dall’articolo 24, rispetto ai quali lo status di servizio è richiesto al “momento di convocazione delle elezioni”[iii]. Non sembra quindi un caso che, pur prefigurandone (più o meno implicitamente) l’esistenza, la pronuncia manchi poi di individuare esattamente la norma che, al sopraggiungere del collocamento a riposo, verrebbe a imporre la cessazione anticipata.
L’assenza di un’espressa previsione dovrebbe, quindi, escludere che, ai fini del mantenimento della carica, il consigliere debba permanere in servizio per tutta la durata del mandato, come peraltro parrebbe desumersi anche dalla riserva di legge in materia di accesso alle cariche elettive[iv]. Del resto, quando ha inteso correlare l’intera durata della carica al rapporto di servizio, il legislatore lo ha previsto espressamente, come ad esempio in ambito universitario, laddove l’articolo 2 co.11 della legge 240 del 2010 stabilisce testualmente che “l’elettorato passivo per le cariche accademiche è riservato ai docenti che assicurano un numero di anni di servizio almeno pari alla durata del mandato prima della data di collocamento a riposo”. In altre ipotesi, l’irrilevanza del rapporto di servizio ai fini della conservazione della carica si ricava direttamente dalla disciplina positiva. È, ad esempio, il caso dei giudici costituzionali scelti nell’ambito della magistratura, laddove l’articolo 135 Cost. stabilisce testualmente che “i giudici della Corte costituzionale sono scelti tra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrativa”, escludendo che per ricoprire la carica di giudice costituzionale sia necessario lo status di magistrato in servizio.
Si conferma così che i requisiti di accesso e conservazione delle cariche pubbliche sono generalmente oggetto di un’espressa disciplina normativa e che, di conseguenza, se un determinato requisito non è previsto dalla legge o da altra fonte idonea, lo stesso non può invocarsi per conformare o limitare l’elettorato passivo, nella sua duplice veste genetica e funzionale.
3. Vero è che l’assenza di un’espressa previsione potrebbe essere compensata da un’interpretazione sistematica della disciplina di riferimento, da cui desumere la necessaria correlazione tra (conservazione della) carica consiliare e status di magistrato in servizio[v]. In tal senso potrebbe intendersi quel passaggio della pronuncia in cui si sottolinea che il nesso tra cessazione anticipata e sopravvenuto collocamento a riposo discenderebbe “dal paradigma normativo, così come concretamente interpretato”[vi]. Tuttavia, nemmeno in tal caso la sentenza chiarisce esattamente quale sarebbe il processo interpretativo idoneo a giustificare la disposta cessazione, sicchè il fondamento della delibera rimane oscuro e incerto.
In base ad alcuni precedenti giurisprudenziali[vii] e a quanto emerso nel dibattito occasionato proprio dalla vicenda in esame[viii], qualche indicazione potrebbe trarsi dal principio di rappresentatività democratica che, secondo determinate ricostruzioni, informerebbe di sé la costituzione del Consiglio, soprattutto se quest’ultimo sia prevalentemente concepito come organo di “autogoverno” della magistratura[ix]. In questa prospettiva, i consiglieri togati sarebbero i rappresentanti della magistratura in seno al Consiglio, con la conseguenza che, una volta interrotto il rapporto di servizio per sopraggiunti limiti d’età, il consigliere non sarebbe più legittimato a ricoprire la carica, in quanto non più rappresentante della magistratura[x].
Sotto altro profilo, un ipotetico fondamento della disposta cessazione potrebbe anche ricavarsi dai principi generali di buona amministrazione, ove intesi a garanzia di un corretto funzionamento del Consiglio. Va da sé che, per giustificare in tal senso la cessazione anticipata, dovrebbe supporsi che la carica espletata da un magistrato in servizio garantisca il funzionamento del Consiglio più correttamente di quanto assicuri la carica espletata (per un periodo) da un magistrato ormai in pensione.
Senonchè, resta il fatto che la pronuncia omette un’esatta individuazione del principio o dell’approdo interpretativo da cui possa desumersi l’astratto fondamento della disposta cessazione.
4. Le poche considerazioni svolte consentono di esaminare più a fondo le conclusioni della sentenza, a partire dalla natura giuridica riconosciuta all’atto impugnato.
L’assenza di un’esplicita previsione che correli il mantenimento della carica allo status di magistrato in servizio rende problematica la qualificazione della delibera in termini di atto meramente ricognitivo della “volontà di legge”. Un’attività di mera ricognizione può, infatti, configurarsi solo se la previsione esista, poiché solo in tal caso l’atto amministrativo può fare applicazione di un preciso disposto normativo. Se la previsione non esiste, un’attività ricognitiva non parrebbe nemmeno ipotizzabile, proprio in quanto manca la disposizione di cui l’atto dovrebbe fare applicazione.
Se poi il fondamento volesse individuarsi nel richiamato principio di rappresentatività, la natura di atto ricognitivo resterebbe comunque problematica. Per riconoscere alla delibera una siffatta qualificazione dovrebbe, infatti, assumersi che l’unica soluzione idonea a garantire il principio s’identifichi necessariamente con l’anticipata cessazione dalla carica, se in quanto il rapporto di servizio s’interrompa in corso di mandato. Tuttavia, al di là di quanto possa emergere dai citati precedenti, non sembra affatto scontato che la cessazione anticipata sia l’unica soluzione idonea a dare attuazione al principio, soprattutto se si considera che il concetto di rappresentatività può misurarsi anche sulla scelta espressa dagli elettori e non soltanto sull’attualità dello status di servizio. Se, al momento dell’elezione, la magistratura ha designato come consigliere un determinato soggetto, pur sapendo che nel corso del mandato sarebbe stato collocato a riposo, un’eventuale cessazione anticipata risulterebbe in contrasto con la scelta espressa, poiché verrebbe a rompere quel rapporto di rappresentanza creatosi attraverso l’elezione. In altri termini, la soluzione può mutare in funzione della diversa concezione di rappresentatività che si prediliga, se esclusivamente orientata sull’appartenenza alla magistratura ovvero anche incentrata sulle scelte concretamente espresse dagli elettori. In quest’ottica, una decisione fondata sul principio di rappresentatività potrebbe risultare sempre il frutto di un apprezzamento discrezionale tra diverse soluzioni, sicchè (anche) la scelta della cessazione anticipata rappresenterebbe soltanto uno dei possibili esiti valutativi, ma non l’unica conseguenza imposta dall’applicazione del principio.
In linea di massima, considerazioni analoghe valgono anche per i principi di buona amministrazione posto che, in assenza di un’espressa previsione, solo un’apposita valutazione potrebbe in concreto rivelare se, ai fini del corretto funzionamento del Consiglio, sia preferibile la cessazione anticipata o la conservazione della carica per l’intera durata.
5. Se, dunque, in assenza di un’espressa previsione normativa, il fondamento della cessazione anticipata volesse individuarsi nei principi generali (variamente) implicati nell’interpretazione della disciplina positiva, la delibera del C.S.M. potrebbe coerentemente inquadrarsi come manifestazione provvedimentale di un potere amministrativo discrezionale. Si è infatti già sottolineato che, ove il principio fosse quello di rappresentatività, ma lo stesso vale anche per i principi di buona amministrazione, la delibera esprimerebbe soltanto una delle scelte astrattamente possibili. Conseguentemente, rispetto a una qualificazione in termini provvedimentali, la giurisdizione sulla controversia apparterrebbe al giudice amministrativo, dal momento che, in base ai tradizionali criteri di classificazione, la situazione giuridica incisa dalla delibera avrebbe la consistenza dell’interesse legittimo, non potendo comunque ricondursi al diritto di elettorato passivo così come concretamente configurato a livello legislativo. In questo senso, la giurisdizione del giudice amministrativo sarebbe perfettamente coerente (anche) con l’articolo 135, co. 1, lettera a), c.p.a.[xi], che devolve alla competenza funzionale del TAR Lazio le controversie relative ai provvedimenti adottati dal C.S.M. nei confronti dei magistrati[xii].
