ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Modesta proposta per la giustizia civile
(Contra oratores)
di David Cerri *
Il titolo (di sapore swiftiano, ma sperabilmente meno truce) ed il sottotitolo (pretenzioso e ciceroniano) di questo breve intervento sembrano tradire predilezioni letterarie, ma nascono dalla costituzione della Commissione per la Giustizia Civile nominata dalla ministra Cartabia, che dovrà in tempi molto brevi concludere i suoi lavori, appena iniziati; e si traducono semplicemente in un incoraggiamento a passi forse controcorrente, con una conseguente garbata critica ai fautori dell’oralità del processo civile ora, sempre e subito.
La ministra sembra avere le idee chiare: nelle Linee programmatiche di recente presentate e discusse in Commissione Giustizia del Senato, nel settore della giustizia civile l’accento è posto sulla rivalutazione delle procedure alternative di risoluzione delle controversie, e sulla scelta da compiere tra il mantenimento dei due modelli attuali (rito ordinario e rito sommario di cognizione) o l’introduzione di un nuovo rito semplificato. Molto correttamente nelle Linee programmatiche si legge che il successo delle ADR deve avere una corrispondenza nella efficienza della giurisdizione, conclusione alla quale da molto tempo erano arrivati gli studiosi, in particolar modo quelli di ordinamenti che ben prima del nostro conoscevano tali forme alternative. Se si può solo accennare ad un modesto dissenso, è sulla valutazione del rito sommario così come lo conosciamo come “un rito molto efficace ed apprezzato“… ciò che non mi sembra appartenga al notorio né alle statistiche degli uffici. Il tutto in un quadro che, come si legge, non consente di “coltivare illusorie ambizioni di riforme di sistema non praticabili nelle condizioni date”, doverosa, realistica ed anche saggia considerazione.
Un altro importante riferimento è fatto all’esigenza di regolamentare e incentivare la sinteticità degli atti, riferimento che ai fini di questo commento interessa in modo speciale. L’oculata scelta dei componenti della commissione, ad iniziare dal presidente Francesco Luiso e dal vicepresidente Filippo Danovi, offre ampie garanzie (e per restare ai soli processualcivilisti, altrettanto si può certamente dire di Paolo Biavati e Antonio Carratta, mentre sarà certamente rilevante l’apporto di Paola Lucarelli sul profilo delle procedure alternative).
La considerazione da cui partire è in primo luogo quella che, volenti o nolenti, il processo civile italiano è fondamentalmente un processo scritto. La farraginosa storia delle novelle al codice del 1940 non ha mai registrato novità essenziali su tale struttura, anzi. Di recente abbiamo poi conosciuto una sorta di esasperazione (benvenuta, peraltro, perché ha impedito la totale paralisi del settore) con l’introduzione nella fase emergenziale della “trattazione scritta“ dei procedimenti (ed a parere di chi scrive, come meglio si coglierà più avanti, dovrebbe sfruttarsi l’occasione di consolidare alcune nuove esperienze maturate in questo pur difficile contesto). L’oralità è ristretta a determinate oasi, in particolare – oltre ovviamente all’istruttoria orale - laddove si usa il termine discussione; non c’è dubbio però che le decisioni vengano poi effettuate sulla base della lettura ed esame di atti scritti.
Dovremmo aggiungere una considerazione preliminare, di notevole sostanza: lo scopo del processo civile - per parafrasare il noto aneddoto riportato da Dworkin in epigrafe al suo Giustizia in toga (lo scambio di battute tra Oliver Wendell Holmes e Learned Hand) - è fare giustizia, o applicare la legge ? [1] Si tratta probabilmente di fare giustizia, applicando la legge.
Se ci poniamo in quest’ottica, una considerazione importante riguarda il momento della decisione: esser consapevoli degli inevitabili, naturali biases cognitivi (certamente presenti sia in un provvedimento reso dopo un processo condotto prevalentemente in forma orale, che in uno che segua una riflessione su soli, o quantitativamente prevalenti, atti scritti) valutando se il rischio di soccombervi sia maggiore nell’una o nell’altra ipotesi.
Parlare quindi di prevalenza della forma scritta, non è certamente voler tornare a forme antiquate e prolisse di esposizione degli argomenti; è, al contrario e piuttosto, spingersi in avanti, nella considerazione che l’introduzione di efficaci stimoli a chiarezza e concisione nella redazione degli atti (sia degli avvocati che dei giudici) possa costituire la soluzione migliore, l’antidoto più efficace alle degenerazioni di una scrittura che tende a tradursi in scartoffie.
Il momento dell’oralità presenta infatti diverse insidie: sono i neuroscienziati a dirci come le caratteristiche del nostro cervello comportino determinate conseguenze, per esempio, per quanto riguarda la ritenzione dei dati sensoriali nella memoria a breve termine (MBT); Bona e Rumiati tra gli altri ci hanno ricordato in modo esemplare, a proposito dei limiti fisiologici del nostro organismo, e proprio trattando della MBT, che “La consapevolezza circa questi limiti e i correlati riflessi sui processi di pensiero non può che comportare l’utilizzo, specie da parte degli avvocati, di strategie adeguate. Lo intuivano già i retori classici. L’invito, ripetuto allo sfinimento da parte dei grandi retori, a essere concisi, chiari e verosimili nell’esposizione dei propri argomenti”, citando Quintiliano [2].
Il pericolo, credo evidente nell’esperienza del giurista pratico, è quindi che una decisione in momenti non secondari del processo possa risentire eccessivamente di tale modalità di trattazione. Senza voler invadere un campo che non mi compete, ma prendendo (ancora) in prestito le parole di Carlo Bona, che il giudice non ragioni “secondo gli schemi di una razionalità “olimpica”, bensì secondo quelli di una razionalità alternativa, compatibile con i limiti del nostro sistema cognitivo”[3] mi parrebbe una conclusione consolidata, alla quale aggiungere la considerazione delle emozioni, momento “forte” di una discussione nella quale l’abile oratore sappia suscitarle [4].
Utile invece, e raccomandabile, una discussione che giunga al termine del processo, in una sorta di riepilogo delle argomentazioni essenziali, riviste alla luce dell’istruttoria, e di fronte ad un giudice perfettamente a conoscenza della causa, che potrebbe vedere un modello negli articoli 281 quinquies (e sexies) c.p.c.; quindi un punto di arrivo e conclusione, non una scorciatoia [5].
L’oralità - guarda caso - ha invece un ruolo determinante nelle procedure alternative, dove l’intervento personale delle parti e l’osservanza del principio di riservatezza costituiscono gli elementi che la presuppongono e favoriscono, principalmente in virtù del fatto, da rimarcare, che non vi è nessuna decisione da prendere.
Non è vero, in conclusione, che la trattazione scritta del processo sia una delle principali cause del malessere del sistema della giustizia civile; senza voler entrare nei temi (in realtà decisivi) delle risorse umane e materiali disponibili, e della formazione degli operatori (come ricordato, a cominciare dalla ministra si è tutti a malincuore consapevoli che per riforme “epocali” non è questa la stagione) lo sforzo riformatore potrebbe trarre spunti anche da qualche sommessa indicazione:
- razionalizzazione del percorso giudiziale, eliminando udienze inutili; nella realtà che conoscono i giuristi pratici, quale degli adempimenti richiesti agli avvocati di cui all’art.183 c.p.c. non potrebbe essere sostituito da una nota scritta ? Perché, analogamente, imporre una presenza ai fini del conferimento dell’incarico al consulente tecnico ? O per la precisazione delle conclusioni ? In tutti i casi, beninteso, facendo salva la richiesta delle parti, o l’autonoma decisione del giudice, di tenere l’udienza;
- potenziamento dell’intervento del giudice (auspicabilmente quello “vero” che deciderà la causa, non il delegato…) nell’istruttoria, con un più esplicito affidamento di poteri conciliativi. Qui però occorre esser chiari: la prospettiva è certamente valida ma a patto però di dotarlo istituzionalmente – ancora la formazione… - delle capacità richieste per la gestione di tali poteri, che non si improvvisano e per le quali non è sufficiente la sola esperienza pratica; senza questa garanzia per il cittadino, meglio allora ed intanto un maggiore ricorso alla mediazione delegata, della quale il giudice, spogliatosi del procedimento, raccolga gli esiti (se ne parla nelle Linee programmatiche);
- deciso ingresso anche nel processo civile di tutte le indicazioni verso la redazione di atti chiari e concisi, magari attingendo a quelle iniziative di soft law nate dalla collaborazione tra avvocatura e magistratura, come ad esempio il Protocollo del 2015 per i ricorsi in materia civile concordato tra C.N.F., le Linee Guida del 2017 degli Osservatori sulla giustizia civile, e il Protocollo C.S.M.- C.N.F. del 2018 sulla redazione degli atti e provvedimenti in appello [6], senza contare i numerosi altri strumenti creati sul territorio. Oltre – va detto – alla comparazione con l’esperienza di quegli ordinamenti che da tempo hanno arato questo campo, in primis quello statunitense e quelli delle corti europee;
- sotto l’ultimo profilo, contemporanea attenzione a non ripetere esperienze negative, dove le prescrizioni formali sono state talvolta intese come “trappole” per sfoltire i ricorsi…nel primo dei Protocolli ricordati – ad esempio – vi è la previsione che il superamento dei limiti dimensionali degli atti non possa mai comportarne l’automatica inammissibilità. Per esser più chiari, la vicenda del processo amministrativo (con l’introduzione dell’art.13 ter n.att. ed in particolare del comma 5, che prevede la mera facoltà del giudice di esaminare le questioni trattate oltre quei limiti, senza possibilità di impugnazione) non è un modello da seguire tout court ( anche senza considerare la delega ad una fonte di rango secondario – il decreto del presidente del Consiglio di Stato - di previsioni che comunque incidono sulla difesa). Probabilmente, invece, una valutazione potrebbe essere condotta in termini di liquidazione delle spese, e forse anche in senso premiale oltre che punitivo, visto che ad integrare il criterio del “pregio dell’attività prestata” di cui al c.1 dell’art.4 del D.M. 55/2014 sui parametri forensi starebbe proprio, tra gli altri, il rispetto di quelle indicazioni; e non soltanto, a mente dell’introduzione nel medesimo articolo del c.1 bis che consente l’aumento fino al 30% dei compensi per gli atti, depositati in forma telematica ,“navigabili”;
- simile attenzione da porre ai filtri delle impugnazioni, anch’essi mai da interpretare come meri strumenti deflattivi, tentazione che il nostro legislatore ha spesso avuto, giungendo talvolta a stravolgere a tal fine (il caso della mediazione obbligatoria prima maniera) la genuina ispirazione delle indicazioni eurounitarie;
- infine, oralità sì, ma non univoca riduzione ad essa del processo; piuttosto, concentrazione di tale momento nella fase conclusiva, in veste di riepilogo e discussione finale dei suoi temi essenziali: un modello, come già ricordato, potrebbe essere tratto dall’art.281 quinques, 2 c., dove il giudice ha già avuto modo di studiare compiutamente le difese (scritte) delle parti. Sempre salva la facoltà di parti e giudice di dar sfogo al confronto verbale in ogni fase del processo. Così facendo si restituirebbero a tale modalità un senso ed una efficacia veri, senza limitarsi a lodarne tralaticiamente l’ispirazione chiovendiana.
Una sola chiosa finale: volutamente non ho accennato al tema ancora attuale dell’udienza “da remoto”, perché per l’impostazione di questo intervento non vi era motivo di distinguere la trattazione online da quella in presenza, per la comune diversità rispetto alla forma scritta [7]. Volendo però comunque considerare la nuova possibilità per il futuro, nello specifico campo dell’istruttoria orale, la trattazione da remoto potrebbe ancora essere prevista in quei casi dove – ad esempio - il pregiudizio dello spostamento dei soggetti interessati superi il vantaggio dell’immediatezza (si è avuto il caso generale della pandemia, ma ci potrebbero essere impedimenti del singolo processo, come quando vi siano testi impossibilitati a trasferimenti anche modesti: e non mi si dica che esiste la previsione dell’art.255, 2 c., ed in particolare della prova delegata…): anziché fare un tabù della trattazione in presenza sarebbe assai meglio regolare da un lato le prassi poco virtuose del sistematico affidamento dell’istruttoria a giudici onorari (a giudici che, in altre parole, poco sanno di quel procedimento prima, e null’altro sapranno poi: caratteristiche del resto proprie anche dell’organo delegato) e, dall’altro, pensare seriamente alla videoregistrazione, considerato anche il (previsto) fallimento dell’art.257 bis c.p.c.[8]
*Avvocato, Università di Pisa
[1] “Una volta Oliver Wendell Holmes, mentre andava in carrozza alla Corte Suprema di cui era giudice associato, dette un passaggio al giovane Learned Hand. Questi scese alla propria destinazione e, salutando la carrozza che ripartiva, urlò allegramente: «Fa' giustizia, giudice!». Holmes fermò la vettura, fece invertire la marcia al conducente, e tornò indietro verso il sorpreso Hand. «Non è quello il mio lavoro!» disse, sporgendosi dal finestrino. Poi la carrozza girò e ripartì, portando Holmes al suo lavoro: presumibilmente, quello di non fare giustizia.” R.DWORKIN, La giustizia in toga (2006), Roma-Bari, Laterza, 2010, p.10.
[2] C.BONA-P.RUMIATI, Psicologia cognitiva per il diritto, Bologna, Il Mulino, 2013, p.51.
[3] C.BONA, Sentenze imperfette, Bologna, Il Mulino, 2010, p.199.
[4] V. i saggi raccolti nel recentissimo Studies on Argumentation & Legal Philosophy / 4. Ragioni ed emozioni nella decisione giudiziale - (a cura di M. MANZIN, -F. PUPPO - S. TOMASI (2021) (Università di Trento, open access: http://hdl.handle.net/11572/296052)
[5] Sul sito della Corte suprema U.S.A. si legge, a proposito dell’ oral argument: “The Court holds oral argument in about 70-80 cases each year. The arguments are an opportunity for the Justices to ask questions directly of the attorneys representing the parties to the case, and for the attorneys to highlight arguments that they view as particularly important”, e “An attorney for each side of a case will have an opportunity to make a presentation to the Court and answer questions posed by the Justices. Prior to the argument each side has submitted a legal brief—a written legal argument outlining each party’s points of law. The Justices have read these briefs prior to argument and are thoroughly familiar with the case, its facts, and the legal positions that each party is advocating” (mie sottolineature).
[6] Spiace rimandare ad interventi di chi scrive…rispettivamente: La scrittura degli atti processuali ed il Protocollo d’intesa C.N.F. / Cassazione sulla redazione dei ricorsi (2016) , Le Linee Guida 2017 degli Osservatori sulla Giustizia Civile sulla redazione degli atti in maniera chiara e sintetica (2017), , e Il Protocollo C.S.M. – C.N.F. del 19 luglio 2018 su – tra l’altro… – chiarezza e sinteticità nella redazione degli atti e provvedimenti in appello, tutti in www.judicium.it .
[7] Ne ha scritto con acutezza P.SPAZIANI, Chiovenda ed il computer. Il processo “da remoto” e la teoria dell’azione, in questa Rivista (18.09.2020).
