ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Bundesverfassungsgericht, ombelico del sovranismo o volano per un’Europa solidale?
di Marina Castellaneta
Deragliamento o maggiore tempo di viaggio? Ancora tutti da decifrare gli effetti del nuovo intervento della Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht, BvG) che, con decisione depositata il 26 marzo 2021, ha disposto una sospensione della conclusione del procedimento di ratifica, stabilendo che il Presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier non può ancora firmare la legge di ratifica sulla decisione Ue sulle risorse proprie fino alla pronuncia sulle misure provvisorie della stessa Consulta tedesca[1]. Un colpo di scena che arriva dopo il voto positivo da parte del Parlamento tedesco (sia dal Bundestag sia dal Bundesrat), che tiene con il fiato sospeso la Commissione europea e i Governi dello spazio Ue. È sempre la Germania l’ago della bilancia per ogni iniziativa Ue. Talvolta interviene il Governo, talvolta la banca centrale, in altri casi i giudici costituzionali. Con un ruolo di primo piano, in tutte le partite, di associazioni e gruppi populisti, in alcune occasioni vicini all’estrema destra.
Ultimo in ordine di tempo è il ricorso presentato da un gruppo di euroscettici guidati da Bernd Lucke, economista ed ex parlamentare Ue nonché fondatore dell’“Alternative fuer Deutschland” (poi abbandonata) e del gruppo dei riformatori liberalconservatori, nonché da altri cittadini del movimento “Bündnis Bürgerwille”.
Questa volta il provvedimento sotto attacco è, come detto, la decisione sulle risorse proprie dell’Unione europea approvata dal Consiglio il 14 dicembre 2020 (decisione 2020/2053 e che abroga la decisione 2014/335)[2]. Un atto determinante, quello impugnato, nell’attuale crisi economica e sociale nonché sanitaria dovuta alla pandemia da Covid-19, per il sostegno agli Stati membri che saranno destinatari di 750 miliardi di euro, recuperabili anche attraverso il debito pubblico europeo.
Un primo round è stato già incassato dai ricorrenti vista l’ampia risonanza mediatica e l’apprensione di tutto il mondo che, di fatto, è sospeso tra prospettive di recupero nella crescita economica e aggravamento della crisi sociale.
La decisione sulle risorse proprie, che comprende il bilancio pluriennale, ma soprattutto l’emissione dei bond europei per finanziare le spese dovute in particolare alla crisi economica e sociale provocate dalla pandemia, richiede la ratifica degli Stati. Così, gli occhi di tutta Europa sono puntati sul Bundesverfassungsgericht e sul primo provvedimento che riguarderà le misure provvisorie richieste dai ricorrenti, ma che, di fatto, potrebbe provocare, se sarà decisa la sospensione fino alla pronuncia di merito, uno scontro tra Consulta e Unione europea (finanche, in prospettiva, con la Corte di giustizia), con ulteriori effetti disastrosi.
Un sicuro effetto, oltre a uno stress supplementare non necessario in questi tempi, sarà quello di ritardare la messa al punto del piano di supporto economico, smantellando i progetti della Commissione che pensava di elargire la prima tranche di aiuti entro l’estate 2021.
Ma sul tavolo c’è molto di più perché è in gioco un cambio di rotta e di visione che ha avuto l’imprimatur proprio dalla Germania che, con la Cancelliera Angela Merkel, ha permesso quantomeno di sperare in un cambio di passo nel senso di un passaggio dall’austerity “senza se e senza ma” alla solidarietà. Certo, non completa.
Non è la prima volta che i Governi europei, Bruxelles e il mondo, anche dei mercati, attendono le sentenze della Corte costituzionale tedesca che, almeno finora, è intervenuta senza scalfire troppo l’Unione europea e senza condizionare le altre corti costituzionali. Tutti interventi che hanno riguardato le misure Ue di carattere monetario e finanziario. Sulla nuova questione relativa alla decisione sulle risorse proprie, però, un campanello d’allarme era già suonato attraverso il rapporto annuale 2020, presentato l’8 gennaio 2021, dal Bundesrechnunghof, intitolato “Eu TrustFunds: high burden, little transparency and not really more rapid than other Eu emergency response”[3].
Dal punto di vista del fondamento giuridico dell’azione dei ricorrenti guidati da Bernd Lucke, c’è la decisione che include il Recovery Plan ritenuta contraria all’articolo 310 del Trattato sul funzionamento dell’Unione e all’articolo 311 (che apre il capo I del Titolo II, dedicato alle risorse proprie dell’Unione), in particolare nella parte in cui, l’indicata decisione ammette, in via di fatto, una parziale messa in comune dei debiti. Tale ultimo articolo, infatti, dispone che il bilancio dell’Unione sia finanziato integralmente tramite risorse proprie “fatte salve le altre entrate”. L’approvazione è affidata al Consiglio che delibera secondo una procedura legislativa speciale all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo. Tuttavia, se la norma sembrerebbe poter costituire una base per l’azione dei ricorrenti a causa del debito comune, mettendo da parte le considerazioni sul richiamo a “fatte salve altre entrate”, va osservato che la stessa norma stabilisce che il Consiglio può istituire “nuove categorie di risorse proprie o sopprimere una categoria esistente”. In ogni caso, la decisione entra in vigore solo dopo l’approvazione degli Stati membri “conformemente alle rispettive norme costituzionali”. Il richiamo al finanziamento integrale con risorse proprie è alla base dell’azione di Lucke perché, a suo avviso, la decisione approvata dal Consiglio risulterebbe non avere una base giuridica e sarebbe piuttosto un atto contrario al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in violazione della Carta costituzionale tedesca poiché è il Parlamento che deve pronunciarsi sul bilancio nazionale[4]. Detto in altri termini, non sarebbe ammissibile un provvedimento Ue che porti nuovo debito sui cittadini tedeschi (tralasciando, però, un aspetto e cioè che anche la Germania si gioverà del Next Generation EU e del sistema di Recovery and Resilience Facility).
Nulla di nuovo, quindi, perché i ricorrenti sembrano recitare un vecchio copione. È stato il caso dei ricorsi sul programma di acquisto dei titoli di Stato (Public Sector Purchase Programme) avviato dalla Banca centrale europea dal 2015 per salvare la zona euro (noto come Quantitative Easing).
In quell’occasione, la Corte costituzionale tedesca, con la sentenza del 5 maggio 2020 (caso Weiss), in piena pandemia, aveva messo sotto controllo le misure adottate dalla Banca centrale europea e il programma di acquisti di titoli di Stato. La BvG aveva posto un quesito pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue: nell’ordinanza di rimessione, la Consulta tedesca aveva affermato che la Banca centrale europea avrebbe dovuto provare che gli obiettivi di politica monetaria erano stati proporzionali. Ma sul tavolo c’era molto di più perché era evidente che si trattava di un’azione di forza della BvG nei confronti della Corte di giustizia Ue che, con la sentenza dell’11 dicembre 2018, causa C-493/17, Weiss, aveva riconosciuto la legittimità degli interventi della Banca centrale nel Quantitative Easing.
Dal canto suo, la BvG, pur ammettendo che il Quantitative easing non era contrario al diritto dell’Unione nella parte in cui non era utilizzato per finanziare il debito pubblico degli Stati, è arrivata a sostenere che la stessa Corte di Lussemburgo aveva sostanzialmente agito ultra vires affermando la legittimità degli atti della BCE. Di conseguenza, poiché le misure non erano in linea con la ripartizione di competenze e il principio di proporzionalità fissati nel Trattato, malgrado la diversa pronuncia di Lussemburgo, esse non vincolavano la Germania e il Bundesbank avrebbe potuto decidere di non partecipare al programma, in assenza di chiarimenti dalla Banca centrale europea.
Come sottolineato da Tesauro, la Corte costituzionale tedesca, in quell’occasione, oltre a mostrare una certa diffidenza nei confronti di Lussemburgo, in modo confuso, aveva ritenuto che “le misure varate dalla BCE producessero effetti economici oltre quelli monetari, dunque al di là del confine della competenza attribuitale dagli Stati membri, e ne ha dedotto una insufficiente motivazione sulla proporzionalità. Dubito molto – ha precisato Tesauro - che questo sia l’approccio corretto al principio di proporzionalità applicato al principio delle competenze di attribuzione”[5].
La sentenza aveva spinto la Corte di giustizia, con un comunicato dell’8 maggio, a precisare che solo i giudici Ue sono competenti a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto Ue[6].
E’ opportuno ricordare anche la sentenza della Corte di giustizia del 16 giugno 2015, nella causa C-62/14 (Gauweiler), con la quale si sosteneva che il programma OMT (Outright Monetary Transactions) non era basato su un atto ultra vires e che il Sistema europeo di banche centrali (SEBC) funzionale ad adottare un programma di acquisto di titoli di Stato sui mercati secondari era conforme al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea[7].
Per quanto riguarda la nuova saga, nella vicenda che rischia di travolgere il piano di aiuti per la pandemia, la Corte costituzionale tedesca non si è rivolta ancora alla Corte Ue, ma resta da vedere se, prima di pronunciarsi nel merito, decida di farlo. Anche in questo caso, però, il rapporto tra i due organi giurisdizionali rischia di concludersi con uno scontro, come era avvenuto con il caso Weiss. La crisi era rientrata, ma resta il fatto che i giudici tedeschi, in sostanza, avevano criticato i giudici Ue mettendone in discussione l’operato proprio sulla legittimità degli atti dell’Unione.
Resta da vedere se anche in questa occasione si riproporrà uno scontro tra Corti.
In ogni caso, si può, a nostro parere, trarre una conclusione di carattere generale, ossia che nelle questioni che implicano un impegno sul piano internazionale ed europeo, non sempre la partecipazione dei singoli giova all’integrazione, come dimostra il caso dei continui ricorsi alla BvG e la vicenda della Brexit. Questo a maggior ragione quando iniziano a diffondersi “teorie” populiste e sovraniste.
[1] Il comunicato è nel sito https://www.bundesverfassungsgericht.de/DE/Homepage/homepage_node.html
[2] In Gazzetta Ufficiale Ue del 15 dicembre 2020, L 424, p. 1 ss. Si veda anche il regolamento 2020/2093 del 17 dicembre 2020 che stabilisce il quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027, in Gazzetta Ufficiale Ue del 22 dicembre 2020, L433, p. 1 ss.
[3] Reperibile qui https://www.bundesrechnungshof.de/de/veroeffentlichungen/produkte/bemerkungen-jahresberichte/jahresberichte/2020-hauptband/langfassungen/eu-treuhandfonds-aufwendiger-intransparenter-und-kaum-schneller-als-regulaere-eu-aussenhilfen-pdf
[4] Si veda, tra gli altri, G.L. Tosato, Karlsruhe torna a bussare alla porta dell’Ue: guai in vista?, in https://affarinternazionali.it.
[5] Così, R. Conti, G. Tesauro, Dove va l’Europa dei diritti dopo la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco federale sul quantitative easing, in questa Rivista, 2020. Si veda anche S. Cafaro, Quale Quantitative Easing e quale Unione europea dopo la sentenza del 5 maggio?, in https://www.sidiblog.org; G. Tesauro e P. De Pasquale, La BCE e la Corte di giustizia sul banco degli accusati del Tribunale costituzionale tedesco, in Osservatorio europeo DUE (dirittounioneeuropea.eu, 11 maggio 2020).
[6] Si veda M. Castellaneta, Bundesverfassungsgericht contro la Corte UE o contro l’Europa? A margine della sentenza della Corte costituzionale tedesca sulle misure di acquisto di titoli di Stato volute dalla Banca centrale europea, in questa Rivista.
[7] Cfr. P. De Sena, S. D’Acunto, La Corte di Karlsruhe, il mito della “neutralità” della politica monetaria e i nodi del processo di integrazione europea, in https://www.sidiblog.org; L.F. Pace, And indeed it was a (failed) nullification crisis: the OMT judgment of the German Federal Constitutional Court and the winners and losers of the final showdown in the OMT case, ivi; S. Cafaro, Caso OMT: la Corte giudica l’operato della BCE, ivi.
Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021
di Gilda Ferrando
Sommario: 1. Casi e problemi – 2. I precedenti – 3. Le sentenze della Corte costituzionale – 4. La parola ai giudici di merito.
Corte cost. 9 marzo 2021, n. 32 – Coraggio Pres. – Sciarra Rel.
Fecondazione eterologa all’estero – Stato del figlio nato da una coppia di donne –Riconoscimento da parte della madre intenzionale – Esclusione – Questione di legittimità costituzionale inammissibile – Urgenza dell’intervento del legislatore.
Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, 9, l. n. 40/2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) e 250 del codice civile, sollevate in riferimento agli artt. 2,3, 30, 117 Cost. Spetta infatti alla prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più adatti a raggiungere un fine costituzionalmente necessario. Nondimeno la Corte non può esimersi dall’affermare che non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore riscontrato nel caso di specie (il caso riguardava un bambino nato da una coppia di donne mediante inseminazione eterologa realizzata all’estero. Non essendo praticabile l’adozione in casi particolari da parte della madre intenzionale per l’insormontabile dissenso della madre biologica in seguito al verificarsi della crisi della coppia, il giudice a quo riteneva inammissibile anche il riconoscimento, e quindi sollevava la questione di legittimità delle norme impugnate).
Corte cost. 9 marzo 2021, n. 33 – Coraggio Pres. – Viganò Rel.