[i] Sulla sentenza di primo grado del TAR Lazio, Roma, Sez. I, 13 novembre 2020 n. 11814, sia consentito rinviare a E. Zampetti, Il controverso requisito della permanenza in servizio per il consigliere CSM, la decisione spetta al giudice ordinario, in questa Rivista, 19 novembre 2020.
[ii] Come noto, secondo il consolidato orientamento in materia di elezioni amministrative, al giudice ordinario sono devolute le controversie “afferenti questioni di ineleggibilità, decadenza e incompatibilità dei candidati” in quanto relative a “diritti soggettivi di elettorato”, mentre al giudice amministrativo quelle “afferenti alla regolarità delle operazioni elettorali” in quanto relative a “posizioni di interesse legittimo” (così TAR Lazio, Roma, Sez. I, n. 11814/2020, cit.; ex multis, Cons. St., sez. V, 15 luglio 2013 n. 3826; Cons. St., sez. V, 11 giugno 2013 n. 3211; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 7 novembre 2018 n. 10756).
[iii] La legge 24 marzo 1958 n. 195 “Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura” prevede le cause di ineleggibilità, incompatibilità e decadenza dalla carica di consigliere. Nel recare la disciplina dell’elettorato attivo e passivo, l’articolo 24 stabilisce che non sono eleggibili i magistrati che “al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime”, gli uditori giudiziari e i magistrati di tribunale che “al momento della convocazione delle elezioni non abbiano compiuto almeno tre anni di anzianità nella qualifica”; i magistrati che “al momento della convocazione delle elezioni abbiano subito sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, salvo che si tratti della sanzione della censura e che dalla data del relativo provvedimento siano trascorsi almeno dieci anni senza che sia seguita alcun’altra sanzione disciplinare”; i magistrati che abbiano prestato servizio “presso l’Ufficio studi o presso la Segreteria del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni”; i magistrati che “abbiano fatto parte del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni”. A sua volta, nel prevedere le ipotesi di incompatibilità, l’articolo 33 sancisce che i componenti del Consiglio “non possono far parte del Parlamento, dei consigli regionali, provinciali e comunali, della Corte costituzionale e del governo”; che i componenti eletti dal Parlamento, finché sono in carica, “non possono essere iscritti negli albi professionali. Non possono essere titolari di imprese commerciali né far parte di consigli di amministrazione di società commerciali. Non possono altresì far parte di organi di gestione di unità sanitarie locali, di comunità montane o di consorzi, nonché di consigli di amministrazione o di collegi sindacali di enti pubblici, di società commerciali e di banche (…)”. Con specifico riferimento ai casi di sospensione e decadenza dalla carica, l’articolo 37 prevede che “i magistrati componenti il Consiglio sono sospesi di diritto dalla carica se sottoposti a procedimento disciplinare, sono stati sospesi a norma dell’articolo 30 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946 n. 511”; che “i componenti del Consiglio superiore decadono di diritto dalla carica se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo”; che “i magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento”.
[iv] Cfr. articolo 51 Cost., secondo cui “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.
[v] Resta inteso che una siffatta operazione dovrebbe pur sempre contenersi entro i limiti fisiologici dell’interpretazione, particolarmente stringenti in materia elettorale, senza possibilità di creare ex novo dei divieti oltre i significati evincibili dalle norme o dai principi interpretati.
[vi] Nello stesso senso la decisione di primo grado, quando sottolinea che “l’attività di verifica del Consiglio si è basata su una interpretazione del panorama legislativo e dei principi ad esso ricavabili”.
[vii] Cons. St., Sez. IV, 16 novembre 2011 n. 6051, secondo cui il C.S.M. sarebbe costituito “in base al principio di rappresentatività democratica”, con la conseguenza che “la qualità di appartenente all’istituzione medesima (nella specie, l’ordine giudiziario) costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano”. In tale contesto – prosegue la decisione - “il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall’ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del C.S.M. dipende non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall’essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare”. La pronuncia riguarda specificamente un provvedimento del CSM che aveva autorizzato il trattenimento in servizio sino al 75 anno di un membro togato. Avverso tale provvedimento aveva proposto ricorso il primo dei non eletti, deducendo l’interesse a contestare il provvedimento in quanto il suo eventuale annullamento gli avrebbe consentito di subentrare nel Consiglio al posto del consigliere che, in assenza del disposto trattenimento, sarebbe stato collocato a riposo per sopraggiunti limiti di età. Di qui l’eccezione di carenza d’interesse al ricorso proposta dal destinatario del provvedimento di trattenimento in servizio, argomentata sul presupposto che la disciplina del C.S.M. non richiederebbe lo status di magistrato in servizio come requisito per il mantenimento della carica e che, pertanto, anche l’eventuale annullamento del provvedimento impugnato non avrebbe garantito al ricorrente l’utilità anelata, dal momento che l’ipotetico collocamento a riposo del consigliere non avrebbe impedito il residuo espletamento della carica. Nel disattendere l’eccezione, il Consiglio di Stato enuncia l’assunto sopra riportato, rilevando che, pur in assenza di un’espressa previsione di legge, la cessazione anticipata per intervenuto collocamento a riposo troverebbe fondamento nel principio di rappresentatività democratica; con specifico riferimento al Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, si veda anche Cons. St, Adunanza della Sezione Prima, 7 marzo 2007 n. 601/2007.
[viii] R. Russo, L’affaire Davigo. Semel iudex semper iudex? e S. Amore, Collocamento in quiescenza del magistrato ordinario e cessazione del mandato elettivo al C.S.M., entrambi in questa Rivista, 12 ottobre 2020; N. Rossi, Sta per nascere al CSM un caso Davigo?, in Questione Giustizia, 31 luglio 2020; M. A. Cabiddu, CSM: i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni, anche quando si chiamano Davigo, in Questione Giustizia, 8 ottobre 2020.
[ix] È evidente che l’esatta qualificazione del C.S.M. rappresenta una questione di estrema rilevanza, a fronte dei diversi inquadramenti che tendono a valorizzarne ora la funzione di “autogoverno” della magistratura, ora a porne in risalto la funzione di garanzia dell’autonomia e indipendenza della magistratura stessa. In quest’ottica, si può probabilmente ipotizzare che il principio di rappresentatività presenti una maggiore rilevanza in relazione ad una qualificazione del C.S.M. come organo di “autogoverno”.
[x] In questo senso, N. Rossi, Sta per nascere al CSM un caso Davigo?, cit., 4 ss.; R. Russo, L’affaire Davigo. Semel iudex semper iudex, cit., 5; per una diversa impostazione, S. Amore, Collocamento in quiescenza del magistrato ordinario e cessazione del mandato elettivo al C.S.M., cit., 11 ss. e M. A. Cabiddu, i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni, anche quando si chiamano Davigo, cit., 4 ss.
[xi] Ai sensi dell’articolo 17, primo comma, l. n. 195 del 1958, come richiamato dall’articolo 135, lettera a), c.p.a., “tutti i provvedimenti riguardanti i magistrati sono adottati, in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore, con decreto del Presidente della Repubblica controfirmato dal Ministro, ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto del Ministro per la grazia e giustizia”.
[xii] In senso contrario, il Consiglio di Stato esclude che la giurisdizione amministrativa possa desumersi dall’articolo 135 c.p.a., sul rilievo che la previsione, in quanto norma sulla competenza, postulerebbe a monte la giurisdizione amministrativa senza però fondarla. Senonchè, nella ricostruzione ipotizzata, la controversia avrebbe proprio ad oggetto una posizione di interesse legittimo e, di conseguenza, la prospettata giurisdizione amministrativa sarebbe perfettamente coerente anche rispetto alla citata norma codicistica.