[8] Norma anche questa suscettibile di interventi, tesi sia a scioglierla dal necessario accordo delle parti, sia a munirla di una esplicita sanzione, in termini di specifico illecito disciplinare dell’avvocato che si presti ad “operazioni” sospette.
COVID 19 SRL - SICUREZZA A RESPONSABILITA' LIMITATA
La temporanea sospensione del vaccino Astrazeneca e l'apertura di varie indagini penali, con annessa eco mediatica, per gli eventi avversi temporalmente collegati alla sua somministrazione hanno fatto riemergere il rischio di un significativo pregiudizio al percorso di vaccinazione, già intrapreso tra molte difficoltà e - di fatto - unica via d'uscita dalla situazione emergenziale.
La vicenda ha suscitato forti preoccupazioni – in punto di sicurezza e di responsabilità – tanto nella popolazione sollecitata a vaccinarsi, quanto nel personale sanitario chiamato ad effettuare la somministrazione.
Sotto quest’ultimo profilo, si ripropone, con urgenza, il tema della responsabilità sanitaria (già affrontato dal CeSDirSan in vari incontri (tra gli altri, 22 giugno 2020 e 29 gennaio 2021). Si sta infatti ampliando il consenso - anche politico - sulla necessità di un intervento normativo che provi ad arginare questa nuova 'variabile' della medicina difensiva, declinata oggi nella fase vaccinale: una normativa che in qualche modo riesca a ricondurre a margini di ragionevolezza la responsabilità penale degli operatori sanitari nell'ambito della fase emergenziale pandemica, con particolare riferimento proprio ai recentissimi eventi avversi verificatisi (non solo in Italia) nel pieno della campagna vaccinale.
La prof.ssa Maria Alessandra Sandulli, Direttore del CeSDirSan e il prof. Cristiano Cupelli (coordinatore del Comitato di Ricerca del Centro) ne discutono con l'on. avv. Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario alla Giustizia, da sempre attento studioso della responsabilità in ambito sanitario e penalista sensibile alla tutela delle garanzie.
Qual è il Tribunale competente a decidere sulla proposta di concordato preventivo delle grandi imprese in crisi? (nota alla requisitoria del sost. Procuratore generale della Corte di Cassazione Stanislao De Matteis, 9-2-2021 RG 30853)
di Paola Filippi
Sommario: 1. Premessa: gli articoli del codice della crisi in vigore dal 30 marzo 2019. - 2. La competenza del tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese. - 3. Il regolamento di competenza tra Tribunale del capoluogo e il Tribunale nel cui circondario l’impresa di grandi dimensioni ha il COMI.
1. Premessa: gli articoli del codice della crisi in vigore dal 30 marzo 2019.
Il codice della crisi, entrerà in vigore a settembre, essendo stata prorogata, dall’art. 5, primo co., d.l. n. 23/80, convertito in legge n. 40/20, al 1° settembre 2021 la data dell’agognato all’allineamento della disciplina nazionale a quella europea[1]. Sono comunque entrati in vigore il 30 marzo 2019 uno sparuto numero di articoli, ovvero quelli indicati al primo comma dell’art. 339 CCI.
Si tratta di disposizioni in materia di competenza per materia e per territorio (art. 21, primo comma, CCI) e delle conseguenti modifiche in materia di amministrazione straordinaria (art. 350 CCI) relative all' articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 270/99 (legge Prodi bis) , ove le parole «del luogo in cui essa ha la sede principale» sono sostituite con «competente ai sensi dell'articolo 27, comma 1, del codice della crisi e dell'insolvenza» e relative all’art. 2, comma 1, d.l. n. 347/2003 (legge Marzano) ove le parole «del luogo in cui ha la sede principale» sono sostituite con «competente ai sensi dell'articolo 27, comma 1, del codice della crisi e dell'insolvenza».
Sono entrati in vigore gli articoli in materia di costituzione degli albi degli incaricati alle procedure, del sito web presso il Ministero, delle certificazioni tributarie, previdenziali e assicurative. Le modifiche del codice civile riguardanti gli assetti organizzativi dell'impresa relativi, in particolare, al dovere dell'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale; alla responsabilità degli amministratori per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale nonché alle disposizioni riguardanti gli organi di controllo e i rapporti di lavoro.
Sono infine entrate in vigore significative modifiche al decreto legislativo n. 122 del 2005, contenenti garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire.
2. La competenza del tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese.
Le modifiche dell’art. 3 della legge Prodi bis e dell’art. 2 della legge Marzano di cui all’art. 350 CCI operano sulla competenza con riferimento alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese (imprese con i requisiti dimensionali di cui all’art. 2 d.lgs. 270/99 ovvero un numero di lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiore a duecento da almeno un anno e debiti per un ammontare complessivo non inferiore ai due terzi tanto del totale dell'attivo dello stato patrimoniale che dei ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni dell'ultimo esercizio) nonché alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandissime imprese (le imprese che presentano i requisiti di cui all’art. 1 d. lgs. n. 347/03 ovvero lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiori a cinquecento da almeno un anno e debiti, inclusi quelli derivanti da garanzie rilasciate, per un ammontare complessivo non inferiore a trecento milioni di euro). Per effetto di dette modifiche la competenza è stata trasferita dal Tribunale nel cui circondario l’impresa ha il COMI al tribunale sede della sezione specializzata in materia di impresa, sempre con riferimento al COMI.
L’art. 27, primo comma, CCI, della cui interpretazione si discute, si riferisce ai procedimenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e delle controversie collegate alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevanti dimensioni.
La legge n. 155/2017 ha delegato il governo a operare in tema di competenza in materia concorsuale con le direttive di cui all’art. 2 lett. n).
L’art. 2 lett. n) della legge n. 155/2017, contenente la delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza, al fine di garantire la specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale, al punto 1 ha conferito al governo la delega ad attribuire ai tribunali sede delle sezioni specializzate in materia di impresa la competenza sulle procedure concorsuali e sulle cause che da esse derivano, relative alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevante dimensione. Al punto 2 ha conferito delega a mantenere i criteri di attribuzione della competenza per le procedure di crisi o insolvenza del consumatore, del professionista e del piccolo imprenditore. Al punto 3 ha conferito delega a individuare tra i tribunali esistenti, quelli competenti alla trattazione delle procedure concorsuali relative alle imprese diverse da quelle di cui ai numeri 1) e 2), sulla base di criteri oggettivi e omogenei basati su una serie di indicatori previsti dal medesimo punto della legge delega. La legge delega ha trovato attuazione solo quanto al punto 1 e 2 – quella al punto 2 della direttiva a non modificare- ovvero con riguardo alla competenza dei tribunali sede delle sezioni specializzate in materia procedure concorsuali e cause che da esse derivano, relative alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevante dimensione e per il resto, come attualmente previso all’art. 9 l.fall., lasciando senza distinzione della dimensione del debitore la competenza al tribunale nel cui circondario il debitore ha il centro degli interessi principali.
L’art. 27, comma 1, ha riprodotto il riferimento alle imprese “in amministrazione straordinaria” contenuto nella delega modificando il richiamo alle procedure concorsuali solo sotto un profilo lessicale mutando l’indicazione procedure concorsuali con quella ai procedimenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza.
La disposizione di cui all’art. 27, comma 1, CCI, quindi, in coerenza con la delega, fa espresso riferimento alle imprese in amministrazione straordinaria, così, all’apparenza, delimitando la competenza del tribunale sede della sezione specializzate alle sole grandi imprese in relazione alle quali la procedura di amministrazione straordinaria è stata aperta.
L’apertura della procedura di amministrazione straordinaria, dal tenore letterale, non sembrerebbe invece prevista con riferimento ai gruppi di rilevanti dimensioni.
L’interpretazione secondo brocardo “lex ubi voluit disxit” – come ritiene il Tribunale di Bologna- indurrebbe a concludere nel senso che le imprese devono trovarsi “in amministrazione straordinaria”. Se il legislatore avesse voluto introdurre una deroga di competenza per materia con riferimento ad imprese di grandi o grandissime dimensioni avrebbe scritto non “in” bensì “assoggettabili” o avrebbe fatto cenno alle dimensioni, come d’altro canto sembra fare con i gruppi di imprese in relazione ai quali fa riferimento alle dimensioni che richiede siano “rilevanti”.
La rivisitazione della competenza in seno sia alla prima che alla seconda Commissione Rordorf ha determinato comprensibili divergenze di vedute in tema di competenza per cui sembrerebbe ardito non tener conto della preposizione “in” che precede la locuzione “amministrazione straordinaria”.
L’interpretazione del Tribunale di Bologna – sostenuta nel decreto con il quale rimette alla Cassazione il regolamento di competenza- sembrerebbe dunque logico e coerente.
L’effetto dell’interpretazione coerente con la valorizzazione di detta preposizione è dunque che per le procedure di regolazione della crisi alle quali volessero accedere imprese di grandi o grandissime la competenza è quella orinaria - il tribunale nel cui circondario il debitore ha il centro degli interessi principali- , mentre per l’apertura dell’amministrazione straordinaria è competente il Tribunale sede della sezione specializzata; per le regolazioni successive all’apertura della procedura di amministrazione straordinaria ad. es.: dichiarazione di fallimento ex art. 30 d.lgs. n. 270/99 (dal 1° settembre liquidazione giudiziali) o concordati ex artt. 78 e 79 d.lgs. n. 270/99 la competenza rimane radicata presso il Tribunale sede della sezione specializzata. In base a tele orientamento interpretativo l’art. 27, primo comma, CCI estende la competenza ai fini della continuità di trattazione.
Ma a parte le considerazioni della Corte di appello di Bologna con riguardo alla sistematicità che deporrebbe per l’interpretazione è nel senso di quell’ “in” come assoggettabilità [2] l’interpretazione del Tribunale di Bologna si interrompe nella sua linearità logica nel momento in cui si cerca nella legge delega la direttiva sottostante alle modifiche introdotte con l’art. 350 CCI.
Non si rinviene nella legge n. 155/17 alcuna disposizione che espressamente deleghi alla modifica della competenza con riferimento all’apertura delle procedure di amministrazione straordinaria
Qual è la direttiva di legge delega in base alla quale il legislatore delegato ha introdotto la deroga alla competenza ordinaria, di cui all’art. 3 d.lgs. n. 270/99 e all’art. 2 n. d.l. 347/03.
L’unica direttiva che può avere facoltizzato il legislatore delegato ad operare sulla competenza in tema di amministrazione straordinaria è la disposizione di cui all’art. 2 lett. n) n. 1, se è detta diposizione che ha investito il legislatore delegato del potere di derogare alla competenza in materia di amministrazione straordinaria, allora l’improprio utilizzo dell’in è da attribuire al legislatore delegante -che detta improprietà ha trasmesso al delegato- e la voluntas legis è da intendersi nel senso che il riferimento riguarda le imprese aventi i requisiti per essere assoggettate all’amministrazione straordinaria e non le imprese già in amministrazione straordinaria.
Diversamente argomentando l’art. 350 CCI sarebbe stato scritto in eccesso di delega e peraltro l’art. 27, primo comma, sarebbe privo di giustificazione.
3. Il regolamento di competenza tra Tribunale del capoluogo e il Tribunale nel cui circondario l’impresa di grandi dimensioni ha il COMI.
Sull’ interpretazione dell’art. 27, primo comma, CCI e sulla competenza dei Tribunali sede delle sezioni specializzate di cui all’art. 1 d.lgs. n. 168/2003 in materia di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle grandi imprese in crisi è in procinto di pronunciarsi la VI sezione Civile della Cassazione, investita dalla richiesta formulata, ex artt. 9 bis l. fall., 45 e ss c.p.c., del Tribunale di Bologna con decreto del 10.11.2020 di regolamento di competenza ex art. 48 c.p.c.
Secondo il Tribunale di Bologna, sede della sezione specializzata, l’interpretazione della disposizione di cui all’art. 27, comma 1,CCI è che “in” anteposto a “amministrazione straordinaria” non può che essere letto nel senso che la competenza si riferisce alle imprese con riferimento alle quali la procedura è stata già aperta, se l’impresa chiede di essere ammessa a concordato preventivo è competente dunque il tribunale individuato ai sensi dell’art. 9 l.f..
La competenza si sposterà, in caso di ammissione dell’impresa alla procedura di amministrazione straordinaria, davanti al Tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese, per ivi rimanere in caso, ad esempio, di dichiarazione di fallimento ex art. 30 d.lgs. n. 270/99 o concordato ex art. 78 d.lgs. n. 270/99.
Di diverso avviso la Corte di appello di Bologna che, con decreto del 13-20/10/20202, che ha deciso su reclamo avverso il decreto di ammissione al concordato con riserva del Tribunale di Reggio Emilia, indicando la competenza del Tribunale di Bologna sede della sezione specializzata delle imprese, in base a ragioni di ordine “letterale”, “sistematico” e “funzionale” , come sintetizzate nella requisitoria del sost. Procuratore generale della Cassazione che, in linea con le conclusioni della Corte di appello, ha concluso per la competenza del Tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese.
[1] Il decreto legge 8 aprile 2020 n. 23. Come ci si salva dalla crisi economica da pandemia: il rinvio del codice della crisi e altri rimedi
[2] Nel senso che per “in amministrazione straordinaria” debba intendersi “procedure di regolazione relative a imprese aventi i requisiti per l’assoggettabilità alle procedure di amministrazione straordinaria” alcune decisioni della giurisprudenza di merito: il Tribunale di Bergamo 8 luglio 2002 in Il fallimento 11/2020, 1486; il Tribunale di Bergamo 25 giugno 2020, in www.injuris.it , il Tribunale di Torino 4 febbraio 2020 inedita.
Protocollo n.16 al bivio. A margine di un recente libro - E. Albanesi, Corte costituzionale e parere della Corte EDU tra questioni di principio e concretezza del giudizio costituzionale - di Roberto Conti
Sommario: 1. Il protocollo del dialogo …interrotto. - 2.Qualche ulteriore considerazione sparsa sul tema, a proposito del ruolo della Corte di Cassazione. - 3.Qual è la posta in gioco? - 4. La Corte costituzionale, la sovranità e il Protocollo n.16. - 5. A mo’ di conclusioni, nella speranza che il Governo e le forze politiche riaprano il cantiere in Parlamento si riapra davvero.
1. Il protocollo del dialogo…interrotto
Si torna sul tema della mancata ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU questa volta grazie alvolume dedicato al tema fresco di stampa - E. Albanesi, Corte costituzionale e parere della Corte EDU tra questioni di principio e concretezza del giudizio costituzionale, Giappichelli, 2021 - al quale ha lavorato il suo Autore, costituzionalista della scuola genovese.
Nell’impianto dell’opera, che alla parte dedicata all’inquadramento generale del tema all’interno del piano convenzionale e di quello costituzionale, segue la ricca e densa parte II, al cui interno il capitolo 4 è quello dedicato al cuore della questione, appunto rappresentata dalle ragioni che hanno fin qui indotto il Parlamento a mettere temporaneamente da parte il tema della ratifica del Protocollo n.16. Un approfondimento particolare viene poi dedicato alle questioni che coinvolgono direttamente il tema della legittimazione della Corte costituzionale a promuovere la richiesta di parare preventivo ed alle modalità di proposizione della richiesta da parte del giudice costituzionale( cap.5 e 6).