Maternità surrogata all’estero – Stato del figlio – Doppia paternità - Riconoscimento dell’atto di nascita straniero – Contrarietà all’ordine pubblico – Questione di legittimità costituzionale inammissibile - Urgenza dell’intervento del legislatore
Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, c. 6 l. n. 40/2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, c. 1 , l. n. 218/1995 e dell’art. 18 d.P.R. n. 396/2000 sollevate in riferimento agli artt. 2,3, 30, 117 Cost. Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco. Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore (il caso riguardava il riconoscimento dell’atto di nascita straniero recante la doppia paternità del bambino nato da maternità surrogata all’estero).
1. Casi e problemi
Con due sentenze pubblicate nello stesso giorno la Corte costituzionale abbraccia con uno sguardo d’insieme le questioni relative all’accertamento della doppia maternità (n. 32) e della doppia paternità (n. 33). Le motivazioni si devono a due diversi redattori (Silvana Sciarra la prima e Francesco Viganò la seconda) ma, pur nelle diversità stilistiche e di accento, seguono uno stesso percorso argomentativo.
Fino ad ora i giudici avevano esaminato distintamente ciascun problema, ed erano pervenute a soluzioni differenziate a seconda delle diverse situazioni in cui si presentava il problema del riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale, vale a dire con colui il quale, pur non avendo un rapporto genetico col figlio, ne ha voluto la nascita nell’ambito di un progetto di genitorialità condivisa, se ne prende cura ed è responsabile della sua formazione.
Quando è stato redatto un atto di nascita straniero si è propensi ad ammetterne il riconoscimento se da esso risulti la doppia maternità[1], ma non quando venga indicata la doppia paternità[2]. Nel caso, poi – ed è quello più frequente – in cui il figlio di una coppia di donne che è andata all’estero per la fecondazione eterologa nasca in Italia, si tende ad escludere che l’ufficiale di stato civile possa accogliere la domanda di formare l’atto di nascita con l’indicazione della doppia maternità[3].
Si guarda invece con favore all’adozione in casi particolari (art. 44, lett. d), l. n. 184/1983) che viene considerata la via maestra per dare veste giuridica al rapporto con il genitore sociale[4].
Può apparire sorprendente che, a fronte di un’unica domanda di giustizia da parte dei bambini, si prospettino soluzioni così differenziate. Il fatto è che fino ad ora i giudici hanno cercato una risposta partendo dall’assunto che nell’ordinamento si rifletta un modello di famiglia, per così dire, tradizionale, dove vi sono un padre e una madre, un modello la cui conservazione corrisponde all’interesse generale. Fa eccezione solamente il caso del bambino nato all’estero da due mamme il riconoscimento del cui atto di nascita straniero è stato ammesso, dato che in questo caso non è stato possibile invocare un ordine pubblico ostativo all’applicazione delle regole internazionalprivatistiche di riconoscimento dei provvedimenti stranieri.
Cosa è cambiato, allora, con le due pronunce in commento della Corte costituzionale? E’ cambiato lo sguardo del diritto che finalmente si rivolge al bambino, e nel prisma dei suoi diritti esamina i due diversi casi.
Intendiamoci, la Corte non abbandona la linea tracciata dai suoi precedenti (n. 237/2019, 230/2020[5]). Anche questa volta le due sentenze dichiarano inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, ritenendo necessario l’intervento del legislatore. C’è tuttavia un cambio di passo. Non solo l’intervento del legislatore viene definito “indifferibile” (n. 33), e viene giudicato “non …più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa” (n.32), ma, ancor prima il bambino e i suoi diritti vengono messi al centro dell’attenzione.
2. I precedenti
Rileggiamo, allora, questi precedenti [6]. Lasciamo da parte la sentenza n. 221/2019 che ha ritenuto costituzionalmente legittimo il divieto di accesso alla PMA da parte delle coppie dello stesso sesso (art. 5, l. n. 40/2004) [7]. E consideriamo invece le due sentenze, dovute alla penna dello stesso estensore (Rosario Morelli) in cui la Corte ha affrontato la questione relativa al supposto divieto di formare l’atto di nascita con l’indicazione della doppia maternità. Entrambe si sono concluse con la decisione d’inammissibilità.[8] La seconda[9] – che ci riguarda più direttamente – ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma (che viene desunta dagli artt. 1, c. 20, l. n. 76/2016, e 29, c. 2 d. P. R. n. 396/2000) che non consente la formazione dell’atto di nascita con l’indicazione della doppia maternità del bambino nato in Italia da una coppia di donne grazie alla fecondazione eterologa realizzata all’estero su richiesta congiunta di entrambe[10].
Si tratta di questione analoga a quella esaminata dalla n. 32/2021[11]. Diverse sono le norme impugnate (nel caso della n. 230 gli artt. 1, c. 20, l. n. 76/2016, e 29, c. 2 d. P. R. n. 396/2000, nel caso della n. 32 gli artt. 250, c.c., 8, 9, l. 40), ma il problema è sempre lo stesso: è conforme a Costituzione una lettura del sistema della filiazione che non ammette l’indicazione di due mamme nell’atto di nascita?
Nel 2020 la Corte fa propria l’interpretazione accolta dai giudici di merito. Pur condividendo l’idea che la legge n. 40 (artt. 8, 9) fondi la genitorialità sul consenso e la responsabilità della coppia che decide di fare ricorso alla PMA, ritiene che tale regola si applichi solo alle coppie che possono accedere alle tecniche. Perché si applichino gli artt. 8 e 9 “occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie “di sesso diverso”, atteso che le coppie dello stesso sesso non possono accedere, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita”[12]. Confermata l’interpretazione del giudice a quo, se ne esclude il contrasto con gli artt. 2, 3, 30,31 Cost, nell’assunto che “i precetti di cui agli artt. 2, 3, 30 Cost. …come non consentono l’interpretazione adeguatrice della norma censurata … allo stesso modo neppure, però, ne autorizzano la reductio ad legitimitatem”. A sentire la Corte, infatti, non può ritenersi “arbitraria o irrazionale “l’idea che “una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi, in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il ‘luogo’ più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato”. E tale scelta, prosegue la Corte, non viola gli artt. 2 e 30 Cost. … perché l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.”. I diritti del bambino, come si vede, non vengono presi in considerazione, come se la questione riguardasse l’accesso alle tecniche, il modello di famiglia riflesso nell’art. 5, i diritti dei genitori, e non lo stato del nato, i suoi diritti fondamentali (artt. 2, 3, 30).
Il giudizio di inammissibilità deriva dal fatto che, a sentire la Corte, la Costituzione come non impone di riconoscere l’omogenitorialità, neppure lo impedisce cosicchè la questione resta affidata alla discrezionalità del legislatore[13]. Dunque, il legislatore “può” ma non “deve”, garantire forme di tutela più ampie, mentre il giudice resta alla finestra, in attesa.
La sentenza n. 33/2021 affronta la diversa questione del riconoscimento del provvedimento straniero da cui risulta la doppia paternità di un bambino generato all’estero con gravidanza per altri. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n.12193/2019) avevano ritenuto inammissibile il riconoscimento dell’atto di nascita per contrasto col divieto di maternità surrogata inteso come principio di ordine pubblico (artt. 64, l. n. 218/1995, art. 18 d. P.R. n. 396/2000) [14]. Preso atto che, in base a quel precedente, è questa la regola posta dall’“interpretazione attuale del diritto vivente”, la I sezione della S.C. aveva rimesso la questione alla Corte costituzionale[15], tenuto conto che, dopo la decisione delle Sezioni Unite (anche se poco prima del suo deposito), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha reso, su questione analoga, un parere consultivo[16] che ha un’intonazione molto diversa. Se le Sezioni Unite focalizzano la propria attenzione sulla illiceità di una tecnica che l’ordinamento ritiene meritevole di sanzione penale, la Corte EDU mette in primo piano i diritti del bambino. Ai legislatori nazionali vanno riconosciuti spazi di discrezionalità nella scelta dei modi in cui garantire la loro tutela, fermo restando che lo strumento alternativo alla trascrizione dell’atto di nascita deve in ogni caso assicurare una tutela “pronta” ed “effettiva”.
L’ordinanza di remissione prendeva le mosse proprio dall’insufficienza degli strumenti che il nostro diritto interno mette a disposizione per garantire una tutela “piena” ed “effettiva” dei diritti del bambino ed evidenziava l’insanabile contrasto tra la regola iuris applicata ed il diritto del bambino alla propria identità, alla certezza del proprio stato giuridico nei confronti di entrambi i genitori che lo hanno messo al mondo.
La risposta della Corte costituzionale è nel senso dell’inammissibilità della questione, dato che, in prima battuta spetta al legislatore ad individuare i modi in cui garantire i diritti del bambino. La Corte, tuttavia, non si arresta a questa constatazione e si fa carico di indicare quali sono i diritti del bambino e quale ne è la rilevanza costituzionale, cosicchè dopo questa sentenza non ci sono più dubbi sul fatto che i diritti del bambino oggi non sono adeguatamente garantiti.
3. Le sentenze della Corte costituzionale
Le due sentenze affrontano con uno sguardo d’insieme la questione dello stato dei figli nati da coppie omoaffettive, siano essi nati da coppie di donne o da coppie di uomini perché i diritti dei figli hanno un solo colore ed è quello indicato dalle norme costituzionali interne ed europee.
È proprio dai diritti dei bambini che prende le mosse la sentenza n. 32 (quella che si occupa dei nati da coppie di donne) ricordando che questo era stato il percorso segnato già nel 1998, con la prima pronuncia in materia di PMA[17] dove, affrontando la questione dello stato dei figli nati da fecondazione eterologa, la Corte esprimeva l’”urgenza” di individuare strumenti di tutela del nato “non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione” (artt. 30, 31 Cost.), ma “ancor prima – in base all’art. 2 della Costituzione – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità”. La Corte di Cassazione[18], prima, ed il legislatore, poi, (artt. 8,9, l. n. 40) hanno seguito quel “monito”, rendendo i genitori, sulla base del loro consenso, responsabili nei confronti del nato anche nel caso in cui si fossero avvalsi di una tecnica (come l’eterologa) che la legge all’epoca non ammetteva[19]. L’art. 9 della l. n. 40, nel far prevalere la responsabilità sulla verità biologica dimostra la volontà di tutelare gli interessi del figlio, garantendo “il consolidamento …di una propria identità affettiva, relazionale e sociale”.
L’evoluzione successiva delle norme interne (l. n. 219/2012, d. lgs.n. 154/2013) ed europee (art. 24 CDFUE) – osserva la Corte - segna un ulteriore progresso nella direzione di un sempre più ampio riconoscimento dei diritti del bambino e del suo preminente interesse. Se ne trova conferma nella giurisprudenza delle Corti europee del Lussemburgo e di Strasburgo, quest’ultima ripetutamente incline a garantire la stabilità dei legami e delle relazioni familiari del minore anche se meramente “di fatto”, non ancora riconosciute dal diritto. L’ampia rassegna della giurisprudenza della Corte europea (n. 32) mira a dimostrare che nella tutela del preminente interesse del bambino è compresa “la garanzia del suo diritto all’identità affettiva, relazionale, sociale, fondato sulla stabilità dei rapporti familiari e di cura e sul loro riconoscimento giuridico”. Da questo punto di vista il riconoscimento del legame con i genitori intenzionali rientra “nel perimetro di diritti concretamente azionabili che si traducono in altrettanti obblighi degli Stati a intervenire se la tutela non è effettiva”. In questa stessa direzione vengono richiamate anche precedenti sentenze della Corte costituzionale che in diverse occasioni ha valorizzato l’interesse del bambino a “mantenere il legame genitoriale acquisito, anche eventualmente in contrasto con la verità biologica della procreazione”, dando in tal modo rilievo ad una genitorialità sociale o di fatto pur in assenza di discendenza biologica[20].
È la stessa prospettiva da cui muove la sentenza n. 33. Il fatto che la questione sottoposta all’esame della Corte riguardi un caso di maternità surrogata, pratica penalmente sanzionata e apertamente condannata dalle Sezioni Unite (n. 12193/2019) [21] e dalla stessa Corte costituzionale (n. 272/2017), non può infatti porre nell’ombra il fatto che le questioni su cui la Corte si deve ora pronunciare “sono però focalizzate sugli interessi del bambino …nei suoi rapporti con la coppia” (omosessuale o eterosessuale, non importa) che ne ha voluto il concepimento e la nascita. La questione da decidere non riguarda la maternità surrogata, ma lo stato del figlio. Questo passaggio è decisivo in quanto, diversamente dalle sezioni Unite, la Corte costituzionale è consapevole della necessità di non confondere i due distinti piani: da un lato il giudizio sulla condotta dei genitori, dall’altro la tutela dei diritti del figlio.
Il problema è stabilire se “il diritto vivente espresso dalle Sezioni unite civili … sia compatibile con i diritti del minore sanciti dalle norme costituzionali e sovranazionali invocate dal giudice a quo”, con quel suo preminente interesse che impone al giudice di adottare la decisione che in concreto lo persegua, quella decisione, cioè “che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior ‘cura della persona”[22].
Da questo punto di vista “non vi è dubbio … che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita (nel caso oggetto del giudizio a quo, ormai da quasi sei anni) da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia”. E questo si apprezza da una duplice prospettiva dato che “questi legami sono parte integrante della stessa identità del bambino” ed anche perché il bambino ha diritto a che sia affermata i capo ad entrambi “la titolarità giuridica di quel fascio di doveri … inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali”, dai quali non è pensabile che costoro “possano ad libitum sottrarsi”.
Non viene dunque in discussione, precisa la Corte, un preteso “diritto alla genitorialità” in capo agli adulti, ma un diritto del bambino ad avere due genitori responsabili della sua crescita. E dal suo punto di vista un genitore solo, quello biologico, non è sufficiente, perché quando un bambino cresce ed è continuativamente accudito da un nucleo composto da due persone, che esercitano di fatto la responsabilità genitoriale, “è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento del proprio rapporto giuridico con entrambe”.