Luigi Cavallaro, Una sentenza memorabile,Cacucci Editore, 2020
Recensione di Paolo Sordi
Con Una sentenza memorabile (Cacucci Editore, 2020, nella Collana Biblioteca di cultura giuridica diretta da Pietro Curzio), Luigi Cavallaro segna un’altra tappa nel suo itinerario di riflessioni sull’Unione Europea, sulle ragioni più profonde della sua costituzione e sui rilevanti problemi che essa pone in rapporto con gli ordinamenti costituzionali degli Stati membri. Riflessioni di cui v’è traccia evidente anche in alcuni suoi scritti apparsi su Questa Rivista (v. «Se pure c’era di questi untori». Ideologia immunitaria e fantasmi comunitari del 3.4.2020, e La tutela dei diritti a prestazione tra diritto dell’Unione e Costituzione italiana: profili problematici, del 4.10.2019) e che ruotano intorno alla convinzione (supportata da molteplici ed efficaci argomenti) che la sua formazione costituisca uno degli sbocchi di un lungo percorso iniziato negli anni ’60 del secolo scorso diretto a sottomettere i pubblici poteri alle logiche del mercato, percorso indagato nella sua genealogia dallo stesso Cavallaro in Giurisprudenza. Politiche del desiderio ed economia del godimento nell’Italia contemporanea (Quodlibet, 2015).
Ma se nell’opera da ultimo citata, l’indagine è condotta in severa applicazione delle acquisizioni al pensiero occidentale fornite da discipline quali la filosofia, l’economia e la psicologia (in un orizzonte che spazia da Marx a Keynes, da Freud a Foucault, giusto per citare alcuni dei riferimenti utilizzati dall’A. in quel saggio), il tono dello scritto che qui si recensisce è del tutto diverso, come svelato da Cavallaro già nella scelta del titolo. «Una sentenza memorabile» richiama, infatti, il titolo di un’omonima opera di Sciascia, appartenente alle “inquisizioni” dello scrittore siciliano, modello letterario cui poi l’A. dichiara esplicitamente, nella nota finale al suo scritto, di essersi ispirato.
Oggetto dell’inquisizione è, questa volta, la sentenza del 5 maggio 2020 con cui il Tribunale costituzionale federale tedesco ha definito il procedimento promosso da alcuni cittadini della Germania federale che avevano denunciato come violative dell’identità costituzionale della Legge Fondamentale dello Stato tedesco – perché interferenti con la legge di bilancio approvata dal Parlamento di quello Stato – alcune decisioni con le quali la Banca centrale europea aveva deliberato programmi di acquisto di titoli del debito sovrano. Il Tribunale costituzionale aveva dapprima richiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea una pronuncia pregiudiziale di conformità alle norme dei Trattati in materia di competenze della Banca centrale, chiedendo, in particolare, se le menzionate iniziative della stessa non eccedessero dall’ambito della politica monetaria (attribuzione della Banca centrale), invadendo quella della politica economica (riservata agli Stati membri). La risposta dei giudici di Lussemburgo (espressasi nel senso della correttezza dell’operato della Banca centrale) deve essere parsa particolarmente insoddisfacente a quelli tedeschi, perché questi, non solamente hanno poi finito per dichiarare che il Governo federale e il Bundestag avevano violato la Legge fondamentale tedesca per non aver assunto misure adeguate per contestare la legittimità dei programmi di acquisto di titoli del debito sovrano da parte della Banca centrale, ma ciò hanno fatto premettendo che la vincolatività per i giudici degli Stati membri dell’interpretazione delle norme dei Trattati e degli atti compiuti da organi e istituzioni dell’Unione espressa dalla Corte di giustizia viene meno nei casi in cui quella interpretazione sia oggettivamente arbitraria perché incomprensibile. Secondo il Tribunale costituzionale federale, infatti, in simili ipotesi le decisioni della Corte europea non sono più coperte dal mandato giudiziario conferitole dal Trattato costitutivo dell’Unione (né dall’atto interno di ratifica dello stesso) e pertanto difettano del livello minimo di legittimazione democratica richiesto dalla Legge Fondamentale tedesca per giustificare una valida cessione di sovranità all’Unione europea.
Sentenza, quella del Tribunale costituzionale federale tedesco, ritenuta da Cavallaro “memorabile” perché espressione della piena consapevolezza, da parte dell’alto consesso germanico, delle delicate questioni di ordine costituzionale poste, appunto, dai trattati europei e dal concreto operare delle istituzioni comunitarie (Corte di giustizia e Banca centrale, in particolare) e, al contempo, manifestazione di teutonica risolutezza nella rivelazione dei propri convincimenti.
L’analisi della vicenda processuale e delle motivazioni della pronuncia che l’hanno conclusa costituisce per l’A. l’occasione per chiarire come i Trattati costitutivi dell’Unione siano ispirati al fine essenziale di costituire uno spazio in cui i mercati finanziari possano agire indisturbati, in quanto spazio sottratto all’esercizio dei poteri nei quali si dovrebbe incarnare la sovranità politica degli Stati membri.
E, nel leggere le pagine dedicate a questa analisi, la cifra che ci permettiamo di scorgere è, più che quella di Sciascia, quella di Dickens, scrittore pure citato dall’A. all’inizio del libro tra gli esempi di grande letteratura sorti intorno a casi giudiziari. Come i capolavori del romanziere inglese, nei quali una tagliente analisi sociale era spesso condotta con un sottile e irresistibile umorismo, questo saggio di Luigi Cavallaro è divertente nel senso nel senso più profondo del termine, composto com’è da un susseguirsi di considerazioni “diverse” da quelle che costituiscono la vulgata comune, espresse con toni di irresistibile arguzia e ironia.
Da questo punto di vista, l’apice del saggio, sia sul piano dell’acutezza dell’analisi e della centralità che i suoi esiti assumono nell’ambito del generale discorso condotto nell’opera, sia su quello della pura qualità letteraria, è costituito dalle pagine dedicate al rapido riepilogo della vicenda dell’affermazione di quella che l’A. definisce la duplice impostura fondativa dell’Unione Europea (vale a dire l’assunto secondo cui un’economia di mercato può raggiungere un equilibrio ottimale a condizione che si lasci libero corso alla concorrenza sottratta all’esercizio di poteri pubblici e quello della neutralità della politica monetaria), narrata con un crescendo che assume un tono quasi epico che rende la vicenda accomunabile non solamente a quella pure richiamata dall’A. (le falsificazioni elaborate dall’abate Vella nella Palermo di fine ’700), ma forse addirittura a quella della Donazione di Costantino. Infatti, se la prima procurò al suo artefice soltanto un’effimera fama e un’altrettanto effimera cattedra universitaria, la seconda fu assunta a fondamento di un preciso assetto di rapporti tra soggetti politici (Papi e Imperatori), obiettivo certo maggiormente affine a quello che Cavallaro attribuisce all’impostura di cui egli tratta (anche se il fatto che la Donazione di Costantino fu dimostrata falsa solamente dopo circa sette secoli e quando chi l’aveva strumentalizzata non ne aveva più bisogno – avendo la Chiesa ormai da tempo definitivamente consolidato il proprio potere temporale – potrebbe essere fonte di inquietudine per Cavallaro e così forse spiegare perché Egli abbia preferito accomunare la vicenda della quale si occupa a quella dell’abate Vella, scoperto e imprigionato nel giro di pochi anni…).
