ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
In ricordo di Elena Pulcini. Per una filosofia impegnata di fronte alle sfide del presente
di Baldassare Pastore
La scomparsa di Elena Pulcini rappresenta una grave perdita per la cultura filosofica, non solo italiana. Professore ordinario di Filosofia sociale nell’Università di Firenze, in pensione dallo scorso primo novembre, Elena Pulcini ha affrontato, nel corso del suo itinerario di ricerca contrassegnato da una vasta produzione, alcune questioni basilari per la comprensione del mondo odierno e dei suoi cambiamenti, coniugando rigore scientifico e impegno civile.
Le analisi e le riflessioni sul soggetto femminile, sull’individualismo moderno, sulle forme del legame sociale, sulla cura, sulla vulnerabilità, sulla responsabilità, sulla crisi ecologica e le sfide globali hanno caratterizzato un percorso di studio profondamente coerente, nel quale la filosofia ha offerto un approccio critico al reale, contaminandosi con altri saperi, quali la psicoanalisi, l’antropologia, la sociologia, la letteratura, e, nel contempo, un deposito di concetti e immagini con cui orientarsi per articolare nuove prospettive. Da questo punto di vista, si può ben dire che gli esiti della ricerca di Pulcini, pur non avendo mai tematizzato espressamente questioni riguardanti l’esperienza giuridica, possono fornire un utile bagaglio, a disposizione dei giuristi, per pensare il loro compito in direzione del superamento dell’autoreferezialità e dell’apertura ad altri discorsi e saperi in un’ottica non riduzionistica.
Elena Pulcini ha visto nella Filosofia sociale l’ambito privilegiato per proporre una diagnosi del presente, cogliendone alcuni eventi significativi, e per snidare le aporie, le contraddizioni, gli aspetti degenerativi che lo segnano. L’attenzione alle patologie della società contemporanea, intese come sviluppi sbagliati o disturbati che compromettono la promessa, propria della modernità, dell’autorealizzazione degli individui, è stata una componente centrale dei suoi interessi, così come lo è stata la rivalutazione delle passioni, in quanto strutture significanti che presuppongono credenze e giudizi, e orientano le scelte, le convinzioni, i valori.
Le passioni non sono forze cieche e irrazionali, ma elementi universali, pur soggette, di volta in volta, a trasformazioni in base ai contesti storici e sociali nelle quali operano. Riflettere sulle passioni permette di gettare luce su ciò che gli esseri umani sono e su ciò che vorrebbero essere, sulle loro aspettative, sul modo in cui vivono e intendono vivere. Questo implica una consapevolezza critica volta a imparare a distinguere, per poterle contrastare, le passioni negative, egoistiche e distruttive (come l’odio, l’invidia, il risentimento) da quelle positive, empatiche, quali leve potenziali di una mobilitazione idonea a superare le due opposte polarità dell’individualismo illimitato e del comunitarismo endogamico, vere e proprie patologie della contemporaneità.
Lo sguardo di Pulcini, così, si dirige verso le radici emotive dell’etica, verso le motivazioni affettive che ispirano le domande di giustizia e che trovano origine proprio in determinate passioni. Emerge, qui, la considerazione per la funzione delle emozioni, con la dimensione cognitiva e comunicativa che esse presentano, e per i modi di coltivare la loro qualità etica, facendone un requisito essenziale della sfera morale e sociale (cfr. Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 2020). D’altra parte, guardando al diritto come linguaggio dell’interazione, non rappresenta un carattere proprio della giustizia il confrontarsi con le passioni umane?
In Elena Pulcini il bisogno di giustizia, originato dall’esperienza dell’ingiustizia e dal desiderio di combatterla, per far fronte alle diseguaglianze, allo sfruttamento, alla violenza, alla mancanza di riconoscimento, si lega all’urgenza della cura come antidoto all’atomismo, all’indifferenza, all’erosione della relazionalità intersoggettiva (cfr. L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 2001), all’incuria verso il mondo vivente e verso il drammatico stato dell’ambiente naturale, proponendone una reciproca integrazione. La complementarità tra giustizia e cura può trovare un terreno comune nella politica, intesa come «orizzontale azione di concerto», coinvolgimento nella sfera pubblica, sensibilità al bene collettivo, cooperazione (al di là di ogni irenica benevolenza) tra individui consapevoli della propria incompiutezza, debolezza, fragilità, e della dipendenza dagli altri. La nozione di vulnerabilità, in questo campo, diviene un fattore critico-decostruttivo, che conduce a revocare in dubbio la rappresentazione del soggetto astratto e autosufficiente, ma anche dinamico, che chiede agli assetti sociali e agli ordinamenti di rilegittimarsi continuamente, interrogandosi sui propri fondamenti ed esiti normativi.
Tra le passioni la paura occupa un posto centrale, a partire dalla sua ambivalenza. Per un verso, infatti, presenta, riprendendo Hobbes, un carattere «produttivo», capace di promuovere la conservazione della vita e l’ordine sociale e politico, garante della sicurezza; per l’altro, è all’origine di una serie di effetti negativi, che l’età contemporanea amplifica, creando una situazione diffusa di insicurezza e di ansia, accresciuta dalla percezione di impotenza generata dalla coscienza della difficile gestione delle sfide di carattere globale riguardanti le catastrofi ecologiche, la crisi finanziaria, le nuove povertà, le migrazioni (che ampliano l’idea di altro nella figura dell’altro distante nello spazio, straniero, sconosciuto), i conflitti etnico-religiosi, le generazioni future (che ampliano l’idea dell’altro nella figura dell’altro distante nel tempo), la deriva incontrollabile dei poteri economici e tecnologici. Si tratta di sfide che, se non governate, tendono a trasformare gli individui in passivi e impotenti spettatori di eventi.
La risposta alla paura legata alle minacce e ai rischi dell’età globale, che mostrano la nostra ineludibile condizione di vulnerabilità (un dato originario, esistenziale, che, comunque, ha bisogno di essere percepito e riconosciuto al fine di entrare nella dinamica dell’interazione) e l’interconnessione di ciascuno con il destino e la vita di tutti gli esseri umani, è vista nella cura, come pratica sociale implicante l’assunzione della responsabilità per gli altri (cfr. La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’era globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009). La responsabilità, connessa alla preoccupazione e alla sollecitudine per le sorti dell’umanità e del pianeta, manifesta la sua operatività sul piano della costruzione del legame sociale e nel ripensare l’idea di comunità come dimensione interna e costitutiva dell’individuo, ispirata, con la inevitabile contaminazione tra diversi, al rispetto delle singolarità e al recupero del riconoscimento solidale.
La proposta della filosofa va nella direzione di re-instaurare una «metamorfosi virtuosa della paura», che ne contrasti la rimozione, individuando la sua funzione propulsiva. La paura, pertanto, diventa la fonte emotiva della responsabilità che prelude ad una risposta etica. Entra in gioco, a questo riguardo, la facoltà di immaginazione, orientata a produrre un risveglio propositivo della paura, in quanto ci consente di dar conto del male presente e futuro e di prefigurare scenari, riattivando la fiducia nella possibilità del cambiamento, della trasformazione dell’esistente.
Invero, non può non essere evidenziato che molte delle questioni sulle quali si è concentrata la riflessione di Pulcini toccano il diritto. Tra queste rientrano l’interesse per la convivenza tra persone estranee le une alle altre e per le modalità dell’essere-in-comune, nonché l’attenzione alla giustizia: valore che il diritto persegue o promette di perseguire, che è coessenziale al suo uso e alla sua comprensione, e che coinvolge il pensiero giuridico verso un impegno valutativo e progettuale. L’impegno per la giustizia, anche nella formazione, nell’interpretazione, nell’applicazione imparziale ed equa delle regole giuridiche, si pone come momento cruciale per la realizzazione di quello che – riprendendo la frase di chiusura dell’ultimo libro di Elena Pulcini – «possiamo ancora chiamare, evocando uno slogan forse un po’ nostalgico ma quanto mai attuale, un mondo migliore».
Il giudice amministrativo come giudice dell’emergenza*
di Maria Alessandra Sandulli
1. La pandemia ha messo a dura prova, oltre alle nostre capacità di resistenza fisica, psicologica ed economica, le diverse espressioni del nostro sistema organizzativo e giuridico. L’attenzione è stata focalizzata soprattutto sul sistema sanitario e sui rapporti tra livelli istituzionali (Governo/Parlamento, Stato/Regioni e altri enti locali) e, di conseguenza, tra le fonti che, in modo alluvionale e talvolta contraddittorio, hanno cercato di far fronte alla diffusione e all’evoluzione del virus, rincorrendo un difficile e delicato bilanciamento tra le tutele dei diritti fondamentali (alla salute, alla vita, ma anche alla dignità e all’esercizio delle diverse libertà primarie).
Ma la pandemia ha messo a dura prova anche il nostro sistema giustizia, che è, a sua volta, essenziale per il funzionamento della società e per la tutela dei diritti umani e dei valori della democrazia. Fortunatamente, gli strumenti tecnologici e l’avvio, negli ultimi anni, del processo telematico, sono stati di grande aiuto.
Le risposte alle misure anti-contagio sono state però evidentemente diverse nei vari processi: basti soltanto pensare alla particolarissima importanza della prossemica nella valutazione delle testimonianze e delle deposizioni degli imputati.
Questo ciclo di incontri si profila dunque di massimo interesse.
Significativamente, il ciclo si apre con il processo amministrativo, offrendo così anche l’occasione per fornire elementi utili a riflettere sul ruolo del giudice amministrativo, ciclicamente messo in discussione da parte di studiosi e forze politiche che, in una prospettiva che ho già ripetutamente criticato, propugnano un superamento del tradizionale sistema dualista disegnato dalle leggi di fine ‘800 e confermato dalla nostra Costituzione, per concentrare la tutela giurisdizionale nelle mani del giudice ordinario. Se possiamo ritenere ormai pacificamente acquisita, anche nei Paesi che non ne avevano tradizione, la “necessità” di un “diritto amministrativo” e di regole processuali specialistiche per la tutela contro la relativa violazione, non vi è, come noto, altrettanta omogeneità di vedute sulla opportunità di un modello dualista di giustizia amministrativa, ovvero sull’affidamento, in tutto o in parte, del sindacato giurisdizionale sugli atti e sui comportamenti delle pubbliche amministrazioni (e dei soggetti ad esse equiparati) a un plesso giurisdizionale “dedicato”, distinto dalla magistratura ordinaria , soprattutto laddove, in forza dell’estensione dell’ambito della giurisdizione esclusiva, ciò implichi una scissione della funzione di nomofilachia sui diritti, anche fondamentali .
La risposta che il nostro sistema di giustizia amministrativa ha dato alla pandemia offre, a mio avviso, una riprova che, ferma l’opportunità di superare alcune criticità, il giudice amministrativo costituisca una “risorsa” fondamentale per assicurare l’effettività della tutela nei confronti del potere amministrativo e la “giustizia nell’amministrazione”. Il problema, se mai, è opposto. Per assolvere al suo ruolo, il giudice amministrativo deve mantenere la sua peculiarità, che è e deve restare quella di impedire che gli atti amministrativi ingiustamente lesivi di posizioni giuridicamente tutelate producano effetti – evidentemente pregiudizievoli anche per l’interesse generale alla “buona amministrazione” – e non deve cedere alle spinte verso una progressiva assimilazione al giudice ordinario (che è invece giudice della controversia), che, inevitabilmente pone il problema della ragionevolezza e della proporzionalità di una sostanziale duplicazione della stessa funzione. Per questa ragione, va nettamente stigmatizzata ogni tendenza a sostituire la tutela caducatoria con quella risarcitoria e a ridimensionare la tutela cautelare[1].
Il tema è di massima attualità perché l’emergenza è gestita attraverso provvedimenti amministrativi (decreti, ordinanze, circolari, linee guida, e le più svariate forme di raccomandazioni, indirizzi, istruzioni, intese, moduli di autodichiarazione, ecc.), perché l’impatto economico della pandemia ha imposto e impone misure di sostegno e di rilancio dell’economia, che, a loro volta, richiedono autorizzazioni e controlli amministrativi, perché l’esigenza di disporre in tempi estremamente brevi di ulteriori strutture, presidi sanitari, strumenti di prevenzione, risorse umane e tecnologiche, mezzi di trasporto e molto altro deve essere soddisfatta mediante atti amministrativi.
La pandemia ha rilanciato “la centralità del pubblico” e, quanto più si espande l’autorità, tanto più è delicato e importante il sindacato sull’esercizio del potere[2]: compito ancora più arduo in un sistema amministrativo estremamente complesso, nel quale si intrecciano e si sovrappongono e contrappongono svariati livelli e tipologie di competenze, portatrici di diversi e molteplici interessi, in un quadro normativo multilivello e notoriamente farraginoso, dove la confusione e l’incertezza sono aggravate dalla crisi della politica e dai problemi di legittimazione delle istituzioni rappresentative, alle quali, in ossequio al principio costituzionale della sovranità popolare, è affidato l’esercizio del potere normativo primario, fermo però il limite - tutt’altro che irrilevante – che, sempre per effetto della Costituzione, la sovranità nazionale incontra nel primato dell’Unione europea e il rispetto degli obblighi eventualmente assunti a livello internazionale o pattizio.
La necessità di valorizzare al massimo i finanziamenti disposti dall’Unione europea per fronteggiare l’eccezionale emergenza pandemica Covid-19 e i suoi drammatici effetti e di non perdere una eccezionale e irripetibile occasione di ri-partenza, trasformando il cd “debito buono” (perché consente investimenti idonei a determinare un’inversione di rotta verso una nuova crescita economica) in un irrecuperabile “debito puro” (che, per il suo straordinario ammontare, porterebbe inevitabilmente al tracollo del nostro Paese) impone, oggi più che mai, una “buona amministrazione” e, conseguentemente, un efficace sistema di controlli e di tutela giurisdizionale sull’operato dei soggetti – pubblici e privati – che devono in concreto assicurarla.
Il superamento della crisi sociale ed economica prodotta dalla pandemia è una “sfida epocale”, che l’Italia deve assolutamente vincere.
E, tema sul quale da ormai diversi anni cerco di richiamare l’attenzione di politici, giudici, amministratori e studiosi, l’economia non può ripartire senza legalità e sicurezza, perché gli operatori e gli investitori hanno bisogno di poter fare affidamento su regole certe, irrinunciabile viatico per acquisire quella “prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie e delle altrui condotte” che consente di correre “in ragionevole tranquillità”, direttamente o attraverso l’acquisto di beni o di quote societarie, i fisiologici (e dunque ineliminabili) “rischi d’impresa” di qualsiasi attività economica[3]. Per queste ragioni ho ripetutamente stigmatizzato la “trappola” nascosta nelle norme di “pseudosemplificazione” che celano in realtà l’ingiusto trasferimento dalle amministrazioni ai privati delle responsabilità della ricerca e della lettura delle regole applicabili alle singole fattispecie[4]. Ho quindi particolarmente apprezzato le parole con cui, nel Documento programmatico presentato il 17 febbraio scorso al Senato in occasione del voto di fiducia al nuovo Governo, il Presidente Draghi, con riferimento agli interventi per il Mezzogiorno, ha sottolineato che “Sviluppare la capacità di attrarre investimenti privati nazionali e internazionali è essenziale per generare reddito, creare lavoro, invertire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre creare un ambiente dove legalità e sicurezza siano sempre garantite”.
Il che – soprattutto in un quadro normativo come detto (e come noto) estremamente incerto, significativamente descritto come “labirinto”, “alveare”, o simili, tanto da aver indotto il legislatore a ridefinire in termini riduttivi gli ambiti della responsabilità erariale e dell’abuso d’ufficio[5] – si traduce in un fortissimo carico di responsabilità per le istituzioni che, in virtù e in osservanza dei precetti costituzionali, devono, non soltanto controllare e giudicare l’effettiva correttezza dell’operato dei soggetti deputati alla cura degli interessi pubblici, ma anche, se non soprattutto, “guidarne” l’azione, per assicurarne, per quanto possibile, la “legalità” e, dunque, la “giustizia” (come disposto dall’art. 100 Cost.).
I nuovi finanziamenti possono e devono essere l’occasione per investire anche sul sistema giustizia (recte, sul “servizio giustizia”[6]), perché “l’efficienza (della macchina) è condicio sine qua non (sebbene non anche condicio per quam) dell’effettività [in altro passaggio correttamente ridefinita come “efficacia”] (della tutela)” [7].
Per altro verso il sistema giustizia non può però permettersi “passi falsi” e deve, oggi più che mai, porsi, compatto e, in tutte le sue espressioni e punti di forza, “al servizio” del Paese, con lo stesso spirito e con la stessa “abnegazione” con cui lo hanno fatto e continuano a farlo i medici e gli operatori sanitari e lo hanno fatto e continuano a farlo gli assistenti sociali, gli insegnanti e tutti coloro che operano in settori che non hanno potuto “fermarsi”. Nella stessa linea, del resto, il 2 febbraio scorso, il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rivolto un accorato, ma fermo, “appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferi[ssero] la fiducia a un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica” per fare “fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili”. E, come abbiamo sentito nella ricordata presentazione del Documento programmatico al Senato, lo stesso senso di responsabilità ha ispirato il Presidente Draghi e i nuovi Ministri e gli altri autorevoli componenti del nuovo staff governativo ad accettare l’incarico.
Lo spirito e, mi si consenta, l’“abnegazione” dimostrata dagli operatori sanitari e da tutti coloro che li hanno supportati devono essere invero, come è logico, richiesti a (e dimostrati da) chiunque opera per la tutela di diritti fondamentali e/o, direttamente o indirettamente, per la tutela di interessi generali, come è (rientrando a pieno titolo in entrambe le categorie) sicuramente quello a che l’organizzazione e l’esercizio dell’attività amministrativa, cui è oggi “affidata” l’attuazione (e in buona parte la stessa puntuale definizione) delle linee di contrasto della pandemia e del disegno di ricrescita economica, sociale e culturale, siano, come detto, informati al massimo rispetto dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento[8], in linea con l’art. 97 Cost.[9] e con l’art. 41 della Carta di Nizza[10]. E dunque, in primis, agli organi di controllo dell’azione amministrativa[11] e ai giudici – plesso TAR-Consiglio di Stato – cui la Costituzione affida, in via generale, la tutela nei confronti dell’autorità amministrativa.
2. Da studiosa e da utente della giustizia amministrativa, posso convintamente affermare che la risposta del nostro ordinamento processuale amministrativo dinanzi a una situazione assolutamente straordinaria e fuori da ogni umana prevedibilità è stata oltremodo positiva.
Uno dei “punti di forza” del nostro processo amministrativo è infatti proprio la tutela cautelare, che costituisce il fulcro del sistema di garanzia contro l’esercizio del potere pubblico, il banco di prova della sua effettività, perché, come messo in evidenza dall’Unione europea nella Direttiva sui ricorsi in materia di contratti pubblici, una tutela è effettiva solo se l’ordinamento consente di impedire che gli atti assunti in violazione delle regole sostanziali producano i loro effetti.