Il contesto nel quale si inserisce il volume è quello che trova nel 23 settembre 2020 la data in cui si arenò innanzi alle Commissioni riunite II e III della Camera dei Deputati il progetto di legge relativo alla ratifica del Protocollo n.16.
Il rinvio della ratifica del Protocollo n.16 era stato determinato, pendendo a prestito le espressioni utilizzate dalla relatrice del testo esaminato dall’assemblea della Camera dopo lo stralcio, dai “… profili di criticità connessi al rischio di erosione del ruolo delle alti Corti giurisdizionali italiane e dei principi fondamentali del nostro ordinamento.”
Nel silenzio più totale dell’Accademia, dei gruppi associativi della magistratura e dell’Avvocatura Giustizia Insieme segnalava, con un editoriale, le ripercussioni negative che quella decisione parlamentare avrebbe provocato sul ruolo delle Alte Corti nazionali italiane, private della possibilità di richiedere, se ritenuto necessario rispetto al giudizio pendente, un parere non vincolante alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ed invitava ad accendere i riflettori sul tema ed a riaprire il dibattito nell'Accademia e nelle giurisdizioni.
Alla vivacità del dialogo a distanza sviluppatosi fra studiosi prestigiosi provenienti da diversi settori dell’Accademia - costituzionalisti, processualcivilisti, filosofi del diritto, internazionalisti e comunitaristi, nelle autorevoli espressioni di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo?, Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, Carlo Vittorio Giabardo - Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts, Enzo Cannizzaro - La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16, Paolo Biavati - Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, Sergio Bartole - Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare, Bruno Nascimbene - La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, Marina Castellaneta - Ratificato il Protocollo n. 15 ...aspettando il Prot. 16. Al via le modifiche alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo - e Andreana Esposito - La riflessività del Protocollo n. 16 alla Cedu- si aggiunge, ora, quasi ad ideale chiusura di una fase riflessiva sull’attuale fase, il saggio monografico di Albanesi. Saggio che, a fronte degli interventi singoli sopra enunciati, ha il vantaggio - ed il pregio - di porsi in una prospettiva più sistematica che al lettore alla ricerca di un quadro d'insieme indubbiamente serve.
Ecco, dunque, il “contesto” nel quale si inserisce il completo, approfondito e per certi versi “coraggioso” libro di Enrico Albanesi.
Per spiegare dove sta ed in cosa consiste il coraggio dell’autore è bene ritornare al “clima” che si è respirato all’indomani dello stop parziale in sede parlamentare all’esame del ddl che aveva ad oggetto anche la ratifica del Protocollo n.16. Un clima, del resto, misurato nel corso delle audizioni innanzi alle Commissioni parlamentari, prevalentemente orientate – salvo qualche autorevole eccezione a descrivere non già le pubbliche virtù del Protocollo n.16, quanto il germe che in esso si annidava, capace di assestare alla sovranità dello Stato un colpo durissimo non solo al custode principe della Costituzione – il giudice costituzionale – ma anche all’autonomia della magistratura, per Costituzione soggetta soltanto alla legge (art.101, 1° co. Cost.).
Ora, Albanesi, dopo avere inquadrato il Protocollo n.16 nella sua dimensione convenzionale (cap.1) e offerto gli strumenti per cogliere l’attuale situazione dinamica dei rapporti della Corte costituzionale con le alte corti nazionali e sovranazionali (cap.2), smonta uno ad uno gli argomenti dei sostenitori della Linea governativa. E lo fa con puntiglio, analiticità ed una spiccata capacità di chiarezza, dedicando un intero capitolo agli “Argomenti contrari alla ratifica del Protocollo n.16 e loro confutazione”. Ciò fa approfondendo l’analisi non soltanto con l’occhio rivolto alla giurisdizione apicale “comune” ma anche, con la stessa acutezza di indagine, con riguardo al ruolo, alla funzione ed alle potenzialità dello strumento riguardato dal lato della Corte costituzionale. È proprio il capitolo 5 ad occuparsi di quest’ultimo argomento, prendendo le mosse dalla questione della riconducibilità della Corte costituzionale all’alveo delle Alte giurisdizioni alla quale accenna il Protocollo n.16, ma poi affrontando il nodo dei “rischi” che esso potrebbe rappresentare, sul piano interno, per effetto della concorrente utilizzazione da parte delle alte giurisdizioni comuni.
Le conclusioni che trae Albanesi appaiono rassicuranti almeno per quanti sono convinti che tale strumento, nelle mani della Corte costituzionale, potrebbe essere fecondo(tra questi anche l’attuale giudice della Corte edu in quota italiana, R. Sabato, Sulla ratifica dei Protocolli n. 15 e 16 alla CEDU, in www.sistemapenale.it e, più di recente, id.,L’impatto del protocollo n. 15 sulla Convenzione europea dei diritti umani: riflessioni a valle della ratifica italiana (e della mancata ratifica del protocollo n. 16) in Osserv.AIC, 1 giugno 2021, n.3/2021; v. anche M.Lipari - Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n.16 annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU): il dialogo concreto tra le Corti e la nuova tutela dei dritti fondamentali davanti al giudice amministrativo).
Meno in linea, per converso, risulta l’intera trama argomentativa del volume rispetto alle opin ioni di ha invece autorevolmente insistito sulla pericolosità, superfluità ed inopportunità del Protocollo n.16 (soprattutto, M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, 26 novembre 2019, in www.SistemaPenale.it; G. Cerrina Ferroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n.15 e16 alla CEDU, in Federalismi.it). Pessimisti che, occorre riconoscere con estrema franchezza, hanno fatto breccia nelle aule parlamentari tracciando una linea che ha trovato larga eco nel dibattito seguìto nelle Commissioni parlamentari ed in Aula, in occasione del varo finale del Protocollo n.15.
I cavalli di battaglia utilizzati per guardare al Protocollo 16 come (marginalizzazione della Corte costituzionale, allungamento dei tempi processuali, compressione di valori fondamentali per la giurisdizione nazionale, soggezione del giudice soltanto alla legge, limitazione della sovranità in pregiudizio della Consulta) sembrano trovare puntuale smentita nelle considerazioni espresse da Albanesi, in piena sintonia con gli studi apparsi su Giustizia Insieme ai quali si è fatto cenno sopra. Quello della irragionevole lunghezza dei processi che ne deriverebbe –v. R. Conti, Chi ha paura del protocollo n.16 -e perché?, in www.sistemapenale.it, 27 dicembre 2019 –.
2. Qualche ulteriore considerazione sparsa sul tema, a proposito del ruolo della Corte di Cassazione
Più volte è stato sottolineato come lo scopo del Protocollo n.16 fosse non già quello di sottrarre nicchie di sovranità e di potere giurisdizionale agli organi interni, quanto di favorire l’introduzione di uno strumento destinato a recuperare segmenti di certezza e prevedibilità al sistema di tutela dei diritti fondamentali, addirittura accentuando il ruolo di autonomia ed indipendenza delle giurisdizioni superiori nazionali, in un clima di cooperazione nella reciproca autonomia ed indipendenza delle Corti coinvolte.
La discrezionalità nel chiedere il parere e la piena autonomia nel disattenderne i contenuti ci erano parsi talmente evidenti e marcati da denotare in maniera inequivocabile i tratti caratterizzanti del meccanismo dialogico che sta alla base del Protocollo del dialogo, come ebbe a definirlo il Presidente della Corte edu Spielmann nel 2013 – Discorso del Presidente della Corte EDU Dean Spielmann alla 123a Sessione del Comitato dei Ministri, 16 maggio 2013, in www.echr.coe.int – tanto nella fase ascendente – al momento della richiesta, non obbligatoria, proveniente dal giudice nazionale – che in quella discendente – all’esito del parere eventualmente espresso dalla grande Camera della Corte edu – offrendo alle Alte Corti nazionali la possibilità di sfruttare a fondo il loro ruolo di protagonisti del sistema di garanzia a presidio dei diritti imposto dalla Costituzione. Né il giudice nazionale può ritenersi impedito, dopo il parere reso dalla Grande Camera, dal rivolgersi alla Corte costituzionale (E. Cannizzaro, cit.) – ove non sia convinto della conformità del suo contenuto all’assetto costituzionale dei valori.
Le considerazioni appena espresse si accentuano in modo particolare se si pensa al ruolo della Corte di Cassazione nel sistema di protezione dei diritti fondamentali e alla sua centralità nell’applicazione uniforme del diritto.
Prospettiva, quella fissata dal tuttora vigente art.65 della legge sull’ordinamento giudiziario che, riletto ed attualizzato alla luce dell’entrata in vigore della Costituzione e della sua apertura alle fonti sovranazionali, agli obblighi internazionali ed alle limitazioni di sovranità finalizzate alla garanzia di pace e sicurezza – artt.2, 10, 11, 117 1^ c. Cost. – delinea in modo marcato la funzione di nomofilachia europea che la Corte di Cassazione (anche per effetto del controllo alla stessa affidato, per il tramite delle Sezioni Unite civili, al tema del riparto delle giurisdizioni (art.117, c.8 Cost.) è andata assumendo e che proprio grazie agli strumenti cooperativi sempre più utilizzati nell’adire la Corte costituzionale e la Corte dei Giustizia UE consente ad essa di essere rappresentata ed avvertita anche all’esterno come organo centrale nel sistema di protezione dei diritti( conf., di recente, G. Canzio, F. Fiecconi, Giustizia, Milano, 2021, 63, 168 e 171).
Con ciò non si intende in alcun modo rivendicare posizioni di primazia o di egemonia da parte della Corte di Cassazione nei confronti di altre giurisdizioni interne o della Corte costituzionale né di quelle sovranazionali. È infatti difficile comprendere come la vocazione universale del discorso sui diritti dell’uomo (e, dunque, la sua naturale inclinazione al dialogo comparatistico) possa costringersi entro i ristretti confini di una singola dimensione politica nazionale (Giabardo, cit.).
Ed allora, sono proprio le forme di dialogo con le istituzioni giudiziarie sovranazionali a rendere non solo più piana la strada di una cooperazione equiordinata fra le giurisdizioni nazionali e sovranazionali, ma anche ad implementare la centralità delle istituzioni giudiziarie nazionali medesime, senza in alcun modo impoverirle e/o eroderne l’autorevolezza, delineando un sempre crescente ruolo della sussidiarietà nei rapporti fra le Corti nazionali e la Corte edu.
Ciò che si pone in linea di continuità e contiguità con il Protocollo n.15 che, ancora di più, ha inteso approfondire la centralità delle istituzioni nazionali nel sistema di protezione dei diritti fondamentali.
In questa direzione, come ricordato in dottrina – M. Castellaneta, cit.– va ricordato il considerando al Preambolo aggiunto dal Protocollo n.15, nel quale si afferma che “spetta in primo luogo alle Alte parti contraenti, conformemente al principio di sussidiarietà, garantire il rispetto dei diritti e della libertà definiti” nella Convenzione e nei suoi Protocolli.”
Come, dunque, non cogliere da questo inciso un evidente rafforzamento del ruolo delle giurisdizioni nazionali che, senza il Protocollo n.16, rimangono totalmente prive di canali di collegamento con la Corte edu?
In altri termini, proprio il Protocollo n.16 implementa in maniera incisiva il ruolo delle Corti nazionali rispetto a quella di Strasburgo, all’interno di un canone di sussidiarietà che vede come protagonista crescente il giudice nazionale di ultima istanza, al punto che egli, per un verso, sarà quello più direttamente investito nella protezione dei diritti di matrice convenzionale ed all’interno di questo arricchito potere(con annessa assunzione di responsabilità) il potere di chiedere il parere preventivo alla Corte edu è, per l’appunto, riconoscimento di deferenza e attenzione nei confronti dei Paesi del Consiglio d’Europea e, soprattutto delle sue Alte giurisdizioni.
Né può tralasciarsi di considerare, tra i benefici che possono attendersi dal Prot. 16, gli effetti che si hanno nei confronti dell'attività svolta dalla Corte EDU in sede giurisdizionale, se si considera che proprio in sede di redazione dei pareri è possibile possono precisare meglio orientamenti manifestati in sede giurisdizionale ovvero essere modificati (così, Ruggeri, Ancora sul Prot. 16: verrà dai giudici la sollecitazione al legislatore per il suo recepimento in ambito interno?, in “itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti XXIV, studi dell’anno 2020, Torino, 2021, 739 ss.).
Anzi, questa opinione dottrinaria consente forse di fugare appieno le preoccupazioni che pure si ventilano in dottrina in ordine ad una mutazione genetica del ruolo della Corte edu per effetto dell’introduzione del parere preventivo.
L’attività resa dalla Corte edu in seno al parere non perde i connotati di giurisdizionalità che sono propri dell’organo che adotta il parere. Quel che si modifica, invero, è il valore giuridico che il Protocollo attribuisce al parere, tratteggiandolo in termini, come sappiamo, di non vincolatività - in questa direzione univocamente militando il Rapporto esplicativo al Protocollo – The proposal to extend the jurisdiction (corsivo aggiunto) of the European Court of Human Rights (the Court) to give advisory opinions was made in the report to the Committee of Ministers of the Group of Wise Persons…” –.
Proprio il punto 27 del citato rapporto esplicativo, sub art.5, non lascia margine a dubbio, laddove afferma che i pareri "... andranno a fare parte della giurisprudenza della Corte, insieme alle sentenze e alle decisioni. L’interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli contenuta in tali pareri consultivi sarà analoga nei suoi effetti ai principi interpretativi stabiliti dalla Corte nelle sentenze e nelle decisioni".(v. conf. E. Nalin, I protocolli n.15 e 16 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Studi sull’integrazione europea, IX (2014), 143) Prospettiva che, del resto, lo stesso autore del libro che oggi si recensisce non ha mancato di caldeggiare in un saggio successivo - E.Albanesi, Un parere della Corte EDU ex Protocollo n.16 alla CEDU costituisce norma interposta per l’Italia, la quale non ha ratificato il Protocollo stesso?, in Consultaonline, 29 marzo 2021 - allorchè Albanesi qualifica il parare come “giurisprudenza” della Corte edu, pur assegnandone la forza vincolante - anche per i paesi non aderenti - se esso si inscriva nella giurisprudenza "consolidata" della quale parla la sentenza n.49/2015.
Il che ancora di più conferma che la funzione espletata dalla Grande Camera, pur nell’assoluta specialità del parere che essa rende, si inserisce in un circuito governato da garanzie partecipative previste per le parti e per i terzi, peraltro prevedendosi che i componenti dissenzienti dalla maggioranza possano esprimere le dissenting opinion. Ciò che, a ben considerare, ripropone un modulo speculare a quello previsto per i provvedimenti di contenuto decisorio da parte della Corte edu.
Si vuol dire, in definitiva e senza con ciò volersi impegnare in una ricostruzione della natura del parere sulla base di categorie proprie del diritto interno, che detto provvedimento è soggettivamente emanato dalla Corte edu, proviene dalla sua composizione più autorevole - la Grande Camera - è il frutto di un contraddittorio ed assume forme in buona parte sovrapponibili a quelle delle pronunzie decisorie, da queste però differenziandosi per il fatto che non ha, per l’appunto, carattere decisorio. Il che non ne elide affatto la portata e il valore all’interno del case law della Corte edu.