Altrettanto illuminanti sono le fulminanti qualificazioni di alcuni dei principali protagonisti della vicenda narrata e delle sue implicazioni. Tali, ad esempio, le definizioni dei rappresentanti delle istituzioni europee come soggetti dal “sembiante asettico” oppure degli entusiasti del diritto europeo come “giuristi dal pensiero essenzialmente teologico” che “elevano sermoni e preghiere affinché giudici supposti onnipotenti li concretizzino”. Ovvero, ancora, la menzione dei commentatori che “non sapendo più che pesci pigliare [...] si son cavati fuori l’immaginifica quanto immaginaria soluzione del ‘dialogo tra le Corti’: che troppo spesso pare un dialogo tra sordi, e semmai conferma le buone ragioni di Tolstoj nel supporre che la Storia fosse simile a un sordo che risponde a domande che nessuno gli sta facendo; e certo nessuno di quei giuristi che, dove mancano i concetti, si provano a rimediare con le parole”.
Se non è possibile resistere all’impulso di sorridere a fronte di tali immagini, pressoché insuperabili nella loro esattezza definitoria, neppure è possibile dimenticare che, al fin fine, siamo di fronte ad un serio problema di democrazia. Volendoci limitare alle due istituzioni europee coinvolte nella vicenda da cui prende spunto il libro di Cavallaro (Banca europea e Corte di giustizia), sembra evidente, da un lato, come l’espulsione dei poteri pubblici dalle dinamiche del mercato significhi privare completamente o quasi i soggetti espressione della volontà popolare della possibilità di dirigere l’economia e, dall’altro, che avallare la crescente influenza (diretta e indiretta) delle decisioni della Corte europea negli ordinamenti costituzionali degli Stati membri, comporta l’attribuzione alla stessa di un ruolo che, nella tradizione democratica dei Paesi occidentali, è svolto da Corti (quelle che chiamiamo “costituzionali”) comunque immesse nel circuito politico-rappresentativo proprio del Paese cui appartengono, circuito caratterizzato da un dialogo fra attori politici (espressione della volontà popolare) e attori giurisdizionali e dal fatto che l’opera delle Corti costituzionali interne incontra comunque l’estremo limite della possibilità di revisione costituzionale, esercitando la quale i soggetti politici possono, cambiando la Costituzione, contrastare interpretazioni considerate non in linea con la coscienza sociale.
Inquadrando l’analisi giuridica della sentenza del Tribunale costituzionale federale tedesco nell’ambito delle dinamiche economiche e finanziarie che vi sono sottese, l’A. ci ricorda, indirettamente ma chiarissimamente, come, appunto, ci troviamo al cospetto di questioni che sollecitano la tenuta delle regole fondamentali dei regimi democratici. E non è certamente l’ultimo dei tanti meriti di questo divertentissimo libro.
Il dibattito lanciato da Giustizia Insieme con l'editoriale L'estremo saluto al Protocollo 16 annesso alla CEDU, dopo gli interventi di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo? - Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale - Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa - Carlo Vittorio Giabardo - Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts - Enzo Cannizzaro - La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16 - Paolo Biavati - Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, Sergio Bartole - Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare - Bruno Nascimbene - La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto - si arricchisce oggi del contributo di Andreana Esposito, professoressa associata di diritto penale dell'Università della Campania.
La riflessività del Protocollo n. 16 alla Cedu
di Andreana Esposito
Sommario: 1. La piramide trasformata. – 2. Un parere consultivo. – 3. I’ll be your mirror.
1. La piramide trasformata.
La vicenda della sparizione del Protocollo n. 16 alla Convenzione edu dall’agenda parlamentare è stata ampiamente ed esaustivamente commentata da chi autorevolmente su questa Rivista mi ha preceduto[1]. Sono, pertanto, sufficienti, solo minime riflessioni iniziali.
Il setting, ossia l’ambientazione, in cui avrebbe dovuto operare il Protocollo 16 è quello di un intricato giardino dai tanti sentieri che si biforcano, espressione di nuovi mondi normativi[2] che hanno scardinato la piramide. L’architettura dei sistemi giuridici non è più legata a un sistema piramidale chiuso, espressione di una idea verticistica del diritto e basata sulla supremazia della legge. La crisi della sovranità nazionale, il moltiplicarsi delle fonti giuridiche, l’emergere di nuovi attori sociali e politici che, sia a livello nazionale sia a livello sovranazionale, affiancano e cooperano con il legislatore hanno trasformato l’intero sistema giuridico, frammentandolo e disperdendolo in un crescente pluralismo.
La piramide è diventata una rete[3], le cui maglie, ora più strette ora più larghe, hanno finito per imbrigliare il giudice nazionale[4]. Anche il ruolo del giudice, in mezzo alle trasformazioni del mondo, come il vecchio Qfwfq di Calvino[5], è stato oggetto di rovesciamento. Lo spazio giuridico rappresentato dalla piramide è definito, logico, preciso, ordinato. Il luogo in cui si trova oggi ad agire il giudice è, al contrario, variegato, ampiamente impreciso, tendente in modo crescente al disordine.
In questo nuovo scenario, la positività del diritto - simboleggiata dalla piramide[6] - scivola a possibilità[7] interpretativa in cui i diversi produttori di diritto devono adottare una modalità collaborativa di comprensione[8] e di attribuzione di senso condiviso al diritto quale si forma oggi anche grazie all’influenza e all’azione del mondo normativo convenzionale.
È in questo ambito di cooperazione alla produzione del diritto che si sarebbe dovuto collocare il nuovo strumento individuato dalla Conferenza di Brighton[9]: un parere consultivo destinato a realizzare una sorta di nomofilachia preventiva in grado di integrare il corpus giurisprudenziale della Convenzione[10]. Il parere consultivo della Corte edu è teso a favorire un rapporto dialogico – già esistente sia pure contrastato e disordinato - con le giurisdizioni nazionali, coinvolte ancora più attivamente nella formazione del diritto (anche convenzionale).
Si tratta, in definitiva, di un tassello ulteriore di un processo di costruzione cooperativa del tessuto giuridico già in atto e che, seppur fondato sulla centralità interpretativa affidata alla Corte europea, prevede poi l’attivo coinvolgimento del giudice nazionale nell’adozione e nella, necessaria, rielaborazione della regola giuridica eventualmente indicata dal giudice sovranazionale.
Ripensando alla mancata ratifica del Protocollo 16, mi torna alla mente il mondo dello specchio di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò[11]: attraverso lo specchio, che una Alice cresciuta e non più bambina oltrepassa, si approda a una realtà rovesciata e tuttavia ordinata, disciplinata dalla regola della riflessività: la torta è mangiata prima di essere divisa, la sanzione penale si sconta prima che il processo venga celebrato e che il crimine venga eventualmente realizzato, si festeggiano i non compleanni, le poesie si leggono da destra verso sinistra, per avvicinarsi a un oggetto o a una persona bisogna allontanarsene e camminare nella direzione opposta, la memoria va verso il futuro e non verso il passato. Come è stato osservato[12], nel mondo riflesso oltre lo specchio il rovesciamento, da intendersi quale inversione della regola, per ipotesi, valida nel mondo al di qua dello specchio, è sinonimo di razionalità: il rovesciamento è una regola che si arroga il privilegio della razionalità[13]. Nel vagare in una dimensione complessa, fondata sulla regola dell’inversione, Alice deve necessariamente agire razionalmente e quindi riflettere attentamente prima di muoversi sulla scacchiera per poter avanzare così da diventare Regina.
Nell’opera di Caroll “riflettere” ha un duplice significato. Indica, in primo luogo, la trasformazione di ciò che appare riflesso nel mondo dello specchio, il ribaltamento delle modalità di agire proprie di quella realtà. In secondo luogo, si riferisce alla necessità di agire razionalmente, pensare con attenzione secondo la logica dell’inversione – vale a dire, del mondo in cui si opera – per potersi muovere[14].
