ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Conferenza annuale di GenIUS (Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere) quest’anno dedicata a "Hate speech, digital discrimination, and the Internet of Platforms" (Venerdì 26 Marzo 2021, ore 14-18 ora italiana)
La conferenza annuale di GenIUS (Rivista di studi giuridici sull'orientamento sessuale e l'identità di genere) sarà quest'anno dedicata a "Hate speech, digital discrimination, and the Internet of Platforms" (Venerdì 26 Marzo 2021, ore 14-18 ora italiana). L'evento è integralmente in lingua inglese senza traduzione.
Chi e' responsabile per l'odio online? I social network come Facebook e Twitter sono sempre più sotto pressione affinché assumano un ruolo più attivo nella rimozione di contenuti offensivi e discriminatori. Allo stesso tempo, un eccessivo interventismo da parte delle piattaforme solleva delicate questioni di libertà d'espressione. Ne parleranno esperti quali Kaori Ishii (Chuo University, Giappone), Enrico Camilleri (Università degli Studi di Palermo), Jim Barker (Open University, Inghilterra), Luciana Goisis (Università degli Studi di Sassari), Ann Bartow (University of New Hampshire, Stati Uniti), Giovanni Ziccardi (Università degli Studi di Milano), Alexandre de Streel (Université de Namur, Belgio) e Guido Noto La Diega (University of Stirling, Scozia). Modera Angelo Schillaci (Università di Roma, La Sapienza). Porterà i saluti della Rivista Angioletta Sperti (Università degli Studi di Pisa).
La conferenza sarà' ospitata su Microsoft Teams Live ed è sufficiente cliccare su https://tinyurl.com/y63fm5mf all'ora indicata. Accesso gratuito. Si consiglia in ogni caso di registrarsi con anticipo su EventBrite all'indirizzo https://www.eventbrite.it/e/hate-speech-digital-discrimination-and-the-internet-of-platforms-registration-142517803587?utm-medium=discovery&utm-campaign=social&utm-content=attendeeshare&aff=esli&utm-source=li&utm-term=listing. In questo modo le persone riceveranno un'email col link, l'invito outlook e il promemoria.
QUI la locandina del convegno
Il diritto al vaccino. Il ritardo delle imprese farmaceutiche: i rimedi
di Alice Cauduro
Sommario: 1. Il ritardo nella consegna dei vaccini e la vecchia questione dell’accesso al farmaco - 2. L’accesso ai vaccini tra produzione e trasparenza. - 3. Dalle limitazioni alle esportazioni, alle limitazioni del brevetto: i rimedi di diritto pubblico esistenti. - 4. La strategia risolutiva: una limitazione del brevetto
1. Il ritardo nella consegna dei vaccini e la vecchia questione dell’accesso al farmaco.
La questione dei ritardi nelle consegne dei vaccini Covid-19 e delle conseguenze negative sulla campagna di vaccinazione nazionale è destinata a rimanere di estrema attualità per diverso tempo; eppure la negazione dell’accesso ai vaccini, e più in generale dei farmaci essenziali, è tanto attuale quanto datata, sistematica e di dimensioni globali. Da quando il progresso della medicina ci ha regalato lo strumento (prezioso) dei vaccini, gli enormi passi avanti della scienza non sono stati accompagnati dalla garanzia dell’accesso universale ai farmaci essenziali. Con l’espressione “accesso al farmaco” si vuole intendere la garanzia della salute, quale diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, a ricevere cure mediche con farmaci essenziali, nella duplice accezione (individuale e collettiva) di cui all’art. 32 c. 1 Cost.[1]. Ciò chiarito va premesso che lo scontro tra Stati e imprese farmaceutiche, cui assistiamo in questi giorni, rappresenta una dinamica di mercato (farmaceutico) già nota, non solo per i farmaci considerati innovativi; una dinamica esasperata certamente dalla dimensione globale che caratterizza una pandemia nel ventunesimo secolo. I nuovi farmaci brevettati e immessi in commercio circolano, infatti, in un mercato (di fatto) monopolistico che determina prezzi anche molto elevati e inaccessibili anche agli stessi Stati, come ha dimostrato l’esperienza internazionale degli ultimi decenni[2]. L’inaccessibilità attuale al vaccino Covid-19 non dipende (in questo momento, nell’Unione europea) dal prezzo troppo elevato, ma dalla mancata consegna delle forniture negoziate. Va chiarito che non siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, ma alla cronaca di una tragedia quotidiana e annunciata; ciò che rende inedito il fenomeno dell’accesso ai vaccini Covid19 è il carattere globale di questa emergenza sanitaria, mentre la questione della negazione dell’accesso ai farmaci, quindi anche ai vaccini, è nota da decenni agli Stati più poveri nel mondo e solo di recente anche agli Stati dell’Unione europea, in seguito all’immissione in commercio di farmaci innovativi per malattie un tempo considerate incurabili[3]. In un recente Regolamento Ue si è affermato che per risolvere l’emergenza Covid-19 «nell’ambito della sua strategia sui vaccini, la Commissione ha finanziato e si è assicurata la produzione di una quantità sufficiente di vaccini nell’Unione e ha concluso accordi con singoli produttori di vaccini per conto degli Stati membri dell’Unione al fine di assicurare a tutti gli Stati membri e alla loro popolazione un accesso tempestivo e a prezzi abbordabili ai vaccini contro la COVID-19, guidando nel contempo lo sforzo di solidarietà a livello globale. È essenziale che tali prodotti siano effettivamente consegnati dai produttori, in quanto nell’Unione i vaccini sono prodotti solo in un numero limitato di Stati membri»[4]. La disciplina della circolazione del farmaco nell’Unione europea trova riferimento nella Direttiva 2001/83/CE, relativa al Codice comunitario dei medicinali per uso umano[5] con la quale l’Unione regola la circolazione dei farmaci per il corretto funzionamento del mercato interno; come noto l’Unione europea nel settore della salute può svolgere solo azioni di sostegno, coordinamento e completamento delle azioni degli Stati membri (art. 6 TFUE). Occorre ricordare infatti che i vaccini, come gli altri farmaci, sono accessibili sul mercato in regime di libera circolazione delle merci e sono governati dalle regole proprietarie, siano essi farmaci essenziali o non essenziali[6]. La norma di riferimento della disciplina italiana dei farmaci è contenuta nella legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (1978) che si riferisce espressamente sia alla produzione sia alla distribuzione, attribuendo al legislatore statale la competenza a dettare norme per le attività dirette ad «indirizzare la produzione farmaceutica alle finalità del Servizio sanitario nazionale», «per la disciplina dei prezzi dei farmaci, mediante una corretta metodologia per la valutazione dei costi», per la «brevettabilità dei farmaci» e per «l’autorizzazione all’immissione in commercio»[7]. Solo alcune di queste attività sono ancora oggi disciplinate dalla normativa nazionale, molte infatti trovano riferimento in norme sovranazionali[8], e tuttavia i principi ispiratori del Servizio sanitario nazionale[9] informano ancora oggi il diritto farmaceutico nazionale, caratterizzando il collegamento tra bene farmaco, servizio sanitario nazionale e tutela della salute (artt. 3, 32, 41, 42 Cost.). Sebbene la natura giuridica del bene farmaco non sia espressamente chiarita da nessuna disposizione normativa, tracce del regime proprietario applicabile a questi beni si rinvengono nella stessa disciplina nazionale dei farmaci qui richiamata, dove l’espressione “funzione sociale del farmaco” (art. 29 c.1) ricorda quella costituzionale di “funzione sociale della proprietà” (art. 42 Cost.). Inoltre è interessante notare che, pochi mesi prima dell’istituzione del Ssn, la stessa Corte costituzionale, nel dichiarare illegittima la norma che vietava la brevettabilità dei farmaci, aveva evidenziato come la peculiarità dei beni immateriali (quale anche l’invenzione di un farmaco) «sconsiglia ogni meccanica inserzione negli schemi della proprietà privata o pubblica ex art. 42, primo comma, Cost. anche se per taluni aspetti l’assimilazione è possibile»[10]. E in effetti in dottrina si è anche attribuita all’accesso al bene farmaco un’accezione non proprietaria, evidenziando la strumentalità del bene farmaco alla tutela di un diritto fondamentale della persona[11]. La questione è estremamente attuale se solo si considera che il brevetto è riconosciuto come uno dei principali ostacoli all’accesso al farmaco e oggi questo fenomeno emerge con prepotenza anche nel dibattito sulla emergenza vaccinale.
Di recente si sono discusse in sede europea diverse strategie di contrasto al virus Covid-19: si è proposto “un passaporto vaccinale” per la circolazione delle persone, si è ipotizzata la possibilità di dare “priorità alla prima dose” sul modello del Regno Unito, si è deciso di limitare le esportazioni, oltre a ribadire il disappunto per gli inadempimenti delle imprese farmaceutiche. Dalle cronache non pare sia emersa però la volontà di attivare tutti gli strumenti di diritto pubblico che abbiamo a disposizione per garantire la produzione del fabbisogno necessario anche nel prossimo futuro, pare infatti che la Presidente della Commissione europea abbia solo affermato di essere favorevole ad un sistema volontario di condivisione delle licenze, senza prendere in considerazione lo strumento delle licenze obbligatorie oppure la limitazione temporanea del brevetto; il presente contributo intende offrire un’analisi degli strumenti di diritto pubblico per garantire nel breve e nel lungo periodo l’accesso ai vaccini Covid-19.
2. L’accesso ai vaccini tra produzione e trasparenza.
La legge 833 del 1978 afferma che «la produzione e la distribuzione dei farmaci devono essere regolate secondo criteri coerenti con gli obiettivi del Servizio sanitario nazionale, con la funzione sociale del farmaco e con la prevalente finalità pubblica della produzione», lasciando spazio anche ad una forma di indirizzo pubblico nella produzione farmaceutica laddove si riferisce alle attività volte ad «indirizzare la produzione farmaceutica alle finalità del servizio sanitario nazionale»[12]. Nel tempo il ruolo pubblico nell’accesso al farmaco si è andato limitando alla forma della regolazione, sia intesa come vigilanza sulla qualità, sia come strumento per governare le dinamiche di mercato. Anche il settore produttivo farmaceutico ha risentito, dagli anni Ottanta-Novanta dello scorso secolo, del condizionamento della disciplina sulla libera circolazione di merci e capitali, sulla tutela della concorrenza e più in generale del restringimento dello spazio di programmazione economica pubblica, in favore di un intervento pubblico di tipo regolatorio. Fatta eccezione per l’attività farmaceutica dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare, in grado oggi di garantire la produzione di alcuni farmaci e presisi sanitari, non abbiamo oggi esperienza nazionale di impresa farmaceutica pubblica, sebbene attraverso il finanziamento della ricerca scientifica vi sia un significativo intervento pubblico nella ricerca e nello sviluppo di farmaci[13]. Oggi l’intervento pubblico nella produzione del farmaco si esprime nella disciplina europea dei farmaci orfani, che prevede diversi strumenti di incentivo alla ricerca e alla produzione dei farmaci destinati alla cura di malattie rare, poiché, come affermano gli stessi considerando del regolamento, senza un intervento pubblico, questi farmaci rischiano di non essere prodotti poiché sono destinati ad un numero molto ristretto di pazienti tanto da rischiare di rendere poco remunerativi gli investimenti nella loro ricerca[14]. Va ricordato che l’ipotesi di nazionalizzare l’industria farmaceutica non è una novità nel dibattito economico italiano: l’economista Federico Caffè, un anno prima dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale, affermava di non vedere la ragione per la quale non si dovesse nazionalizzare almeno l’industria farmaceutica[15]. E qualche anno prima anche un altro economista italiano affrontava (in uno scritto sulla strategia delle riforme) «il problema farmaceutico», collegando «brevetto farmaceutico e legge antimonopolio»[16]; definiva incandescente la polemica di quegli anni sul brevetto farmaceutico e sosteneva che non potesse essere risolta «a favore della piena e indiscriminata applicazione del brevetto» in ragione del fatto che l’Italia, a differenza di altri Stati non aveva una legge antimonopolistica, aggiungendo che in assenza di una legge antimonopolistica è estremamente pericoloso estendere il brevetto ai farmaci anche perché (come avrebbe in seguito confermato l’esperienza internazionale) «spesso i monopoli, in questo settore, sono di carattere mondiale e comunque extraitaliano: e se essi non sono sempre riusciti a spartirsi con facilità il nostro territorio, ciò si deve anche alla mancanza di brevetto, la quale rende arduo un controllo di tutti i produttori»[17]; quell’analisi economica - ancora oggi attuale - proseguiva considerando che l’introduzione del brevetto farmaceutico avrebbe dovuto essere condizionata non solo alla previsione di una legislazione antimonopolistica, ma anche dalla «introduzione dell’istituto delle licenze obbligatorie: cioè del diritto, per qualsiasi produttore, a fabbricare la specialità coperta dal brevetto pagando un canone – fissato in una equa percentuale – a chi ha il brevetto»[18]. Nel marzo del 1978 la Corte costituzionale avrebbe invece dichiarato illegittima la norma che vietava la brevettabilità dei farmaci sostenendo: l’assenza di esperienza internazionale sul legame tra brevetto e aumento dei prezzi; la necessità del brevetto per gli investimenti nel progresso della ricerca scientifica; e (in ogni caso) la presenza di interventi autoritativi[19].