Ne consegue che privare dello strumento i giudici nazionali ha un effetto pernicioso per l’autorità giurisdizionale di ultima istanza domestica che subirà passivamente il formarsi di orientamenti che, si è visto sono poi espressi dalla successiva giurisprudenza della Corte edu, come si è visto per la vicenda del legame da proteggere fra minore nato da una gestazione per altri effettuata all’estero e madre intenzionale – v. Corte EDU, sezione quinta, sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia rispetto al precedente parere consultivo reso il 10 aprile 2019 ai sensi del Protocollo n. 16 alla CEDU ai sensi del Protocollo n. 16, dalla Corte EDU, grande camera, il 10 aprile 2019, relativo al riconoscimento nel diritto interno di un rapporto di filiazione tra un minore nato da una gestazione per altri effettuata all’estero e la madre intenzionale, richiesto dalla Corte di Cassazione francese –.
3. Qual è la posta in gioco?
Se si condividono le riflessioni appena espresse, ci si accorge, allora, che il vero bersaglio delle posizioni di chiusura al Protocollo n.16 non sia tanto la Corte edu, quanto chi in essa intravede un organo giurisdizionale pienamente legittimato a svolgere un ruolo centrale nella protezione dei diritti fondamentali, la cui matrice plurale, quanto a fonti e quanto a giurisdizioni, ha posto la Corte edu non già in posizione di supremazia, ma piuttosto all'interno di un recinto nel quale è chiamata continuamente a convivere e a confrontarsi con gli altri plessi giurisdizionali, nazionali e sovranazionali.
Le accuse di lesione alla sovranità attengono, piuttosto, se colte nella loro intrinseca essenza e nemmeno tanto celata prospettiva, al modo con il quale le Corti nazionali hanno favorito l’ingresso di quel diritto vivente, vissuto come una forte contrazione del diritto interno e del giudice naturalmente chiamato ad applicarlo.
La critica al Protocollo n.16 è dunque al “modo” con il quale si attinge alla giurisprudenza convenzionale, finendo con l’apparire strumentale ad un ragionare che intende porre in discussione l’architrave sulla quale si fondano i rapporti fra ordinamento interno e CEDU.
Ed in questo non è tanto l’autonomia – espressiva di sovranità interna – delle Istituzioni giudiziarie verso le quali sembrerebbero venire in difesa i critici del Protocollo n.16 a venire in discussione quanto, ancora una volta, il “modo” con il quale tale autonomia viene esercitata. Quel che non appare gradito, in termini ancora più chiari, non è la Corte edu, il suo Protocollo n.16 e la sua giurisprudenza, quanto l’uso che se ne fa nel diritto interno.
Un uso che qui va in invece vigorosamente protetto, almeno quando esso è operato con rigore, con completezza e pure senza pregiudizi, nell'un senso o nell'altro.
Si tratta, a ben considerare, di una prospettiva necessitata dal fatto che il diritto è sempre più affidato ai principi costituzionali interni, dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dunque collegato a tecniche di argomentazione giuridica che proprio attraverso il dialogo si costruiscono continuamente e progressivamente, in un ordine giuridico che non è più dato e fissamente orientato su scale gerarchiche ma si compone, seppur con accenti di complessità sicuramente elevati, anche grazie all’opera dei giudici interni e di quelli sovranazionali, entrambi parte attiva di un processo materialmente costituzionale nel quale il ruolo svolto dai garanti della legalità è espressione democratica dello Stato costituzionale. Un diritto sempre più scienza pratica che si crea in funzione del caso, attraverso vari tasselli che il giudice è chiamato ad unire in un processo, appunto, complesso, articolato, ricco.
La progressiva assimilazione del corretto ruolo della Cedu nel sistema interno e dei suoi rapporti con la Costituzione, dispiegatosi anche attraverso l’intervento della Corte costituzionale, a partire dalle sentenze gemelle del 2007 e poi via via con i vari seguiti -ai quali pure Albanesi dedica le sue riflessioni, enfatizzando forse eccessivamente il significato della sentenza n.49/2015- ha consentito di comprendere appieno le finalità e potenzialità della Convenzione europea dei diritti umani, anche grazie all’opera di conoscenza svolta dai protocolli informali conclusi fra le Corti nazionali e la Corte edu, anch’essi ispirati al “dialogo” fra i diversi plessi giurisdizionali.
E non può essere senza significato che sia stata la Cassazione italiana a concludere, seconda in Europa fra le Alte Corti, un protocollo d’intesa con la Corte edu nel dicembre del 2015, al quale hanno fatto seguito le altre Corti apicali italiane e la stessa Corte costituzionale nel gennaio 2019 (R. Conti, Protocolli d’intesa tra la Corte di Cassazione e la Corte dei diritti dell’uomo. Introduzione, in Riv. It. dir. lav., 2, 2016, 103; id., Il protocollo di dialogo fra le Alte corti italiane, Csm e Corte EDU a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla CEDU. Due prospettive forse inscindibili, in Questione Giustizia, 29 gennaio 2019). Un'esperienza, quella maturata attorno a un documento di soft law, che proprio quando il Protocollo n.16 non era ancora entrato in vigore, ad esso espressamente si ispirava contribuiendo, negli anni, a radicare nella giurisdizione di ultima istanza un sentire comune aperto alla conoscenza e comprensione del diritto di matrice convenzionale.
Non è anzi inutile ricordare le parole di Guido Calabresi tratte dal suo “Il mestiere del giudice” Pensieri di un accademico americano, Bologna, 2013, quando, nel manifestare il rammarico circa il fatto negli Stati Uniti la cultura del dialogo fra le Corti non sia decollata, si esprime così: "…Ora, in questo stato di cose, che cosa tiene legati i giudici al rispetto dei limiti? Che cosa impedisce loro di arrogarsi un potere eccessivo? Che cosa li aiuta a conservare qualcosa della metodicità e cautela dei loro omologhi del passato in un mondo tanto accelerato e proteiforme? Il metodo dialogico è la soluzione moderna affinché il giudice sia inserito in un contesto di costante confronto, conforto, ispirazione, influenza, scambio e limite con altre Corti, altre giurisdizioni, altri Stati, altri interlocutori istituzionali.
Il dialogo attenua la ferocia repentina e drastica con cui il giudice assolverebbe il suo ruolo nel contesto giuridico moderno, riaccostandolo alla prudenza mite, incessante ma graduale, che apparteneva ai suoi predecessori della common law al fine di aggiornare e migliorare il diritto".
In queste parole ed in altre che lo stesso Calabresi usa (pag.80) non vi è affatto la sopravvalutazione del dialogo fra le Corti, anzi. È lo stesso Calabresi a non nascondersi che quello europeo è un sistema "pieno di imperfezioni e incertezze", tuttavia evidenziando che la "rete dialogica tra le varie Corti costituzionali, tra le Corti di cassazione, tra le Corti in generale e la Corte europea dei diritti dell'uomo e la Corte di giustizia" dovrebbe essere "importata dagli Stati Uniti" che resta, presegue il iurista italo-americano, un paese molto provinciale.
Ora, quella rete virtuosa di confronto alla pari si comprende non essere, oggi, tanto più di moda, in un periodo storico nel quale si assiste a processi di rinanzionalizzazione dei diritti fondamentali - G. Canzio e F. Fiecconi, Giustizia, cit., 36- e, per altro verso di "riaccentramento" del sindacato della Corte costituzionale- D. Tega, La Corte nel contesto, Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bologna, 2020 - ai quali fanno da pendant istante populiste e sovraniste che, indubbiamente, legittimano pienamente le scelte di non ratificare il Protocollo da un significativo numero di Paesi aderenti al Consiglio d'Europa e non creano un terreno fertile rispetto all'idea di base sottesa al Protocollo n.16.
4. La Corte costituzionale, la sovranità e il Protocollo n.16
Un’ulteriore riflessione va, prima di avviarsi alla conclusione, riservata al ruolo della Corte costituzionale che Albanesi non manca di approfondire nel suo saggio, anche nella prospettiva volta a delineare la posizione di tale Istituzione sia nel quadro del diritto internazionale che in quello interno, rivolto a verificare rispetto a detta Corte le modalità di attuazione del Protocollo n.16.
Considerazioni che non possono non partire da un aspetto che potrebbe sembrare non marginale e che, per converso, sembra essere per certi versi paradossale. Ci si riferisce alla mancata audizione in sede di discussione del progetto di legge di ratifica, della allora Presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia. Omissione davvero singolare se si considera la diversa attenzione riservata dal Parlamento alle cariche apicali delle giurisdizioni nazionali ed alla stessa alta considerazione riservata alle opinioni di chi ha ricoperto e ricopriva ruoli rilevanti nella Corte edu.
Le avvisaglie rispetto ad un “favor” della Corte costituzionale al varo del Protocollo n.16 erano, del resto, ben visibili e “pubbliche”.
Per un verso, va ricordato che proprio in occasione della firma del Protocollo fra Corte costituzionale e Corte edu al Palazzo della Consulta l’11 gennaio 2019 si auspicò la rapida ratifica del protocollo n.16 come emerge dal comunicato stampa della Corte costituzionale reso l’11 gennaio 2019 in cui si afferma testualmente che “…dalla discussione è emersa anzitutto la necessità che le Corti europee – in una fase storica di debolezza, in alcuni Paesi, dei diritti fondamentali – dialoghino tra loro per la piena tutela di questi diritti, anche assicurando l’armonizzazione delle rispettive giurisprudenze. A questo scopo è stata sottolineata l’urgenza dell’approvazione, da parte del Parlamento italiano, del Disegno di legge di ratifica e di attuazione del “Protocollo 16”, che consente un effettivo dialogo con la Corte di Strasburgo attraverso la richiesta di pareri sulle questioni oggetto di giudizio nelle Corti italiane”.
Posizione, quest’ultima, che del resto, non può essere marginalizzata attribuendole il significato e la portata di una mera comunicazione “politica” proveniente da un organo interno unicamente addetto alla comunicazione esterna.
È infatti sufficiente considerare, come Albanesi opportunamente fa anche nel saggio del 2021 già ricordato, quanto affermato in modo esplicito dalla Corte costituzionale nel suo campo di elezione, appunto la giurisprudenza costituzionale, allorché, nella sentenza n.49/2015, si chiarì che “…È perciò la stessa CEDU a postulare il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale, incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia condotto definitivamente ad imboccare una strada, anziché un’altra. Né tale prospettiva si esaurisce nel rapporto dialettico tra i componenti della Corte di Strasburgo, venendo invece a coinvolgere idealmente tutti i giudici che devono applicare la CEDU, ivi compresa la Corte costituzionale. Si tratta di un approccio che, in prospettiva, potrà divenire ulteriormente fruttuoso alla luce del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione stessa, ove il parere consultivo che la Corte EDU potrà rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori è espressamente definito non vincolante (art. 5). Questo tratto conferma un’opzione di favore per l’iniziale confronto fondato sull’argomentare, in un’ottica di cooperazione e di dialogo tra le Corti, piuttosto che per l’imposizione verticistica di una linea interpretativa su questioni di principio che non hanno ancora trovato un assetto giurisprudenziale consolidato e sono perciò di dubbia risoluzione da parte dei giudici nazionali.” (corsivo aggiunto n.d.r.)
Il passaggio motivazionale da ultimo ricordato non è di secondo piano né di scarso peso, appunto collocandosi all’interno di una pronunzia della Consulta – la già ricordata n.49/2015- ormai passata alla storia per avere squadernato i canoni fissati dalle sentenze gemelle del 2007 in punto di vincolatività della giurisprudenza convenzionale nell’ordinamento interno, depotenziandola al punto da escluderne, come ricorda Albanesi, l’immediata operatività – ai fini della proposizione della questione di legittimità costituzionale – in caso di contrasto della stessa con la Costituzione.
Ecco che proprio il riferimento “mite” operato dalla sentenza n.49/2015 al Protocollo n.16 ed alla istanza di cooperazione dialogante allo stesso sottesa costituisce la migliore risposta agli scettici ed a chi intravede nel varo di tale strumento un attacco micidiale alla Corte costituzionale ed alla sovranità nazionale, mostrando quanto sia fallace la ricostruzione del Protocollo in termini di "pericolo" per lo Stato e quanto, tutto al contrario, detto Protocollo possa risultare “fruttuoso” sulla strada della costruzione del diritto fondata sul dialogo- cfr. E. Crivelli, Il contrastato recepimento in Italia del Protocollo n. 16 alla Cedu: cronaca di un rinvio, in Osserv.AIC, 2 marzo 2021 -.
Prospettiva che, dunque, incastona il parere in un momento di costruzione della decisione finale e che ne fa tassello da inserire in un impianto ricco, nel quale è “compresa la Corte costituzionale” per dirla sempre con la sentenza n. 49/2015.
Non si tratta, (Pinelli, cit.) allora, di depotenziare il ruolo della Corte costituzionale o di restringere la capacità interpretativa del giudice nazionale ma, al contrario, di dare piena attivazione al ruolo istituzionale della Convenzione edu che proprio la Corte costituzionale riconosce per prima, vale a dire quello dell’interpretazione della Convenzione, all’interno delle finalità proprie del Protocollo.
Ecco dimostrato quanto fragile risulti l’idea di assimilare chi si mostra a favore del Protocollo n.16 a chi intende aggredire e mettere a repentaglio la sovranità interna.
Ed è stato proprio Enzo Cannizzaro, nella sua recente conversazione sul tema della sovranità – Ragionando sulla (recte, sulle) sovranità, in questa Rivista, 24 febbraio 2021– a dimostrare in termini adamantini l’ideologia che soffia contro il Protocollo, confutandone in radice i postulati e scolpendo gli effetti nefasti derivanti dalla sua mancata ratifica per lo Stato non aderente ed i suoi giudici; ciò, peraltro, sottolineando quanto sia stato attento il Protocollo n.16 nel garantire ogni possibile prerogativa difensiva allo Stato coinvolto nella richiesta di parere e quanto pernicioso sarebbe elidere la strada di dialogo per i giudizi per lo stesso Stato che non ratifica, potenzialmente “vittima” di quegli stessi parere formati in sua assenza.
5. A mo’ di conclusioni, nella speranza che il Governo e le forze politiche riaprano il cantiere in Parlamento si riapra davvero.
Esce dalla lettura del volume di Albanesi l’esigenza, forte, di cercare modalità operative e tecniche decisorie che, anche in ragione della pluralità di fonti che governano i diritti, tanto in chiave nazionale che in prospettiva sovranazionale, attenuino o riducano le possibilità di conflitti fra i diversi plessi giurisdizionali, proprio in una prospettiva che prima ancora di essere orientata all’alleggerimento del contenzioso da parte di un sistema giudiziario sempre più in crisi sul versante dei tempi, offra a chi ha a che fare con la giustizia risposte tendenzialmente prevedibili ed informate al rispetto dei diritti fondamentali proprio grazie alla conoscenza della posizione della Corte edu.