Il paradigma del rovesciamento e, quindi, della riflessività del diritto, può essere applicato al parere consultivo che attraverso il Protocollo 16 si presenta come momento di condivisione nella costruzione di una regola di diritto, cui si giunge mediante l’interazione dei soggetti coinvolti. Lungi dal costituire il “cavallo di Troia”[15] immaginato per soffocare la sovranità degli Stati, ulteriore momento di colonizzazione dei diritti nazionali a opera dei diritti umani (come se questi ultimi non fossero universali e quindi comuni[16]), il parere consultivo è una fase (eventuale e facoltativa, e tuttavia, di facilitazione) di un processo di elaborazione razionale della realtà giuridica. È uno strumento fornito al giudice nazionale per ridurre – organizzare – la complessità reticolare in cui è costretto ad agire.
Immerso in un mondo giuridico impreciso e sempre più disordinato e caotico, connotato da molteplici possibilità interpretative, l’interprete interno è obbligato a usare questa complessità stabilendo aperte e dialoganti relazioni con gli altri attori e partecipando attivamente ai processi di formazione del diritto.
Il parere consultivo del Protocollo 16 agevola questo compito di collaborazione e cooperazione riflettendo, da un lato, il mondo del diritto convenzionale e, dall’altro lato, facendo riflettere i giudici nazionali.
Vediamo come agisce la riflessività del Protocollo 16.
2. Un parere consultivo
Il 29 maggio 2020 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha adottato, su richiesta della Corte costituzionale armena, il suo secondo parere pregiudiziale ai sensi del Protocollo n. 16[17]. Le questioni poste dai giudici rimettenti avevano a oggetto la compatibilità con l’art. 7 della Convenzione del ricorso alla tecnica normativa per relationem in ambito penale e del principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole. Si tratta, come è noto, di temi rientranti in un ambito in cui il mondo convenzionale al di là dello specchio ha riflesso molteplicità e fluidità, laddove il mondo giuridico al di qua dello specchio risultava incentrato su stabilità e solidità.
Determinatezza delle incriminazioni penali, irretroattività del reato e delle pene e applicabilità della legge penale più favorevole sono principi che si presentano trasformati nel diritto convenzionale, collocandosi in un orizzonte che si è spostato dal piano della “certezza del diritto” a quello della “certezza dei diritti”[18].
È noto: la legalità convenzionale è speculare a quella nazionale.
La prima è indifferente al momento genetico della potestà punitiva, è interessata al diritto in una accezione sostanziale e non formale. La seconda è fondata sulla riserva di legge, è legicentrica[19].
La legalità convenzionale si fonda su concetti fluidi, quale quello di materia penale, nozione dalla configurazione sfumata, costruita attraverso la contaminazione tra più elementi. La legalità nazionale si salda alla solidità (dura lex sed lex) e alla stabilità.
Nella legalità convenzionale, centrale alla creazione del diritto è l’intervento giurisprudenziale. Nella legalità nazionale è, forse oggi con minore consistenza, il legislatore l’architrave del sistema delle fonti.
La legalità del mondo al di la dello specchio è dinamica, mira alla prevedibilità. È una legalità raggiunta che guarda al risultato definitorio ottenuto dalla giurisprudenza nell’applicazione di una norma. La legalità del mondo al di qua dello specchio è statica, tende alla certezza. È una legalità offerta, incentrata sulla capacità selettiva di una norma incriminatrice, sulla sua idoneità a individuare astrattamente gli elementi del fatto tipico.
In presenza di questa specularità, il giudice costituzionale armeno si rivolge ai giudici convenzionali.
Quattro erano in punti in cui si articolava la richiesta. Con i primi tre quesiti si interrogava la Corte europea circa i confini dei requisiti di precisione, accessibilità, prevedibilità e stabilità, e si chiedeva (prime due domande), da un lato, se le nozioni di ‘diritto’, di cui all’art. 7 della Convenzione, e quella di ‘legge’, contenuta in altre disposizioni della Convenzione, avessero lo stesso contenuto; e dall’altro lato (terza domanda), se il concetto di norma etero-integrata in riferimento a disposizioni giuridiche di rango supremo (la Costituzione) e con «un niveau supérieur d’abstraction» fosse compatibile con quelle caratteristiche. Infine, con la quarta domanda, alla Corte era chiesto di indicare, alla luce del principio di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 7 della Convenzione, quali fossero «les critères à appliquer pour comparer la loi pénale telle qu’elle était en vigueur au moment de la commission de l’infraction et la loi pénale telle que modifiée».
Senza voler approfondire tutti gli aspetti di questo parere, limito le mie osservazioni all’idea di riflessività come in precedenza delineata.
Dopo aver lasciato cadere i primi due quesiti per carenza di collegamento diretto con il procedimento nazionale[20], i giudici europei si sono soffermati sulle ultime questioni sollevate, concernenti l’uso della tecnica legislativa par référence e la portata del principio di non retroattività.
La struttura del parere riflette le modalità con cui i giudici europei hanno operato nella elaborazione delle indicazioni dal fornire agli interpreti nazionali. Così, sfogliando le pagine dell’Avis, apprendiamo che la Corte europea, nella costruzione del tessuto normativo su cui fondare le sue conclusioni, ha volto, innanzitutto, lo sguardo agli ordinamenti nazionali, quello armeno certo, ma non solo.
Si leggono così, dopo le note di diritto interno pertinente (parr. 23 – 28), gli elementi di diritto comparato (parr. 29 – 40) i quali hanno, anche, valenza costitutiva della correttezza (e legittimità) dei provvedimenti europei. Il diritto nazionale entra così nel processo decisionale europeo.
Successivamente, focalizzandosi sul primo dei due aspetti sollevati, costruendo la base su cui rendere il parere, la motivazione dei giudici europei proietta nel mondo al di là dello specchio la dimensione dinamica, di legalità raggiunta, del principio del nullum crimen sine lege declinato dalla sua giurisprudenza. Mostrando la propria consolidata giurisprudenza[21], i giudici ricordano come la legalità convenzionale sia incentrata principalmente su una nozione di legge materiale la cui prevedibilità deve essere valutata. È l’aspetto della conoscibilità della norma penale a essere rilevante, conoscibilità intesa come accessibilità della disposizione incriminatrice e prevedibilità delle sue conseguenze sanzionatorie. Pertanto, è consentito un graduale chiarimento della norma penale attraverso l’interpretazione del giudice, anche quando il giudice nazionale interpreti e applichi una certa norma per la prima volta[22]. Chiariti i principi applicabili, la Corte analizza la prima questione ammessa: la compatibilità con l’art. 7 della Convenzione della norma penale etero-integrata sia nel caso di riferimenti a previsioni normative poste al di fuori del diritto penale in generale, sia nel caso di riferimenti a norme di rango costituzionale. Sono la determinatezza e la prevedibilità della norma risultante dalla combinazione della norma penale e di quella costituzionale a dover essere assicurate[23]. L’uso della legislazione par référence non si pone pertanto di per sé in contrasto con la legalità convenzionale purché il risultato normativo sia conforme ai requisiti generali di qualità della legge, sia, in altri termini, sufficientemente preciso, accessibile e prevedibile nella sua applicazione. Questa conclusione, ricordano i giudici[24], è convalidata dall’indagine comparativa preliminarmente eseguita. Infine, sebbene la Corte riconosca che, come sottolineato dal giudice richiedente, una norma costituzionale può spesso assumere un maggiore livello di astrazione, ciò di per sé non rende la tecnica legislativa in contrasto con l’art. 7 della Convenzione. Se il riferimento è esplicito e non estende la portata della fattispecie incriminatrice, la tecnica è ammissibile.
Il parere su questo primo punto si chiude con un rinvio al giudice nazionale: è lui, in ogni caso, a dover compiere una adeguata valutazione caso per caso del rispetto di tali indicazioni. Il giudice nazionale dovrà quindi riprendere la regola individuata e trasferirla nel proprio mondo.