Una delle più attuali questioni che attengono al ruolo pubblico nella garanzia dei farmaci essenziali è inoltre quella della trasparenza e pubblicità dell’amministrazione pubblica farmaceutica, sia se intesa come necessità di condivisione dei dati della ricerca scientifica secondo un modello aperto di accessibilità totale alle informazioni, sia come negoziazione pubblica trasparente. Sul primo aspetto richiamato va ricordato che la trasparenza amministrativa si realizza anzitutto attraverso la pubblicità e l’accessibilità delle informazioni detenute dalla pubblica amministrazione; nell’ordinamento italiano il principio generale di trasparenza, come definito nella disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni in capo alle pubbliche amministrazioni, è declinato anche in «funzione di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» e «concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche»[20]. La disciplina richiamata prevede nuove forme di accesso ai dati e alle informazioni per l’ «accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche»[21]. La trasparenza, la pubblicità e l’accesso alle informazioni sono istituti giuridici che interessano anche l’attività dell’amministrazione pubblica farmaceutica. Si discute della necessità di una condivisione delle informazioni scientifiche secondo un modello di trasparenza e pubblicità che la pubblica amministrazione deve garantire anche attraverso la pubblicazione dei dati e delle informazioni fornite dalle imprese farmaceutiche in sede di negoziazione[22]. Una necessità di trasparenza che va intesa come interna ai rapporti tra imprese farmaceutiche e amministrazione farmaceutica (per l’Italia l’AIFA), non tanto sui dati che l’impresa è tenuta a mettere a disposizione all’amministrazione pubblica, quanto nella valutazione della reale innovatività e quindi del “giusto prezzo” del nuovo farmaco. Una trasparenza che è poi anche esterna, anzitutto verso gli utenti del servizio pubblico, e che si traduce anzitutto nell’obbligo di rendere comprensibili, oltre che conoscibili, le informazioni; in tale senso si possono considerare negativamente le implicazioni che la segretezza brevettuale ha sulla trasparenza amministrativa farmaceutica. In ogni caso si assiste oggi a una crescente sensibilità verso questo tema, con una mobilitazione alla rivendicazione di una maggiore trasparenza[23]. Anche l’OMS e la Commissione europea hanno affermato che la trasparenza nella negoziazione dei nuovi farmaci è una delle strategie necessarie per garantire prezzi accessibili (e diremmo oggi, anche l’approvvigionamento)[24]. La trasparenza amministrativa in materia farmaceutica è funzionale alla garanzia dell’accesso al farmaco attraverso la condivisione delle conoscenze scientifiche e una informazione comprensibile; in particolare la trasparenza delle informazioni scientifiche appare come una condizione necessaria ad una corretta decisione dei bisogni reali da parte dell’amministrazione pubblica. Occorre infine ricordare che la negoziazione del prezzo dei vaccini, come degli altri farmaci rimborsati dal Servizio sanitario nazionale, avviene tra l’amministrazione pubblica nazionale (per l’Italia, AIFA) e l’impresa farmaceutica; di recente si è chiarito che, diversamente dalle procedure di gara, nel procedimento di negoziazione per la fissazione del prezzo dei farmaci coperti da brevetto, la pubblica amministrazione «punta a perseguire contemporaneamente una pluralità di obiettivi, quali, da un lato, la salute della popolazione, il suo accesso effettivo ai farmaci, il contenimento della spesa farmaceutica, dall’altro il supporto alle aziende che investono in farmaci innovativi»[25]; si tratta di farmaci ad acquisto pubblico, accessibili gratuitamente dai pazienti attraverso il Servizio sanitario nazionale[26]. Vanno perciò distinte le ipotesi in cui è possibile la competizione sui prezzi tramite procedure di evidenza pubblica, da quelle in cui «le procedure proconcorrenziali per converso non sono applicabili ed utili per il raggiungimento degli obiettivi sopra indicati», si tratta delle ipotesi di «farmaci coperti da brevetto che hanno già ottenuto l’autorizzazione alla immissione in commercio e che richiedono di poter essere prescritti a carico del Servizio sanitario nazionale, sulla base di un prezzo di rimborso che tenga anche conto del loro potenziale terapeutico innovativo. In tale segmento non c’è concorrenza fra i produttori perché ci sono situazioni di monopolio»[27]; si comprende che il ragionamento richiamato possa essere riferito anche all’attuale caso degli acquisti dei vaccini Covid-19.
3. Dalle limitazioni alle esportazioni, alle limitazioni del brevetto: i rimedi di diritto pubblico esistenti.
Di fronte alla negazione dell’accesso ai vaccini Covid-19 la politica europea si sta concentrando sulla limitazione delle esportazioni di prodotti dal mercato interno, per impedire che le forniture destinate agli Stati membri vengano in parte destinate ad altri Stati. In questa strategia si inserisce il recente Regolamento di esecuzione (UE) 2021/111 della Commissione del 29 gennaio 2021 che subordina l’esportazione di taluni prodotti alla presentazione di un’autorizzazione all’esportazione[28]. Di interesse richiamare tre punti dei considerando: il punto 3 dove si dice che: «Nonostante il fatto che sia stato concesso un sostegno finanziario per aumentare la produzione, alcuni produttori di vaccini hanno già annunciato che non saranno in grado di fornire i quantitativi di vaccini destinati all’Unione che avevano garantito, il che costituisce una potenziale violazione dei loro impegni contrattuali. Vi è inoltre il rischio che i vaccini prodotti nell’Unione siano esportati dall’Unione stessa, in particolare verso paesi non vulnerabili. Tale potenziale violazione degli impegni contrattuali assunti dalle industrie farmaceutiche comporta il rischio di penurie e quindi di ritardi all'interno dell’Unione. Questi ritardi perturbano gravemente il piano dell’Unione di vaccinare la sua popolazione»; il punto 4 dove si sostiene che «Nell’attuale situazione, caratterizzata dal fatto che la produzione e la fornitura di vaccini sono ancora in fase di sviluppo e dalla conseguente temporanea penuria a livello mondiale, è importante garantire il necessario livello di trasparenza in merito ai quantitativi di vaccini oggetto del presente regolamento che sono stati prodotti e ai quantitativi consegnati, al fine di sostenere ulteriormente l'attuazione ordinata delle campagne di vaccinazione negli Stati membri ma anche altrove, in paesi che dipendono dai vaccini contro la COVID-19 prodotti nell’Unione e dall’Unione»; e infine il punto 5 dove si ritiene che «Per porre rimedio a una situazione critica e garantire la trasparenza, è nell'interesse dell’Unione adottare una misura immediata di durata limitata per garantire che le esportazioni dei vaccini contro la COVID-19 oggetto degli accordi preliminari di acquisto (APA) con l'Unione siano subordinate a un'autorizzazione preventiva, in modo che le forniture nell’Unione siano adeguate a soddisfare la domanda vitale, senza tuttavia incidere sugli impegni assunti dall’Unione a livello internazionale a tale riguardo». Ad oggi non sono stati invece utilizzati nell’Unione europea gli strumenti di diritto pubblico a garanzia dell’accesso al farmaco previsti in caso di emergenza sanitaria anche a limitazione temporanea della tutela brevettuale, tutela che peraltro (va ricordato) non ha sempre caratterizzato il regime proprietario e la circolazione del farmaco in Italia. Come già ricordato in Italia fino al marzo 1978 era vigente una norma che vietava la brevettabilità dei farmaci e solo in seguito all’intervento della Corte costituzionale tale divieto venne meno[29]. In quell’occasione la giurisprudenza costituzionale affermò che l’esperienza dei paesi che ammettevano «la brevettabilità dei prodotti farmaceutici […] dimostra come non sia possibile stabilire un legame di causa-effetto tra brevettabilità e livello dei prezzi, risultando ovunque il mercato dei medicinali largamente corretto da interventi autoritativi», ritenendo perciò giustificata «l’attribuzione e la commisurazione dell’esclusività nei limiti necessari a garantire la funzione di remunerazione di attività e investimenti dedicati all’innovazione» (Corte Cost. n. 20/1978). Ma proprio l’esperienza internazionale ha dimostrato nel tempo e dimostra anche oggi il legame tra prezzo elevato e brevetto, inoltre il mercato globale dei farmaci non è “corretto” da interventi autoritativi sui prezzi (come avveniva invece con la determinazione autoritativa dei prezzi vigente negli anni Settanta)[30]. Poiché fino alla scadenza del brevetto il farmaco generico non può essere commercializzato, il mercato dei farmaci si caratterizza per la presenza di monopoli di fatto che determinano prezzi elevati[31], o in ogni caso (come l’attuale emergenza sanitaria dimostra) il rischio che il farmaco - sebbene prodotto e venduto sul mercato - sia inaccessibile a causa di decisioni unilaterali dell’impresa farmaceutica. Nonostante la durata ventennale della copertura brevettuale, spesso anche prorogata, le industrie farmaceutiche lamentano che tale tempo sia insufficiente ad ammortizzare i costi elevati della loro ricerca e adottano diverse strategie per evitare l’ingresso nel mercato dei farmaci generici e mantenere i diritti di esclusiva; spesso le domande di brevetto vengono presentate in prossimità della scadenza del brevetto di un farmaco e hanno ad oggetto invenzioni che consistono in modifiche non significative della versione base dello stesso; inoltre molte delle imprese farmaceutiche che operano sul mercato internazionale del farmaco sono società per azioni quotate che ottengono guadagni azionari con l’immissione in commercio di prodotti innovativi coperti da brevetti, oltre che con la vendita a prezzi di monopolio[32].
