ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Conservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina interna
La sentenza del 2 marzo scorso della Corte di giustizia, su rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte suprema estone, chiarisce due aspetti importanti della disciplina della data retention desumibile dall’art. 15, p.1, della direttiva 2002/58/CE, applicabile alla materia dopo la declaratoria di invalidità della direttiva 2006/24/CE sancita dalla stessa Corte nel 2014. La sentenza odierna chiarisce, da un lato, come la disciplina vigente esiga la limitazione dell’acquisibilità processuale dei dati di traffico ai soli procedimenti per gravi reati o per gravi minacce per la sicurezza pubblica e, dall’altro, che l’acquisizione dei dati è subordinata all’autorizzazione di un’autorità terza (giudice o autorità indipendente) rispetto all’autorità pubblica richiedente (nella specie era il pubblico ministero estone).
Sommario: - 1. La giurisprudenza della Corte di giustizia sulla data retention 2. La giurisprudenza italiana 3. La sentenza del 2 marzo della Cgue e i suoi riflessi sulla disciplina interna
1. La giurisprudenza della Corte di giustizia sulla data retention.
Con sentenza del 2 marzo, resa nella causa C-746/18, su rinvio del Riigikohus (Estonia), la Corte di giustizia europea – a soli cinque mesi da quella resa nel caso Privacy International – consolida ulteriormente quell’indirizzo innovativo che ha già caratterizzato il suo approccio al tema della data retention.
L’avvio a quest’indirizzo pretorio è stato fornito dalla sentenza Digital Rights dell’8 aprile 2014 (cause riunite C-293/12 e C-594/12), con cui Corte di giustizia ha dichiarato l’illegittimità della direttiva 2006/24/Ce per violazione del principio di proporzionalità nel bilanciamento tra protezione dati ed esigenze di pubblica sicurezza. La violazione del principio di proporzionalità era, in quel caso, ravvisata, in particolare: nella previsione di misure di conservazione dei dati applicabili in via indifferenziata e generalizzata "all'insieme degli individui, dei mezzi di comunicazione elettronica e dei dati relativi al traffico, in assenza di differenziazione, limitazione o eccezione in ragione dell'obiettivo del contrasto ai serious crimes; nell'omessa adozione di criteri oggettivi idonei a limitare l'accesso a tali dati per sole esigenze di accertamento di reati sufficientemente gravi da giustificare una simile ingerenza"; nell'omessa previsione dei parametri sostanziali e procedurali per l'accesso, da parte delle competenti autorità nazionali, ai dati in esame, in particolare non richiedendo in ogni caso il previo controllo dell'autorità giudiziaria o di un'autorità amministrativa indipendente; nell'omessa introduzione di parametri idonei a differenziare la durata della conservazione dei dati.
La Corte ha, in quella sede, precisato anche che il principio di stretta proporzionalità tra limitazioni dei diritti fondamentali ed esigenze di pubblica sicurezza esige una differenziazione specificamente modulata in base al tipo di delitto, alle esigenze investigative, al tipo di dato e di mezzo di comunicazione utilizzato. E questo, comunque nel rispetto di alcune garanzie essenziali, quali, in particolare, la subordinazione di tali limitazioni all'autorizzazione di un'autorità terza quale l'autorità giudiziaria o comunque un'autorità amministrativa indipendente.
Con la sentenza resa nel caso Tele2 Sverige (cause riunite C 203/15 e C 698/15) il 21 dicembre 2016, la Corte di giustizia ha dichiarato incompatibile con la direttiva 2002/58 (lette retroattivamente alla luce della Carta di Nizza e riespansa a seguito dell’invalidazione della 2006/24 ad opera della sentenza Digital Rights) ogni previsione interna che, per fini di contrasto dei reati: a) imponga la conservazione, generale e indiscriminata, di tutti i dati di traffico e relativi all’ubicazione degli utenti dei mezzi; b) legittimi l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati per finalità ulteriori rispetto a quelle di contrasto dei “serious crimes”, in assenza di un previo vaglio giurisdizionale o comunque di un’autorità amministrativa indipendente e di garanzie relative alla conservazione dei dati nella Ue.
Le discipline interne sulla data retention devono pertanto prevedere- osserva la Corte- l’accessibilità dei dati conservati solo da parte dell’autorità giudiziaria o di un’autorità amministrativa indipendente, in base a circostanze e procedure disciplinate dalla legge per esigenze di accertamento di gravi reati, notificando la misura all’interessato (come già affermato dalla Corte EDU nella sentenza Zakharov del 4.12.15), non appena le esigenze investigative lo consentano.
Ma l’aspetto maggiormente innovativo della pronuncia concerne l’esigenza di rendere selettiva e mirata la stessa conservazione dei tabulati, limitandola in ragione del tipo di dato, del mezzo di comunicazione considerato, della durata della ritenzione, delle persone coinvolte (che devono avere un collegamento almeno indiretto con la commissione di gravi reati), finanche di criteri geografici che limitino la conservazione ad aree caratterizzate da rischi specifici. Si tratta di criteri che finiscono con il mutare profondamente la natura stessa della data retention come misura preventiva e come tale applicabile massivamente, in vista di un’acquisizione, soltanto eventuale e retrospettiva, in sede giudiziaria.
2. La giurisprudenza italiana
I principi affermati dalla Corte hanno indotto il Garante per la protezione dei dati personali a invitare più volte il legislatore (con una segnalazione e i pareri resi sugli schemi di decreti legislativi di adeguamento al Gdpr e, rispettivamente, di recepimento della direttiva 2016/680) a riformare la disciplina interna sulla conservazione dei tabulati, che non limita (né limitava allora) l’acquisizione ai soli reati gravi, né subordina (né subordinava) tale acquisizione al vaglio del giudice.
La carenza di proporzionalità della disciplina interna è risultata poi aggravata dalla novella di cui alla l. 167/2017, che ha esteso a sei anni il termine massimo di conservazione dei tabulati, con acquisibilità dei dati, in questo caso, limitata tuttavia ai procedimenti per reati distrettuali o per i quali la durata delle indagini preliminari è ampliata a due anni. E naturalmente, benché l’acquisibilità dei dati raccolti oltre due anni prima (per i tabulati telefonici, un anno prima per i telematici e un mese per le chiamate senza risposta) sia limitata a tale categoria di reati particolarmente gravi, proprio la natura retrospettiva di questo strumento investigativo implica la conservazione generalizzata dei dati di traffico per sei anni, salvo poi limitarne l’utilizzabilità processuale ai soli casi considerati. L’incidenza della misura sulla privacy dei cittadini è, dunque, particolarmente forte, a fronte di un’utilizzabilità processuale dei dati così massivamente raccolti, in fondo limitata, con implicazioni probabilmente poco coerenti con il principio di proporzionalità tra esigenze investigative e privacy.
Tuttavia, più volte la Corte di Cassazione (Cass., Sez. V, 24 aprile 2018, 273892 e Sez. III, 23 agosto 2019, n. 36380 ) ha ritenuto la disciplina interna compatibile con il canone di proporzionalità in quanto delimita temporalmente la durata della conservazione; demanda al pubblico ministero l’effettivo controllo della stretta necessità dell’acquisizione dei dati. Ad avviso della Corte, l’attribuzione di tale vaglio al pubblico ministero non contrasta con le indicazioni della Corte di giustizia relative al controllo rimesso al “giudice” o ad una autorità amministrativa indipendente, in quanto tale nozione dovrebbe, secondo la Cassazione, essere equiparata a quella di “autorità giudiziaria” idoneo a ricomprendere anche la magistratura requirente.
La sentenza 13 febbraio 2020, n. 5741 della Corte di Cassazione ha, inoltre, affermato che “non può ritenersi che la disciplina italiana di conservazione dei dati di traffico (c.d. data retention) sia in contrasto con le pronunce della Corte di giustizia datate 8 aprile 2014 e 21 dicembre 2016 poiché la suddetta normativa prevede la conservazione dei dati per un periodo limitato pari a 24 mesi, subordina la possibilità di acquisizione degli stessi soltanto per finalità di accertamento e repressione dei reati, prevede che l'utilizzazione degli stessi dati sia sottoposta al provvedimento di acquisizione emesso da parte del Pubblico Ministero e cioè di un organo giurisdizionale che procede nell'ambito di una attività di indagine preliminare. Ne deriva quindi affermare che la legislazione italiana non prevede la facoltà delle autorità pubbliche di accesso indiscriminato ai dati sensibili bensì la limita ai soli casi di indagini per fatti di reato svolte entro un determinato arco temporale di 24 mesi (elevati a 72 solo per fatti di reato di particolare allarme sociale) e la subordina alla autorizzazione proveniente da un organo giurisdizionale. […] Va pertanto ribadita la legittimità della normativa nazionale di riferimento costituita dall'art. 132 Codice della privacy, poiché la deroga al diritto alla riservatezza delle comunicazioni è prevista per un periodo limitato, ha come esclusivo obiettivo l'accertamento e la repressione dei reati è subordinato alla emissione di un provvedimento da parte di un'autorità giurisdizionale”.
Con la sentenza del 6 ottobre scorso resa nel caso Privacy International (C 623-17), la Corte di giustizia europea ha poi chiarito come alla conservazione dei dati di traffico funzionale al successivo utilizzo per fini di sicurezza nazionale si applichi comunque la disciplina di protezione dati e, quindi, anche il canone di proporzionalità. Si è trattata di un’affermazione importante, che ha escluso che l’esimente della funzionalità del trattamento a fini di sicurezza nazionale possa “coprire” anche la conservazione dei dati ad esso finalizzata, sebbene comunque nel nostro ordinamento finanche i trattamenti per fini di sicurezza nazionale siano soggetti alla disciplina di protezione dati (art. 58 dlgs 196/2003).
3. La sentenza del 2 marzo della Cgue e i suoi riflessi sulla disciplina interna
Con la sentenza del 2 marzo, la Corte di giustizia ha invece chiarito due aspetti essenziali: da un lato la limitazione dell’acquisibilità processuale dei dati di traffico ai soli procedimenti per gravi reati o per gravi minacce per la sicurezza pubblica e, dall’altro, la subordinazione dell’acquisizione dei dati all’autorizzazione di un’autorità terza rispetto all’autorità pubblica richiedente ( la Corte precisa che l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati dev’essere “subordinato ad un controllo preventivo effettuato o da un giudice o da un’entità amministrativa indipendente e (...) la decisione di tale giudice o di tale entità [deve] interven[ire] a seguito di una richiesta motivata delle autorità suddette”) .
Più precisamente, sotto il primo profilo, la Corte precisa che “l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, la quale consenta l’accesso di autorità pubbliche ad un insieme di dati relativi al traffico o di dati relativi all’ubicazione, idonei a fornire informazioni sulle comunicazioni effettuate da un utente di un mezzo di comunicazione elettronica o sull’ubicazione delle apparecchiature terminali da costui utilizzate e a permettere di trarre precise conclusioni sulla sua vita privata, per finalità di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati, senza che tale accesso sia circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica, e ciò indipendentemente dalla durata del periodo per il quale l’accesso ai dati suddetti viene richiesto, nonché dalla quantità o dalla natura dei dati disponibili per tale periodo” Sotto il secondo profilo, la Corte rileva come la disciplina europea osti “ad una normativa nazionale, la quale renda il pubblico ministero, il cui compito è di dirigere il procedimento istruttorio penale e di esercitare, eventualmente, l’azione penale in un successivo procedimento, competente ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione ai fini di un’istruttoria penale”.
Anche questa sentenza, come le altre, ha riflessi importanti sulla disciplina interna, che considera i gravi reati come criterio idoneo a modulare diversamente la profondità cronologica dell’acquisizione processuale, senza tuttavia limitarne in via generale l’ammissibilità. Inoltre, merita qualche riflessione la compatibilità con la sentenza della procedura interna che legittima all’acquisizione il pubblico ministero – che vi provvede con decreto motivato – non esigendo, diversamente da quanto previsto per le intercettazioni, il vaglio del giudice (in disparte la disciplina del freezing di cui al comma 4-ter dell’art. 132 dlgs 196/2003, che a fortiori andrebbe ripensato)..
Tale diversità di regime e il conseguente diverso ruolo svolto dal giudice nell’ambito delle due discipline è stata ritenuta conforme dalla Corte costituzionale che, accogliendo la teoria tedesca delle “sfere” concentriche lungo le quali si articolerebbe, con diversa intensità, la tutela dei diritti fondamentali, già con la sentenza n. 81 del 1993, ha ravvisato nell’acquisizione dei tabulati un’incidenza solo marginale sul diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni di cui all’art. 15 Cost. Come sottolinea Carlotta Conti (Sicurezza e riservatezza, in Dir.pen.porc., 2019, n. 11, 1572), infatti, la natura emergente o periferica del diritto inciso è il parametro che induce la Corte a ritenere, secondo i principi di adeguatezza e proporzionalità, non indispensabile il rispetto della riserva di giurisdizione, considerando sufficiente un modello di tutela più tenue, costituito da un provvedimento del pubblico ministero adeguatamente motivato. La Corte allora delineava, dunque, parallelamente alle prove incostituzionali (e come tali inammissibili) perché, appunto, lesive di diritti costituzionalmente tutelati, la categoria delle prove (allora atipiche) “rafforzate” perché incisive su diritti di libertà, ammettendo per lesioni solo periferiche di tali diritti un bilanciamento “attenuato” che moduli le tutele in ragione dell’entità solo marginale della compressione del diritto.
Nella stessa prospettiva si muovono le sentenze su richiamate della Corte di cassazione del 2018, nonché quella del 23 agosto 2019, n. 36380, secondo cui “la soluzione italiana è coerente con il sistema di tipo accusatorio, nel quale, nel corso delle indagini preliminari, è il pubblico ministero l'autorità giudiziaria che procede, e con il sistema processuale che prevede, mediante le indagini difensive ed i poteri riconosciuti ai difensori anche in tema di acquisizione del dato, l'estensione, anche se parziale, del potere investigativo alla difesa. E ciò in una situazione in cui l'acquisizione del dato genera una compromissione decisamente inferiore rispetto a quella relativa alla captazione delle conversazioni, sia telefoniche che ambientali, la cui tutela è affidata invece al controllo del giudice per le indagini preliminari”.
La ricostruzione della Corte costituzionale e quella, ad essa allineata, della stessa Corte di cassazione- pur condivisibile in quanto tesa a modulare le garanzie in misura proporzionale all’incidenza dello strumento investigativo sul diritto costituzionalmente tutelato- sembra tuttavia oggi distante dalla ricostruzione della Corte di giustizia. Essa, infatti, rimarca l’esigenza di un vaglio da parte di un’autorità terza sulla richiesta di acquisizione: non tanto e non solo, dunque, “giudiziaria” (equiparandovi anche le autorità amministrative indipendenti), quanto piuttosto terza; dato, quest’ultimo, difficilmente compatibile con la figura del pubblico ministero come “parte pubblica”
E’ probabilmente questa diversità di posizioni la ragione sottesa alla difficoltà che si registra, da noi, nell’adeguamento della disciplina della data retention ai principi sanciti dalla Corte di giustizia. Il giorno dopo la pubblicazione della sentenza Digital Rights il Sen. Casson presentò un’interrogazione relativa alle sue ricadute nel nostro ordinamento, in cui si chiedeva al Governo se intendesse proporre o comunque sostenere una rivisitazione della disciplina vigente in tema di data retention, tale da differenziare condizioni, limiti e termini di conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico in ragione della particolare gravità del reato per cui si proceda e che eventualmente subordinasse anche (magari con la sola eccezione dei "delitti distrettuali" o comunque di criminalità organizzata per i quali può ammettersi la sola richiesta del pubblico ministero) la conservazione dei dati all'autorizzazione del gip, ferma restando, ovviamente, nei casi d'urgenza, la possibilità per il pubblico ministero di disporre la conservazione con proprio decreto, soggetto a convalida solo in fase successiva, sul modello dell'art. 267, c.2, cpp.
Forse questa potrebbe essere una prima base per riflettere su eventuali ipotesi di riforma della disciplina della data retention in linea con quanto richiesto dalla Cgue, anche considerando che il draft di regolamento europeo e-privacy, attualmente in discussione nelle sue fasi finali, non sembra introdurre sul punto (anche in ragione della tipologia di fonte normativa prescelta) nulla più che una deroga, per fini di giustizia, agli obblighi comuni in materia di conservazione dei dati di traffico.
Federica Resta, dirigente del Garante per la protezione dei dati personali (le opinioni qui espresse non impegnano in alcun modo l’Autorità di appartenenza)
Giustizia Insieme ha l’onore di ospitare il saggio che il Presidente della Corte europea dei diritti dell’Uomo Robert Spano ha dedicato al principio del “Rule of law”.
L’articolo, pubblicato nella versione originale in lingua inglese dalla prestigiosa rivista European Law Journal il 4 febbraio 2021,è stato magistralmente tradotto dalla Dott.ssa Marta Durante, alla quale va il ringraziamento della Rivista, unitamente al Presidente Guido Raimondi che ha reso possibile la pubblicazione.
Al Presidente Spano rivolgiamo un caloroso grazie per avere dedicato le sue energie e la potenza delle sue riflessioni alla portata tridimensionale, come Lui ha scritto, del rule of law che si racchiude nell’esigenza di contrastare ogni arbitrio dei pubblici poteri e di garantirne l’efficacia da parte di organi giurisdizionali indipendenti.
Rule of Law: la Lodestar della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte di Strasburgo e l'indipendenza della Magistratura
di Robert Spano[1]
Lodestar: una stella, in particolare la Stella Polare, usata per guidare le navi lungo la rotta; o una persona o cosa che funge da ispirazione o guida.
Abstract: Il rule of law N.d.T. è un principio costituzionale sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che, nel corso della sua storia, è diventato la Lodestar (Stella Polare) che ha guidato lo sviluppo della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Negli ultimi anni, l’impatto normativo sortito dal principio del rule of law si è andato incrementando nella giurisprudenza della Corte e, in particolare, nei casi che hanno avuto ad oggetto l’indipendenza della magistratura. L’articolo analizza il fulcro concettuale del rule of law che costituisce, nel sistema della Convenzione, una componente fondamentale dell’“ordine pubblico europeo”. Successivamente, lo status normativo tridimensionale del rule of law è analizzato così come la dichiarazione della Corte secondo cui questo principio è “inerente a tutti gli articoli della Convenzione”. Sulla base di tali premesse, si è proceduto ad un esame approfondito dell’applicazione, nella recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, del principio dell’indipendenza del potere giudiziario, il quale viene inquadrato come una componente sostanziale del rule of law. L’autore, infine, riflette sul rapporto “simbiotico” intercorrente nel campo della indipendenza della magistratura tra la Corte di Strasburgo e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
1. Introduzione
Il rule of law [2] costituisce un principio costituzionale insito nel sistema di tutela dei diritti umani predisposto all’interno dello spazio giuridico del Consiglio d'Europa. Nel corso della storia della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali (di seguito “la Convenzione”), il rule of law ha rappresentato la Stella Polare (Lodestar) che ha guidato lo sviluppo della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (in seguito “la Corte” o “la Corte di Strasburgo”). Negli ultimi anni, l'impatto normativo del rule of law si è incrementato nella giurisprudenza della Corte, in particolare nelle cause relative all'indipendenza ed imparzialità del sistema giudiziario. Invero, tale materia è solo una delle manifestazioni di maggiore rilievo di uno sviluppo più ampio che si muove verso un'applicazione più solida del rule of law e che ora permea la giurisprudenza della Corte. Dare concreta ed efficace espressione al principio del rule of law come declinato dalla Convenzione, è e continuerà ad essere un compito fondamentale della Corte di Strasburgo.
Inizierò riflettendo su alcuni elementi concettuali che, nel sistema della Convenzione, costituiscono il fulcro del rule of law, partendo in particolare dalle sue origini, risalenti al Preambolo alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948. Verrà, inoltre, esplorato il legame tra il rule of law e la nozione di “ordine pubblico europeo”, come ricostruito dalla Corte di Strasburgo. Successivamente, verrà analizzato lo status normativo del rule of law all’interno del sistema della Convenzione, focalizzandosi su una delle dichiarazioni di principio della Corte secondo cui il rule of law è “inerente a tutti gli articoli della Convenzione”[3]. Infine, si procederà ad un esame dettagliato dell’applicazione del rule of law offerta dalla recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, da cui si evince che tale principio è un elemento sostanziale dell’indipendenza della magistratura. Il paragrafo finale includerà alcune osservazioni concernenti la “relazione simbiotica” tra lo status attuale dei principi della Convenzione e la più rilevante giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (in seguito denominata “CGUE”, “Corte di Lussemburgo”).
2. Il Nucleo Concettuale del Rule of Law – Una ‘Componente Fondamentale dell’Ordine Pubblico Europeo’
Per quanto il principio del rule of law possa a prima vista sembrare facilmente inquadrabile, tuttavia, una volta che si prova ad esplorarne la portata concettuale ed il contenuto, le cose cominciano piuttosto a complicarsi [4]. In effetti, il tentativo di spiegare gli elementi costitutivi e la natura giurisprudenziale del rule of law [5] ha dato vita ad un ampio dibattito accademico. Già nel 1975, con la storica sentenza Golder c. Regno Unito, la Corte di Strasburgo aveva chiarito che il rule of law costituisce “una delle caratteristiche del patrimonio spirituale comune degli Stati Membri del Consiglio d‘Europa”[6]. Ed è proprio da questo principio che “l’intera Convenzione trae ispirazione”[7]. Il rule of law costituisce, insieme “all’eliminazione dell’arbitrio del potere”, uno dei principi “sottostanti la Convenzione” [8].