Ultimo aspetto affrontato dalla Corte concerne l’ampiezza del principio di irretroattività della norma penale. Di nuovo è la sua consolidata giurisprudenza a essere richiamata[25] secondo cui l’art. 7 della Convenzione vieta incondizionatamente l’applicazione retroattiva della norma penale più sfavorevole per l’accusato, applicandosi tale principio sia alla definizione del reato che alla pena prevista. Al contrario, la norma penale più favorevole può essere applicata retroattivamente. Guardando al caso di specie, la Corte rileva, riprendendo quanto dedotto dalla Corte costituzionale armena, che le disposizioni incriminatrici succedutesi nel tempo[26] hanno determinato il fenomeno della successione di leggi penali modificative. È poi notato – sempre dialogando con i giudici armeni il cui detto è riportato – che l’ipotesi delittuosa entrata in vigore successivamente ai fatti, rispetto alla descrizione incriminatrice prevista dalla disposizione vigente al momento dei fatti, opera da un lato un restringimento della tipicità, limitata ai casi di eliminazione de facto di specifici diritti costituzionali e, dall’altro lato, un ampiamento del penalmente rilevante, non richiedendo più l’elemento della violenza richiesto invece dal previgente art. 300 c.p. Quanto ai criteri in base ai quale effettuare la scelta della norma più favorevole da applicare al caso in esame, la Corte osserva come debba procedersi a una valutazione attenta al caso concreto. Non è quindi la comparazione tra le norme astratte in successione temporale a poter portare alla individuazione della fattispecie più favorevole. Deve aversi, al contrario, riguardo alle conseguenze concrete che derivano dall’applicazione dell’una o dell’altra previsione normativa. Valutazione in concreto che spetta al giudice nazionale. Tocca a lui verificare l’effetto delle modifiche in termini di concreta afflittività, applicando le considerazioni esposte dalla Corte europea: se il risultato della applicazione della legge posteriore è una ricaduta peggiorativa sulla sfera giuridico-penale del singolo, questa non può essere applicata.
Ai fini che in questa sede interessano, in entrambe le questioni i giudici europei rimandano alla Corte nazionale la conversione concreta delle linee guida fornite. Il parere riflette le regole giuridiche individuate dai giudici europei e si apre alle riflessioni dei giudici interni. Spetta a loro ragionare sulle mosse da compiere per risolvere il caso di specie sottoposto alla loro attenzione. Attraverso una pratica di cooperazione e coordinamento, si trovano nella condizione di poter autonomamente individuare la prosecuzione del cammino iniziato nel mondo convenzionale, potendo, vista la non vincolatività del parere, anche discostarsene.
Proprio come Alice che segue, per avanzare sulla scacchiera, le regole della simmetria rovesciata del mondo in cui si muove, il giudice nazionale deve ordinare secondo la razionalità e la ragionevolezza, del proprio ordinamento, il diritto prodotto in sede sovranazionale e ciò, sempre in un’ottica di innalzamento delle tutele, così da avanzare sulla scacchiera dei diritti. Nel suo agire, potrà tenere in conto quelle acquisizioni, destinate a essere trasformate per operare nell’ordinamento nazionale.
3.I’ll be your mirror[27]
La lettura del parere reso ai giudici armeni ci consente alcune considerazioni di riepilogo.
Il parere consultivo (non vincolante) sull’interpretazione o sull’applicazione della Convenzione edu che le alte giurisdizioni nazionali (Corte costituzionale e Corte di cassazione) possono chiedere alla Corte europea è espressione del principio di sussidiarietà. Si legge nel preambolo che l’estensione della competenza della Corte a emettere tali pareri[28] consentirà ai giudici di Strasburgo di «interagire maggiormente con le autorità nazionali consolidando in tal modo l’attuazione della Convenzione»[29]. Si tratta, lo si è visto, di uno strumento che tende a facilitare il dialogo tra i giudici nazionali e la Corte edu spingendo gli uni e gli altri ad abbandonare la loro origine individualistica per diventare altro. Il giudice nazionale che avrà attivato il procedimento consultivo, come Alice, attraverso un gioco di specchi, si trova nella posizione di chi ricerca e costruisce la regola giuridica da applicare al caso concreto riflettendo, vale a dire, partecipando attivamente e razionalmente al processo di formazione della regola.
Il parere consultivo ha, in questa dinamica collaborativa, in primo luogo, la funzione di riflettere l’ordinamento della Convenzione; proietta verso gli ordinamenti nazionali i valori, le aspettative normative, i diritti della realtà convenzionale. In questa prima accezione, funge da specchio che riflette.
In secondo luogo, il parere di cui al Protocollo 16 consente al giudice di partecipare al processo formativo di una regola nel momento in cui questa sta per essere immessa nell’ordinamento nazionale. È allora un dispositivo che offre la possibilità di ragionare sulle proprie mosse in modo da individuare la regola più razionale: una regola, vale a dire, che pur riflettendo la realtà normativa da cui origina, è, tuttavia, poi riformulata, adattata al contesto giuridico, particolare e generale[30] in cui è destinata a dover operare.
Riflettendo sulla motivazione dell’atto del giudice sovranazionale, l’interprete nazionale non manifesta una passiva adesione; al contrario, aprendosi alla cooperazione, sperimenta la validità di una interpretazione inserendola nel proprio processo deliberativo, nel segno che può essere, a seconda dei casi, della continuità o dell’innovazione.
Tale strumento interpretativo e applicativo esalta, allora, la circolarità della produzione normativa che parte dalla Corte europea e si muove verso gli altri attori e viceversa: ciascun attore fornisce agli altri elementi da decodificare e da reinterpretare, in accordo con il proprio punto di vista[31].
Ancora una volta, è Alice a tornare in mente.
Parlando con la Regina Bianca, Alice apprende che il Messaggero del Re si trova in prigione. La Regina le spiega, quindi, che il «processo comincerà soltanto mercoledì prossimo, e naturalmente il delitto viene per ultimo». Al che Alice obietta che non le sembra un modo corretto di procedere in quanto il delitto potrebbe non essere mai commesso, e che al contrario «sarebbe meglio se (il Messaggero) non fosse mai stato punito». Piccata, la Regina bianca le chiede:
«Sei mai stata punita?»
«Solo per delle malefatte» rispose Alice.
«E dopo ti sei sentita meglio, lo so!» esclamò la Regina in tono trionfante.
«Sì, ma io avevo fatto le cose per le quali venivo punita» disse Alice «c’è una bella differenza».
Interagendo con la Regina, Alice è costretta a riflettere sul giusto rapporto tra reato e pena. Ed è nel momento in cui comprende la consequenzialità tra commissione del reato e inflizione della punizione che riesce ad avanzare sullo scacchiere nella direzione dell’ottava casella che le consentirà di divenire Regina. Attraverso il confronto e l’interazione, fedele ai propri principi, Alice avanza.
È la riflessione che le consente di fare la mossa giusta, consentendo, all’interno di un gioco relazione, di operare una razionale trasformazione.
Analogo processo riflessivo impone al giudice nazionale il meccanismo consultivo di cui al Protocollo 16: attraverso la ponderazione e valutazione di quanto proveniente dal mondo rovesciato della Convenzione (perché non ordinato secondo la logica della piramide kelseniana), le parole del giudice interno prendono forma secondo un disegno proteso, sperabilmente, verso l’innalzamento delle garanzie[32]. Così, nel parere che si è in precedenza analizzato, non sono i giudici europei ad avere l’ultima parola, spettando, al contrario, al giudice nazionale riprendere le regole giuridiche individuate (la legislazione par réferénce è ammissibile se non incide sulla qualità del risultato legislativo; in caso di successione di norme penali nel tempo, la legge più favorevole va individuata in concreto avendo riguardo al risultato della sua applicazione) per calarle nel caso in esame ed, eventualmente, farne patrimonio conoscitivo da immettere nel proprio ordinamento. Il risultato che così si consegue è, in ogni caso, espressione di una scelta del giudice nazionale, che non rifiuta il confronto e l’interazione con i giudici sovranazionali, pur mantenendo una piena autonomia. Sarà lui, se del caso, l’attore della trasformazione del diritto nazionale.