Alla tutela cautelare il nostro codice processuale amministrativo ha dedicato ampio spazio, sapientemente bilanciando l’interesse del ricorrente alla cautela immediata con quello dell’amministrazione e dei controinteressati a prospettare gli argomenti a difesa dell’atto impugnato e dell’interesse pubblico di cui esso è portatore[12]. Rispondendo alle sollecitazioni delle istituzioni europee, il nostro legislatore ha introdotto un meccanismo di tutela cautelare super immediata per dare pronta risposta alle istanze di estrema gravità e urgenza che non possono trovare adeguata soddisfazione nei tempi, pur estremamente contratti, della trattazione collegiale. Si consente così una tutela cautelare monocratica, ammessa nei casi di massima urgenza addirittura ante causam, per il tempo necessario alla celebrazione della camera di consiglio per la decisione collegiale. Questo strumento, di cui i primi decreti legge della prima fase emergenziale hanno previsto un’applicazione generalizzata nel periodo della sospensione delle udienze, ha consentito alla giustizia amministrativa di non fermarsi mai e i giudici amministrativi, facendone tendenzialmente un utilizzo molto prudente, hanno sapientemente arginato il rischio (purtroppo presente nella norma) che esso fosse strumentalizzato come valvola per un più facile accoglimento di istanze cautelari monocratiche non giustificate da una reale impossibilità di attendere il collegio.
Anche alla ripresa delle decisioni collegiali, la cautela monocratica ha comunque continuato a giocare un ruolo fondamentale per assicurare la tutela nel diritto dell’emergenza.
I conflitti tra i vari livelli istituzionali scatenati dalla congerie di provvedimenti emergenziali hanno infatti indotto in vari casi le stesse Amministrazioni a ricorrere al giudice amministrativo, domandandogli l’adozione di decreti monocratici, addirittura in presenza delle condizioni per adire la Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzioni. La ragione del fenomeno è verosimilmente da ravvisare non solo nella maggiore agilità della proposizione dell’azione, ma anche nel fatto che il giudice amministrativo riesce a concedere le misure cautelari in tempi più brevi rispetto a quelli di cui necessita, per la struttura attuale del giudizio, la Corte costituzionale. Una ricerca di una giovane studiosa[13] ha posto in luce che, nella fase acuta della pandemia, il giudice amministrativo è stato investito con una straordinaria frequenza di ricorsi con richiesta di tutela cautelare immediata dallo Stato e dalle Regioni (dieci), proprio per l’urgenza di definire il conflitto sui provvedimenti per la gestione della crisi sanitaria incidenti, non solo sul riparto di attribuzione, ma anche su diritti e libertà fondamentali dei cittadini. Nella maggior parte dei casi, il giudice ha esaminato le istanze cautelari pronunciandosi con decreto monocratico. In un solo caso, per espressa richiesta da parte dell’Avvocatura dello Stato, direttamente definendo la questione nel merito con sentenza in forma semplificata.
Il modello della tutela cautelare di estrema urgenza per risolvere i conflitti tra i poteri pubblici nella gestione della pandemia è stato peraltro recentemente utilizzato, per la prima volta, dalla Corte costituzionale in relazione a un ricorso proposto, in via principale, dallo Stato contro una legge regionale. Il riferimento è alla nota pronuncia con cui la Corte (nelle forme dell’ordinanza collegiale) ha sospeso le disposizioni con cui la Regione Val d’Aosta aveva regolato l’apertura delle attività commerciali in termini meno restrittivi di quelli previste dalla legge statale[14]. Il giudice costituzionale ha fatto appello alla competenza legislativa esclusiva in tema di profilassi internazionale e alla gravità e urgenza di far fronte al pericolo di contagio per bloccare gli effetti della legge regionale nelle more della sentenza di merito, pubblicata il 12 marzo scorso[15].
Il modello utilizzato, come per i conflitti di attribuzione, è ricalcato sulla tutela cautelare nel processo amministrativo, confermandone la validità.
La buona risposta del nostro sistema processuale amministrativo alla pandemia non si è peraltro limitata alla tutela cautelare: le trattazioni collegiali sono state riaperte il 16 aprile, ma senza discussione e con un farraginoso meccanismo di scambi di mere difese scritte, che ha determinato non poche difficoltà applicative[16].
Vi è stata però anche a questo riguardo una immediata e proficua cooperazione tra giudici, accademia e classe forense. Gli stessi giudici amministrativi hanno prontamente rilevato le criticità del contraddittorio cautelare coatto[17], disponendo in vari casi il rinvio dell’udienza alla prevista riapertura estiva. Il discusso d.l. 28 del 30 aprile[18] ha poi introdotto il nuovo modello delle trattazioni orali da remoto, avviato a decorrere dal 30 maggio e, salva la breve riapertura delle udienze in presenza dal 1° agosto a fine ottobre (d.l. 37), tuttora unico modello operante tanto per le camere di consiglio quanto per le udienze di merito.
È innegabile che il susseguirsi di decreti, pareri, ordinanze, protocolli, linee indicative, direttive, non sempre univoci e non sempre attenti alle esigenze di tutte le parti ha creato incertezze e difficoltà applicative, alimentando dibattiti e critiche costruttive e, talvolta, anche serie preoccupazioni per gli scossoni che il nostro processo rischiava di ricevere sul piano dell’effettività.
Ma, alla fine, pur con i problemi tuttora creati dalla mal regolata commistione tra la discussione da remoto e la perdurante facoltà di depositare note scritte che nel modello originario dovevano sostituirla, il sistema sta funzionando. La discussione da remoto è lo strumento che consente la garanzia dell’oralità, fondamentale per le repliche alle eccezioni e controdeduzioni dell’ultima ora e per la necessaria interlocuzione diretta con il collegio. E con essa, la giustizia amministrativa, grazie all’organizzazione sul piano tecnologico e alla collaborazione di tutte le parti coinvolte (protocolli d’intesa con gli enti e le associazioni rappresentative dell’avvocatura) è riuscita a garantire un equo temperamento tra la tutela della salute (evitando il rischio di contagio) e un contraddittorio sostanzialmente completo, anche se, come più volte evidenziato, andrebbe rivisto e riordinato il sistema della “richiesta di discussione da remoto” e di deposito delle note scritte alternative alla discussione[19] e, se vi fosse esigenza o opportunità di protrarre il modello[20], si dovrebbe trovare una soluzione per garantire la pubblicità delle udienze di merito.
*Considerazione introduttive al Webinar Fondazione Occorsio – 12 aprile 2021 - La giustizia alla prova dell'emergenza
[1] Si rinvia alle considerazioni svolte, da ultimo, in M.A. SANDULLI, Cognita causa, in Giustizia insieme.it 2020 e Il giudice amministrativo come “risorsa” fondamentale per la “buona amministrazione", in corso di pubblicazione su Questione giustizia.it (fascicolo monotematico n. 1/2021 su La giurisdizione plurale: giudici e potere amministrativo) e ivi ulteriori rinvii.
[2] Così G. MONTEDORO e E. SCODITTI, Il giudice amministrativo come risorsa, in Questione giustizia.it, 2020
[3] M.A. SANDULLI, Crisi economica e giustizia amministrativa, in L. ANTONINI (a cura di) La domanda inevasa: Dialogo tra economisti e giuristi sulle dottrine economiche che condizionano il sistema giuridico europeo, Bologna, 2016: riflessioni ispirate anche dall’attenta indagine di G. MONTEDORO, Il giudice e l’economia, Roma, 2015.
[4] M.A. SANDULLI, La “trappola” dell'art. 264 del dl 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in Giustiziainsieme.it, 2020 e La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio, ivi, 2020 e in M.A. SANDULLI (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 3 ed., 2020.
[5] Cfr. i contributi presentati al webinar “Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza”, svoltosi il 13 luglio 2020, reperibili su Lamministrativista.it.
[6] Che la Corte costituzionale ha correttamente qualificato “servizio pubblico essenziale”: sent. 171 del 1996.
[7] M. LUCIANI, Garanzie ed efficienza nella tutela giurisdizionale, Rivista AIC, n. 4/2014.
[8] M.A. SANDULLI, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il processo, n. 3/2018; F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in giustiziainsieme.it. 2020 e Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in federalismi.it, n. 34/2020. Con specifico riferimento alla garanzia di una tutela effettiva nel processo amministrativo durante l’emergenza Covid-19, si vedano, ex multis: M.A. SANDULLI,Covid-19, fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo, in giustiziainsieme.it, 2020; F. FRANCARIO, L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa: le nuove misure straordinarie per il processo amministrativo, ivi, 2020; L’emergenza coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, ivi, 2020; R. DE NICTOLIS, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, ivi, 2020. Si vedano inoltre i vari webinar intervenuti sul tema, per tutti: “Processo amministrativo e COVID-19”, svoltosi nell’aprile 2020 (https://youtu.be/qv33zNnY6I8); L’emergenza COVID 19 e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro” svoltosi a luglio 2020 (https://youtu.be/8fBPo-RfN8s); “Il processo nell’emergenza pandemica” organizzato dall’Università LUM e svoltosi a settembre 2020 (https://youtu.be/E9zYR-JrBLs).
[9] Cfr. per tutti C. PINELLI, Articolo 97, Il “buon andamento” e l’”imparzialità” dell’amministrazione, in Commentario della Costituzione, G. Branca - A. Pizzorusso, Bologna - Roma, 1994, 31 ss.; D. SORACE, La buona amministrazione in M. Ruotolo (a cura di), La Costituzione ha sessant'anni: la qualità della vita 60 anni dopo, Napoli, 2008, 119 ss.; R. FERRARA, L'interesse pubblico al buon andamento delle pubbliche amministrazioni: tra forma e sostanza, in Dir. proc. amm., 2010, 31 ss.; e i contributi di G. CORSO, L. ANTONINI e M.R. SPASIANO, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit. e di A. MASSERA e M.R. SPASIANO, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017.
[10] Cfr. per tutti F. APERIO BELLA, Tra procedimento e processo. Contributo allo studio delle tutele nei confronti della pubblica amministrazione, Napoli, 2017, 220 ss e ivi per ulteriori riferimenti.
[11] I limiti di questo scritto non consentono di occuparsi anche di tali profili, ma un discorso generale sulla buona amministrazione non può evidentemente prescindere dall’importanza delle funzioni di controllo affidate alla Corte dei conti e opportunamente valorizzate dalla Corte costituzionale. Su di esse, si veda del resto l’intervento del Premier Draghi all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei conti (21 febbraio 2021).
[12] Rinvio a M.A. SANDULLI, La fase cautelare, in Dir. proc. amm. 2010.
[13] S. TRANQUILLI, Ai più importanti bivi non c’è segnaletica. I conflitti Stato-Regioni tra giudice amministrativo e Corte costituzionale, in corso di pubblicazione in Rivista AIC, 2021.
[14] Su cui cfr. inter alia i commenti di E. LAMARQUE, Sospensione cautelare di legge regionale da parte della Corte costituzionale, in Giustizia insieme.it, 2021; R. DICKMANN, Il potere della Corte costituzionale di sospendere in via cautelare l’efficacia delle leggi, in Federalismi.it, 2021; E. ROSSI, Il primo caso di sospensione di una legge (regionale): rilievi procedurali su un istituto al suo esordio, in Osserv. AIC, 2021.
[15] Su cui si rinvia agli interventi svolti nel webinar organizzato dal Centro Interdisciplinare di Studi sul Diritto Sanitario il 12 aprile scorso, reperibili sul sito del Centro (Cesdirsan.it).
[16] Cfr. M.A. SANDULLI, Covid-19 fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo, in Giustizia insieme, 2020.
[17] Cfr. gli interventi al webinar del 24 aprile 2020 su “Processo amministrativo e Covid-19”, liberamente ascoltabile su youtube, e le ordinanze Sez. VI, 21 aprile 2020, nn. 2538 e 2539, su cui anche C. VOLPE, Pandemia, processo amministrativo e responsabilità elettive, in giustizia-amministrativa.it, 2020.
[18] G. VELTRI, Il processo amministrativo. L’oralità e le sue modalità in fase emergenziale: “tutto andrà bene”, in giustizia-amministrativa.it, 2020.
[19] V. SORDI, La disciplina giurisprudenziale del processo amministrativo nell’emergenza Covid, in Giustizia insieme.it, 2021.
[20] M. LIPARI, Fase 2'. I giudizi camerali nel processo amministrativo, oltre la legislazione dell’emergenza, in Federalismi.it, 2020.
Gli istituti del processo telematico nella gerarchia delle fonti anche sovranazionali*
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. Introduzione. I processi telematici – 2. Le fonti di produzione del diritto processuale telematico – 3. (Segue) Le fonti sovranazionali – 4. L’evoluzione normativa del processo civile telematico in Italia – 5. (Segue) Il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44 – 6. (Segue) Il diritto processuale telematico speciale della pandemia – 7. Le attuali fonti di cognizione del processo civile telematico – 8. (Segue) Le norme nel codice di procedura civile e nella legge fallimentare – 9. (Segue) Le disposizioni su comunicazioni e notificazioni – 10. (Segue) Le regole sui depositi telematici – 11. A modo di conclusioni.
1. Introduzione. I processi telematici
Quando si parla oggi di “diritto dell’informatica” o di “processo telematico”, il pensiero dell’operatore pratico va in prima battuta, direi naturalmente, al c.d. “processo civile telematico” (PCT), cioè quello che può definirsi il frutto di un grande progetto organizzativo, promosso dal ministero della Giustizia a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, per migliorare la qualità dei servizi giudiziari nell’area del processo civile.
Si tratta di una nuova architettura tecnologica informatica, volta a consentire ai c.d. “operatori interni” (giudici e cancellieri) ed “esterni” (avvocati, consulenti tecnici, altri ausiliari del giudice, curatori, commissari giudiziali, etc.) di porre in essere esclusivamente in via telematica una serie di atti e operazioni nell’ambito del processo civile, quali il deposito di atti, la trasmissione di comunicazioni e notifiche, la consultazione dello stato dei procedimenti risultante dai registri di cancelleria, nonché dell’intero contenuto dei fascicoli informatici, il pagamento del contributo unificato e degli altri oneri fiscali.
Esiste, poi, anche un c.d. “processo penale telematico” (PPT), ma il suo sviluppo negli uffici giudiziari italiani, ha dovuto scontare un lunghissimo ritardo rispetto al settore civile; solo di recente e anche in dipendenza della nota normativa emergenziale dettata dalla pandemia che ancora ci affligge, sono stati avviati concretamente i progetti per la sua implementazione.
Negli ultimi anni, inoltre, sulla scia del “successo” del PCT, anche le altre giurisdizioni speciali hanno avviato, in alcuni casi con una rapidità significativa rispetto ai tempi impiegati per il processo civile, percorsi tesi all’informatizzazione – anche obbligatoria – dei rispettivi procedimenti.
Sulla scia di una tradizione storica che ha sempre riservato a ciascun plesso giurisdizionale un suo rito speciale, abbiamo così all’attualità il “processo amministrativo telematico” (PAT)[1], che si celebra ormai obbligatoriamente innanzi ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato[2], il “processo tributario telematico” (PTT)[3], in uso anch’esso ormai obbligatoriamente presso le commissioni tributarie provinciali e regionali[4], nonché il “processo contabile telematico”, che muove i suoi passi innanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti[5], l’unico peraltro, fra i detti riti speciali, a prevedere una clausola generale di rinvio al processo civile telematico[6].
Nel prosieguo di questo scritto ci dedicheremo all’esame delle fonti del diritto processuale telematico, entro i confini del PCT, poiché esulano dal nostro tema i procedimenti giurisdizionali che non sono riservati alla trattazione del giudice ordinario.
2. Le fonti di produzione del diritto processuale telematico
Secondo la tradizione manualistica, si denominano “fonti del diritto” sia i procedimenti attraverso cui le norme giuridiche vengono ad esistenza, e si parla in questo caso di “fonti di produzione”, sia i documenti nei quali sono contenute le medesime norme, e allora si discorre di “fonti di cognizione”.
È chiaro, dunque, che se si volesse seguire la bipartizione classica appena enunciata nel descrivere le fonti del nostro “diritto processuale telematico”, partendo dalle fonti di produzione, sarebbe necessario fare riferimento anzitutto alla nostra legge fondamentale, che all’art. 111, comma primo, nel testo novellato dall’art. 1 della legge cost. 23 novembre 1999 n. 2, recita testualmente che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
Orbene, la prima questione che si pone all’interprete è se la “riserva di legge processuale” posta dalla Costituzione sia “assoluta”, imponendo cioè una rigida predeterminazione legislativa delle modalità di svolgimento del giudizio, il che comporterebbe l’esclusione dalla materia che ne forma oggetto di ogni normazione regolamentare, ad eccezione soltanto dei regolamenti di stretta “esecuzione” della legge; ovvero se si tratti di una riserva “relativa”, dove gli interventi provenienti da fonte non legislativa sono consentiti, purché la legge abbia disciplinato la materia in modo sufficiente e comunque idoneo a circoscrivere la discrezionalità di chi è autorizzato ad introdurre una formazione secondaria.
Se si aderisce all’orientamento dottrinario largamente maggioritario[7], che attribuisce alla riserva di legge processuale una natura “relativa”, può addivenirsi allora alla conclusione che l’art. 111, comma primo, Cost., pone unicamente il vincolo che il processo (civile, penale, tributario, amministrativo o contabile), debba essere disciplinato da una legge o da un atto avente forza di legge (come il decreto legge ovvero il decreto legislativo), restando tuttavia consentita la possibilità di dettare ulteriori regole di attuazione del rito, anche attraverso fonti regolamentari di natura secondaria[8].
Ora, va detto subito che, a livello di normazione primaria, in Italia esiste una disciplina generale applicabile a tutte le pubbliche amministrazioni – e quindi in linea teorica anche all’amministrazione della giustizia – che si occupa compiutamente di dettare le regole sui documenti digitali e sulla loro trasmissione in via telematica, id est quello che può definirsi il “nucleo essenziale” di qualunque processo telematico: si tratta del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82-Codice dell’Amministrazione Digitale (d’ora innanzi il CAD), che prevede appunto norme di principio, tra le altre, sull’identità e domicilio digitale (art. 3-bis), sui pagamenti telematici (art. 4), sui documenti digitali e sulle firme elettroniche (art. 20 e segg.), sulla conservazione dei fascicoli informatici (art. 40 e segg.), sulla posta elettronica certificata (art. 48), sull’accesso ai dati in possesso dell’amministrazione (art. 50 e segg.).
Il CAD, peraltro, nel suo corpo rinvia senz’altro ad altre disposizioni di natura regolamentare: si pensi all’art. 48 CAD che ancora oggi – sia pure, come si dirà tra breve, ad tempus –, in tema di posta elettronica certificata (PEC) richiama il d.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68, Regolamento recante disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell'articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3, che è appunto un regolamento governativo delegato, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400.
E si pensi poi all’art. 71 CAD che individua le c.d. “regole tecniche” – cioè una disciplina operativa di dettaglio avente natura squisitamente informatica – necessarie per l’attuazione delle disposizioni di principio contenute nel medesimo codice.
Dette regole tecniche, di rango sicuramente subvalente rispetto alla legge, in origine dovevano essere adottate con uno o più decreti del Presidente del consiglio dei ministri o del ministro delegato per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, di concerto con i ministri competenti, sentita la conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, ed il Garante per la protezione dei dati personali nelle materie di competenza, previa acquisizione obbligatoria del parere tecnico di DigitPA.