Per quanto non si rinvenga nelle disposizioni della Convenzione o nei suoi Protocolli una definizione del principio del rule of law, la Convenzione, tuttavia, vi fa espresso richiamo nel corpo del suo Preambolo che così recita:
Risoluti, in quanto governi di Stati europei animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e del rule of law [9], a prendere le prime misure atte ad assicurare la garanzia collettiva di alcuni dei diritti enunciati nella Dichiarazione Universale,
Pertanto, il Preambolo della Convenzione, fa espresso riferimento all’esordio della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948[10]. Si può ragionevolmente ritenere che i redattori della Convenzione sono stati ispirati dal modo in cui lo stesso Preambolo della Dichiarazione Universale richiama il rule of law.
Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti dal rule of law[11], se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione….
E’ importante apprezzare la diretta correlazione esistente tra le dichiarazioni contenute nella Dichiarazione Universale secondo cui i diritti umani dovrebbero essere tutelati dal rule of law, e lo scopo di quest’ultimo di evitare che l’uomo debba giungere fino al punto di doversi ribellare contro la tirannia o l’oppressione dei governi. Si tratta, infatti, della stessa concezione del rule of law fatta propria dal sistema della Convenzione[12]. Governare in conformità con i principi del rule of law è quindi una premessa fondamentale affinchè ogni struttura autoritaria presente all’interno di uno Stato Membro del Consiglio d’Europa, sia in grado di adempiere ai propri obblighi convenzionali. Un Governo che non rispetta i principi del rule of law non può legittimamente aspettarsi fiducia e lealtà durature nella propria politica. Infatti, come dalla Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite emerge a chiare lettere che la tirannia rappresenta l’antitesi del rule of law, parimenti l’oppressione della popolazione è una manifestazione esterna di una società in cui coloro che detengono il potere hanno abbandonato il rule of law.
Ma cosa significa veramente rule of law? Perchè è così rilevante per la tutela dei diritti umani? Perchè è fondamentale per il progressivo sviluppo di una società democratica e, ancor di più, perchè il rule of law è la pietra angolare, o meglio il fondamento, di una vita comune stabile e pacifica?
Sono domande a cui è difficile dare una risposta. Ma vorrei in ogni caso sostenere che l’idea morale che sta alla base del rule of law e delle tutele accordate dalla Convenzione è il rispetto dell’autonomia personale e l’esclusione di forme di uso arbitrario del potere governativo[13]. Infatti, per far sì che un soggetto possa realisticamente mantenere e accrescere la propria indipendenza di pensiero o possa organizzare la propria vita secondo i propri desideri e possa essere libero di lottare per la propria felicità, il proprio successo e la propria pace interiore - tutti elementi essenziali dell’esistenza umana – è indispensabile che la società in cui quel soggetto vive sia realmente, e non solo fittiziamente, disciplinata dalla legge. Una legge deve essere trasparente, stabile, dal prevedibile ambito applicativo e deve disciplinare l’accesso a strumenti di risoluzione delle controversie indipendenti ed imparziali. Inoltre, le disposizioni di legge non devono applicarsi solo al popolo, ma ancor più rigidamente a coloro i quali, in qualsiasi momento storico, detengono il potere. Nessun uomo, non un imperatore, non un Re, non un Primo Ministro, non un Presidente, nessuno è al di sopra della legge.
Come chiarito dalla Corte, il rule of law delineato dalla Convenzione, richiedendo che il potere governativo sia disciplinato dalla legge e non dai capricci degli uomini[14], esige che le leggi nazionali siano chiare, non eccessivamente vaghe e non suscettibili di abusi [15] e che le norme, soprattutto quelle penali, non vengano applicate retroattivamente [16]. Diversamente infatti si negherebbe ai membri della società la possibilità di operare delle scelte autonome fondate su regole preesistenti. La legge, pertanto, deve essere sufficientemente stabile e garantire la certezza del diritto[17]. Il rule of law non ammette il conferimento agli organi di governo di poteri illimitati[18], ma al contrario richiede che le leggi siano interpretate ed applicate da tribunali indipendenti ed imparziali,[19] le cui sentenze definitive e vincolanti non dovrebbero essere più messe in discussione; si tratta questa di una componente del rule of law che rinviene le sue origini anche nel principio della certezza del diritto.[20] Le medesime considerazioni devono svolgersi anche con riferimento alle sentenze della Corte di Strasburgo. A tale ultimo proposito, secondo quanto previsto dall’art.46 par. 1 della Convenzione, gli Stati Membri si sono impegnati, per loro consapevole scelta sovrana, ad attenersi alle pronunce della Corte di Strasburgo e ciò in quanto l’esecuzione delle sentenze definitive dell’organo giudicante istituito dalla Convenzione costituisce una delle prime manifestazioni del rule of law. La Corte, così statuendo, ha sottolineato “la forza vincolante di cui sono dotate le proprie sentenze ai sensi del citato articolo 46 par.1 e quanto è importante che alle stesse sia data effettiva esecuzione, secondo i canoni della buona fede ed in modo compatibile con ‘i principi di diritto e lo spirito’ in esse enunciati”[21].
Gli elementi concettuali sopra individuati del rule of law spiegano la ragione per cui questo principio fondamentale rappresenta un’eresia per gli Stati autoritari o dittatoriali i quali, al contrario, lungi dall’essere retti da leggi generalmente applicate e preesistenti, sono in realtà governati dalla mera volontà del potere. Il potere rude e illimitato, sganciato da regole vincolanti, è per definizione arbitrario ed incline ad abusi, ed è per ciò stesso incompatibile con i principi di proporzionalità e ragionevolezza. Infatti, quando la volontà incontrollata di coloro che detengono il potere è avulsa dal principio del rule of law, la stessa in realtà non è altro che mera salvaguardia dell’interesse personale e conservazione delle strutture di potere acquisite [22].
A seguito degli sviluppi succedutisi nel panorama politico europeo, è ancor più importante sottolineare che il principio del rule of law non costituisce un principio giuridico la cui applicazione rimane confinata alle democrazie liberali Occidentali. Al contrario, si tratta di un principio che racchiude in sé una norma ed un ideale fondamentale che supera confini, tradizioni e culture. Il rule of law è una figura centrale per ogni società civilizzata regolata da norme giuridicamente vincolanti[23]. Il rule of law “[unisce] culture che altrimenti sarebbero tra loro molto differenti, offrendo una cornice essenziale per la reciproca tolleranza, individuale e sociale, favorendo scambi culturali ed economici a livello mondiale”[24]. A tale riguardo, si ricorda che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclamata dalle Nazioni Unite, facendo espresso rinvio al rule of law nel suo Preambolo, costituisce essa stessa uno strumento universale di guida per tutti i 192 Stati Membri dell’ONU [25] e da cui trae origine la Convenzione stessa.
Infine, come chiarito dalla Corte di Strasburgo, lo “Statuto del Consiglio d’Europa - un’organizzazione di cui ogni Stato Parte è anche Membro della Convenzione - fa riferimento al rule of law in ben due occasioni. Il primo richiamo lo si rinviene nel Preambolo, in cui i Governi firmatari affermano la loro devozione a questo principio; mentre il secondo lo si ritrova nell’articolo 3 a norma del quale “ogni Stato Membro del Consiglio d’Europa riconosce il principio del rule of law”[26]. È proprio sulla base di questa idea che la Corte di Strusburgo ha inquadrato il principio in esame tra le “componenti fondamentali” dell’ordine pubblico europeo [27].
In questo senso, la Corte ha identificato l’essenza del sistema fondamentale di valori [28] su cui si erge l’intera Convenzione ed a cui la Corte è vincolata ai sensi degli articoli 19 e 32 della CEDU, per dare vita, in sede interpretativa ed applicativa, ai diritti e valori ivi riconosciuti. Come la Corte ha enfatizzato, “[persino] in un contesto caratterizzato da uno stato di emergenza, il principio fondamentale del rule of law deve prevalere”[29]. Sicché, gli Stati Membri del Consiglio d’Europa non possono legittimamente provare a ridefinire il concetto di rule of law o i fondamentali contenuti del sistema di valori e di diritti sanciti dalla Convenzione, dato che questo principio è divenuto, per loro scelta sovrana, parte integrante dell’ ‘ordine pubblico europeo’ disciplinato dal sistema della Convenzione.
3. Il Carattere Normativo del Rule of Law – Un Principio Tridimensionale “Inerente a Tutti gli Articoli della Convenzione’
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo è costante nell’affermare che il principio del rule of law è “inerente a tutti gli Articoli della Convenzione”[30]. L’esame del carattere normativo del rule of law nel sistema convenzionale non può prescindere dall’analisi della natura e della portata della citata premessa dottrinale.
In primo luogo la Corte, nel sancire l’inerenza del principio del rule of law a tutti gli articoli della Convenzione, rammenta che l’efficacia, l’utilità e le basi stesse del sistema delineato dalla Convenzione si fondano sul rispetto di questo principio. D’altronde, la sua collocazione sistematica all’interno del Preambolo della Convenzione – come sottolineato nel precedente pragrafo 2 - fa sì che il rule of law si integri nel tessuto del sistema convenzionale e che dallo stesso sia enucleabile un quadro legislativo di parametri e regole giuridiche che esaltano l’autonomia razionale degli esseri umani ed inibiscono ogni forma di uso arbitrario del potere governativo.
La Corte ha altresì chiarito il significato dell’“inerenza” del rule of law a tutti gli articoli della Convenzione: il principio citato fornisce un punto di partenza metodologico per l’analisi di ogni ricorso che non sia infondato, creando al contempo, un quadro di riferimento per la Corte di Strasburgo quando questa è chiamata ad interpretare e applicare i diritti e le libertà garantite dalla Convenzione[31]. Pertanto, in sede di analisi delle possibili opzioni interpretative, la Corte cercherà invariabilmente di individuare il migliore rule of law conforme alla disposizione convenzionale in questione e, se necessario, ogni volta che il caso di specie richiede un bilanciamento tra il diritto individuale e l’interesse pubblico, la Corte cercherà di adottare la soluzione che meglio preservi l’ideale sostanziale che anima il rule of law quale fondamentale componente dell’ordine pubblico europeo.
Queste considerazioni mi portano all’analisi del secondo punto, ossia all’esame della forza normativa tridimensionale del rule of law risultante dalla Convenzione. In alcune situazioni, infatti, il rule of law si manifesta come un principio giuridico in quella che chiamerò la sua dimensione organica: in quest’ottica, come principio generale e come verrà ulteriormente approfondito in seguito, il rule of law sostiene l’armonioso e interdipendente rapporto tra i singoli elementi del sistema della Convenzione. In altre situazioni, invece, il rule of law rappresenta una regola dal contenuto sufficientemente fisso che ne include uno specifico elemento funzionale e che sarà definita la sua dimensione funzionale. Infine, il rule of law può altresì palesarsi nella sua forma ibrida, mostrando la sua forza normativa come principio giuridico e, allo stesso tempo, come regola dal contenuto sufficientemente fisso. In particolare, la forma ibrida del rule of law viene in rilievo in materia di indipendenza della magistratura, la quale rinviene il proprio inquadramento nell’articolo 6, par.1 della Convenzione[32].
Nella sua dimensione organica di principio giuridico, il rule of law agisce come “strumento di ottimizzazione”[33] che impedisce agli Stati Membri di derogare arbitrariamente ai diritti ed alle libertà garantiti dalla Convenzione o negare in qualunque modo l’essenza del diritto che nel caso concreto viene in rilievo. Il rule of law, quando viene rispettato, assicura in questo modo l’uso ragionevole e razionale del potere governativo[34], guidando quest’ultimo verso un’azione adeguata di bilanciamento dei valori in conflitto nella tensione tra i diritti individuali e l’interesse pubblico. Ciò avviene sia in senso sostanziale che procedurale. Per un verso, il rule of law impone stringenti requisiti sostanziali attinenti al contenuto, alla forma ed all’applicazione temporale di quelle norme giuridiche nazionali che derogano ai diritti garantiti dalla Convenzione. Per altro verso, invece, dal punto di vista procedurale, il rule of law postula che la pronuncia giudiziaria finale che individua il contenuto della norma sia adottata da giudici indipendenti e imparziali, e non da coloro i quali detengono il potere. In sintesi, e richiamando quanto già osservato nel precedente paragrafo, il rule of law, nella sua veste di principio giuridico, costituisce un quadro organico di valori che insieme realizzano la componente fondamentale dell’ “ordine pubblico europeo” definito dalla Convenzione, come analizzato nel precedente paragrafo.
Infine, quando si analizza lo status normativo del rule of law risultante dalla Convenzione è importante comprendere se il principio in esame, come applicato dalla Corte[35], debba essere considerato alla stregua di un concetto formale[36] (versione sottile del rule of law) o se, al contrario, vada preso in analisi come concetto sostanziale, che abbraccia intrinsecamente la tutela dei diritti umani (versione spessa della rule of law).
Sul punto, è interessante osservare i modi in cui le sentenze della Corte di Strasburgo hanno fatto riferimento al rule of law. In particolare, chiamata a pronunciarsi in tema di libere elezioni ai sensi dell’art. 3 del Protocollo n.1, la Corte ha statuito che il rule of law è “uno dei pilastri fondamentali di una democrazia significativa ed effettiva”[37]. Anche in merito al diritto di manifestare la propria religione, riconosciuto dall’articolo 9 della Convenzione, la Corte ha chiamato in causa il ‘principio di laicità’ in quanto principio che si pone in “armonia con il rule of law e che rispetta i diritti umani e la democrazia” [38]. Infine, per quanto concerne l’art.10 della Convenzione, si deve precisare che lo stesso instaura una connessione diretta tra il rule of law, i principi democratici e la libertà di espressione, prevedendo in particolare che “in una società democratica basata sul rule of law, le idee politiche che contestano l’ordine esistente e la cui realizzazione si compie con mezzi pacifici, devono potere esprimere in modo adeguato le proprie opinioni”[39]. Ne consegue che “azioni di rappresaglia e di abuso del diritto penale” costituiscono una “violazione del rule of law” [40].
Le pronunce richiamate, per quanto non esaustive, tuttavia suggeriscono che la Convenzione delinea un concetto di rule of law che non deve essere ristretto alla sua semplice nozione formale, limitata nella sua portata ad una versione sottile o non basata sui diritti (no-rights based), come ad esempio sostenuto da alcuni studiosi ed in particolare da Joseph Raz [41]. Piuttosto, il principio del rule of law che risulta dalla Convenzione, sembra trovare una maggiore risonanza nel resoconto teorico presentato eloquentemente dal defunto Lord Bingham, che accoglie una visione sostanziale del rule of law. In quest’ultima ottica, dal rule of law discende da un lato un obbligo positivo per la legge la quale deve “offrire adeguata tutela dei Diritti Umani fondamentali” e dall’altro lato una richiesta rivolta “allo Stato, di onorare i propri doveri internazionali al pari di quelli previsti dalle leggi nazionali”[42].
4. Il Rule of Law e l’Indipendenza della Magistratura
4.1. Il concetto di indipendenza della magistratura e la separazione dei poteri
Come analizzato nel precedente paragrafo, la forza normativa del rule of law risultante dalla Convenzione si esplica in tre dimensioni. Infatti, se in alcuni contesti agisce come principio giuridico (la dimensione organica), in altre situazioni invece opera come una costellazione di regole dal contenuto fisso (la dimensione funzionale). Con riguardo alla dimensione da ultimo citata, sono facilmente enucleabili dalla Convenzione alcune disposizioni che garantiscono e riconoscono diritti che, di per sè, rappresentano una chiara manifestazione del rule of law nella sua veste di norma avente un contenuto fisso. Ne sono un esempio l’articolo 5, par. 1, che richiede l’esistenza di una specifica una base giuridica sulla quale fondare la privazione della libertà personale, e l’articolo 7 che sancisce il principio del nullum crimen, nulla poena sine lege[43]. Infine, in altre situazioni ancora, il rule of law agisce nella sua dimensione ibrida, ossia tanto come principio giuridico quanto nella veste di regola dal contenuto sufficientemente fisso. Il principale esempio di quest’ultima dimensione del rule of law è rappresentato dal principio strutturale più importante allo stesso riconducibile nell’impianto convenzionale e che costituirà il fulcro della trattazione successiva: l’indipendenza della magistratura.
Prima di procedere all’analisi degli orientamenti emersi nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla indipendenza della magistratura, è necessario spendere alcune parole per identificare quest’ultimo concetto[44] il quale si esprime tramite due diversi elementi, seppur correlati tra loro: da un lato, l’indipendenza dei giudici de jure e, dall’altro lato, l’indipendenza de facto[45].
Inizio ricordando l’enunciazione di principio da cui è partita la Grande Camera della Corte di Strasburgo ed a tenore della quale “la nozione di separazione dei poteri tra organo esecutivo ed organo giudiziario ha assunto una crescente importanza nella giurisprudenza [della Corte]” e lo stesso può dirsi in merito all’“importanza di salvaguardare l’indipendenza della magistratura”[46]. Così statuendo la Corte ha individuato “un filo conduttore comune che attraversa i requisiti istituzionali previsti dall’articolo 6, par.1, tutti orientati a sostenere i principi fondamentali del rule of law e della separazione dei poteri”[47]. Infatti, la “base di ciascuno dei suddetti requisiti è costituita dalla necessità di mantenere ferma la fiducia che la società nutre nel sistema giudiziario e di salvaguardare l’indipendenza della magistratura rispetto agli altri poteri”[48].
Tenuto conto di ciò, in alcuni recenti discorsi extragiudiziari ho enfatizzato che il principio del rule of law si ridurrebbe ad “un serbatoio vuoto se non vi fossero tribunali indipendenti ed integrati all’interno di una struttura democratica volta a tutelare e preservare i diritti fondamentali. Senza giudici indipendenti, infatti, il sistema della Convenzione non può funzionare”[49]. La Corte è e continuerà sempre ad essere consapevole di quanto sia di cruciale rilievo garantire l’indipendenza della comunità dei giudici europei, che costituisce il baluardo del sistema della Convenzione.
L’indipendenza della magistratura si caratterizza per la presenza sia di una componente de facto che di una componente de jure. Per quanto riguarda l’indipendenza de jure, in una serie di importanti pronunce della Grande Camera, la Corte ha chiarito che è la legge stessa a dover prevedere garanzie chiare e prevedibili poste a presidio dell’attività giudiziaria e dello status dei giudici. Ciò vale in particolare in relazione agli atti di nomina, alle garanzie che devono assistere il mandato e i procedimenti di rimozione e destituzione, le promozioni, l’inamovibilità, l’immunità giudiziaria e la discipina della responsabilità disciplinare[50].
A tal proposito, rivestono indubbia rilevanza i recenti arresti della giurisprudenza della Corte in tema di rimozione dei giudici ed in particolare quanto statuito nel caso Oleksandr Volkov c. Ucraina[51] e nelle sentenze della Grande Camera rese nei casi Baka c. Ungheria e Denisov c. Ucraina [52]. Nel loro insieme, le pronunce da ultimo citate sostengono la tesi secondo cui la rimozione dei magistrati, se analizzata nella prospettiva degli articoli 6, 8 o 10 della Convenzione, sarà sempre sottoposta allo stringente scrutinio della Corte di Starsburgo, alla luce del principio di inamovibilità. In primo luogo, la Corte ha analizzato il ruolo svolto da organi, quali i Consigli della Magistratura, nei procedimenti disciplinari e di rimozione dei magistrati[53] ed ha riconosciuto che, in tali situazioni, il giudice, in linea di principio, potrà adire la Corte di Strasburgo ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione[54]. In secondo luogo, la rimozione di un giudice potrebbe altresì ledere il diritto al rispetto della propria vita privata, sancito dall’articolo 8 della Convenzione[55]. Inoltre, come chiarito dalla Corte, quando un giudice subisce la rimozione per opinioni espresse nell’esercizio delle proprie funzioni, troverà applicazione l’articolo 10 della Convenzione, in forza del quale devono sussistere validi motivi posti a fondamento della rimozione, che ne dimostrino l’urgente esigenza sociale e che tengano altresì conto del principio della separazione dei poteri e dell’indipendenza della magistratura[56]. In sintesi, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sviluppatasi intorno al tema della rimozione dei giudici e dell’applicazione agli stessi di sanzioni disciplinari, costituisce una fondamentale manifestazione del dispiegarsi del principio del rule of law, nel senso che questo abbraccia uno dei requisiti della indipendenza de jure della magistratura.
Tuttavia, per quanto l’indipendenza formale de jure rappresenti l’impianto normativo che disciplina lo status dei giudici e la loro attività, questa da sola non è sufficiente per garantire ed assicurare in modo adeguato l’indipendenza della magistratura. È invece ancor più necessario che venga rispettato il requisito dell’indipendenza de facto. Da ciò consegue che, come spiegato dalla Corte nel caso Agrokomplex c. Ucraina, la portata dell’obbligo che grava sullo Stato di garantire che i processi si svolgano davanti a “tribunali indipendenti ed imparziali” – come previsto dall’articolo 6 par. 1 della Convenzione – “si estende fino al punto che anche l’esecutivo, il legislatore ed ogni altra autorità statale, indipendentemente dal livello, sono gravati dall’obbligo di rispettare e dare esecuzione alle sentenze ed alle decisioni giudiziarie, ancorchè per loro sfavorevoli. Il rispetto dello Stato per l’autorità delle corti costituisce una premessa indipensabile affinchè il pubblico riponga fiducia nei giudici e, più in generale, nel rule of law. Perché ciò avvenga, non sono sufficienti le garanzie sancite a livello costituzionale a presidio dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura. Tali garanzie devono piuttosto essere incomporate nelle attitudini e nelle pratiche quotidiane dell’amministrazione”[57].