Pur nel riconoscimento del carattere di assoluta preminenza che i diritti del bambino rivestono nella scala dei valori costituzionali, la Corte ne ammette il bilanciamento, nei limiti di proporzionalità, con altri scopi legittimi perseguiti dall’ordinamento, compreso quello di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità. Anche alla luce della giurisprudenza CEDU, il margine di apprezzamento di cui gode il legislatore non è incondizionato, dato che egli deve rendere possibile la piena formalizzazione del rapporto col genitore intenzionale, anche se non necessariamente mediante la trascrizione del provvedimento straniero. Lo strumento prescelto, che potrebbe eventualmente essere anche un particolare tipo di adozione, deve comunque rispondere ad alcuni stringenti requisiti. Quanto ai tempi, il riconoscimento giuridico deve essere assicurato “al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati”. Quanto ai modi, deve essere assicurata l’“effettività” e la “celerità” della sua messa in opera. Quanto ai contenuti, deve essere riconosciuta la “pienezza del legame di filiazione”.
Questo perché i diritti del bambino non possono essere strumentalizzati ad altri fini, per quanto legittimi. “Ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata”. E questo non è ammissibile, come la Corte ha chiarito in altre occasioni: a proposito del divieto di riconoscimento dei figli nati da incesto[23] e, da ultimo, a proposito del carattere automatico della pena accessoria della sospensione dalla responsabilità genitoriale in capo al genitore autore di un grave reato in danno del figlio[24].
Se dunque i diritti del figlio devono ricevere una tutela di questo tipo, non si può non vedere che nel nostro ordinamento sussiste un “vuoto di tutela”, una “preoccupante lacuna” (n. 32) perché lo strumento che viene indicato dalla giurisprudenza come alternativa rispetto alla dichiarazione della doppia maternità nell’atto di nascita o al riconoscimento del provvedimento straniero indicante la doppia paternità non soddisfa i requisiti richiesti.
L’una e l’altra sentenza concordano nel denunciare “l’insufficienza del ricorso all’adozione in casi particolari” (n. 32) che non è “ancora del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali richiamati” (n. 33). Tale insufficienza è palpabile nel caso esaminato dalla sentenza n. 32, dato che il mancato consenso del genitore biologico la rende “impraticabile proprio nelle situazioni più delicate per il benessere del minore”. In termini generali si deve comunque riscontrare la sua inadeguatezza, dato che si tratta di un istituto che “opera in ipotesi tipiche e circoscritte, producendo effetti limitati, visto che non conferisce al minore lo status di figlio legittimo dell’adottante, non assicura la creazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante (considerata l’incerta incidenza della modifica dell’art. 74 cod. civ. operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali») e non interrompe i rapporti con la famiglia d’origine” (n. 32). Se dunque lo strumento per far constare la doppia genitorialità dovesse essere l’adozione, “essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983” (n. 33) [25].
4. La parola ai giudici di merito
Come i precedenti del 2019 e 2020 le sentenze n. 32 e 33 del 2021 sono entrambe di inammissibilità. Come allora si riconosce che è compito del legislatore disciplinare la materia. E tuttavia la Corte questa volta non si limita ad un generico invito, si spinge ben oltre, fissa i confini della discrezionalità del legislatore, indica quali sono le condizioni che devono essere soddisfatte e nella n. 32 giunge a prefigurare i possibili strumenti alternativamente praticabili[26]. La sua pazienza non è senza limiti: “questa Corte ritiene di non poter ora porre rimedio”. Al legislatore si chiede di intervenire “con urgenza”, precisando che “in prima battuta” la disciplina della materia spetta al legislatore. Queste puntualizzazioni pongono all’attenzione un duplice ordine di problemi. Da un lato, nei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore, sorge spontanea la domanda su quali potrebbero essere le conseguenze dell’inerzia del legislatore. Potrebbe, con tutte le cautele del caso, la Corte risolvere la situazione di stallo con una pronuncia di illegittimità costituzionale[27]?
La seconda questione riguarda i rapporti tra legislatore e giudici di merito. Nell’attesa che il legislatore intervenga, i giudici – a partire proprio dai remittenti - si troveranno a dover decidere questioni relative allo status dei figli di coppie omogenitoriali. Come dovranno decidere? Dovranno applicare una regola iuris di cui la Corte ha già rilevato il contrasto con la Costituzione o non dovranno invece dare una interpretazione costituzionalmente orientata che garantisca in modo ottimale il diritto del bambino ad avere due genitori, coloro che ne hanno voluto la nascita e che sono responsabili della sua formazione?
Per quanto riguarda la formazione dell’atto di nascita che indichi la doppia maternità, parte della giurisprudenza di merito[28] ha già indicato una via: la partenza si trova nella distinzione tra regole sull’accesso alle tecniche e regole sullo stato dei figli; per proseguire con l’individuazione di queste ultime sulla base dei principi generali (preminente interesse del minore, declinato come diritto ad uno status certo fin dalla nascita nei confronti delle persone che effettivamente ne sono i genitori; rifiuto delle logica sanzionatoria che fa ricadere sui figli le conseguenze delle condotte degli adulti; principio di non discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale dei genitori) e della legge 40 (il consenso come fondamento dello status di figlio nelle PMA (artt. 8, 9) anche in assenza dei requisiti prescritti dall’art. 5).
Ulteriori problemi si incontrano nel caso della doppia paternità. Penso che tuttavia le sentenze della Corte costituzionale n. 32 e 33 offrano argomenti per un ripensamento della nozione di ordine pubblico fatto proprio dalle Sezioni unite, per un diverso bilanciamento tra i valori in gioco[29], un diverso bilanciamento che, già alla luce del parere consultivo CEDU, la prima sezione[30] sembrava suggerire, trattenuta peraltro dal rispetto dovuto all’autorità delle Sezioni Unite[31].
Quanto all’ammissibilità della via dell’interpretazione adeguatrice, mi pare si possano fare queste considerazioni. Diversamente dalla sentenza n. 230 [32], le sentenze n. 32 e n. 33 non prendono partito su quale sia l’interpretazione corretta e si limitano a dare atto che “l’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa denunciata è stata esplorata e consapevolmente scartata dal collegio remittente”, “il che basta ai fini dell’ammissibilità della questione” (n. 32)[33].
Va poi considerato che, a sentire la Corte, la disciplina spetta “in prima battuta” (n. 33) al legislatore, il che lascia un intendere che “in seconda battuta” la parola passa ad altri, alla stessa Corte che “ora” ritiene di “non poter porre rimedio”, ma forse potrà farlo domani. E non si deve escludere che anche i giudici di merito possano avere voce in capitolo dato che non si può ammettere che i diritti dei bambini in carne ed ossa vengano sacrificati nella snervante attesa di un legislatore che forse considera troppo “divisiva” la questione per farsene carico.
D’altra parte, il ragionamento può essere completato andando a rileggere la motivazione della sentenza n. 347/1998. Anche allora la Corte affidava “in via primaria” al legislatore la disciplina della PMA. Ma non si limitava a questo. In mancanza di una legge riconosceva al giudice il potere di “ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione …(dei) beni costituzionali” implicati. Questa, anche oggi, mi pare la via da percorrere, se si vuole evitare che in concreto si verifichi quella violazione di diritti fondamentali che la Corte ha condannato[34].
[1] V. Cass., 30 settembre 2016, n. 19599 (estensore Lamorgese), Foro it., 2016, I, 3329, con nota di G. Casaburi; in Corr. Giur., 2017, 18, con mia nota Ordine pubblico e interesse del minore nella circolazione degli status familiari; in Nuova giur. civ. comm. 2017, 372, con nota di P. Palmeri, Le ragioni della trascrivibilità del certificato di nascita redatto all’estero a favore di una coppia same-sex (ibid., pag. 362); in articolo29.it, con nota di A. Schillaci, Le vie dell’amore sono infinite. La Corte di cassazione e la trascrizione dell’atto di nascita straniero con due genitori dello stesso sesso. Si trattava di bambino nato in seguito a c.d. fecondazione incrociata (gravidanza portata avanti dalla prima madre grazie all’impianto di embrione formato con l’ovocita della seconda fecondato con seme di donatore anonimo). Successivamente il principio è stato ribadito anche nel caso in cui la seconda madre non aveva alcun legame biologico con il nato Cass., 15 giugno 2017, n. 14878 (estensore Dogliotti), Articolo29.it, con commento di S. Stefanelli, Riconoscimento dell’atto di nascita da due madri, in difetto di legame genetico con colei che non ha partorito.
[2] Cass. S.U. 8 maggio 2019, n. 12193, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 737 con commento di U. Salanitro, Ordine pubblico internazionale, filiazione omosessuale e surrogazione di maternità; in Fam. dir., 2019, 753, con note di G. Ferrando e M. Dogliotti; in Familia, 2019, 369, con nota di M. Bianca; in Foro it., 2019, I, 4027, con nota di G. Luccioli, E v. anche il mio commento, I bambini prima di tutto. Gestazione per altri, limiti alla discrezionalità del legislatore, ordine pubblico, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 815.
[3] Cass. 3 aprile 2020, n.7668, Cass. 22 aprile 2020, n. 8029, entrambe in Questione giustizia on line, 2020, con note di Celentano e Ferrando.
[4] L’adozione in casi particolari (art. 44, lett. d), l. n. 184/1983) da parte del genitore non biologico viene generalmente ammessa dalla giurisprudenza (a partire da Cass. 22 giugno 2016, n. 12962, in Foro it., 2016, I, 2368 ss., con nota di G. Casaburi; in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 1135, con commento di G. Ferrando al quale mi permetto di rinviare. Al riguardo, v. anche Corte EDU, G.C. avis consultatif 10 aprile 2019, R. P 16-2018-001, in Nuova giur. civ. comm., 2019,757, con nota di A.G. Grasso; in articolo29.it, con nota di A. Schuster. E v. anche il mio commento, I bambini prima di tutto. Gestazione per altri, limiti alla discrezionalità del legislatore, ordine pubblico, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 815. La Corte europea ha ritenuto che rientri nell’ambito della discrezionalità dei legislatori nazionali individuare i modi in cui tutelare i diritti del bambino, sempre che tali strumenti garantiscano una tutela “pronta” ed “effettiva”. Indicazioni in questo senso anche in Cass. S.U. 8 maggio 2019, n. 12193, cit. infra, Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272, cit. infra; Corte cost. 15 novembre 2019, n. 237; Corte cost. 4 novembre 2020, n. 230, in Giustizia insieme, 2020, con nota di M. Bianca, La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020, in Nuova giur. civ. comm., 2021, con mio commento, Di chi è figlio un bambino con due mamme? Commento a prima lettura di Corte cost. n. 230/2020.
[5] Corte cost. 15 novembre 2019, n. 237; Corte cost. 4 novembre 2020, n. 230, in Giustizia insieme, 2020, con nota di M. Bianca, La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020, e in Nuova giur. civ. comm., 2021, in corso di stampa, con mio commento.
[6] Non riguarda i genitori omoaffettivi, ma una coppia di coniugi che aveva avuto un figlio con GPA all’estero la sentenza della Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 (in Nuova giur. civ. comm., 2018, 546, con commento di A. Gorgoni, Art. 263 cod. civ.: tra verità e conservazione dello status filiationis, ivi, 540 ss. e in Corr. giur., 2018, 446, con mia nota, Gestazione per altri, impugnativa del riconoscimento e interesse del minore) dove la Corte aveva stigmatizzato la maternità surrogata in quanto “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. La Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c. interpretato nel senso che nell’impugnativa della maternità della madre committente non sarebbe ammissibile la valutazione dell’interesse del minore.
[7] Corte cost. 23 ottobre 2019, n. 221, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 548, con nota di I. Barone, Fecondazione eterologa e coppie di donne: per la Consulta il divieto non è illegittimo e commento di M.C. Venuti, La genitorialità procreativa nella coppia omoaffettiva (femminile). Riflessioni a margine di Corte cost. n. 221/2019, ivi, 664, E v. anche U. Salanitro, A strange loop. La procreazione assistita nel canone della Corte costituzionale, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 206 ss; ID. , I requisiti soggettivi per la procreazione assistita: limiti ai diritti fondamentali e ruolo dell’interprete, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, p. 1360 ss.
[8] Il primo caso (Corte cost. 15 novembre 2019, n. 237. Al riguardo, v. A. Astone, Omosessualità e filiazione tra tentativi di sovranismo e oscillanti aperture, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 1169) riguardava un bambino che aveva la cittadinanza dello Stato del Wisconsin, la cui legge ammette l’indicazione della doppia maternità. L’applicazione della legge nazionale ex art. 33, l. 218/1995, era stata esclusa dal giudice remittente (Trib. Pisa, ord. 15 marzo 2018, Nuova giur. civ. comm., 2018, 1569, con nota di A.G. Grasso; in articolo29.it, con nota di A Schillaci) nell’assunto che le norme interne sarebbero “norme di applicazione necessaria” tali da impedire l’applicazione della legge straniera difforme.
[9] Corte cost. 4 novembre 2020, n. 230, cit.
[10] Il Trib. Venezia, ord., 3 aprile 2019 aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 20, della l. n. 76/2016 “nella parte in cui limita la tutela … delle coppie di donne omosessuali unite civilmente ai “soli diritti e … doveri nascenti dall’unione civile” e dell’art. 29, 2° co d. P.R. 396/2000 – per contrasto con gli artt. l 2,3, I e II comma, 30 e 117 Cost.”