Dopo l’ultima novella dell’art. 71 CAD, introdotta dal d.lgs. 13 dicembre 2017, n. 217-Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 179, concernente modifiche ed integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ai sensi dell'articolo 1 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, oggi è previsto che le regole tecniche per l’attuazione del CAD siano dettate sotto forma di “Linee guida”, adottate non più in forma regolamentare (come detto, con decreto del Presidente del consiglio o di un ministro delegato), ma direttamente dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), divenendo efficaci non più dopo la pubblicazione in G.U. (dove è solo previsto che si dia notizia della loro adozione), bensì nell’apposita area del sito internet istituzionale dell’AgID.
Attualmente, dopo la pubblicazione sul sito dell’AgID, avvenuta in data 12 settembre 2020, delle “Linee Guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici”, ai sensi dell’art 1.4 delle medesime linee guida, esse troveranno applicazione a decorrere dal duecento settantesimo giorno successivo alla loro entrata in vigore; dunque dal 9 giugno 2021 devono ritenersi abrogati il d.p.c.m. 3 dicembre 2013, contenente “Regole tecniche in materia di sistema di conservazione”, il d.p.c.m. 13 novembre 2014, contenente “Regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici” e il d.p.c.m. 3 dicembre 2013, contenente “Regole tecniche per il protocollo informatico[9].
Ora, sebbene appia giustificata una certa cautela nell’incasellare le “Linee guida” nell’ambito di una tra le fonti del diritto, va registrato che già la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di definire le “Linee guida” emanate dall’AgID come «un atto di regolazione di natura tecnica (con) una valenza erga omnes e un carattere di vincolatività», con la conseguenza che le medesime devono ritenersi pienamente giustiziabili dinanzi al giudice amministrativo[10].
3. (Segue) Le fonti sovranazionali
La disciplina di rango primario e subprimario, dettata in Italia dal CAD e dalle c.d. “Linee guida”, risente poi necessariamente delle disposizioni contenute nelle fonti di livello eurounitario, dettate con il preciso obbiettivo di uniformare determinate materie comuni al mercato interno.
Al riguardo, assumono di certo sicura rilevanza le direttive tese ad incentivare nei singoli stati, l’adozione di norme processuali telematiche comuni in determinati settori del contenzioso civile.
È il caso della direttiva UE n. 1023/2019 del Parlamento europeo e del Consiglio, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, nonché le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, adottata all’esito dei negoziati e dei triloghi sulla originaria Proposta COM (2016) 723 final del 22 novembre 2016 (la c.d. “direttiva insolvency”), pubblicata sulla G.U. dell’UE il 26 giugno 2019, che all’art. 28 dispone che gli Stati membri assicurino a tutte le parti coinvolte nelle procedure concorsuali, la facoltà di «eseguire attraverso mezzi di comunicazione elettronica» il deposito delle domande di insinuazione al passivo, dei piani di ristrutturazione o di quelli di rimborso e per eseguire le notifiche di rito ai creditori [art. 28, lett. a), b) e c)], nonché le contestazioni e le impugnazioni da parte dei creditori [(art. 28, lett. d)][11].
Ma il pensiero corre anche alle norme direttamente applicabili negli stati membri, come quelle contenute in un regolamento UE che, ai sensi dell’art. 288 del TFUE, «è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri».
Così il regolamento UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014, n. 910 (reg. e-IDAS)[12], in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno, pubblicato nella G.U. dell’UE del 28 agosto 2014 ed entrato in vigore il 1 luglio 2016, stabilisce le condizioni per il riconoscimento reciproco in ambito di identificazione elettronica, nonché le regole comuni per le firme elettroniche, l’autenticazione su web ed i relativi servizi fiduciari per le transazioni elettroniche.
Proprio per assicurare la necessaria uniformità tra la disciplina del CAD e quella contenuta nel reg. e-IDAS, è stato adottato il richiamato d.lgs. n. 217 del 2017, che ha novellato diverse disposizioni del Codice e, in particolare, le norme contenute nella sezione I del capo II, dedicata appunto al “documento informatico”.
E sempre tra le norme contenute nel reg. e-IDAS, va ricordata quella (art. 44) che disciplina i “servizi elettronici di recapito certificato qualificati”, destinati a sostituire integralmente la posta elettronica certificata ai sensi del d.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68, cui peraltro ancora oggi rinvia l’art. 48 CAD, in attesa dell’adozione di un decreto del Presidente del consiglio dei ministri, che sancirà l’abrogazione di quest’ultima disposizione[13].
4. L’evoluzione normativa del processo civile telematico in Italia
Come si è accennato in precedenza, la storia del processo telematico non può dirsi certo il frutto di un percorso lineare, avviato dal legislatore con il preciso obbiettivo di informatizzare i processi civili italiani.
Il primo passo di quella che oggi può definirsi, senza tema di smentita, la più importante riforma strutturale intervenuta sul processo civile negli ultimi trent’anni, si fa tradizionalmente risalire alla ormai lontanissima legge 2 dicembre 1991, n. 399-Delegificazione delle norme concernenti i registri che devono essere tenuti presso gli uffici giudiziari e l'amministrazione penitenziaria, che modificando l’art. 28 disp. att. c.p.c., affidò al ministro della Giustizia il compito di disciplinare i registri di cancelleria con la previsione, per la prima volta, della possibilità che il registro civile fosse “tenuto in forma automatizzata” (art. 4, della legge n. 399 del 1991).
Tuttavia, solo dopo quasi dieci anni si giunse all’adozione del d.m. 27 marzo 2000, n. 264-Regolamento recante norme per la tenuta dei registri presso gli uffici giudiziari, adottato in esecuzione della cennata disposizione, il quale all’art. 3 stabilì – innovando radicalmente la disciplina del processo civile –, che tutti i registri di cancelleria degli uffici giudiziari dovessero essere tenuti in modo informatizzato, secondo le regole procedurali fissate dal medesimo ministero della Giustizia, soggiungendo che la tenuta dei registri su supporto cartaceo restava consentita, previa autorizzazione ministeriale, soltanto in caso di richiesta motivata del capo dell’ufficio interessato e sentito il Responsabile dei sistemi informativi automatizzati (SIA).
Il d.m. 27 aprile 2009-Nuove regole procedurali relative alla tenuta dei registri informatizzati dell’amministrazione della Giustizia, sostitutivo del precedente d.m. 24 maggio 2001, contiene ancora oggi la disciplina vigente in materia di registri informatici.
Il primo testo normativo ad introdurre una disciplina compiuta e dettagliata sulla formazione e trasmissione dei documenti informatici nel processo civile (ma non in quello penale), fu il d.p.r. 13 febbraio 2001, n. 123-Regolamento recante disciplina sull'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti.
Si trattò di un regolamento governativo c.d. indipendente, adottato cioè ai sensi dell’art. 17, comma 1, lettera c), della legge n. 400 del 1988, in una materia – quella del rito telematico – in cui mancava appunto una disciplina dettata da una legge o da un atto avente forza di legge; con il detto regolamento venne disciplinato l’uso degli strumenti informatici non solo nel processo civile, ma anche nei processi amministrativi e in quelli innanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti (art. 18 del d.p.r. n. 123 del 2001).
L’art. 3, comma 3, del d.p.r. n. 123 del 2001, poi, stabilì che con decreto del ministro della Giustizia, sentita l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, fossero stabilite le “regole tecnico-operative” per il funzionamento e la gestione del sistema informatico civile, nonché per l’accesso ai relativi registri dei difensori delle parti e degli ufficiali giudiziari; venne così adottato prima il d.m. 14 ottobre 2004-Regole tecnico-operative per l'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, successivamente sostituito dal d.m. 17 luglio 2008-Regole tecnico-operative per l'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile.
In attesa del concreto avvio del PCT sulla base della disciplina dettata dal d.p.r. n. 123 del 2001, il legislatore si dedicò ad una serie di interventi sporadici sul codice di rito e sulle leggi speciali, sostanzialmente tesi a favorire esclusivamente lo sviluppo delle comunicazioni telematiche di cancelleria: così, prima l’art. 17 d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, limitatamente alle cause soggette al c.d. rito societario, e poi l’art. 2, comma 1, lett. b) n. 2), della legge 28 dicembre 2005, n. 263-Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, con portata generalizzata a tutti i processi, novellando direttamente l’art. 136, comma terzo, c.p.c. e l’art. 170 comma quarto, c.p.c., introdussero la possibilità di eseguire le comunicazioni a mezzo telefax o a mezzo di posta elettronica “nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi”.
Analoga previsione venne inserita nella legge fallimentare riformata, attraverso il d.lgs. 9 gennaio 2006, n 5-Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80.
Ancora, l’art. 5, comma 1, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40-Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80, novellando integralmente l’art. 366 c.p.c. in tema di processo in Cassazione, introdusse un nuovo quarto comma della detta disposizione, a tenore del quale “Le comunicazioni della cancelleria e le notificazioni tra i difensori possono essere fatte al numero di fax o all’indirizzo di posta elettronica indicato in ricorso dal difensore che così dichiara di volerle ricevere.”
In questo quadro normativo, assai frammentato e ben poco coerente, venne a collocarsi, con una portata altamente innovativa, l’art. 51 del d.l. 25 giugno 2008 n. 112-Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, in forza del quale venne esteso nei singoli uffici giudiziari – previa adozione di un decreto del ministro della Giustizia, sentiti l’Avvocatura Generale dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense e i consigli dell’ordine degli avvocati interessati – l’uso della posta elettronica certificata per tutte le comunicazioni e notificazioni di cancelleria.
Con la legge 18 giugno 2009, n. 69-Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, invece, il legislatore torna a modificare il codice di rito, stabilendo all’art. 83, comma terzo, che la procura alle liti può essere rilasciata anche telematicamente con firma digitale, prevedendo altresì la facoltà dell’ufficiale giudiziario di notificare anche atti c.d. nativi digitali (art. 137 c.p.c.).
5. (Segue) Il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44
Nel corso dell’anno 2009 il Governo decise di cambiare radicalmente l’approccio al tema del processo telematico, adottando una nuova disciplina – ed estendendone per la prima volta la portata anche a quello penale –, in attuazione dei principi adottati dal CAD e in sostituzione della pregressa normativa dettata dal d.p.r. n. 123 del 2001, peraltro mai concretamente applicata nel processo civile, se non in via sperimentale (e limitatamente al solo procedimento monitorio) in alcuni uffici giudiziari.
Così l’art. 4, comma 1, del d.l. 29 dicembre 2009, n. 193-Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario, convertito, con modificazioni, nella legge 22 febbraio 2010, n. 24, impose per legge una sostanziale “delegificazione” del diritto processuale telematico, affidando ad un decreto del ministro della Giustizia, di concerto con il ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, il compito di individuare le «regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione», con l’unico criterio direttivo che siffatte regole fossero adottate «in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni». Restava fermo, poi, che le “regole tecniche” vigenti all’entrata in vigore del d.l. n. 193 del 2009, continuassero ad applicarsi soltanto fino alla data di entrata in vigore del detto decreto del ministro della Giustizia.
Ancora, il comma 2 dell’art. 4 del d.l. 193 del 2009, innovando decisamente la pregressa disciplina, che era incentrata sulla c.d. “casella di posta elettronica certificata del processo telematico” (CPECPT), sancì che nel processo civile e penale tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica, si dovessero effettuare mediante posta elettronica certificata (PEC), ai sensi del CAD, nonché del d.p.r. n. 68 del 2005 e delle regole tecniche stabilite con il previsto decreto del ministro della Giustizia.
Sulla scorta della delega del legislatore, è stato così adottato il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44-Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010 n. 24[14].
Si tratta, per espressa previsione del d.l. n. 193 del 2009, di un regolamento ministeriale ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, che nella sostanza, sulla scia del precedente costituito dal d.p.r. n. 123 del 2001[15], detta la disciplina concreta del processo telematico, sia civile che penale, attraverso la predisposizione di una serie di norme di dettaglio sulla tenuta dei registri informatici di cancelleria, sui depositi telematici degli atti, nonché sulle comunicazioni e notificazioni, comprese quelle tra avvocati.
L’art. 34 del d.m. n. 44 del 2011, poi, affida il compito di individuare le “specifiche tecniche” – cioè le norme di dettaglio di carattere squisitamente tecnico – ad un provvedimento adottato dal Responsabile della Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati (DGSIA) del ministero della Giustizia.
Il primo decreto del Direttore generale DGSIA venne adottato il 18 luglio 2011 (pubblicato nella G.U. del 29 luglio 2011); seguito da un nuovo provvedimento datato 16 aprile 2014 (pubblicato nella G.U. del 30 aprile 2014), modificato successivamente il 28 dicembre 2015 (pubblicato nella G.U. del 7 gennaio 2016).
Questa architettura del sistema, congegnata su una norma primaria che pone i principi (l’art. 4 del d.l. n. 193 del 2009), la quale delega ad un regolamento del ministro della Giustizia la disciplina in concreto del processo telematico, che, a sua volta, affida ad un provvedimento di un direttore generale del medesimo ministero l’adozione delle “specifiche tecniche”, operanti per le questioni di natura puramente informatica, è stata tuttavia messa a dura prova – almeno per il PCT – dal sopravvenire di talune norme, tutte di rango legislativo, intervenute dopo il d.m. n. 44 del 2011 a disciplinare taluni aspetti del processo telematico, già compiutamente trattati nel cennato regolamento ministeriale.
Più in dettaglio, dopo l’entrata in vigore del d.m. n. 44 del 2011, non sono mancati ulteriori micro interventi normativi, del tutto privi di respiro generale, tesi a modificare – reiteratamente – alcune norme del codice di rito civile (specificatamente gli artt. 125, 136, 366 c.p.c.) per favorire l’avvio delle comunicazioni di cancelleria a mezzo PEC.; si pensi al d.l. 6 luglio 2011, n. 98-Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 11, il d.l. 13 agosto 2011 n. 138-Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 e, infine, alla legge 12 novembre 2011, n. 183-Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato.
Nel corso dell’anno 2012, la stagione riformista del processo civile telematico ha subito una rapidissima accelerazione dettata da una decretazione d’urgenza di fonte primaria, che con cadenza tendenzialmente annuale almeno fino al 2016, ha finito per riplasmare, rispetto al regolamento ministeriale del 2011, l’attuale assetto del PCT.
Anzitutto, con l’art. 16 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179-Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, novellato a brevissima distanza dalla sua conversione in legge, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228-Legge di stabilità 2013, vennero abrogati i commi da 1 a 4 dell’art. 51 del d.l. n. 112 del 2008 e si pongono le basi per l’obbligatorietà dell’uso PEC, per tutte le comunicazioni e notificazioni di cancelleria ai difensori delle parti e ai consulenti tecnici, sia nel processo civile che in quello penale, almeno limitatamente ai tribunali e alle corti d’appello.
L’art. 17 del d.l. 179 del 2012, invece, introdusse una serie di rilevanti novità in tema di notificazioni del ricorso per la dichiarazione di fallimento, generalizzando i depositi telematici nella verifica dello stato passivo e l’uso della PEC nelle comunicazioni del curatore.
Ma la grande novità del nuovo corso sul processo telematico, avviato prima con la cennata legge n. 228 del 2012 e successivamente con il d.l. 24 giugno 2014, n. 90-Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, cui ha fatto seguito il d.l. 27 giugno 2015, n. 83-Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132 e infine con il d.l. 3 maggio 2016, n. 59-Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione, convertito con modificazioni dalla legge 30 giugno 2016, n. 119, fu costituita dalla previsione – per la prima volta nell’ordinamento – dell’obbligatorietà, sia pure con una certa gradualità temporale e limitatamente agli atti c.d. endoprocessuali, del PCT in tutti i tribunali e nelle corti d’appello.
La tecnica utilizzata dal legislatore – assai discutibile – è stata quella di intervenire all’interno della sezione VI del d.l. n. 179 del 2012, intitolata “Giustizia digitale”, con l’introduzione di ben altri dieci articoli (gli artt. 16-bis, 16-ter, 16-quater, 16-quinquies, 16-sexies, 16-septies, 16-octies, 16-novies, 16-decies e 16-undecies); attraverso il susseguirsi della cennata decretazione d’urgenza si è sostanzialmente finito per introdurre, attraverso atti aventi forza di legge, sia pure in maniera alquanto caotica, una complessa disciplina sul PCT, che spazia dalle comunicazioni e notificazioni di cancelleria, all’obbligatorietà dei depositi di tutti gli atti endoprocessuali (compresi quelli del giudice per il procedimento monitorio), fino alle notifiche telematiche a cura degli avvocati, previste dal novellato art. 3-bis della legge 21 gennaio 1994, n. 53-Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali.
6. (Segue) Il diritto processuale telematico speciale della pandemia
Infine, non può essere omesso un rapido cenno all’ultima stagione, caratterizzata dalla legislazione emergenziale in tema di PCT, che si è accompagnata alla pandemia che ancora affligge il nostro paese a partire dalla primavera del 2020[16].
Anzitutto, per evitare assembramenti degli avvocati nelle cancellerie degli uffici giudiziari, prima l’art. 2, comma 6, del soppresso d.l. 8 marzo 2020, n. 11 e poi anche l’art. 83, comma 11, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18-Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, hanno stabilito che dal 9 marzo 2020 e fino al 30 giugno 2020, negli uffici che avevano la disponibilità del «servizio di deposito telematico», anche gli atti e documenti di cui all'art. 16-bis, comma 1-bis, del d.l. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 221 del 2012, vale a dire gli atti introduttivi del giudizio (atto di citazione, ricorso o comparsa di costituzione), fossero depositati esclusivamente con le modalità della trasmissione telematica. Questa disposizione è stata poi riconfermata dall’art. 221, comma 3, del d.l. 19 maggio 2020, n. 34-Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 e, in forza della proroga disposta prima con il d.l. 28 ottobre 2020, n. 137-Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 e poi con il d.l. 1° aprile 2021, n. 44-Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni antiSARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici, ancora in corso di conversione, il deposito telematico degli atti introduttivi è oggi obbligatorio nei tribunali e nelle corti d’appello fino al 31 luglio 2021.
Inoltre, con la legge n. 27 del 2020, di conversione del d.l. n. 18 del 2020, venne introdotto il comma 11.1. dell’art. 83, che ha imposto dal 9 marzo 2020 e fino al 31 luglio 2020, nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione, pendenti innanzi al tribunale e alla corte di appello, il deposito anche degli atti del magistrato esclusivamente con modalità telematiche.
Ancora, va ricordato che sempre in sede di conversione del d.l. n. 18 del 2020, fu inserito anche il comma 11-bis dell’art. 83, in forza del quale innanzi alla Corte di cassazione il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati «può avvenire in modalità telematica nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. L’attivazione del servizio è preceduta da un provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia che accerta l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici».
Successivamente, il comma 5 dell’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020, ha reintrodotto la medesima disposizione, con efficacia temporale estesa attualmente fino al 31 luglio 2021. In questo modo, con una procedura chiaramente in deroga a quella generale ancora oggi stabilita dell’art. 16-bis, comma 6, del d.l. n. 179 del 2012 (imperniata sul decreto del ministro della Giustizia), con il provvedimento adottato il 27 gennaio 2021 del Direttore generale della DGSIA, a decorrere dal 31 marzo 2021 è oggi consentito – in via esclusivamente facoltativa – il deposito telematico di tutti gli atti di parte innanzi alla Corte di cassazione.