Che Albanesi fondi il proprio convincimento sull’utilità del Protocollo n.16 muovendosi all’interno del perimetro della Costituzione, di come essa è interpretata e dei valori che essa incarna e tutela, fra i quali anche quello della sovranità è testimoniato, del resto, dalla prima parte del volume, ampiamente dedicata al processo di trasformazione del ruolo della Corte costituzionale ed alla tendenza al riaccentramento delle funzioni di garanzia in capo a sé che va emergendo, sia pur con espressioni forse ancora troppo recenti per essere adeguatamente sistematizzate. Ciò che costituisce testimonianza adamantina del rigore metodologico seguito dall’Autore nel trattare del Protocollo n.16, ben lontano da quelli che potremmo definire fronti per così dire europeisti.Del resto, l'idea dalla quale Albanesi muove- quella che la giurisprudneza della Corte edu abbia efficacia vincolante solo se "consolidata" è sicuramente in linea con la giurisprudenza costituzionale, meno con quella di altri studiosi della materia. Il che, in definitiva, costituisce un ulteriore pregio del saggio di Albanesi proprio perchè incline a ricercare soluzioni che all'Autore appaiono ragionevoli e proporzionate.
Se, dunque, il meccanismo del ricorso individuale alla Corte di Strasburgo contro le decisioni dei giudici nazionali costituisce la valvola di sfogo finale consentita dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, il Protocollo n.16 intende per parte sua prevenire quella possibile ulteriore lungaggine processuale alla quale sarebbe sottoposta la persona che reclama la protezione dei suoi diritti consentendo al giudice nazionale che, nell’esercizio delle sue prerogative dovesse ritenere rilevante un parametro convenzionale, di interloquire prima che l’eventuale conflitto fra le Corti diventi manifesto per effetto dell’accoglimento del ricorso da parte della Corte edu.
La posizione espressa dai Presidenti delle Corti di ultima istanza, dal già presidente della Corte edu Guido Raimondi e dal giudice Raffaele Sabato, costituisce la migliore testimonianza della scarsa consistenza dei timori che si sono agitati innanzi al Parlamento e che hanno così pesantemente condizionato l’iter di discussione del progetto di ratifica.
D’altra parte, la temuta maggior durata del processo in relazione all’attivazione del meccanismo non può costituire remora all’attuazione del Protocollo, risultando il tempo speso un assai utile tempo di giustizia e non tempo perso incidente sulla ragionevole durata del processo, al pari di quel che occorre quando si attiva il rinvio pregiudiziale o la questione di legittimità costituzionale.
La ipotesi di una doppia attivazione del rinvio alla Corte di Giustizia e alla Corte edu con la richiesta di parere preventivo (Nascimbene, cit.) e la particolare tempestività fin qui mostrata dalla Corte edu nell’esaminare la ritualità delle richieste di parere (limitandole alle sole questioni di principio) e nell’esitare con tempestività i pareri resi possono, sul piano pratico, contenere in ogni caso la durata dello spazio della sospensione. Senza dire della capacità di riduzione mediata che i pareri sono in grado di produrre sul piano interno rispetto alle decisioni della Corti nazionali che ad essi decidessero di uniformarsi, eliminando l’incertezza interpretativa e, dunque, il ricorso alla giustizia, con evidente indiretto influsso sui tempi dei processi.
Molti i vantaggi sottesi alla richiesta di parere preventivo.
Per l’un verso, la possibilità che esso offra preziosi elementi per verificare se l’interpretazione della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo fatta propria, in parallelo, dalla Corte di Giustizia sia in linea con la CEDU e con la stessa Costituzione. È stato proprio A. Ruggeri a dimostrare quanto la pregiudizialità convenzionale sottesa al Protocollo n.16 possa tornare utile non soltanto al fine di avere lumi circa il significato degli enunciati della CEDU ma, per ciò stesso, anche per intendere nel modo giusto gli stessi enunciati della Costituzione, richiamando l’idea, già sottesa a Corte cost.n.388/1999- di recente testualmente ribadita da Corte cost. n.84/2021, per cui “le letture delle rispettive Carte fornite dalle Corti europee possono, opportunamente considerate, giovare ad alimentare incessantemente e in rilevante misura i processi interpretativi della nostra legge fondamentale in ambito interno, presso ogni sede istituzionale in cui s’impiantano e svolgono.” – cfr. A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?, cit., par.4; id, –.
È poi la libertà di attivare o meno la richiesta di parere preventivo a costituire la differenza fra rinvio pregiudiziale e richiesta di parere preventivo (Biavati, cit.), pur non nascondendosi che la stessa preoccupazione che un troppo dilatato ricorso allo strumento del dialogo, che sembra emergere anche rispetto ai criteri Cilfit sul piano eurounitario – v. Concl. Avv. gen. Bobek, in causa C-561/19, depositate il 15 aprile 2021 – debba trovare adeguata ponderazione a proposito della richiesta di parere preventivo. La dialettica che sta alla base del Protocollo 16 è la stessa che anima il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e la questione di legittimità costituzionale.
Ed è stata proprio la Corte costituzionale, con la sentenza n.269/2017, a rinvigorire il tema delle relazioni fra giudice comune, Corte costituzionale e Corte di Giustizia aprendo nuovi fronti di discussione che lasciano inalterato, ed anzi rafforzano, il ruolo delle Corti.
Deve escludersi, poi, che sia solo formale il potere del giudice nazionale di dissentire dal parere reso dalla Corte (Pinelli, Bartole e Lamarque, citt.), se si considera, per un verso, la continua interazione fra giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella prodotta dalla giurisdizione italiana e, per altro verso, il ruolo che la Corte costituzionale ha rivendicato quale unico risolutore del potenziale conflitto fra l’interpretazione della CEDU e quella dei principi costituzionali del nostro ordinamento.
Nemmeno può ritenersi che l’adesione al Protocollo 16 eroda i principi fondamentali dell' ordinamento, secondo un’ottica che nulla ha a che vedere con la salvaguardia della sovranità (Cannizzaro, cit.), invece inscrivendosi in quel poco commendevole sovranismo ordinamentale, lasciando impregiudicato il principio dell’interpretazione conforme della legge italiana al sistema Cedu, come pure il sistema dei controlimiti. Troppo e troppo intensi risultano i benefici di un confronto in fase ascendente e discendente dall’attivazione del dialogo fra giudice nazionale e Corte edu (Pinelli, Lamarque) per mettere in soffitta il Protocollo n.16.
D’altra parte, è proprio la natura non vincolante del parere a “non togliere” sovranità allo Stato e ai suoi giudici, rappresentando piuttosto un complemento alla CEDU, la cui ratifica portò ad una rinunzia parziale alla sovranità in presenza di ragioni giustificatrici, rappresentate dapprima dall’art. 11 Cost. e, successivamente, dall’art. 117, 1°comma Cost.
Nessun rischio di marginalizzazione della Corte costituzionale dal Protocollo n.16 che, ci ricorda puntualmente Albanesi, si innesta in uno scenario ormai svezzato rispetto a quello descritto dalle remote sentenze gemelle quanto ai rapporti fra ordinamento interno e CEDU.
Privare le Corti italiane di ultima istanza dell’opportunità di giocare un ruolo attivo nella formazione della giurisprudenza europea e di dover eventualmente accettare il parere reso dalla Corte EDU su istanza delle Corti dei paesi che lo hanno ratificato finisce col manifestare il reale intento sotteso alla mancata ratifica, appunto rivolto alla riacquisizione di un “primato” del diritto interno e dei suoi interpreti che si rafforza impedendo le contaminazioni, arginandone le possibilità di contatto, erigendo i muri, invece che costruendo ponti e porti capaci di accogliere i diversi naviganti.
Non tanto all’orizzonte si profila, così, il rischio di isolamento dell’ordinamento italiano e delle sue Alte Corti dal circuito di dialogo con la Corte edu che deriva dalla mancata ratifica è già palpabile, una volta che si è già da subito riconosciuta piena valenza ai pareri resi dalla Corte edu, anche da parte della Corte costituzionale (Corte cost., n.230/2020, par.6; v. Corte cost.n.33/2021). Rischio che, è appena il caso di ribadirlo, è proprio l’obiettivo primario di chi si oppone al Protocollo n.16.
In conclusione, le preoccupazioni che sono fin qui prevalse - dilatazione della durata del processo, creazione di una sorta di subordinazione del giudice nazionale di ultimo grado (“Alta giurisdizione”) alla Corte EDU, difficoltà di coordinamento con il rinvio pregiudiziale alla Corte UE, attacco alla sovranità statale – non sembrano dotate di una forza tale da giustificare la non ratifica se si bilanciano con gli indiscutibili vantaggi che il giudice nazionale, le parti, lo Stato e la stessa Carta costituzionale avrebbero indiscutibilmente dal parere preventivo in caso di dubbi interpretativi sulla portata della disposizione convenzionale.
Il libro, completo ed assai interessante di Albanesi, soprattutto nella parte in cui prende apertamente partito per un’idea di apertura al Protocollo, confutando le opinioni contrarie, costituisce per converso un punto di riferimento dal quale partire per indurre il Parlamento a ritornare sull’argomento con una visione più ampia, valutando le conseguenze negative che la chiusura al Protocollo 16 procura alla giurisdizione e ancor prima all’ordinamento italiano inteso nella sua complessità e pluralità.
La strada, ancora una volta, sarà dunque quella del dialogo costruttivo e della cooperazione anche tra soggetti istituzionali che sono distinti, hanno obiettivi diversi e godono di autonomia. Senza che i tratti distintivi debbano però leggersi come assoluta e netta separazione, invece dovendosi privilegiare sempre e comunque la strada del dialogo che proprio il “Protocollo del dialogo” intende perseguire e non far saltare.
Va, peraltro, messo in evidenza che indicare la prospettiva della ratifica del Protocollo non vuol dire in alcun modo prospettare una strada di trasposizione blindata di tale strumento ma, al contrario, prefigurare una ripresa parlamentare del disegno di legge, al cui interno dovranno essere le forze parlamentari a dare eventuale soluzione ad aspetti problematici per rendere rendere ancor più utile e proficuo lo strumento di cui qui si discute.
Non marginali sono i nodi che pure andrebbero sciolti in sede di ratifica e gli stessi accademici che hanno alimentato il dibattito ne hanno dato tangibile conto, offrendo le loro opzioni.
Senza velleità alcuna di completezza andrebbero esaminate le questioni circa la modalità interne alle Corti di ultima istanza per l’attivazione della richiesta di parere, eventualmente introducendo degli accorgimenti diretti a maggiormente responsabilizzare le Corti stesse all’attivazione della pregiudizialità convenzionale, al fine di evitare un uso indiscriminato dello strumento che finirebbe con il renderne ineffettiva la portata, affrontando altresì in modo attento i rapporti e le relazioni fra richiesta di parere, incidente di costituzionalità e rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Ma queste problematiche non potranno che rappresentare la “fase due”, dopo la auspicabile riattivazione dell’iter parlamentare relativo alla ratifica del Protocollo 16, allo stato come si è visto posposto rispetto alla ratifica del Protocollo 15 per il quale si ponevano sì ragioni di maggiore urgenza temporale- essendo rimasto il nostro Paese buon ultimo nella ratifica di quel Protocollo – che avrebbero tuttavia dovuto giustificare l’esame parlamentare congiunto, per i tratti di continuità fra i due strumenti dei quali già si è detto.
Il filo dal quale ripartire per tornare a discutere sul Protocollo n.16 potrebbe e dovrebbe rinvenirsi nelle pieghe del dibattito parlamentare del quale si è dato conto.
Fu infatti la Commissione Politiche dell'Unione europea, che in sede di parere al testo del ddl emendato, pur approvandolo, ebbe ad invitare le Commissioni ad addivenire quanto prima anche alla ratifica del Protocollo n. 16, al fine di potersi avvalere di nuovi strumenti atti a favorire ulteriormente l'interazione e il dialogo tra i giudici nazionali e la Corte europea dei diritti dell'uomo, in coerenza con l'obiettivo di una maggiore armonizzazione ed efficacia nella tutela dei diritti e delle libertà fondamentali contemplati nella Convenzione e nei suoi Protocolli.
Il convegno che AreaDG Cassazione ha organizzato per il giorno 22 giugno 2021 -Protocollo n.16. Riaprire il cantiere in Parlamento,https://www.giustiziainsieme.it/it/news/92-main/costituzione-e-carte-dei-diritti-fondamentali/1775-protocollo-n-16-riaprire-il-cantiere-in-parlamento ( per l'accesso e registrazione https://attendee.gotowebinar.com/register/3987987362967379467)-, frutto di un intenso e proficuo confronto all'interno del gruppo di lavoro appositamente costituito intende mettere ad uno stesso tavolo la dottrina e le forze parlamentari per favorirne il confronto plurale e franco.
Proprio il fermento che in questo periodo coinvolge il settore della giustizia e la volontà del Governo e delle forze parlamentari di mettere mano a riforme strutturali sembrano costituire il naturale contenitore nel quale inserire l’entrata in vigore del Protocollo n.16.
Spetta dunque, oggi più che mai, al Governo che propose in origine il disegno di legge di ratifica ed alle forze politiche responsabili il compito e la responsabilità di raccogliersi attorno al ceppo dei diritti fondamentali - sempre più volano di forme di aggregazione delle varie istituzioni che attorno ad essi devono muoversi in armonia - per consentirne una più efficace, sicura e prevedibile protezione.
Una scelta che, appunto, dovrebbe collocarsi ben al di sopra del motto "ce lo chiede l'Europa" tanto in voga, piuttosto dando contenuti, precise indicazioni, linee operative concrete per realizzare davvero un sistema giudiziario che oltre a doversi informare a canoni dell'efficienza e dell'organizzazione, non perda di vista il proprio DNA e si offra al servizio di chi se ne avvale - id est, delle persone - come luogo sempre più qualificato e professionalmente attrezzato di tutela dei diritti fondamentali.
19 marzo 2021 : in ricordo di Guido Galli, a 41 anni dalla sua scomparsa
di Armando Spataro
Una breve premessa. Gli “anni di piombo”, l’organizzazione degli uffici giudiziari, la conoscenza di Guido Galli. Il giudice istruttore, l’accademico, l’ex pubblico ministero, l’impegno associativo. La Val Brembana e l’inchiesta itinerante. La risposta istituzionale al terrorismo. Il trasferimento incompiuto di Guido Galli alla Procura della Repubblica di Milano. L’omicidio nell’ Università. L’arresto degli assassini. L’arresto di Sergio Segio, il capo di Prima Linea. Le parole del volantino di rivendicazione dell’omicidio di Guido Galli e quelle dei suoi familiari . Ricordi, dolore e rabbia. “Non eroi perché sono morti, ma perché hanno voluto capire e conoscere con ostinazione”.
Sommario:1. Una breve premessa. 2. Gli “anni di piombo”, l’organizzazione degli uffici giudiziari, la conoscenza di Guido Galli. 3. Il giudice istruttore, l’accademico, l’ex pubblico ministero, l’impegno associativo. 4.La Val Brembana e l’inchiesta itinerante 5. La risposta istituzionale al terrorismo 6. Il trasferimento incompiuto di Guido Galli alla Procura della Repubblica di Milano 7.L’omicidio nell’Università. 8. L’arresto degli assassini. 9. L’arresto di Sergio Segio, il capo di Prima Linea. 10. Le parole del volantino di rivendicazione dell’omicidio di Guido Galli e quelle dei suoi familiari . 11. Ricordi, dolore e rabbia.