Il requisito da ultimo citato si pone a garanzia dell’indipendenza de facto della magistratura ed è stato ulteriormente sviluppato dalla giurisprudenza della Corte nel caso Kinský c. Repubblica Ceca[58] e nella recente causa Rinau c. Lituania[59]. Entrambe le pronunce hanno ritenuto che le dichiarazioni pubbliche rese dai politici, insieme ad altre misure adottate dall’esecutivo al fine di monitorare i procedimenti giudiziari, avevano inciso sull’equità dei processi in questione, che ancora pendevano dinanzi ai tribunali nazionali. In particolare, nel caso Rinau, la Corte ha stabilito che le autorità nazionali, inclusi i membri della classe politica, il personale dei servizi sociali per l’assistenza all’infanzia ed i pubblici ministeri, avevano creato un’atmosfera negativa intorno alle cause legali intentate dal ricorrente e che tali azioni realizzavano dei tentativi di interferenza sull’esito di quelle cause; tentativi che sono stati ritenuti inaccettabili per un sistema basato sul rule of law[60].
Con queste decisioni la Corte ha chiarito che la Convenzione non rimane cieca davanti al fatto che i confini formali dell’indipendenza della magistratura possono ben rappresentare solo una messinscena. Per quanto svolga un ruolo determinante, infatti, neanche l’indipendenza de jure è in grado di soddisfare da sola i requisiti del rule of law enucleabili dalla Convenzione che, al contrario, trovano espressione in una magistratura concretamente indipendente. In tal senso, le prove presentate alla Corte attestanti pressioni ed influenze indebite esercitate sui giudici nell’esercizio delle loro funzioni potrebbero di per sè portare a concludere che in un particolare caso non è stata, de facto, garantita l’indipendenza della magistratura, o potrebbero anche far sorgere preoccupazioni di natura sistemica. Non è infatti da escludere che tali elementi probatori possano portare ad una violazione degli articoli 5 par.4 e 6 della Convenzione nei casi in cui questi vengono invocati, sebbene la Corte abbia fissato degli standards molto elevati a tal fine[61]. Inoltre, prove di questa natura possono avere un impatto sul livello di rispetto riconosciuto ai tribunali nazionali, anche in quelle cause in cui la Corte viene chiamata ad esaminare ricorsi concernenti la violazione di altre disposizioni, come ad esempio nel sopra citato caso Rinau c. Lituania in relazione al dirito alla vita privata di cui all’articolo 8. Infine, prove vertenti su pressioni esercitate sui giudici nell’esercizio delle loro funzioni o elementi comprovanti tentativi di coloro che detengono il potere di influenzare l’attività giudiziaria, possono costituire un importante e decisivo fattore per la Corte per esaminare, ai sensi dell’articolo 18, le accuse di adozione di misure volte a limitare i diritti garantiti dalla Convenzione[62].
4.2. L’indipendenza del sistema giudiziario nei procedimenti promossi ai sensi dell‘articolo 5 della Convenzione da giudici detenuti
Il crescente impatto normativo assunto dal rule law si è reso ancora più evidente nelle recenti pronunce della Corte aventi ad oggetto il principio dell’indipendenza del sistema giudiziario implicato nei procedimenti riguardanti la detenzione di giudici in Turchia, successivamente al tentativo di colpo di Stato nel luglio 2016; ricorsi esaminati alla luce dell’articolo 5 della Convenzione.
In tali decisioni, la Corte, laddobe ha accertato violazioni dell’articolo 5 par.1 della Convenzione, ha ribadito “il ruolo determinante svolto dal sistema giudiziario, il quale assurge a garante della giustizia, valore imprescindibile per uno Stato governato dal rule of law, e che pertanto deve godere della fiducia dell’opinione pubblica per potere adempiere con successo ai propri doveri”. “[Laddove] il diritto nazionale ha concesso tutela giudiziaria ai membri della magistratura al fine di salvaguardarne l’esercizio indipendente delle funzioni, è essenziale che tali disposizioni siano correttamente rispettate. In considerazione della posizione di rilievo che la magistratura ricopre in una società democratica rispetto agli altri organi statali e considerando la crescente importanza accordata sia al principio della separazione dei poteri che alla salvaguardia dell’indipendenza del sistema giudiziario” [la Corte ha affermato che] “deve essere prestata particolare attenzione alla tutela dei membri della magistratura nel riesaminare dal punto di vista della Convenzione i modi in cui è stata data applicazione all’ordine di detenzione”[63].
Queste pronunce rappresentano la quintessenza della giurisprudenza della Corte sul rule of law grazie alla quale i vari componenti di questo principio, presi cumulativamente, concorrono a costruire la base di una rigorosa applicazione dell’articolo 5, par.1 della Convenzione. Il principio dell’indipendenza della magistratura, caposaldo del rule of law, è metodologicamente connesso, per così dire, con un altro suo componente fondamentale, ossia il principio di legalità che agisce come forte strumento interpretativo dando vita, in questo contesto, ai requisiti enucleati dal citato articolo 5 par. 1. Ciò permette alla Corte di procedere ad un controllo rigoroso dell’applicazione della norma nazionale invocata a fondamento della detenzione di membri della magistratura. Tali pronunce costituiscono, pertanto, un esempio manifesto della valutazione che la Corte compie del rischio che il potere governativo venga usato in un modo che si scontra eccessivamente con l’indipendenza della magistratura. Dimostrano, pertanto, ancora una volta che la Convenzione, nella sua interpretazione e applicazione, non tollera estremi.
4.3. Il diritto ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge previsto dall’Articolo 6 par. 1 della Convenzione
Il diritto ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge è sancito dall’articolo 6 par. 1 della Convenzione e rappresenta uno dei capisaldi del rule of law convenzionale. La Corte vanta una casistica giurisprudenziale ben sviluppata intorno ai concetti di ‘indipendenza’ e di ‘imparzialità’ dei giudici[64]. Ciononostante, la questione sull’applicabilità dell’articolo 6 par. 1 anche nei casi in cui la nomina dei magistrati viene effettuata da altri organi di governo di uno Stato Membro è stata risolta per la prima volta dalla storica sentenza della Grande Camera pronunciata l’1 dicembre 2020 nel caso Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda[65]. In questa pronuncia, la Corte ha concluso all’unanimità che lo Stato convenuto era incorso in una violazione dell’articolo 6 par. 1 a causa delle gravi violazioni del diritto interno, verificatesi nel corso della procedura di nomina di un giudice presso la Corte d’Appello di Islanda che era stata recentemente istituita.
I seguenti quattro passaggi della sentenza citata meritano una speciale attenzione. Il primo, l’articolazione dell’oggetto e dello scopo del diritto ad un tribunale istituito per legge. Il secondo, l’ambito di applicazione di tale diritto che nell’impianto dell’articolo 6 della Convenzione agisce quale diritto autonomo. Il terzo, i passaggi metodologici da seguire al fine di accertare un’eventuale violazione del diritto. Il quarto, l’individuazione del delicato bilanciamento tra il diritto previsto dall’articolo 6 e gli interessi compensativi costituiti dai principi della certezza del diritto e di inamovibilità dei giudici.
Per quanto riguarda il primo dei punti sopra elencati, come affermato dalla Corte, ai sensi dell’Articolo 6 par.1 della Convenzione, un tribunale o una corte devono sempre essere istituiti per legge, in quanto questa espressione riflette il principio del rule of law che è inerente all’intero impianto convenzionale. Un tribunale che non è costituito in conformità con le intenzioni del legislatore sarà conseguentemente privo di quella legittimità, richiesta in una società democratica, indispensabile per risolvere le dispute legali. L’oggetto della locuzione “costituito per legge” è volto ad assicurare che “in una società democratica, l’organizzazione del sistema giudiziario non dipenda dalla discrezionalità del potere esecutivo, ma venga regolata per mano di una legge adottata dal Parlamento”. Sul punto, la Grande Camera ha affermato che, in uno Stato democratico governato dal rule of law, la procedura di nomina dei giudici, date le sue rilevanti implicazioni in termini di buon funzionamento e di legittimità del potere giudiziario, è un elemento che inerisce necessariamente alla nozione di ‘istituzione per legge’ di una corte o di un tribunale e un’interpretazione in senso contrario si porrebbe in contrapposizione con lo stesso scopo perseguito del requisito in questione[66].
Per questi motivi, la Corte, unitamente ad un’interpretazione letterale della norma ed in particolare della locuzione “costituzione”, ha parimenti adottato il classico criterio interpretativo intenzionale o teleologico basato interamente sul principio del rule of law, ed ha così concluso che la nomina dei giudici rientra, in linea di principio, nel campo di applicazione del diritto previsto dall’articolo 6 par.1 della Convenzione
In merito al secondo passaggio della sentenza , la Corte ha decretato che il diritto ad un “tribunale istituito dalla legge” costituisce un “diritto autonomo” ai sensi dell’articolo 6 par.1 della Convenzione sebbene abbia una “molto stretta interrelazione” con le garanzie di “indipendenza ed imparzialità”[67]. È importante valutare il significato dottrinale della conclusione interpretativa offerta dalla Corte. In primo luogo, quest’ultima non ha dovuto pronunciarsi nè sulla effettiva mancanza, o meno, di indipendenza e imparzialità[68] del giudice di Corte d’Appello, la cui nomina era avvenuta violando le disposizioni convenzionali, né, in secondo luogo, sulla generale assenza di equità nel procedimento instaurato dal ricorrente[69]. La ragione di tale scelta deve essere individuata nel fatto che, in questa sede, il rule of law agisce nella sua dimensione ibrida[70], ossia nella veste sia di norma dal contenuto fisso (richiedendo quindi che i giudici siano nominati in conformità con la normativa nazionale) sia di principio giuridico (quale strumento di ottimizzazione), rappresentando così la principale premessa strutturale per il godimento del generale diritto ad un equo processo. Pertanto, se si accerta che, secondo il test di soglia stabilito dalla Corte - di cui si dirà in seguito - un giudice è stato nominato in violazione dell’articolo 6 par. 1 della Convenzione e questi si pronuncia sui diritti civili di un soggetto o su un’imputazione penale, non occorre un’analisi separata circa l’effettiva e concreta equità del processo, sia che la decisione venga adottata dal giudice singolo che da un collegio giudicante. La violazione del diritto ad un tribunale costituito per legge, come diritto autonomo e naturale componente fondamentale del rule of law, crea una incontestabile presunzione di ingiustizia di quei procedimenti giudiziari in cui ha preso parte il giudice nominato illegittimamente. Tornerò sul punto nel successivo paragrafo 4.4, nell’analisi del rapporto tra la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella della CGUE.
Nel terzo passaggio la Corte ha elaborato un test di soglia (threshold test) che si compone di tre fasi. In primo luogo, si impone una verifica circa il carattere manifesto delle violazioni del diritto nazionale in materia di nomina dei giudici; se così fosse, il secondo passaggio richiede di valutare se le violazioni hanno riguardato una regola procedurale fondamentale[71]. Infine, si dovrà determinare se le accuse relative alle violazioni del diritto ad un tribunale costituito per legge siano state effettivamente esaminate e risolte dalle corti nazionali[72].
Il criterio elaborato dalla Grande Camera fissa una soglia molto alta di accertamento della violazione del diritto ad un tribunale costituito per legge. Si cerca in tal modo di conciliare le tensioni intrinseche tra il principio di sussidiarietà - che richiede di deferire ai tribunali nazionali l’interpretazione e l’applicazione della normativa interna - ed il principio di effettività della tutela dei diritti convenzionali, ed in particolare dei diritti di cui all’articolo 6, par. 1 che assicurano l’indipendenza del sistema giudiziario. Il test di soglia, infatti, si fonda in gran parte sull’effettivo impegno dei tribunali nazionali nell’individuare i casi in cui si è verificata una manifesta violazione del diritto interno in sede di nomina dei giudici e, in caso affermativo, impone loro l’obbligo di riesaminare e riparare efficacemente alle accuse credibili di tali violazioni. Inoltre, il secondo step delinea e limita allo stesso tempo la portata del diritto ad un tribunale costituito per legge, nella misura in cui richiede che la violazione in questione, ancorché manifesta, debba riguardare una norma procedurale fondamentale. Sebbene la Corte di Strasburgo, in sede di analisi del ricorso, prenderà spunto dalla valutazione compiuta a riguardo dal giudice nazionale, l’autonomia che caratterizza la natura del diritto in questione ed il fatto che lo stesso rinviene le sue origini nel principio del rule of law, fanno sì che sia sempre la Corte ad avere l’ultima parola nell’accertare se il grado della violazione in questione sia abbastanza elevato da potere costituire una violazione dell’articolo 6 par. 1 della Convenzione[73]. Se così non fosse, d’altronde, la Convenzione verrebbe privata del suo scopo.
Infine, in merito al quarto ed ultimo passaggio, la sentenza della Corte chiarisce i termini del conflitto sostanziale tra il diritto ad un tribunale costituito per legge, da un lato, e i principi di inamovibilità dei giudici e di certezza del diritto, dall’altro. Per tale ragione, la Grande Camera ha formulato la seconda fase del test di soglia in modo tale che, per potersi raggiungere il livello di una potenziale violazione dell’articolo 6 par. 1 della Convenzione, è necessario che la violazione del diritto nazionale presenti un certo grado di serietà o gravità. È importante notare che nel delineare la portata ed il contenuto del principio di inamovibilità dei giudici, la Grande Camera richiama espressamente[74] la sentenza Corte di Giustizia dell’Unione Europea resa dalla Grande Camera nel Caso Commissione c. Polonia[75].
Riassumendo gli approdi a cui è giunta la Corte nel caso Ástráðsson, da questa importante sentenza possono trarsi le seguenti conclusioni.
In primo luogo, quando si discorre del diritto ad un tribunale costituito per legge e del diritto ad un tribunale indipendente ed imparziale, come previsti dell’articolo 6, par. 1 della Convenzione, il rule of law agisce tanto nella veste di principio giuridico dotato di un dirompente effetto interpretativo, quanto nella veste di fonte del diritto da cui trarre dei parametri fissi.
In secondo luogo, è semplicemente incompatibile con il rule of law che la istituzione di una corte, e quindi la creazione del potere giudiziario, si fondi su uno o più atti che violano manifestamente le norme fondamentali in materia di nomina dei giudici previste dal diritto nazionale, nonché sulla mancanza di un rigoroso controllo giurisdizionale a livello nazionale.
In terza battuta, quale norma incorporata all’interno dell’articolo 6 della Convenzione, il rule of law impone che, quando gli Stati adottano un impianto normativo che disciplina l’istituzione dei tribunali, tali regole siano rispettate. Infatti, come spiegato nella sentenza Ástráðsson, quando la selezione dei giudici da nominare compete all’organo di governo e/o al Parlamento, sarà allora compito dei tribunali nazionali determinare per primi se il diritto nazionale è stato o meno rispettato, fermo restando che il controllo finale, in virtù dell’autonomia dei principi previsti dall’articolo 6 della Convenzione, spetta sempre alla Corte di Strasburgo. Allo stesso modo, per quanto riguarda l’individuazione della manifesta violazione del diritto nazionale, la Corte, in linea di principio, rimette la decisione ai tribunali nazionali, salvo che la loro decisione non appaia arbitraria o manifestatamente irragionevole. In ogni caso, in merito alla natura di tali violazioni, e per quanto riguarda in particolare le loro conseguenze, ai fini dell’articolo 6 della Convenzione, il principio di sussidiarietà non precluderà lo svolgimento di una stringente supervisione europea ad opera della Corte.
Infine, gli Stati mantengono la loro generale libertà di scegliere il quadro normativo da applicare in materia di nomina dei giudici sulla base delle loro tradizioni giuridiche e delle loro strutture costituzionali. Tuttavia, tali regole e procedure devono pur sempre conformarsi ai requisiti derivanti dai principi primordiali del rule of law, che trovano espressione nelle caratteristiche di indipendenza e imparzialità previste dall’articolo 6 della Convenzione.
4.4. La relazione simbiotica tra le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo sul tema dell‘indipendenza della magistratura
Come è noto, negli ultimi anni si sono succedute rilevanti pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul principio dell’indipendenza della magistratura, come delineato dal Trattato sull’Unione Europea (TUE) e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. In particolare, si fa riferimento alle sentenze rese nel caso Commissione c. Ungheria[76], nel caso dei Giudici Portoghesi[77], in Ministro della Giustizia e dell’Uguaglianza c. Celmer (LM)[78], nel caso della Riforma Giudiziaria Polacca [79], ed ancora più recentemente nella sentenza, quale seguito al caso LM, nel caso Openbaar Ministerie (Indépendance de l’autorité judiciaire d’émission)[80]. L’essenza di tali sentenze, come si evince dalla fiducia che la CGUE ha riposto nelle pronunce della Corte di Strasburgo, e viceversa, è facilmente enucleabile dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, essendosi manifestata, in questo importante settore del diritto, quella che può essere definita una relazione simbiotica tra le due Corti, per quanto è naturale che le sfide rimangano. A tale proposito, meritano di essere svolte quattro osservazioni.
In primo luogo, quando si confronta la giurisprudenza delle rispettive Corti, è importante considerare che la CGUE, nell’interpretazione delle due disposizioni fondamentali che regolano il suo approccio al principio dell’indipendenza della magistratura – l’articolo 19 par. 1 TUE sull’effettività della tutela giurisdizionale e l’articolo 47 della Carta – fa riferimento al quadro di valori sancito dall’articolo 2 TUE, ossia al “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, del rule of law e rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. Alcuni potrebbero chiedersi se il quadro dei valori presente all’interno dell’UE sia diverso rispetto a quello della Convenzione Europea. A tale domanda non può che darsi una risposta negativa. Guardando al Preambolo della Convenzione, all’essenza delle sue disposizioni e dei suoi protolli, ed alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, è evidente che esiste una simmetria di valori tra il sistema convenzionale e quello eurounitario. Tale simmetria costituisce un rilevante elemento sostanziale comune ad entrambi i sistemi che favorisce il necessario dialogo giuridico tra le due Corti.
In secondo luogo, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sviluppatasi in materia di rule of law e di indipendenza della magistratura ha tratto ispirazione dal principio in forza del quale gli Stati Membri devono predisporre strumenti nazionali effettivi a tutela dei diritti fondamentali. In generale, il suddetto principio si riflette anche negli articoli 13 e 35 della Convenzione e costituisce, altresì, un elemento concettuale su cui si radica il principio-quadro generale di sussidiarietà. Volgendo lo sguardo all’evoluzione della giuridsprudenza eurounitaria sul principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’articolo 19, par.1 TUE, si può notare che le premesse concettuali da cui partono le due Corti coincidono. Infatti, è evidente che il principio di sussidiarietà delineato dalla Convenzione sarebbe privo di ogni significato, se gli Stati membri non garantissero, sul piano normativo ed applicativo, l’esistenza di tribunali indipendenti e imparziali necessari per apprestare un’efficace tutela dei diritti fondamentali. La stessa logica, mutatis mutandis, sembra ispirare l’interpretazione offerta dalla CGUE del principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’articolo 19, par.1 TUE, trattandosi inoltre di una disposizione che è stata espressamente collegata dalla Corte di Lussemburgo agli articoli 6 e 13 della Convenzione. Pertanto, come già affermato nel Caso dei Giudici Portoghesi, il principio sancito dall’articolo 19 par. 1 TUE fa parte dei principi generali del diritto eurounitario, che trova le sue origini nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati Membri, oltre che negli articoli 6 e 13 della Convenzione[81]. Come ha affermato il Presidente Lenaerts, l’interpretazione fornita dalla CGUE dell’articolo 19 par. 1 TUE “si basa su una chiave di lettura strutturale dell’ordinamento giuridico dell’UE: le Corti nazionali indipendenti – in quanto giudici competenti a dare applicazione ed esecuzione al diritto dell’UE negli Stati Membri – sono un elemento essenziale della struttura costituzionale dell’Unione”[82]. In sintesi, si prospetta l’opportunità per entrambe le Corti, in stretta collaborazione con i sistemi giudiziari nazionali (cd. comunità europea dei giudici), di continuare a prendere piena consapevolezza dei rispettivi traguardi giurisprudenzali, per dare, in futuro, ulteriore sviluppo a questi principi.
In terzo luogo, uno dei principi trasversali più complessi che influisce sulla portata e sul contenuto dell’indipendenza della magistratura è il principio di inamovibilità dei giudici, a cui ho già fatto riferimento. Sul punto, nel caso Commissione c. Polonia, la CGUE ha affermato che il principio di inamovibilità “per quanto non sia assoluto, non ammette eccezioni che non siano giustificate da motivi legittimi e cogenti, e che rispettino il principio di proporzionalità” [83]. Si tratta di un’importante dichiarazione di principio che è stata invocata esplicitamente anche dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo nel caso Ástráðsson [84] e che fornisce un ottimo esempio della natura simbiotica del dialogo che intercorre tra le due Corti.
La questione giuridica sollevata dal caso Ástráðsson richiedeva di chiarire se una grave violazione della vigente legislazione nazionale in materia di nomina di un giudice, potesse potenzialmente essere considerata, dopo un attento bilanciamento degli interessi in gioco, un motivo legittimo e convincente su cui fondare una deroga al principio di inamovibilità dei giudici. La Corte ha risposto affermativamente a tale interrogativo[85], fermo restando che la violazione della legislazione nazionale deve rispettare l’elevata soglia di gravità risultante dai rigidi criteri elaborati dalla Grande Camera nella sentenza analizzata nel precedente paragrafo. A questo proposito, va accolto con favore il fatto che nel contesto del diritto eurounitario, la CGUE (facendo riferimento alle conclusioni della sentenza della Camera resa nel caso Ástráðsson, che sono sostanzialmente rimaste invariate anche nella sentenza della Grande Camera) [86] ha già adottato, nei casi Simpson e HG[87], un simile test di violazione per la valutazione di un ricorso che lamenti l’inosservanza del diritto ad un “tribunale precostituito per legge”, diritto sancito dall’articolo 47 par.2 della Carta.