La disciplina del brevetto del farmaco trova riferimento nella normativa internazionale nell’ accordo Trips (1994) che prevede “eccezioni ai diritti conferiti” (art. 30) e “altri usi senza il consenso del titolare”, ivi compreso l’uso da parte della pubblica amministrazione o di terzi da questa autorizzati (art. 31)[33]. In occasione della conferenza del WTO tenuta a Doha (2001) venne adottata la dichiarazione sull’accordo Trips e la salute pubblica, sulla base del riconoscimento della gravità dei problemi di salute pubblica che affliggono molti paesi “in via di sviluppo o sottosviluppati” (specialmente per l’ HIV/AIDS, la tubercolosi e altre pandemie); si riconobbe che i membri del WTO con insufficienti o assenti capacità di produzione nel settore farmaceutico possono avere difficoltà nell’utilizzare effettivamente le licenze obbligatorie previste dall’Accordo Trips (§ 6). Così, con una successiva decisione del WTO (2006), è stata data attuazione al paragrafo 6 della dichiarazione di Doha consentendo agli stati membri di esportare i medicinali brevettati verso i paesi terzi che non hanno capacità di fabbricazione nel settore farmaceutico, attraverso le licenze obbligatorie[34]. L’utilizzo di strumenti come le licenze obbligatorie, la limitazione temporanea dei diritti di esclusiva brevettuale o l’autoproduzione si giustificano anche per garantire l’accesso ai nuovi farmaci ad alto costo rimborsati dal Servizio sanitario nazionale. La disciplina richiamata prevede la possibilità di derogare alle regole brevettuali per ragioni di emergenza sanitaria, con una clausola che, sebbene immaginata per gli Stati più poveri, potrebbe trovare applicazione anche in favore degli Stati più ricchi ogni qual volta vi sia una questione di negazione dell’accesso al farmaco; infatti come ipotesi di “emergenza sanitaria” andrebbe intesa ogni negazione dell’accesso, anche quando il farmaco risulta inaccessibile perché troppo costoso per le stesse finanze pubbliche; in altre parole l’utilizzo degli strumenti di diritto pubblico previsti dall’accordo Trips si può giustificare anche per garantire l’accesso ai nuovi farmaci ad alto costo rimborsati dal Servizio sanitario nazionale (fenomeno ormai ampiamento diffuso sebbene poco noto). E in effetti, nel recente caso del farmaco Sovaldi, si discusse della possibilità di utilizzare le licenze obbligatorie per garantire la produzione del farmaco sufficiente per la cura di tutti i pazienti (e tuttavia questo strumento non venne utilizzato, né a livello nazionale, né europeo). Anche per garantire l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 si potrebbero utilizzare strumenti come le licenze obbligatorie. Sulla questione si sta concentrando l’Iniziativa dei cittadini europei (art. 11 par. 4 TUE[35]) con la quale si chiede alla Commissione europea di «proporre una normativa intesa a: garantire che i diritti di proprietà intellettuale, compresi i brevetti, non ostacolino l'accessibilità o la disponibilità di qualsiasi futuro vaccino o trattamento contro la COVID-19; garantire che la legislazione dell'UE in materia di esclusività dei dati e di mercato non limiti l’efficacia immediata delle licenze obbligatorie rilasciate dagli Stati membri; introdurre obblighi giuridici per i beneficiari di finanziamenti dell’UE per quanto riguarda la condivisione di conoscenze in materia di tecnologie sanitarie, di proprietà intellettuale e/o di dati relativi alla COVID-19 in un pool tecnologico o di brevetti; introdurre obblighi giuridici per i beneficiari di finanziamenti dell'UE per quanto riguarda la trasparenza dei finanziamenti pubblici e dei costi di produzione e clausole di trasparenza e di accessibilità insieme a licenze non esclusive»[36].
4. La strategia risolutiva: una limitazione del brevetto
Per concludere si possono mettere in evidenza le contraddizioni nel dibattito sul ritardo nella consegna dei vaccini. La stessa Commissione europea (che ha negoziato l’acquisto delle forniture per gli Stati membri) ha lamentato, oltre alla scorrettezza delle imprese farmaceutiche, anche la scarsa trasparenza che è l’amministrazione pubblica a dover garantire. Si segnala, sul punto, un recente intervento pronunciato al Parlamento europeo che ha denunciato le responsabilità della Commissione europea nella questione dei vaccini[37]. Sulla trasparenza delle informazioni scientifiche è poi di interesse ricordare quanto di recente affermato dalla CGUE: «se è vero che l’articolo 39, paragrafo 3, dell’Accordo TRIPS impone ai membri di tale accordo di tutelare i dati relativi a prove o altri dati segreti, la cui elaborazione comporti un considerevole impegno, da sleali usi commerciali, siffatta circostanza non è, di per sé, tale da far ritenere che i dati contenuti in una relazione sulla sperimentazione clinica, come la relazione controversa, siano dati la cui divulgazione potrebbe pregiudicare gli interessi commerciali della persona che li ha prodotti»[38]. Occorre poi osservare che non sono ancora disponibili informazioni sulla durata nel tempo degli effetti del vaccino, né sulla sua capacità di impedire che la persona immunizzata possa trasmettere il virus; in attesa che la comunità scientifica disponga di queste informazioni le istituzioni dovrebbero agire sulla base delle evidenze e delle conoscenze acquisite in questi mesi; va ricordato a tal proposito che la tutela della salute non si realizza solo con i “farmaci”, ma anzitutto con la cura della persona attraverso la prossimità della cura territoriale, l’accesso all’acqua, all’istruzione, ai trasporti pubblici di qualità, a tutti quei diritti a prestazione che la pubblica amministrazione deve garantire, assieme al diritto alle cure mediche in senso stretto: la cura della persona non vive di soli farmaci. Infine è chiara l’importanza strategica di un intervento pubblico nella produzione dei vaccini Codiv-19 che avrebbe dovuto far attivare le autorità nazionali e europee per un coordinamento non solo nella gestione dell’acquisto dei vaccini, ma anche per l’utilizzo di licenze obbligatorie a livello europeo. Si comprende infatti che l’utilizzo in sede europea degli strumenti di diritto pubblico indicati dalla richiamata disciplina dell’accordo TRIPS avrebbe ben altra efficacia rispetto all’utilizzo da parte di un singolo Stato membro, considerato anche che le imprese farmaceutiche non hanno alcun obbligo giuridico di stipulare contratti di fornitura dei vaccini[39]. Si ricorda che l’intervento pubblico nella produzione di beni sanitari essenziali, come i vaccini, è stato decisivo per la storia dell’innovazione sanitaria italiana per la cura di numerose malattie tra cui vaiolo, colera, malaria, tubercolosi; per risolvere l’epidemia di malaria il governo giolittiano promosse una imponente campagna di vaccinazione attraverso l’uso del c.d. chinino di Stato, così chiamato perché prodotto dalla Farmacia militare di Torino e diffuso sul territorio nazionale tramite le rivendite dei tabacchi[40]. Non si ignora certo che la complessità tecnologica della produzione dei vaccini, specie dei vaccini innovativi per il contrasto del Covid-19, richiede strutture produttive altamente specializzate e licenze obbligatorie che permettano di autorizzare solo le imprese in grado di produrre; si vuole però evidenziare la necessità improrogabile di utilizzare gli strumenti di diritto pubblico previsti per aumentare la produzione. La decisione della Commissione europea di limitare le esportazioni non è una soluzione risolutiva nel breve e lungo periodo, non solo perché non risolve il problema della produzione, che rimane insufficiente anche vietando le esportazioni, ma anche perché la questione dell’accesso alle vaccinazioni ha carattere globale e ogni soluzione locale (regionale, nazionale o europea) non permette un contrasto efficace della pandemia, ma anzi vi è il rischio che un’immunizzazione “a macchia di leopardo” possa moltiplicare le varianti del virus in circolazione nel mondo. In altri termini, non solo il controllo delle esportazioni non risolve la questione della scarsità della produzione rispetto al fabbisogno nazionale e europeo, ma ignora anche la dimensione collettiva della tutela della salute, con un’azione amministrativa inefficiente rispetto al contrasto della diffusione del virus. La necessità di raggiungere un’immunità globale evidenzia quanto sia rischiosa e fallimentare ogni forma di “regionalismo vaccinale”, tanto all’interno quanto all’esterno dei confini nazionali, e mostra come la strategia risolutiva sia quella della limitazione del brevetto[41].
[1] Sull’ “accesso al farmaco” sia consentito rinviare a A. Cauduro, L’accesso al farmaco, Milano, 2017.
[2] Si pensi anzitutto, ma non solo, al caso della negazione dell’accesso ai farmaci per la cura dell’HIV in Sudafrica.
[3] Si pensi alla questione delle cure per l’HIV in Sudafrica, al caso dell’ebola, alla carenza di antibiotici; sulle questioni più recenti di negazione di accesso ai farmaci innovativi a causa del costo elevato anche per gli Stati dell’Unione europea si ricorda la questione del farmaco Sovaldli per la cura dell’epatite C.
[4] Così affermato nel Regolamento di esecuzione (UE) 2021/111 della Commissione europea del 29 gennaio 2021.
[5] La Direttiva ha trovato recepimento in Italia con il D. Lgs. 24 aprile 2006, n. 219.
[6] Sul concetto di farmaco essenziale si rinvia a G. Tognoni, I farmaci essenziali come indicatori di diritto, in Giornale italiano di farmacia clinica, 12, 1998, p. 116; L. Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Roma-Bari, 2019, p. 251; poi anche ID, La costruzione della democrazia, Roma-Bari, 2021, p. 380 e sia consentito anche A. Cauduro, L’accesso al farmaco, Milano, 2017, cap. I e II.
[7] Così l’art. 29 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 rubricato Disciplina dei farmaci.
[8] Si rinvia qui alla Direttiva 20011/83/CE recepita in Italia con il d.lgs. 24 aprile 2006, n. 219; al Trade related aspect of intellectual property rights (c.d. Accordo Trips), firmato a Marrakech il 15 aprile 1994, ratificato dall’Italia con legge 29 dicembre 1994, n. 74; al Regolamento CE n. 726/2004.
[9] Art. 1 della legge 23 dicembre 1978, n. 833.
[10] Afferma infatti la Corte Cost. n. 20/1978 che “la peculiarità della categoria dei beni immateriali, suscettibili di simultaneo e plurimo godimento (del resto lo stato di res communis omnium è quello definitivo di tutte le invenzioni, siano esse brevettabili o meno), sconsiglia ogni meccanica inserzione negli schemi della proprietà privata o pubblica ex art. 42, primo comma, Cost. anche se per taluni aspetti l’assimilazione è possibile”.
[11] Il riferimento è a S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, ed. 1981, pp. 484 - 485, specie dove evidenzia che il diritto all’accesso ai farmaci «sfida continuamente le logiche proprietarie affidate in primo luogo al diritto dei brevetti» e che «l’accesso alla conoscenza in questa prospettiva diviene una condizione necessaria per impedire che la salute sia governata esclusivamente da chi la considera una merce da comprare sul mercato, e non un diritto fondamentale della persona»; sul tema anche L. Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Roma-Bari, 2019, p. 246 ss. dove parla dei farmaci come beni vitali, sostenendo che «dovrebbero essere costituzionalizzati come beni sociali fondamentali» (p. 251), e sul punto già ID, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, tomo I, Roma-Bari ed. 2012 e, da ultimo, ID, La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Roma-Bari, 2021.
2012, p. 778.
[12] Art. 29 lett. a) della legge 23 dicembre 1978, n. 833.
[13] Sul tema delle vere innovazioni farmaceutiche e sullo Stato finanziatore si veda M. Mazzucato, Lo stato innovatore, Roma-Bari, 2014, p. 93, dove ricorda che «le nuove entità molecolari dichiarate di rilevanza prioritaria sono nate in laboratori finanziati con fondi pubblici, anche se le aziende farmaceutiche private giustificano gli esorbitanti prezzi di vendita dei loro prodotti con la necessità di rientrare negli ingenti costi sostenuti per la R&S». Sul punto sia consentito rinviare a A. Cauduro, La garanzia amministrativa della salute e i suoi significati, in federalismi.it, n. 1/2021, specie al par. 4 dedicato alla Produzione dei beni sanitari essenziali, p. 184 ss.
[14] Così il contenuto degli stessi considerando del Regolamento (CE) n. 141/2000 relativo ai farmaci orfani.
[15] Il riferimento è a un’intervista rilasciata dall’economica alla rivista “Sinistra 77”, dal titolo “1947-1977: gli stessi errori?”.
[16] F. Forte, La strategia delle riforme, Milano, 1968, p. 1371 individuava infatti nel brevetto un “problema farmaceutico” (così il titolo del § 13, p. 370), affermando che «la spirale fra prezzi che consentono alti guadagni differenziali ed esercito di produttori e commercianti che sono attratti da facile guadagno, può essere spezzata agendo nel campo della legislazione sui brevetti».
[17] Ibidem, cit., pp. 371- 372.
[18] Ibidem, cit., p. 372. La disciplina nazionale dell’istituto della licenza obbligatoria è contenuta nel D. Lgs. n. 30/2005; la disciplina europea delle licenze obbligatorie nel settore farmaceutico è contenuta nel Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 maggio 2006 n. 816/2006/CE.