1.Una breve premessa
Sono passati rispettivamente 41 e 42 anni dagli omicidi di Guido Galli (19 marzo 1980) e di Emilio Alessandrini (29 gennaio 1979), entrambi uccisi a Milano da Prima Linea (organizzazione terroristica “di sinistra”, seconda per ferocia solo alle Brigate Rosse), il primo davanti ad un’aula della Università Statale di Milano dove stava per tenere una lezione ai suoi studenti, il secondo ad un incrocio stradale, dopo avere accompagnato il figlio Marco alla scuola elementare che frequentava.
Nonostante il tempo trascorso, non mi stanco di parlare e scrivere di Guido, di Emilio e di altre vittime del terrorismo e della mafia.
Perché lo faccio?
Non solo per tutto ciò che mi legava a loro, ma anche perché conoscere il passato serve per l‘oggi e per il futuro di tutti, specie nel contesto storico e sociale in cui viviamo
Ho titolo per farlo?
Francamente non lo so, e spesso mi chiedo quale sarebbe la risposta dei figli dei miei amici scomparsi a questa domanda. Ma tirarmi indietro mi sembrerebbe ancora oggi un errore.
Parlo di loro, dunque, perché conosco bene – e mai lo dimenticherò - ciò che Guido ed Emilio hanno dato alle loro famiglie, a me, alle persone che hanno conosciuto ed al Paese tutto.
Talvolta mi chiedo, però, cosa oggi Guido Galli – parlo soprattutto di lui in questo ricordo - penserebbe a proposito di tanti temi che impegnano la giustizia e la nostra società: ad es., l’immigrazione, la crisi ed i tempi lunghi della giustizia, la sicurezza sociale e sanitaria, l’estensione della criminalità mafiosa, i diritti fondamentali delle persone etc., e mi domando se, pur così legato al suo insegnamento, io possa parlare come se fossi la sua voce. Ecco, allora, che mi impongo di non incorrere in questo errore che sarebbe grave, come quello di chi oggi pensa di poter parlare a nome di Falcone, Borsellino e di tanti altri colleghi scomparsi.
Certo, io ho un’idea di come Guido avrebbe oggi esercitato il mestiere di giudice, ma preferisco tenerla per me. Preferisco raccontare fatti e storia della sua vita, non solo professionale: chiunque potrà così maturare la sua opinione su come oggi Guido Galli si orienterebbe e parlerebbe.
E voglio anche evitare ogni forma di retorica, certo in questo caso del consenso e della vicinanza dei suoi figli, a Guido così simili in tutto.
Parlare di Guido e descrivere il suo essere stato giudice e uomo serviranno dunque ad orientarci autonomamente nella confusione e nella nebbia che ci circondano. O almeno è questo che mi auguro.
Un’ultima domanda mi sono posto: ho il dovere di scrivere ed usare parole e riflessioni nuove rispetto a quelle che ho usato, per ricordare Guido, quaranta, trenta, venti, dieci o due anni fa? Non lo credo, non solo perché questo non è un testo giuridico che deve commentare aggiornamenti giurisprudenziali, ma anche e soprattutto perché la prima volta in cui di lui ho scritto ho riversato sulla tastiera del mio pc tutte le mie emozioni, tutti i miei ricordi. Netti oggi, come la prima volta. Non sono una persona che si divide in due, l’una delle quali insegue l’altra: sono sempre me stesso e non cambio. Scusatemi, dunque, se – leggendo questo ricordo – troverete parole e fatti di cui ho già scritto o di cui vi ho già parlato.
2.Gli “anni di piombo”, l’organizzazione degli uffici giudiziari, la conoscenza di Guido Galli.
Voglio partire dalla contestualizzazione storica del suo omicidio negli anni di piombo e dall’inizio del nostro rapporto personale.
Nel corso della mia carriera di magistrato, ho sempre svolto funzioni di pubblico ministero e devo la mia formazione professionale a tre colleghi: i già citati Emilio Alessandrini e Guido Galli, ma anche ad Enrico Pomarici.
Dopo il tirocinio, presi servizio a metà di settembre del 1976 presso la Procura della Repubblica di Milano, lavorando subito proprio con Pomarici nel settore dei sequestri di persona, ma - a partire dalla metà del 1977 - iniziai ad occuparmi del terrorismo interno, in particolare di tutta la galassia del terrorismo di sinistra e per tutto il periodo degli “anni di piombo”.
Tutto iniziò con il processo a carico di Renato Curcio e di altri componenti del vertice delle Brigate Rosse che si celebrò dinanzi alla Prima Corte d’Assise di Milano a partire dal 15 giugno 1977: il Procuratore Mauro Gresti mi designò quale sostituto che avrebbe svolto le funzioni di P.M. in quel dibattimento. Rammento ancora con emozione il periodo in cui, pressoché quotidianamente, Emilio Alessandrini, mi fu vicino nella preparazione del processo con funzioni di “tutor”: avevo poco più di 28 anni ed il mondo del terrorismo mi era praticamente del tutto sconosciuto. Le nostre famiglie abitavano nello stesso stabile, sicché il confronto con lui proseguiva spesso “fuori orario”.
Il dibattimento, comunque, si celebrò regolarmente con pochi (ed attesi) “incidenti” in aula. Gli imputati furono quasi tutti condannati e quelli assolti per qualche reato furono condannati in appello.
Quel processo aveva rappresentato, però, un’esperienza occasionale, per quanto di straordinaria importanza per un giovane Pm alle prime armi, ma costituì comunque il primo passo della mia specializzazione professionale nel settore del terrorismo.
Circa un anno dopo, il 13 settembre 1978, furono arrestati in una base di via Negroli a Milano il latitante Corrado Alunni ed una terrorista del varesotto. Nella base furono sequestrati numerosi documenti anche manoscritti, armi, esplosivi ed altro. Con la conseguente indagine, di cui fui titolare con il collega Luigi De Liguori, la mia vita professionale cambiò del tutto. Il procuratore Gresti decise di creare nella Procura di Milano un gruppo di lavoro specializzato nella materia del terrorismo di cui mi sarei occupato a tempo pieno fino al termine degli anni di piombo. Di quel gruppo furono componenti Pomarici (che già si occupava soprattutto delle Brigate Rosse), io stesso, e, via via, altri colleghi come Corrado Carnevali, Maria Luisa Dameno, Filippo Grisolia, Elio Michelini.
All’Ufficio Istruzione del Tribunale di Milano, invece, l’idea di creare un gruppo di giudici istruttori specializzati nel contrasto al terrorismo era oggetto di discussioni e dubbi, contrariamente a quanto avvenuto a Torino, ove era già da tempo all’opera un pool composto da Gian Carlo Caselli, Maurizio Laudi, Marcello Maddalena, Franco Giordana, Mario Griffey ed altri.
Il codice di procedura penale all’epoca in vigore, del resto, prevedeva che sia i Pm che i giudici istruttori conducessero le indagini penali. Il giudice istruttore conduceva la cosiddetta istruttoria formale, quando l’indagine era complessa, e il Pm quella sommaria, nei casi più semplici o, comunque, fino al quarantesimo giorno di detenzione degli imputati: da quel momento, era obbligato a chiedere l’intervento del giudice istruttore e a formalizzare l’istruttoria. Insomma, il giudice istruttore era una figura piuttosto ibrida, molto vicina a quella del Pm, di cui approfondiva le indagini complesse e a fianco del quale lavorava fino al termine dell’«istruttoria formale».
Fu per questa ragione che, quaranta giorni dopo l’arresto di Corrado Alunni e di altri terroristi, io e Luigi De Liguori “formalizzammo” l’inchiesta come il codice imponeva. E il processo fu affidato al giudice istruttore Guido Galli.
Lo dico senza alcuna retorica: Guido è stato l’uomo migliore che abbia mai conosciuto. Ne parlo e ne scrivo ogni volta con commozione, perché sono tantissimi i ricordi che mi legano a lui.
3. Il giudice istruttore, l’accademico, l’ex pubblico ministero, l’impegno associativo
Galli era un giudice stimatissimo. Era docente alla Statale di Milano, era stato presidente di sezione di Tribunale, ma prima ancora pubblico ministero, e aveva acquisito notorietà quando, in tale veste, aveva trattato il processo per la bancarotta di Felice Riva. In ogni compito giudiziario, aveva dimostrato di possedere una cultura giurisdizionale eccezionale, fonte del suo pieno rispetto per i diritti di ogni imputato. Non ditelo – però – ai sostenitori della separazione delle carriere !
Guido Galli era anche attivo sul piano associativo e, come presidente dell’Associazione Magistrati di Milano, aveva firmato, con gli altri componenti della Giunta, un duro documento contro la decisione della Corte di Cassazione di trasferire a Catanzaro, per legittimo sospetto, il processo per la strage di Piazza Fontana: ne era persino scaturito un procedimento disciplinare finito con l’assoluzione degli incolpati per insussistenza dell’elemento psicologico! Oggi, niente e nessuno gli avrebbe potuto evitare l’accusa di essere una «toga rossa» e difficilmente gli sarebbero state risparmiate severe reprimende per l’impegno all’interno dell’Associazione Magistrati, di cui – peraltro – anche Emilio Alessandrini era stato dirigente.
Guido, insomma, era una persona di grande statura e di vasto impegno. Ricordo che nei nostri primi contatti, dopo la formalizzazione del processo Alunni, io, giovane Pm diventato quasi per caso titolare di un’inchiesta così importante, ero intimidito da questa quasi mitica figura di giudice istruttore, criminologo di grande prestigio, peraltro di sedici anni più anziano di me. Galli si lanciò nell’impresa con l’entusiasmo di un ragazzo e, grazie a lui, quell’inchiesta si rivelò, per Milano, la «madre» delle indagini in materia di terrorismo: per me, l’irripetibile occasione di diventare suo amico.
L’ufficio di Guido era costituito da una stanza piccolissima al secondo piano del palazzo di Giustizia, proprio davanti alla porta dell’ascensore. La scrivania scompariva tra le carte e lui era assistito da una segretaria forse non sempre efficiente ma molto devota. Lui però non si lamentava mai di nulla: tradiva appena un po’ di stanchezza solo quando, più frequentemente del solito, allontanava dalla fronte una ciocca di capelli lisci.
Si stabilì tra noi un rapporto stupendo. Lavoravamo sempre insieme e a mano a mano che procedevamo la nostra familiarità si arricchiva anche sul piano umano. Passavamo lunghe serate a casa sua, piena di figli (cinque: Alessandra, Carla, Giuseppe, Riccardo e Paolo), confrontando le grafie dei quaderni di appunti sull’uso degli esplosivi trovati a casa di Alunni con un centinaio di scritture di persone sospette: ne identificammo rudimentalmente una decina. Tra loro, terroristi di vertice come Sergio Segio e Roberto Serafini: le perizie prima e i pentiti poi avrebbero confermato le nostre empiriche conclusioni.
4.La Val Brembana e l’inchiesta itinerante
Passammo così quindici mesi, letteralmente in simbiosi: a leggere documenti e proclami di Prima Linea, Formazioni Combattenti Comuniste (FCC) ed altri gruppi, a girare per l’Italia, per interrogare gente nel Varesotto, scambiare idee e valutazioni con i colleghi di Bologna e di Roma.
In Val Brembana, la sua terra, ci sono andato solo due volte: la prima con Guido, la seconda per Guido. Nel giugno del 1979 ci andammo per lavoro: attraversammo la valle e ci inerpicammo per le strade di montagna per arrivare a Cusio, dove era stato scoperto un covo dei terroristi. Interrogammo testimoni precisi nei ricordi, snocciolati senza timori di sorta, ma anche senza acredine o eccesso di zelo, «con semplicità e serenità, alla maniera dei bergamaschi», mi diceva Guido. Era quella la zona della sua infanzia: Galli era nato a Bergamo e, mentre guardavamo il Brembo scorrere nervoso a fondo valle, mi raccontava tutto della gente della sua terra, dei banditi della Val Brembana, del campione ciclista Gimondi, delle gare di canoa nel Brembo, di una vecchia ferrovia. Scoprii anche che i bergamin sono quelli che mungono le vacche tra le colline e i monti del Bergamasco.
Guido non poteva sapere che meno di un anno dopo, dal 21 marzo dell’80, avrebbe riposato a Piazzolo, tra quei monti e quel verde che tanto amava. Quel giorno tornai in Val Brembana per lui, per salutarlo ancora nel cimiterino di Piazzolo dove i morti appartengono a tutti ed a venti metri dal quale i bambini giocano a pallone. Lo facevano anche i figli di Guido ai quali, da ogni posto in cui ci recavamo per l’indagine, Guido mandava una cartolina indirizzata «ai bambini Galli». Assolutamente sempre. Era un uomo di grande e radicata fede religiosa.
Nelle nostre trasferte di lavoro, tuttavia, scoprimmo increduli anche magistrati di altre sedi giudiziarie che si sbarazzavano felici dei procedimenti di terrorismo (che avevano tenuto inerti negli armadi) non appena noi, timorosi di ferirli nell’orgoglio professionale, accennavamo timidamente a possibili connessioni con il nostro ed alla opportunità di trasferirli per competenza a Milano. Ricordo che Guido commentava sorridendo gli atteggiamenti di quei magistrati, ma talvolta il suo era un sorriso amaro.
Fortunatamente, però, conoscemmo marescialli e poliziotti che avevano scritto e scoperto tutto, pur senza essere stati mai valorizzati dalla magistratura competente e ci rendemmo così conto (non c’erano ancora i pentiti) che disponevamo della migliore polizia giudiziaria del mondo.
Al termine della prima parte del nostro lavoro, gli presentai una lunga e complessa richiesta di mandati di cattura (allora era questa la denominazione delle attuali «ordinanze di custodia cautelare in carcere»), in cui sostenevo la responsabilità dei capi e dei «quadri» di rilievo dell’organizzazione per i delitti commessi e rivendicati dalla stessa, pur in assenza di prove dirette della loro responsabilità materiale ed ideativa. In sostanza, non conoscevamo l’identità degli autori materiali degli attentati rivendicati dalle Fcc di Corrado Alunni, ma sapevamo – e ne avevamo le prove – quali erano i capi e gli «organizzatori» della banda armata nel periodo storico e nel contesto territoriale in cui gli attentati erano stati consumati: logico e giuridicamente corretto, dunque, che capi e organizzatori fossero chiamati a risponderne, perché quegli attentati non potevano che essere stati commessi all’interno di una strategia da loro certamente deliberata, come le rivendicazioni confermavano. Guido accolse la tesi con assoluta convinzione, anzi la precisò e la arricchì da par suo nei mandati di cattura che emise. La tesi – che nulla aveva a che fare con la teoria del “non potevano non sapere”, così cara ad alcuni magistrati ansiosi di incriminare per deduzione logica e di scrivere la storia anziché di cercare prove e scrivere solide sentenze - fu accolta dalle Corti d’Assise di primo e secondo grado che condannarono gli imputati e passò anche in Cassazione: diventò la base giuridica e il significativo precedente giurisprudenziale per affermare la responsabilità dei componenti delle varie commissioni e «cupole» per i più efferati delitti di mafia. Ricordo ancora i colleghi siciliani che ne vennero a discutere a Milano, prima di adottare quella strada nei loro provvedimenti.