[11] Nel caso attuale la madre intenzionale aveva inizialmente chiesto di poter adottare la bambina, ma questo non era stato possibile dato che la madre genetica, nel pieno della crisi che aveva portato alla rottura con la sua compagna, rifiutava il consenso richiesto dall’art. 46 l. adoz.. Il rifiuto dell’ufficiale di stato civile sbarrava la via al riconoscimento della bambina come propria ex artt. 250 c.c. e 8, 9, l. n. 40 e in definitiva rendeva impossibile dare alla bambina quel secondo genitore sul quale ormai da anni faceva conto. Di qui il ricorso ai giudici che, condividendo il giudizio negativo, sollevavano la questione di legittimità costituzionale (Tribunale di Padova ord. 9. 12.2019).
[12] Per l’infondatezza della relativa questione, v. Corte cost. 23 ottobre 2019, n. 221, cit..
[13] “Se, dunque, il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dagli evocati precetti costituzionali, vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata, non potendosi escludere la «capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali» (sentenza n. 221 del 2019)”.
[14] Cass., SS.UU., 8 maggio 2019, n. 12193, cit.
[15] Cass., ord., 29 aprile 2020, n. 8325, in Nuova giur. civ. comm., 2020, p. 1116 con commento di V. Calderai, La tela strappata di Ercole. A proposito dello stato dei nati da maternità surrogata; in Familia 2020, 767, con nota di F. Azzarri, L’inviolabilità dello status e la filiazione dei nati all’estero da gestazione per altri; in Fam. dir., 2020, con note di Ferrando, I diritti dei bambini con due papà. La questione va alla Corte costituzionale e di Recinto, Un inatteso “revirement” della Suprema Corte in tema di maternità surrogata.
[16] Il parere è stato reso su richiesta della Corte di cassazione francese investita della domanda di trascrizione, anche a favore della madre intenzionale, dell’atto di nascita delle due gemelle figlie di una coppia di coniugi nate da GPA all’estero: Corte EDU, G.C. avis consultatif 10 aprile 2019, R. P 16-2018-001, in Nuova giur. civ. comm., 2019,757, con nota di A.G. Grasso, in articolo29.it, con nota di A. Schuster. A distanza di 5 anni dalla precedente, la Corte Edu torna nuovamente sul caso Mennesson (v. Corte EDU 26 giugno 2014, ric. 65192/11, Mennesson c. Francia) per riconoscere il diritto del bambino alla trascrizione dell’atto di nascita straniero non solo nei confronti del padre, genitore biologico, ma anche della madre intenzionale.
[17] Corte cost. 26 settembre 1998, n. 347, in Nuova giur. civ. comm., 1999, I, 51, con nota di E. Palmerini. E v. il mio commento: Inseminazione eterologa e disconoscimento di paternità tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, in Nuova giur. civ. comm., 1999, II, 22.
[18] Cass. 16 marzo 1999, n. 2315, Fam. dir.,1999, 237, con nota di M. Sesta.
[19] L’art. 4, c. 3, l. n. 40 vietava il ricorso a tecniche di PMA eterologhe. Il divieto è stato dichiarato illegittimo da Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 802, con mio commento, Autonomia delle persone e intervento pubblico nella riproduzione assistita. Illegittimo il divieto di fecondazione eterologa, ivi, 2014, II, p. 392. Per quanto riguarda lo stato del figlio la Corte ha ritenuto applicabili gli artt. 8 e 9: “I profili …concernenti lo stato giuridico del nato ed i rapporti con i genitori, sono … anch’essi regolamentati dalle pertinenti norme della legge n. 40 del 2004, applicabili anche al nato da PMA di tipo eterologo in forza degli ordinari canoni ermeneutici”.
[20] V. Corte Cost. 25 giugno 2020, n. 127 che ritiene la valutazione di questo interesse rilevante nel giudizio di impugnazione del riconoscimento promosso da chi lo abbia effettuato in mala fede. Ancor prima v. Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272, cit., la quale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c. interpretato nel senso che nell’impugnativa della maternità della madre committente non sarebbe ammissibile la valutazione dell’interesse del minore.
[21] Più di recente le sezioni unite hanno ribadito il giudizio negativo sulla GPA in una pronuncia che ammette il riconoscimento dell’adozione piena pronunciata all’estero a favore di una coppia di uomini “non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione”: Cass. S.U. 31 marzo 2021, n. 9006.
[22] Alla penna dello stesso relatore di deve la recente Corte cost. n. 102/2020 che, in applicazione di tale principio ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 574-bis, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero ai danni del figlio minore comporta la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporre la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale” (Corte cost. 29 maggio 2020, n. 102).
[23] Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494, in Familia, 2003, 848 ss., con note di G. Ferrando e S. Landini. che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 278 cod. civ. abr. che, in caso di incesto, impediva le indagini sulla paternità e la maternità.
[24] Corte cost. 29 maggio 2020, n. 102.
[25] Va qui segnalato il tentativo da parte della giurisprudenza di merito di una interpretazione che renda possibile l’instaurazione di rapporti di parentela “almeno” tra fratelli: v. Trib. min. Bologna 3 luglio 2020, in Nuova giur. civ. comm., 2021, 78, con commento di M. Cinque, Adozione in casi particolari: parentela tra “fratelli acquisiti”?. E v. anche Trib. min. Venezia, 9 ottobre 2020, Ilfamiliarista.it.
[26] “In via esemplificativa, può trattarsi di una riscrittura delle previsioni in materia di riconoscimento, ovvero dell’introduzione di una nuova tipologia di adozione, che attribuisca, con una procedura tempestiva ed efficace, la pienezza dei diritti connessi alla filiazione. Solo un intervento del legislatore, che disciplini in modo organico la condizione dei nati da PMA da coppie dello stesso sesso, consentirebbe di ovviare alla frammentarietà e alla scarsa idoneità degli strumenti normativi ora impiegati per tutelare il “miglior interesse del minore”. Esso, inoltre, eviterebbe le “disarmonie” che potrebbero prodursi per effetto di un intervento mirato solo a risolvere il problema specificamente sottoposto all’attenzione di questa Corte. Come nel caso in cui si preveda, per il nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, il riconoscimento dello status di figlio, in caso di crisi della coppia e rifiuto dell’assenso all’adozione in casi particolari, laddove, invece, lo status – meno pieno e garantito – di figlio adottivo, ai sensi dell’art. 44 della legge n. 184 del 1983, verrebbe a essere riconosciuto nel caso di accordo e quindi di assenso della madre biologica alla adozione. Il terreno aperto all’intervento del legislatore è dunque assai vasto e le misure necessarie a colmare il vuoto di tutela dei minori sono differenziate e fra sé sinergiche”.
[27] Non mancano i precedenti, si pensi soltanto al caso Cappato (Corte cost., ordinanza n. 207/2018 e sentenza n. 242/2019). Al riguardo, v. A. Ruggeri, La PMA alla Consulta e l’uso discrezionale della discrezionalità del legislatore (nota minima a Corte cost. nn.32, 33 del 2021), in Consultaonline.it, 2021, 221
[28] Trib. Bologna, decr., 6 luglio 2018; Trib. Pistoia, decr. 5 luglio 2018; Trib. Genova 16 novembre 2018, tutte in articolo 29.it. In motivazione v. anche App. Napoli, sez. min., 15 giugno 2018, in articolo 29.it., con nota di M. Gattuso. Per approfondimenti, rinvio al mio I bambini, le loro mamme e gli strumenti del diritto, cit.
[29] Per un commento critico alla Sezioni Unite, rinvio al mio I bambini prima di tutto. Gestazione per altri, limiti alla discrezionalità del legislatore, ordine pubblico, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 815.
[30] Cass., ord., 29 aprile 2020, n. 8325, cit. Al riguardo rinvio al mio commento, I diritti dei bambini con due papà. La questione va alla Corte costituzionale, in Fam. dir., 2020.
[31] Le stesse Sezioni Unite sembrano muoversi su un crinale evolutivo: v., a proposito del riconoscimento dell’adozione del minore pronunciata all’estero a favore di una coppia omogenitoriale, la motivazione di Cass. S.U., 31 marzo 2021, n. 9006.
[32] Che riteneva “esatta la premessa esegetica da cui muove il giudice a quo”, facendo conseguentemente propria l’interpretazione contraria alla doppia maternità nell’atto di nascita.
[33] “La Sezione rimettente ha plausibilmente motivato nel senso dell’impraticabilità di una interpretazione conforme, proprio in ragione dell’intervenuta pronuncia delle Sezioni unite, che ha formato il diritto vivente che il giudice a quo sospetta di contrarietà alla Costituzione. Ciò deve ritenersi sufficiente ai fini dell’ammissibilità di una questione di legittimità costituzionale” (n. 33).
[34] Ricordiamo, d’altra parte, cosa fece la Corte di Cassazione (21 aprile 2015, n. 8097) quando la Corte costituzionale (11 giugno 2014, n. 170) dichiarò incostituzionale il divorzio automatico del transessuale “nella misura in cui” la legge non prevedeva che i coniugi potessero “convertire” il matrimonio in un’altra forma riconosciuta dall’ordinamento. In assenza di una legge che sarebbe arrivata solo l’anno successivo (art.1, c. 27, l. n. 76/2016), la Corte di Cassazione, con giurisprudenza innovativa, ritenne inammissibile la caducazione automatica del matrimonio dato che, ragionando in senso contrario, ci sarebbe stata quella violazione di diritti fondamentali che la Corte costituzionale aveva condannato.
Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. La Corte dismette i panni del giudice, sia pure peculiare qual è quello costituzionale, ed indossa le vesti del massimo decisore politico, mettendo da parte il principio della separazione dei poteri e causando, perciò, un grave vulnus alla Costituzione, nell’accezione ormai affermatasi negli ordinamenti di tradizioni liberali – 2. L’introduzione di un originale tipo di vacatio sententiae e gli imprevedibili effetti che possono conseguirne – 3. Il singolare ragionamento che ha portato alla invenzione della norma costituzionale forgiata dalla Consulta, la premessa inconsistente su cui esso poggia e gli argomenti teoricamente alquanto fragili addotti a sua giustificazione – 4. Una succinta notazione finale, a riguardo degli scenari che potrebbero delinearsi per il caso che le pronunzie emesse da organi giudicanti composti da giudici ausiliari dovessero essere impugnate davanti alla Corte di Strasburgo.
1. La Corte dismette i panni del giudice, sia pure peculiare qual è quello costituzionale, ed indossa le vesti del massimo decisore politico, mettendo da parte il principio della separazione dei poteri e causando, perciò, un grave vulnus alla Costituzione, nell’accezione ormai affermatasi negli ordinamenti di tradizioni liberali
Non è la prima volta – come si sa – che la Consulta piega ed adatta alle peculiari e pressanti esigenze di una situazione di fatto i canoni sul giudizio di costituzionalità. Questa vicenda riceve, tuttavia, oggi una esasperata e per molti versi originale rappresentazione segnalandosi per taluni profili, ora rapidamente richiamati, sui quali conviene far luogo ad una disincantata e, per quanto possibile, distaccata riflessione.
Avverto subito che non è facile cosa, perlomeno non lo è per chi, come me, è da tempo fermamente convinto del bisogno, di cruciale rilievo, di tenere fermi i canoni stessi, quale condizione necessaria, ancorché di per sé sola insufficiente, del mantenimento della “giurisdizionalità” della giurisdizione costituzionale, vale a dire della riconoscibilità della sua stessa natura ed essenza, della identità che la distingue da ogni altra espressione della giurisdizione[1].
La posta in palio è, dunque, elevatissima; e non può, perciò, non destare inquietudine la circostanza che essa sia messa in “gioco”, tanto più poi quando l’esito della partita appaia essere perdente.
Immediate e di tutta evidenza le conseguenze che discendono dalla mancata osservanza dei canoni suddetti. Dismettendo i panni del “giudice”, nella peculiare accezione e valenza posseduta dal termine nelle sue applicazioni alla giustizia costituzionale, alla Corte non resta che indossare al loro posto quelli del decisore politico, anzi del massimo decisore politico, commutandosi – come mi è venuto di dire già in altre occasioni – in un autentico potere costituente permanente, da se medesimo abilitato a disporre a piacimento, secondo occasionali convenienze, delle norme costituzionali che ne danno l’identità e ne qualificano l’attività. In buona sostanza, mette dunque da canto il principio della separazione dei poteri che, pur nella temperata accoglienza ricevuta dalla nostra Carta al pari delle altre venute alla luce all’indomani della seconda grande guerra, dà comunque la cifra espressiva di ogni ordinamento di tradizioni liberali. Non a caso, infatti, se ne fa menzione, quale una delle basi portanti della struttura di uno Stato costituzionale, nel famoso art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789, unitamente al riconoscimento dei diritti fondamentali, nei cui riguardi si pone – come si sa – in funzione servente.
Viene, insomma, a determinarsi un’anomala commistione dei ruoli istituzionali, rendendosi pertanto indistinguibile quello giocato dalla Corte rispetto all’altro che è proprio degli organi della direzione politica. Ed è francamente singolare che la Corte reputi di potere scegliere di volta in volta quale vestito indossare a seconda della rappresentazione teatrale che si accinga a fare, se quello del garante ovvero l’altro del decisore o, magari – e perché no? –, nel corso di una stessa vicenda processuale entrambi, alternandoli man mano che la stessa si svolge e dando quindi modo agli stessi di rispecchiarsi, in forme inusuali, nei verdetti emessi in chiusura dei casi.