Meritano solo un cenno, ancora, le disposizioni contenute nell’art. 221, commi 4, 6, 7, del d.l. n. 34 del 2021 e nell’art. 23, commi 8-bis e 9, del d.l. n. 137 del 2020, che – fino al 31 luglio 2021 – autorizzano la celebrazione delle udienze e delle camere di consiglio a distanza, mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale della DGSIA[17], nonché la sostituzione delle udienze civili, comprese quelle innanzi alla Corte di cassazione, attraverso lo scambio di note scritte depositate telematicamente dalle parti (la c.d. “udienza cartolare”).
Infine, vanno menzionate le novità in tema di procura speciale alle liti introdotte, sempre in sede di conversione del d.l. n. 18 del 2020, attraverso il comma 20-ter dell’art. 83.
Secondo la norma in commento, a partire dal 29 aprile 2020 (data di entrata in vigore della legge n. 27 del 2020, di conversione del d.l. n. 18 del 2020) e fino alla cessazione dello stato di emergenza – attualmente fissata al 30 aprile 2021 –, la sottoscrizione della procura speciale potrà essere apposta dalla parte, «anche su un documento analogico trasmesso al difensore, anche in copia informatica per immagine, unitamente a copia di un documento di identità in corso di validità, anche a mezzo di strumenti di comunicazione elettronica».
7. Le attuali fonti di cognizione del processo civile telematico
Se si volesse provare a sistematizzare la complessa e stratificata disciplina del PCT, in attesa di un riordino per via normativa della materia, che appare francamente imprescindibile all’interprete, appare possibile individuare almeno tre gruppi, tendenzialmente omogenei, di disposizioni che rilevano nella ricostruzione del vigente quadro normativo del processo telematico in ambito civile: un primo fascio di tali disposizioni è costituito dagli articoli del codice di rito e della legge fallimentare, via via novellati nel corso degli anni senza un progetto complessivo, ma in maniera addirittura casuale, con l’unico tratto comune di essere stati inseriti, mediante la tecnica della novellazione, nel corpus delle leggi processuali già vigenti prima dell’avvento del PCT; un secondo gruppo di norme può essere riunito sotto il comune oggetto costituito dalla disciplina sulle comunicazioni e notificazioni di cancelleria e sulle notifiche curate dagli ufficiali giudiziari e direttamente dagli avvocati; un terzo gruppo di regole, infine, concerne la forma degli atti processuali telematici e le modalità di deposito nei registri informatici di cancelleria.
8. (Segue) Le norme nel codice di procedura civile e nella legge fallimentare
Assume sicuro rilievo nel Codice di rito civile la norma sulla procura telematica contenuta nell’art. 83, mentre in relazione alle comunicazioni telematiche vanno ricordati, in rapida successione, l’art. 133, secondo comma, sull’inidoneità della comunicazione della sentenza a fare decorrere il termine per l’impugnazione, l’art. 136, comma secondo, che prevede l’uso generalizzato della PEC per le comunicazioni di cancelleria, nonché l’art. 45 disp. att. c.p.c. e gli artt. 137 e 149-bis che disciplinano, rispettivamente, le notifiche cartacee di documenti informatici e le notifiche telematiche a cura dell’ufficiale giudiziario; infine, deve essere ricordato l’art. 366, secondo comma, sulle comunicazioni agli avvocati in Cassazione.
Va senz’altro segnalata, per il processo di cognizione, la modifica apportata all’art. 207, comma secondo, c.p.c. che ha eliminato l’obbligo di sottoscrizione del verbale da parte del testimone, al fine dichiarato di favorire la stesura in formato digitale dei verbali di causa.
Numerosi poi gli interventi sul processo esecutivo: si va dalla pubblicità degli avvisi mediante il portale delle vendite pubbliche (art. 490 e art. 161-quater disp. att. c.p.c.), alla ricerca dei beni da pignorare con modalità telematiche (art. 492-bis e artt. 155-bis, 155-ter e 155-quater, 155-quinquies e 155-sexies disp. att. c.p.c.), all’iscrizione a ruolo del processo esecutivo con modalità telematica (art. 159-ter disp. att. c.p.c) alle vendite coattive con modalità telematiche (art. 161-ter).
Anche nella legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) e nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270) si registra l’intervento su diverse disposizione del legislatore, ispirato all’applicazione dei principi del processo telematico mediante la tecnica della novellazione delle norme vigenti: si pensi alle modalità di notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento (art. 15 l.fall.), alle comunicazioni a cura del curatore, del commissario giudiziale nel concordato preventivo, del commissario liquidatore nelle liquidazioni coatte amministrative, del commissario giudiziale e del commissario straordinario nell’amministrazione straordinaria (artt. 31-bis, 171 e 207 l.fall., artt. 22 e 59 d.lgs. n. 270 del 1999), al deposito telematico dei rapporti riepilogativi del curatore (art. 33 l.fall.), all’informatizzazione integrale del procedimento di verifica dello stato passivo (art. 93 e segg. l.fall.), alle modalità di deposito delle osservazioni dei creditori in sede di rendiconto presentato dal curatore (art. 116 l.fall.), all’adunanza dei creditori nel concordato preventivo celebrata con modalità telematiche (artt. 163, comma secondo, n. 2-bis, e 175 l.fall.).
9. (Segue) Le disposizioni su comunicazioni e notificazioni
La disciplina fondamentale sulle comunicazioni e notificazioni di cancelleria è oggi contenuta nei commi, da 4 a 11, dell’art. 16 del d.l. n. 179 del 2012, come novellato dalla legge n. 228 del 2012 prima e successivamente dal d.l. n. 90 del 2014.
Ma assumono rilievo anche le norme – introdotte entrambe dal d.l. n. 90 del 2014 – contenute nell’art. 16-ter del d.l. n. 179 del 2012, come da ultimo novellato dall’art. 28, comma 1, lett. c), del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, ove si rinviene la specifica indicazione dei “pubblici elenchi” nei quali è consentito ricercare l’indirizzo per notificare via PEC, e nell’art. 16-sexies del medesimo d.l. n. 179, che disciplina in via generale per tutti i processi civili – con l’eccezione di quelli pendenti in Cassazione – il c.d. “domicilio digitale”, così restando superato (almeno in prima battuta) il disposto del vecchio art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37- Norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore, sull’elezione del domicilio presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria adita del difensore privo di un suo domicilio nel circondario dell’ufficio giudiziario.
Naturalmente, nell’ambito della disciplina delle comunicazioni e notificazioni, un ruolo fondamentale riveste il d.p.r. n. 68 del 2005, che contiene le norme sull’uso della PEC, cui si accompagna il d.p.c.m. 2 novembre 2005, ove sono illustrate le relative “regole tecniche”; proprio al d.p.r. n. 68 del 2005 fa espresso richiamo l’art. 4, comma 2, del d.l. n. 193 del 2009 per il processo telematico e, in generale, pure l’art. 48 del CAD, norma quest’ultima – come visto in precedenza – in attesa di essere abrogata.
Vi è poi la disciplina secondaria, laddove non derogata dalle norme di legge sopravvenute, contenuta negli artt. l6 e 17 del d.m. n. 44 del 2011, come novellato dal d.m. 15 ottobre 2012, n. 209, nonché nelle vigenti “specifiche tecniche” del Direttore Generale DGSIA (provvedimento del 16 aprile 2014, come novellato dal provvedimento del 28 dicembre 2015).
Va inoltre ricordato che per gli uffici giudiziari diversi dai tribunali e dalle corti d’appello, ancora oggi è necessaria l’adozione di un decreto ministeriale, ai sensi del comma 10 dell’art. 16 del d.l. n. 179 del 2012, per procedere alle comunicazioni e notificazioni in via telematica[18].
Quanto alle notifiche tra avvocati, il legislatore ha preferito novellare direttamente la legge n. 54 del 1993, adottando la tecnica singolare di introdurre, con il d.l. n. 90 del 2014, l’art. 16-quater nel d.l. 179 del 2012, che a sua volta aveva già inserito l’art. 3-bis nella ridetta legge n. 54 del 1993.
Sempre con norma primaria, il legislatore urgente del d.l. 90 del 2014 ha poi stabilito una regola generale applicabile alle notificazioni telematiche, curate dall’ufficiale giudiziario e, soprattutto, dall’avvocato – visto che ancora non si registrano notifiche da parte del primo –, estendendo le regole temporali sulla notifica cartacea previste dall’art. 147 c.p.c., attraverso l’inserimento dell’art. 16-septies nel d.l. n. 179 del 2012, anziché intervenire direttamente sull’art. 149-bis c.p.c., che attualmente disciplina appunto le notifiche telematiche a cura dell’ufficiale giudiziario.
Fra le norme regolamentari, invece, va ricordato l’art. 18 (intitolato “Notificazioni per via telematica eseguite dagli avvocati”) del d.m. n. 44 del 2011, come novellato prima dal d.m. 15 ottobre 2012, n. 209 e poi dal d.m. 3 aprile 2013, n. 48, che si occupa delle notifiche curate direttamente dagli avvocati; trovano applicazione altresì le specifiche tecniche adottate dal Direttore Generale DGSIA con provvedimento del 16 aprile 2014, come successivamente modificato con provvedimento del 28 dicembre 2015.
10. (Segue) Le regole sui depositi telematici
La norma fondamentale sui depositi telematici di parte nel processo civile, è oggi racchiusa nell’art. 16-bis del d.l. 179 del 2012, come introdotto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228 e, successivamente, modificato dal d.l. 90 del 2014, dal d.l. n. 83 del 2015 e in ultimo dal d.l. n. 59 del 2016.
Quest’articolo, composto da numerosi commi, da un lato sancisce l’obbligatorietà del deposito telematico per gli atti endoprocedimentali delle parti, nei tribunali[19] e nelle corti d’appello[20], nonché l’esclusività del deposito telematico per tutti gli atti (compreso quello introduttivo), di parte e del giudice, in seno al procedimento monitorio[21] e, dall’altro dispone, con l’art. 16-bis, comma 6, che nei restanti uffici giudiziari italiani, l’obbligatorietà del deposito degli atti processuali di parte nei procedimenti civili (e anche del giudice, ma solo per i provvedimenti monitori), venga disposta con decreto del ministro della Giustizia sentiti l’Avvocatura generale dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense ed i consigli dell’ordine degli avvocati interessati.
Come ricordato in precedenza, peraltro, la legislazione speciale dettata in forza della pandemia da covid-19, ha imposto dal 9 marzo 2020 e – attualmente – fino al 31 luglio 2021, l’obbligo del deposito anche degli atti introduttivi di parte in modalità telematica nei tribunali e nelle corti d’appello (art. 221, comma 3, d.l. n. 34 del 2020), nonché la facoltatività del deposito (a decorrere dal 31 marzo 2021) dei medesimi innanzi alla Corte di cassazione (art. 221, comma 5, d.l. n. 34 del 2020).
Di sicuro rilievo, poi, per la sua portata sistematica che avrebbe meritato una sua collocazione nel codice di rito, l’art. 16-bis, comma 9-octies, introdotto dal d.l. n. 83 del 2015, a tenore del quale “Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica”.
Assumono una valenza processuale che va oltre i confini del rito telematico, inoltre, il comma 9-bis dell’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, come introdotto dal d.l. n. 90 del 2014 e poi novellato dal d.l. n. 83 del 2015, che consente al difensore, al consulente tecnico e al curatore fallimentare di attestare la conformità all’originale informatico della copia analogica di atti digitali estratta dai registri informatici, come pure gli artt. 16-decies e 16-undecies sempre del d.l. n. 179 del 2012, entrambi introdotti dal d.l. n. 83 del 2015, che disciplinano esattamente i poteri di certificazione di conformità delle copie degli atti e dei provvedimenti detenuti in formato analogico, depositati in via informatica dai medesimi professionisti.
Tra le fonti secondarie, infine, vanno ricordate le disposizioni contenute nel Capo III del d.m. 44 del 2011 (intitolato “Trasmissione di atti e documenti informatici”) e in particolare gli artt. da 11 a 15, che descrivono una analitica disciplina del contenuto degli atti processuali telematici, come integrata dalle vigenti specifiche tecniche adottate con provvedimento del direttore generale della DGSIA del 16 aprile 2014.
11. A modo di conclusioni
Il frastagliatissimo quadro normativo sopra descritto impone all’interprete uno sforzo non trascurabile, per assicurare il necessario raccordo tra normativa primaria, secondaria e sovranazionale.
Già a livello di confronto tra norme aventi pari valore di legge, occorre chiedersi se il CAD, quale normazione di principio di rango primario – al quale si richiama espressamente l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 193 del 2009, nell’affidare ad un regolamento ministeriale le regole sul PCT –, possa trovare diretta applicazione nella disciplina del processo telematico civile.
E invero, l’orientamento favorevole, pure adombrato in passato dalla giurisprudenza di legittimità[22], deve oggi confrontarsi con le modifiche del medesimo CAD, introdotte dal d.lgs. 26 agosto 2016, n. 179-Modifiche ed integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ai sensi dell'articolo 1 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.
Il detto decreto legislativo, infatti, novellando l’art. 2, comma 6, CAD, ha seccamente stabilito che “Le disposizioni del presente Codice si applicano al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico”; inoltre, trattando dei requisiti di validità del documento digitale, l’art. 20, comma 1-quater, CAD, come novellato dal ridetto d.lgs. n. 179 del 2016, dispone oggi che “Restano ferme le disposizioni concernenti il deposito degli atti e dei documenti in via telematica secondo la normativa, anche regolamentare, in materia di processo telematico”.
Dunque, alla luce delle stesse norme riformate del CAD, è consentito forse affermare oggi che è sempre la specialità del processo telematico, civile, penale, amministrativo contabile e tributario, a prevalere, potendo trovare applicazione le regole generali contenute nel ridetto codice, soltanto in mancanza di una espressa disciplina, anche di livello secondario, contenuta nella normativa di settore, ormai decisamente sovrabbondante e spesso di carattere “alluvionale”.
A tutto ciò si accompagna, come visto, il ruolo sempre più incisivo della legislazione sovranazionale in sede europea, che attraverso le sue direttive e i suoi regolamenti enuncia disposizioni all’evidenza idonee a condizionare direttamente – a prescindere dall’intervento di correttivi sul CAD – la disciplina del PCT.
Del resto, le Sezioni Unite della S.C. hanno già avuto modo di segnalare come in tema di firma digitale dei documenti informatici, il principio dell’equivalenza della firma c.d. “CAdES” e di quella c.d. “PAdES” trovi un suo preciso fondamento normativo negli standard previsti dal cennato reg. UE n. 910/2014 e nella relativa decisione di esecuzione n. 1506 del 2015[23].
Quanto ai rapporti tra fonti primarie e secondarie, va segnalato come talune regole sul funzionamento del PCT, già contenute nel d.m. 44 del 2011, sono state pedissequamente riprodotte nel complesso articolato che oggi si ritrova nel d.l. 179 del 2012, cioè in una fonte di rango primario, con il risultato di una loro sostanziale duplicazione[24].
Altre norme regolamentari, invece, risultano derogate da quelle di fonte legislativa sopravvenute, a plateale dimostrazione della perdurante incertezza sul rango (di legge o regolamentare) da riservare di volta in volta alla disciplina sul PCT[25].
In altri casi, addirittura, il legislatore è intervenuto per dirimere ogni dubbio sulle modalità di deposito telematico di taluni atti, nascente dalle regole contenute nelle specifiche tecniche, senza tuttavia modificare detta regolamentazione secondaria[26].
Non mancano, infine, disposizioni contenute sempre nel regolamento n. 44 del 2011, che tuttavia rinviano ancora a norme aventi forza di legge, che risultano essere state successivamente abrogate da altre disposizioni di rango primario[27].
Insomma, alla luce di quanto esposto in precedenza, non sembra possano sussistere ulteriori dubbi sulla necessità di procedere ad una “sistematizzazione” delle regole sul PCT, partendo dalle sue variegate fonti di produzione per costituire un corpus unitario, non è decisivo stabilire se con fonte di rango primario o secondario, che detti compiutamente l’intera disciplina in materia, naturalmente sempre nel rispetto dei principi generali contenuti nel CAD e nella legislazione sovranazionale.
*Relazione tenuta al corso "Nomofilachia e informatica" organizzato dalla S.S.M. il 19-20 aprile 2021
[1] L’art. 13, comma 1, delle disp. att. c.p.a., come novellato dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168 - Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la Giustizia amministrativa, convertito con modificazioni dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197, affidava in origine ad un decreto del presidente del consiglio dei ministri il compito di redigere le “regole tecnico-operative” del processo amministrativo telematico. Successivamente, il d.l. 30 aprile 2020, n. 28-Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l'introduzione del sistema di allerta Covid-19, convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, novellando il comma 1 del detto art. 13, ha affidato ad un decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri competente in materia di trasformazione digitale, il Consiglio nazionale forense, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative, il compito di redigere le “regole tecnico-operative” per il processo amministrativo telematico. Con d.p.c.s. 22 maggio 2020, n. 134 (in G.U. del 27 maggio 2020) sono state adottate le Regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, nonché per la sperimentazione e la graduale applicazione dei relativi aggiornamenti, peraltro rimasto in vigore per pochi mesi, essendo stato integralmente sostituito dal d.p.c.s. 28 dicembre 2020 (in G.U. del 11 gennaio 2021).
[2] In forza dell’art. 13, comma 1-ter, disp. att. c.p.a., come novellato dal d.l. n. 168 del 2016, il PAT è divenuto obbligatorio, davanti ai TAR e al Consiglio di Stato, a decorrere dal 1 gennaio 2017.
[3] L’art. 39, comma 8, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98-Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011 n. 111, ha previsto l’adozione di un regolamento ministeriale, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, che introduca disposizioni per il più generale adeguamento del processo tributario alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82-Codice dell’amministrazione digitale. È stato così adottato dal ministro dell’Economia e delle Finanze il d.m. 23 dicembre 2013, n. 163-Regolamento recante la disciplina dell'uso di strumenti informatici e telematici nel processo tributario in attuazione delle disposizioni contenute nell'articolo 39, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. Successivamente, con decreto del Direttore generale delle Finanze 4 agosto 2015 sono state approvate le “specifiche tecniche” per il PTT, concernenti principalmente le comunicazioni e notificazioni, nonché i depositi telematici degli atti di parte e degli ausiliari del giudice; ad esso ha fatto seguito il decreto del Direttore generale delle Finanze 6 novembre 2020, recante le ulteriori “specifiche tecniche” in materia di processo tributario telematico, riferite esclusivamente ai provvedimenti giurisdizionali digitali (pgd) e ai processi verbali d’udienza.
[4] L’art. 16, comma 5, del d.l. 24 ottobre 2018, n. 119-Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, ha disposto l’obbligatorietà del PTT per i giudizi «con ricorso notificato a decorrere dal 1° luglio 2019».