Infine, nella decisione resa nel caso LM [88], la CGUE ha riconosciuto che le lacune normative nazionali di uno Stato Membro relative all’indipendenza della magistratura possono costituire una carenza sistemica o generalizzata del sistema giudiziario domestico che minaccia il rispetto del rule of law ed intacca il sistema comunitario del mutuo riconoscimento come espresso nella disciplina del Mandato d’Arresto Europeo (cd. MAE)[89]. In tale ambito, la CGUE ha elaborato una verifica su due livelli, che è stata recentemente riconfermata nel caso Openbaar Ministerie[90], laddove l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve valutare se sussiste un concreto pericolo di violazione del diritto ad un equo processo; pericolo che deve essere fondato su indici oggettivi, affidabili, specifici ed adeguatamente aggiornati e che devono riconnettersi a sistematiche lacune concernenti l’indipendenza della magistratura dello Stato Membro di emissione. Il secondo livello della verifica, invece, impone all’autorità dell’esecuzione di appurare con precisione in che misura tali lacune possano avere un impatto sui tribunali dello Stato Membro di emissione, che saranno investiti dei procedimenti a cui sarà soggetta la persona ricercata. In tale contesto l’autorità giudiziaria deve considerare la situazione personale del ricercato, la natura delle offese per cui è perseguito ed il contesto fattuale in cui quel mandato d’arresto è stato emesso. Infine, alla luce di tutte le informazioni fornite dallo Stato Membro di emissione, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve valutare se vi sono fondati motivi per ritenere che, una volta consegnata, quella persona correrà il rischio di subire una violazione del diritto ad un equo processo[91].
La Corte di Strasburgo non ha ancora preso posizione sulla verifica bifasica elaborata dalla CGUE in materia di MAE, nei casi implicanti l’indipendenza della magistratura. Pertanto, in mancanza di una pronuncia sulla conformità di suddetta verifica all’articolo 6 par.1 della Convenzione, non mi soffermerò su tale aspetto, salvo analizzarne due punti generali [92].
Innanzitutto, l’approccio bifasico elaborato dalla CGUE, che guida l’autorità giudiziaria di esecuzione nell’esame delle richieste di MAE volte alla consegna di una persona ad un altro Stato di emissione, deve essere valutato con rigore, calandolo nel particolare contesto eurounitario che si fonda sul principio del mutuo riconoscimento. Come sottolineato esplicitamente dalla CGUE nel caso Openbaar Ministerie, ove un’autorità giudiziaria di esecuzione abbia prove di carenze sistemiche o generalizzate relative all’indipendenza della magistratura dello Stato Membro di emissione, “l’esistenza di tali carenze non incide necessariamente su ogni decisione che i giudici di tale Stato Membro possono essere indotti ad adottare in ciascun caso specifico”. La ratio primaria di questa interpretazione, secondo la CGUE, risiede nel fatto che una opposta conclusione, ossia un rifiuto di dare esecuzione al MAE basato solo sul primo livello della verifica, estenderebbe i limiti che possono essere posti ai principi di reciproca fiducia e di mutuo riconoscimento, al di là di quelle “circostanze eccezionali” individuate dalla CGUE e riscontrabili nella sua giurisprudenza. Così procedendo, si giungerebbe ad escludere la generale applicazione di tali principi in quelle ipotesi in cui vengano emanati dei MAE dai giudici dello Stato Membro interessato da tali carenze [93]. Ne consegue che l’interpretazione adottata dalla CGUE, insieme alla verifica bifasica dalla stessa elaborata, risultano necessariamente influenzate dalla specifica natura e dagli scopi perseguiti dal sistema di mutuo riconoscimento[94]; un sistema che nell’ambito del diritto comunitario deve avere un’inevitabile influenza sul ruolo ricoperto in materia di MAE dal principio dell’indipendenza della magistratura previsto dall’articolo 47 della Carta [95].
In secondo luogo, è importante non perdere di vista le differenze intercorrenti tra la disciplina che regola l’emissione del MAE e i casi presentati alla Corte di Strasburgo, in cui il ricorrente fa valere ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione la violazione del diritto ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge. Nel primo caso, infatti, viene in rilievo un sistema intraeuropeo di norme giuridiche le quali richiedono che il giudice di uno Stato Membro compia una valutazione extraterritoriale sul livello di indipendenza dei tribunali di un altro Stato in procedimenti ancora pendenti. Mentre, quando nel secondo caso la Corte di Strasburgo constata l’esistenza di una responsabilità statale ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, la sua pronuncia si dirige allo Stato Membro in cui la corte o il tribunale si trova e davanti al quale pende il procedimento di cui è parte il ricorrente. Inoltre, è importante sottolineare che, affinchè la Corte di Strasburgo possa pronunciarsi nel merito, è necessario che, ai sensi dell’articolo 35 par.1 della Convenzione, venga soddisfatta la condizione del previo esaurimento delle vie di ricorso interne, richiedendosi quindi che i procedimenti nazionali si siano già conclusi.
In tali casi e come verificatosi nella causa Ástráðsson, la Corte di Strasburgo, per stabilire se il diritto ad un tribunale indipendente ed imparziale istituito per legge previsto dall’articolo 6 della Convenzione sia stato effettivamente rispettato, è chiamata a svolgere un esame diretto del funzionamento del sistema giudiziario all’interno Stato convenuto. L’esame di tali ricorsi non è quindi concettualmente riconducibile a quel tipo di valutazione basata sul rischio (risk-based assessment), che è invece in linea di principio applicabile per l’esame dei ricorsi convenzionali vertenti su un contesto extraterritoriale, compresi quelli concernenti il sistema del MAE[96]. In ogni caso, ove venisse depositato un ricorso convenzionale avente ad oggetto il funzionamento del sistema del MAE in connessione con il principio dell’indipendenza della magistratura ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, la Corte di Strasburgo dovrà stabilire in che misura possa tenere conto della natura e degli scopi che soggiacciono al sistema eurounitario del mutuo riconoscimento[U1] , come ha già fatto nella sua giurisprudenza nella applicazione della verifica di carenza manifesta[97]. In questa valutazione, la Corte di Strasburgo potrebbe dover considerare l’elevata soglia fissata dalla verifica del “manifesto diniego di giustizia”, e già applicata quando viene in rilievo, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, l’ambito extraterritoriale del sistema del MAE. Tale verifica è stata applicata nel caso Stapleton c. Irlanda [98] ed, in particolare, nella recente sentenza nel caso Pirozzi c. Belgio [99].
5. Conclusione
Concludo da dove ho iniziato. Il rule of law è un principio costituzionale fondamentale nel sistema europeo di protezione dei diritti umani. Come ho tentato di spiegare, il rule of law ha costituito la lodestar che ha guidato per decenni l’evoluzione della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A seguito degli sviluppi nello spazio giuridico del Consiglio d’Europa, l’impatto normativo di questo principio si è andato incrementando nella giurisprudenza della Corte, ed in particolare nei casi in cui viene in rilievo il principio di indipendenza ed imparzialità della magistratura che è stato spiegato al dettaglio in questo articolo. È quindi di massima importanza che il concetto essenziale di rule of law, il suo status normativo all’interno del sistema della Convenzione e le sue varie manifestazioni, continuino a riflettersi in modo coerente quali principi nella giurisprudenza della Corte. Deve parimenti darsi rilievo al fatto che le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo continuano a sviluppare e rinforzare il loro costante dialogo giurisprudenziale in tale ambito.
Recentemente, alcuni si sono domandati se il rule of law sia diventato uno slogan senza valore, una fantasia che ha perso ogni parvenza di realismo nel nostro mondo polarizzato, un mondo sempre più ricco di divisioni che non derivano da semplici ragionevoli differenze di opinioni, ma al contrario da visioni drammaticamente contrastanti su quelli che sono i principi primi della vita comunitaria. È chiaro che la risposta a questo quesito, come spero emerga dalla trattazione di questo articolo, non può che essere negativa. I tentativi di legittimare concezioni realistiche del rule of law, spesso legate a politiche di identità nazionale ed a definizioni parrocchiali di bene comune e definite dal cerchio chiuso dei potenti, devono essere respinti[100]. Il principio di rule of law delineato dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, quale componente fondamentale dell’ordine pubblico europeo, è concettualmente incapace di essere trasformato, sì da potersi adattare all’agenda politica di coloro che sono alla ricerca di poteri illimitati e mirano alla sottomissione del sistema indipendente del controllo giudiziario[101]. Il principio del rule of law, la Stella Polare della Convenzione, è organicamente inserito in un sistema di diritto internazionale che rifiuta inequivocabilmente l’uso arbitrario del potere governativo.
N.d.T.: La scelta di non tradurre “rule of law” scaturisce dal rischio che si incorre nel ridurre ad un unum incastrato nella tradizione linguistica e giuridica del paese di traduzione, un concetto come il rule of law dal contenuto prettamente composito. Cristallizzare una definizione di rule of law potrebbe risultare riduttivo e correrebbe il rischio di ridurne la sua profonda complessità Sul punto anche Roberto Bin, Rule of law e ideologie, in Rule of Law. L'ideale della legalità, a cura di G. Pino e V. Villa, il Mulino, Bologna 37-60: “Non è più il Rechtsstaat a riproporsi nella traduzione verso le diverse lingue nazionali del continente europeo, ma è il concetto di rule of law a entrare nell'uso comune. Entra senza alcuna traduzione, perché la traduzione in un'altra lingua ne forzerebbe il senso.”
[1] Presidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, giudice eletto per l’Islanda. Vorrei ringraziare la mia stagista, Ms Ingunn Elísabet Markúsdóttir, per la sua eccellente assistenza alla ricerca nella redazione di questo articolo. Tutte le idee espresse in questa sede sono personali.
[2] L’articolo non esplorerà le più ampie origini storiche del rule of law (l’État de droit prééminence de droit, rechtsstaat);per una discussione esauriente in proposito si veda Brian Z. Tamanaha, The Rule of Law – History, Politics, Theory (2004), Capitoli 1-4. Per quanto l’argomento su cui verte il presente articolo è il principio del rule of law delineato dalla Convenzione, preme chiarire che la sua interdipendenza con agli altri principi fondamentali di democrazia e di tutela dei diritti umani ha di certo un grande significato per il complessivo sistema tratteggiato dalla Convenzione come traspare, oltre che dal suo Preambolo, anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; in merito all’articolo 3 del Protocollo n.1, cfr. per esempio, Selahattin Demirtaş c. Turchia (N. 2) [GC] (14305/17), 22 dicembre 2020, par. 382: “The Court reiterates that democracy constitutes a fundamental element of the “European public order”, and the rights guaranteed under Article 3 of Protocol No. 1 are crucial to establishing and maintaining the foundations of an effective and meaningful democracy governed by the rule of law”. Cfr. anche, Mugemangango c. Belgio [GC] (n. 310/15), 10 luglio 2020, par. 67.
[3] Cfr. il successivo paragrafo 3 ed i riferimenti ivi riportati.
[4] Alcuni hanno affermato che il “rule of law should not be the touchstone for all elements in the juristic landscape”, cfr. William Lucy, "Access to Justice and the Rule of Law", Oxford Journal of Legal Studies, Vol. 40, N. 2 (2020), pp. 377-402, pag. 402.
[5] Costituiscono passaggi cardine di questo tentativo: Lon Fuller, The Morality of Law (1964), Joseph Raz, ‘The Rule of Law and Its Virtue’, in The Authority of Law: Essays On Law and Morality 210 (1979), ed anche Raz, ‘The Law’s Own Virtue’, Oxford Journal of Legal Studies, Vol. 39, N. 1 (2019), 1-15. Più recentemente si veda anche, Lord Bingham, The Rule of Law (2010). Per un resoconto storico e teorico più completo, Brian Z. Tamanaha, The Rule of Law – History, Politics, Theory (2004). Rimanendo nell’ambito del sistema della Convenzione, Geranne Lautenbach, The Concept of the Rule of Law and The European Court of Human Rights (2013).
[6] Golder c. Regno Unito [PL] (n. 4451/70), 21 febbraio 1975, Serie A 18, par. 3.
[7] Rozkhov c. Russia (n. 2) (n. 38898/04), 31 gennaio 2017, par. 76.
[8] Ramda c. Francia (n. 78477/11), 19 dicembre 2017, par. 60.
[9] Sottolineatura aggiunta.
[10] General Assembly Resolution 217 A, 10 dicembre 1948. I primi due considerando del Preambolo della Convenzione recitano quanto segue: “Considering the Universal Declaration of Human Rights proclaimed by the General Assembly of the United Nations on 10th December 1948; Considering that this Declaration aims at securing the universal and effective recognition and observance of the Rights therein declared….”
[11] Sottolineatura aggiunta.
[12] Prendo atto dell’opinione sostenuta da Raz, ibidem, pag. 10, secondo cui non è corretto che il riferimento della Dichiarazione delle Nazioni Unite debba essere interpretato nel senso che “the doctrine of the rule of law includes conformity to human rights”. Raz in effetti afferma che “it is clear authority to the contrary: the rule of law is separate from human rights, but should be used to protect them”. Nel successivo paragrafo 3, discuterò dello status normativo del rule of law all’interno del sistema della Convenzione e rifletterò sul dibattito tra coloro che, come Raz, sostengono una concezione cd. sottile del principio, anche denominata la “tesi senza diritti” (no-rights thesis) (cfr. Evan Fox-Decent, ‘Is the Rule of Law Really Indifferent to Human Rights’, Law and Philosophy (2008) 27, 533-581, 533) e coloro invece che, come Lord Bingham, ibidem, sostengono una versione più spessa (thicker version) del rule of law, cfr. anche Paul Lemmens, The Protection of Human Rights: A Noble Task for Courts, (2020), 27.
[13] Quando in questo contesto si fa riferimento all’autonomia personale, è importante chiarire che ciò non significa che la Convenzione considera l’individuo ed i suoi diritti separatamente rispetto alla più ampia comunità a cui la persona appartiene. Come ho osservato altrove, i diritti sanciti dalla Convenzione, ed in particolare quelli che ammettono deroghe giustificate, “not mere expressions of the rights and responsibilities of individuals as islands unto themselves, but, importantly, of their status and responsibilities within a democratic and communal (social entity)”; Robert Spano, ‘The Future of the European Court of Human Rights – Subsidiarity, Process-Based Review and the Rule of Law’, Human Rights Law Review, 2018, 18, 473-494, 483.
[14] Sinkova c. Ucraina (n. 39496/11), 27 febbraio 2018, par. 68, Baydar c. Paesi Bassi (n. 55385/14), 24 aprile 2018, par. 39.
[15] Işikirik c. Turchia (n. 41226/09), 14 novembre 2017, par. 57-58.
[16] Del Río Prada c Spagna [GC] (n. 42750/09, 21 ottobre 2013, par. 78 e 80. Si veda anche Advisory Opinion concerning the use of the “blanket reference” or “legislation by reference” technique in the definition of an offence and the standards of comparison between the criminal law in force at the time of the commission of the offence and the amended criminal law (P16-2019-001), 29 maggio 2020, par. 75-92.
[17] Panorama Ltd. e Miličić c. Bosnia ed Erzegovina (n. 69997/10 e 7493/11), 25 luglio 2017, par. 63. Nel caso Selahattin Demirtaş c. Turchia (N. 2) [GC] ibidem, la Corte ha anche confermato la sua precedente opinione a tenore della quale “laws which are directed against specific persons are contrary to the rule of law”, par. 269..
[18] Roman Zakharov c. Russia [GC] (n. 47143/06), 4 dicembre 2015, par. 230; Beghal c. Regno Unito (n. 4755/16), 28 febbraio 2019, par. 88.
[19] Si veda il successivo paragrafo 4.
[20] Panorama Ltd. e Miličić c. Bosnia ed Erzegovina (n. 69997/10 e 74793/11), 25 luglio 2017, par. 62; Irlanda c. Regno Unito (riesame) (n. 5310/71), 20 marzo 2018, par. 122.
[21] Trattasi di un procedimento in cui si denunciava alla Corte la violazione dell’articolo 46 par. 4; il caso Ilgar Mammadov c, Azerbaijan [GC] (n. 15172/13), 29 maggio 2019, par 149.
[22] Martin Krygier, ‘The Rule of Law: Pasts, Presents, and a Possible Future’, Paper for seminar co-sponsored by Center for Study of Law & Society and the Kadish Center for Morality, Law and Public Affairs, University of California, Berkele, marzo 2016, pag. 6: “A common thought has been that left to their own devices wielders of power cannot be relied on to avoid exercising it arbitrarily, and will constantly face the temptation and in many circumstances the incentive to act in their own, rather than the public interest (however that is defined). …”.
[23] Anche organi di rilievo delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa hanno cercato di individuare in termini piuttosto precisi la portata ed il contenuto del principio del rule of law. Si fa particolare riferimento alla Risoluzione A/67/L/1, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 24 settembre 2012 (Declaration of the high-level meeting of the General Assembly on the rule of law at the national and international levels) e alla Rule of Law Checklist elaborata dalla Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa ed adottata nella sua 106ma Sessione Plenaria (11-12 marzo 2016); cfr. Pauliine Koskelo, ‘The State of the European Union – entrapment for those committed to its core values?’ Thyssen Lectures 2017-2021 (2020), p. 21.
[24] Raz, ibidem, p. 2-3: “Importantly, these conditions of individual and social prosperity are universal: different societies have different cuisines, different social relations and manners, different economic structures, different religions or non, etc. But all require stability and predictability, and above all they must be intelligible to those subject to them, for people to feel at home within the framework of the law, and to have confidence and self-reliance to plan their life. … Hence the universality of the [rule of law]. …”
[25] Quando è stata adottata nel 1948, inizialmente quarantotto paesi hanno votato in favore dell’adozione della Dichiarazione, mentre otto paesi si sono astenuti e due non hanno partecipato al voto. Per un resoconto particolarmente interessante sul punto si veda, Oona Hathaway and Scott J. Shapiro, The Internationalists: How a Radical Plan to Outlaw War Remade the World (2017), p. 515.
[26] Aliyev c. Azerbaigian (n. 68762/14 e 71200/14), 20 settembre 2018, par. 225.
[27] Per una pronuncia della Grande Camera sul punto, si veda Al-Dulimi e Montana Management Inc. c. Svizzera [GC], n. 5809/08, 21 giugno 2016, par. 145: “… One of the fundamental components of European public order is the principle of the rule of law, and arbitrariness constitutes the negation of that principle”. Si veda anche la recente sentenza pronunciata dalla Camera nel caso Aliev c. Azerbaigian, ibidem, par. 225. Dovrebbe notarsi che la Corte ha inoltre statuito che “democracy constitutes a fundamental element of the ‘European public order’”, si veda Selahattin Demirtaş c. Turchia (N. 2) [GC], ibidem, par. 382.
[28] Angelika Nussberger, The European Court of Human Rights (2020), 38: ‘The Council of Europe was founded in 1949 with the aim of preserving the European heritage of democracy, human rights, and the rule of law”. Come sarà analizzato nel successivo paragrafo 4.4, la CGUE ha chiarito che l’Unione Europea rinviene le sue fondamenta nei valori sanciti dall’articolo 2 TUE, il quale include il rispetto del rule of law, si veda in particolare CGUE, Caso C-64/16, Associaçāo Sindical dos Juízes Portugueses, EU:C:2018:117, par. 32.
[29] Pişkin c Turchia (n. 33399/18), 15 dicembre 2020 (non definitiva), par. 153. Come ho sottolineato altrove “[a] state of emergency is not an open invitation to States Parties to erode the foundations of a democratic society based on the rule of law and the protection of human rights”, si veda Robert Spano, ibidem, 493. Anche Evan J. Criddle and Evan Fox-Decent, ‘Human Rights, Emergencies, and the Rule of Law’, Human Rights Quarterly, Vol. 34, N. 1 (2012), 39-87. Relativamente al contesto normativo statunitense, per una discussione approfondita sull’opportunità che “constitutional constraints on government action [should] be suspended in times of emergency (because emergencies are ‘extraconstitutional’), or [whether] constitutional doctrines forged in calmer times adequately accommodate exigent circumstances” si veda Lindsay F. Wiley e Stephen I. Vladeck, ‘Coronavirus, Civil Liberties, and the Courts: The Case Against “Suspending” Judicial Review’, Harvard Law Review, Vol. 133 (2020), 179-198, p. 180.
[30] Per una pronuncia della Grande Camera sul punto, si veda Lekić c. Slovenia [GC] (n. 36480/07), 14 febbraio 2017, par. 86 e più recentemente Selahattin Demirtaş c. Turchia (N. 2) [GC] ibidem, par. 249: “…the rule of law, which is expressly mentioned in the Preamble to the Convention and is inherent in its Articles.”
[31] Siofra O’Leary, giudice della Corte EDU e Presidente di Sezione, ha sostenuto che “[ever] since [Golder v the United Kingdom, the court has] used the rule of law as an interpretative tool for the development of substantive guarantees set forth in the Convention”; cfr. ‘Europe and the Rule of Law’, The EU Charter of Fundamental Rights in the Member States (M. Bobek and J. Prass (eds.), (2020), 37-68, 60.
[32] Si veda in proposito il successivo paragrafo 4.