Non è consentito qui allargare il discorso oltre l’hortus conclusus entro il quale questa succinta riflessione è obbligata a stare; e, tuttavia, poiché ogni tessera di un mosaico si lega alle altre e tutte assieme compongono il quadro, non è inopportuno accennare di sfuggita come si siano avute non poche (ed esse pure preoccupanti) manifestazioni di questo trend volto ad un innaturale mescolamento dei ruoli. Mi limito al riguardo a rammentare qui il modo con cui l’ultima giurisprudenza intende e (non di rado non) mette in pratica il limite del rispetto della discrezionalità del legislatore, che pure per vero è da tempo soggetto a vistose oscillazioni[2], talora persino ad usi diametralmente opposti: ora, cioè, tenuto fermo e fatto valere davanti alle richieste venute dalle autorità remittenti di incisive manipolazioni del dettato legislativo ed ora però – e questo ciò che, appunto, ha qui specifico rilievo – messo sotto stress o, diciamo pure, interamente da canto. Quest’ultimo esito, poi, può presentarsi in varie forme: dandosi al legislatore un termine, del quale peraltro non sempre è chiara la ratio, perché provveda a far luogo al necessario, sostanziale rifacimento di una disciplina legislativa complessivamente carente e non in linea con il dettato costituzionale[3], ovvero sollecitando puramente e semplicemente il legislatore stesso ad intervenire sotto la minaccia della futura e pressoché certa caducazione operata direttamente dalla stessa Corte[4]. Ed è interessante notare, a sicura conferma della astratta sussistenza del limite e del suo disinvolto superamento, come la Corte non si trattenga dal prospettare al legislatore talune possibili discipline alternative (così, appunto, in Cappato) ovvero a dare un vero e proprio “catalogo” di indicazioni al quale attenersi, sì da conformare la propria decisione quale una sorta di anomala “pronunzia-delega”, ora più ed ora meno stringente per il suo primo e naturale destinatario[5].
La Corte insomma adegua la misura dell’intervento politico-normativo cui fa luogo alle circostanze, per come sono di volta in volta apprezzate, senza che peraltro non sempre risulti chiara la ragione per cui, fissate certe premesse del suo ragionamento e portate quindi ai loro conseguenti svolgimenti, si facciano veicolare gli esiti raggiunti ora da questa ed ora da quella tecnica decisoria: tecniche – si faccia caso – a volte assai diverse, persino opposte, malgrado la straordinaria somiglianza riscontrabile tra le vicende processuali alle quali si applichino[6].
È questo – a me pare – lo scotto, assai grave in termini di certezza del diritto costituzionale (e, perciò, di prevedibilità nell’uso degli strumenti processuali), che si è costretti a pagare per effetto della proliferazione incessante (e, negli ultimi tempi, a ritmi incalzanti) degli strumenti stessi. Insomma, quanto più si è arricchita la panoplia dei tipi e sottotipi di decisione forgiati dalla Consulta, tanto più in conseguenza del loro affollamento v’è il rischio del loro uso promiscuo e – se posso esser franco – improvvisato, faticandosi quindi non poco a capire (e talvolta non riuscendosi a capire affatto) quale mai possa essere stata la ragione della scelta nel singolo caso adottata[7].
2. L’introduzione di un originale tipo di vacatio sententiae e gli imprevedibili effetti che possono conseguirne
Ora, il dato che con maggiore evidenza balza subito agli occhi, già a prima lettura della decisione qui annotata, è dato dal suo porsi ben oltre (e, per ciò stesso, contro) il disposto di cui all’art. 136 della Carta che – come si sa – vorrebbe prodotto subito e in ogni caso l’effetto ablativo che è proprio delle pronunzie di accoglimento.
Sulla decisione si sono avuti già diversi commenti di accreditati studiosi[8], la qual cosa semplifica molto il compito che mi è stato oggi affidato dandomi modo di fermare specificamente l’attenzione unicamente sul punto evocato dal titolo dato alla mia riflessione.
In breve, la Corte fa qui luogo ad un’anomala vacatio sententiae, peraltro dalla durata stupefacentemente lunga[9], non prevista (e, per ciò stesso, non consentita[10]) dal disposto costituzionale sopra richiamato, mostrando in tal modo factis di ritenere “bilanciabile” la norma sul processo costituzionale in parola con altra norma, di cui all’art. 106 Cost., relativa all’amministrazione della giustizia (e, dunque, ad un bene costituzionalmente protetto da cui dipende il fisiologico ed ottimale esercizio della giurisdizione, con tutto ciò che esso rappresenta per i diritti e gli interessi in genere tutelati dalla Carta), malgrado si tratti di materiali del tutto eterogenei e, come tali, non confrontabili.
Si diceva che non è la prima volta che la Corte mostra di considerare “cedevoli” le norme sui giudizi di costituzionalità. La circostanza per cui se ne sono avuti non sporadici riscontri non è tuttavia – è banale dover qui rammentare – una giustificazione valida dell’operato del giudice costituzionale. Non si trascuri, ad ogni buon conto, il fatto che le manipolazioni per il futuro, quale quella operata in occasione della vicenda processuale che ha dato lo spunto per il commento che si va ora facendo, solo ad una prima ma erronea impressione appaiono essere speculari a quelle relative al passato, di cui pure si sono avuti non pochi riscontri[11]. E ciò, per la elementare ragione che il passato è noto e possono, perciò, ben darsi casi in cui la delimitazione temporale dell’effetto ablativo si dimostri essere perfettamente rispondente ad esigenze di sistema, anzi – a dirla tutta – non si ponga affatto quale una forma di manipolazione, nell’accezione propria del termine, bensì linearmente discenda dai canoni relativi all’avvicendamento delle fonti nel tempo ed alle dinamiche del processo costituzionale.
Si pensi, ad es., ad una legge regionale venuta alla luce nel pieno rispetto dei parametri al tempo della sua formazione vigenti e divenuta successivamente invalida a causa di un mutamento del parametro, quale potrebbe aversi per effetto della entrata in vigore di una nuova legge statale idonea a porre vincoli all’autonomia regionale. Ebbene, è chiaro che la eventuale perdita di efficacia dell’atto affetto da invalidità sopravvenuta[12] non già ex tunc bensì unicamente a far data dal momento del mutamento del parametro non urta coi canoni relativi alla composizione delle antinomie, costituendone piuttosto il piano e lineare svolgimento.
Di contro, le manipolazioni per il futuro sono gravate dall’ipoteca relativa alla inconoscibilità di quest’ultimo e, talora, alla sua imprevedibilità, tanto più poi quando l’evento prefigurato al quale è ancorata la perdita di efficacia dell’atto illegittimo potrebbe venire ad esistenza in un momento molto lontano nel tempo, come appunto si ha nel caso nostro[13], nel quale peraltro non è affatto certo che nella data prevista si abbia davvero il completamento della riforma della magistratura onoraria. Di qui all’ottobre 2025 possono, infatti, accadere molte cose, tali da rendere, per un verso, materialmente impossibile o, diciamo pure, non necessaria la produzione dell’effetto ablativo – ed è proprio ciò che, in fondo, la stessa Corte si augura[14] –, in conseguenza del complessivo rifacimento della disciplina della materia da parte del legislatore. Per un altro verso, è però pure da mettere in conto la evenienza che, non riuscendosi a portare a termine la riforma della magistratura onoraria, si avverta il bisogno di prolungare ulteriormente la vigenza della normativa oggi dichiarata costituzionalmente illegittima. La qual cosa, francamente, non vedo come possa farsi, se non tornando ad investire la Corte della medesima questione già decisa nel senso… dell’annullamento. Una ipotesi, chiaramente, impraticabile, semplicemente assurda. Si conoscono, infatti, molti casi di questioni dapprima rigettate e poi accolte[15], ma non ovviamente di questioni accolte e poi rigettate[16].
Come si vede, la tecnica decisoria che dà modo alla Corte di apporre un termine di vacatio alle proprie decisioni può – ne convengo – rivelarsi adeguata a talune circostanze, così come peraltro si è dimostrata essere negli ordinamenti che la conoscono[17], ma a condizione che l’intervallo temporale tra la emissione del verdetto e la produzione dell’effetto ablativo sia ragionevolmente contenuto, non già – come qui – in misura abnorme lungo. In ogni caso – come si viene dicendo –, un punto è da tener fermo, senza esitazione alcuna; ed è di dar modo al giudice costituzionale di muoversi unicamente entro il recinto segnato dai canoni che presiedono all’esercizio delle sue funzioni. Se poi si ritiene che l’ambito in parola, per com’è oggi, non sia più sufficiente a dar modo all’organo di spaziare e di spingersi in territori ad oggi preclusigli e invece bisognosi di essere dallo stesso coltivati, a beneficio della Carta e di quanti – cittadini ed operatori istituzionali – ad essa fanno capo per avere appagati taluni loro bisogni, ebbene la soluzione c’è ed è a portata di mano: quella indicata nell’art. 138, per la modifica dei canoni costituzionali sul processo, e in altre fonti (legge comune e norme frutto di produzione giuridica da parte della stessa Corte) quanto agli ulteriori canoni posti in svolgimento e ad integrazione dei primi[18].
Di contro, la Corte molte volte fa luogo ad occasionali rifacimenti degli stessi: innova cioè norme frutto di “diritto politico” con norme espressive di “diritto giurisprudenziale”, per riprendere ora i termini accreditati da un’autorevole, non dimenticata dottrina ed oggi d’uso corrente[19]. Ed è evidente che la seconda forma di produzione giuridica è, per sua indeclinabile vocazione, soggetta a continue oscillazioni e mai finiti ripensamenti, diversamente dalla prima che, pur andando essa pure ovviamente incontro a modifiche, esibisce nondimeno una maggiore rigidità e – ciò che più importa – offre, perlomeno sulla carta, garanzie maggiori di certezza del diritto in senso oggettivo. È poi chiaro che a volte enunciati presenti in atti di normazione, a partire da quelli costituzionali, possono essere forieri di ancora maggiori incertezze di quelle che possono conseguire alle espressioni della giurisprudenza, specie laddove quest’ultima si componga in “indirizzi” (in senso proprio), consolidati ed univocamente orientati.
La cosa ha particolare rilievo proprio sul piano costituzionale.
Non rinnego – sia chiaro – il significato profondo e ad oggi attuale avuto dalla “lotta per la Costituzione” – come suole essere chiamata – condotta nella gloriosa ed esaltante stagione che ha portato all’avvento delle prime Carte liberali; e non intendo, dunque, affatto rimettere in discussione il valore intrinseco in una nuova ed adeguata “razionalizzazione” costituzionale, alla quale a mia opinione sarebbe anzi urgente porre mano, svecchiando e rigenerando la Carta del ’48 in linea con la sua matrice originaria ed allo scopo di renderla ancora più confacente a nuovi bisogni nel frattempo venuti alla luce. Intendo solo dire che dovremmo tutti avere piena consapevolezza dei guasti che – ahimè, non di rado – conseguono ad un uso non vigilato delle tecniche di produzione giuridica, al punto che in talune circostanze un sano diritto non scritto – come mi è venuto di dire in altre occasioni – si rivela essere assai preferibile ad uno scritto e malfatto[20].
Sempre a fugare ogni possibile fraintendimento del mio pensiero, tengo poi a chiarire che, pur nella consapevolezza dei rischi ai quali fa comunque andare incontro il “diritto politico”, non ne auspico di certo l’abbandono, accompagnato dalla entrata in campo, in modo prepotente, in sua vece del “diritto giurisprudenziale”, che a sua volta – come si è venuti dicendo – comporta esso pure inconvenienti non da poco. Il modello vincente, nel quale da tempo mi riconosco, è, invece, quello del congiunto ed equilibrato concorso di entrambe le forme di produzione giuridica in parola: all’uno, in ispecie, toccando la descrizione della cornice del quadro, a mezzo di indicazioni a maglie larghe (essenzialmente per principia), restando poi demandato ai pratici (e, segnatamente, appunto ai giudici) il perfezionamento e completamento dell’opera a mezzo di atti congrui con le peculiari esigenze dei casi[21].
Ad ogni buon conto, per tornare alla questione qui di specifico rilievo, le norme sul processo – come si è fatto altre volte notare – non sono passibili di “bilanciamento” alcuno e la loro osservanza si impone quale condizione per ogni altro “bilanciamento”, proprio perché è dalla stessa che si riconosce la natura dell’organo e la fedeltà al munus ad esso conferito dalla Carta. Sarebbe come – per fare un esempio volutamente esasperato ma immediatamente eloquente – immaginare che il Parlamento, in occasione della formazione di una legge, pensi di poter cambiare le regole al riguardo stabilite con… la legge stessa in tal modo venuta alla luce che, perciò, presenti carattere riflessivo, legittimando se stessa. O sarebbe come se un arbitro di una partita di calcio o di altro sport si inventasse sul posto, in corso di svolgimento del gioco, una nuova regola che non c’è (e non può esserci), quale quella di sentirsi abilitato a venire in soccorso della squadra perdente e di poter perciò dare calci alla palla contro la rete avversaria[22].
L’assurdità degli esempi appena fatti è talmente eloquente da non richiedere che si spenda alcuna parola in più a commento dell’accaduto.
3. Il singolare ragionamento che ha portato alla invenzione della norma costituzionale forgiata dalla Consulta, la premessa inconsistente su cui esso poggia e gli argomenti teoricamente alquanto fragili addotti a sua giustificazione
V’è però un punto che merita di essere ulteriormente rimarcato, sia per il fatto che non è la prima volta che se ne ha riscontro nelle esperienze della giustizia costituzionale e sia perché è sicuro che tornerà ancora a ripresentarsi. Ed è dato dal singolare, per l’aspetto logico, itinerario compiuto dal giudice, già per ciò che attiene alla sua partenza ed ai passi quindi fatti lungo il solco inizialmente tracciato.
