ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Goodbye Kelsen?
Sulla mutazione algoritmica del diritto Recensione al volume di N. Lettieri, Antigone e gli algoritmi, Mucchi Editore, Modena 2020*.
di Tommaso Greco
Ordinario di filosofia del diritto, Università di Pisa
1. Che il diritto possa funzionare ‘automaticamente’ rappresenta, da diversi secoli, un sogno e un incubo al tempo stesso. Un sogno, perché l’idea di un sistema di regole che si applichi in maniera certa, razionale, e per così dire inesorabile, appartiene al ‘progetto giuridico’ moderno, rappresentandone in qualche modo il nucleo fondativo (basti pensare alle polemiche dell’illuminismo giuridico contro il particolarismo di ancien régime). Ma anche un incubo, poiché proprio la realizzazione di questo sogno costituirebbe l’esito finale di un percorso di allontanamento del diritto da tutto ciò che appare propriamente umano. Non è un caso che quella del giudice-robot sia una fantasia (ormai non più relegata alla letteratura fantascientifica) che appartiene ad un mondo governato interamente dalle macchine.
Sospesi tra sogno e incubo, quel che certamente possiamo dire, oggi, è che il “tecnodiritto” appartiene ormai al nostro destino, come dimostra ampiamente Nicola Lettieri in un breve ma densissimo volumetto intitolato Antigone e gli algoritmi: un lavoro attento sia ai profili teorici che a quelli pratici, e che è pubblicato appropriatamente in una collana (diretta da Thomas Casadei e Gianfrancesco Zanetti per Mucchi editore) che si intitola “Prassi sociale e teoria giuridica”.
La constatazione che «algoritmi e intelligenze artificiali governano settori sempre più ampi delle nostre esistenze» conduce l’autore ad una rassegna degli aspetti salienti della tecnoregolazione, accompagnata costantemente da una messa in evidenza dei suoi profili problematici: ciò che dovrebbe portare, a parere di Lettieri, a una seria presa in considerazione della necessità e delle possibilità di ‘disobbedienza’ che anche (o forse a maggior ragione) il diritto algoritmico si porta dietro, come è avvenuto per ogni forma che la giuridicità ha assunto nella storia e nelle società umane.
2. Sappiamo tutti, da tempo, che gli algoritmi sono entrati nella nostra vita, condizionandola continuamente. Di questo, non solo non ci facciamo un problema, ma siamo pure contenti, ad esempio, quando grazie a questi meccanismi possiamo ricevere notifiche e pubblicità coerenti con i nostri gusti e le nostre passate interazioni telematiche. Non avvertiamo affatto che sia in gioco una diminuzione della nostra libertà. Del fatto che però gli algoritmi siano alla base di una «incorporazione delle norme giuridiche all’interno di sistemi hardware e software capaci di condizionare in modo più o meno stringente il [nostro] comportamento», non solo non ci preoccupiamo, ma non siamo nemmeno sufficientemente consapevoli. Eppure, come spiega bene Lettieri, siamo continuamente soggetti a pratiche giuridiche governate dagli algoritmi: «contratti ad esecuzione automatica; sistemi di controllo che abilitano o impediscono automaticamente azioni in contesti di interazione mediati dalla tecnologia; agenti intelligenti che mettono in atto strategie di persuasione al rispetto delle regole; sistemi di controllo e rating sociale nei quali algoritmi di valutazione stabiliscono quali sono i servizi a cui i cittadini possono accedere». Tutto questo sta già governando le nostre vite, ed è dunque urgente che si cominci a ragionarne.
3. Vorrei qui sottolineare soprattutto due elementi di novità — che possiamo definire ‘strutturale’ — emergenti dall’analisi di Lettieri: in primo luogo, il tecnodiritto ha un forte impatto sulla fenomenologia delle norme; in secondo luogo, esso incide profondamente sul modo di operare del diritto all’interno delle relazioni sociali.
Con riguardo al primo profilo viene messo in luce come si stia «materializzando una forma inedita di ius positum», derivante soprattutto dal fatto che il diritto non sia più legato a norme certe e conoscibili ex ante, ma sia invece sempre più determinato da algoritmi che compiono «operazioni di tipo classificatorio e predittivo». In altre parole, le norme giuridiche si presentano come esito di regolarità estratte dai dati raccolti dalle macchine anziché come il frutto di decisioni e deliberazioni umane. Da ciò derivano numerosi e gravi problemi sui quali Lettieri insiste ripetutamente (e sui quali qui non è possibile soffermarsi neppure brevemente): rischi di abusi e discriminazioni, rischio di distorsioni ed errori, mancanza di trasparenza e responsabilità, lesione del diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali, difficoltà o addirittura impossibilità di una critica del diritto che faccia emergere il più generale problema dei limiti «all’esercizio del diritto di difesa e alla possibilità di contestare la legittimità delle regole giuridiche» che una tale modalità regolatoria comporta.