[33] Mi riferisco all’analisi teorica sulla distinzione tra principi e regole elaborata dal professor Robert Alexi nel suo fondamentale lavoro, A Theory of Constitutional Rights (2010), 47.
[34] Robert Spano, ‘The Democratic Virtue of Human Rights Law – Response to Lord Sumption’s Reith Lectures’ [2020] E.H.R.L.R, Issue 2 (2020), 132-139, p. 138. Si veda anche Robert Deinhammer, ‘The Rule of Law: Its Virtues and Limits’, Obnovljeni život 74(1), 33-44, 37, il quale afferma che “in aiming to reduce arbitrariness and despotism, the rule of law can be seen as a principle that ensures a minimum of rationality and reasonableness within the political process”.
[35] A questo proposito, è importante sottolineare il valore che ricopre nel sistema del Consiglio d’Europa l’operazione svolta dalla Commissione di Venezia, la quale ha chiaramente basato il proprio lavoro sul rule of law e sulla sua “versione spessa”, si veda in particolare CDL-AD(2011)003rev-e Report on the rule of law – adottato nella sua 86ma Sessione Plenaria (25-26 marzo 2011) e la Rule of Law Checklist, adottata nella sua 106ma Sessione Plenaria (11-12 marzo 2016).
[36] Qualcuno ha definito la versione sottile del rule of law un “concetto non basato su diritti” (no-rights based concept), si veda, Evan Fox-Decent, ibidem, p. 533. Anche, Randall P. Peerenboom, ’Human Rights and Rule of Law: What’s the relationship?’, UCLA Public Law & Legal Theory Series (2005), 18-28. In misura simile, Ronald Dworkin ha operato una nota distinzione tra la “rule-book” conception del rule of law e una concezione“basata sui diritti” (“rights” conception of rule of law), si veda in proposito il suo A Matter of Principle (1985), p. 11.
[37] Uspakich c. Lituania (n. 14737/08), 20 dicembre 2016, par. 87.
[38] Refah Partisi (the Welfare Party) e Altri c.Turchia [GC] (n. 41340/98), CEDU 2003, par. 93.
[39] Döner e Altri c. Turchia (n. 29994/02), 7 marzo 2017, par. 107. Si veda anche, Magyar Kétfarkú Kutya Párt c. Ungheria [GC] (n. 201/17), 20 gennaio 2020, par. 101: “In the Court’s opinion, this kind of supervision naturally extends to the assessment of whether the legal basis relied on by the authorities in restricting the freedom of expression of a political party was foreseeable in its effects to an extent ruling out any arbitrariness in its application. A rigorous supervision here not only serves to protect democratic political parties from arbitrary interferences by the authorities, but also protects democracy itself, since any restriction on freedom of expression in this context without sufficiently foreseeable regulations can harm open political debate, the legitimacy of the voting process and its results and, ultimately, the confidence of citizens in the integrity of democratic institutions and their commitment to the rule of law”.
[40] Aliyev c. Azerbaijan, ibidem, par. 223.
[41] Joseph Raz, ibidem.
[42] Lord Bingham, ibidem. Il mio omologo, Koen Lenaerts, Presidente della CGUE, ha parimenti sottolineato “that fundamental rights, democracy and the rule or law are interdependent, as one cannot exist without the other”, si veda ‘The Two Dimensions of Judicial Independence in the EU Legal Order’, Fair Trial: Regional and International Perspectives, Liber Amicorum Linos-Alexandre Sicilianos (2020), 333-348, p. 348.
[43] Il principio di legalità di cui agli articoli 5, par.1 e 7 della Convenzione comprende un primordiale diritto convenzionale di rule of law (primordial rule of law Convention right). Differentemente da altre disposizioni, quali gli articoli 8-11, che richiedono che deroghe ai diritti sanciti dalla Convenzione dovrebbero essere “previste dalla legge” ed in cui il rule of law si atteggia a principio giuridico; i diritti di cui agli articoli 5, par.1 e 7 della Convenzione, invece, richiedono che esista una base giuridica sufficientemente accessibile e prevedibile affinchè una persona possa essere privata legittimamente della propria libertà personale e condannata penalmente. Tali diritti costituiscono, pertanto, l’esempio di norme di rule of law a contenuto fisso. Non è quindi un caso che la Corte ha escluso che lo stesso tipo di deferenza spetti ai legislatori ed ai giudici nazionali nei casi in cui, in sede di applicazione delle norme domestiche, procedano ad controllo meno rigoroso della legalità simile a quello di cui agli articoli 8-11 della Convenzione pur ove sia implicato il principio di legalità di cui agli articoli 5 par. 1 e 7 si veda nell’ambito dell’articolo 7, Kononov c. Lettonia [GC] (n. 36376/04), 17 maggio 2010, § 198: “… the Court’s powers of review must be greater when the Convention right itself, Article 7 in the present case, requires that there was a legal basis for a conviction and sentence. Article 7 § 1 requires the Court to examine whether there was a contemporaneous legal basis for the applicant’s conviction and, in particular, it must satisfy itself that the result reached by the relevant domestic courts (a conviction for war crimes pursuant to section 68-3 of the former Criminal Code) was compatible with Article 7 of the Convention, even if there were differences between the legal approach and reasoning of this Court and the relevant domestic decisions. To accord a lesser power of review to this Court would render Article 7 devoid of purpose”.
[44] Nella giurisprudenza della CGUE (Caso C-506-04, Wilson, EU:C:2006:587, §§ 49-52) il concetto di indipendenza della magistratura è stato diviso in due aspetti, uno esterno e l’altro interno. L’indipendenza esterna richiede che “judges must be protected against external intervention or pressure that could jeopardise their independent judgment in proceedings before them, while the second internal aspect is linked to impartiality and seeks to ensure a level playing field for the parties to proceedings and their respective interests with regard to the subject matter of those proceedings”; si veda Michal Vilaras, ‘The Rule of Law Milestone: Upholding Judicial Independence in the Member States under Union Law’, Fair Trial: Regional and International Perspectives, Liber Amicorum Linos-Alexandre Sicilianos (2020), 709-722, 710.
[45] Il mio collega Giudice della Corte Pauliine Koskelo ha sottolineato, secondo me correttamente, che “independence of office alone provides no guarantees unless it is associated with an independence of mind. Judges must not only be institutionally but also intellectually independent and impartial”. Si veda ibidem, p. 24. La Grande Camera della Corte di Strasburgo si è pronunciata in modo simile nel caso Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda [GC] ((n. 26374/18), 1 Dicembre 2020)): “it is inherent in the very notion of a “tribunal” that it be composed of judges selected on the basis of merit – that is judges who fulfil the requirements of technical competence and moral integrity to perform the judicial functions required in a State governed by the rule of law”, si veda par. 220.
[46] Baka c. Ungheria [GC] (n. 20261/12), 23 giugno 2016, par. 165. Si veda inoltre il successivo paragrafo 4.3. Nel caso Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda [GC], ibidem, par. 215, la Corte ha evidenziato che “neither Article 6 nor any other provision of the Convention requires States to comply with any theoretical constitutional concepts regarding the permissible limits of the powers’ interaction … In the Court’s opinion, a certain interaction between the three branches of government is not only inevitable, but also necessary, to the extent that the respective powers do not unduly encroach upon one another’s functions and competences. …”.
[47] Si veda, Aikaterini Tsampi, ‘Separation of Powers and the Right to A Fair Trial under Article 6 ECHR: Empowering the Independence of the Judiciary in the Subsidiarity Epoch’, Fair Trial: Regional and International Perspectives, Liber Amicorum Linos-Alexandre Sicilianos (2020), 693-707.
[48] Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda [GC], ibidem, n 41, par. 233. Sul tema della fiducia dell’opinione pubblica nel sistema giudiziario si veda Michail N. Pikramenos, ‘Public Confidence and the Judiciary in a Democratic Society’, Fair Trial: Regional and International Perspectives, Liber Amicorum Linos-Alexandre Sicilianos (2020), 417-426.
[49] Robert Spano, Conference of the Ministers of Justice of the Council of Europe: “Independence of Justice and the Rule of Law”, Strasburgo, 9 novembre 2020; ed anche Human Rights Lecture at the Justice Academy of Turkey – “Judicial Independence – The Cornerstone of the Rule of Law”, Ankara, 3 settembre 2020.
[50] Baka c. Ungheria [GC], ibidem, Ramos Nunes de Carvalho E SÁ c. Portogallo [GC] (n. 55391/13), 6 Novembre 2018; Denisov c. Ucraina [GC] (n. 76639/11), 25 settembre 2018; più recentemente, Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda [GC], ibidem.
[51] Oleksandr Volkov c. Ucraina (n. 21722/11), 9 gennaio 2013.
[52] Baka c. Ungheria [GC], ibidem; Denisov c. Ucraina [GC], ibidem.
[53] Ramos Nunes de Carvalho E SÁ c. Portogallo [GC], ibidem. Si veda anche Selahattin Demirtaş c. Turchia (N. 2) [GC], ibidem, in cui la Corte, in relazione all’articolo 18 della Convenzione (si veda par. 434), si è basata sulle conclusioni a cui era giunta la Commissione di Venezia, constatando che, in Turchia, “composition of the Supreme Council [of Judges and Prosecutors in Turkey] would seriously endanger the independence of the judiciary because it was the main self-governing body of the judiciary, overseeing appointments, promotions, transfers, disciplinary measures and the dismissal of judges and public prosecutors. It added that “[g]etting control over the [Supreme Council] thus means getting control over judges and public prosecutors, especially in a country where the dismissal of judges is frequent and where transfers of judges are a common practice””.
[54] Baka c. Ungheria [GC], ibidem, par. 107-119, Denisov c. Ucraina [GC], ibidem, par. 44-57. Si deve notare che nel caso Baka, l’ex Presidente Linos-Alexandre Sicilianos, in una opinione separata concorrente (concurring opinion) ampiamente discussa ha sostenuto che vi sono forti argomenti a favore di un’interpretazione dell’articolo 6, par.1 della Convenzione che riconosca – parallelamente al diritto delle persone coinvolte in procedimenti giudiziari di adire un tribunale indipendente ed imparziale – anche un “subjective right for judges to have their individual independence safeguarded and respected by the State”. La Corte di Strasburgo, al momento, non ha abbracciato questo approccio e, pertanto, non prenderò posizione sulla questione. Vorrei semplicemente osservare che tale sviluppo si porrebbe in linea sia con l’attuale strada intrapresa dalla giurisprudenza su questo tema che con la solida applicazione del rule of law che per ora permea la giurisprudenza della Corte. A questo proposito deve rilevarsi che anche il diritto comunitario “protects national judges in their institutional capacity as members of the courts of general jurisdiction for the application and enforcement of that law”. Il Presidente Koen Lenaerts ha spiegato che, differentemente dalla visione offerta dall’ex Presidente Sicilianos, che considera essere basata su un “fundamental rights discourse”, l’approccio della CGUE si basa piuttosto su un “rule of law discourse”, si veda Koen Lenaerts, ibidem, p. 334-335.
[55] Denisov c. Ucraina [GC], ibidem, par. 92-117.
[56] Baka c. Ungheria [GC], ibidem, par. 140-176.
[57] Agrokompleks c. Ucraina (n. 23465/03), 6 ottobre 2011, par. 136.
[58] Kinský c. Repubblica Ceca (n. 42856/06), 9 febbraio 2012, par. 98.
[59] Rinau c. Lituania (n. 10926/09), 14 gennaio 2020, par. 211.
[60]Rinau c. Lituania , ibidem, par. 211.
[61] Si veda, il caso Baş c. Turchia (n. 66448/17), 3 marzo 2020, in cui il ricorrente aveva denunciato una violazione dell’articolo 5, par.4, a seguito della mancanza di indipendenza e imparzialità dei magistrati turchi che avevano disposto la sua detenzione. La Corte ha ritenuto che i principi sull’indipendenza del potere giudiziario, sviluppati sulla base dell’articolo 6 par. 1 della Convenzione, si applicano ugualmente anche ove venga in rilievo l’articolo 5 par. 4; si veda par.268. Nel respingere il ricorso in quanto manifestatamente infondato la Corte ha considerato, inter alia, che era “unable to establish, on the basis of the materials in its possession, any correlation between the statements by the executive and the decisions by the magistrates’ courts …”, par. 276.
[62] Si veda, Kavala c. Turchia (n. 28749/18), 10 dicembre 2019, par. 229; Selahattin Demirtaş c. Turchia (N. 2) [GC], ibidem, par. 432-436 ed in particolare il par. 436: “In the present case, the concordant inferences drawn from this background support the argument that the judicial authorities reacted harshly to the applicant’s conduct as one of the leaders of the opposition, to the conduct of other HDP members of parliament and elected mayors, and to dissenting voices more generally”. Per un’analisi generale ed una critica della giurisprudenza della Corte sull’articolo 18, si veda Egidijus Kūris, ‘Wrestling With the ‘Hidden Agenda’ – Towards a Coherent Methodology for Article 18 Cases’, Human Rights with a Human Touch, Liber Amicorum Paul Lemmens (2019), 539-574.
[63] Alparslan Altan c. Turchia (n. 12778/17), 16 aprile 2019, par. 102; Baş c. Turchia, ibidem, par. 144.
[64] Ramos Nunes de Carvalho E SÁ c. Portogallo [GC], ibidem, par. 144-150.
[65] Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda [GC], ibidem.
[66] Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ibidem, par. 211, 214 e 227.
[67] Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ibidem, par. 231.
[68] Una maggioranza della Grande Camera (12 voti contro 5) ha quindi ritenuto che non era necessario esaminare separatamente la denuncia del ricorrente in merito alla mancanza di indipendenza e imparzialità del giudice della Corte d’Appello in questione, si veda Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ibidem, par. 295.
[69] Riguardo a questo punto, i giudici O’Leary, Ravarani, Kucsko-Stadlmayer e Ilievski hanno prospettato una visione diversa in un’opinione separata congiunta parzialmente concorrente e parzialmente dissenziente (joint partly concurring, partly dissenting opinion). Si vedano in particolare i par. 30-33.
[70] Si veda l’analisi svolta nel precedente paragrafo 3.
[71] Per una discussione sulla sentenza della Camera cfr. Jean-Paul Costa, ‘Qu’est-ce qu’un tribunal établi par la loi? Fair Trial: Regional and International Perspectives, Liber Amicorum Linos-Alexandre Sicilianos (2020), 101-106, 103, e Aikaterini Tsampi, ibidem, 702-704.
[72] Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ibidem, par. 243-252.
[73] Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ibidem, par. 250-251.
[74] Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ibidem, par. 239.
[75] CGUE, Caso C-619/18, Commissione c. Polonia (Indipendenza della Corte Suprema), EU:C:2019:531, par. 76: “While it is not wholly absolute, there can be no exceptions to [the principle of irremovability of judges] unless they are warranted by legitimate and compelling grounds, subject to the principle of proportionality”.
[76] CGUE, Caso C-286/16, Commissione c. Ungheria, EU:C:2012:687.
[77] CGUE, Caso C-64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses c. Tribunal de Contas, ibidem, n 24.
[78] CGUE, Caso C-216/18 PPU, Ministero della Giustizia e dell’Uguaglianza c. Celmer (il caso ‘LM’), EU:C:2018:586.
[79] CGUE, Caso C-192/18, Commissione c. Polonia (Indipendenza dei tribunali ordinari), EU:C:2019:924; Caso C-619/18, Commissione c. Polonia (Independenza della Corte Suprema), ibidem; e CGUE, Cause riunite C-585/18 e C-625/18, AK e Altri (Indipendenza della Sezione Disciplinare della Corte Suprema), EU:C:2019:982.
[80] CGUE, Cause riunite C-354/20 PPU e C-412/20 PPU, Openbaar Ministerie (Indépendance de l’autorité d’émission), 17 dicembre 2020.
[81] CGUE, Caso C-64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses c. Tribunal de Contas, ibidem, par. 35.
[82] Koen Lenaerts, ‘The Two Dimensions of Judicial Independence in the EU Legal Order’, ibidem, p. 346.
[83] CGUE, Caso C-619/18, Commissione c. Polania (Independenza della Corte Suprema), ibidem, par. 76. Si veda, Koen Lenaerts, ‘The Two Dimensions of Judicial Independence in the EU Legal Order’, ibidem, p. 344.
[84] Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ibidem, par. 239.
[85] Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ibidem, par. 240: “A finding that a court is not a “tribunal established by law” may, evidently, have considerable ramifications for the principles of legal certainty and irremovability of judges, principles which must be carefully observed having regard to the important purposes they serve. That said, upholding those principles at all costs, and at the expense of the requirements of “a tribunal established by law”, may in certain circumstances inflict even further harm on the rule of law and on public confidence in the judiciary. As in all cases where the fundamental principles of the Convention come into conflict, a balance must therefore be struck in such instances to determine whether there is a pressing need – of a substantial and compelling character – justifying the departure from the principle of legal certainty and the force of res judicata (see, for instance, Sutyazhnik, cited above, § 38) and the principle of irremovability of judges, as relevant, in the particular circumstances of a case”.
[86] Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ibidem, par. 242. Va notato che nella loro opinione separata congiunta parziamente concorrente e parzialmente dissenziente (joint partly concurring, partly dissenting opinion), i Giudici O’Leary, Ravarani, Kucsko-Stadlmayer e Ilievski si sono espressi (par.39) in modo leggermente diverso sull’affidamento che Grande Camera ha riposto nella sentenza resa dalla CGUE nel caso Simpson e HG, ibidemem: “The CJEU did not reject the logic of the Chamber’s departure in Ástráðsson, but in our view clearly sought to work around it. In particular, it relied on the principle of legal certainty, which it regarded as necessary to ensure the stability of the judicial system, in order to avoid any automaticity in terms of consequences (the setting aside of a judicial decision in which the impugned judge had participated) which the new departure in this Court’s case-law risked – and now risks – entailing”.
[87] CGUE, Cause riunite C-542/18 RX-II and C-543/18 RX-II, Simpson e HG, 26 marzo 2020, par. 74-76.
[88] CGEU, Caso C-216/18 PPU, Ministero della Giustizia e dell’Uguaglianza c. Celmer (il caso ‘LM’), ibidem.
[89] Decisione Quadro del Consiglio 2002/584/JHA del 13 giugno 2002 relativa al mandato d'arresto europeo ed alle procedure di consegna tra Stati membri (Oj 2002 L 190, p.1), come modificata dalla Decisione Quadro del Consiglio 2009/299/JHA del 26 febbraio 2009 (Oj 2009 L 81, p. 24).
[90] CGUE, Cause riunite C-354/20 PPU e C-412/20 PPU, Openbaar Ministerie (Indépendance de l’autorité d’émission), ibidem.
[91] CGUE, Caso C-216/18 PPU, Ministero della Giustizia e dell’Uguaglianza c. Celmer (il caso “LM”), ibidem, par. 61 e 74-77.
[92] Sul punto si veda l’opinione congiuta parzialmente concordante e parzialmente dissenziente (joint partly concurring, partly dissenting opinion) dei giudici O’Leary, Ravarani, Kucsko-Stadlmayer e Ilievski in Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ibidem, par. 40.
[93] CJEU, Cause riunite C-354/20 PPU e C-412/20 PPU, Openbaar Ministerie (Indépendance de l’autorité d’émission), ibidem, par. 41-43.
[94] Dean Spielmann, ‘La notion de l’État de droit dans la jurisprudence de la Cour de justice de l’Union européenneʼ, Liber Amicorum in memoriam of Stavros Tsakyrakis (2020), 354-372, p. 355-356: “L’emploi par la Cour de “l’État de droit” doit donc toujours être placé dans le contexte spécifique de la structure de l’ordre juridique de l’UE: la CJUE n’a pas recours à cette notion dans l’abstrait. Le recours à “l’État de droit” se met toujours au service de la garantie de la primauté de l’ordre juridique de l’UE par rapport à ceux des États membres, en ce qui concerne les actes mettant en œuvre le droit de l’Union. En outre, l’État de droit est étroitement associé au principe de la confiance mutuelle, érigée par la CJUE en principe constitutionnel de l’UE. La CJUE considère que la confiance mutuelle entre les États membres présuppose l’existence d’un espace constitutionnel unifié et régi par les mêmes valeurs. …”.
[95] Il giudice Koskelo si è dichiarato preoccupato in merito all’approccio bifasico della CGUE, ibidem, p. 48-49: “This is a very tall order for the national judges. One may wonder whether and how they will be in a position to make those double determinations, which concern complex situations outside their own jurisdictions. … Although independence is at the core, and although systemic problems exist, mutual recognition should be denied only where the individual risks suffering specific harm from a lack of this core requirement. This appears to pose quite a problematic contradiction. … Now, … we have landed in a situation where, as the foundations on which mutual recognition is based is failing, the national courts are required to engage with and to verify matters they were not supposed to have to worry about or to deal with”.