[19] Coì la Corte Cost. n. 20/1978; sul punto si rinvia a C. Casonato, I farmaci, tra speculazioni e logiche costituzionali, in Riv. AIC, 4/2017. Per una ricostruzione del rapporto tra brevetto-prezzi dei farmaci, sui poteri autoritativi in materia di prezzi e sulle licenze obbligatorie sia consentito rinviare a A. Cauduro, L’accesso al farmaco, Milano, 2017. Per un’analisi economica del legame tra prezzi e brevetti si vedano R. Levaggi, S. Carpi, Economia sanitaria, Milano, 2008.
[20] Art. 1, c. 1 e 2, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33. recante Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, come succ. mod. dal D. Lgs. 25 maggio 2016, n. 97 recante Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo.
[21] Così recita l’art. 1, c.1. La norma prevede tuttavia che l’istanza sia presentata «nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall’art. 5 bis», rubricato esclusioni e limiti all’accesso civico.
[22] Per un riferimento al Cons. Stat, 17 marzo 2017, n. 1213, che ha affrontato la questione del rapporto tra diritto di accesso e clausola di riservatezza in ambito farmaceutico, si rinvia all’analisi su «il caso paradigmatico della diversa composizione del conflitto tra trasparenza e riservatezza» (così il titolo del par. 4) di F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declaratoria retorica, in federalismi.it., 10/2019, p. 22 ss., specie dove osserva che «…il problema del contemperamento o bilanciamento non ha minimamente ragione di porsi a fronte di un interesse alla conoscenza che si propone come strumentale alla protezione di una situazione giuridica soggettiva qualificata ai sensi dell’art. 24 comma settimo. La stessa giurisprudenza non ha d’altronde difficoltà ad affermare in linea di principio l’astratta prevalenza dell’accesso difensivo sulle esigenze di riservatezza delle imprese. Ciò che va piuttosto sottolineato della giurisprudenza maturata sulle esigenze di riservatezza commerciale e industriale è l’emergere in seno ad essa di una tendenza a riappropriarsi dei margini di valutazione discrezionale con riferimento al giudizio di necessità della conoscenza per la difesa della situazione soggettiva, con il rischio di assoggettare nuovamente ad un bilanciamento con i contrapposti interessi, sotto un diverso profilo, l’esigenza defensionale». La giurisprudenza ha riconosciuto che la presenza di una clausola di riservatezza rende legittimo negare l’accesso documentale per la conoscenza dell’accordo di rimborsabilità e prezzo stipulato tra una impresa farmaceutica e l’AIFA; sul punto cfr. Cons. Stat, 17 marzo 2017, n. 1213, richiamato poi anche in Cons. Stat., 31 dicembre 2020, n. 8543, che ha affermato, nel caso di specie che ha visto di nuovo interessata l’AIFA, che «Tale clausola deve ritenersi valida e vincolante in relazione agli interessi commerciali dell’impresa controinteressata, in quanto utile all’ottenimento dei risparmi conseguiti, con la conseguenza della opponibilità ai fini della preclusione all’accesso da parte dell’operatore economico che potrebbe avvalersi a fini concorrenziali della conoscenza delle condizioni economiche praticate». Per un commento a Cons. Stat., 31 dicembre 2020, n. 8543 si veda I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale, in giustiziainsieme.it, disponibile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1531-strumentalita-dell-accesso-difensivo-e-sindacato-giurisdizionale.
[23] Sul punto si segnala la petizione presentata dall’iniziativa internazionale di All trials; il testo della petizione è disponibile su http://www.alltrials.net/petition/
[24] Si rinvia alla risoluzione dell’OMS del 28 maggio 2019, A72/A/CONF/2 Rev.1, approvata alla 62º WHA dal titolo «Improving the transparency of markets for medicines, vaccines, and other health products» individua tra le azioni necessarie: «1. 1. Take appropriate measures to publicly share information on the net prices of health products. […] 1.3. Work collaboratively to improve the reporting of information by suppliers on registered health products, such as reports on sales revenues, prices, unit sold, marketing cost, and subsides and incentives. […] 1. 5. Improve national capacities, including through international cooperation»; si rinvia inoltre al European Commission Report of the Expert Panel on effective ways of investing in Health (EXPH) 2018, «Innovative payment models for high-cost innovative medicines», p. 40, dove si dice che «the are several claims that price setting should be more transparent and should not be left to industry alone».
[25] Cons. Stat, 17 marzo 2017, n. 1213. Il caso aveva ad oggetto la negoziazione del prezzo e della rimborsabilità dei farmaci Sovaldi e Harvoni.
[26] I farmaci innovativi sono indicati dalla letteratura economica come i «principali responsabili dell’aumento della spesa farmaceutica ospedaliera», così N. Dirindin, E. Caruso, Salute ed economia. Questioni di economia e politica sanitaria, Bologna, 2019, p. 151.
[27] Ancora Cons. Stat, 17 marzo 2017, n. 1213.
[28] Si ricorda che il Regolamento (CE) n. 816/2006 del Parlamento e del Consiglio del 17 maggio 2006 ha già individuato la disciplina «concernente la concessione di licenze obbligatorie per brevetti relativi alla fabbricazione di prodotti farmaceutici destinati all’esportazione verso paesi con problemi di salute pubblica».
[29] L’art. 14, r.d. 29 giugno 1939, n. 1127 fu dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Cost., n. 20/1978.
[30] Sul monopolio dell’impresa innovatrice, e in generale sul mercato farmaceutico, si rinvia a R. Levaggi. S. Carpi, in op. cit., p. 310. Si vedano inoltre N. Dirindin, P. Vineis, Elementi di economia sanitaria, Bologna, 2004, dove si dice che «l’esperienza storica e l’analisi teorica mettono tuttavia in evidenza l’esistenza di numerose situazioni che impediscono ai mercati di operare come mercati di concorrenza perfetta. La presenza di monopoli o la carenza di trasparenza, ad esempio, possono pregiudicare pesantemente la capacità della mano invisibile di raggiungere l’efficienza: siamo in questo caso di fronte a quelli che sono definiti fallimenti (o malfunzionamenti) del mercato».
[31] Sul punto R. Levaggi, S. Carpi, in op. cit.
[32] Si pensi al caso della Gilead SpA che, in seguito al processo di acquisizione della Pharmasset SpA (l’impresa che aveva scoperto e brevettato il farmaco Sovaldi) ha ottenuto ingenti guadagni azionari, oltre che dalla vendita del farmaco ad un prezzo maggiore di quello che era stato immaginato originariamente dall’impresa Pharmasset. Sulla questione dell’insostenibilità economica dell’acquisto del farmaco Sovaldi si veda l’Editoriale AIFA del 18 luglio 2014 “Dall’Etica del profitto al profitto dell’Etica: sofosbuvir come esempio di farmaco dal costo insostenibile, una sfida drammatica per i sistemi sanitari e un rischio morale per l’industria”.
[33] L’Accordo Trips è stato firmato a Marrakech il 15 aprile 1994, ratificato dall’Italia con legge 29 dicembre 1994, n. 747 e approvato dal Consiglio con decisione 94/800/CE del 22 dicembre 1994. L’art. 27 par. 1 dell’Accordo stabilisce che “possono costituire oggetto di brevetto le invenzioni, di prodotto o di procedimento, in tutti i campi della tecnologia, che siano nuove, implichino un’attività inventiva e siano atte ad avere un’applicazione industriale”. Sulla clausola di Doha e le licenze obbligatorie sia consentito rinviare a A. Cauduro, L’accesso al farmaco, cit.
[34] Così riporta la Relazione alla proposta della Decisione del Consiglio recante accettazione, a nome della Comunità europea, del protocollo che modifica l’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPS) (2005), presentata dalla Commissione nel 2006 il 27 aprile 2006, COM (2006) 175 definitivo.
[35] L’art. 11 par. 4 TUE recita che i «Cittadini dell'Unione, in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono prendere l'iniziativa d'invitare la Commissione europea, nell'ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell'Unione ai fini dell'attuazione dei trattati».
[36] Per l’Iniziativa dei cittadini europei: https://europa.eu/citizens-initiative/initiatives/details/2020/000005_it
[37] Il discorso dell’europarlamentare Manon Aubry è disponibile su
[38] Corte giust. UE, sez. IV, 22 gennaio 2020, C‑175/18, PTC Therapeutics International Ltd c. EMA
[39] Sull’importanza dell’Europa del farmaco sia consentito rinviare di nuovo a A. Cauduro, L’accesso al farmaco, cit., p. 141.
[40] P. Corti, Malaria e società contadina nel Mezzogiorno, (a cura di F. Della Peruta) in Malattia e medicina, Annali 7, (coordinatori dell’opera R. Romano e C. Vivanti) in Storia d’Italia, Torino, 1984, pp. 652-653. Sul tema della vaccinazione del vaiolo di veda il contributo di U. TUCCI, Il vaiolo, tra epidemia e prevenzione, (a cura di F. Della Peruta) in Malattia e medicina, Annali 7, (coordinatori dell’opera R. Romano e C. Vivanti) in Storia d’Italia, Torino, 1984, p. 417. Per un riferimento alle epidemie nello studio del principio di precauzione e il “diritto della scienza incerta” si veda R. Ferrara, Il principio di precauzione e il “diritto della scienza incerta”: tra flessibilità e sicurezza, in Riv. giur.di urb., 2020, 14 ss.; nonchè ID, L’ordinamento della sanità, seconda ed., Torino, 2020, p. 24 dove evidenzia che «le prime, e rilevantissime, applicazioni del principio di precauzione, se si vuole inconsapevolmente e di fatto, furono in realtà messe in campo per affrontare epidemie e pestilenze… ».
[41] Si segnala che il comitato promotore italiano dell’Iniziativa dei cittadini europei (ICE) sull’accesso ai vaccini Covid-19 ha espresso pubblicamente alla Presidente del Consiglio dei Ministri la richiesta di sostenere la proposta presentata al WTO dall’India e Sudafrica per la sospensione temporanea dei brevetti e di impegnarsi affinché anche la Commissione europea assuma questo obiettivo. Il testo della proposta presentata al WTO dai due paesi il 2 ottobre 2020 è disponibile al link: https://docs.wto.org/dol2fe/Pages/SS/directdoc.aspx?filename=q:/IP/C/W669.pdf&Open=True.
The fight of Century - 50 years
di Paolo Spaziani
Madison Square Garden, New York City, la sera dell’ 8 marzo 1971. La luce del ring abbacinò gli occhi dell’uomo che sapeva volare come una farfalla e pungere come un’ape; tradì l’innaturale contorsione della sua mascella; disegnò un sinistro riflesso sul sorriso implacabile di colui che lo aveva colpito.
Mentre subiva l’offesa del tappeto e l’umiliazione del conteggio, l’uomo farfalla confidò che nessuno avesse udito il colpo sordo che aveva frantumato le sue ossa mandibolari; si illuse che esso, per lui così forte, fosse giunto agli altri soffuso e quasi mitigato dal clamore della grande sala, nel nevrotico brusio del teatro gremito.
Gli venne in mente che quel titolo mondiale che sembrava ora sfuggirgli lo aveva già vinto diversi anni prima, anche se allora aveva un altro nome, era un’altra persona e apparteneva alla categoria dei forti.
Quando aveva scelto di chiamarsi diversamente e di appartenere ai deboli, il titolo gli era stato tolto con la scusa della sua renitenza alla leva militare, perché aveva rifiutato di andare in Vietnam.
Per i deboli, nell’America di allora, sembrava non esserci pietà: uno come lui, che aveva scelto di chiamarsi Hurricane, lo avevano perseguitato per un omicidio che non aveva commesso.
Per i diritti di Hurricane e di tutti I deboli, aveva scelto di lottare nelle piazze, sui giornali, nei teatri, persino nelle aule di giustizia.
Aveva così conosciuto Bob Dylan, Dave Van Ronk, i fratelli Clancy e, con loro, una parte diversa di Manhattan, quella del CafeWha?, del Gas Light e degli altri locali di Mac Dougal Street, dove, superato l’arco di Washington Square, il buio di Down Town si accendeva dei colori del Village e la musica folk suonata da giovani chitarre sembrava possedere il dono di vincere I fascisti.
Oltre che per tutti gli Hurricane del mondo, aveva lottato per se stesso, battendosi con ogni forza per tornare sul ring con il suo nuovo nome, il suo VERO nome. Non voleva rivincere il titolo di Cassius Marcellus Clay; voleva vincere il titolo di Muhammad Alì.