C’era bisogno, lo constatavamo ogni giorno, che presso gli Uffici istruzione e le Procure della Repubblica agissero gruppi di giudici istruttori e di sostituti specializzati nelle indagini sul terrorismo; c’era bisogno, cioè, di coordinamento e di circolazione delle informazioni. E c’era bisogno di capire fino in fondo la logica assurda alla base di quel terrorismo, come Guido cercava di fare anche durante gli interrogatori degli imputati,
5. La risposta istituzionale al terrorismo
E proprio in quel periodo, comunque dopo la strage di via Fani, si manifestò l’iniziativa autonoma di pubblici ministeri e giudici istruttori che, in assenza di interventi legislativi o di direttive politiche, diedero vita a un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari interessati dal fenomeno, non previsto per legge, fino alla creazione, al loro interno, di gruppi specializzati nel settore del terrorismo. E Guido Galli, fino alla sua scomparsa, fu uno dei protagonisti principali di questa svolta strategica della magistratura nel contrasto del terrorismo.
Una svolta che determinò una simbiosi positiva tra polizia giudiziaria ed autorità giudiziaria, con piena attuazione del principio costituzionale della sottoposizione della prima (la cui autonomia investigativa non venne certo limitata) alle direttive della seconda e con esclusione dei Servizi d’informazione da ogni compito d’indagine penale.
In quegli anni inoltre – grazie anche alle iniziative del Ministro dell’Interno Virginio Rognoni – furono varati alcuni interventi legislativi importanti che talvolta determinarono il rischio di lesione dei diritti individuali, ma che, grazie proprio alle interpretazioni e prassi applicative studiate da magistrati come Galli, si rivelarono decisivi per la sconfitta del terrorismo. Basti pensare al D.L. 15 dicembre 1979 n. 625, conv. con L.6.2.1980 n. 15 (cioè circa un mese e mezzo prima di quel tragico 19 marzo), che introdusse la normativa premiale per i collaboratori processuali. Come disse il compianto prof. Vittorio Grevi, non a caso legato da particolare amicizia e stima a Guido, alla fine “le istituzioni avevano tenuto” e se il terrorismo era stato sconfitto ciò non soltanto era dipeso dalle capacità delle forze di polizia e della magistratura, ma era stato determinato anche da un corpo legislativo che nel suo complesso aveva continuato ad assicurare la tutela dei diritti degli imputati. È per questo che, Sandro Pertini, alla fine degli anni di piombo, ricordò che l’Italia poteva con orgoglio affermare di avere sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi, alludendo alle torture, alla violazione dei diritti fondamentali delle persone ed alle pratiche sudamericane durante gli anni dei regimi dittatoriali.
6. Il trasferimento incompiuto di Guido Galli alla Procura della Repubblica di Milano
Ritornando a Guido Galli, ricordo quando mi confidò la sua amarezza a causa del clima che si respirava nel suo Ufficio. Era successo che, in una riunione dei giudici istruttori di Milano, alcuni suoi colleghi avevano criticato la teorizzazione del giudice istruttore specializzato nelle inchieste sul terrorismo, esprimendo la preoccupazione che, in tal modo, il giudice istruttore potesse diventare un giudice speciale, con conseguente rischio per le garanzie che spettano all’imputato. Di fronte a queste affermazioni, Guido era rimasto così stupito da non tentare neppure una replica.
Su altro fronte, ma negli stessi giorni, si era verificato un episodio che forse non ho mai raccontato a Galli. Il suo “capo”, cioè il dirigente dell’Ufficio istruzione, era andato a protestare dal procuratore Gresti, lamentando che la Procura indirizzasse a Galli, con qualche artificio amministrativo, molti processi di terrorismo senza tener conto che era un “giudice di sinistra”, dunque inaffidabile per quel tipo di processi.
Gresti, conservatore ma illuminato e intelligente, rassicurò il suo interlocutore: Galli era il massimo che si potesse desiderare come giudice, per la sua capacità di lavoro e per la precisione delle sue conclusioni in punto di diritto. Quanto agli artifici amministrativi per far arrivare a lui tutte le nostre indagini, semplicemente non esistevano: si trattava di un’unica indagine (quella nata dall’arresto di Alunni) in continuo sviluppo, che si andava articolando in diversi spezzoni connessi.
Comunque, anche a causa del clima che sentiva attorno a sé, Guido Galli decise di chiedere il trasferimento dall’Ufficio istruzione e di venire a lavorare in Procura. Mi chiese di accompagnarlo da Gresti per fargli presente questa sua intenzione. Il procuratore fu entusiasta della decisione di Galli e si disse disponibile a fare del suo meglio per rendere rapido il passaggio. «Vorrei però dirti», precisò Gresti, «che, nonostante il tuo prestigio e la tua anzianità, noi non siamo organizzati in modo da poterti esentare dalla trattazione dei processi ordinari o dai turni di reperibilità». Guido spiegò di essere andato da lui soltanto per avere la certezza di venire assegnato al gruppo del terrorismo e di poter lavorare con i PM che già ne facevano parte. Non chiedeva alcun trattamento privilegiato. Gresti gli strinse la mano con calore.
Così Galli presentò domanda di trasferimento alla Procura di Milano, ma intanto continuava a lavorare come giudice istruttore, nella sua stanzetta al secondo piano dove non c’era spazio per nulla.
Ciononostante, Guido non fu mai sottoposto a misure di protezione, mai nessuno dei dirigenti dell’Ufficio istruzione chiese una scorta per lui. Spesso ero io ad accompagnarlo a casa e talvolta lo andavo anche a prendere per recarci insieme in ufficio. Io, più giovane, su iniziativa di Gresti, avevo la scorta; lui no. Ne parlavamo spesso, ma Guido era fatalista e mai si lamentò per la mancanza di protezione. Solo una volta lo vidi seriamente preoccupato: il giorno prima della sua morte, le Br uccisero il giudice Girolamo Minervini. Guido lo conosceva e fui io a comunicargli la notizia dell’omicidio: rimase molto scosso. Oggi dico che forse fu per lui un presentimento.
Intanto, avevamo chiuso le nostre principali indagini: Guido aveva coniugato mirabilmente rispetto delle garanzie e dovere di repressione, stupendo tutti per la rapidità con cui aveva concluso quella prima maxi-inchiesta milanese di terrorismo. Io avevo depositato la mia requisitoria scritta il 1° agosto e lui la sua ordinanza di rinvio a giudizio, l’11 settembre 1979: un anno solo era trascorso dall’arresto di Alunni e di decine di terroristi, e anche le inchieste-stralcio che ne erano scaturite erano ormai chiuse, tutte nell’assoluto rispetto dei diritti degli imputati. Con buona pace di quanti, persino colleghi, sostenevano che i giudici che si occupavano di terrorismo di sinistra ed utilizzavano i “pentiti” si prestavano – per ciò stesso – ad assecondare un sistema che quei diritti comprimeva e violava: sì, lo dicevano anche magistrati e persino a Milano. Io stesso, a causa di una loro intervista, ne denunciai due disciplinarmente : furono entrambi condannati.
A proposito della ordinanza di rinvio a giudizio di Galli, tutti i quotidiani sottolinearono la rapidità della chiusura della inchiesta Alunni e la sua efficacia: Fatti e prove, non ideologie, titolava ad esempio «il Giornale». Lui, invece, non rilasciò mai interviste per autocelebrare le inchieste che aveva portato a termine o per includere nel proprio ruolo di giudice quello di moralizzatore e storico, prassi purtroppo oggi in espansione.
Iniziò così in Corte d’Assise il dibattimento contro Alunni e compagni, ma Guido già spingeva per nuovi progetti di lavoro. Avevamo scoperto insieme la ricchezza e l’importanza del lavoro di gruppo ed era questa la direzione in cui intendevamo approfondire la nostra esperienza.
Un giorno, Guido mi chiese di andare in università a parlare ai suoi studenti di criminologia: adesso i magistrati lo fanno spesso, ma allora era rarissimo e per me era comunque la prima volta. Mi colpì, mi onorò e mi preoccupò l’idea che un professore universitario pensasse che un pubblico ministero poco più che trentunenne potesse andare a dire qualcosa d’interessante agli studenti. Concordammo una data attorno al 20 marzo. Intanto, la sua richiesta di passare alla Procura fu accolta: Gresti glielo comunicò ed aspettavamo che la delibera del CSM fosse esecutiva, ma Guido non ebbe il tempo di tornare pubblico ministero perché fu ucciso il 19 marzo 1980, davanti all’aula dell’Università Statale di Milano dove attendeva di entrare per tenere la sua lezione. Aveva quasi quarantotto anni.
7.L’omicidio nell’ Università
Ricordo quelle ore come le stessi vivendo adesso (e ciò ripeto ogni volta che ne parlo): al mattino di quel 19 marzo, Guido mi dice che a mezzogiorno deve andare a casa perché è San Giuseppe e si festeggia l’onomastico di suo figlio. Anche quel giorno, lo accompagno a casa con la mia scorta. Mi dice che sarebbe andato nel pomeriggio in università e che dopo ci saremmo rivisti in ufficio, come facevamo quasi ogni giorno. Lo aspetto, dunque, nella mia stanza: è ormai pomeriggio. Mi telefona il capo della Digos, Mario Lo Schiavo: «Armando, corri in università, la Statale...». Capisco subito. Non lo lascio finire, esco dall’ufficio urlando e corro a piedi alla Statale, a poca distanza dal Tribunale. Non c’è ancora molta gente, ricordo due capitani dei carabinieri e un funzionario della Digos che cercano di tenermi lontano da Guido Galli perché sanno che cosa lui è per me. Il vero mio maestro, il fratello maggiore che non ho mai avuto. È steso per terra, di fronte all’aula 309 dove avrebbe dovuto svolgere la sua lezione, con il codice aperto a meno di mezzo metro da lui, vicino alla mano. Sulla sua agendina telefonica c’è scritto: «Se mi succede qualcosa telefonate ad Armando Spataro tel. n. ..». Ho ancora la fotocopia di quella pagina. La figlia Alessandra frequenta la facoltà di Giurisprudenza e quel giorno è alla Statale. Viene a sapere dell’attentato e si avvicina al papà. Gli amici le stanno attorno.
Il «Corriere della Sera» pubblica il giorno successivo, in prima pagina, la foto del corridoio della Statale dove è avvenuto l’omicidio: il codice aperto, ancora per terra, è in primo piano. Sotto la foto, un articolo di Giovanni Testori che dice: «Il codice che gli era caduto di mano resta aperto davanti agli occhi atterriti dei giovani e di noi tutti. Aperto a dirci cosa? Che la legge dell’umana convivenza è più forte di ogni Caino. ..».
Nell’ottobre del 1980, quando Marco Barbone iniziò a collaborare, sapemmo che Guido sarebbe potuto morire anche il giorno prima, il 18 marzo: Barbone stesso, Paolo Morandini, Daniele Laus e Manfredi De Stefano (poi membri della Brigata 28 Marzo) erano sotto casa sua, armati e con auto rubata, pronti ad ucciderlo. Un ritardo di Guido nell’uscire di casa gli regalò altre ventiquattr’ore di vita. Galli era dunque il primo e più importante bersaglio dei terroristi milanesi.
Non ho avuto il tempo di parlare ai suoi studenti, ma ho avuto la fortuna di fare da magistrato affidatario per il tirocinio di due dei «bambini Galli», Alessandra e Carla, poi diventate magistrati, due tra i migliori “uditori” (come allora si chiamavano i tirocinanti) che abbia mai avuto la fortuna di seguire, così diverse tra loro ma entrambe eguali a Guido. Spero di avere trasmesso loro anche solo una minima parte di quel che Guido aveva insegnato a me.
L’omicidio ricompattò i magistrati di Milano. Anche i giudici istruttori, come noi della Procura avevamo fatto dopo la morte di Emilio, indirizzarono un documento al Csm chiedendo che l’ufficio fosse dotato degli strumenti adeguati e moderni di lavoro che mancavano e che i magistrati «a rischio» venissero sottoposti a misure di sicurezza. Mi viene in mente che, dopo l’assassinio di Emilio, che non era certo il primo magistrato ucciso dai terroristi, il ministero di Grazia e Giustizia fornì a tutti i giudici e Pm, indipendentemente dal loro incarico, un impermeabile beige dotato di imbottitura antiproiettile e una borsa da lavoro, che recava anch’essa, su di un lato, un pannello antiproiettile. Forse qualcuno pensava che la borsa potesse essere impugnata a due mani e usata per respingere le pallottole.
Di Guido, dopo la sua morte, ho scoperto tante altre cose: sua moglie Bianca, che pure ricordo con tanto affetto, mi ha mostrato, ad esempio, i bei disegni che Guido faceva. Aveva una passione: disegnava campi di battaglia ed eserciti schierati l’uno contro l’altro. Armi e divise disegnati in modo incredibilmente preciso. Il disegno era una vera passione per lui. Quindici giorni prima della sua morte mi mandò una cartolina dal Passo del Tonale: sopra la sua firma, il disegno di uno sciatore (lui) sotto il sole e quello di un magistrato in toga (io) che parla alla Corte. Ho visto poi tante fotografie di Guido e tutti noi suoi amici ne abbiamo una che lo ritrae seduto e sorridente – come sempre – in montagna. In un’intervista ad Ibio Paolucci, dell’«Unità», anche Bianca ha ricordato quel tragico giorno: si festeggiava l’onomastico del figlio Giuseppe e della mamma di Guido ed erano stati invitati a casa anche i nonni. C’erano due torte a casa quel 19 marzo, una per il pranzo e l’altra per la cena, ma Guido poté gustare solo la prima e con quella festeggiare solo una volta. E suo padre, una settimana dopo, mandò una lettera e un regalo a mia moglie: «Gentile signora, ho conosciuto suo marito in questi giorni così tristi ed ho capito perché e come, tra lui e il Guido, ci fosse un rapporto di fraterna amicizia. Per questo mi permetto di pregare lei e suo marito di accettare questo pacchetto che le unisco. Sono due tovagliette – non sono nuove – le abbiamo usate mia moglie ed io a mezzogiorno di mercoledì 19, poche ore prima che ammazzassero il Guido. Le avevo regalate alla mamma del Guido per il suo onomastico che dovevamo festeggiare la sera in casa di Bianca con Guido ed i suoi bei bambini. La prego di usare questi straccetti, assieme a suo marito […] e gli dica che Guido mi ha aiutato a perdonare i malvagi».
A suo padre, Guido Galli aveva scritto nel 1957 una lettera per spiegare perché aveva deciso di fare il magistrato e non l’imprenditore: «Perché vedi, papà, io non ho mai pensato ai grandi clienti o alle belle sentenze o ai libri: io ho pensato, soprattutto, e ti prego di credere che dico la verità come forse non l’ho mai detta in vita mia, a un mestiere che potesse darmi la grande soddisfazione di fare qualcosa per gli altri».