[96] La pronuncia di inammissibilità resa nel caso Stapleton c. Irlanda (n. 56588/07), 4 maggio 2010; la decisione adottata nel caso Othman (Abu Qatada) c. Regno Unito (n. 8139/09), 17 gennaio 2012, ed in particolare la sentenza del caso Pirozzi c. Belgio (n. 21055/11), 17 aprile 2018, costituiscono importanti esempi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’applicazione extraterritoriale dell’articolo 6 della Convenzione in materia penale. Nel primo dei casi citati (Stapleton), un magistrato facente parte del tribunale inglese aveva emesso un Mandato d’Arresto Europeo, fondato su diverse accuse di frode, per l’arresto del ricorrente il quale viveva in Irlanda. Quest’ultimo, davanti ai tribunali irlandesi, sosteneva che se fosse stato consegnato dall’Irlanda al Regno Unito, avrebbe corso il rischio di essere sottoposto ad un processo iniquo in quanto, dato che si era celebrato in contumacia, il processo aveva subito un eccessivo ritardo. La Corte Suprema Irlandese, disattendendo le istanze del ricorrente, emetteva un ordinanza che disponeva di procedersi con la consegna alle autorità britanniche. Sul punto, la Corte di Strasburgo ha rilevato, inter alia, che “right to a fair trial in criminal proceedings, as embodied in Article 6, holds a prominent place in a democratic society so that the Court does not exclude that an issue might, exceptionally, be raised under Article 6 by an extradition decision in circumstances where the fugitive has suffered or risks suffering a flagrant denial of a fair trial in the requesting country”, si veda par. 25. In ogni caso, nel respingere le istanze del ricorrente in quanto manifestatamente infondate e richiamando la sua giurisprudenza, la Corte ha osservato che “delay in prosecuting a crime does not, necessarily and in and of itself, render criminal proceedings unfair under Article 6”, par.26. Nel secondo dei casi citati (Othman), il ricorrente si era appellato, inter alia, all’articolo 6 della Convenzione, in quanto se fosse stato processato in Giordania per uno dei reati per i quali era stato condannato in contumacia sarebbe stato soggetto ad un reale rischio di “manifesto diniego di giustizia”. La Corte ha accolto il ricorso e ha constato che l’espulsione del ricorrente in Giordania avrebbe configurato una violazione dell’articolo 6 della Convenzione, in quanto nel nuovo processo a carico del ricorrente esisteva il reale rischio di ammissione di prove ottenute tramite la tortura di terzi, si vedano in particolare par.258-287. Nel terzo ed ultimo dei casi richiamati (Pirozzi), il ricorrente lamentava che la sua consegna da parte delle autorità belghe alle autorità italiane, esecutiva di un mandato d’arresto europeo, era avvenuta in violazione dell’articolo 6 par.1 della Convenzione, in quanto il mandato era stato emesso a seguito di condanna pronunciata in contumacia da un tribunale italiano. I procedimenti in Italia erano quindi contrari alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo del caso Sejdovic c. Italia [GC] (n. 56581/00, CEDH 2006-II). La Corte, in primo luogo, ha ricordato che, all’interno di questo contesto extraterritoriale, si verificherebbe una violazione dell’articolo 6, par. 1 della Convenzione solo in via eccezionale, ossia ove un sospettato abbia subito o rischiasse di subire ove consegnato allo Stato ricevente, un “grave diniego di giustizia” (si veda par.57). La Corte ha poi confermato la conclusione a cui era giunta nel caso Avotiņš c. Lettonia [GC] ((n. 17502/07), 23 maggio 2016, par. 116), ossia che, in uno “spirito di complementarietà”, si sarebbe comuque tenuto conto del “manner in which the EU mechanisms of mutual recognition operate and in particular the aim of effectiveness which they pursue”. In ogni caso, ove venga presentata davanti ai tribunali di uno Stato una “denuncia grave e motivata” in cui si afferma che la tutela di un diritto sancito dalla Convenzione è stata “manifestatamente carente” e che il diritto dell’Unione Europea non può porvi rimedio, i tribunali aditi non possono astranersi dall’esaminare tale denuncia per il solo motivo che in questo modo stanno dando applicazione al diritto comunitario. Pertanto, procedendo all’applicazione della “verifica di carenza manifesta”, nell’ambito della soglia molto elevata fissata dalla Convenzione, la quale esige la dimostrazione che il procedimento in Italia costituiva un “grave diniego di giustizia”, la Corte di Strasburgo ha concluso escludendo che vi fosse stata una violazione dell’articolo 6, par.1.
[97] Si veda, Avotiņš c. Lettonia [GC], ibidem, par. 116; Romeo Castaño c. Belgio (n. 8351/17), 9 Luglio 2019, par. 84, ed in particolare, Pirozzi c. Belgio (n. 21055/11), ibidem, par. 62-64.
[98] Stapleton c. Irlanda (n. 8139/09), ibidem.
[99] Pirozzi c. Belgio (n. 21055/11), ibidem.
[100] Va tuttavia sottolineato, come già spiegato dal giudice Koskelo, che “[even] societies where the rule of law is seemingly well established are not free from [risks that it be neglected or eroded]. Respect for the rule of law is not only a matter of the requisite constitutional guarantees being formally in place. It is ultimately also a matter of constitutional culture. A genuine and resilient respect for the rule of law must be solidly rooted not only in the formal legal structures or the rhetoric customs of society, but in the actual practice of governance. The most testing moments are not those of harmony but situations where tensions arise”, ibidem, p. 28.
[101] Per una analisi di rilievo sulle sfide dell’epoca contemporanea per il sistema della Convenzione, si veda Jan Petrov, ‘The Populist Challenge to the European Court of Human Rights’, International Journal of Constitutional Law, Vol. 18, Numero 2 (2020), 476-508.
[U1]However, if confronted with an application lodged under the Convention directed at the operation of the EAW system under Article 6 of the Convention, within the context of judicial independence, the Strasbourg Court will have to determine to what extent it can take due account of the nature and purposes of the EU system of mutual recognition, as it has done in its existing case-law applying the manifest deficiency test.
Deontologia come habitus. Percorsi e sviluppi per la professione di assistente sociale
di Maria Pia Fontana
Riflettere con serietà e lucidità sull’habitus deontologico di una professione è un’operazione sfidante se si vive in un clima culturale segnato dal relativismo etico, dal pluralismo culturale e da marcate forme di individualismo che minano il senso del noi anche quando esso riguarda una categoria professionale. Eppure, se consideriamo la capacità umana di percepire i limiti e di discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato come una condizione essenziale della sana vita di relazione, non possiamo fare a meno dell’etica e, in particolare, di quell’etica pratica che si esprime anche attraverso il lavoro. Esiste un rapporto direttamente proporzionale tra l’aderenza alla deontologia e la qualità dell’agire professionale che, quando si ispira a dei criteri guida, conferisce sicurezza identitaria e credibilità al professionista e tutela i beneficiari dell’attività.
Sebbene le norme deontologiche abbiano una valenza extragiuridica (e non a caso vengono definite regole di soft-law) esse mantengono un carattere di cogenza interna alla categoria professionale che, pur essendo rafforzato dalla previsione di conseguenze sanzionatorie in caso di inosservanza, non può prescindere dall’interiorizzazione delle stesse regole. Ogni professionista dovrebbe quindi indossare l’habitus della deontologia non come ornamento discrezionale o estemporaneo, ma come disposizione interiore persistente, vitale e consapevole, nucleo adamantino su cui si innestano saperi, abilità e pratiche.
Da questi presupposti prende avvio la riflessione degli Autori del testo Deontologia come habitus. Introduzione al nuovo Codice deontologico dell’assistente sociale (FrancoAngeli, 2021), Marco Giordano, Antonella Gorgoni, Antonio Nappi e Maria Pia Fontana, impegnati in uno sforzo di analisi che è già di per sé etico non solo perché ha per oggetto l’agire di una professione che sul valore della dignità umana e della giustizia sociale ha fondato la sua ragion d’essere, ma anche perché sposa il metodo della cooperazione tra pari, che fa delle sensibilità, prospettive ed esperienze individuali una risorsa comune. Attraverso la lente del loro percorso professionale, in cui il lavoro di aiuto sul campo si integra con la responsabilità di formare gli studenti dei corsi di Laurea in Servizio Sociale, gli Autori osservano temi diversi della Carta codicistica o esplorano le sfumature di significato delle medesime norme deontologiche allo scopo di costruire un’analisi organica e originale, capace di preservare le specificità soggettive e di mantenere sempre il giusto equilibrio tra teoria e prassi.
La convinzione che l’assistente sociale dovesse dotarsi di chiari criteri etici di condotta (come ad esempio il rispetto della riservatezza a tutela dei soggetti coinvolti nella relazione di aiuto) così come di un solido corpo teorico, per analizzare problemi e risorse e per promuovere processi di cambiamento, appare già in qualche pioniere della professione, durante quella fase germinale del Servizio Sociale italiano che coincise con il secondo dopoguerra e con lo sforzo di ricostruire il Paese edificando al contempo il nuovo ordinamento democratico.
Dopo un vivace percorso di crescita e consolidamento professionale durato circa settanta anni, l’assistente sociale, grazie all’istituzione degli organi di rappresentanza[1] e alla formazione universitaria, che si articola sulla laurea triennale e magistrale, si presenta oggi con un volto armonico e omogeno sul territorio nazionale. Tuttavia, la categoria professionale riflette anche una grande eterogeneità interna, per le specializzazioni post lauream dei singoli operatori, per i diversi contesti organizzativi e istituzionali di intervento, sia nel settore pubblico che privato, per la molteplicità delle funzioni (prevenzione, sostegno, recupero, progettazione, organizzazione e coordinamento di servizi, formazione e consulenza) e per il crescente appeal di nuove tipologie professionali, anche con riferimento alla libera professione.
L’originaria vocazione e missione dell’aiuto nelle varie declinazioni e dimensioni dell’operatività (individui, gruppi e comunità) si è accompagnata ad un progressivo aumento delle attribuzioni, nel quadro della complessa storia del welfare italiano, segnato ancora da forti differenze regionali.
A fronte della precoce e spiccata sensibilità deontologica, l’adozione di formali Carte codicistiche avviene solo alla fine degli anni ’90. In poco più di un ventennio si sono susseguiti quattro Codici deontologici, nel 1998, nel 2002, nel 2009 e, l’ultimo, nel giugno del 2020, tutti segnati da una crescente complessità e articolazione. II nuovo Codice, oggetto dell’analisi del testo Deontologia come Habitus, costa di 9 Titoli e 86 articoli a fronte dei 7 Titoli e dei 69 articoli della versione precedente (2009).
Questa frequenza nell’aggiornamento della Carta codicistica, se da un lato può essere intesa come una sorta di «incertezza sperimentale», dall’altro, come osserva Antonio Nappi, è anche un indicatore di un positivo orientamento verso «un processo costante di apprendimento etico da parte della comunità professionale» (p.16). Chiaramente, nell’adeguamento del Codice entrano in gioco anche altri fattori, come alcune importanti modifiche legislative (vedi entrata in vigore della Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, L.n.328/2000, che incoraggiò l’aggiornamento delle norme deontologiche adottate nel 1998) ma anche il dibattito sui temi etici professionali condotto a livello internazionale, i cambiamenti demografici e culturali, le nuove modalità gestionali e amministrative dei servizi sociali e i fenomeni sociali ed economici di portata sovranazionale (es. globalizzazione, migrazioni, ecc.).
La prima parte del libro Deontologia come Habitus analizza in modo sistematico i vari titoli della Carta deontologica ricorrendo talvolta ad uno sguardo sinottico tra i vari Codici susseguitisi nel tempo (Antonio Nappi) o approfondendo le radici culturali dei principi fondativi della professione (Antonella Gorgoni) inclusi nel Preambolo, che rappresenta una delle novità delle nuove norme deontologiche.
Vengono quindi esaminate le responsabilità generali dell’assistente sociale che trasversalmente interessano il professionista in tutti i settori di intervento, nonché quelle che entrano in gioco in modo specifico nel rapporto di aiuto con la persona (Maria Pia Fontana). Se significativa appare la sostituzione dei termini utente o cliente, con il termine persona[2], per valorizzare la dimensione relazionale del processo di aiuto e la soggettività del destinatario, residua un’eliminabile asimmetria di saperi, competenze e condizioni personali tra chi riceve sostegno e chi lo agisce. Tale simmetria a sua volta richiama la responsabilità dell’assistente sociale nel favorire processi di autodeterminazione, emancipazione e svincolo della persona dalla stessa relazione di aiuto, sebbene tale dinamica non sia esente da difficoltà.
Sempre nella prima parte del Codice troviamo l’esame delle responsabilità dell’assistente sociale verso la società, all’interno di un titolo che forse avrebbe meritato uno spazio maggiore, unitamente alle responsabilità verso i colleghi e gli altri professionisti (Marco Giordano), mentre chiude la parte analitica del libro l’analisi delle responsabilità verso l’esercizio della professione e verso la professione stessa (Antonio Nappi) con un riferimento anche ai possibili rischi di un’elencazione molto dettagliata di norme deontologiche, distinte per le diverse tipologie di assistenti sociali.
Se la parte sistematica del libro Deontologia come habitus procede metodicamente sottoponendo al vaglio i 9 Titoli della Carta codicistica attraverso le diverse traiettorie in cui si declina la responsabilità professionale, la seconda parte si apre ad alcuni approfondimenti tematici di grande attualità.
In particolare, Marco Giordano affronta la delicata questione, interna alla professione, dei dilemmi etici cui si imbatte il lavoro di aiuto quando l’operatore si trova a fronteggiare scelte problematiche e controverse, a causa del confliggere di valori contrastanti o per l’impossibilità di garantire alla persona soluzioni esenti da rischi. Sebbene da sempre i dilemmi etici siano stati connaturati all’operatività del Servizio Sociale, anche per il carattere polisemico dei suoi obiettivi e ambiti di intervento (si pensi alle diverse declinazioni e concezioni della corretta responsabilità genitoriale, dei bisogni educativi del minore o del benessere individuale) è un merito del nuovo Codice aver dedicato ai dilemmi etici una norma specifica (art.14, Titolo III). I metodi e le strategie di gestione delle situazioni che si presentano come «aree moralmente complesse» vengono esplorati dall’Autore con un riferimento alla casistica, tenendo conto anche dell’apporto che la letteratura ha dato sul tema.
Gli altri due approfondimenti tematici collocano invece l’operatività del Servizio Sociale nell’alveo di due cambiamenti epocali di ampia portata e di interesse generale: la rivoluzione digitale e lo sviluppo sostenibile.
Nello specifico, Maria Pia Fontana partendo dal riconoscimento codicistico della pari dignità dell’aiuto mediato dalla rete (art. 3, Titolo I) rispetto a quello agito attraverso relazioni dirette, prima di entrare nel merito dei rischi e delle potenzialità della relazione professionale on line, argomenta i motivi per cui la digital age solleva nuove sfide operative per il Servizio Sociale e impone l’acquisizione di nuove competenze. Infatti, se da un lato l’estensione dei diritti sociali e della democrazia, ma anche la dipendenza e la devianza si riconfigurano in senso digitale, mostrando come l’accesso alla rete sia un diritto ancora precluso a larghe fasce di popolazione ma che esso, in assenza di digital skills, possa sconfinare in abusi che il Servizio Sociale deve essere nelle condizioni di poter prevenire e recuperare, dall’altro lato si allarga l’area della disumanizzazione e si aggiunge la dimensione della disinformazione. Mentre la prima tradizionalmente coincideva con il contrasto ad ogni forma di sfruttamento, oppressione e umiliazione, oggi richiede anche di agire un ruolo di sentinella critica nei confronti degli sconfinamenti dei limiti della tecnologia che ledono la dignità umana. Inoltre, diventa necessario che pure il Servizio Sociale possa dare un apporto per contrastare la deformazione informativa sui temi sociali generata dalla comunicazione social e da internet, in quanto tale deriva nasce nella deprivazione socio-culturale e acuisce forme di accesa conflittualità e frattura sociale.
Di grande interesse sul piano degli scenari futuri del Servizio Sociale è anche la riflessione di Antonella Gorgoni, sull’intervento sociale integrato per uno sviluppo sostenibile che trova un ancoraggio nell’art.13 del Codice deontologico. Le intime correlazioni tra sviluppo integrale della persona, benessere sociale e tutela dell’ambiente sono il frutto di un percorso di riflessione teorica nonché di un’azione politica, condotto sotto la spinta dei movimenti ecologisti, che l’Autrice ricostruisce anche attraverso un’accurata prospettiva storica. È evidente infatti come le crisi e le catastrofi ambientali, i cambiamenti climatici, l’inquinamento, l’industrializzazione selvaggia e una crescita urbanistica sconsiderata, si riverberino negativamente sugli standard di vita dignitosi e acuiscano le forme di vulnerabilità sociale e di deprivazione.
La crescente sensibilità ai temi ambientali per uno sviluppo equo, sostenibile e solidale modificherà e arricchirà le pratiche e gli strumenti del Servizio Sociale di comunità e rappresenta sicuramente uno degli ambiti di intervento più originali, necessari e lungimiranti del prossimo futuro, anche per garantire una solidarietà (e responsabilità) intergenerazionale.
In definitiva il testo utilizza le norme codicistiche come opportunità di riflessione sul dinamismo di una professione che ha saputo evolversi sul piano delle dotazioni teoriche e degli strumenti di intervento modellandosi sui bisogni emergenti. Ma senza interiorizzare e praticare l’habitus deontologico a poco servono saperi e tecniche, perché solo il primo può offrire una cornice di senso e permettere di mantenere ferma la rotta verso la promozione della dignità e della irripetibile unicità di ogni soggetto in rapporto dinamico con il suo ambiente di vita e con le sue trasformazioni, rendendo vitale, creativa e vigile l’azione di aiuto.
[1] L’istituzione dell’Ordine Nazionale Assistenti sociali è stata prevista dalla legge n. 84 del 1993, recante norme su “Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell’albo professionale”.
[2] I termini di utente o cliente sono consentiti solo se si fa riferimento ad un «rapporto di committenza instaurato con una società professionale o multi-professionale o con un libero professionista» (dal Preambolo del Nuovo Codice Deontologico dell’assistente sociale)
Concessioni affidate alle società in house: una contradictio in adjecto
di Guido Greco
1. Si legge sovente in giurisprudenza che “l’affidamento in house costituisce modalità ordinaria e nient’affatto eccezionale della concessione di servizi”[1]. Del resto anche la Direttiva 2014/23/UE, in tema di aggiudicazione dei contratti di concessione, statuisce che una concessione aggiudicata ad una società in house (ivi indicata non nominativamente, ma per i requisiti che questa deve rivestire) “non rientra nell’ambito di applicazione della presente direttiva”: così confermando che sussiste compatibilità tra l’istituto della concessione e quello dell’in house, anche se la disciplina concernente il relativo affidamento fuoresce dal campo di applicazione della Direttiva.
Non dissimile è anche il tenore dell’art. 5 del nostro Codice dei contratti pubblici, che statuisce che “una concessione o un appalto pubblico, nei settori ordinari o speciali, aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato, non rientra nell’ambito di applicazione del presente codice quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni”, che sono poi le condizioni perché si possa riconoscere a detta persona giuridica il carattere dell’in house. Sicché con tale soggetto può essere indifferentemente stipulato un contratto di appalto o di concessione.
Tuttavia tale acquisizione fa insorgere più di una perplessità, almeno per quel che concerne le c.d. concessioni in house. Infatti, per quanto si possa concepire una dissociazione tra forma e sostanza (sul punto si tornerà di qui a poco), un trattamento differenziato di tali aspetti può essere assecondato finché peraltro non vengano intrinsecamente a confliggere.
Scopo delle presenti note è un approfondimento del tema, appena accennato. Non senza prima ricordare che i contratti di concessione dovrebbero concorrere “al miglioramento della concorrenza in seno al mercato interno” e dovrebbero consentire “di beneficiare delle competenze del settore privato e contribuiscono a conseguire efficienza e innovazione” (Direttiva 2014/23/UE, considerando 3). Obbiettivi, questi, incompatibili con l’in house, che di per sé preclude in radice anche l’utilizzazione di investimenti privati: con la conseguenza che viene a mancare una caratteristica tradizionalmente tipica della concessione di costruzione e gestione o della concessione di servizi, soprattutto nel caso in cui si tratta di concessione che si inquadra nel più ampio contesto di un project financing.
2. Come si ricorderà l’istituto dell’in house è di origine giurisprudenziale (della Corte di giustizia) ed è stato concepito per escludere dal regime di affidamento dei contratti pubblici quei contratti intercorrenti tra un’amministrazione aggiudicatrice (o un ente aggiudicatore) ed una propria società, avente le caratteristiche di essere estremamente dipendente dalla prima (o dal primo), quanto a proprietà delle quote o delle azioni, quanto al controllo e alla destinazione dell’attività. Infatti, sin dalla prima sentenza in argomento, si ha affidamento in house “nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale esercita sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano”[2].
Si è infatti argomentato che, in presenza di tali condizioni, non sussiste una vera e propria distinzione (sostanziale) tra soggetto affidante e soggetto affidatario e, dunque, neppure quella composizione degli interessi tra soggetti diversi, che sta alla base del contratto. Mancando, dunque, un vero e proprio contratto (sempre secondo una visione sostanzialistica del fenomeno), mancherebbe anche il presupposto per l’applicazione della disciplina comunitaria e unionale dei contratti pubblici e si può pertanto procedere con l’affidamento diretto, senza gara.
Si tratta, dunque, come si è accennato di un caso particolarmente rilevante di dissociazione tra forma (pluralità di soggetti) e sostanza (immedesimazione di un soggetto nell’altro). E tale dissociazione consente un trattamento diverso del fenomeno, a seconda che lo si consideri sotto il primo profilo o il secondo, come è confermato anche dalla disciplina positiva come si vedrà.
La società in house è espressione della c.d. libertà di autoproduzione e cioè della “libertà degli Stati membri e delle autorità pubbliche di eseguire lavori o fornire servizi direttamente al pubblico o di esternalizzare tale fornitura delegandola a terzi”[3]. Il che non significa che si tratti di libertà assoluta, almeno per le singole autorità pubblica. Tant’è che, ad esempio, in Italia (ma lo stesso vale per altri Stati membri[4] la scelta dell’in house è assoggettata a precise condizioni, sia nella fase di costituzione di una società di tal fatta (art. 5, D. Lgs. 175/2016), sia all’atto dell’affidamento ad essa del singolo servizio (art. 192, c. 2, D. Lgs. n. 50/2016, a sua volta richiamato dall’art. 16, u. c., D. Lgs. 175/2016, nonché art. 34, c. 20, d.l.179/2012).