Per questo era importante che nessuno si fosse accorto di quanto gravemente era stato colpito. Per questo era necessario rialzarsi e finire in piedi.
Joe Frazier era all’angolo opposto del ring. Attendeva fiducioso la fine del conteggio. Lui sapeva quanto era stato devastante il suo diretto sulla mascella dell’avversario.
Quando lo vide di nuovo dritto e orgoglioso dinanzi a sé; quando ne scorse la poderosa e bellissima figura, come risuscitata, ergersi maestosa al centro del ring, capì che non avrebbe mai potuto batterlo per ko tecnico, e che quel titolo che forse avrebbe guadagnato ai punti, ben presto gli sarebbe stato ripreso.
Il volo sontuoso di farfalla di Muhammad Alì continua dopo 50 anni dal suo primo incontro con Frazier, dopo 45 anni dalla battaglia della giungla africana con Foreman, dopo 40 anni dal suo epico scontro con Holmes: per tutti coloro che, sull’esempio di quel volo, scelgono un certo modo di stare sul ring.
CeSDirSan: M.A. Sandulli e F. Basilico intervistano G. Rasi sulla vaccinazione anti Covid-19
Il 5 marzo scorso Maria Alessandra Sandulli e Francesca Basilico hanno aperto il ciclo di interviste/confronti del Centro Intedisciplinare di Studi sul Diritto Sanitario con un’intervista sul tema dei vaccini anti Covid-19 al prof Guido RASI, ordinario di microbiologia all’Università di Roma Tor Vergata, presidente del Clinical Trial Center del Policlinico Gemelli, già Direttore per 9 anni dell’EMA (e prima ancora Direttore Generale dell’AIFA) e Presidente dell’ICMRA (Coalizione Internazionale delle Autorità Regolatorie dei Farmaci).
Crisi adottive, minori devianti e neuroscienze: prove di dialogo
di Luca Muglia e Carmen Fragalita
Il focus ha l’obiettivo di segnalare i fattori di rischio delle crisi adottive, facilitando la comprensione delle forme di adolescenza deviante ad esse collegate, e di individuare nuovi strumenti di conoscenza, ivi compresi quelli neuroscientifici.
Sommario: 1. La genesi del legame adottivo e le teorie dell’attaccamento - 2. I disturbi di natura psicologica e comportamentale - 3. La crisi adottiva e le nuove forme di adolescenza deviante - 4. I nuovi strumenti: neuroscienze e fisica quantistica -5. Psicologia perinatale, memorie familiari, mente e corpo gruppale.
1. La genesi del legame adottivo e le teorie dell’attaccamento
“L'incontro adottivo si staglia sullo scenario di una doppia mancanza: a una coppia manca un figlio, a un bambino mancano dei genitori. Se gli attori saranno in grado di colmarla potranno realizzare l'evento intensamente carico di emozioni di una doppia nascita: due esseri che diventano genitori e un essere che diventa persona attraverso la filiazione”[1].
L’adozione è il fare famiglia... o arricchire la propria famiglia[2]. L’adozione costituisce un momento, o, per meglio dire, un percorso molto delicato e complesso per i genitori ma soprattutto per i bambini perché provoca in entrambi dubbi, preoccupazione, incertezza, messa in discussione. L’esperienza adottiva può essere fonte di disagi e disturbi di varia natura. Adottare significa scegliere di essere pienamente padri e madri di un figlio che non è nato in famiglia, portatore di una propria storia dolorosa che chiede ad adulti sconosciuti, di essere riconosciuto come figlio e accompagnato nella propria vita. Essere genitori adottivi significa essere adulti consapevoli di poter “partorire” attraverso una diversa fecondità. La frase ricorrente “i figli non si partoriscono solo dalla pancia, ma anche dal cuore” racchiude tutto il desiderio e il bisogno di evolvere, di dar luogo ad un progetto di vita, anche se complesso, quello di famiglia. Ma per essere famiglia è necessario diventare un contenitore adeguato (l’ambiente di holding) e pronto ad accogliere entro il quale il bambino può sperimentare l’amore, l’affetto e la fiducia di cui due adulti “sufficientemente buoni” sono capaci e grazie al quale il bambino riuscirà a realizzarsi[3].
I figli, naturali o adottati, sono l’eredità di ciò che siamo e di ciò che saremo capaci di trasmettere loro, rappresentando un ponte con le generazioni future. Tutte le coppie o le famiglie che adottano hanno “scelto” di adottare, di assecondare i loro desideri, i loro sogni e le loro aspettative. L’adozione è in sé un concentrato di emozioni e sensazioni mai vissute prima da due adulti che si accingono ad assumere un nuovo ruolo, diverso da quello che li aveva visti protagonisti fino a qualche tempo prima, quello cioè di coppia. Tutto assume nuove prospettive e significati, cambia la dimensione, da coppia a genitori, si crea lo “spazio mentale” per includere e accogliere il terzo. L’arrivo del primo figlio introduce la coppia in un nuovo stadio del ciclo vitale e fa entrare i coniugi a tutti gli effetti nell’età adulta. Nella rappresentazione sociale l’arrivo del primo figlio “trasforma la coppia in famiglia”[4]. Il bambino e i genitori devono cominciare a “riconoscersi” come figure familiari, figure di riferimento e di attaccamento reciproco. Devono imparare a riconoscersi. Riconoscersi, a differenza del conoscersi, non è un processo veloce, ma richiede del tempo in grado di trasformare la propria vita.
Molto suggestivo, in tal senso, il concetto di “nidificazione psichica” (Darchis, 2009), che prevede una riorganizzazione intrapsichica e intersoggettiva indispensabile alla costruzione dello spazio mentale dei genitori - il nido, appunto - che, proprio come quello costruito sugli alberi dagli uccelli in previsione della cova delle uova, abbia caratteristiche di calore e morbidezza, ma anche di strutturazione e solidità che rendano possibile e sicuro il luogo mentale nel quale il bambino sarà accolto[5].
Per comprendere i meccanismi e le dinamiche che sono alla base delle relazioni, i processi emotivi e lo sviluppo psicoaffettivo del bambino adottato si fa riferimento alla teoria dell’attaccamento di Bowlby. L’attaccamento è stato definito come “una relazione o legame affettivo che si instaura con una figura specifica, principalmente la madre o, più in generale, con tutte quelle figure che interagiscono in modo precoce e continuativo con il bambino”[6].
Come è stato rilevato, Bowlby è stato il primo a riconoscere che il bambino è predisposto sin dalla nascita a partecipare all’interazione sociale e a stabilire un legame di attaccamento. Questa propensione gli consente di dare inizio, mantenere e porre fine all’interazione con il caregiver, utilizzando quest’ultimo come “base sicura” per l’esplorazione dell’ambiente circostante e il suo sviluppo personale. La qualità delle interazioni che si sviluppano, può influenzare le reazioni e le relazioni future del bambino, non solo quelle con la madre, ma anche con tutte le altre figure significative per il bambino stesso. Bowlby fu il primo ad affermare che non è la pulsione a dirigere la vita del bambino (al contrario di quanto affermato dalle teorie psicoanalitiche), ma il suo bisogno di un ininterrotto, e perciò sicuro, attaccamento alla madre e dunque ai genitori[7]. Uno dei concetti chiave di Bowlby è quello di Modello Operativo Interno, una rappresentazione interna, abbastanza esatta, dell’esperienza che il bambino ha del mondo, delle proprie figure di accudimento, di sé stesso e delle relazioni che esistono tra queste figure[8]. I modelli operativi interni sono stabili e duraturi in quanto consentono al bambino di trasferire tutti i modelli di comportamento e le esperienze vissute durante l’infanzia nelle sue relazioni interpersonali future.
Aderendo a tale prospettiva, la relazione di attaccamento bambino-caregiver si distingue in sicura e insicura. In base al modo in cui i bambini reagiscono di fronte a situazioni di stress moderato, come l’assenza della figura significativa e la presenza dell’estraneo (strange situation), saranno classificati come bambini sicuri o insicuri[9]. Si è precisato, in proposito, che lo stile di attaccamento che si sviluppa dipende dalla capacità del “caregiver” di rispondere al bambino in modo adeguato e tempestivo alle richieste di presenza, vicinanza, supporto nei momenti di stress; dal suo riuscire ad essere una “base” (da cui il bambino può allontanarsi per esplorare l’ambiente, con fiducia) e un “porto sicuro” (a cui tornare, su cui poter fare riferimento), in grado di assicurare un adeguato nutrimento sia fisico che emotivo, fatto di protezione, senso di sicurezza, comprensione, calore, ascolto[10].
Secondo Fonagy-Target l’attaccamento può essere[11]:
- sicuro: i bambini sicuri hanno un immediato comportamento esplorativo in presenza del caregiver principale, si dimostrano ansiosi in presenza dell’estraneo e lo evitano, sono a disagio per la breve assenza del caregiver, ricercano rapidamente il contatto con quest’ultimo in seguito e ne sono rassicurati, tanto da poter tornare al comportamento esplorativo;
- insicuro evitante: il bambino appare abbastanza autonomo nell’esplorazione dell’ambiente, è meno ansioso a causa della separazione, può non ricercare la vicinanza del caregiver al suo ritorno e non preferirlo all’estraneo. Si tratta di bambini che hanno sperimentato una relazione in cui le richieste di cura e protezione sono state solo parzialmente accolte dal genitore, hanno avuto esperienze in cui l’attivazione emotiva non veniva ricondotta a stabilità dal caregiver, oppure erano iperattivati da un accudimento genitoriale intrusivo; perciò essi iper-regolano l’affettività ed evitano situazioni che possono indurre disagio;
- insicuro ambivalente: è tipico di quei bambini che mostrano un ridotto interesse per l’esplorazione e il gioco, tendono ad essere molto a disagio per la separazione, hanno grande difficoltà a ricomporsi successivamente e mostrano tensione, rigidità, pianto continuo o agitazione in una modalità passiva. La presenza del caregiver o i tentativi di consolazione e rassicurazione falliscono, l’ansia e la rabbia del bambino sembrano impedirgli di trarre conforto dalla vicinanza. I bambini con questo tipo di attaccamento ipo-regolano l’affettività e intensificano l’espressione del loro disagio, forse allo scopo di provocare la risposta sperata nel caregiver. Il bambino manifesta preoccupazione quando si trova a contatto con il caregiver, ma si sente frustrato anche quando egli non è disponibile;
- insicuro disorganizzato/disorientato: questi bambini manifestano freezing, (un comportamento di completa immobilizzazione, un congelamento della postura, della mobilità, della voce), essi battono le mani, sbattono la testa, desiderano fuggire dalla situazione persino in presenza del caregiver. Sembra che il caregiver è servito a questi bambini come fonte sia di paura sia di rassicurazione e, di conseguenza, l’attivazione del sistema comportamentale di attaccamento produce motivazioni fortemente conflittuali. Generalmente questi bambini hanno sperimentato una relazione con un adulto disorganizzante che ha vissuto a sua volta esperienze traumatiche, di lutto o perdita, che non è riuscito ad elaborare e che vengono quindi riattivate nella relazione con il figlio[12].
Si è correttamente evidenziato che, se è vero che un attaccamento disorganizzato può rappresentare una vulnerabilità, è altrettanto vero che possono intervenire dei fattori riparativi e protettivi, come l’adozione appunto, in grado di “cancellare” l’esperienza negativa precedente (Liotti, 1992)[13].
In conclusione, appare chiaro come l’esperienza abbandonica da cui prende le mosse il progetto adottivo sia tale da generare nel bambino un trauma con il quale occorre, prima o poi, fare i conti. Non v’è dubbio, inoltre, che l’approccio degli adulti alla sofferenza del bambino adottivo possa influenzare, in positivo o in negativo, gran parte della sua storia futura.