La riflessività del Protocollo 16 sta, in definitiva, in ciò: nella partecipazione alla costruzione di un processo di formazione del diritto attraverso la cooperazione e la collaborazione dei diversi attori. Non c’è, quindi, un signore della parola[33] nel Protocollo 16; ci sono, al contrario, costruttori del diritto.
[1] Si tratta di una serie di autorevoli interventi, iniziati con l’editoriale del 12 ottobre 2020, L’estremo saluto al Protocollo n. 16 annesso alla CEDU; a seguire: A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?, 22 ottobre 2020; C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, 3 novembre 2020; E. Lamarque, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, 18 novembre 2020; C. V. Giabardo, Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts, 28 novembre 2020; E. Cannizzaro, La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16, 8 dicembre 2020; P. Biavati, Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16,17 dicembre 2020; S. Bartole, Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare, 13 gennaio 2021; B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, 29 gennaio 2021. Sempre su questa Rivista, in un contesto più ampio, R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I “volti” delle Corte di Cassazione a confronto, 4 marzo 2021, in particolare par. 9.
[2] P. Mittica, Attraversare il silenzio. I presupposti impliciti del diritto, in Sociologia del diritto, 2, 55 - 76.
[3] Diverse le immagine usate per rappresentare un sistema giuridico caratterizzato in senso pluralistico: arcipelago, G. Timsit, Archipel de la norme, Presses Universitaires de France, 1997; G. Zaccaria, Trasformazione e riarticolazione delle fonti del diritto oggi, in Ragion Pratica, 22, 2004, 93 – 120; edificio barocco, G. Silvestri, “Questa o quella per me pari sono… ” Disinvoltura e irrequietezza nella legislazione italiana sulle fonti del diritto , in AAVV, Le fonti del diritto, oggi, giornate di studio in onore di Alessandro Pizzorusso, Plus, 2006.
[4] Su “il giudice nella rete” anche a proposito del Protocollo n. 16, in questa Rivista, C. V. Giabardo, Il Protocollo 16 cit. 3, che ricorda come la rete normativa sia da riferire, soprattutto, a F. Ost, Il ruolo del giudice. Verso delle nuove fedeltà)? in Rassegna forense, 2013, 701. Senza voler richiamare la oramai sterminata bibliografica in materia, in particolare con riguardo alle modifiche indotte dall’apertura degli ordinamenti nazionali a quelli sovranazionali, nella letteratura penalistica, tra gli altri, V. del Tufo, La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ed il ruolo del giudice nazionale tra interpretazione conforme e rinvio alla Corte Costituzionale, in Foro Napoletano, n. 1, 2018; M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale. Dalla dogmatica classica alla giurisprudenza – fonte, Giuffrè, 2011, p. 43 e ss.; Id., Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, 2004, Giuffrè, 145 ss.; V. Manes, Metodi e limiti dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia penale, in Dir. pen. cont., (web), 9 luglio 2012, anche in Arch. pen., n. 1/2012; sulla de-gerarchizzazione delle fonti, C. E. Paliero, Il diritto liquido. Pensieri post-delmasiani sulla dialettica delle fonti penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2014, p. 1099 e ss.
[5] I. Calvino, Le cosmicomiche, Zio acquatico, Einaudi, 1965, p. 83. Qfwfq è il protagonista della raccolta di racconti di Italo Calvino intitolata Cosmicomiche, che indossa tutte le vesti evolutive possibili e immaginabili. Nel racconto Lo zio acquatico, Qfwfq reagisce nel seguente modo all’abbandono della fidanzata L11: «Fu una batosta dura per me. Ma poi, che farci? Continuai la mia strada, in mezzo alle trasformazioni del mondo, anch’io trasformandomi».
[6] C. V. Giabardo, Il Protocollo 16 cit.p. 3, scrive la piramide simboleggia l’ossessione (kelseniana) per l’ordine.
[7] N. Irti, Diritto senza verità, Laterza, 2011.
[8] Prendo in prestito il concetto di interpretazione dalla ermeneutica, secondo cui l’interpretazione indica una precisa modalità dell’approccio conoscitivo: essere una attività rivolta alla comprensione, così F. Viola, Il diritto come arte della convivenza civile, in Rivista di filosofia del diritto, fascicolo 1, 2015, p. 64.
[9] La Conferenza di Brighton del 19 - 20 aprile 2012, riprendendo e rafforzando quanto già dichiarato nella Conferenza sul futuro della Corte tenutasi a Izmir il 26 e 27 aprile 2011, si è conclusa con un invito al Comitato dei Ministri di adottare un Protocollo facoltativo che prevedesse “un ulteriore potere della Corte….di emettere su esplicita richiesta, pareri consultivi sull’interpretazione della Convenzione nell’ambito di una specifica causa a livello nazionale”.
[10] In questo senso, P. de Sena, Caratteri e prospettive del Protocollo 16 nel prisma dell’esperienza del sistema interamericano di protezione dei diritti dell’uomo, in Diritti umani e diritto internazionale, 2014, 593 e ss., specificamente 602.
[11] Seguito, come è noto, di Alice nel Paese delle meraviglie, fu scritto da Lewis Caroll, pseudonimo di Charles Lutwidge Dogson, pubblicato il 27 dicembre del 1871 (anche se indicato come edito nel 1872).
[12] F. Scamardella, Ragionando sul diritto: Alice e il gioco degli specchi, Law and Literature – ISLL , 2009, 2.
[13] Così, M. Graffi nell’introduzione all’edizione italiana del libro di Caroll, 2007, Garzanti, 25.
[14] Così, F. Scamardella, Ragionando sul diritto, 2.
[15] Così, A. Ruggeri, Prot. 16 cit. 2.
[16] Sul punto C. V. Giabardo, Il Protocollo 16 cit. 2.
[17] Corte europea dei diritti umani, parere consultivo del 29 maggio 2020, richiesta n. P16-2019-001. In particolare, quanto ai quesiti posti alla Corte di Strasburgo cfr. par. 11 del parere. Sul parere, cfr. la motivata scheda di sintesi, C. Milo, Il secondo parere consultivo della Corte EDU: applicazioni dell’art. 7 della Convenzione, in Giurisprudenza italiana, luglio 2020, 1592 e ss.; anche, S. Giordano, La ragionevole prudenza della Corte edu: tra prevedibilità e accessibilità del precetto. Considerazioni a caldo sul parere della Corte (CEDH 150) del 29.05.2020, in questa Rivista, 10 settembre 2020.
Alla data attuale, la Corte europea ha adottato due pareri consultivi: il primo, in data 10 aprile 2019, su richiesta della Corte di cassazione francese; il secondo, in data 29 maggio 2020, su richiesta dalla Corte costituzionale armena. È pendente una rimessione alla Corte. Il 25 gennaio 2021, il panel di 5 giudici ha accolto la richiesta presentata, il 5 novembre 2020, dalla Corte suprema amministrativa della Lituania, attribuendogli il numero P16 – 20202 – 002. La questione verte sul rifiuto della commissione elettorale lituana di consentire la candidatura di un ex deputato poi destituito. L Corte suprema amministrativa chiede ai giudici europei la corretta interpretazione dell’articolo 3 del Protocollo n. 1 che assicura il diritto a libere elezioni.