Si tratta essenzialmente dei casi in cui il ricorso al mercato non è possibile o non è idoneo a far fronte alle esigenze del singolo servizio -c.d. fallimento del mercato-, mentre una maggiore convenienza economica, sostenibilità finanziaria e vantaggi per i cittadini presenta la scelta dell’autoproduzione). Infatti, “l’opzione di fondo dovrebbe essere nel senso che, fermo restando specifiche prescrizioni imposte dal diritto europeo, la decisione di non esternalizzare l’attività deve essere rigorosamente motivata dimostrando che la scelta organizzativa interna si risolve in un maggior vantaggio per i cittadini”[5].
Ciò non significa sminuire l’importanza della società in house, quale modulo organizzativo che può rivelarsi molto efficace (come spesso è accaduto), soprattutto nella gestione dei pubblici servizi. Significa soltanto che la sua istituzione e i relativi affidamenti devono risultare davvero necessari per supplire alle carenza del mercato e non frutto di una scelta essenzialmente politica, diretta a creare, ceteris paribus, un’ennesima struttura a disposizione degli organi di governo dei singoli enti.
La disciplina nazionale, che pone precisi paletti al ricorso all’in house, è stata giudicata costituzionalmente legittima[6] e non in contrasto col diritto dell’Unione[7]. Infatti, sul versante nazionale è stata riconosciuta la coerenza con gli interessi costituzionalmente protetti della trasparenza e della concorrenza (ma, aggiungerei, con il principio di sussidiarietà orizzontale[8], che preclude interventi pubblici -e anche la creazione di moduli organizzativi pubblici- là dove è possibile ricorrere all’iniziativa dei privati). Sul versante dell’Unione è stata riconosciuta la libertà degli Stati membri di scegliere il modo di gestione ritenuto più appropriato[9].
A quest’ultimo proposito la Corte di giustizia ha parlato di “un’operazione interna, denominata anche «contratto in house»”, la cui conclusione è subordinata “all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna”[10]. Ma può un rapporto concessorio essere racchiuso in un’operazione meramente interna dell’ente pubblico?
3. Una volta costituita, la società in house presenta profili fortemente problematici sotto molteplici aspetti, sia dal punto di vista pubblicistico/organizzatorio, sia dal punto di vista privatistico/societario.
Sotto il primo profilo si è parlato, ad esempio, di società-organo e di delegazione interorganica, per rappresentare l’attenuazione della intersoggettività tra soggetti pur formalmente diversi, ma di cui l’uno sarebbe il braccio operativo dell’altro. Ma si tratta di qualificazioni non del tutto appaganti.
La società in house è pur sempre una persona giuridica e dunque un centro di imputazione di rapporti giuridici, con capacità giuridica e con capacità d’agire propria, sia pure con talune limitazioni, previste dalla disciplina di settore. Dunque non si può parlare di “organo” dell’ente pubblico (o degli enti pubblici) di appartenenza, perché l’organo (almeno nella concezione più rigorosa del termine) imputa all’ente gli atti e gli effetti della propria azione, mentre la società in house imputa tutto a se stessa e non può produrre conseguenze giuridiche dirette in capo all’ente o agli enti proprietari.
Espressione massima della alterità tra la società e l’ente proprietario è data dalla possibilità che sorga una controversia tra detti soggetti e che la stessa sia portata alla attenzione del Giudice, come non di rado è successo, almeno in passato. Del resto il consiglio di amministrazione della società in house ha pur sempre il dovere di salvaguardarne il patrimonio anche contro le eventuali inadempienze del suo socio unico e proprietario.
Anche dal punto di vista societario l’istituto è apparso fortemente border line[11]. Come è dimostrato “dalla totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico, titolare della partecipazione societaria”[12]. E anche se tale assoggettamento non appare assoluto -per quanto più sopra riferito- è chiaro che si tratta pur sempre di un fenomeno ben diverso dal potere di indirizzo e coordinamento, spettante alla capogruppo di un gruppo societario, e più in generale una notevole attenuazione della soggettività della società, tale da non poter riconoscere in essa “un centro di interessi davvero distinto dall’ente pubblico che la ha costituita e per il quale essa opera”[13].
Espressione tangibile di tale semisoggettività - e dell’ambiguità di disciplina che essa comporta - è data, tra l’altro, dalla circostanza che la società in house è, da un lato, soggetta, almeno secondo l’opinione prevalente, al fallimento[14]. Ma, d’altro lato, è soggetta, come un soggetto pubblico, alla giurisdizione della Corte dei conti per il danno causato dai suoi amministratori e dipendenti (art. 12, c.1, D.Lgs. 175/2016).
L’assoggettamento al fallimento è espressione della natura privatistica della società, come tale sottoposta al regime (anche) codicistico dell’insolvenza, tipico delle società di capitale. L’assoggettamento degli amministratori alla giurisdizione della Corte dei conti è viceversa espressione del carattere pubblico del capitale sociale, costituito esclusivamente dai versamenti operati dall’ente pubblico-socio totalitario o dagli enti pubblici-soci, titolari (salve talune eccezioni marginali) dell’intero capitale sociale.
Sicché si può dire - conformemente del resto alla genesi dell’istituto - che la società in house è formalmente distinto dall’ente proprietario e, sempre formalmente, ha una propria soggettività, con le conseguenze di regime, che si sono tratteggiate, e con l’applicazione residuale della disciplina del codice civile (art. 1, c. 3, D. Lgs. 175/2016). Dal punto di vista sostanziale è una mera struttura dell’ente pubblico proprietario (organo, in senso lato), rispetto al quale sussistono vari aspetti di immedesimazione.
4. Tutto ciò non è stato mai apprezzato, a quanto consta, dal punto di vista della tipologia dei contratti che possono intercorrere tra amministrazione proprietaria (operante un controllo analogo a quello esercitato nei confronti dei propri uffici) e società in house. Una volta acquisito che in proposito si può parlare di contratto solo sotto il profilo formale e non sostanziale, è parso conseguenziale ritenere che, dal punto di vista, appunto, formale, l’affidamento può riguardare qualunque tipo di contratto: dunque, per quel che qui rileva, sia un contratto che “oggettivamente” sia inquadrabile nello schema dell’appalto o sia quello che presenta le prestazioni tipiche della concessione.
Il che poteva essere accettato finché la nozione di appalto e di concessione fosse rimasta quella originaria. Gli appalti, come “contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi ad oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi”[15]. Le concessioni di lavori o di servizi, come “un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto di lavori [o di servizi] ad eccezione del fatto che il corrispettivo dei lavori [o dei servizi] consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera [o i servizi], o in tale diritto accompagnato da un prezzo”[16].
In tale contesto, ferma la peculiarità del rapporto (di quasi immedesimazione) tra i due soggetti “contraenti”, nulla impediva che dal punto di vista dell’oggetto “contrattuale” l’affidamento in house potesse presentare, indifferentemente, i caratteri dell’appalto o della concessione. Infatti, nulla impedisce di concepire di affidare ad un proprio organismo (formalmente distinto, ma sostanzialmente compenetrato) i compiti tipici dell’appalto o della concessione (basta ricordare l’esperienza delle aziende municipalizzate, costituenti organo dell’ente territoriale, prima della relativa trasformazione in aziende speciali, come tali dotate di personalità giuridica).
Ma tale indifferenza non pare che possa essere riconosciuta anche nell’attuale assetto definitorio della concessione.
5. Come è noto, infatti, l’attuale nozione della concessione di lavori o di servizi, da un lato ricalca quella tradizionale sopra richiamata, ma d’altro lato precisa che “l’aggiudicazione di una concessione di lavori o di servizi comporta il trasferimento al concessionario di un rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi, comprendente un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta, o entrambi”, con la conseguenza che “non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi” (art. 5, punto 1, c. 2, Direttiva 2014/23/UE). Analoga è la definizione della concessione dei lavori e della concessione di servizi contenuta nel nostro Codice dei contratti pubblici, che all’art. 3, punti uu e vv, aggiunge alle nozioni note la precisazione “con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione delle opere (o dei servizi)”.
Non si tratta di innovazione vera e propria, dato che da tempo la giurisprudenza della Corte aveva individuato l’assunzione del rischio operativo, come una caratteristica della concessione[17]. Ma sembrava trattarsi di una conseguenza naturale della gestione dell’opera o del servizio, mentre il suo inserimento nell’ambito definitorio dell’istituto fa sì che esso assuma una precisa (o più spiccata) valenza selettiva tra la concessione e l’appalto: nel senso che un contratto avente per corrispettivo dell’opera o del servizio unicamente il diritto della gestione dell’opera o del servizio (con o senza la previsione di un ulteriore “prezzo”) dovrebbe essere definito come appalto, in mancanza del trasferimento del rischio operativo[18].
Data dunque l’importanza preminente (ai fini della distinzione tra appalti e concessioni) del trasferimento del rischio operativo, occorre chiedersi se una tale vicenda è concepibile nel caso di (e compatibile con l’) affidamento in house. Ovvero, detta altrimenti, se nell’affidamento in house è possibile (non già soltanto l’affidamento dell’opera o del servizio, col diritto alla relativa gestione, ma anche) la traslazione del rischio operativo tra l’ente pubblico proprietario (da solo o con altri enti pubblici) della società e la società medesima.
A me pare che la risposta debba essere negativa.
Nell’affidamento in house l’ente pubblico non si spoglia affatto del rischio operativo, per la stessa ragione per la quale non vi è esternalizzazione nella gestione dell’opera o del servizio. In altri termini, l’ente proprietario non trasla a terzi detto rischio, dato che lo stesso rimane in capo alla società in house, che ne risponde col proprio capitale sociale e, dunque, con gli investimenti finanziari dell’ente pubblico stesso: infatti, come è stato giudicato “la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità”[19] (da qui, come si è visto, l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti delle questioni di responsabilità dei relativi amministratori).
Anche la giurisprudenza della Corte di giustizia riconosce il carattere “pubblico” del patrimonio e delle risorse messe a disposizione di una società di tal fatta. E, così, in un recente caso di impresa pubblica, il cui capitale era detenuto quasi al 100% da autorità pubbliche e i cui membri del consiglio di amministrazione erano nominati da dette autorità, la Corte non ha esitato a parlare di risorse pubbliche e, più specificamente, di “risorse statali”[20]. Con la conseguenza di individuare un caso di aiuto di Stato nell’uso di dette risorse al fine di alleviare gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di (altra) impresa (collegata alla prima): infatti, “anche se le somme corrispondenti alla misura in questione non sono permanentemente in possesso dell’Erario, il fatto che restino costantemente sotto il controllo pubblico, e dunque a disposizione delle autorità nazionali competenti, è sufficiente perché siano qualificate come risorse statali”[21].
Ma se il patrimonio di una società interamente partecipata da enti pubblici non cessa di essere pubblico (nel senso che si è esposto), a maggior ragione ciò si verifica in una società in house, ove sussiste pure quel controllo analogo che annichilisce pressoché del tutto l’autonomia gestionale della società. Con la conseguenza che ogni rischio gravante su quest’ultima società finisce per ricadere nel patrimonio “erariale” degli enti proprietari: a parte, infatti, l’imputazione contabile al bilancio della società (e non a quello dell’ente pubblico), le conseguenze giuridiche ed economiche non potranno che gravare, in definitiva su quest’ultimo.
Vero è che l’ente proprietario non risponde dei debiti della società oltre il valore della quota di capitale da esso detenuto[22] (che peraltro corrisponde all’intero capitale sociale, dato che è praticamente esclusa la partecipazione di soggetti privati). Infatti, trattandosi di società di capitale, sussiste pur sempre l’autonomia patrimoniale della stessa.
Ma vero è che lo schermo societario potrà valere per limitare il rischio operativo, non per trasferirlo a terzi, che nella specie non vi sono. Entro tale limite, il rischio operativo rimane dunque interamente in capo all’ente pubblico proprietario della società in house, con la conseguenza che è impossibile conseguire l’oggetto stesso di un contratto di concessione.
E ciò a prescindere dal rilievo che un fallimento della società in house è un evento più teorico che pratico, posto che l’ente proprietario ben può intervenire con operazioni di salvataggio, attraverso sistematici aumenti del capitale sociale. Il che non è certo precluso (come l’esperienza dimostra), salvo il limite dell’aiuto di Stato[23], che peraltro a sua volta presuppone che l’intervento sia idoneo ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri[24].
Ne deriva che quando la direttiva parla di concessioni escluse dall’ambito di applicazione della direttiva medesima (art. 17), perché intercorrenti tra un’amministrazione aggiudicatrice ed una società in house, dovrebbe forse più correttamente ricollegare tale esclusione all’impossibilità che vi sia (non solo sostanzialmente, ma anche giuridicamente) un tipo di contratto di tal fatta. In tali casi non solo manca un vero contratto (per la relazione intercorrente tra le parti dello stesso), ma manca altresì una vera concessione, perché si tratterebbe di trasferire il rischio operativo a se stessi: il che rappresenta, appunto, una contradictio in adjecto, che logicamente non può essere tollerata.
Il vero è che risulta inappropriato utilizzare schemi concettuali e tipi contrattuali, previsti per i rapporti veramente intersoggettivi, ad un fenomeno quale l’in house providing. In questo caso, più che di un contratto di concessione o appalto, bisognerebbe parlare puramente e semplicemente di un “contratto in house”, come si esprime la Corte di giustizia, ovvero di un mero contratto di servizio[25], diretto a disciplinare i rapporti tra i vari protagonisti dell’operazione: un contratto atipico, dunque, che potrà richiamare di volta in volta la disciplina propria degli appalti o delle concessioni, a seconda della maggiore o minore assimilazione, ma che non può identificarsi in tali tipologie.
In particolare, il caso delle concessioni pare espressivo di tale irriconducibilità ad una società in house. Infatti, a meno di non ricorrere a inaccettabili finzioni, non pare proprio che si possa dire che con l’affidamento in house l’amministrazione si spogli del rischio relativo all’intera operazione.
[1] Così, con. Riferimento ai servizi pubblici di trasporto, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 7 febbraio 2020, n. 1680. Cfr. pure T.A.R. Liguria, Genova, sez. II, 7 ottobre 2019, n. 753;Cons. Stato, sez. VI, 31 maggio 2017, n. 2626; Cons. Stato, sez. III, 24 ottobre 2017, n. 4902; Cons. Stato, sez. V, 22 gennaio 2015, n. 257.
[2] Corte giust. 18 novembre 1999, in causa C-107/98, affare Teckal; Corte giust. 7 dicembre 2000, in causa C-94/99, affare ARGE.
[3] Così 5° considerando della Direttiva 2014/23/UE. Inoltre, si legge nell’art. 2, par. 1, della medesima direttiva che essa “riconosce e riafferma il diritto degli Stati membri e della autorità pubbliche di decidere le modalità di gestione ritenute più appropriate per l’esecuzione di lavori e la fornitura di servizi. In particolare, la presente direttiva non dovrebbe in alcun modo incidere sulla libertà degli Stati membri e delle autorità pubbliche di eseguire lavori o fornire servizi direttamente al pubblico o di esternalizzare tale fornitura delegandola a terzi”.
[4] La giurisprudenza della Corte di giustizia ha preso in considerazione, ad esempio, il caso della Lituania (cfr. sentenza 3 ottobre 2019, Irgita, in causa C-285/18,)
[5] Così Cons. Stato, Comm. Speciale, parere in data 21 aprile 2016, n. 968/2016, sullo schema di decreto legislativo sulle società a partecipazione pubblica, pag. 77, in relazione all’art. 16 di detto schema di decreto.
Rileva detto parere (pag. 78) che “il ricorso al mercato e non all’in house può, infatti, costituire esso stesso, permettendo l’accesso di nuovi operatori, un utile strumento di liberalizzazione economica”.
[6] Cfr. Corte Cost. 27 maggio 2020, n. 100, con nota di M. Trimarchi, La Corte costituzionale conferma l’eccezionalità dell’affidamento dei servizi pubblici a società in house, in Giustizia insieme, 2020.
[7] Cfr. Corte giust. 6 febbraio 2020, ordinanza in cause riunite C-89/19, 90/19,91/19, con nota di C. Deodato, gli ambiti dell’intervento pubblico nell’organizzazione e nella gestione dei servizi di interesse economico generale, in Giustamm., n. 10/2020.
[8] Principio che negli ultimi tempi è sovente dimenticato, nonostante la sua costituzionalizzazione (art. 118, u.c. Cost.). Viceversa era ben presente nel Regolamento dei servizi pubblici, di cui al D.P.R. 168/2010, che all’art. 2, c. 1, lo poneva come uno dei criteri basilari ai fini della “realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali”.
[9] Si legge nell’ordinanza da ultimo citata, che richiama in proposito la precedente e già citata sentenza 3 ottobre 2019, Irgita, in causa C-285/18, che la direttiva 2014/23/UE “riconosce il principio per cui le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici e di conferirli a operatori economici esterni”.
[10] Cfr. ordinanza ult. cit., punti 41-42.
Ma già in altra occasione la Corte si era espressa in modo analogo (sentenza Irgita, C-285/18, punto 50, ove si legge che “l’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una norma nazionale con la quale uno Stato membro subordina la conclusione di un’operazione interna, in particolare, alla condizione che l’aggiudicazione di un appalto pubblico non garantisca la qualità dei servizi forniti, la loro accessibilità o continuità, sempre che la scelta espressa a favore di una particolare modalità di prestazioni di servizi, e effettuata in una fase precedente a quella dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico, rispetti i principi di parità di trattamento, non discriminazione, riconoscimento reciproco, proporzionalità e trasparenza”.
[11] E così M. Antonioli pone il quesito se “L’in house providing identifica un modello societario? Antinomie e dissonanze dell’istituto dopo il decreto n. 175/2016”, in Riv. It. Dir. Pubbl. com., 2018, pag. 555 e ss.
[12] Cass., Sez. Un. 23 novembre 2013, n. 26283, punto 4.3.
[13] Cass., Sez. Un. 23 novembre 2013, n. 26283, cit., punto 4.3.
[14] Cfr. Cass., sez. I, 7 febbraio 2017, n. 3169.
[15] Così art. 1, c.2, lett. a) della Direttiva 2004/18/CE, ripetitiva, peraltro, di una definizione da tempo acquisita.
[16] Così art. 1, c.3 e 4 della Direttiva 2004/18/CE. La definizione di concessione di lavori, così configurata, è peraltro risalente almeno alla Direttiva 93/37/CEE, art. 1, punto d).u
[17] Cfr. già la “Comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comuniatario”, in GUCE 29 aprile 2000, C 121/2. Cfr. anche la Comunicazione 15 novembre 2005, in tema di partneriato pubblico-privato.
[18] Sia consentito un rinvio allo scritto “La direttiva in materia di “concessioni””, in Riv. It. Dir. Pubbl. com., 2015, pag. 1095 e ss., pag. 1099.
[19] Corte Cass., Sez. Un., 23 novembre 2013, n. 26283, cit., punto 5 del diritto.
[20] Cfr. Corte di giustizia, sez. II, 10 dicembre 2020, in causa C-160/19 P, punti 30-32.
[21] Corte giust., ult. cit., punto 30.
[22] Così, tra gli altri, F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2020, pag. 859.
[23] Per un recente caso di tal fatta, cfr. Corte di giustizia, sez. II, 10 dicembre 2020, in causa C-160/19 P, cit.
[24] Inoltre, vi è quanto meno da dubitare che nel contratto tra ente proprietario e società totalmente controllata si possano pattuire veri rischi a carico di quest’ultima, esponendola effettivamente alle “fluttuazioni del mercato” (come richiesto dal 20° considerando della Direttiva 2014/23/UE). Trattandosi, infatti, di operazione compiuta “in famiglia” (e le cui conseguenze negative finirebbero per ripercuotersi sullo stesso ente proprietario), v’è da dubitare che il complesso dei compensi contrattuali (siano essi introiti tariffari, ovvero tout court contribuzioni pubbliche) non siano in grado di “coprire la totalità dei costi e degli investimenti sostenuti dal contraente per la fornitura del servizio” (Così la Direttiva 2014/23/UE, considerando 17): e ciò al di là di quanto si legge nei piani economici finanziari, che accompagnano gli affidamenti in house e che sono sovente prodighi di indicazioni in ordine ai rischi operativi, traslati più sulla carta che nella sostanza.
Perplessità analoghe si possono rinvenire persino in sede di giurisprudenza comunitaria. E così, ad esempio, si legge nella sentenza del Tribunale, III sez., 13 dicembre 2018, in T-167/13 (Comune di Milano), che “considerato che tra lo Stato e le imprese pubbliche sussistono relazioni strette, vi è un rischio reale che aiuti statali vengano concessi per il tramite di tali imprese pubbliche, in maniera poco trasparente e in violazione del regime previsto dal Trattato per gli aiuti statali” (sentenza, cit. punto 75).
[25] Cfr. art. 113, c. 11, del D. Lgs. 267/2000, nonché art. 114, c. 8, lett. a, del medesimo D. Lgs., con riferimento alle aziende speciali e alle istituzioni. Sul punto cfr. per tutti C. Iaione, Le società in house, Napoli, 2012, pag. 254 e ss.