2. I disturbi di natura psicologica e comportamentale
I bambini adottati non sempre arrivano in famiglia così piccoli, a volte hanno un trascorso di vita già sperimentato in altre famiglie, in altri contesti sociali e culturali. Si aggiungano i bambini provenienti, addirittura, da esperienze di istituzionalizzazione, da ambiti cioè lontani e completamente diversi da quelli della famiglia adottiva. I primi incontri tra la famiglia e il bambino sono un campo aperto di osservazioni reciproche, sensazioni, percezioni, fantasie, vissute, esplorate e sperimentate in maniera del tutto soggettiva dalle persone coinvolte. Ogni gesto o parola espressa dai futuri genitori può suscitare una reazione negativa nel bambino, che ha dietro di sé probabili scenari di sofferenza, deprivazione, abbandono e violenza. Perciò anche un abbraccio o una carezza possono essere vissuti con timore e paura dal bambino, e non come momenti di conoscenza e condivisione con coloro i quali sono pronti ad accoglierlo e ad amarlo. Sono spesso figli di genitori “tossici” emotivi ed affettivi, alienati e per nulla adeguati, a loro volta inseriti in contesti sociali, culturali e familiari disgregati, fatti di violenza, soprusi e brutalità. Questi bambini, sono perciò il frutto di storie ambigue, confuse e malsane, abitanti di sistemi familiari disfunzionali. Le esperienze negative vissute all’interno della famiglia biologica (maltrattamenti infantili, abusi sessuali e fisici, deprivazione e trascuratezza nelle cure), possono rappresentare un serio pericolo per l’organizzazione psicologica di questi bambini, per il loro sviluppo psicofisico, per il processo di integrazione della personalità e di costruzione dell’identità.
È di Konrad Lorenz, infatti, il concetto di imprinting, inteso come la prima forma di apprendimento volta alla costruzione dell’identità della persona[14]. Così come Albert Bandura definì il concetto di modeling (modellamento) per indicare una modalità di apprendimento che si basa sull’osservazione altrui e la riproduzione del suo comportamento[15].
Tutto ciò per indicare che il bambino non è altro che il risultato di ciò che sono gli adulti, perciò più il modello avrà dato una impronta positiva al bambino, dandogli la possibilità di sperimentare buoni sentimenti ed emozioni positive, più il bambino avrà modo di vivere e creare spazi per lui adeguati e immagini buone di sé, che sperimenterà anche nella relazione con gli altri. Viceversa, se il modello avrà dato luogo a comportamenti e atteggiamenti negativi e inadeguati, basati su stili comunicativi, affettivi ed emotivi fatti di violenza ed aggressività, il bambino imparerà a comportarsi adeguandosi a queste modalità. Le difficoltà che potrebbero dar luogo all’instauramento di disturbi psicologici o comportamenti devianti durante la crescita sono relative alla sfera della regolazione emotiva, dell’area relazionale, dell’adattamento sociale e dell’apprendimento. Questi bambini manifestano “grave irritabilità che ha due manifestazioni clinicamente preminenti, la prima delle quali sono frequenti scoppi di collera che avvengono tipicamente in risposta alla frustrazione e possono essere verbali o comportamentali, sotto forma, cioè, di aggressioni fisiche rivolte a sé stessi o agli altri. La seconda manifestazione di grave irritabilità consiste in un umore persistentemente o cronicamente arrabbiato, tra i gravi scoppi di collera”[16] e sono incapaci di riconoscere le emozioni positive, quelle cioè che permettono di entrare in contatto con gli altri, e di instaurare relazioni interpersonali adeguate. A causa di ciò questi bambini possono sperimentare sensazioni di vuoto e di isolamento, che li porta sempre più a chiudersi in sé stessi. Allo stesso modo i bambini adottati, soprattutto quelli provenienti da paesi lontani, devono misurarsi anche con l’acquisizione e l’apprendimento di un nuovo codice linguistico, che se da un lato consente loro di entrare in contatto con il nuovo contesto che li circonda, dall’altro provoca non poche difficoltà dovute a una scarsa o inesistente stimolazione cognitiva e motivazionale sin dalla tenera età, che non ha consentito loro di crescere e imparare in maniera adeguata. Una volta arrivati nel nostro paese si trovano a confrontarsi con una nuova lingua parlata e scritta e con tutte le sue regole di acquisizione, espressione e comprensione. Molto spesso le difficoltà che si palesano nell’apprendimento provocano nel bambino adottato un forte senso di frustrazione e di emarginazione. Sensazioni celate dietro atteggiamenti irrequieti, agitati, impulsivi, a loro volta accompagnati anche da difficoltà di concentrazione e di mantenimento dell’attenzione. In tal senso è possibile il palesarsi di un disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD)[17].
Le situazioni sopra descritte e i sentimenti ad esse associate rappresentano per il bambino un limite al contatto, alla relazione con gli altri e alla espressione di sé che, sommato a tutte le altre situazioni vissute, rendono più difficoltoso il suo processo di integrazione fino ad arrivare all’instauramento di un vero e proprio disturbo dell’adattamento che si esprime attraverso una “marcata sofferenza che sia spropositata rispetto alla gravità o intensità dell’evento stressante, tenendo conto del contesto esterno o dei fattori culturali che possono influenzare la gravità e la manifestazione dei sintomi; compromissione significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo e in altre aree importanti”[18].
Da ultimo, una buona parte di bambini adottati, in particolare quelli provenienti da lunghi periodi di istituzionalizzazione, presentano un attaccamento disorganizzato che può dar luogo ad un “disturbo del comportamento”. Tra questi vi è il disturbo reattivo dell’attaccamento che è contrassegnato da un “pattern di comportamenti di attaccamento disturbati ed evolutivamente inappropriati in cui il bambino si rivolge raramente o minimamente in modo preferenziale ad una figura di attaccamento per cercare conforto, sostegno, protezione e accudimento. La caratteristica fondamentale è una relazione di attaccamento assente o fortemente sottosviluppata tra il bambino ed i caregiver adulti sostitutivi”[19]. Il disturbo da impegno sociale disinibito, invece, è contrassegnato da un “pattern di comportamento in cui il bambino approccia attivamente e interagisce con adulti sconosciuti, mostrando una ridotta o assente reticenza nell’approcciare e interagire con adulti sconosciuti, un comportamento verbale o fisico eccessivamente familiare; diminuito o assente controllo a distanza del caregiver dopo che si è avventurato lontano, anche in contesti non familiari; disponibilità ad allontanarsi con un adulto sconosciuto con minima e nessuna esitazione”[20]. Questi ultimi due disturbi sono il risultato di una profonda trascuratezza e insoddisfazione nelle cure e nei bisogni primari del bambino, nonché di un’altrettanta e profonda deprivazione sociale ed emotiva cui lo stesso è stato esposto fin dalla nascita. Nel loro insieme tutti i disturbi citati possono rappresentare il terreno fertile per l’instaurarsi di patologie ancora più specifiche e più gravi, che possono inficiare la personalità dei bambini nella fase più delicata della vita, l’adolescenza, e in futuro anche nell’età adulta.
3. La crisi adottiva e le nuove forme di adolescenza deviante
Prima di affrontare il tema della crisi occorre riportare nuovamente l’attenzione sulla genesi delle relazioni nella famiglia adottiva. E’ chiaro che l’origine fondante di tali relazioni sia la condivisione dell’esperienza di dolore: il dolore dell’abbandono, da una parte, e il dolore per non aver generato, dall’altra. Si è osservato che, in realtà, queste due esperienze sono “sintoniche” perché mediante il loro incontro si alleviano ma, in una piccola porzione, sono anche “distoniche” perché l’assenza della componente biologica suona come elemento di frustrazione per entrambe le parti[21]. Sofferenze, quindi, che si incontrano possono dialogare, ma anche scontrarsi. In tale prospettiva «una famiglia adottiva solida deve sostare nella genesi dolorosa, senza rimuoverla o sotterrarla mistificando emozioni o sentimenti non autentici. Quando l’incontro è ben radicato nella sua genesi dolorosa, anche la componente affettiva risulta solida e le emozioni positive, quali la gioia e il piacere, autentiche. L’alternativa è strutturare le relazioni in regole, fredde e giuste, come argini fragili che solo apparentemente liberano dalle angosce, ma che in realtà sono destinati a franare rapidamente alle prime verifiche della vita» (Cerullo, 2020)[22].
La crisi e/o il fallimento del progetto adottivo è un evento complesso.
Sotto il profilo giuridico un’adozione fallita è intesa come “l'interruzione definitiva di un rapporto difficile e problematico tra genitori e figlio adottivo, che culmina con il collocamento del minore in strutture di accoglienza in attesa di una nuova adozione o della maggiore età”[23]. Da un’indagine del Tribunale per i Minorenni di Milano in sede civile[24] è emersa, nella maggioranza dei casi (54,5%), un’incapacità e incompetenza mostrata dai genitori adottivi nel saper rispondere in modo adeguato ai bisogni espressi dal figlio. Nel 29,5% dei casi la causa sarebbe riconducibile a problemi del minore emersi successivamente al collocamento adottivo. Nel 54,5% dei casi la fase dell’adolescenza del figlio adottivo è coincisa con l’accentuazione del conflitto familiare, considerato che in tale fase l’adottato deve fare i conti con la propria “doppia appartenenza”, quella biologica e quella adottiva[25].
I mutamenti dell’adolescenza negli ultimi decenni sono sotto gli occhi di tutti: abbandono scolastico, fughe da casa, dipendenza da sostanze, disturbi della personalità e dello sviluppo, relazione patologica con il cibo, abuso di farmaci, comportamenti antisociali, disagi psicologici derivanti dalla crisi familiare. Si aggiungano inquietanti fenomeni quali i tagli sul corpo, gli atti di autolesionismo, i giochi di morte, la ludopatia, l’uso morboso dei social network, la sessualità anticipata, la bulimia del consumo, l’attaccamento agli idoli[26]. L’esigenza di costruire la propria identità, distaccandosi dal cordone ombelicale e distinguendosi dai pari, incontra oggi molti ostacoli. Il desiderio di promozione del sé è offuscato, l’immagine di sé stessi è sbiadita, prevale la paura sociale e l’insicurezza personale. Il senso d’identità degli adolescenti arretra[27].
Negli adolescenti adottati la crisi e il disagio, di per sé tipici della fase evolutiva, sono vissuti con maggiore difficoltà rispetto agli adolescenti non adottati. Si tratta di ragazzi adolescenti alla ricerca inconsapevole di qualcosa, forse di conosciuto ma dalle sembianze e dai contorni confusi, al quale non riescono a dare una risposta o una forma. Invero, agli interrogativi consueti che arrovellano il cervello dei loro pari questi ragazzi aggiungono e sommano interrogativi nuovi e diversi, domande di senso che li scuotono e agitano interiormente. Maini-Vettori evidenziano, sul punto, che al senso di estraneità tipico dell’adolescenza corrisponde l’attivarsi di fantasie e pensieri correlati, nel caso dell’adozione, alla constatazione che nella realtà vi è un “altrove” non condiviso[28].
Per il resto sono adolescenti, come tutti, alle prese con i cambiamenti nel loro modo di vedere e di pensare, in rottura ed in conflitto con i canoni dettati dagli adulti e le regole impartite dall’alto, incastrati in un corpo che cambia (non più infantile, ma neanche adulto), con un ritmo diverso, più lento, che rende difficile tenere il passo con i mutamenti del loro essere. In tal senso l’adozione può rappresentare, nel tempo, una “trasformazione” delle esperienze avverse, assicurando a questi ragazzi una nuova modalità relazionale e di attaccamento.
Le criticità della condizione adolescenziale e le nuove forme di devianza minorile sono intimamente collegate alla crisi della famiglia (e viceversa)[29]. Il progetto adottivo, di per sé complesso e molto impegnativo, deve misurarsi quindi con le difficoltà crescenti del mondo dell’adolescenza, ivi comprese quelle riconducibili alle relazioni genitori-figli. Preso atto che esiste un nesso ineludibile tra la crisi della famiglia, le emergenze educative e il fallimento adottivo, occorre comprendere quali sono le dinamiche che si innescano più frequentemente e in che modo esse mettano in discussione i legami che l’adozione ha faticosamente posto in essere.