[5] L’art. 20-bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179-Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, come introdotto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228-Legge di stabilità 2013, ha previsto che con decreto del Presidente della Corte dei conti sono stabilite le regole tecniche ed operative per l’adozione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle attività di controllo e nei giudizi che si svolgono innanzi alla Corte dei conti, in attuazione dei principi previsti dal d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82-Codice dell’amministrazione digitale. Con d.p.c.c. 21 ottobre 2015 sono state adottate le “Prime regole tecniche ed operative per l’utilizzo della posta elettronica certificata nei giudizi dinanzi alla Corte dei Conti”.
[6] L’art. 6, comma 5, del d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174-Codice di Giustizia contabile, nel rinviare ad appositi decreti adottati dal presidente della Corte dei conti la disciplina del processo telematico contabile, recita: «si applicano, ove non previsto diversamente, le disposizioni di legge e le regole tecniche relative al processo civile telematico».
[7] Vignera, Principio di legalità ed esercizio della giurisdizione, in www.ilcaso.it, 2009.
[8] È un fatto che, storicamente, le norme di attuazione dei vari codici rito sono state adottate sempre con atti aventi forza di legge: si pensi per il codice di procedura civile al r.d. 18 dicembre 1941, n. 1368-Disposizioni per l'attuazione del Codice di procedura civile e disposizioni transitorie, ovvero alle disposizioni di attuazione del codice del processo amministrativo, adottate con il medesimo d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 con cui è stato approvato il codice, ovvero ancora a quelle del codice di Giustizia contabile, anch’esse approvate con il medesimo d.lgs. 26 agosto 2016, n. 164 con cui è stato adottato il codice. Il codice di procedura penale del 1988 (d.p.r. 22 settembre 1988, n. 447), invece, ha previsto disposizione di attuazione, di coordinamento e transitorie approvate con il d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, ma accanto ad esse vi è un “regolamento per l’esecuzione del codice di procedura penale” (d.m. 30 settembre 1989, n. 334) che ha invece natura regolamentare.
[9] Ad esclusione degli artt. 2, comma 1 (Oggetto e ambito di applicazione), 6 (Funzionalità), 9 (Formato della segnatura di protocollo), 18, commi 1 e 5, (Modalità di registrazione dei documenti informatici), 20 (Segnatura di protocollo dei documenti trasmessi) e 21 (Informazioni da includere nella segnatura).
[10] Cons. Stato, sez. IV, 8 marzo 2021, n. 1931; già in precedenza si veda il parere 10 ottobre 2017, n. 2122, reso da Cons. Stato, Commissione Speciale, sullo schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 179.
[11] L’art. 34 della Direttiva 1023/2019 accorda agli stati membri un termine per conformarsi alle disposizioni contenute nell’art. 28, lettere a), b) e c), entro il 17 luglio 2024 e nell’art. 28, lettera d), entro il 17 luglio 2026.
[12] L’acronimo e-IDAS sta per electronic IDentification Authentication and Signature.
[13] L’art. 65, comma 7 del d.lgs. n. 217 del 2017, stabiliva seccamente l’abrogazione dell’art. 48 CAD a decorrere dal 1° gennaio 2019. Successivamente l’art. 8, comma 5, del d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, convertito con modificazioni dalla legge 11 febbraio 2019, n. 12, ha modificato il d.lgs. n. 217 del 2017, stabilendo che con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentiti l’Agenzia per l’Italia digitale e il Garante per la protezione dei dati personali, sono adottate le misure necessarie a garantire la conformità dei servizi di posta elettronica certificata di cui agli artt. 29 e 48 del d.lgs. n. 82 del 2005, al regolamento e-IDAS; soltanto dopo l’entrata in vigore del detto d.p.c.m. – che ancora oggi non risulta emanato – l’art. 48 del CAD risulterà abrogato.
[14] Il d.m. n. 44 del 2011 è stato modificato prima dal d.m. 15 ottobre 2012, n. 209, e poi dal d.m. 3 aprile 2013, n. 48.
[15] Dopo l’entrata in vigore del regolamento n. 44 del 2011, si è avanzato il dubbio che il d.p.r. n. 123 del 2001 – che aveva introdotto per la prima volta una disciplina organica del PCT – fosse ancora vigente, atteso che l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 193 del 2009, in virtù del quale è stato adottato il detto regolamento, si limitava a prevedere che le “regole tecniche” del processo civile telematico all’epoca vigenti (quelle del d.m. 17 luglio 2008) si dovevano continuare ad applicare fino alla data di entrata in vigore dei decreti previsti dai commi 1 e 2 del medesimo articolo. In sostanza il d.m. n. 44 del 2011, emanato dal ministro della Giustizia ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, avrebbe determinato l’abrogazione delle regole tecnico-operative di cui al d.m. 17 luglio 2008 e non anche del regolamento governativo di cui al d.p.r. n. 123 del 2001. In direzione contraria, poi, non valeva invocare l’art. 37, comma 2, del d.m. n. 44 del 2011, che dichiarava espressamente la cessazione dell’efficacia per il processo civile per le disposizioni del d.p.r. n. 128 del 2001, considerato che, ai sensi del terzo comma dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988, i regolamenti ministeriali (quale è il d.m. n. 44 del 2011), non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti governativi.
[16] Per un quadro completo delle misure processuali speciali in tempo di pandemia, si vis, Fichera-Escriva, Le quattro fasi del processo civile al tempo della pandemia, su Jiudicium.it, 2021.
[17] Si vedano i vari provvedimenti adottati dal Direttore generale DGSIA, datati 10 marzo 2020 e 20 marzo 2020, 21 maggio 2020 e 2 novembre 2020.
[18] Così, ad esempio, il d.m. 19 gennaio 2016-Attivazione delle notificazioni e comunicazioni telematiche presso la Corte di cassazione, ai sensi dell'articolo 16, comma 10, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, limitatamente al settore civile, ha previsto che tutte le comunicazioni e notificazioni telematiche presso la Corte Suprema di Cassazione, a decorrere dal 15 febbraio 2016, avvengano esclusivamente in via telematica.
[19] Dal 30 giugno 2014, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 1, d.l. n. 179 del 2012.
[20] Dal 30 giugno 2015, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-ter, d.l. n. 179 del 2012.
[21] Dal 30 giugno 2014, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 4, d.l. n. 179 del 2012.
[22] Cass., sez. 3, 10 novembre 2015, n. 22871, in Guida dir., 2016, I, 56; secondo la S.C. la firma digitale della sentenza è equiparata alla sottoscrizione autografa in base ai principi del d.lgs. n. 82 del 2005, resi applicabili al processo civile dall’art. 4 del d.l. n. 193 del 2009, convertito dalla legge n. 24 del 2010.
[23] Cass., sez. un., 27 aprile 2018, n. 10266, in Giur. it., 2018, 1614; in senso conforme, Cass., sez. 2, 29 novembre 2018, n. 30927.
[24] È il caso della norma sul momento perfezionativo del deposito telematico degli atti. L’art. 16-bis, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012 recita: «Il deposito con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero»; ma già l’art. 13, comma 2, del d.m. n. 44 del 2011 disponeva: «I documenti informatici di cui al comma 1 si intendono ricevuti dal dominio Giustizia nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia».
[25] Si tratta dell’art. 13, comma 3, del d.m. n. 44 del 2011 che ancora oggi afferma: «Quando la ricevuta è rilasciata dopo le ore 14 il deposito si considera effettuato il giorno feriale immediatamente successivo». Successivamente l’art. 16-bis, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012, come introdotto dalla legge n. 228 del 2012, dispone invece espressamente che «Il deposito è tempestivamente eseguito quando la ricevuta di avvenuta consegna è generata entro la fine del giorno di scadenza».
[26] Le specifiche tecniche pongono un limite per la dimensione massima (30 mega) del messaggio di PEC (art. 13 del decreto 16 aprile 2014); per superare i dubbi di ammissibilità di ulteriori depositi telematici relativi al medesimo atto, il d.l. n. 90 del 2014, allora, ha inserito nel comma 7 dell’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, la seguente precisazione: «Quando il messaggio di posta elettronica certificata eccede la dimensione massima stabilita nelle specifiche tecniche del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del ministero della Giustizia, il deposito degli atti o dei documenti può essere eseguito mediante gli invii di più messaggi di posta elettronica certificata. Il deposito è tempestivo quando è eseguito entro la fine del giorno di scadenza».
[27] Si pensi all’art. 16, comma 4, e all’art. 17, comma 1, del d.m. n. 44 del 2011, che ancora oggi rinviano all’art. 51 del d.l. n. 112 del 2008, i cui primi quattro commi risultano invece abrogati espressamente dal d.l. n. 179 del 2012.
Perché in Italia l’astreinte non si ama *
di Bruno Capponi
Sommario: 1.- Le origini d’oltralpe e la mentalità del giudice civile italiano. 2.- Lo scarso interesse e i disorientamenti del nostro legislatore. 3.- Astreinte e condanna. 4.- Astreinte e titolo esecutivo. 5.- Le esclusioni. 6.- Astreinte e omissione di pronuncia. 7.- Esiguità delle applicazioni giurisprudenziali. 8.- Cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione dell’astreinte in Italia?
1.- Le origini d’oltralpe e la mentalità del giudice civile italiano
L’astreinte venne pretoriamente introdotta dalla giurisprudenza francese circa due secoli fa e soltanto in tempi relativamente recenti ha conosciuto, oltralpe, una regolamentazione dettagliata per legge[1].
Qui da noi – a parte le penalità di mora disseminate in varie leggi speciali[2] – abbiamo atteso sino al 2009 (legge n. 69) per riuscire a varare una figura generale di misura coercitiva, che sarebbe stata accolta dalla giurisprudenza con molta timidezza e, forse, qualche eccessivo sospetto.
Ove se ne vogliano indagare le ragioni, la prima è forse nella stessa inveterata mentalità del giudice civile: la “cognizione” è in apicibus separata dalla “esecuzione” (si parla al riguardo di riparto di competenza per funzioni) e il giudice della cognizione non si preoccupa di come il suo provvedimento verrà o potrà essere attuato; considera esaurito il suo compito con la pronuncia condannatoria, e poi la fase eventuale di esecuzione forzata, con tutti i problemi che si trascina dietro, competerà a un giudice diverso. L’esecuzione-attuazione dei provvedimenti cautelari, che deve avvenire «sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento» (art. 669 duodecies c.p.c.) e che secondo il legislatore del 1990 avrebbe dovuto realizzare una sorta di corsia preferenziale per salvaguardarne l’efficienza[3], ha piuttosto dimostrato l’imbarazzo, o forse il disinteresse, che il giudice della cognizione mostra nei confronti dell’esecuzione (ma i giudici dell’esecuzione sono soliti ripetere che è dalla prospettiva dell’esecuzione forzata che i problemi della cognizione possono essere meglio compresi). Una cosa possiamo dare per certa: il giudice civile italiano non avrebbe mai “inventato” l’astreinte, come invece hanno meritoriamente fatto gli antenati del suo corrispondente d’oltralpe.
2.- Lo scarso interesse e i disorientamenti del nostro legislatore.
Il nostro legislatore non ha dimostrato maggior trasporto per la misura coercitiva. Che forse poneva una questione preliminare: siamo dinanzi a un istituto della cognizione o dell’esecuzione?
La legge n. 69/2009 ha collocato l’art. 614 bis nel Libro III e non nel Libro II (ove avrebbe potuto divenire un art. 282 bis), associando l’astreinte al «provvedimento di condanna». In questo modo: a) ha escluso che l’astreinte potesse essere associata a provvedimenti già ineseguiti alla data di entrata in vigore della legge, e comunque che la misura potesse essere pronunciata dallo stesso (o da altro) giudice separatamente dal provvedimento di condanna; b) ha posto il dubbio per il lodo arbitrale rituale, tema sul quale la dottrina s’è divisa (l’onorato[4] s’è pronunciato per la soluzione positiva, anche prescindendo da una specifica previsione nell’accordo compromissorio); c) ha escluso dal campo di applicazione del nuovo istituto i titoli esecutivi non giudiziali (che, peraltro, non possono prevedere condanne al facere e tale aspetto era dirimente nella versione originaria della norma: v. infra).
Siamo così davanti a un istituto collocato nel Libro III, ma rispetto al quale il g.e. non ha nessuna competenza se non allorché, evolutasi la minaccia in sanzione, si tratti di dare esecuzione al titolo nelle comuni forme dell’espropriazione forzata; mentre, lo diremo tra breve, se quel giudice avesse avuto competenza quantomeno per la liquidazione dell’astreinte (secondo il modello francese, rodato da due secoli di storia), delicati problemi di effettività della misura sarebbero forse stati ovviati.
La rubrica originaria dell’art. 614 bis (versione 2009) recitava «Attuazione degli obblighi di fare infungibili o di non fare» (quest’ultimo ha da intendersi sempre infungibile[5]); e sebbene la rubrica delle norme non abbia, per comune opinione, valore esegetico assoluto, si è generalmente ammesso che l’astreinte potesse essere pronunciata soltanto assortita a provvedimenti di condanna per obbligazioni di fare non fungibili[6], sebbene l’articolato, letto in autonomia dalla rubrica, consentisse applicazioni generalizzate. Di qui una corposa limitazione e, al tempo stesso, un’importante conseguenza sistematica circa l’individuazione della nozione stessa della “condanna”: prima dell’art. 614 bis le condanne al facere infungibile – secondo la prevalente opinione, contrastata da parte autorevole della dottrina ma rimasta prevalente – non avrebbero potuto essere pronunciate, per inesistenza/indisponibilità dello strumento di esecuzione forzata corrispondente; dopo l’introduzione della norma, quelle stesse condanne risultavano invece possibili, appunto perché vi poteva venire associata un’astreinte (che consentiva così una sorta di “sdoganamento” di pronunce intrinsecamente violative della regola di corrispondenza tra condanna ed eseguibilità forzata).
Non sappiamo con quanta consapevolezza del problema, nel 2015 (legge n. 132, di conversione del d.l. n. 83/2015) il legislatore ha modificato la rubrica della norma (dedicata ora, più genericamente, alle «misure di coercizione indiretta») facendo sorgere nell’interprete il problema se le condanne al facere infungibile siano tuttora, o, meglio, siano rimaste nel perimetro della norma: ragionando sulla sua evoluzione testuale si direbbe di sì, sull’implicito presupposto che la nuova stesura (della rubrica) non le abbia fatto perdere l’originaria portata; ragionando sul riflesso del principio di eseguibilità forzata la risposta dovrebbe invece essere negativa, perché nulla nell’attuale stesura della norma lascia immaginare che il facere infungibile possa essere associato all’astreinte. In conseguenza la nozione di condanna, che prima ne usciva slabbrata, potrebbe ora recuperare il limite originario; ma l’uso del condizionale è d’obbligo, perché – quale che sia la scelta dell’interprete – il dato di partenza è l’assoluta inconsapevolezza del legislatore, che è anzi ottimisticamente convinto di aver allargato, nel 2015, l’ambito di applicazione della norma, così recependo gli auspici della maggioranza dei commentatori.
3.- Astreinte e condanna.
La successione e trasformazione di disciplina dal 2009 al 2015 segnala un altro problema di individuazione della tutela, questa volta con diretto riferimento all’astreinte: altro è farne uno strumento di esecuzione indiretta per le condanne al facere infungibile, altro è farne lo strumento generale di coercizione indiretta, elettivamente proprio della condanna civile tout court. In altri termini, altro è prevedere uno strumento destinato a operare soltanto là dove l’esecuzione da sola, per propri limiti istituzionali, non potrebbe arrivare, pur scontando il piccolo corto circuito logico che deriva dal qualificare “condanna” un provvedimento di per sé non forzosamente eseguibile a norma degli artt. 612 ss. c.p.c. (questo il problema posto dalla versione 2009); altro è farne uno strumento disponibile sempre, quale che sia la forma tipica di esecuzione introdotta dal titolo esecutivo. Soluzione, questa, che il legislatore del 2015 non ha voluto o saputo perseguire sino in fondo, grazie alle esclusioni (condanna pecuniaria, materia del lavoro) su cui tra breve torneremo.
Il tutto ruota poi attorno al riferimento alla «condanna», che segna l’argine rispetto alle tutele, comunque classificate, non associabili a quella compulsoria. Un piccolo rebus[7] resta il caso dell’art. 2932 c.c., che prevede un capo condannatorio soltanto per l’obbligazione relativa al pagamento del prezzo (esclusa, in quanto condanna pecuniaria, dall’àmbito di applicazione dell’art. 614 bis); il corrispettivo obbligo a contrarre, che trova tutela nella pronuncia costitutiva efficace però soltanto col suo passaggio in giudicato, potrà considerarsi, ai fini dell’astreinte, oggetto di un autonomo capo condannatorio? Il punto è dubbio e il rischio è che si debba continuare a pensare che la tutela prestata dall’art. 2932 c.c. (che è, a seconda della prospettiva, condannatoria o costitutiva) non sia compatibile con l’astreinte (che però sarebbe utilissima per “convincere” il promittente venditore riottoso[8]), perché la sinallagmaticità delle posizioni contrattuali esclude che l’astreinte possa essere pronunciata a carico di una sola parte, posto che l’attuale giurisprudenza di legittimità[9] esclude che la condanna al pagamento del prezzo sia provvisoriamente esecutiva ex art. 282 c.p.c. perché ciò altererebbe il carattere corrispettivo delle prestazioni e il sinallagma contrattuale (scambio della cosa contro pagamento del suo prezzo).
4.- Astreinte e titolo esecutivo.
Altra domanda che l’interprete deve porsi è sull’effettivo carattere di titolo esecutivo dell’astreinte per come attualmente regolata. La norma è chiara («Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza»), ma in modo altrettanto chiaro la giurisprudenza tende a disconoscere all’astreinte la qualità di titolo esecutivo per difetto del requisito della liquidità[10], a volte parlando di condanna da doversi quantificare, cioè liquidare, in una successiva sede di merito[11].
Anche a questo proposito si mostra evidente l’insipienza del nostro legislatore, che avrebbe dovuto far tesoro dell’esperienza maturata, anche in Italia, nella tutela dei brevetti e delle opere dell’ingegno: prevedere un’astreinte “secca”, ove cioè non si distinguono la fase della condanna in futuro e quella della liquidazione a fronte dell’inadempimento, significa scaricare sul creditore della prestazione l’onere di quantificare le conseguenze dell’inosservanza del provvedimento condannatorio assistito dall’astreinte, moltiplicando le opposizioni all’esecuzione in cui si potranno contestare l’esistenza stessa e/o il calcolo di quelle conseguenze[12]. L’esperienza francese al riguardo insegna che la liquidazione dell’astreinte, che ha struttura bifasica, è sempre di competenza del g.e., che vi provvede in esito a cognizione sommaria nel contraddittorio delle parti. E proprio alla luce di quella esperienza si sarebbe dovuta considerare l’utilità di un sistema che assegni al g.e., o anche al g.e., il potere stesso di pronunciare l’astreinte, quale che sia il titolo esecutivo ineseguito e anche a fronte della già conclamata inesecuzione spontanea. Non risponde infatti ad alcuna logica di utilità che il provvedimento possa essere pronunciato soltanto dal giudice della cognizione, e soltanto contestualmente alla condanna; anzi, molte volte proprio il mancato spontaneo adeguamento dell’obbligato può far sorgere l’interesse all’ottenimento dell’astreinte, mezzo di pressione che potrebbe essere opportunamente calibrato proprio alla luce delle circostanze emerse dopo la pronuncia del provvedimento condannatorio. In questo senso l’astreinte diverrebbe strumento proprio dell’esecuzione e, del resto, nulla esclude che esso possa essere disponibile tanto dal giudice della cognizione (in previsione di un mancato spontaneo adeguamento dell’obbligato) quanto dal giudice dell’esecuzione (a fronte di un inadempimento già conclamato).