8. L’arresto degli assassini
Dopo pochi mesi arrestammo gli assassini: a due di loro, vertici di Prima Linea di Milano, chiesi perché avessero ucciso uno come Guido. Dopo avermi insultato, la donna mi disse che mi avrebbero parlato solo se non ci fossero state altre persone nella stanza e se mi fossi impegnato a non riferire a nessuno di quel colloquio. Accettai: mi dissero che ben sapevano chi era Guido, che avevano le loro fonti nel palazzo di Giustizia. Sapevano, dunque, che lui era la vera mente dell’antiterrorismo a Milano e che io ero solo uno strumento nelle sue mani raffinate, sapevano che sarebbe passato in Procura. Alludendo ad Alessandrini e Galli, dicevano che erano gli uomini come loro a legittimare le istituzioni, non i biechi repressori (e credo proprio che tra questi collocassero anche me). Ho rivisto tanti anni dopo una delle due persone, una donna ormai diversa. Sarei disposto a parlare con lei dei suoi figli e della sua vita; mentre non potrei farlo con un testimone che ancora oggi ricordo: era un giovane abbastanza colto (peraltro, studente di Guido), il cui padre vendeva biciclette. Una «pentita» che aveva partecipato con ruolo d’appoggio all’omicidio ci disse, cinquanta giorni dopo l’omicidio, che in quel negozio lei ed altri avevano acquistato le biciclette usate per la fuga nel dedalo di viuzze attorno all’università di Milano. Sentii quel giovane come testimone e lui negò tutto; gli dissi che c’era chi già aveva confessato e che avevo solo bisogno di riscontri e che lui, ad esempio, provasse a guardare delle foto per eventualmente riconoscere la “pentita”. Rispose – e così fece poi suo padre – che lui non voleva essere tirato in ballo in queste cose anche perché «se avevano ucciso Galli qualche ragione doveva pure esserci stata». Rimase in carcere, come il padre. Non ricordo il nome di quel giovane, ma non riesco a dimenticare la rabbia di quel giorno.
Rammento tante altre cose del dopo 19 marzo: una riunione di lavoro a Parma, qualche giorno dopo l’omicidio, io che ancora continuavo ad essere mentalmente assente e Piero Vigna, un altro mio maestro, che mi scuote (una volta per tutte) stringendomi un braccio e dicendo secco e forte: «Oh Armando!».
Ma ricordo anche la pena e la rabbia che mi assalirono mentre, nel giugno dell’80, firmavo otto ordini di cattura contro i responsabili dell’omicidio di Guido, prima che il processo fosse trasferito a Torino.
19 marzo 1980: da pochissimo aveva iniziato a collaborare Patrizio Peci delle Br, ad aprile ’80 iniziò a farlo Roberto Sandalo di Prima Linea, e poi, in autunno, lo fecero Marco Barbone e Michele Viscardi, pure di Pl, uno degli autori materiali degli omicidi di Alessandrini e Galli; e poi tanti altri. Il 21 giugno dell’80 la Corte d’Assise di Milano condannava Corrado Alunni a ventinove anni di reclusione e i suoi complici a pene oscillanti tra i venti ed i ventotto anni. Le condanne vennero confermate in appello. Il terrorismo stava per essere spazzato via, ma quel 1980 fu l’anno orribile per l’Italia, non solo per la strage di Bologna del 2 agosto.
Se Sandalo avesse parlato un mese prima... Guido sarebbe vivo. Se Guido non fosse andato all’università quel pomeriggio... se io fossi andato a parlare quel pomeriggio all’università, con la mia scorta... se il processo Alunni, formalizzato, fosse finito ad altro giudice istruttore... se... se... .
9. L’arresto di Sergio Segio, il capo di Prima Linea
Prima di chiudere con questo ricordo, però, voglio parlare anche di Sergio Segio, il capo indiscusso e co-fondatore di Prima Linea, nonché principale ideatore ed esecutore materiale degli omicidi di Emilio Alessandrini e Guido Galli, e di altri ancora. E voglio ricordare anche le sue inaccettabili parole da “dissociato”.
Segio era ormai il più ricercato tra i terroristi latitanti. Ero convinto che il suo arresto avrebbe definitivamente messo in ginocchio il terrorismo in Italia.
Solo il 15 gennaio del 1983, però, si concluse la scia di omicidi di cui era stato responsabile.
È sabato. Un sottufficiale della Sezione antiterrorismo dei carabinieri, mentre scende da un mezzo pubblico in viale Monza, nota una donna su cui lui e i suoi colleghi stanno indagando. La sospettano di appartenere alla colonna Walter Alasia delle Br. La donna sembra in attesa di qualcuno. Il sottufficiale decide di chiamare i suoi colleghi, che accorrono da via Moscova e si appostano nella zona, tenendo d’occhio la donna. Arriva un uomo che le si avvicina e riceve da lei un documento. I carabinieri lo riconoscono: è Segio. Gli saltano addosso senza neppure dargli il tempo di capire che cosa stia succedendo. Anche la donna viene naturalmente arrestata. A casa sua verranno sequestrati un’arma e documenti della Walter Alasia. Ammetterà più avanti di essere una brigatista, fortunatamente non coinvolta in alcun atto di sangue e addetta a tenere i rapporti con Segio e il suo gruppo. Si è dissociata e, oggi, riabilitata, fa l’avvocato.
Con la cattura di Segio si chiuse davvero il periodo più drammatico del terrorismo a Milano, anche se altri delitti la insanguinarono e vari altri arresti furono effettuati dalle forze di polizia giudiziaria fino agli arresti e sequestri di armi del 15 giugno 1988 in via Dogali, episodio che chiuse gli “anni di piombo”. A Milano era stato arrestato il 4 aprile 1981 anche Mario Moretti, vertice delle B.R. .
Lui e Segio sono ormai da tempo dissociati dalla lotta armata ed hanno goduto dei benefici previsti dalla legge. Moretti, però, ha scelto di non parlare o di parlare pochissimo.
Non ho alcuna positiva considerazione, invece, delle scelte opposte e del presenzialismo di Segio, che non perde occasione per pontificare all’interno di un sistema di cd. “giustizia riparativa” che non sempre mi convince.
Sarebbero molti gli episodi da raccontare ma basta qui citare una intervista che rilasciò nel 2004 a La Repubblica in cui duramente “condannava” la scelta di collaborazione di Cinzia Banelli, l’ultima pentita delle Br che aveva rivelato quanto a sua conoscenza sugli omicidi D’Antona e Biagi. La bollava come traditrice e dichiarava spudoratamente che il terrorismo era stato sconfitto non grazie ai pentiti, ma grazie ai dissociati come lui che, senza coinvolgere complici, ne avrebbero decretato la fine politica. I collaboratori vi venivano citati come persone che avevano venduto i compagni. Diceva Segio: «Il termine pentimento è diventato impronunciabile, sinonimo di mercimonio, di scambio giudiziario, di condanna degli ex compagni. Una parola svilita [...]. Noi ci siamo assunti le nostre responsabilità senza scaricarle su altri. Il pentitismo e l’irriducibilismo sono due fratelli siamesi, rispondono alla stessa logica di violenza che prevarica la vita altrui»[1]. Ritenni di dover chiedere spazio al quotidiano per una doverosa replica.
Ma va soprattutto citata l’eloquente dedica che compare in un libro di Segio scritto nel 2005, “Miccia Corta”[2]: «a tutti i figli e le figlie dei nostri compagni. Perché crescendo e cominciando a sapere e a capire, non gli venga mai meno la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali. Che hanno lottato, con errori spesso gravi, ma anche con generosità e coraggio, per un mondo migliore e più giusto».
Dove evidentemente – aggiungo io – essere buoni, leali, generosi e coraggiosi è sinonimo di saper vilmente uccidere persone inermi. In un film tratto dal libro non viene citato in alcun modo l’omicidio Galli, così come quelli di altre vittime di Segio. Quel film è stato coraggiosamente visto da figli di vittime del terrorismo come Giuseppe Galli, Benedetta Tobagi, Mario Calabresi e Marco Alessandrini, che ne hanno scritto con distacco ammirevole. Marco, peraltro, in una importante intervista a Gian Antonio Stella del giugno del 2009 ha rivelato la verità sui terroristi: ha confessato di non essere mai riuscito ad elaborare il lutto che lo ha segnato quando aveva otto anni. Ma ciò che non gli dà pace – spiegò in quell’intervista – è che suo padre «è stato ucciso da una banda di cretini. Solo dei cretini...». Marco, che ho conosciuto ed accarezzato da bambino, ha pienamente ragione.
Io ho invece scelto di non vedere quel film: preferisco leggere e rileggere le parole di Corrado Stajano, nel suo bellissimo libro La città degli untori[3], quando mette a confronto la supponenza degli ex terroristi con la eroica normalità delle loro vittime. Da un lato le frasi con cui Segio dedica il libro ai figli dei suoi compagni terroristi, dall’altro l’ultimo biglietto lasciato da Guido Galli alla figlia, uscendo da casa e dirigendosi verso la sua fine: «Alex, se fai la spesa, comprami un po’ di caffè. Ciao, papà».
10. Le parole del volantino di rivendicazione dell’omicidio di Guido Galli e quelle dei suoi familiari .
Dal comunicato di Prima Linea che rivendicò l’uccisione di Guido Galli:
Oggi 19 marzo 1980, alle ore 16 e 50 un gruppo di fuoco della organizzazione comunista Prima Linea ha giustiziato con tre colpi calibro 38 Spl il giudice Guido Galli dell’ufficio istruzione del tribunale di Milano[...]. Galli appartiene alla frazione riformista e garantista della magistratura, impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell’apparato giudiziario, alla necessità di far fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all’allargamento dei terreni d’intervento, di fronte alla contemporanea crescente paralisi del lavoro di produzione legislativa delle camere [...].
Paradossalmente il volantino contiene un alto ed involontario elogio di Galli.
Mi permetto una ironica affermazione : sembrano le parole di un parere positivo per una valutazione di professionalità o per il conferimento di un incarico direttivo ad un magistrato che ne abbia fatto richiesta.
Ben si comprende, dunque, quanto affermarono Bianca, Alessandra e Carlina Galli: “A quelli che hanno ucciso mio marito e nostro padre. Abbiamo letto il vostro volantino: non l’abbiamo capito”.
Ma altre importanti parole i familiari di Guido ci hanno affidato:
“La tua luce annienterà le tenebre nelle quali vi dibattete” .
Così è scritto sulla lapide che loro hanno voluto nel palazzo di Giustizia di Milano, al secondo piano, accanto alla porticina del piccolo ufficio dell’ indimenticabile Guido.
11. Ricordi, dolore e rabbia
Guido a terra, nel corridoio dell’università, di fronte all’aula dove stava per tenere lezione. Aveva il codice accanto, sul pavimento. Questa è l’immagine che continua a venirmi in mente. E io non posso fare a meno di evocarla, anche a costo di sfiorare la retorica, quando lo ricordo in pubblico. Un groppo, allora, mi stringe la gola: mi è accaduto anche oggi, 19 marzo 2021 mentre parlavo da remoto nel corso di un Convegno che la Università Statale di Milano ha dedicato al ricordo di Guido, a 41 anni di distanza dalla sua scomparsa.
Solo la vicinanza di quanti mi ascoltano silenti e che io sento partecipi delle mie emozioni mi aiuta ad andare avanti.
Ma spesso, per superare quell’empasse, scelgo di concentrare la mia rabbia su quel presidente del Consiglio dei ministri che, nel 2005, ebbe a dichiarare alla stampa estera, a proposito della ignobile – e da noi respinta - war on terror contro il terrorismo di matrice islamica che «Non ci si può aspettare che i governi combattano il terrorismo con il codice in mano». Ecco: pensando sempre a Guido ed a quel codice che era la stella polare della sua vita, mi dico che forse quel presidente del Consiglio non si rendeva conto della gravità di ciò che diceva, forse non sapeva nulla di Galli o – più probabilmente – ignora che si può consapevolmente accettare il rischio della propria fine solo per difendere il senso della legge.
“Non eroi perché sono morti, ma perché hanno voluto capire e conoscere con ostinazione”.
Ventiquattro sono stati i magistrati uccisi dal terrorismo interno e dalla mafia in 21 anni. Non credo che in alcun paese al mondo la magistratura abbia pagato un così alto prezzo per il solo esercizio del proprio dovere in difesa della legalità repubblicana. Ricordiamone sempre i nomi:
Pietro Scaglione (Palermo, 5 maggio 1971)
Francesco Ferlaino (Lamezia Terme, 3 luglio 1975)
Francesco Coco (Genova, 8 giugno 1976)
Vittorio Occorsio (Roma, 10 luglio 1976)
Riccardo Palma (Roma, 14 febbraio 1978)
Girolamo Tartaglione (Roma, 10 ottobre 1978)
Fedele Calvosa (Patrica - Frosinone, 8 novembre 1978)
Emilio Alessandrini (Milano, 29 gennaio 1979)
Cesare Terranova (Palermo, 25 settembre 1979)
Nicola Giacumbi (Salerno, 16 marzo 1980)
Girolamo Minervini (Roma, 18 marzo 1980)
Guido Galli (Milano, 19 marzo 1980)
Mario Amato (Roma, 23 giugno 1980)
Gaetano Costa (Palermo, 6 agosto 1980)
Gian Giacomo Ciaccio Montalto (Valderice -Trapani, 25 gennaio 1983)
Bruno Caccia (Torino, 26 giugno 1983)
Rocco Chinnici (Palermo, 29 luglio 1983)
Alberto Giacomelli (Trapani, 14 settembre 1988)
Antonino Saetta (Canicattì - Agrigento, 25 settembre 1988)
Rosario Livatino (Agrigento, 21 settembre 1990)
Antonio Scopelliti (Piale - Villa San Giovanni, 9 agosto 1991)
Giovanni Falcone (Capaci - Palermo, 23 maggio 1992)
Francesca Morvillo (Capaci - Palermo, 23 maggio 1992)
Paolo Borsellino (Palermo, 19 luglio 1992).
E ricordiamo anche l’avv. Fulvio Croce, ucciso a Torino il 28.4.1977 dalle Brigate Rosse.
Alessandra Camassa è stata prima giudice a Palermo e ora lo è a Marsala dove presiede il Tribunale. Ha scritto un immaginario colloquio tra Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che si svolge in un luogo chiamato «Casa degli uomini eletti»: «Vi si possono trovare personaggi che si sono distinti per coraggio, onestà, dedizione al lavoro, acume ma che non necessariamente erano uomini perfetti. Dunque non è il paradiso». Giovanni e Paolo si cercano e si ritrovano dopo che, di comune accordo, si erano impegnati a non incontrarsi più. Ricordano, anche con autoironia, il loro passato in Sicilia e Borsellino dice: «Non siamo eroi perché siamo morti – che mi sembra una vera sciocchezza – ma siamo eroi perché abbiamo voluto capire e conoscere con ostinazione». Decidono, alla fine, che il loro divieto d’incontro nella «Casa degli uomini eletti» debba considerarsi caduto: «Vorrà dire che staremo insieme [...] poi se ci sarà da parlare di ricordi e sentimenti, ci potremo sempre guardare negli occhi!».
[1] Intervista dal titolo eloquente, Ma il pentitismo è l’altra faccia della violenza, in «La Repubblica», 23 agosto 2004.
[2] Derive Approdi 2005, con seconda edizione riveduta e corretta nel 2009.
[3] Garzanti, Milano 2009, Premio Bagutta.
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