Si è sottolineato che, essendo la componente aggressiva un tratto della personalità tipico nell’età della crescita[30], l’aggressività consente al minore di condurre il cammino che lo porterà a conquistare un posto nella vita adulta purché sia espressa entro canali costruttivi. Solo tessendo relazioni di qualità con il mondo adulto la componente aggressiva minorile si trasforma in energia creatrice[31]. In questa delicata fase di crescita, infatti, «i giovani adottati incontrano, sul piano delle relazioni con i genitori adottivi, maggiori difficoltà e spesso l’argine genitoriale non regge al peso dell’emotività aggressiva, aggravata dal dolore generato dall’esperienza abbandonica» (Cerullo, 2020)[32].
Si è rilevato, in altra sede[33], come negli ultimi decenni al deterioramento delle relazioni familiari abbia fatto seguito un netto aumento dei maltrattamenti commessi dai figli minorenni a danno dei propri genitori. Tale fenomeno, comprovato dalle analisi statistiche, si è aggravato ulteriormente in ragione dell’isolamento sociale imposto dalla recente pandemia[34]. Le violenze familiari degli adolescenti, accompagnate da pressioni dirette ad ottenere denaro per acquistare sostanze e beni effimeri o per accedere a divertimenti, sono generate dal conflitto familiare o dalla crisi coniugale, ma le ragioni effettive hanno radici più profonde, prima fra tutte il non aver maturato nella prima infanzia un’esperienza significativa di attaccamento[35].
Si tratta di accertare, a questo punto, se e come il fallimento adottivo si rapporti al contesto della crisi educativa, verificando in che misura i nuovi fenomeni di devianza minorile intrafamiliare interessano la famiglia adottiva e quali sono i fattori di rischio preponderanti.
Una ricerca in sede penale del Tribunale per i Minorenni di Milano offre spunti di riflessione utili[36]. La quasi totalità dei soggetti è di sesso maschile, l’adozione è avvenuta quasi sempre tramite procedura internazionale. I minori provengono soprattutto dall’America Latina e, in percentuale inferiore, dall’Europa dell’est. L’età media dei bambini al momento dell’adozione è pari a 7,1 anni e, sebbene la letteratura evidenzi che la fascia di età prescolare sia in generale la più protetta per quanto riguarda lo sviluppo di problematiche psicologiche e comportamentali, quasi la metà dei minori è stata inserita nella nuova famiglia in età compresa tra 0-5 anni. La maggior parte dei ragazzi (69,2%) ha un pregresso di istituzionalizzazione. A partire dall’adolescenza i ragazzi hanno cominciato a manifestare un’accentuata aggressività fisica e verbale indirizzata verso i genitori, seguita da difficoltà scolastiche e comportamenti sessualizzati. Al momento dell’adozione l’età della coppia genitoriale era piuttosto avanzata: le madri 39,1 anni, i padri 41,6 anni[37]. In tutti i casi i coniugi hanno intrapreso un percorso adottivo per problemi di sterilità. L’imputazione più frequente è il furto, a seguire maltrattamenti e violenza verso familiari. Dai dati emerge che tanto più piccoli sono i minori al momento dell’adozione quanto prima si rendono responsabili di atti criminali. I comportamenti criminali sono finalizzati a mettere alla prova i genitori e, nel contempo, a richiamare la funzione genitoriale di cui sentono bisogno, ma rappresentano anche un modo per espiare i sensi di colpa attraverso la punizione[38].
A completare il quadro una recente indagine dell’Ussm di Milano[39] sulle crisi adottive in adolescenza che sfociano nel processo penale al minore. I reati commessi sono spaccio, furto, rapina ricettazione, estorsione, violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia. In tutti i casi i minori sono stati collocati inizialmente in Comunità. I percorsi sono stati travagliati, i minori non hanno avuto un iter lineare; i genitori non hanno interrotto i rapporti con i figli. Dalle interviste emerge l’ambivalenza dei genitori adottivi e la scarsa capacità di mettersi in discussione. All’origine delle crisi vi sarebbero le caratteristiche personologiche dei minori adottati e le difficoltà dei genitori di agire il proprio ruolo[40].
4. I nuovi strumenti: neuroscienze e fisica quantistica.
Le azioni a sostegno della famiglia messe in campo a seguito delle crisi adottive sono molteplici.
Una ricerca sui dati in Piemonte (2018) effettuata da un gruppo di lavoro interistituzionale ha tracciato le varie tipologie di intervento: educativa domiciliare, sostegno alla genitorialità, gruppi di auto mutuo aiuto per i genitori, sostegno psicologico al minore e/o agli altri membri della famiglia, valutazioni neuropsichiatriche infantili, terapie farmacologiche, attivazione del servizio dipendenze[41]. Non v’è dubbio che la lacuna più palese è l’inesistenza di un sistema di “supporto post-adottivo” che preservi la coppia e il minore, individuando i fattori di protezione. Si aggiungano le criticità riscontrate nelle adozioni con procedura internazionale[42] e la necessità di prevedere l’intervento di figure professionali specializzate e appositamente formate (quali, ad esempio, i mediatori culturali).
Se si sposta l’attenzione sulle condotte disfunzionali degli adolescenti adottati gli strumenti sono quelli tipici riservati al Tribunale per i Minorenni, e cioè le misure penali e le procedure rieducative. Nella prima ipotesi (fatto-reato) il minore deve aver compiuto 14 anni, nella seconda ipotesi (irregolarità condotta/carattere) i destinatari possono essere anche infraquattordicenni. In entrambi i casi, tuttavia, non sono previste modalità che tengano conto del vissuto emotivo del minore derivante dalla crisi e/o dal fallimento adottivo. Tale lacuna può essere colmata implementando il ricorso alle discipline extragiuridiche. Non ci si riferisce solo all’area psicosociale, ma anche alle neuroscienze.
Le analisi statistiche contribuiscono a sfatare una convinzione diffusa, quella che stabilisce, cioè, un nesso di causalità tra l’età del bambino al momento dell’adozione e l’insorgenza di disturbi comportamentali, ritenendo che quando il minore adottato ricade nella fascia d’età 6-10 anni sia automaticamente esposto a rischi in ragione delle condizioni ambientali vissute nella prima infanzia (esperienze avverse e/o istituzionalizzazione). A smentire tale convinzione sono i dati sopra citati acquisiti in sede penale minorile da cui risulta che i bambini adottati in età compresa tra 0-5 anni durante la crescita sono protagonisti di condotte devianti in percentuali uguali, se non addirittura maggiori, a quelle riscontrate per i minori che all’epoca dell’adozione si trovavano nella fascia d’età 06-10 anni. Premesso che si tratta di dati acquisiti in ambito penale e che il fatto-reato ascritto al minorenne non è necessariamente riconducibile alla storia adottiva, il fenomeno merita di essere approfondito. Perché anche i bambini adottati alla nascita o in tenerissima età commettono atti devianti nel corso dell’adolescenza? Alla domanda è possibile rispondere attraverso uno “sforzo interdisciplinare” che ricomprenda anche – ma non solo – le neuroscienze.
5. Psicologia perinatale, memorie familiari, mente e corpo gruppale
Una delle questioni di maggior interesse è quella che riguarda il processo di formazione del cervello dal momento del concepimento e per l’intera durata dell’esperienza intrauterina. Dal punto di vista psicologico il focus in questione è oggetto di analisi e approfondimento già da diversi anni.
De Bono segnala che la storia di un bambino comincia prima della sua nascita e prima ancora del suo concepimento, sottolineando che è una storia che lascia una “memoria inscritta nel corpo” e che partecipa alla costruzione della sua identità. «Il bambino immaginato dai futuri genitori si permea della loro storia individuale, delle loro dinamiche di coppia, della loro personale storia familiare e del loro proprio mondo mentale popolato di figure del passato e del presente, in una miscellanea di speranze, aspettative, timori, mancanze. Un neonato arriva quindi già immerso in una storia, già impregnato di proiezioni dell’adulto, ma anche di un vissuto che ha potuto avvertire all’interno del grembo materno attraverso canali sensoriali, vascolari e umorali»[43].
A proposito di relazione adottiva Maini-Vettori osservano che quello su cui, forse, non si è riflettuto abbastanza è proprio ciò che il bambino porta con sé al momento del suo arrivo, “iscritto nel corpo”, prima di tutto, oltre che nella mente. «Nell’adolescenza le domande che rimbalzano tra figli e genitori non riguardano soltanto ciò che si può narrare, perché è in qualche modo noto o recuperabile, ma anche quello che non si sa: quella storia di relazione precoce, di corpo, che ogni persona ha vissuto all’inizio della propria vita con qualcuno. Anche quando questa esperienza è assente o frammentaria lascia segni profondi, che non possono essere riparati solo con le parole, ma prima di tutto all’interno della dimensione intercorporea e intersoggettiva»[44].
Il focus psicologico è stato corroborato ed arricchito negli ultimi anni dai riscontri scientifici.
Dall’integrazione tra clinica psicoanalitica in epoca neonatale e/o perinatale, psicoterapie derivate dalla teoria dell’attaccamento e neuroscienze sono emerse nuove teorie sulle origini e lo sviluppo della mente. Si è evidenziato che nei primi mesi di vita il cervello apprende da chi si prende cura del bambino: la qualità della relazione con la madre e con altri caregivers struttura le sue reti neurali attraverso i messaggi affettivi della comunicazione non verbale. La qualità neuromentale dipende, quindi, dalla struttura inconscia di chi accudisce il bambino. Da tali studi emerge che le neuroscienze hanno rivoluzionato il concetto stesso di inconscio, essendo possibile formulare una nuova teoria psicoanalitica “integrata” che spiega le origini e il funzionamento mentale attraverso le conoscenze sulla memoria implicita, la sua formazione, la continua trasformazione delle sue tracce nelle reti neurali e l’insieme delle connessioni che costruiscono la soggettività (Cena-Imbasciati, 2014)[45].
La neurobiologia ha aperto nuove possibilità di esplorare l’attivazione del cervello fetale. Le recenti ricerche utilizzano le neuroimmagini e l’ecografia per visualizzare le aree cerebrali che si attivano quando il feto percepisce la voce materna ovvero le risposte motorie del viso agli stimoli acustici materni (sbadigli, masticazioni, filastrocche)[46].
Una volta accertata l’incidenza dello stato emotivo e psicofisico della gestante sul cervello del feto, è agevole comprendere che le dinamiche instauratesi nella gravidanza possono generare un trauma anche nei casi (non pochi) in cui la madre abbandoni il neonato alla nascita. E’ nell’interazione madre-feto, che precede e accompagna l’esperienza abbandonica, che trovano origine e spiegazione, quindi, alcuni disagi manifestati dal bambino adottato.
Nell’ultimo decennio si è sviluppata presso l’Università di Brescia una nuova psicologia clinica che focalizza l’attenzione sulla perinatalità del bambino, valorizzando le ricerche delle neuroscienze e della psicoanalisi. Secondo tale approccio il cervello umano non è dato dalla natura, se non nel suo aspetto macroscopico: già dall’epoca fetale viene a costruirsi in base all’esperienza soprattutto interpersonale. Ciò che avviene tra una gestante-madre e il feto-neonato sarebbe fondamentale per la qualità della costruzione del cervello di quel bambino e per la qualità dell’esperienza da cui egli apprenderà, condizionando l’intero futuro sviluppo del suo cervello adulto (Imbasciati-Cena, 2020)[47].
Anche Ammaniti-Ferrari sottolineano l’influenza dell’ambiente materno in gravidanza sul processo di “programmazione fetale”, segnalando le ricerche sugli effetti a lungo termine dell’esposizione allo stress psicosociale prenatale. Stimoli o eventi negativi in una fase critica dello sviluppo embrionale o fetale determinerebbero modificazioni strutturali, fisiologiche e metaboliche che possono permanere nell’età adulta e, addirittura, trasmettersi nelle generazioni successive[48].
A ben guardare, però, esiste un ulteriore aspetto in grado di fornire spiegazioni circa l’insorgenza di disturbi apparentemente inspiegabili nei bambini adottivi. Ci si riferisce alle cosiddette memorie familiari[49], tracce emotive capaci di condizionare i processi di formazione dell’identità.
Per comprendere il fenomeno occorre un dialogo tra psicologia, neurobiologia e fisica quantistica.