In breve, il ragionamento si svolge così.
In premessa, la Corte muove da un dato ritenuto incontestabile nella sua vistosa portata e per gli effetti ad esso riconducibili, muove cioè da una situazione di fatto che con argomenti stringenti qualifica essere in sé e per sé contraria a Costituzione (la partecipazione dei giudici ausiliari all’amministrazione della giustizia). Aggiunge che questa situazione si è ormai – come dire? – consolidata e che, perciò, la sua rimozione “secca” e con effetti immediati produrrebbe effetti devastanti, comunque intollerabili, per l’amministrazione della giustizia e, di riflesso, per i suoi fruitori, i cittadini e quanti in genere ad essa si rivolgono per avere appagamento in diritti e bisogni meritevoli di tutela[23].
La conseguenza, linearmente svolta muovendo dalla premessa fissata e dalla constatazione di com’è fatta la realtà, è che, a giudizio della Corte, non è possibile far subito luogo alla caducazione della disciplina normativa illegittima, che nondimeno merita ugualmente di essere subito dichiarata contraria a Costituzione, rimandandosi quindi la produzione dell’effetto ablativo alla data futura indicata nella parte motiva della decisione.
Ebbene, di questo schema – sarei tentato di dire, di questo standard – si hanno numerose altre testimonianze nei campi più varî di esperienza. Il “modello” è, in buona sostanza, sempre lo stesso. Perlopiù si ricorre all’emergenza quale causa determinante un certo stato di cose e giustificativa della decisione che il giudice sarebbe obbligato ad adottare, che può appuntarsi in uno dei corni dell’alternativa seguente: far luogo al mantenimento della normativa oggetto di giudizio, di cui pure non si nascondono le non poche né lievi carenze, oppure – come qui – caducarla con effetti però molto differiti in avanti.
Come si vede, può aversi ora una tecnica provvisoriamente assolutoria (ma con previo riconoscimento di… colpevolezza) ed ora invece una di condanna ma con spostamento temporale in avanti dell’applicazione della pena. Tecniche, dunque, alternative per il tipo di appartenenza (e, di conseguenza, per gli effetti loro propri) ma utilizzate in modo promiscuo, secondo occasione[24].
Ora, vi è un punto, di cruciale rilievo, che mi sta particolarmente a cuore mettere in evidenza. Ed è che le emergenze in genere – tranne rare evenienze, quale può essere un evento della natura ad oggi non scongiurabile, come un terremoto – non spuntano come funghi in un bosco dopo una notte di pioggia né sono come un violento acquazzone che ricade su uomini e cose determinando allagamenti e catastrofi in genere, obbligando pertanto il legislatore a far luogo a discipline normative problematicamente conciliabili con la Carta o, diciamo pure, con essa frontalmente contrastanti, quale ad es. è stata quella varata negli anni bui del terrorismo rosso e mandata quindi assolta dalla notissima sent. n. 15 del 1982[25].
Le emergenze, di contro, sono – perlomeno, il più delle volte – la conseguenza immediata e diretta, seppur non sempre subito riconoscibile, di annose e gravi carenze (e talora della vera e propria latitanza) del legislatore, del perpetuarsi di intollerabili ingiustizie sociali, del reiterarsi di fenomeni corruttivi diffusi[26] e di quant’altro insomma fa a pugni con l’etica pubblica repubblicana cui dà voce la Carta.
È, poi, chiaro che le mancanze in parola si debbono, in misura determinante, alla crisi ingravescente della rappresentanza politica, su cui – come si sa – è venuta col tempo a formarsi una messe copiosa di scritti di vario segno e orientamento ed alla quale pertanto non giova ora riservare neppure un cenno[27]; una crisi che si alimenta da radici profonde, diffuse, reciprocamente aggrovigliate in seno al corpo sociale. La qual cosa induce invero a non poco pessimismo circa la possibilità di apprestare rimedi efficaci a questo stato di cose universalmente deplorato, ove si convenga – come a me pare si debba – che non sono di certo sufficienti allo scopo pur corpose riforme dell’apparato istituzionale, laddove non accompagnate e sorrette da un rifacimento complessivo della struttura della società sottostante e da un critico ripensamento delle relazioni che in essa s’intrattengono, in primo luogo, tra i consociati e, quindi, tra questi ultimi e gli organi dell’apparato stesso[28].
Il vero è che è proprio il tessuto sociale ad essere ormai gravemente sfilacciato, proprio perché sono andati smarriti gli antichi punti ideali di riferimento; ed a pagarne in primo luogo le conseguenze – come si diceva – sono stati (e sono) i valori fondamentali dell’ordinamento dal cui inveramento dipende la salvaguardia dell’idea di Costituzione e dello Stato che da essa prende il nome.
Come si vede, la posta in palio è ben altra di quella, pure di primario rilievo, costituita dal merito della vicenda che ha dato lo spunto per la succinta riflessione che si sta per chiudere. Forse, la Corte non è pienamente avvertita del fatto che, aggiungendo un disposto in deroga all’art. 136 dapprima mancante, non ha semplicemente manipolato una norma come un’altra del parametro costituzionale – cosa, comunque, di per sé di singolare gravità – ma ha riplasmato l’essenza della Costituzione, con la stessa facilità con cui si traggono da una sostanza gommosa e malleabile, quale la plastilina con cui giocavamo da bambini, figure sempre nuove, secondo la fantasia e l’ispirazione del momento.
Il fatto occasionale a volte resta un evento unico, dando vita ad una momentanea sospensione del vigore di un precetto costituzionale che quindi torna ad espandersi ed a riaffermarsi nella sua originaria portata[29]. Non si trascuri, tuttavia, che nulla va mai perduto e che, piuttosto, tutto si conserva, ogni novità introdotta per via giurisprudenziale rendendosi pur sempre disponibile per futuri utilizzi, anche per casi imprevedibili al momento in cui vi si è fatto inizialmente luogo. È perciò che alla circostanza che ha dato lo spunto per questo commento va assegnato un particolare rilievo, soprattutto per ciò che essa potrebbe rappresentare per l’avvenire.
4. Una succinta notazione finale, a riguardo degli scenari che potrebbero delinearsi per il caso che le pronunzie emesse da organi giudicanti composti da giudici ausiliari dovessero essere impugnate davanti alla Corte di Strasburgo
Un’ultima notazione, che consegno in forma dubitativa. La Corte ha acclarato che la partecipazione dei giudici ausiliari all’amministrazione della giustizia non è rispettosa della Costituzione, sospendendo nondimeno la produzione degli effetti conseguenti al suo accertamento. Mi chiedo, dunque, se le pronunzie emesse dai giudici stessi o da collegi di cui essi facciano parte vadano incontro a rischi conseguenti all’ormai riconosciuta invalidità della composizione degli organi giudicanti.
Qui pure – come si vede – si assiste ad un bilanciamento risoltosi a discapito di coloro che chiedono giustizia e che per anni seguiteranno ad averla da parte di chi non aveva (e non ha) il titolo per somministrarla, per ciò solo risultando destinatari di una giustizia… ingiusta. Un esito – si dice nella pronunzia in commento – che va pur tuttavia tollerato, a fronte dell’inconveniente ancora maggiore che si avrebbe con la caducazione immediata della normativa incostituzionale. È tuttavia da mettere in conto – temo – una pioggia di ricorsi alla Corte europea per violazione dei canoni relativi al giusto processo, quanto meno per l’aspetto del lasso temporale irragionevolmente lungo intercorrente tra la pronunzia odierna del giudice costituzionale e l’atteso rifacimento della composizione degli organi giudicanti. Intendo dire che, seppure la Corte di Strasburgo dovesse rimettersi – come con ogni probabilità farà – al margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato in ordine alla disciplina della materia, ugualmente potrebbe giudicare intollerabile un’attesa così lunga qual è quella oggi concessa dalla Consulta al legislatore.
Si vedrà.
Non disponiamo, ovviamente, di alcun elemento in grado di dare lumi circa i possibili sviluppi della vicenda, una volta che quest’ultima dovesse poi trasporsi in ambito sovranazionale. Certo si è, in conclusione, che la questione è di scottante attualità, gravida di implicazioni a largo raggio e suscettibile di esiti sotto plurimi aspetti imprevedibili. Già solo per ciò avrebbe forse meritato un supplemento di attenzione da parte della Corte prima che quest’ultima si fosse determinata nel senso che sappiamo. È pur vero che l’alternativa all’accoglimento (“secco” ed immediato ovvero con rinvio a termine spostato molto in avanti) non avrebbe potuto che essere quella del rigetto con monito che, però, com’è noto, il più delle volte resta privo di sostanziali ed apprezzabili effetti.
Stretta nella morsa soffocante tra il lasciare le cose così come oggi sono, sollecitando vigorosamente il legislatore a cambiarle, ed innovarvi ma solo per l’avvenire, la Corte non ha esitato – verosimilmente, non a cuor leggero – ad optare per il secondo corno dell’alternativa. E l’ha fatto – come si è venuti dicendo – con una sentenza di… revisione costituzionale.
Una volta di più, insomma, anziché sollecitare il legislatore a far luogo al mutamento del quadro normativo vigente battendo la via piana del mutamento costituzionale con le procedure indicate nell’art. 138, specificamente volto a dotare la Corte dello strumento della vacatio sententiae noto ai sistemi di giustizia costituzionale propri di altri ordinamenti, è stato lo stesso arbitro costituzionale a centrare subito il bersaglio, segnando il risultato decisivo per le sorti della partita. Solo che, una volta messosi a tirare calci alla palla, a mia opinione ha fatto un… autogol.
L’augurio è che ne abbia piena avvertenza, prima che ne discendano conseguenze di ordine istituzionale suscettibili di imprevedibili sviluppi per la tenuta complessiva del sistema.
[1] Basti solo, al riguardo, rammentare che – secondo una opinione largamente diffusa ed autorevolmente accreditata [tra i molti, C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bononia University Press, Bologna 2012; R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 2017; AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017; G. Bisogni, La ‘politicità’ del giudizio sulle leggi. Tra le origini costituenti e il dibattito giusteorico contemporaneo, Giappichelli, Torino 2017; M. Raveraira, Il giudizio sulle leggi: la Corte costituzionale sempre più in bilico tra giurisdizione e politica, in Lo Stato, 11/2018, 123 ss.; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss. (nei riguardi del cui pensiero, criticamente, v. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., e, pure ivi, E. Cheli, Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, 777 ss.); A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., cit., 154 ss.; M. Nisticò, Corte costituzionale, strategie comunicative e ricorso al web, in AA.VV., Potere e opinione pubblica. Gli organi costituzionali dinanzi alle sfide del web, a cura di D. Chinni, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, 77 ss.; R. Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 7 gennaio 2020, 1 ss.; F. Abruscia, Assetti istituzionali e deroghe processuali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2020, 23 ottobre 2020, 282 ss.; AA.VV., Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale?, a cura di C. Padula, Editoriale Scientifica, Napoli 2020. In prospettiva comparata, per tutti, AA.VV., Giustizia e Costituzione agli albori del XXI secolo, a cura di L. Mezzetti - E. Ferioli, Bonomo, Bologna 2018.] – la Corte racchiuderebbe al proprio interno due “anime”, come sono pittorescamente raffigurate, l’una appunto giurisdizionale e l’altra politica, chiamate a stare in costante, seppur precario, equilibrio, richiesto dal peculiare munus demandato all’organo e dalla parimenti peculiare conformazione dei materiali normativi coinvolti in occasione del suo esercizio, in ispecie del parametro costituzionale di cui l’organo stesso è chiamato a porsi quale interprete privilegiato e massimo garante. È pur vero però che molti segni si hanno, specie negli sviluppi della giurisprudenza degli anni a noi più vicini, che denotano una marcata prevalenza della seconda “anima” sulla prima; ed allora il rischio assai grave che si corre è che, laddove ciò si abbia in una particolarmente accentuata e francamente intollerabile misura (ed è proprio questo il caso nostro), venga a conti fatti a smarrirsi l’attributo della “giurisdizionalità” della funzione.
[2] … prontamente rilevate dalla più avveduta dottrina [tra gli altri, A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss., e T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss.].
[3] Così, in ispecie, nel discusso (e discutibile) caso Cappato o nella vicenda di cui a Corte cost. n. 132 del 2020 che sarà definita nel giugno prossimo, ad un anno esatto dalla pronunzia interlocutoria emessa in applicazione della stessa tecnica decisoria in due tempi inaugurata nel primo caso ora richiamato.
[4] V., di recente, part., Corte cost. nn. 32 e 33 del 2021 [e, su di esse, se si vuole, la mia nota La PMA alla Consulta e l’uso discrezionale della discrezionalità del legislatore (Nota minima a Corte cost. nn. 32 e 33 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 11 marzo 2021, 221 s.]. Un riferimento alla discrezionalità del legislatore è, ora, anche nella sent. n. 48 del 2021, con nota di L. Trucco, Diritti politici fondamentali: la Corte spinge per ampliare ulteriormente la tutela (a margine della sent. n. 48 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 1° aprile 2021, 283 ss.
[5] In realtà, destinatari delle pronunzie sono sempre anche i giudici e gli organi dell’amministrazione, a vario titolo chiamati a far luogo alle attività “conseguenziali” sollecitate dalla loro adozione, in forme varie a seconda dei casi.
[6] La “fungibilità” delle tecniche decisorie è ora rilevata anche da R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 6 aprile 2021, 289 s.