5.- Le esclusioni.
L’art. 614 bis esclude che l’astreinte possa essere pronunciata per supportare una condanna pecuniaria (e c’è una generale esclusione per le controversie di lavoro anche parasubordinato[13]). Molti giustificano la limitazione sul riflesso dell’esistenza di altre forme di coazione indiretta all’adempimento: in primo luogo l’art. 1284, comma 4, sulla liquidazione degli interessi c.d. commerciali. Ma, mentre da un lato va rilevata l’estrema prudenza con cui la giurisprudenza di legittimità ha accolto la riforma (d.l. n. 132/2014, convertito dalla legge n. 162/2014) che ha introdotto quel comma 4 al fine precipuo di scoraggiare l’inadempimento nelle obbligazioni pecuniarie[14], dall’altro lato va registrato che quella stessa giurisprudenza tende a escludere che il saggio commerciale degli interessi possa essere applicato in relazione all’esecuzione forzata di un titolo giudiziale che non ne preveda già la liquidazione[15]. In conseguenza, dall’ambito di applicazione della norma è esclusa proprio la tutela esecutiva: conseguenza difficile da giustificare razionalmente, perché il ritardo nell’adempimento è tanto più grave – e così più sanzionabile – in presenza di un titolo esecutivo, specie se giudiziale. Altri fanno valere un argomento sociologico tratto da un noto detto olandese («non si può spennare un pollo senza penne») che tuttavia non può evolversi in credibile argomento giuridico: l’esperienza pratica insegna che assai spesso un debitore (specie se si tratta di una pubblica amministrazione[16]) sceglie di non pagare non certo per mancanza di disponibilità, quanto per deliberata volontà di non adempiere o di farlo il più tardi possibile e soltanto se costretti in esito a una procedura giudiziaria. Nell’applicazione dell’astreinte franco-belga non si è invero mai dubitato che una misura coercitiva potesse essere associata alla condanna pecuniaria; oggetto che del resto coincide col suo campo di applicazione più vasto, una volta scartata l’idea – mai propria dell’esperienza d’oltralpe – che l’astreinte sia associabile alla sola condanna al facere infungibile.
6.- Astreinte e omissione di pronuncia.
Chiunque abbia esperienza pratica del processo civile può anche aver avuto modo di verificare che assai spesso il giudice, richiesto dell’astreinte, non si pronuncia al riguardo pur adottando il provvedimento condannatorio richiesto. La possibile spiegazione può essere ricercata ragionando attorno a diversi fattori: a) la tutela giudiziaria si risolve nella pronuncia del provvedimento condannatorio, rispetto al quale soltanto vige il dovere decisorio del giudice che invece non si estenderebbe all’astreinte (art. 112 c.p.c.); b) l’adozione del provvedimento di astreinte è discrezionale, e in tale discrezionalità deve ricomprendersi la possibilità di non motivare il provvedimento negativo; c) la tutela compulsoria è alternativa alla tutela condannatoria; d) vanno limitati gli eccessi di tutela esecutiva mediante la formazione di due distinti titoli ricompresi nello stesso provvedimento che intenda assicurare la stessa utilitas.
Si tratta di argomenti privi di un serio fondamento. Infatti: a) il dovere decisorio del giudice certamente si estende all’astreinte che presuppone una domanda di parte, rispetto alla quale il giudice «fissa» e «determina» l’ammontare della somma: espressioni dalle quali si ricava, indirettamente, il dovere del giudice di motivare anche il provvedimento negativo, dovere che non viene certamente meno sul riflesso che l’astreinte è (non un provvedimento di merito, bensì) una misura a contenuto soltanto processuale; b) non è dubbio che la misura coercitiva richiama l’esercizio di poteri valutativi a contenuto fortemente discrezionale (il richiamo finale a «ogni altra circostanza utile» ne è sintomo più che evidente), ma ciò non implica una discrezionalità nell’adozione stessa della misura, che in sé risponde al principio della domanda con ogni conseguenza sul dovere di pronuncia; c) la misura compulsoria si affianca, sostenendola, alla tutela di condanna, e l’orientamento che ne predica l’alternatività conduce, di fatto, a un’interpretazione abrogatrice della stessa tutela coercitiva che, d’altra parte, non può sopravvivere se non associata alla tutela condannatoria; d) l’astreinte costituisce una condanna in futuro destinata a convivere col provvedimento condannatorio, e si evolve in condanna pecuniaria soltanto se non vi sia spontaneo adeguamento al dictum che la misura intende sostenere.
Ciò posto, sembra evidente che nessuna parte vittoriosa o parzialmente vittoriosa, e quindi attributaria di un provvedimento di condanna, avrebbe interesse ad appellare la sentenza per il solo profilo della mancata pronuncia sull’astreinte: lo strumento dell’appello non è soltanto eccessivo rispetto al contenuto della doglianza, ma risulta soprattutto scarsamente efficace attesi i normali tempi di definizione del gravame. E pure in questo si mostra la scarsa avvedutezza del nostro legislatore, il quale avrebbe dovuto concepire, per l’astreinte, un procedimento semplificato e rapido, anche perché tendenzialmente senza istruttoria.
Tra l’altro, un appello limitato alla sola pronuncia dell’astreinte e non esteso alla condanna “adiuvata” dovrebbe consentire di ridiscutere la sola misura coercitiva e non il merito sostanziale del giudizio: appellata la sentenza sulla sola astreinte (non concessa o concessa in misura minore del richiesto), sarebbe configurabile un appello incidentale che intendesse ridiscutere funditus la condanna principale?
7.- Esiguità delle applicazioni giurisprudenziali.
L’esame della giurisprudenza mostra che, nonostante l’entrata in vigore dell’art. 614 bis c.p.c., i casi di applicazione elettiva della tutela compulsoria restano quelli che preesistevano alla novellazione del 2009: tuttora, sono il codice della proprietà industriale (d.lgs. n. 30/2005) e la legge sul diritto d’autore a fornire la maggior parte delle occasioni per l’irrogazione della vecchia “penalità di mora”.
Giocano a favore di questa esiguità di casi le espresse esclusioni (soprattutto quella della condanna pecuniaria), certo, ma forse anche una certa vaghezza di contorni della coercizione. In molti casi il giudice civile è abituato a utilizzare formule aperte (es., i “gravi e fondati motivi” di cui all’art. 283, comma 1, c.p.c.; i “gravi motivi” di cui all’art. 615, comma 1, all’art. 624, comma 1, o all’art. 647 c.p.c.; e così via), ma in relazione a tali formule può far capo a orientamenti stabili, che consentono di perimetrare e controllare il suo potere discrezionale. Nel caso dell’art. 614 bis non è facile stabilire quando la misura possa risultare «manifestamente iniqua», non è facile individuare il «danno quantificato o prevedibile», non è chiaro cosa possa intendersi per «ogni altra circostanza utile». L’incertezza e il carattere inedito di tali riferimenti finiscono per scoraggiare il giudice – che in generale non ama esercitare poteri fortemente discrezionali – che, del resto, è convinto di somministrare una tutela aggiuntiva e non essenziale (v. retro). E, verosimilmente, questo suo atteggiamento riflette quello dello stesso legislatore, che ha dato l’impressione di essere stato quasi costretto a introdurre nel nostro sistema l’esecuzione indiretta, che nel 2009 ha ricevuto la disciplina minima pensabile in astratto, e poi nel 2015 ha conosciuto un ampliamento, ma pur sempre in un contesto di scarsa convinzione e di dubbia operatività.
8.- Cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione dell’astreinte in Italia?
Anzitutto, occorrebbe farne lo strumento generale di “assistenza” ai provvedimenti condannatori e anzi ai titoli esecutivi, senza esclusioni. Mantenendo il potere del giudice della cognizione (condanna in futuro), andrebbe riconosciuto un autonomo potere al giudice dell’esecuzione, riferito anche ai titoli esecutivi di formazione non giudiziale. A fronte dell’inesecuzione spontanea dei “comandi” esecutivi – di origine sia giudiziale sia convenzionale sia amministrativa – il g.e. potrebbe calibrare l’astreinte adattandola ai singoli casi, con evidenti risultati di deflazione delle esecuzioni forzate e dei contenziosi che da esse derivano, che non sono affatto trascurabili.
In ogni caso al g.e., sul modello francese, andrebbe riconosciuto il potere di liquidare l’astreinte (anche quella imposta dal giudice della cognizione secondo il modello della condanna in futuro) con un procedimento sommario in cui fosse salvaguardata la garanzia del contraddittorio. Eguale procedimento sommario andrebbe previsto (anche dinanzi al giudice monocratico) per il controllo di adeguatezza del provvedimento, separato dalle impugnazioni ordinarie, con la conseguenza che dell’astreinte si potrebbe discutere, o ridiscutere, sia separatemente da quelle, sia unitamente a quelle (il modello sarebbe quindi quello dell’inibitoria) qualora il gravame avesse un oggetto più esteso. Non è infatti concepibile un’impugnazione ordinaria che abbia per oggetto la sola misura dell’astreinte.
Andrebbe utilizzata una formula meno controvertibile dell’attuale quanto ai presupposti del provvedimento (es.: «il giudice può, su istanza di parte e in presenza di giustificati motivi»), perché il giudice (della cognizione come dell’esecuzione) possa agganciarsi a schemi decisori già noti, pur dovendosene confermare il carattere pienamente e, diremmo, insopprimibilmente discrezionale.
Serve poi nel giudice (soprattutto della cognizione) un cambiamento di mentalità che tenga conto del fatto che il titolo esecutivo è l’istituto che rappresenta quanto di più forte abbiamo per la tutela esecutiva di un diritto, e che, ciononostante, troppo spesso il titolo è rappresentativo di un diritto che resta insoddisfatto.
(*) Testo della conversazione tenuta il 19 marzo 2021 su invito dell’Università di Parma nell’ambito dei “Dialoghi di Diritto processuale civile” organizzati dal prof. Massimo Montanari. Lo scritto è dedicato alla raccolta di Studi offerti al prof. Bruno Sassani, che ha lasciato l’insegnamento di ruolo per raggiunti limiti di età.
[1] Nascosi, Le misure coercitive indirette nel sistema di tutela dei diritti in Italia e in Francia. Uno studio comparatistico, Napoli, 2019.
[2] Ci permettiamo di rinviare al Manuale di diritto dell’esecuzione civile, 6°ed., Torino, 2020, 33 ss.
[3] Seguendo l’insegnamento di Liebman, Unità del procedimento cautelare, in Riv. dir. proc., 1954, I, 253 ss.
[4] Sassani, Possono gli arbitri pronunciare l’astreinte?, in www.judicium.it dal 16 gennaio 2018.
[5] Saletti, Commento all’art. 614 bis, in Commentario alla riforma del c.p.c., a cura dello stesso A. Saletti e di B. Sassani, Torino, 2009.
[6] Tanto che parte della dottrina civilistica si era impegnata nella ricerca di una infungibilità di tipo “processuale”: cfr. Mazzamuto, in Europa e diritto privato, 2009, 947 ss., spec. 962.
[7] Ne abbiamo già trattato in Ancora su astreinte e condanna civile, in www.judicium.it dal 12 settembre 2017.
[8] Consolo, Obblighi a contrarre (ed anche solo a rinegoziare): gli artt. 2932, 2908 e 2909 c.c. e l’alternativa dell’art. 614 bis c.p.c. (ante e post riforma del 2015), in Processo e tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio a Salvatore Mazzamuto a trent’anni dal convegno palermitano, a cura di G. Grisi, Napoli, 2019, 79 ss.
[9] A partire da Cass., SS.UU. 22 febbraio 2010, n. 4059.
[10] V., ad es., Trib. Roma, 2 febbraio 2017, con nota critica di Corea, Disorientamenti in materia di esecuzione delle misure coercitive indirette ex art. 614 bis c.p.c.: al creditore non basta il titolo esecutivo e l’autoliquidazione nel precetto delle somme dovute ma deve previamente introdurre un giudizio di cognizione per la relativa quantificazione, in www.judicium.it dal 2 maggio 2017.
[11] V., per riferimenti, l’Editoriale che apre il fascicolo n. 3/2021 della Rassegna dell’esecuzione forzata, a firma dei suoi Direttori.
[12] Cfr. Proto Pisani, Note personali e no a margine dell’art. 614 bis c.p.c., in Rass. esec. forz., 2019, 3 ss.
[13] Secondo Proto Pisani, op. loc. cit., ciò pone un problema di costituzionalità.
[14] V., ad es., Cass. 27 settembre 2017, n. 22457, circa l’interpretazione del riferimento agli interessi “legali”; Cass. 7 novembre 2018, n.28409, che ha limitato l’applicabilità del tasso “commerciale” alle sole obbligazioni di fonte contrattuale.
[15] In tal sento Trib. Messina, 2 novembre 2020, nella procedura RGE n. 1540/2018 vertita tra Fondedile s.p.a. in liq. c. Consorzio per le Autostrade Siciliane, inedita.
[16] Non a caso il codice per la giustizia amministrativa disciplina l’astreinte anche per le condanne pecuniarie: Storto, Le misure di coercizione indiretta e l’obbligazione pecuniaria, in Delle Donne (diretto da), La nuova espropriazione forzata, Bologna 2017, 999 ss.
Licenziamento illegittimo. La reintegrazione torna al centro della scena?
Commenti a Corte cost. n. 59/2021 a cura di Luigi Di Paola e Lorenzo Zoppoli
Con la sentenza 59/2021 la Corte costituzionale assesta un primo colpo alla “riforma Fornero” sui licenziamenti. E’ l’ennesima decisione d’incostituzionalità sulle innovazioni legislative avvenute in materia del nuovo millennio. Gli autori dei due commenti s’interrogano sulla portata di questa decisione, con un occhio al quadro generato dalle diverse pronunce e uno sguardo allo scenario che attende l’interprete della disciplina del Jobs Act.
Luigi Di Paola
Per la Corte costituzionale la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro è “doverosa” nell’ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto”
Sommario: 1. Perché la reintegrazione (o no) del lavoratore ingiustamente licenziato? - 2. L’intervento riformatore attuato con la legge “Fornero”: prove di tecnica legislativa - 3. Come “può” interpretarsi la parola “può”? - 4. La giurisprudenza della Suprema Corte - 5. La sentenza della Corte costituzionale - 6. Alla ricerca della volontà del legislatore - 7. L’effetto di “trascinamento” del principio di uguaglianza.
1. Perché la reintegrazione (o no) del lavoratore ingiustamente licenziato?
Vi è stato un tempo in cui la mera previsione di un prezzo del licenziamento ingiustificato è stata ritenuta misura non congrua a compensare il lavoratore del torto subito. Il dibattito, come è noto, si svolse sul terreno di un concettualismo giuridico, per così dire, “qualificato", poiché pervaso dalla vitalità dei principi costituzionali che andavano progressivamente affermando, in concreto, la naturale forza capace di condizionare, anche in ambiti governati da precetti programmatici, la disciplina dei vari fenomeni sociali. Si pervenne così alla conclusione che il lavoratore licenziato ingiustificatamente in aziende di determinate dimensioni avesse il diritto - attese le numerose implicazioni derivanti dalla perdita di lavoro - di continuare a prestare la propria opera alle dipendenze del datore che fosse caduto in un errore di valutazione nell’adozione dell’iniziativa, non essendovi ragione di convalidare una cessazione del rapporto che, in fondo, neppure il datore medesimo avrebbe voluto ove non fosse incorso nell’errore in questione. Sennonché la purezza (o la ingenuità) di quel ragionamento non si rivelò idonea a dipanare le complicazioni del mondo reale, che irrompeva con segnali ben nitidi a richiamare l’attenzione sulla sostanziale scarsa credibilità del costrutto ideologico. Ed infatti, secondo un’impostazione empirica, la ingiustificatezza (o il suo contrario) non poteva efficacemente cogliersi aprioristicamente su di un piano astratto, ma andava soppesata in base a contingenze fattuali - quali, ad esempio, i tempi di svolgimento dei processi, la misura delle abilità nella delineazione delle strategie difensive, l’esito più o meno fortunoso dell’attività di ricerca delle prove utili, ecc … - da cui sarebbe poi derivato un giudizio, comunque umano, in ipotesi non condiviso e, quindi, suscettibile di esser eventualmente vanificato da altro giudizio, altresì umano (benché frutto di più menti pensanti), nel corso di lunghi anni, in un irrequieto incedere dominato dall’incertezza. Si rafforzò quindi il convincimento che il processo - nel suo concreto atteggiarsi - non potesse garantire quel rapido ed incontrovertibile accertamento della ingiustificatezza (o del suo contrario) corrispondente alla sua proiezione ideale, sì da ingenerare la consapevolezza che l’esigenza di oculata programmazione che deve presiedere all’attività di impresa non potesse trovare adeguato soddisfacimento in un contesto di opacità - procrastinabile anche per lungo tempo - determinata dalle numerose variabili del processo stesso.
2. L’intervento riformatore attuato con la legge “Fornero”: prove di tecnica legislativa
Il legislatore della prima riforma non ha optato per una netta inversione di rotta rispetto al passato, e, incline ad operare con quella gradualità che è suggerita dall’istintivo attaccamento alla tradizione e dalla necessità di prevenire reazioni eccessive dei nostalgici, non ha eliminato l’istituto della reintegra, ma ne ha limitato l’ambito di operatività, per di più confezionando, nell’area della ingiustificatezza, norme destinate a conferire all’istituto stesso il valore di una sanzione quasi di taglio penalistico.
Ed infatti non ha guardato tanto - come in diverse e più gravi ipotesi che conducono alla nullità meritevole della tutela più ampia - alle ripercussioni negative del licenziamento ingiustificato sulla sfera del lavoratore, quanto alla gravità della condotta ascrivibile al datore.
La reintegrazione, quindi, pur integrando una misura ristoratrice del danno patito dal lavoratore, ha finito anche per ergersi a pena per il datore intimante un licenziamento “palesemente” ingiustificato.
La eloquente e sintetica espressione (di romanesco sapore) - coniata da mente acuta all’indomani della riforma - del “torto marcio”, evoca plasticamente l’idea del licenziamento irrogato con grave colpa (se non addirittura con dolo) dal datore, ai limiti della pretestuosità.
Era comunque ben chiaro che la descritta nota negativa della condotta datoriale dovesse poter essere stigmatizzata con riguardo ad entrambe le categorie classiche di licenziamento individuale, quello disciplinare e quello per giustificato motivo oggettivo, non essendovi alcuna plausibile ragione per operare differenziazioni di sorta.