Il tema è quello della trasmissione intergenerazionale o transgenerazionale. Nella prima i vissuti tramandati sono stati elaborati dalla generazione che precede e il passaggio avviene attraverso scambi intersoggettivi, alla presenza cioè di un soggetto che trasmette e di uno che riceve (in genere madre figlio)[50]. Nella seconda, invece, non sarebbero presenti gli attori della comunicazione e, quindi, si ammetterebbe una memoria familiare, una mente familiare attraverso cui sentimenti, comportamenti e “ferite non elaborate” passano da una generazione ad un‘altra (Baldascini, 2013)[51].
Il meccanismo che regola la trasmissione transgenerazionale ci fa comprendere come e perché la mente del bambino sia esposta alla rievocazione di memorie familiari, a prescindere dalla circostanza che sia stato adottato o meno alla nascita.
Cheli affronta il tema della trasmissione epigenetica del trauma da una generazione all’altra, richiamando gli studi scientifici di riferimento. Il concetto di “epigenesi” sembra suggerire che l’esperienza del neonato, sia in utero che dopo la nascita, nelle interazioni sociali con la madre altera attivamente l’espressione dei geni attraverso il processo di metilazione del DNA. Inoltre, anche se non è stabile nel DNA a livello ereditario, l’epigenesi non è completamente cancellata durante la meiosi, e questo porterebbe a un meccanismo ereditario “soft” o alla trasmissione intergenerazionale di alcuni tratti. Pertanto, gli effetti del trauma relazionale non sono solo di lunga durata, ma possono anche essere trasmessi alle generazioni successive[52].
Il problema si fa difficile e anche poco intuibile in quanto “oltre il corpo ci sono relazioni, ma niente ci fa comprendere come qualcosa, oltre di noi, influenzi qualcuno quando non possiamo relazionarci con lui” (Baldascini, 2013)[53]. In base a tale prospettiva se si tiene conto del cervello e della sua biochimica, dei concetti elaborati dalle osservazioni nei gruppi e della teoria della mente sistemica, è possibile abbozzare un tentativo di definizione di “mente estesa”. La mente è un «processo non locale che accade nell’individuo in ogni parte del corpo di cui il cervello rappresenta il principale decoder; processo che però si estende oltre il corpo in un campo in cui vengono depositati contenuti che, in tempi diversi, possono essere ri-estratti da altri individui in grado di collegarsi con questo campo»[54]. Il sostegno scientifico alla definizione verrebbe dalla meccanica quantistica. Il campo conterrebbe una sorta di memoria non-locale che permea il tempo e lo spazio con cui la mente può risuonare[55]. Secondo il principio di non-località se due enti nascono assieme o s’incontrano stabilendo un’intima intesa e, poi, si separano restano in ogni modo legati per sempre. Ciò significa che se si individua un ente si sa istantaneamente dove si trova e cosa sta facendo l’ente entangled. Il fenomeno prende il nome di entanglement: ciò che accade in un punto può essere correlato istantaneamente con un evento che accade in un punto lontano (Baldascini, 2013)[56].
Uno snodo scientifico di indubbio rilievo è quello delle menti entangled, le menti che si formerebbero, cioè, quando si strutturano gruppi molto affiatati e con grossi interessi comuni[57]. La mente di gruppo non-locale mette ciascun membro nelle condizioni di collegarsi ad un campo mentale unico.
Non a caso uno degli strumenti più efficaci è la costituzione di gruppi di genitori che stanno vivendo una crisi adottiva e necessitano di dare un senso alla situazione di grave difficoltà che attraversano[58] ovvero di gruppi di adolescenti adottati che condividono i loro vissuti in un percorso di narrazione autobiografica fatto di parole, gesti, silenzi, presenze e assenze[59]. Si tratta, evidentemente, di prassi virtuose da elevare a sistema. Oltre alla costruzione di una mente gruppale, quello di cui si fa esperienza, in questi casi, è il corpo gruppale che “respira, si muove, espelle, introietta, comunica, vive in relazione ad altri corpi”. Quello che si vive nel gruppo è “un’intensa polifonia di corpi che, incontrandosi, generano gesti, emozioni e parole” (Vettori-Maini, 2020)[60].
L’esperienza gruppale consente a questi adolescenti di sostare, di lasciarsi andare e/o lasciare andare, di perdersi per ritrovarsi. E’ uno spazio di libertà in cui le parole chiave sono intercorporeità, narrazione, fiducia, accettazione, senso di appartenenza. Le storie si contaminano, mescolandosi tra loro. La rappresentazione di sé può trovare una collocazione che pacifica finalmente il cuore.
[1]Farri Monaco M., Castellani P., Il figlio del desiderio, Bollati Borighieri, Torino, 1994.
[2]Ramello M., Cos’è l’adozione, www.lazioadozioni.it.
[3]Vedi sul punto Fonagy P., Target M., Psicopatologia evolutiva - le teorie psicoanalitiche, Raffaello Cortina Editore, 2005, p.178.
[4]Lubrano Lavadera A., Malagoli Togliatti M., Dinamiche Relazionali e ciclo di vita della famiglia, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 73.
[5]Salerno A., La nascita del primo figlio, www.psicologiacontemporanea.it, 24 aprile 2020.
[6]Nicastro A.L.P., La costruzione del legame adottivo: l’importanza dell’attaccamento, www.stateofmind.it, 17 maggio 2019.
[7]Fonagy P., Target M., Psicopatologia evolutiva - le teorie psicoanalitiche, Raffaello Cortina Editore, 2005, p. 289.
[8]Ibidem.
[9]Ibidem, pp. 296-297.
[10]Cebrelli A.M., Mamma, ho bisogno di te: 4 stili di attaccamento che ci condizionano sin dalla culla, www.greenme.it, 12 aprile 2018.
[11]Fonagy P., Target M., op. cit., pp. 296-297.
[12]Ibidem.
[13]Speranza A.M., Disorganizzazione dell’attaccamento e processi dissociativi: il contributo di Liotti allo studio delle traiettorie di sviluppo, Cognitivismo clinico, 2018, 15, 2, pp. 217-220.
[14]Canestrari R., Godino A., La psicologia scientifica - Nuovo trattato di psicologia, CLUEB, 2007, pp. 263 ss.
[15]Ibidem, pp. 243 ss.
[16]Biondi M. (a cura di), Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente, in Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), Raffaello Cortina Editore, 2014, pp. 180 ss.
[17]Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, in DSM-5, op. cit., pp. 68 ss.
[18]Disturbi dell’adattamento, in DSM-5, op. cit., pp. 332-333.
[19]Disturbo reattivo dell’attaccamento, in DSM-5, op. cit., pp. 307-308.
[20]Disturbo da impegno sociale disinibito, in DSM-5, op. cit., pp. 311-312.
[21]Cerullo F., Crisi nelle adozioni e tutela dei minori, in Minorigiustizia n. 2, 2020, p. 144.
[22]Ibidem.
[23]Salvaggio I., Ragaini C., Rosnati R., Quando l’adozione fallisce: un’indagine esplorativa presso il Tribunale per i Minorenni di Milano, Minorigiustizia n. 2, 2013, p. 154 ss.
[24]Salvaggio et al., op cit. La ricerca ha ad oggetto fascicoli relativi a pronunce di decadenza dalla responsabilità genitoriale in capo ai genitori adottivi nel periodo 2010-2012.
[25]Salvaggio et al., op cit.
[26]Muglia L., Adolescenza, (im)maturità, neuroscienze: gli scenari futuri tra nuove conquiste e imbarazzanti paradossi, in Minorigiustizia, Franco Angeli, n. 2, 2019, p. 50.
[27]Ibidem, pp. 51-52.
[28]Maini M., Vettori D., Essere in un gesto. I sensi dell’adozione, Franco Angeli, Milano, 2014, p. 56.
[29]Pirrò V., Muglia L., Rupil M., La crisi della famiglia e le nuove forme di devianza minorile: oltre la maschera, in Giustizia insieme, 21 aprile 2020.
[30]Winnicott, Playing and Reality, London, 1971.
[31]Cerullo F., op. cit. p. 145.
[32]Ibidem.
[33]Pirrò V., Muglia L., Rupil M., op. cit.; Muglia L., Cerasa A., Sabatini U., Adolescenti, dipendenze e recupero sociale: le nuove frontiere del diritto cognitivo, in Diritto Penale e Uomo, n. 9/2020, 16 settembre 2020, p. 15.
[34]Vedi sul punto Andreis E., Tra i ragazzini sale del 41 per cento il maltrattamento contro i familiari, in Corriere della Sera, 12 gennaio 2021, p. 5.
[35]Muglia et al., op cit., p. 15.
[36]Benini L., Ragaini C., Rosnati R., Adolescenti adottati autori di reato: una ricerca esplorativa, in Minorigiustizia, n. 2, 2013, pp. 104-112.
[37]Tale dato, tuttavia, non si discosterebbe dall’età media delle coppie adottanti nella procedura internazionale.
[38]Benini et al., op cit.
[39]Grigis L., Crisi adottive in adolescenza e giustizia penale minorile: una ricerca esplorativa sull’intervento dell’Ussm di Milano, in Minorigiustizia, n. 2, 2020, pp. 148-160.
[40]Ibidem.
[41]Casonato M., Ghioni A., Avataneo C., Caprioglio A., I complessi percorsi delle crisi adottive: dalla ricerca di una definizione alla prima indagine sul fenomeno in Piemonte, in Minorigiustizia, n. 2, 2020, p. 180.
[42]Vedi Caprin C., Ballarin L., Benedan L., Castelli A., Il comportamento sociale di bambini adottati dalla Federazione Russa: uno studio controllato, in Psicologia Clinica dello Sviluppo, 2015, 19(1), 61-78.
[43]De Bono I., Dal trauma all’esperienza adottiva, Trasformazioni, 1, 2006, pp. 39-41, www.spigahorney.it.
[44]Maini M., Vettori D., op. cit., p. 57.
[45]Cena L., Imbasciati A., Neuroscienze e teoria psicoanalitica: verso una teoria integrata del funzionamento mentale, Springer, 2014.
[46]Vedi Ammaniti M., Ferrari P.F., Il corpo non dimentica. L’io motorio e lo sviluppo della relazionalità, Raffaello Cortine Editore, Milano, 2020, pp. 36 ss.
[47]Imbasciati A., Cena L. (a cura di), Psicologia Clinica Perinatale babycentered. Come si costruisce la mente umana, Franco Angeli, 2020.
[48]Ammaniti M., Ferrari P.F., op. cit., p. 25.
[49]Per un approfondimento Paradiso L., Memorie familiari e narrazioni nella genitorialità e filialità adottiva, in Rivista Italiana di Educazione Familiare, n. 1, 2017, pp. 77-95.
[50]Nicolò Corigliano A.M., Il transgenerazionale tra mito e segreto, Interazioni, Fasc. 1, Milano, Franco Angeli, 1996.
[51]Baldascini L., Trasmissione inter e transgenerazionale “non locale”, in Giornale dell’Ordine degli Psicologi, Notiziario degli Psicologi Campani, diretto da R. Felaco, XIV n. 2, 2013, Caserta, Diaconia, pp. 14-15.
[52]Cheli M., La trasmissione transgenerazionale del trauma, 2016, p. 11, www.ausl.bologna.it. Vedi Silvestri M.T., I vissuti del bambino adottato nei confronti della madre biologica, www.stateofmind.it, 8 gennaio 2021.
[53]Baldascini L., op. cit., p. 17.
[54]Ibidem, p. 18.
[55]Ibidem, pp. 18-19; Bohm D., Universo, mente, materia, Como, Red Edizioni, 1996.
[56]Ibidem, pp. 19-20; Bell J.S., Speakable and unspeakable in quantum mechanics, New York, Cambridge University Press, 1993.
[57]Ibidem, p. 20; Radin D., Entangled minds, New York, Paraview Pocket Books, 2006.
[58]Chistolini M., Il Gruppo Adozioni Difficili, un’esperienza di intervento nelle gravi crisi adottive, in Minorigiustizia n. 2, 2020, p. 116.
[59]Vettori D., Maini M., Essere adolescenti adottati. Teorie e tecniche per la conduzione di gruppi, Franco angeli, Milano, 2020, p. 9.
[60]Ibidem, p. 22.
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