Recensione a G. MONINA, Diritti umani e diritti dei popoli. Il Tribunale Russell II e i regimi militari sudamericani (1971-1976), Carocci, Roma 2020, pp. 245*
di Daniela Bifulco
Segnalatori d’incendio, li chiamava Benjamin: gli esuli, coloro che, costretti a un altrove in cui cercare riparo dalle dittature, si fanno carico dell’ingrato ruolo di allertare il mondo circa una catastrofe imminente o in corso. Dagli esuli brasiliani e dalla segnalazione dell’incendio che, divampato nel 1964 (anno del colpo di stato in Brasile, dove i militari ‘deposero’ il presidente democratico Joao Goulart), avrebbe poi funestato le sorti del mondo latino-americano, e dalla fortunata sinergia tra esuli e società civile globale, o opinione pubblica che dir si voglia, nacque il Tribunale Russell II. Il precedente esempio di Tribunale internazionale di opinione era stato offerto dall’antesignano ‘International War Crimes Tribunal’ (IWCT), meglio noto come ‘Bertrand Russell Tribunal’, fondato dal filosofo e matematico gallese Russell nel novembre del 1966, nell’ambito della campagna di solidarietà col Vietnam.
Del Tribunale Russell II - esperienza per molti versi straordinaria - ha scritto Giancarlo Monina in Diritti umani e diritti dei popoli. Il Tribunale Russell II e i regimi militari sudamericani (1971-1976), apparso, a fine 2020, nella collana ‘Studi storici’ di Carocci. Che il libro sia stato edito in quella collana appare tanto più significativo quanto sorprendente è stata, a oggi, la disattenzione della letteratura storiografica per il Tribunale Russell II (TRII, d’ora in poi). Al tema -ricorda l’A.- una certa attenzione è stata tributata dai giuristi -internazionalisti, soprattutto- ma nella stessa (e ormai fluviale) letteratura sui diritti umani, i riferimenti al TRII sono, in fondo, alquanto rari. Disattenzione bizzarra, in effetti, ove si consideri l’interesse suscitato nella comunità scientifica dalla ‘notte della democrazia latino-americana’ quale ‘fase e luogo emblematici della violazione dei diritti umani (p.10). Tanto più meritorio è, dunque, l’impegno profuso dall’Autore, professore di storia contemporanea presso Roma Tre, nel colmare una lacuna, raccontando genesi e vicende di questo tribunale d’opinione : il lettore giurista deve dismettere per qualche attimo i suoi costrutti mentali e considerare che lo scopo di tale ‘Tribunale’, autoproclamatosi tale, fu la denuncia delle dittature negli Stati latino-americani e la mobilitazione di un’estesissima rete di gruppi, attivisti e personalità eminenti del mondo politico e culturale, radicate nel continente americano così come in Europa.
Il TRII ebbe, sì, una struttura basata su organi (commissioni, giurie) e atti (sentenze) tipici dei tribunali intesi in un senso più strettamente giuridico, svolgendo i suoi lavori in tre sessioni, tra il 1974 e il 1976; ma lo spirito che ne mosse l’istituzione fu, innanzitutto, quello della denuncia dell’involuzione autoritaria dei paesi latino-americani che, come birilli, cadevano l’uno dopo l’altro sotto la scure di regimi dittatoriali e militari, degli effetti devastanti che il paradigma economico-politico neoliberista andava producendo in tutti i regimi latino-americani, della sensibilizzazione della comunità internazionale, e della mobilitazione della società civile globale a favore della democrazia, della tutela dei diritti umani e di quelli dei popoli.
La certosina ricostruzione dell’esperienza del TRII si è resa possibile grazie alla documentazione conservata presso gli archivi della fondazione Lelio e Lisli Basso, con sede a Roma, oggi presieduta da Franco Ippolito. Fu Lelio Basso, infatti, a svolgere un ruolo di primissimo piano in quell’esperienza, presiedendo, tra l’altro, la giuria del Tribunale, nucleo dell’attività di quest’ultimo. La seconda traiettoria decisiva per le attività del TRII fu impressa dalla glottologa, religiosa e missionaria in Brasile Linda Bimbi, che sarebbe divenuta fulcro dell’organizzazione del TrII e ‘instancabile tessitrice di relazioni internazionali’ (p. 44). Accanto a Basso, in giuria figurò un parterre di personalità tanto autorevoli quanto eclettiche, dal punto di vista di provenienza e attitudini culturali (Gabriel García Márquez, Julio Cortázar, Bruno Trentin e Andreas Papandrèu, per limitarsi ad alcuni nomi), mentre a presiedere il comitato d’onore della giuria stessa, fu chiamato Sartre (in compagnia, tra gli altri, di Sebastian Matta, Hortensia Bussi de Allende -vedova di Allende- e Simone de Beauvoir).
Quello dei nomi della personalità coinvolte è un aspetto che non può non colpire il lettore: il racconto è infatti intessuto anche di riferimenti a una serie impressionante di autorevolissime persone di ‘buona volontà’, come recitava l’Appello firmato da Enrico Berlinguer, mirato a far aderire al TRII i comunisti italiani, ma poi sottoscritto da un variegato mondo di sinistra, e non solo: Bobbio, ad esempio, Codignola, Nenni, Scola, Ramat, Terracini, Partito radicale, settori giovani della DC e del PRI, sindacati nazionali e di settore, Magistratura democratica, Associazione giuristi democratici, per quel che riguarda l’Italia (v. p. 147). Per la Francia, ricordiamo qui soltanto le adesioni di Mitterrand, Deleuze, Georges Casalis (teologo protestante, tra i protagonisti più attivi del TRII), lo storico Pierre Vidal-Naquet, Louis Joinet (fondatore, nel 1969, del sindacato della magistratura), Matarasso (avvocato anticolonialista e combattente della Resistenza, v. p. 134). Sebbene sia iniquo limitarsi alla citazione di Francia e Italia, dato che la mappa geografica delle personalità che aderirono, supportarono e parteciparono, più o meno attivamente, alle attività del TRII si estese, come detto, a molti paesi europei e all’intero continente americano, occorre mettere il punto all’elenco sconfinato dei nomi delle personalità che offrirono sostegno al TRII. Rinviamo perciò alla lettura del libro di Monina per aver piena contezza dell’effetto di mobilitazione -anche culturale- che il TRII fu in grado di esercitare.
Abbiamo definito ‘straordinaria’, al di là di ogni intento enfatico, l’esperienza del TRII: in effetti, leggendo il testo, si realizza come quell’esperienza diede forma a quel che Habermas ha definito ‘sfera pubblica’: un insieme di procedure atte ad assicurare una effettiva pubblicità e a rendere altresì intellegibili i dettagli tecnici (giuridici, ad esempio, o scientifici) di una certa materia. Se il punto più impervio della nozione di sfera pubblica secondo Habermas attiene, forse, alle condizioni empiriche di funzionamento del suo modello, ebbene, il TRII dimostra come quell’impervia pietra d’inciampo possa talvolta, e come d’incanto, superarsi. ‘Talvolta’, sì, e non ‘sempre’: perché la sfera pubblica, nel senso anzidetto, non è dimensione che si dia hic et nunc, essendo essa associata, invece, a forme di prassi politica che si manifestano soltanto in situazioni per qualche verso straordinarie, come straordinario fu il contesto (storico, culturale, politico) in cui si radicò l’avventura del TRII. Sfera pubblica, nell’accezione di Habermas, non coincide con ‘opinione pubblica’, e cioè con l’insieme di convinzioni, tendenze o umori di un certo pubblico, essendo essa, invece, la precondizione affinché un’opinione pubblica ragionata possa formarsi (il punto è ben illustrato da W.Privitera, in Sfera pubblica e democratizzazione, Laterza, 2003) .
Ebbene, quella forma di prassi politica che fu il TRII ebbe dalla sua una cultura politica d’eccezione, propria di un’epoca -anni Sessanta e Settanta- di grande fermento e di trasformazioni: la cultura politica fu quella, in primis, del socialismo di Lelio Basso, la cultura internazionalista del marxismo critico, del mondo cristiano (sia cattolico sia protestante) che andava ribellandosi alle dittature latino-americane, di quello pacifista, del comunismo ‘ufficiale’ (sovente più tetragono, però, a riconoscere e supportare il TRII). E, infine, ma non per importanza, la cultura e l’attivismo globale per i diritti umani, cultura ‘che stava allora emergendo come uno dei principali vettori della mobilitazione transnazionale. Connotati più per il loro contenuto morale che non ideologico-politico, i diritti umani furono assunti dal Tribunale come nuovo punto di partenza per un progetto internazionalista di liberazione umana che troverà la sua dottrina nel diritto dei popoli’ (p. 93). Il linguaggio dei diritti umani e la loro violazione in America Latina (p. 157 ss) furono oggetto della prima sessione del TRII, svoltasi a Roma presso la sede del CNR. Tra le violazioni dei diritti umani più attentamente vagliate vi furono la tortura e gli apparati repressivi (tra i relatori della prima sessione: Alessandro Pizzorusso, per il Cile, v. p. 177, Salvatore Senese, sul Brasile, p. 184, lo scrittore Renato Prada Oropeza per la Bolivia, il sociologo francese Alain Labrousse, per l’Uruguay, il giurista francese François Rigaux, Hortensia Bussi de Hallende, p. 208, e tanti altri). Riguardo all’immenso repertorio dell’orrore delle dittature (v. p. 168, 205 ss.), il salto decisivo per la qualità delle indagini svolte dal TRII, così come per l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, si ebbe grazie al rapporto sulla tortura in Brasile di Amnesty International (p. 169). Nella prima sessione, emersero temi e prassi di indagine che sarebbero poi divenute centrali nella cultura dei diritti umani: il valore della testimonianza (sulla prassi del bearing witness, già il processo Eichmann aveva spianto la strada, come ricorda l’A., v. p. 182), l’intento anche pedagogico della giustizia resa da un tribunale, la centralità delle vittime nella ricostruzione della verità storica, la dimensione spettacolare del processo (già voluta per il processo Eichmann, che era stato trasmesso dalla televisione), la crucialità della verità e della memoria per la saldezza del viver civile.
Tale strabiliante amalgama -di ciò che non sapremmo definire se non nei termini di ‘cultura politica’- fece dunque appello alla mobilitazione delle ‘migliori energie di tutti i paesi: politici, giuristi, scienziati, economisti, sociologi, antropologi, e chiunque sia in grado di dare un contributo e cooperare al Tribunale nella ricerca dei fatti reali e delle loro interpretazioni’ (così, nel Memorandum ai compagni cubani, 20 ottobre 1972, cit. a p. 51; in forma di Memorandum furono fatti circolare nel mondo i primi documenti che presentavano struttura e funzioni del TRII, redatti nelle seguenti cinque lingue ufficiali: portoghese, spagnolo, inglese, italiano e francese).
Leggendo il libro di Giancarlo Molina, al giurista sorge spontanea la domanda, relativa alla legittimazione e al fondamento giuridico di un Tribunale auto-definitosi tale, che fu ben presente ai protagonisti della creazione del TRII, come risulta dalla dichiarazione costitutiva del Tribunale e dal discorso inaugurale del presidente Lelio Basso (‘Nel momento della sua costituzione, il Tribunale Russell deve esprimersi chiaramente sulla propria investitura’: v. p. 73). Il problema si rivelò più complesso di quanto sperimentato all’epoca della costituzione del primo Tribunale Russell, che si era occupato di una fattispecie più ‘semplice’, per così dire, ovverosia più definita (guerra d’aggressione); il TRII, invece, doveva confrontarsi con crimini non direttamente contemplati dalle norme del diritto internazionale vigente negli anni Settanta.
Confidando su una legittimazione che sarebbe intervenuta nel tempo, ‘a posteriori’ (p. 74), nella fase di preparazione del TRII si lavorò comunque, e alacremente, a un confronto serrato col diritto internazionale: da un lato, si misero a confronto i crimini della dittatura brasiliana con quelli definiti in base alla giurisprudenza di Norimberga (ad esempio, indicando la tortura e l’assassinio di oppositori e prigionieri politici come crimini contro l’umanità e il trattamento riservato agli indios come crimine di genocidio). Ma questa strada si rivelò accidentata, osserva l’A., posto che non tutte le corrispondenze individuate riuscivano a offrire salde basi giuridiche. D’altro lato, si percorse il sentiero che si sarebbe rivelato, nel corso del tempo, più fruttuoso: il richiamo, cioè, ai diritti umani, ai diritti dei popoli e al diritto internazionale consuetudinario. Con riguardo a quest’ultimo, venne invocata, ad esempio, la cosiddetta Clausola Martens. Recepita nelle 4 Convenzioni di Ginevra del 1949, tale clausola impegnava gli Stati contraenti a considerare l’opportunità che, in assenza di specifiche disposizioni e in attesa di una più completa e dettagliata disciplina normativa sulla guerra, le popolazioni e i belligeranti rimanessero sotto la protezione dei principi del diritto internazionale, ‘così come risultano dagli usi stabiliti dalle nazioni civili, dalle leggi di umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica’ (p. 77).
Maturata in breve tempo la consapevolezza che occorresse individuare ‘un rapporto più dinamico col diritto internazionale, in evidente e dichiarata discontinuità con l’esperienza del primo Tribunale Russell’, apparve anche chiaro che la legittimazione del TRII dovesse ‘andare oltre la concezione tradizionale in cui solo gli stati erano soggetti di diritto internazionale e aderire al principio secondo cui esiste un potere diffuso che regola la sfera internazionale : non quello della morale, né degli Stati, né dei loro governi’, bensì un potere proprio della ‘comunità internazionale, intesa come coscienza dei popoli’ (p. 77, in cui si cita la Dichiarazione costitutiva del TRII).
Insomma, la fonte giuridica per eccellenza del TRII veniva individuata in quelle medesime ‘esigenze della coscienza pubblica’, di cui alla Clausola Martens citata poc’anzi, e nei principi accettati dalla comunità internazionale (per quanto sprovvisti di implementazione giuridica essi fossero).
In questo confronto col diritto internazionale risiede uno dei profili d’interesse (per i giuristi, soprattutto) dell’esperienza nota come TRII: tutti i punti di maggiore debolezza concernenti basi giuridiche, legittimazione e efficacia di quest’ultimo, che al giurista non possono sfuggire (e di cui qui si è soltanto accennato), costituirono in realtà le basi di uno sviluppo che, nei decenni successivi, avrebbe accompagnato le trasformazioni del diritto internazionale e delle relazioni internazionali. Il TRII fu infatti ‘promotore e specchio di una nuova concezione di comunità internazionale che, ‘a cavallo degli anni Sessanta e Settanta si andava costituendo, rivendicando una propria autonomia dagli Stati’ (p. 78): un mondo di relazioni ‘transnazionali’, diremmo oggi, dove protagonisti diventano anche attori e organizzazioni non statali, che andavano rivendicando una giustizia transnazionale, che sopperisse ai deficit d’intervento dei singoli Stati. Non a caso, il TRII profeticamente auspicò l’istituzione di un Tribunale penale internazionale, che sarebbe nato nel 1998. All’idea di una nuova giustizia transnazionale fece dunque da contraltare l’idea di tribunali transnazionali, vale a dire giurisdizioni che potessero rappresentare i cittadini di ogni paese, diversamente da quanto fatto fino ad allora dalle corti di giustizia internazionali, la cui competenza era limitata a crimini di guerra commessi da uno Stato o da singoli Stati in conflitto (v. p. 80-81).
Il TRII fu anche promotore di ‘una nuova visione delle relazioni internazionali, basata sul rispetto del diritto dei popoli all’autodeterminazione, al controllo delle loro risorse e del loro futuro economico e sociale’ (p. 78). L’azione del TRII cadeva nel contesto di un processo di decolonizzazione che stava, per un verso, modificando gli equilibri mondiali e, per l’altro, svelando l’inadeguatezza del diritto internazionale del tempo rispetto alle esigenze derivanti dal progressivo smantellamento (o, comunque, dalla messa in discussione) di logiche colonialiste e di accaparramento delle risorse dei paesi più svantaggiati. In tal senso, Il TRII incrociò sul proprio cammino l’evoluzione che stava portando l’ONU a riconoscere le ragioni dei paesi in via di sviluppo (l’A. ricorda, ad esempio, l’approvazione, nel 1974, della Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati e la Dichiarazione per un nuovo ordine economico internazionale, adottate dall’Assemblea Generale delle N.U.). Appare significativo, in tal senso, l’oggetto scelta per la seconda sessione del TRII, vale a dire le cause economiche della dittatura. I relatori della seconda sessione furono inviatati ‘a presentare contributi di taglio non puramente teorico, ma a concentrarsi sugli effetti dei processi economici’ (p. 195) negli assetti istituzionali dei paesi latinoamericani. In quella sede, il TRII, anticipando pure la prassi che sarebbe poi stata definita del ‘naming and shaming’, mise in luce il nefasto ruolo dei potentati economici statunitensi e delle compagnie multinazionali e transnazionali sulle economie dei paesi latinoamericani (p. 195 ss).
Il rapporto col diritto internazionale fu uno dei terreni su cui si consumò il confronto e, sovente, il disaccordo tra promotori del TRII e la galassia comunista: se il TRII tendeva a valorizzare le Risoluzioni delle Nazioni Unite e le fonti di diritto internazionale consuetudinario, intuendone il potenziale di trasformazione dei rapporti di forza, parte della cultura marxista terzomondista vedeva in ciò un mero ‘universo di cartapesta’, ‘espressione dell’ipocrisia delle potenze dominanti’ (p. 80). Ma, rispetto alle critiche talvolta avanzate da certi settori del comunismo ‘ufficiale’, o alle visioni terzomondiste più radicali che rifiutavano i diritti umani come espressione della cultura borghese (p. 163), la posizione del TRII fu sempre molto netta: esso assunse in piena coscienza ‘il linguaggio dei diritti umani, riconoscendone e amplificandone sia il valore in sé sia la funzione aggregante’, e fece proprio ‘il punto di vista delle opposizioni latinoamericane, cristiane e marxiste, che stavano acquisendo quel linguaggio nel pieno della lotta contro le dittature’(p. 163).
Anche rispetto al diritto dei popoli, il confronto con i comunisti fu talvolta teso: allorché giunsero al TRII alcune richieste di intervento a favore dei dissidenti dell’Unione Sovietica, il TRII replicò, attraverso le parole di Lelio Basso, che esso aveva come propria missione l’America Latina. In ‘polemica con il TRII, che ha sempre rifiutato di occuparsi delle violazioni dei diritti dell’uomo nei paesi comunisti’, l’Espresso diede notizia della costituzione del ‘Tribunale Sacharov’ (p. 151). Lelio Basso -racconta l’A.- si era assunto l’impegno di rispondere a ogni critica nei confronti del TRII; alla notizia riportata dall’Espresso, egli fornì allora una replica che vale la pena riportare per intero, poiché essa aiuta a far luce più piena sul senso dell’impegno del TRII a favore dei popoli : ‘Nello spirito di Bertrand Russell abbiamo sempre pensato che il nostro dovere era di affrontare il problema del luogo in cui i diritti dell’uomo erano più gravemente violati in quel momento: questo luogo era senza dubbio il Vietnam nel 1967, ed è senza dubbio oggi l’America Latina, dove la quasi totalità degli Stati è soggetta a regimi di ferrea dittatura militare a base di tortura’ (p. 151-152, corsivi nostri). Ove si consideri che le tracce del TRII si ritrovano oggi nell’azione del Tribunale permanente dei popoli (TPP), si comprenderà anche che la vocazione del TRII, per quanto universalista e cosmopolita, era quella di scendere in campo, in quel momento, per quei popoli. Anche dal punto di vista dell’impegno a favore dei diritti dei popoli, il TRII anticipò istanze che avrebbero poi trovato forme giuridiche più definite nel contesto del diritto internazionale: si pensi alla Dichiarazione delle NU sui diritti dei popoli indigeni, che sarebbe sopravvenuta soltanto nel 2007. Tra i principi considerati basilari dal TRII vi fu proprio ‘la difesa delle identità culturali autoctone come elemento imprescindibile dell’autonomia e dell’autogoverno di un popolo’ (p. 229). L’ultimo dei temi previsti dalla terza sessione, a fine lavori del TRII, fu, non a caso, il ‘genocidio’delle popolazioni indigene dell’America latina.
Peri vari motivi esposti fin qui, e per tutte le altre ragioni discusse estesamente nel libro di Monina, il TRII, potrebbe dirsi, corse in parallelo e, anzi, molto più velocemente del diritto internazionale. Giocò non soltanto in difesa, ma attaccando (attraverso la denuncia), così superando quel congenito ritardo del diritto che ripara, sì, ma spesso seguendo un ritmo d’azione e d’intervento molto lento. Riportiamo, in chiusura, parte dell’ultimo appello del TRII all’opinione pubblica mondiale, che fece seguito all’ultima sua sentenza di condanna delle ‘violazioni gravi, sistematiche e ripetute dei diritti dell’uomo e dei diritti dei popoli’ (p. 231) dai governi di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Guatemala, Haiti, Nicaragua, Paraguay, Repubblica dominicana, Uruguay. In quell’appello, è infatti racchiuso il significato dell’attacco, oltre che di difesa, di cui dicevamo: ‘non è in una prospettiva puramente difensiva che questo Tribunale ha ingaggiato la lotta per la difesa dei diritti minacciati e per la libertà dei prigionieri e dei torturati. Di fronte all’inesorabile offensiva dei nemici della dignità dei popoli, dei loro sfruttatori e dei loro carnefici, il Tribunale rivendica e proclama i suoi diritti e i suoi doveri di attaccare a sua volta coloro i quali usano l’umiliazione e l’oppressione come loro arma prediletta’ (corsivi nostri).
*Il presente contributo si inserisce tra i risultati parziali delle ricerche del PRIN 2017 Prot. 2017EWYR7A, ‘Reacting to mass violence: Acknowledgment, denial, narrative, redress’.
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