Sia l’una che l’altra forma di licenziamento sono infatti regolate da norme (anche di diritto “vivente” forgiato da incursioni giurisprudenziali via via cristallizzatesi nel tempo) che ne disciplinano condizioni e presupposti, la cui violazione consente di ravvisare quella medesima gravità di condotta (che prescinde ovviamente dalla diversità dei presupposti sottesi ai due licenziamenti, che assumono al riguardo valenza neutra) che il legislatore si è premurato di configurare nella ricorrenza della (pur con due diverse gradazioni, per come si vedrà) “insussistenza del fatto”.
Ovviamente anche tale impostazione è stata dominata dall’illusione che quell’insussistenza potesse essere considerata un’entità reale ed incontrovertibile, si da farsi apprezzare addirittura con maggior evidenza ove resasi, nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “manifesta”.
Ma dovendo la realtà dei fatti misurarsi sempre con la verità processuale, ci si è ben presto dovuti rassegnare all’idea che quella insussistenza potesse rivelarsi tale solo all’esito del processo mediante un accertamento condizionato dalla ordinaria dinamica dell’istruttoria e da imprevisti tecnici di vario tipo, nonché - quanto a quella “manifesta” - dalla complessità dello scenario emergente nel corso ed all’esito della prova.
Rimane ad ogni modo il fatto che, a fronte di due condotte egualmente manchevoli e riconducibili ad intenti di medesima intensità lesiva, il legislatore ha inteso mostrare maggiore clemenza, nei confronti del datore, nei casi di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo.
Ed infatti, nel regolamentare la reintegra in tale ambito, ha affiancato alla locuzione “manifesta insussistenza del fatto”, che segna il presupposto di ammissibilità della reintegra stessa, il termine “può”, che letteralmente sembra sottrarre l’ordine del giudice dal vincolo di doverosità.
Sicché, stando alla dicitura della norma, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo avrebbe potuto condurre alla reintegra solo ove la condotta datoriale fosse risultata estremamente grave, per essere il fatto addotto a base del licenziamento insussistente in modo manifesto, e solo ove il giudice avesse ritenuto di disporre la reintegra stessa.
Il che, però, celava l’evidente incoerenza di fondo imperniata sulla concessione al giudice di una ampia libertà di manovra a fronte di una gravità di condotta del datore maggiore di quella in presenza della quale il giudice stesso avrebbe invece dovuto, a fronte di un licenziamento disciplinare illegittimo, disporre la reintegra.
3. Come “può” interpretarsi la parola “può”?
Nella filosofia dell’interpretazione si fronteggiano, da sempre, due impostazioni: quella secondo cui l’interpretazione letterale, quando il dato è chiaro, surclassa quella fondata sugli altri noti criteri, e quella incentrata sull’utilizzo variamente combinato dei criteri stessi, per cogliere la effettiva volontà del legislatore, soprattutto allorquando la lettera della legge esprima un significato non coerente con il sistema normativo di immediato riferimento.
Vi è che i fautori della prima impostazione ebbero, di quella “parolina” non priva di insidie, a valorizzarne il significato naturale, senza però indugiare troppo sui criteri che avrebbero dovuto guidare il giudice nell’esercizio di quella piena discrezionalità.
I sostenitori della seconda, invece, liquidarono la questione sostenendo che quel “può” andava letto come “deve”, sulla base di una interpretazione sistematica e/o funzionale sorretta anche dal comune senso di ragionevolezza; in buona sostanza, la volontà del legislatore non avrebbe potuto, nel caso, essere colta dal senso letterale del termine, da considerarsi il risultato di un tocco di penna “sfortunato”.
In realtà, le argomentazioni tecniche per sostenere che quel “può” potesse essere letto come “deve” erano diverse: a) non di rado il legislatore usa il termine “può” come sinonimo di “deve” (cfr., per un esempio illustre, l’art. 1421 c.c.); b) l’art. 18, comma 7, st.lav., ammette la tutela indennitaria solo “nelle altre ipotesi” in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, ossia quelle diverse dalla “manifesta insussistenza del fatto”; c) allorquando il legislatore ha voluto conferire al giudice un potere discrezionale, ha egli stesso fissato i criteri, pur orientativi, per il relativo esercizio.
4. La giurisprudenza della Suprema Corte
In un primo tempo la Suprema Corte[1] ha optato per la obbligatorietà della reintegra, emettendo poi una sentenza - portatrice, facendo perno sul dato letterale, del mutamento di indirizzo[2] - cui hanno fatto seguito due pronunzie conformi[3] ed una difforme[4].
Nella sentenza in questione si affermava, nella sostanza, che il giudice può disporre la misura a condizione che essa sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente compatibile con la struttura organizzativa dell’impresa e, dunque, non eccessivamente onerosa, secondo il principio generale dell’art. 2058 c.c.
Sennonché, in punto di diritto avrebbe potuto replicarsi che: a) l’art. 2058 c.c., prevedendo un risarcimento per equivalente a quello in forma specifica, si riferisce ad un danno istantaneo, onde non è esportabile nell’area del licenziamento illegittimo sanzionato con tutela reale, non essendo l’indennità un bene equivalente al posto di lavoro; b) salvo i casi in cui la posta risarcitoria è predeterminata convenzionalmente dalle parti in misura eccessiva, al giudice, in via generale, non è dato ridurre l’entità del risarcimento se ciò non è previsto in modo chiaro dalla legge sulla base di criteri ragionevoli; c) la valutazione giudiziale sulla “salute” dell’azienda presuppone un sindacato ben più penetrante di quello inteso a verificare - e, proprio perciò, da sempre escluso - la bontà della scelta aziendale volta al riassetto organizzativo.
In punto di opportunità e di gestione delle controversie era intuibile che non sarebbe stato agevole per il giudice di merito districarsi tra i tanti ipotizzabili parametri alla cui stregua giudicare la “compatibilità”, non potendo neppure escludersi che le varie sensibilità dei giudici esprimibili nell’apprezzamento dell’eccessiva onerosità avrebbero potuto determinare soluzioni diversificate in presenza di situazioni identiche; senza contare, poi, che il possibile capovolgimento degli esiti del giudizio da un grado all’altro sarebbe venuto a dipendere spesso anche dal mutamento di una situazione di fatto in corso d’opera, con buona pace della linearità e speditezza del processo, potendo fondarsi l’impugnazione del datore su una mera “previsione” di difficoltà economica al momento di emissione della sentenza di appello.
Inoltre non era neppure scontata la “cogenza” del criterio dettato dalla Suprema Corte, con possibile divergenza di vedute non solo sulla esatta portata del criterio stesso, bensì sull’utilizzo e combinazione di ulteriori criteri ritenuti concorrenti.
Tale complicato scenario, tuttavia, è rimasto solo nell’immaginazione…
5. La sentenza della Corte costituzionale
La questione è giunta alla Consulta con una articolata ordinanza di rimessione ad opera del giudice di Ravenna, sul necessario presupposto che l’interpretazione letterale del “può” fosse quella “giusta”, tenuto conto anche del diritto vivente consacrato da una maggioranza (pur esigua) di tre pronunzie di legittimità a due.
La Corte, sulla premessa che «La molteplicità dei possibili rimedi contro i licenziamenti illegittimi e l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate non escludono che le difformità tra i regimi di tutela debbano essere sorrette da giustificazioni razionali e non sottraggono le scelte adottate dal legislatore al sindacato di questa Corte», ha dichiarato fondata la questione per violazione dell’art. 3 Cost., sul principale rilievo che il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivela una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012 e vìola il principio di eguaglianza.
Infatti, secondo la valutazione discrezionale del legislatore, «l’insussistenza del fatto - sia che attenga a una condotta di rilievo disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una decisione organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere manifesto - rende possibile una risposta sanzionatoria omogenea, che è quella più energica della ricostituzione del rapporto di lavoro. In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto».
Resta quindi fermo che «L’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore. L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost. (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto). Tali elementi comuni alle fattispecie di licenziamento poste a raffronto dal rimettente, valorizzati dallo stesso legislatore nella previsione di una identica tutela reintegratoria, privano di una ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici».
Il che dovrebbe equivalere a dire che, ove due fatti presentino la stessa gravità, l’identico meccanismo sanzionatorio debba essere ragionevolmente lo stesso anche in punto di obbligatorietà della sua applicazione, giacché il contrario significherebbe ammettere, in alcuni casi, la non operatività del meccanismo stesso; dovrebbe anche conseguirne, in astratto, che l’ipotesi di un allineamento in direzione inversa, che ponga la facoltatività quale termine di raffronto dell’eventuale equiparazione, sia da scartare, poiché incompatibile con la misura della “gravità” prefigurata dal legislatore con la previsione della forma di tutela più intensa, che offre la misura “standard”, anche quanto all’obbligatorietà della sua applicazione, della reazione dell’ordinamento.
La Corte, peraltro, non si è limitata a ragionare sulla norma scritta, ma ha esteso la sua disamina alla norma “integrata” dalla Cassazione, concludendone che «È sprovvisto di un fondamento razionale anche l’orientamento giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di eccessiva onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici, che incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore».
Infatti «(…) la diversa tutela applicabile - che ha implicazioni notevoli - discende (…) da un criterio giurisprudenziale che, per un verso, è indeterminato e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento. Il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa che preclude l’applicazione della tutela reintegratoria è riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo e può dunque prestarsi a condotte elusive. Tale mutamento, inoltre, può intervenire a distanza di molto tempo dal recesso ed è pur sempre un elemento accidentale, che non presenta alcun nesso con la gravità della singola vicenda di licenziamento. È, pertanto, manifestamente irragionevole la scelta di riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile dell’illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria».
In buona sostanza la norma, nata irragionevole, lo è rimasta anche dopo.
6. Alla ricerca della volontà del legislatore
Anche il giudice delle leggi ha ritenuto che il legislatore abbia inteso investire il giudice della massima discrezionalità, per come emerge dal seguente passo della motivazione della sentenza: «L’elemento letterale è poi corroborato dalla ratio legis, così come si ricava dall’esame dei lavori preparatori. L’attuale formulazione scaturisce dalla mediazione tra opposte visioni, all’esito di un acceso dibattito parlamentare. Le critiche alle “disarmonie” della previsione censurata, emerse nel corso dell’approvazione del disegno di legge presentato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, non hanno condotto alla reintroduzione della reintegrazione obbligatoria, pur proposta a più riprese».
Pare, pertanto, che nell’alternativa tra la reintegra obbligatoria e tutela indennitaria sia prevalsa una formula di compromesso congegnata in modo tale da responsabilizzare il giudice di una scelta interamente libera, sì da rimandare al momento applicativo la effettiva portata della norma.
Ma in tale situazione (profondamente diversa da quella che si verifica nella liquidazione dell’indennità risarcitoria nel sistema del “Jobs Act”, ove l’esercizio della discrezionalità attinge a collaudati criteri insiti nel sistema e si attua comunque “entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima”[5]), la ricerca della volontà del legislatore diventa opera assai ardua, poiché un verosimile approdo è che, nel caso, si mirasse al “non perseguimento” di una via netta e lineare.
In tal quadro, la eliminazione della richiamata “parolina” non solo scongiura il rischio di interpretazioni irragionevoli della stessa, ma fa opera di “pulizia” nel sistema “giuridico”, la cui immanente razionalità, prodotta da un complesso di norme coerenti e finalisticamente comprensibili, è destinata ad un pericoloso indebolimento ove si procedesse ad interventi normativi non bilanciati rispetto al tutto.
7. L’effetto di “trascinamento” del principio di uguaglianza
Poiché la sentenza della Corte si fonda sul principio di eguaglianza e ragionevolezza, si tratta di valutare, ora, la portata dell’effetto di trascinamento del principio stesso, con riguardo all’impianto delineato dal “Jobs Act”, nell’ambito del quale la reintegra è stata eliminata nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, essendosi qui sciolta in modo netto quella originaria alternativa di cui parlavamo in precedenza, secondo il già richiamato principio di progressiva gradualità.
La sopravvivenza della reintegra è rimasta, quindi, nel predetto impianto, a sanzionare la condotta grave del datore nell’ipotesi di licenziamento disciplinare, avendo qui la tradizione fatto sentire ancora il suo peso, forse in ragione del minor impatto statistico di tale tipologia di licenziamenti (al pari di quelli sanzionati con tutela reintegratoria piena) sulla totalità di quelli irrogati.
Potrebbe però sostenersi che nulla cambia tra una equiparazione difettosa, in punto di tutela, tra le due categorie di licenziamento individuale, in presenza di condotte parimenti gravi del datore, e una equiparazione “mancata”.
Potrebbe anzi affermarsi che nel secondo caso l’irragionevolezza è ancora più marcata, poiché il “può”, almeno, in concreto, avrebbe potuto in qualche caso condurre, nel sistema delineato dalla legge “Fornero”, alla reintegra.
Non è chiaro se la Corte, con l’affermazione che a decorrere dal 7 marzo 2015 «si dispiega la disciplina introdotta dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (…), che si caratterizza per una diversa ratio e per un diverso regime di tutele», abbia voluto affermare implicitamente la non esportabilità dell’attuale ragionamento in altri ambiti.
Potrebbe così ritenersi che l’effetto di trascinamento debba operare solo ove il termine di raffronto sia di una certa consistenza e, quindi, non possa rinvenirsi in un un’ipotesi residualissima (quale è quella del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato), sul rilievo che non basta una tutela maggiore di esigua applicazione a portare verso l’alto la tutela riservata ad altre ipotesi.
A tale riguardo, tuttavia, non dovrebbe agire in chiave assolutamente preclusiva la (già richiamata, alla nt. 5) sentenza n. 194 del 2018, ove la disparità di trattamento tra nuovi e vecchi assunti fu esclusa sulla base delle specifiche censure del rimettente, che non aveva sottoposto a critica la disciplina sostanziale del regime posto dal “Jobs Act”, ma solo il criterio di applicazione temporale della stessa.
Quale sarà il futuro, ad ogni modo, si vedrà, dipendendo anche in parte da quale sarà l’approccio al sistema “giuridico”.
Nell’impianto della legge “Fornero” l’equiparazione della tutela conduce a risultati coerenti in alcune ipotesi che potremmo definire “di confine”.
Ad esempio, il licenziamento totalmente immotivato potrebbe considerarsi ingiustificato, conseguendone la reintegra, per insussistenza (certamente manifesta) del fatto - non interessa se di astratto rilievo disciplinare o organizzativo -, che non potrà in alcun modo essere provato in giudizio.
Nell’impianto del “Jobs Act” il passaggio non è invece così scontato, poiché non si conosce quale è il fatto (di rilievo disciplinare o organizzativo) dalla cui accertata insussistenza dipenderebbe il grado di tutela; potendo così pervenirsi all’eventualità che il silenzio, quale equivalente di massima gravità di condotta, possa risolversi sempre in una negazione della reintegra.
Il tutto sta a dimostrare che il sistema “giuridico” non soffre di staticità, ma si avviluppa in una tensione che richiede una gestione attenta dei vari fattori che ne assicurano l’equilibrio, alla quale contribuisce una adeguata considerazione del sistema stesso nella delicata fase di introduzione di nuove disposizioni nel tessuto normativo.
In difetto, occorrerebbe pensare ad una armonia del tutto nuova, che presuppone, però, una netta rottura con i ricordi del passato.
Lorenzo Zoppoli
Corte costituzionale 59/21 e disciplina dei licenziamenti: piccone o scalpello?
Sommario: 1. Un segnale per la cultura giuridica lavoristica - 2. L’uguaglianza applicata alla manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo - 3. Attualità della sanzione reintegratoria e riflessi sul Jobs Act.
1. Un segnale per la cultura giuridica lavoristica
Con la pronuncia del 24 febbraio 2021 n. 59 – depositata il 1^ aprile – siamo al quarto intervento importante della Corte Costituzionale sulla riforma della disciplina dei licenziamenti maturata agli inizi del nuovo millennio (2012/2015)[1]. Quest’ultima sentenza accoglie la questione di incostituzionalità sollevata dal Trib. di Ravenna con un’ordinanza del 7 febbraio 2020 riguardante l’art. 18 Stat. lav. come novellato dalla l. n. 92 del 2012. In particolare viene radicalmente rivisto l’art. 18 c. 7, che prevedeva un’opzione sanzionatoria binaria del licenziamento illegittimo rimessa ad una valutazione abbastanza “libera” del giudice. Secondo questa norma infatti dinanzi ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo basato su un “fatto” di cui avesse verificato la “manifesta insussistenza”, il giudice avrebbe potuto comunque optare per l’alternativa indennitaria in luogo della reintegrazione, senza alcuna precisa indicazione normativa su elementi e circostanze idonee a fondare la scelta sanzionatoria. Insomma un giudice arbitro pressoché assoluto di esiti radicalmente diversi dell’azione giudiziaria intrapresa dal lavoratore, messo così dinanzi ad una giustizia imprevedibile.
In questo difficile equilibrio normativo meno contava che la medesima imprevedibilità sanzionatoria gravasse pure in capo all’impresa: infatti si trattava in ogni caso di una possibilità in più fornita dal legislatore all’impresa che si fosse avventurata in un licenziamento per giustificato motivo oggettivo palesemente privo di un qualche elemento fattuale. Possibilità in più perché nella “contigua” fattispecie del licenziamento disciplinare il medesimo legislatore prevede la sanzione reintegratoria nel caso analogo di mera “insussistenza del fatto”, accertata la quale al giudice non resta da far altro che ordinare appunto la reintegrazione (art. 18 c. 4).
Se si hanno chiari i delicatissimi (e fragili) equilibri racchiusi nella c.d. riforma Fornero - primo stadio dell’ultima riforma dei licenziamenti[2] - non si possono aver dubbi sul tipo di segnale di politica del diritto proveniente da questa sentenza della Corte: la reintegrazione in caso di licenziamento carente di requisiti di legittimità non va affatto marginalizzata. Siamo dunque dinanzi ad un altro autorevole stop al processo di “espulsione” della reintegrazione dal moderno diritto del lavoro.
Invece da sottoporre ad una più attenta valutazione mi sembrano due ulteriori aspetti della sentenza 59/2021: a) la coerenza argomentativa rinvenibile nella giurisprudenza costituzionale sull’intera materia; b) l’emergere di una qualche linea ricostruttiva del sistema rivisitato dalla Corte che conduca ad assetti di una qualche maggiore solidità giuridica.
Nell’analisi non si deve poi a mio parere trascurare un ulteriore elemento di novità: è questa la prima sentenza che colpisce la riforma Fornero sotto il profilo dell’incostituzionalità. Molti altri interventi della giurisprudenza di merito o di legittimità hanno infatti corretto, seppure in modo non sempre univoco e lineare (com’è del resto inevitabile), gli equilibri leggibili inizialmente nel sofisticato mosaico regolativo contenuto nell’ art. 18 novellato nel 2012. Come pure - già si è detto - in un paio di importanti occasioni la Corte costituzionale, chiamata tempestivamente a pronunciarsi, non ha tanto indugiato a correggere norme contenute nel secondo stadio della riforma dei licenziamenti di inizio millennio, cioè il d.lgs. 23/15, pezzo forte del c.d. Jobs Act. Questa distonia tipologica e cronologica negli interventi di ortopedia ordinamentale non possono non farci interrogare anche sulle ragioni di un crescente ruolo nella disciplina del licenziamento del giudice delle leggi rispetto a quello della giurisdizione ordinaria guidata, per quanto oggi possibile, dai guardiani della nomofiliachia. In questo quadro mi pare anche da chiedersi quanto, nella sua opera di armonizzazione della nuova disciplina dei licenziamenti ai principi della Carta del ‘48, la Corte costituzionale non stia procedendo a ritroso, forse costretta a rilevare anche nella legge 92/12 alcune macroscopiche antinomie sistematiche più visibili – e viste - nel d.lgs. 23/15.