[7] Per fare ora solo un esempio già altrove addotto, ad es. non mi è chiaro perché la tecnica inaugurata in Cappato, di cui pure deploro l’utilizzo, non sia stata fatta valere anche nella vicenda di cui a Corte cost. n. 230 del 2020, definita con una decisione d’inammissibilità [sulla vicenda, fatta oggetto di numerosi commenti, riferimenti ora in E. Olivito, (Omo)genitorialità intenzionale e procreazione medicalmente assistita nella sentenza n. 230 del 2020: la neutralità delle liti strategiche non paga, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 2/2021, 2 marzo 2021, 137 ss., e A. Giubilei, L’aspirazione alla genitorialità delle coppie omosessuali femminili. Nota alla sentenza n. 230 del 2020 della Corte costituzionale, in Nomos (www.nomos-leattualitaneldiritto.it), 3/2020, 1 ss.]. E così via in molti altri casi. Il disagio davanti a siffatte oscillazioni ed aporie di costruzione giurisprudenziale è stato, di recente, manifestato anche da altra, accreditata dottrina [N. Zanon, I rapporti tra la Corte costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali, in Federalismi (www.federalismi.it), 3/2021, 27 gennaio 2021, 86 ss., spec. 96 ss. (con richiamo ad un mio pensiero sul punto)].
[8] … tra i quali, V. Onida, Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 2/2021, 6 aprile 2021, 130 ss., spec. 135 s., e R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta, cit., 288 ss.
[9] … fino all’ottobre 2025.
[10] Non è inopportuno qui rammentare che, a differenza di ciò che ordinariamente vale al piano dei rapporti inter privatos, laddove tutto ciò che non è vietato è permesso, in diritto pubblico il potere si ha unicamente laddove vi sia una norma che previamente lo fondi e ne disciplini le modalità di esercizio.
[11] Un esempio per tutti, quello di cui alla sent. n. 10 del 2015, che ha animato un fitto dibattito ai cui esiti ricostruttivi nondimeno non può ora riservarsi neppure un cenno; a riprova della varietà dei punti di vista al riguardo espressi è sufficiente il solo dato per cui nel sito Consulta OnLine (www.giurcost.org) sono richiamati, in testa alla decisione in parola, ben trentanove commenti ospitati da sedi scientifiche in rete, senza ovviamente tener conto quelli presenti su Riviste cartacee, sui manuali di giustizia costituzionale e monografie nelle quali si tratta degli effetti temporali delle decisioni del giudice costituzionale.
[12] … ovviamente, possibile col solo procedimento in via di eccezione, essendo ormai decorsi i termini per i ricorsi in via d’azione.
Per la distinzione tra una incostituzionalità sopravvenuta in senso stretto ed una in senso lato, v., volendo, A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2019, 209 s., dove si rileva come accanto ad una siffatta specie di invalidità potrebbe aversi anche quella, opposta, di una legittimità sopravvenuta.
[13] Per l’aspetto ora considerato, la manipolazione operata dalla pronunzia qui annotata si presenta ancora più incisiva – sempre che si reputi possibile fare una sorta di “graduatoria” al riguardo… – di quella posta in essere in Cappato, proprio per il più lungo lasso di tempo intercorrente rispetto alla definizione del caso, che di per sé gioca nel senso di lasciare un segno ancora più marcato sul dettato costituzionale, fatto oggetto di corposo rifacimento dalla tecnica decisoria in parola (sul significato posseduto dalla dimensione temporale nelle esperienze di rilievo costituzionale richiamo qui solo, per tutti, lo studio di T. Martines, Prime osservazioni sul tempo nel diritto costituzionale, in Scritti in onore di S. Pugliatti, III, Giuffrè, Milano 1977, 783 ss., nonché in Id., Opere, I, Giuffrè, Milano 2000, 477 ss.).
[14] … anche se si avrebbe la stranezza di un atto giuridico, la sentenza della Corte, rimasto improduttivo di effetti per suo stesso… auspicio.
[15] Ciò che, invero, è pacificamente ammesso ma che – come si è tentato di argomentare altrove – appare per vero essere problematicamente conciliabile col disposto di cui all’art. 137, ult. c., Cost. che – senza distinzione alcuna tra tipo e tipo di decisione della Corte – esclude categoricamente la eventualità della loro “impugnazione”, in vista dunque di un eventuale ripensamento da parte dello stesso giudice costituzionale di una questione, come che sia, ormai decisa, smarrendosi altrimenti il quid proprium della ragion stessa di esistere della Corte, che è di dare certezze di diritto costituzionale, in quanto abilitata a dire l’ultima parola sulle controversie coinvolgenti la legge fondamentale della Repubblica (ho indagato il senso complessivo e il modo di operare e di farsi valere del disposto summenzionato nei miei Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1990, e Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle relazioni con le Corti europee, in AA.VV., La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, a cura di R. Balduzzi - M. Cavino - J. Luther, Giappichelli, Torino 2011, 349 ss.).
[16] … salvo il caso di legge riproduttiva di altra legge dapprima caducata che, nuovamente impugnata, esca quindi indenne dal secondo giudizio della Consulta, magari – perché no? – per effetto di un fatto nuovo che lo giustifichi, quale potrebbe esser dato, ad es., da una pronunzia di questa o quella Corte europea venuta medio tempore alla luce. E, tuttavia, in una congiuntura siffatta, le due “situazioni normative” (che, a mia opinione, si pongono ad oggetto del sindacato di costituzionalità), una volta poste a raffronto, si dimostrano essere non coincidenti, proprio a causa del novum nel frattempo registratosi. Il fatto “riproduttivo”, ad ogni buon conto, nel caso nostro non può aversi, essendo ancora in vigore la disciplina normativa oggetto della pronunzia ablativa iniziale.
[17] Se n’è, d’altronde, avvertita la consapevolezza da parte di più d’uno studioso e la stessa Corte, dal suo canto, ha ritenuto la questione meritevole di approfondimento, tanto da farne oggetto di esame nel corso di uno dei Seminari annuali con i quali sollecita il confronto degli studiosi su questioni scottanti e gravide di implicazioni (v., dunque, AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche in riferimento alle esperienze straniere, Palazzo della Consulta 23-24 novembre 1988, Giuffrè, Milano 1989).
Sta di fatto che la sospensione della produzione dell’effetto ablativo comporta pur sempre un costo innegabile per i diritti costituzionali in vista della cui salvaguardia è presentata la questione di costituzionalità avente ad oggetto la normativa poi provvisoriamente mantenuta in vigore e perciò applicata al giudizio a quo. Il sacrificio della rilevanza, registratosi nella circostanza (ancora R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta, cit., spec. 294; altri riferimenti in A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 211), nondimeno, non costituisce – come si sa – di certo una novità nelle esperienze più recenti degli ultimi anni (basti solo por mente alle note pronunzie in materia elettorale ed alla sent. n. 10 del 2015, sopra già richiamata).
[18] L’auspicio di una revisione dell’art. 136 Cost., giudicata sommamente opportuna (e, anzi, necessaria), è formulato nello scritto da ultimo richiamato, 214.
[19] Il riferimento è, ovviamente, ad A. Pizzorusso, alla cui memoria è stato dedicato un incontro di studio proprio sul tema, svoltosi a Pisa il 16 dicembre 2019: v., dunque, AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il diritto giurisprudenziale, a cura di V. Messerini - R. Romboli - E. Rossi - A. Sperti - R. Tarchi, University Press, Pisa 2020.
[20] Ne dà, d’altronde, sicura riprova l’intera vicenda storica del costituzionalismo liberale maturata in Gran Bretagna, con ciò che essa ha rappresentato per il radicamento di siffatto modello anche in ordinamenti a tradizione costituzionale scritta. Ad ogni buon conto, non ha molto senso ora rimettere in discussione il valore incontestabile della scrittura costituzionale, con le garanzie ad essa inscindibilmente legate.
[21] Il rapporto tra le due forme di produzione giuridica è, nondimeno, circolare, l’una alimentandosi ed incessantemente rinnovandosi per effetto della spinta e delle sollecitazioni venute dall’altra.
[22] Il soccorso, poi, come si sa, molte volte si ha ugualmente, in forme ora abilmente mascherate ed ora invece spudoratamente scoperte, attraverso il cattivo uso della funzione arbitrale, spesso comunque – come tutte le umane cose – incorsa in errore senza cattiva intenzione.
[23] In realtà, come si è fatto notare da un profondo conoscitore delle dinamiche del processo (V. Onida, Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?, spec. ult. par.), ben altri avrebbero dovuto essere i rimedi rispetto alla soluzione adottata dal legislatore per assicurare il superamento della crisi della giustizia. Il punto è che la loro messa in atto avrebbe richiesto (e oggi pure richiederebbe) tempi non brevi ed interventi plurimi e reciprocamente coordinati su più fronti. La qual cosa conferma per tabulas che la caducazione della normativa ad oggi in vigore non sarebbe di per sé sufficiente allo scopo, se non iscritta in un quadro organico di interventi aventi ad oggetto l’organizzazione dei servizi della giustizia e le modalità di svolgimento delle funzioni a quest’ultima facenti capo.
[24] Invito qui a fermare l’attenzione sul linguaggio adoperato; non dico infatti: secondo i casi, che possiedono una loro complessiva connotazione oggettiva, suscettibile di ripetizione temporale e di inquadramento sistematico in prospettiva teorico-astratta. Dico invece: secondo occasione, per significare l’uso imprevedibile ed improvvisato delle tecniche in parola, senza che ne risulti – come si diceva – molte volte chiara la ragione.
[25] … nella quale pure il fatto in sé dell’emergenza è stato – come si sa – determinante al fine della mancata caducazione della normativa adottata dal Governo per dilatare in modo abnorme i termini massimi della carcerazione preventiva, nell’intento di evitare che tornassero in libertà individui sospetti di appartenere alle BR e seguitassero a fare di persone innocenti bersagli viventi in funzione della realizzazione del disegno criminoso avuto di mira.
[26] Su ciò, di recente, la densa riflessione di G. Tarli Barbieri, Corruptio optimi pessima. La corruzione della politica nello specchio del diritto costituzionale, Mucchi, Modena 2020.
[27] Riferimenti e ragguagli possono, se si vuole, aversi dal mio Lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa e le pallide speranze di risveglio legate a nuove regole e regolarità della politica, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 25 gennaio 2021, 124 ss.
[28] Ho trovato particolarmente utile e, in più punti, davvero illuminante la cruda diagnosi al riguardo contenuta in un’agile pubblicazione monografica di un illustre studioso dell’antichità romana, A. Corbino, La democrazia divenuta problema. Città, cittadini e governo nelle pratiche del nostro tempo, Eurilink University Press, Roma 2020, dalla quale ho quindi preso le mosse per una personale riflessione i cui esiti possono vedersi rappresentati nel mio La democrazia: una risorsa preziosa e imperdibile ma anche un problema di ardua ed impegnativa soluzione, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 6 marzo 2021, 325 ss.
[29] D’altronde, lo ha fatto (e lo fa) talvolta anche l’altro massimo garante del sistema, il Presidente della Repubblica. Ricordo, ad es., quanto verificatosi durante il settennato di Pertini (che pure non era di certo smanioso di “picconare” il sistema, come lo è stato un altro discusso Presidente), con riguardo alla nomina dei senatori a vita, in forza di una originale lettura, in precedenza ed in seguito smentita, del disposto di cui all’art. 59 Cost., favorevole – come si sa – a che ogni Presidente possa far luogo a cinque nomine, idonee perciò ad aggiungersi a quelle fatte dai suoi predecessori (una eventualità ormai scongiurata – come pure è noto – da una opportuna precisazione messa in coda al disposto suddetto con legge cost. n. 1 del 2020).
La proroga delle disposizioni emergenziali per i processi civili (d.l. 1° aprile 2021, n. 44). Una scheda
di Franco Caroleo
Il 1° aprile è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 44/2021 che, tra le altre cose, interviene a prorogare le norme per lo svolgimento dei giudizi in modalità alternative a quella in presenza.
La breve scheda che segue analizza le disposizioni del nuovo d.l. che riguardano il processo civile.
Titolo
Decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, “Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici”. (21G00056) (GU Serie Generale n. 79 del 1° aprile 2021).
La norma riguardante il processo civile
- art. 6, co.1, lett. a)
La proroga delle disposizioni processuali di cui agli artt. 23 d.l. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020
L’art. 6, co.1, lett. a), del d.l. n. 44/2021 recita:
“Al decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 23, comma 1:
1) al primo periodo le parole «alla scadenza del termine di cui all’articolo 1 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35» sono sostituite dalle seguenti: «al 31 luglio 2021»;
2) al secondo periodo dopo le parole «del medesimo termine» sono aggiunte le seguenti: «del 31 luglio 2021»”.
La vigenza delle norme processuali stabilite per il periodo pandemico viene così prorogata al 31 luglio 2021.
Questa volta, a differenza del precedente d.l. n. 2/2021, il legislatore ha scelto di non ancorare la proroga al termine dello stato di emergenza (di cui all’art. 1 d.l. 25 marzo 2020, n. 19, che al momento resta fermo al 30 aprile 2020), preferendo individuare un termine fisso.
Viene così novellato l’art. 23, co. 1, d.l. n. 137/2020, convertito con modifiche dalla legge di conversione n. 176/2020, nelle parti in cui stabilisce il termine ultimo per l’applicazione dei commi da 2 a 9 ter del medesimo art. 23 nonché delle disposizioni di cui all’art. 221 d.l. n. 34/2020.