Non meno problematico appare il secondo profilo, quello relativo ai modi in cui di fatto opera il diritto algoritmico. Dopo aver genericamente affermato che «le norme del tecnodiritto incidono sulla sfera giuridica individuale in modi nuovi, immediati e penetranti», Letteri scrive molto efficacemente che la tecnologia «è in grado di imporre vincoli comportamentali caratterizzati da un livello di incisività e immediatezza spesso molto superiori rispetto a quello delle norme giuridiche. Mentre queste ultime si limitano infatti a stabilire ciò che le persone devono o non devono fare, gli artefatti tecnologici hanno la capacità di determinare in maniera diretta ciò che le persone possono o non possono fare, rendendo superfluo l’intervento di una autorità di controllo che punisca, ex post, coloro che hanno violato la legge».
Il punto è estremamente rilevante e va ulteriormente sottolineato. Che la tecnologia si stia sostituendo al diritto e che sia, per così dire, “più convincente”, lo sperimentiamo ad esempio quando ci mettiamo alla guida di un’automobile e allacciamo la cintura di sicurezza, soprattutto per evitare certi suoni infernali e persistenti. Ma qui si tratta di altro. E se Lettieri parla di una «sovrapposizione tra giuridicamente lecito e tecnologicamente consentito», forse si può andare ancora oltre. Più che una sovrapposizione, si sta realizzando una vera e propria ‘con-fusione’: una trasformazione del ‘giuridico’ mediante il suo assorbimento all’interno delle architetture tecnologiche. In virtù di questa trasformazione il diritto sembra allontanarsi da quel meccanismo della imputazione normativa su cui Hans Kelsen aveva insistito per segnare la differenza tra il funzionamento delle norme giuridiche e quello delle leggi naturali. Il meccanismo giuridico, insomma, non funziona più sulla base di un nesso di imputazione ma si sposta nello spazio della causalità naturale, spingendosi in un territorio nel quale valgono nessi causali di tipo immediato e meccanico. E difatti, con l’impiego degli automatismi governati dalle macchine, non c’è da attendere che siano gli operatori giuridici a ricondurre le conseguenze giuridiche al fatto rilevante: esse si producono necessariamente e automaticamente. Come appunto nota Lettieri, l’intervento di coloro che sono chiamati ad applicare la norma ex post è del tutto inutile: la norma, per così dire, si applica da sola senza bisogno di alcuna mediazione.
4. A queste trasformazioni che ho chiamato “strutturali” si lega un ulteriore elemento, che pur non trattato esplicitamente da Lettieri può essere rintracciato come sottofondo di alcune sue analisi. Il diritto algoritmico — o tecnodiritto, che dir si voglia —, per il modo stesso in cui è chiamato a funzionare e per la natura degli strumenti che gli permettono di produrre i suoi effetti, ha necessariamente un’anima binaria, che rischia di inquinare pesantemente il nostro approccio al diritto e alle sue grandi risorse regolatorie. Pensare il diritto secondo schemi algoritmici vuol dire operare sulle relazioni sociali mediante schematismi che siano riconducibili al “sì/no”, “dentro/fuori”, “accettato/respinto”, e così di seguito secondo la logica dicotomica che è propria del digitale. Apparentemente una semplificazione utile alla regolazione sociale, ma in realtà foriera di molti rischi sul piano della considerazione delle tante dimensioni di cui una norma giuridica (e chi decide in base ad essa) dovrebbe essere capace di farsi carico.
Si aprono, a questo proposito una serie di interrogativi assai rilevanti. Quante sono le questioni, i problemi, le relazioni che possiamo ricondurre ad una logica binaria senza produrre una grave perdita in termini di considerazione di tutti gli elementi formali e materiali che devono entrare in una decisione giuridica (a cominciare dal momento in cui viene formulata la norma)? Quali sono i costi della digitalizzazione del diritto? Quanto influisce la dicotomizzazione delle opzioni anche sui modi dell’ubbidienza in termini di responsabilità e di riconoscimento delle reciproche aspettative?
Forse, sul piano dell’umanizzazione del diritto, questi sono prezzi ancora più alti rispetto a quelli che rischiamo di pagare sul piano delle garanzie di uno stato di diritto. Perché se da un lato è paradossale che, nell’epoca dell’assoluta trasparenza, il diritto diventi nuovamente opaco, tornando a nascondersi dentro il corpo di una macchina come un tempo si nascondeva dentro il corpo del giurista (si veda il celebre e significativo quadro di Arcimboldo del 1566), dall’altro lato è forse inaccettabile che per rendere più efficaci le regole le si allontani abissalmente dal ‘mondo’ per il quale esse sono chiamate a funzionare.