Certo è che, pure riguardata dall’angolo visuale della Corte Costituzionale, la nuova disciplina dei licenziamenti non regge il confronto con quella novecentesca che l’ha preceduta, sebbene caratterizzata anch’essa da discutibili compromessi. Mai nel secolo scorso la Corte costituzionale aveva drasticamente bollato di contrasto con i principi costituzionali il sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, nonostante questa avesse conosciuto una evoluzione profondamente innovativa rispetto al codice civile snodatasi almeno in tre tappe (la l. 604/66; la l. 300/70; la l. 108/90), tutte giuridicamente molto problematiche e tutte collocate in fasi socio-politiche delicatissime. In sei anni la Corte è intervenuta sulla materia più volte e in modo più incisivo di quanto non abbia fatto in quasi mezzo secolo.
Mi pare che qui si debba anche cogliere un altro segnale grave che riguarda coerenza e compattezza sistematica del nostro mondo, quello della cultura giuridica e del diritto positivo costruiti con il determinante contributo dei giuristi del lavoro italiani. Se è vero infatti che le leggi le fanno governi e parlamenti, nessuno può pensare che in Italia la politica possa fare a meno di un significativo avallo da parte di almeno alcuni degli specialisti di una determinata materia e del diritto del lavoro in particolare. Forse allora i giuslavoristi hanno aperto varchi eccessivi ad opzioni di politica del diritto poco compatibili con i nostri equilibri ordinamentali, magari con l’attenuante della incontenibile pressione del “formante” socio-economico-tecnologico. La recente giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di sanzioni per i licenziamenti illegittimi evidenzia in modo abbastanza allarmante questa eccessiva cedevolezza dei giuslavoristi “consiglieri del principe” sul piano della conformità delle riforme avallate nell’ultimo decennio ai principi costituzionali. E nessuno può stupirsene più di tanto, dal momento che la dottrina è da tempo solcata da polemiche, nemmeno tanto sotterranee, sulla sostenibilità socio-economica della nostra tavola dei valori e dei principi, così come utilizzata dagli anni ’70 in poi. A parte i dettagli, la Corte ci sta dicendo, già da alcuni anni, che la Costituzione è quella che conosciamo e che non si può né stravolgere né ignorare. Forse occorre ripartire da qui per mettere qualche punto fermo.
2. L’uguaglianza applicata alla manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo
Il primo argomento utilizzato da Corte Cost. 59/21 per accogliere la già illustrata questione di costituzionalità è basato sulla violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza.
Il principio di eguaglianza è violato in quanto “in un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo comune al presupposto dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto” (punto 9 della motivazione).
Con questo rilievo della Corte io ero d’accordo da tempo ancor prima che la riforma Fornero fosse approvata[3]. Poi però molti avevano spiegato che occorreva comunque differenziare le sanzioni per le diverse fattispecie di licenziamento: da un lato quelle basate su violazione degli obblighi contrattuali del lavoratore (giusta causa e giustificato motivo soggettivo), dall’altro quelle basate su scelte tecniche e organizzative dell’imprenditore (giustificato motivo oggettivo). Anche se entrambe sono disciplinate dal legislatore italiano come motivazioni necessarie per estinguere ciascun contratto di lavoro isolatamente considerato (cioè entrambe configurano dei licenziamenti individuali), la seconda tipologia risulta attratta, proprio per la motivazione su cui è basata, nell’area dei licenziamenti c.d. economici, che comprende anche la fattispecie dei licenziamenti collettivi o per riduzione di personale. La riforma Fornero trovava qui uno dei suoi punti qualificanti: differenziare radicalmente le sanzioni previste per i licenziamenti economici da quelle previste per gli altri licenziamenti “disciplinari”. E in effetti l’art. 18 c. 7 novellato nel 2012 esclude la reintegrazione per mancanza dei requisiti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo salvo che esso non sia basato su un fatto manifestamente insussistente.
Il punto è che, come giustamente osserva la Corte, i licenziamenti “disciplinari” ricevono un trattamento non molto diverso dal legislatore. Infatti anche la mancanza dei requisiti per il licenziamento disciplinare non è sanzionata con la reintegrazione: salvo due ipotesi, di cui una è pressoché comune al licenziamento per giustificato motivo oggettivo – l’insussistenza del fatto – e l’altra attiene alla gravità del fatto/infrazione secondo una valutazione che il legislatore stesso rimette ai codici disciplinari aziendali e/o previsti dai contratti collettivi (art. 18 c. 4).
Ora la violazione del principio di eguaglianza deriva secondo la Corte proprio dall’aver diversamente sanzionato un medesimo vizio del licenziamento, cioè l’insussistenza del fatto (che addirittura per il licenziamento per gmo deve essere “manifesta”, cioè, può immaginarsi, più grave), a nulla rilevando la riconducibilità del licenziamento alla sfera soggettiva (del lavoratore) o oggettiva (dell’impresa). E la Corte sembra dire: ciò è conseguenza della scelta del legislatore di inserire per entrambe le fattispecie un medesimo vizio, da considerarsi grave in quanto lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale” e tocca “la persona del lavoratore” coinvolgendola in una medesima “vicenda traumatica”.
Questa parte della motivazione della sentenza io la trovo poco convincente. Non capisco infatti perché si possa valutare la lesione dell’interesse derivante da una rottura del vincolo negoziale illegittima a seconda se l’illegittimità del licenziamento derivi dall’aver addotto un fatto inesistente o dall’aver violato un diverso requisito richiesto dalla legge. Interesse, coinvolgimento e trauma del lavoratore sono delle costanti in ogni caso di estinzione del contratto di lavoro. Non mi pare che su questo piano si possa ragionare di differenziazioni più o meno fondate del regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi. Se si dovesse guardare a questi profili, la reintegrazione dovrebbe essere prevista sempre o, al contrario, mai.
Però la Corte aggiunge un altro argomento per sostenere la violazione del principio di eguaglianza, un argomento molto più interno agli equilibri ordinamentali: “l’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost.” (e si cita al riguardo la sentenza n. 41 del 2003)[4].
Quindi il fatto da porre a base del recesso è l’ ”elemento comune” che – a differenza di quelli prima richiamati, da considerarsi, nei limiti in cui il termine è accettabile, “ontologici” - può esserci o no nel concreto esercizio del potere di licenziare qualunque sia la tipologia di licenziamento e la cui mancanza può giustificare da parte del legislatore un trattamento sanzionatorio più grave rispetto ad altri vizi del recesso. Però, dice la Corte, essendo elemento comune a tutte le fattispecie, non si può giustificare in alcun modo che quando esso sia insussistente per una fattispecie si lasci al giudice un margine di apprezzamento nella sanzione e per un’altra no.
Qui rileva anche un’ulteriore valutazione, pur sintetica, presente nella motivazione della sentenza 59/21. In effetti molti giudici – compresa la Cassazione – avevano provato a correggere in via interpretativa l’originario art. 18 c. 7, ancorando la scelta del giudice di non ordinare la reintegrazione pur avendo constatato l’insussistenza del fatto ad un’eccessiva onerosità della reintegrazione stessa in considerazione degli assetti organizzativi dell’impresa. Indubbiamente si attenua così l’arbitrarietà della scelta giudiziaria ancorandola a un qualche parametro oggettivo. Questo orientamento interpretativo è coerente con quelle politiche del diritto – molto presenti nelle riforme della materia 2012-2015 – volte a ridimensionare il ruolo del giudice nel controllo sulla legittimità dei licenziamenti in nome dell’esigenza imprenditoriale della calcolabilità dei costi[5]. Lo è meno invece rispetto a quelle proposte – non sospette di partigianeria pro business - che invece segnalavano l’opportunità di lasciare al giudice un certo margine di scelta, anche nei meccanismi sanzionatori, un po’ sulla falsariga di altri ordinamenti, come ad esempio quello tedesco[6]. La Corte costituzionale in precedenti sentenze (194/18 e 150/20) ha espresso un orientamento non drasticamente contrario a riconoscere un certo ruolo del giudice nel definire almeno l’entità della sanzione per il licenziamento illegittimo. Nella sentenza 59/21 invece bolla drasticamente le interpretazioni correttive dell’arbitrarietà giudiziale nello scegliere tra reintegrazione e indennità, dicendo che: “è sprovvisto di un fondamento razionale anche l’orientamento giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di eccessiva onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici, che incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore”[7]
Qui c’è un altro principio di rilievo: quando il vizio del licenziamento è comune a varie fattispecie, non c’è spazio per una discrezionalità sanzionatoria di tipo giudiziale sul piano del principio di eguaglianza.
Però l’argomentazione potrebbe apparire troppo drastica e persino contraddittoria con quella utilizzata dalla Corte nelle sentenze 194/18 e 150/20. Come ha subito scritto Pietro Ichino, sostenendo pure che la Corte, avendo rilevato differenziazioni incostituzionali, avrebbe però potuto e dovuto uniformare al ribasso le tutele sanzionatorie[8].
Come spesso mi capita, non concordo con le pur brillanti osservazioni critiche di Ichino. Infatti la contraddizione con le precedenti sentenze non c’è, per il semplice fatto che lì la Corte ha colpito la predeterminazione legislativa del danno causato al lavoratore, rilevando nella sanzione un’ingiustificata compressione del diritto riconosciuto a qualsiasi contraente in misura anche maggiore. E ha restituito al giudice il potere di parametrare la sanzione all’entità del danno seppure entro margini fissati dalla legge. Sul punto la motivazione della sentenza n. 59 è cristallina: “in un sistema equilibrato di tutele, la discrezionalità del giudice riveste un ruolo cruciale” tanto che nelle precedenti sentenze citate “al giudice è stato restituito un essenziale potere di valutazione della particolarità del caso concreto, in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi consolidata” (punto 10.1.).
Sembrerebbe invece che la Corte sostenga che il vulnus causato dall’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento sia tanto grave da non consentire differenziazioni sanzionatorie rimesse al giudice. Resta da capire se davvero la Corte ritiene che quel danno grave debba per forza sempre e comunque essere sanzionato con la reintegrazione. O se invece – come preferirebbe Ichino – potrebbe sempre prevedersi una sanzione indennitaria.
3. Attualità della sanzione reintegratoria e riflessi sul Jobs Act
La questione non viene affrontata in modo esplicito nella sentenza 59. Qualche elemento in più si può però ricavare dall’argomentazione riguardante la violazione del principio di ragionevolezza. In effetti è proprio questa parte del percorso argomentativo ad essere decisiva. Come sappiamo tante volte la Corte, anche in materia di licenziamenti, ha escluso la violazione del principio di eguaglianza perché, pur rilevando differenze di disciplina, le ha ritenute rispondenti a criteri di ragionevolezza. Nel caso di specie invece non rinviene né nella norma di legge né nel “diritto vivente” un fondamento razionale che possa giustificare la diversa ampiezza del potere “sanzionatorio” del giudice.
Sulla tipologia di licenziamento già s’è detto. Disciplinare o economico ciò che conta è l’insussistenza del fatto addotto come motivazione del licenziamento. Questo vizio è talmente grave secondo la Corte da ledere lo stesso principio della necessaria giustificazione del licenziamento. Su questa linea di ragionamento si potrebbe persino andare oltre: se il fatto addotto è inesistente perché allora si può giustificare l’esclusione della reintegrazione per la disciplina della materia prevista dal Jobs Act? Il d.lgs. 23/15 esclude infatti la reintegra per tutti i casi di licenziamenti economici illegittimi salvo per quelli con vizio di forma, cioè anche quando si rivelasse insussistente il fatto posto a base di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo o di un licenziamento collettivo. A colpire gli equilibri del Job Act la sentenza 59 non arriva né sarebbe potuta arrivare visto che la questione controversa riguardava l’art. 18 comma 7 dello Statuto. Ma l’argomento della “razionalità” porta ad estendere la valutazione della Corte ad ogni ipotesi di licenziamento destituita di un fondamento “fattuale”. E a poco rileva che nel Jobs Act la reintegrazione per il licenziamento disciplinare sia prevista solo per insussistenza del “fatto materiale”. La stessa espressione, con tutte le sue persistenti ambiguità, si potrebbe usare per tutti i licenziamenti riguardanti i contratti a tutele crescenti. Certamente per i licenziamenti economici individuali; ma anche per quelli collettivi, fermo restando il problema dell’eventuale accordo sindacale che rendesse la fattispecie “acausale”, come suol dirsi.
Questa digressione ci consente di rispondere ad uno dei quesiti che ci siamo posti in precedenza: la sentenza 59 non riguarda solo la riforma Fornero, ma può riflettersi anche sul Jobs Act.
Resta però il punto più delicato: la necessità di trattare allo stesso modo tutti i licenziamenti che risultassero privi di fondamento fattuale comporta la necessità di prevedere per tutti la sanzione reintegratoria?
Come si diceva qui la sentenza 59 aiuta poco. Infatti La Corte, nel valutare la ragionevolezza dell’alternativa risarcitoria nell’art. 18.7 Stat.lav. si limita a fare tre rilievi: a) il giudice non può essere arbitro assoluto della scelta tra due regimi sanzionatori radicalmente diversi; b) il criterio dell’eccessiva onerosità non pone rimedio “all’indeterminatezza della fattispecie” e non si attaglia a soppesare un risarcimento da considerare equivalente alla reintegrazione in forma specifica di cui all’art. 2058 comma 2 c.c.. Infatti l’eccessiva onerosità “non serve a individuare parametri sicuri per la valutazione del giudice nel riconoscimento di due rimedi – la reintegrazione e l’indennità – caratterizzati da uno statuto eterogeneo”; c) il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa non è un parametro per valutare l’eccessiva onerosità della reintegrazione, essendo rimesso a una scelta del tutto libera di una delle parti e non essendo necessariamente sincronica rispetto al licenziamento: è cioè “un fattore contingente” rimesso “alle scelte del responsabile dell’illecito”. Infine la Corte aggiunge che il potere discrezionale del giudice tradisce la stessa finalità dichiarata della legge 92/12, cioè realizzare un’equa distribuzione delle “tutele dell’impiego”.
In astratto a me pare che la 59/21 – coerentemente con tutta la giurisprudenza costituzionale in materia – neanche con riferimento all’insussistenza del fatto contestato ritenga costituzionalmente doverosa la reintegrazione. Piuttosto parte dal rilevare che nel sistema della legge Fornero il legislatore ha ritenuto che l’insussistenza del fatto è normalmente sanzionata dal legislatore con la reintegrazione. E, quindi, ha uniformato la disciplina delle due fattispecie in ragione del vizio comune.
Però la Corte fa qualche passo in più, laddove considera giustamente reintegrazione e risarcimento indennitario caratterizzati da “statuto eterogeneo”. Si intravede qui una chiara gradualità dei possibili meccanismi sanzionatori, del resto già presente negli assetti legislativi. E nell’argomentazione della Corte si coglie un accorto colpo di scalpello - più che di piccone - laddove si dice che per i vizi più gravi il giudice non deve avere alcuna discrezionalità sanzionatoria[9]. Il passo non è lungo se se ne deduce che nei vizi più gravi non c’è spazio per una sanzione che non sia in forma specifica o per equivalente. Quindi non per una sanzione indennitaria contenuta entro un range predefinito dal legislatore.
Se così è, dal materiale alquanto informe derivante dalle riforme del licenziamento di inizio millennio comincia a emergere una figura un po’ più definita. Ad esempio una ricognizione dei vizi gravi che possono inficiare il licenziamento e che sono da sanzionare con la reintegrazione (pure ancora al suo interno articolata: tra l’altro, la Corte dice che “ben può il legislatore delimitare l’ambito applicativo della reintegrazione”), tra i quali non ci sono più solo discriminazioni e nullità, ma anche insussistenza del fatto posto a base della decisione datoriale.
Certo la materia prima fornita dall’arrembante legislatore di inizio secolo continua a richiedere un profondo lavoro di sgrossatura e rifinitura. Proprio il riferimento al fatto - che compare in tre diverse formulazioni (fatto insussistente, fatto manifestamente insussistente e fatto materiale) - fornisce la misura di ciò che resta da fare[10]. E la Corte, anche se acquisisse con lo scalpello la maestria di un Michelangelo, difficilmente potrà farcela da sola. Ci vorrebbe un legislatore che reclutasse qualche altro scultore: ma dovrebbe assomigliare a un Canova o, magari, a un Rodin. Insomma scultori con tecniche solide e moderne, che esonerino la nostra Corte costituzionale dal difficile compito di scrivere sentenze michelangiolesche.
[1] Cass. 14 luglio 2017, n. 17528.
[2] Cass. 2 maggio 2018, n. 10435.
[3] Cass. 31 gennaio 2019, n. 2930 e Cass. 3 febbraio 2020, n. 2366.
[4] Cass. 13 marzo 2019, n. 7167.
[5] Cfr. Corte cost. 8 novembre 2019, n. 194. [6] Per gli altri tre interventi v. Corte Cost. n. 194/18; 150/20; 254/20. Solo l’ultimo non accoglie la questione di costituzionalità sollevata dai giudici a quo.
[1]Per gli altri tre interventi v. Corte Cost. 194/18; 150/20; 254/20. Solo l’ultimo non accoglie la questione di costituzionalità sollevata dai giudici a quo.
[2] Da ultimo v. Giubboni, Anni difficili. I licenziamenti in Italia in tempi di crisi, Giappichelli, 2020.
[3] V. L. Zoppoli, La flexicurity dell’Unione europea: contenuti e implicazioni per la riforma del mercato del lavoro in Italia, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona.IT” – 141/2012, poi in Flex/insecurity. La riforma Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92) prima, durante e dopo, Editoriale scientifica, 2012, p. 38 (ma anche 154).
[4] Di recente attribuisce una marcata valenza costituzionale a questo requisito Saracini, Reintegra monetizzata e tutela indennitaria nel licenziamento ingiustificato , Editoriale scientifica, 2018.
[5] V. per tutti Ichino, La questione di costituzionalità della nuova disciplina dei licenziamenti, in www.pietroichino.it - NWSL, 7 agosto 2017 n. 448.
[6] V. Per una buona modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in Lavoro e diritto, 2012, p. 438-439
[7] Sui complessi intrecci della disciplina dei licenziamenti con la tutela della dignità v., da ultimo, R. Casillo, Diritto del lavoro e dignità , Editoriale scientifica, 2020, p. 221 ss.
[8] v. Ichino, No, non è vero che la Consulta ha demolito la legge Fornero, ne il Foglio, 3 aprile 2021.
[9] Questo intento forse spiega anche la preferenza per sentenze di accoglimento piuttosto che interpretative di rigetto: v. sul punto Ferrante, Non c’è alternativa alla reintegra, in caso di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo, in DRI, 2021.
[10] v. Ferrante, op.ult.cit.
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