È stata invece dichiarata inammissibile, in data 1° marzo 2021, la richiesta della Corte suprema slovacca, presentata il 19 novembre 2020 relativa alla indipendenza del meccanismo interno di accertamento della responsabilità di agenti di polizia. La scarna motivazione, quale si legge nel comunicato stampa, è, ancora una volta, illuminante sulla riflessività del rinvio: i giudici europei motivano la loro decisione in base a un precedente avis d’harmonisation reso dalla Corte rimettente che rifletterebbe l’inutilità dell’intervento della corte sovranazionale. Gli aspetti sollevati dalla Corte slovacca, dicono i giudici europei, did not concern an issue on which the requesting court would need the Court’s guidance to be able to ensure respect for Convention rights when determining the case pending before it. È il principio di sussidiarietà a portare a questa non decisione in uno spirito di collaborazione e di rispetto reciproco.
[18] Si tratta di espressione usata da A. Ruggeri, La cedevolezza della cosa giudicata all’impatto con la Convenzione europea dei diritti umani…ovverosia quando la certezza del diritto è obbligata a cedere il passo alla certezza dei diritti, in Legislazione penale, 2011, 481 e ss.
[19] M. Vogliotti, voce Legalità, in Enc. Dir., Annali IX, Milano, 2013, 373.
[20] Corte europea, parere consultivo, n. P16-2019-001, cit. parr. 53 – 56.
[21] Corte europea, GC, Del Rio Prada c. Spagna, sentenza del 21 ottobre 2013 e Rohlena c. Repubblica Ceca, sentenza del 27 gennaio 2015.
[22] Corte europea diritti umani, Jorgic c. Germania, sentenza del 12 luglio 2007.
[23] Corte europea diritti umani, Kuolelis e altri c. Lituania, sentenza del 19 febbraio 2008; Haarde c. Islanda, sentenza del 23 novembre 2017.
[24] Corte europea, parere consultivo, n. P16-2019-001, cit. par. 71.
[25] Corte europea, GC, Scoppola c. Italia (n. 2), sentenza del 17 settembre 2009.
[26] Art. 300 c.p. Usurpazione di potere, in vigore all’epoca dei fatti, e il successivo art. 300.1 Rovesciamento dell’ordine democratico, entrato in vigore nel 2009. I fatti addebitati all’imputato risalivano al 2008.
[27] Si tratta di una citazione dalla canzone I’ll be your mirror, scritta da Lou Reed e David Lang e cantata dalla cantante Nico, del gruppo Velvet Undergroud.
[28] Nel preambolo si parla di “estensione” in quanto la nuova competenza si affianca a quella già prevista ai sensi dell’art. 47 della Convenzione che consente al Comitato dei Ministri di attivare la richiesta di parere.
[29] È intuitivo che allo scopo reso esplicito nel preambolo si aggiunge un intento deflattivo, confidando nel fatto che la procedura consultiva possa nel lungo periodo portare a una riduzione del carico di lavoro della Corte.
[30] La Corte ha espressamente attribuito ai propri pareri consultivi un ulteriore importante scopo, quello «de fournir aux juridictions nationales des orientations sur des questions de principe relatives à la Convention applicables dans des cas similaires»; così par. 26 in fine, del primo parere reso, Corte europea dei diritti umani, parere consultivo del 10 aprile 2019, richiesta n. P16 – 2018 – 001. È così riconosciuta ai pareri pregiudiziali una funzione erga omnes e un’efficacia sostanziale erga omnes. Un’efficacia vale a dire, destinata ad andare oltre il singolo caso da cui la richiesta di parere trae origine, per estendersi a tutti i casi in cui lo stesso problema giuridico oggetto del parere si presenti dinanzi ai giudici nazionali, in particolare ai giudici dello Stato di appartenenza della giurisdizione richiedente. In questo senso in letteratura, V. Cannizzaro, Pareri consultivi ed altre forme di cooperazione giudiziaria nella tutela dei diritti fondamentali: verso un modello integrato?, in La richiesta di pareri consultivi alla Corte di Strasburgo da parte delle più alte giurisdizioni nazionali. Prime riflessioni in vista della ratifica del Protocollo 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, E. Lamarque (a cura di),Giappichelli, 2015, 79-89, in particolare 82; L.A. Sicilianos, L’élargissement de la compétence consultative de la Cour européenne des droits de l’homme – À propos du Protocole n° 16 à la Convention européenne des droits de l’homme, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, 2014, 9-29, specialmente 27-28; P. Pirrone, I primi parere pregiudiziali della Corte europea dei diritti umani: aspetti procedurali, in Diritti umani e diritto internazionale, 14, 2020, 531 – 548, in particolare, 533 e ss.
[31] È rilevante sottolineare come il giudice nazionale, vincolato a presentare questioni di compatibilità a Convenzione rilevanti per risolvere una controversia sottoposta al suo esame, deve, ai sensi dell’art. 3 del Protocollo 16, adeguatamente motivare la propria richiesta e anche «produrre gli elementi pertinenti inerenti al contesto giuridico e fattuale della causa pendente». Nel rapporto esplicativo è specificato che i giudici nazionali devono chiarire l’oggetto del procedimento interno e le risultanze rilevanti dei fatti acquisiti nel corso dello stesso, le norme di legge interne, la precisazione dei diritti che si ritengono violati, una sintesi delle osservazioni delle parti e le considerazioni del giudice remittente. In tal modo, il giudice europeo è costretto a guardare oltre il proprio confine, e dovrà riflettere anche sul diritto che sta importando per poter procedere nel senso di una decisione consapevole e aperta, protesa, sul contesto normativo e fattuale da cui origina e in cui tornerà il suo intervento.
[32] È il principio di apertura dei principi e diritti fondamentali che porta, scrive A. Ruggeri, Protocollo 16 e identità costituzionale in Rivista di diritti comparati on line, 7 gennaio 2020 p. 5, l’ordinamento interno ad aprirsi “ad ordinamenti e sistemi normativi, quale quello eurounitario e quello convenzionale, allo stesso tempo in cui questi si aprono al primo, tutti accomunati e governati da un autentico metaprincipio che è quello della massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali”. Si afferma, quindi, che in tanto quella giurisprudenza possa avere ingresso nel nostro sistema ordinamentale in quanto da ciò derivi un guadagno per i diritti costituzionali. Il metaprincipio della massima tutela possibile costituisce, in definitiva, la valvola attraverso cui il diritto convenzionale può farsi diritto nazionale e viceversa. Contra, R. Bin, Critica della teoria dei diritti, FrancoAngeli, 2018, pp. 63 e ss. Sempre A. Ruggeri, Conferme e novità di fine anno in tema di rapporti tra diritto interno e CEDU (a prima lettura di Corte Cost. nn. 311 e 317 del 2009) in www.forumcostituzionale.it, del 22 dicembre 2009, ricorda come nell’ipotesi in cui la giurisprudenza convenzionale, in un caso specifico e a proposito di un dato bilanciamento tra diritti entrambi fondamentali, assicuri una protezione ai diritti in questione più intensa rispetto a quella offerta dalla Carta costituzionale, è possibile, se non doveroso, per la Corte costituzionale fare proprio il livello di tutela (appunto, “più intensa”) offerto a livello sovranazionale, mirando alla massima espansione delle garanzie e “accantonando”, nella fattispecie, la disposizione costituzionale rilevante. Contra, ancora una volta, R. Bin, L’interpretazione conforme. Due o tre cose che so di lei, in www.rivistaAIC.it, fasc. n. 1/2015, pp. 2 e ss., secondo cui i diritti tendono a essere “a somma zero”, nel senso che l’aumento di tutela assicurato a un diritto comporta inevitabilmente una diminuzione per un altro (lo stesso concetto di “bilanciamento” è espressione, a suo dire, di questo dato della gestione giudiziaria dei diritti).
[33] Il riferimento è al personaggio Humpty Dumpty che Alice incontrò in Attraverso lo specchio, protagonista di uno dei dialoghi più celebri del romanzo sul significato delle parole.
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