Alla luce di questo intervento, il testo dell’art. 23, co. 1, risulta ora il seguente:
“Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35 si applicano le disposizioni di cui ai commi da 2 a 9-ter. Resta ferma fino alla scadenza del 31 luglio 2021 l’applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 221 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 ove non espressamente derogate dalle disposizioni del presente articolo”).
Da qui deriva la proroga dell’operatività delle disposizioni emergenziali di cui agli artt. 23 d.l. n. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020.
Devono quindi ritenersi prorogati al 31 luglio 2021:
- l’obbligo del deposito telematico di tutti gli atti (anche quelli introduttivi) e documenti, per come previsto dall’art. 221, co. 3, d.l. n. 34/2020;
- la celebrazione a porte chiuse che il giudice può disporre per le udienze pubbliche, per come previsto dall’art. 23, co. 3, d.l. n. 137/2020;
- la trattazione scritta che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, per come previsto dall’art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020; tale modalità di trattazione può essere adottata anche per le udienze in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente, come ammesso dall’art. 23, co. 6, d.l. n. 137/2020;
- la celebrazione con collegamento da remoto che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, per come previsto dall’art. 221, co. 7, d.l. n. 34/2020; in questi casi, il giudice può essere collegato anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario (art. 23, co. 7, d.l. n. 137/2020);
- il giuramento telematico del c.t.u., con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico (in luogo dell’udienza all’uopo fissata), per come previsto dall’art. 221, co. 8, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità per gli organi collegiali di assumere le deliberazioni in camera di consiglio mediante collegamenti da remoto, per come previsto dall’art. 23, co. 9, d.l. n. 137/2020;
- la possibilità di deposito telematico degli atti e dei documenti da parte degli avvocati nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione, per come previsto dall’art. 221, co. 5, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità del cancelliere di rilasciare in forma di documento informatico la copia esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 475 c.p.c., previa istanza telematica dell’interessato, per come previsto dall’art. 23, co. 9 bis, d.l. n. 137/2020.
Bruno Capponi intervista Modestino Acone
Modestino Acone (classe 1936) è stato allievo del prof. Virgilio Andrioli. Ha concluso la sua carriera di professore ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Napoli “Federico II” dopo aver insegnato nelle Università di Bari, Teramo e Salerno. Nella X Legislatura è stato Senatore (PSI) occupandosi delle più importanti riforme della giustizia civile: i “provvedimenti urgenti” (legge n. 353/1990) e il giudice di pace (legge n. 374/1991). È stato anche relatore della legge sul procedimento amministrativo e sostenitore del principio della risarcibilità dei danni da lesioni di interessi legittimi. Esercita da sempre la professione di Avvocato.
1. Caro Modestino, sei uno dei più “anziani” – passami il termine – allievi del prof. Virgilio Andrioli, tra i massimi processualisti dello scorso secolo. Hai anche tu l’impressione che i giovani conoscano e richiamino poco gli scritti di questo grande Maestro?
L’insegnamento di Virgilio Andrioli – al pari di quello del Suo maestro Giuseppe Chiovenda – è, a mio avviso, tuttora attuale, caratterizzato come è dalla concretezza delle soluzioni cui perviene, mai indulgenti verso costruzioni teoriche fini a se stesse. I giovani processualcivilisti che, come tu ritieni, citano poco i suoi scritti, molte volte si accorgono solo alla fine del loro indagare che Andrioli, senza strepito e con parole semplici, era pervenuto al medesimo risultato. Andrea Proto Pisani, nel suo ultimo lavoro, ha messo bene in evidenza questa straordinaria qualità del Suo insegnamento.
2. Nella X Legislatura, Ti sei impegnato in prima fila, da Senatore, a favore delle “riforme urgenti” del processo civile (oltre che del giudice di pace). Cosa ti sembra sia rimasto di quelle novità, e cosa invece ti sembra sia mancato già da allora?
La X° legislatura fu molto importante per la giustizia civile. Conferì veste legislativa ai risultati di due iniziative culturali. Quella dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile e quella di Magistratura Democratica. La prima rivoluzionava il processo di cognizione, con l’introduzione di un rigido sistema di preclusioni nel giudizio di cognizione di primo grado e in quello di appello, non più novum iudicium, e con l’istituzione del “giudice unico in primo grado”, pomo della discordia tra i tre valorosi autori della proposta di riforma. La seconda riscriveva l’intera tutela cautelare introducendo una disciplina uniforme valida per tutte le misure cautelari.
Solo chi, come me, è sufficientemente “anziano” può comprendere oggi quanto siano state rivoluzionarie queste elaborazioni culturali della dottrina e della magistratura per rendere al cittadino una giustizia più efficiente. Mi toccò il solo compito di “assemblarle” e sono orgoglioso di avere contribuito a farle divenire leggi dello Stato, nonostante la caparbia ed ingiustificabile opposizione degli avvocati, miopemente conservatori, che ne fecero ritardare, per ben cinque anni, l’entrata in vigore.
3. La questione della magistratura onoraria sta esplodendo. Qualche anno fa, hai presieduto una commissione ministeriale che ha prodotto un testo che non ha poi avuto seguito. Come pensi possa essere risolto il problema dell’inquadramento degli onorari e della loro convivenza con i magistrati togati?
La X legislatura fu importante anche sul versante dell’ordinamento giudiziario perché introdusse una nuova figura di giudice onorario – il giudice di pace –, ostinatamente ostacolato, anche questa volta, dall’avvocatura che, ricordo, indisse uno sciopero di ben sei mesi, ritardando, senza alcuna reale giustificazione, l’entrata in vigore della riforma, non considerando che, ad un asfittico “conciliatore”, che oramai amministrava la giustizia per uno sparuto numero di controversie, veniva contrapposta la figura di un nuovo giudice onorario, cui si attribuiva una significativa competenza, oltre che per valore, per materia. Mi toccò anche per il “giudice di pace” il compito di condurre al traguardo quanto la scienza giuridica aveva elaborato. Oggi il giudice di pace decide oltre il 30% delle controversie civili!! E gli avvocati non storcono più il naso; anzi affollano le aule di questo giudice tanto da loro contrastato.
Ti ringrazio per il ricordo del lavoro della Commissione Ministeriale che ebbi l’onore di presiedere. Il lavoro si concretizzò in un testo che, come tu hai detto, non ha avuto alcun seguito; è rimasto abbandonato, sotto una pila di inutili carte, in qualche scaffale degli uffici del Ministero. Il lavoro della Commissione fu continuamente turbato da questioni sindacali o parasindacali, pretendendosi da taluni dei componenti la Commissione la collocazione dei giudici di pace nello status, se non giuridico, perché impedito dalla norma costituzionale, in quello previdenziale dei giudici nominati per concorso; come si sa la legge prevedeva, invece, la retribuzione a cottimo in base al numero delle decisioni.
Nonostante il tempo trascorso le posizioni contrapposte sono pressappoco le stesse.
4. Avremmo bisogno di una Corte Suprema che pronuncia principi di diritto effettivamente vincolanti? E, nella situazione attuale, che vincolo vedi possa nascere dalle altalenanti giurisprudenze della Corte?
È impossibile che una Corte di legittimità, che pronunzia ogni anno più di trentamila decisioni – tra sentenze ed ordinanze –, possa assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge (art.65, 1 comma, ord. giud.).
La selezione all’ingresso dei ricorsi non è stata in grado di evitare che non vengano segnalati casi di identità di questioni. Sono sotto gli occhi di tutti i contrasti, presenti anche tra le decisioni delle sezioni unite.
Insomma, se i ricorsi sono tanti, è impossibile pretendere l’uniformità delle decisioni e, di conseguenza, principi di diritto effettivamente vincolanti.
5. Si ha quasi l’impressione che la Corte di cassazione abbia litigato col diritto processuale civile: che ne pensi delle nullità processuali e dello “specifico pregiudizio” che la parte, che ha interesse a denunziarle, dovrebbe dimostrare?
Dici bene che si tratta di un vero e proprio litigio con il diritto processuale civile. Se la nullità esiste in iure, va dichiarata. Altrimenti ci affidiamo a valutazioni che possono essere del tutto arbitrarie. E tanto basta per essere scettici.
6. Si parla poco, se non tra gli addetti ai lavori, dei danni che il Coronavirus ha arrecato all’amministrazione della giustizia civile. Cosa pensi al riguardo? Come vedi le udienze da remoto e le cartolari? È diritto emergenziale, o resterà qualcosa anche in futuro?
Il Coronavirus ha soltanto accertato una situazione già divenuta irreversibile. Del resto il progresso tecnologico ha invaso, da tempo, non soltanto gli uffici giudiziari e gli studi professionali, quanto, soprattutto, l’intera vita delle persone. Non si tornerà indietro anche dopo la pandemia ed è un bene per tutti. Gli avvocati si sono consapevolmente accorti solo adesso della rivoluzione già avvenuta.
Sotto questo aspetto la riforma del 1990, eliminando le udienze di mero rinvio ed introducendo le memorie ex 183 c.p.c., ha previsto lo svolgimento di gran parte del processo di cognizione fuori della presenza in udienza, facendo salve, in sostanza, le sole udienze di assunzione delle prove.
Agli studiosi del processo civile compete il compito di spiegare in che modo l’ “oralità”, la “concentrazione” e l’ “immediatezza” di chiovendiana memoria sono presenti nel contesto del processo tecnologico, senza mettere in pericolo il principio di fondo che il processo “deve attribuire all’attore che ha ragione tutto quello e proprio quello che ha diritto di ottenere”. Sono convinto che il processo telematico è perfettamente compatibile con questi principi.
7. Hai da sempre esercitato la professione forense, e anche se ti piace scherzare su te stesso definendoti “avvocato di provincia”, pochi possono dire di avere la tua esperienza dei giudizi civili. Guardando a ritroso nella tua professione, quali considerazioni ti suggerisce la situazione attuale?
Caro Bruno, sono l’ultimo dei discepoli di un Maestro che non esitava a difendere le cause anche in pretura. Del resto sai meglio di me che per una questione controversa la difficoltà non si misura sul valore economico della stessa. L’esperienza del c.d. “avvocato di provincia” non è di importanza inferiore rispetto a quella di qualsiasi altro avvocato, come è testimoniato dai numerosi casi concreti che approdano in Cassazione.
Mi chiedi quali considerazioni la situazione attuale suggerisce.
Ebbene, ti dirò schiettamente quello che penso. Abbiamo consentito che non vi fosse un serio sbarramento per il conseguimento dei titoli necessari per essere abilitati all’esercizio della professione forense, favorendo indirettamente l’esplosione del numero delle controversie. Ma non è solo questo il motivo che ha condotto alla situazione attuale. Si è privilegiata esclusivamente la soluzione delle controversie per decisione del giudice. Non si è curata, invece, quella che in altri Paesi è la soluzione a cui si tende prioritariamente: la conciliazione della lite.
Tutti i tentativi del legislatore si sono rivelati vani perché la cultura della conciliazione deve soprattutto albergare nei difensori delle parti, prima ancora che nelle parti stesse. Si tratta, a mio avviso, di un problema culturale e morale che investe il fondamento stesso della professione di avvocato.
Siamo perciò giunti al punto che la Comunità Europea, visti vani gli ammonimenti delle Corti di Giustizia e considerata, nonostante gli interventi legislativi in tema di definizione alternativa delle controversie, “catastrofica” la condizione della giustizia civile in Italia (che, peraltro, incide su una non insignificante porzione del pil), ha condizionato l’erogazione di una notevole quota del recovery fund all’efficacia ed alla sostenibilità della “riforma” della giustizia civile.
8. Secondo Te, chi studia il processo civile può non conoscere la dimensione pratica del processo?
A domanda categorica rispondo altrettanto categoricamente: no, il processo è (anche) tecnica. Se non la si conosce, è impossibile praticarlo.
9. Secondo Te, che caratteristiche dovrebbe avere chi, ora, si vuole impegnare nello studio del diritto processuale civile?
Domanda difficilissima. Il profilo del processualcivilista moderno è quello di chi, oltre alla materia processuale, non può prescindere da una conoscenza ulteriore imposta anche dall’accresciuto numero dei diritti giustiziabili. La specializzazione diviene una vera e propria necessità.
10. Per concludere: cosa pensi si dovrebbe fare per migliorare l’attuale situazione? La tutela civile dei diritti ti sembra una realtà, o un’aspirazione che tende a entrare nel mito?
Abbiamo esaurito tutti gli escamotages per ridurre la durata delle controversie civili che è poi il primo ostacolo da superare per realizzare una giustizia “giusta”. Non conosco cosa proporrà il nostro governo alla Comunità Europea e rabbrividisco al solo pensiero che possa trattarsi dell’ennesima “variazione sul tema”.
Se l’Italia vuole incidere sull’attuale realtà, deve agire su vari fronti introducendo: a) un esame rigoroso per l’ammissione al corso di laurea in giurisprudenza; b) un esame, altrettanto rigoroso, per l’ammissione al patrocinio; c) il rafforzamento della conciliazione obbligatoria; d) l’ulteriore ampliamento della competenza dei giudici di pace.
Aggiungi, caro Bruno, una seria riforma delle circoscrizioni giudiziarie - riforma di difficile attuazione, sino ad ora ostacolata dagli interessi dei potentes locali -, con l’accentramento dei tribunali nei capoluoghi di provincia, visto che il nostro Paese è fornito ormai di un sistema articolato e moderno di strade e di mezzi di comunicazione e tenuto conto che si va verso un processo sempre più affidato, nel suo svolgimento, alle comunicazioni telematiche sia delle parti che del giudice.
Tutto questo potrà non bastare nell’immediato, ma in un tempo che non oso stabilire consentirà di allineare l’Italia agli altri Paesi della Comunità Europea.
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