5. Sono ancora molti i profili presenti nella trattazione di Lettieri e non è possibile darne conto qui nemmeno sinteticamente. Da ciò che si è potuto riportare si intuisce comunque quanto sia cruciale l’approccio critico, al quale egli richiama soprattutto la filosofia del diritto (Un approccio giusfilosofico è, tra l’altro, il sottotitolo del volume), ma che forse può essere inteso come un richiamo che vale per tutta la cultura giuridica, e non solo per quella accademica, ma per la cultura giuridica diffusa tra operatori e cittadini. Se il tema del ruolo che il diritto deve assumere di fronte alla (o addirittura dentro la) tecnologia è tema che interessa soprattutto i giuristi, chiamati ad assumere un ruolo che non sia puramente passivo e ‘servente’ rispetto alle evoluzioni tecnologiche, quello della responsabilità nel prendere decisioni è tema che invece non può non riguardare ogni cittadino, dal momento che gli automatismi giuridici possono «portare all’indebolimento dei meccanismi di autocontrollo e a un depotenziamento del valore e della componente morale sottesa alla decisione di osservare la norma». Si potrebbe aggiungere, anche qui, che non si tratta di un problema esclusivamente morale ma sibbene giuridico, poiché l’ubbidienza al diritto è tema che non può essere mandato fuori dal diritto stesso senza indebolire ulteriormente la funzione — non solo ordinativa, ma pure emancipatoria — che esso svolge nei contesti sociali.
Che si tratti insomma di un tema che tutti dobbiamo prendere a cuore lo si capisce dal fatto che le «azioni emergenti di disobbedienza e resistenza» alle quali Lettieri dedica una parte importante del volume (e che sono evocate fin dal titolo del lavoro, mediante la figura di Antigone) possono essere efficaci soltanto se tutti diveniamo consapevoli di quanto sta avvenendo e se tutti capiamo i meccanismi di funzionamento del mondo tecno-normativo che ci sta avvolgendo sempre più intensamente. È difficile dire quanto le varie forme di resistenza evocate da Lettieri possano essere efficaci, ma certo non possiamo più prendere sottogamba la trasformazione che già stiamo vivendo. Occorre di qui in avanti lavorare attentamente sul problema che Antigone e gli algoritmi denuncia così chiaramente. Sui modi e sul funzionamento del diritto si sta già giocando una partita cruciale che ha a che fare, più che con la tecnica giuridica, con tutto ciò che è profondamente ed essenzialmente umano.
* Pubblicato contemporaneamente su «Scienza & Pace Magazine» (http://magazine.cisp.unipi.it/)
LE ELEZIONI SUPPLETIVE PER IL CSM. L’INTERVISTA AI CANDIDATI di Michela Petrini e Laura Reale
L’ 11 ed il 12 aprile p.v. si svolgeranno le elezioni suppletive per la nomina di un componente, per la categoria dei giudicanti, del Consiglio Superiore della Magistratura.
Si tratta della terza tornata di elezioni suppletive a seguito di quanto emerso dall’indagine della Procura di Perugia, che ha portato alle dimissioni di alcuni componenti dell’organo di autogoverno, rendendo necessario, dunque, per l’assenza di candidati, l’indizione di nuove elezioni.
Rimane poco più di un anno di consiliatura per l’attuale C.S.M. e, tuttavia, si tratta di un anno di indubbio peso ed intensità. Può sostenersi che mai, come oggi, la magistratura avverta la necessità di riacquistare fiducia nell’organo di autogoverno, chiamato dunque ad affrontare una fase di transizione storica e tale per cui può ragionevolmente ritenersi che le scelte di oggi condizioneranno gli anni futuri della magistratura tutta e del modo di essere magistrati.
“Giustizia Insieme” ha ritenuto opportuno sottoporre ai quattro candidati alcune domande al fine di rendere note agli elettori, oltre che la biografia, le posizioni degli stessi in merito ad alcuni temi di rilevante interesse ed utili ad offrire al lettore alcuni elementi di valutazione, per poter così meglio orientare la propria scelta.
1.Il rapporto tra la politica e la magistratura non è mai stato sereno.
Da anni registriamo attacchi della politica alla magistratura, accusata di strumentalizzare i processi penali per attaccare o indebolire una certa parte politica. Oggi, tuttavia, anche grazie all’inchiesta della Procura di Perugia, è emerso uno scenario diverso, nel quale politici e magistrati sembrano ricercare alleanze e appoggi per conseguire, reciproci, privati, obiettivi.
Il Prof. Giovanni Maria Flick, nel suo libro “Giustizia in crisi (salvo intese)” mette in evidenzia le distorsioni dell’attuale rapporto tra potere politico e potere giudiziario ed afferma che “la politica debba accettare l’idea che, nel rapporto con la giustizia, il rispetto reciproco è fondamentale” , mentre la “magistratura può’ risalire la china soltanto e soprattutto con la cultura, prima ancora che con le leggi; ritornando a ragionare di una cultura della legalità’ sostanziale , della reputazione , della responsabilità’”.
Ritieni che il sistema delle “porte girevoli” tra politica e magistratura abbia contribuito a determinare l’attuale assetto dei rapporti? E quali passi concreti possono essere fatti, da un lato per ripristinare un reciproco rispetto istituzionale e, dall’altro, per impedire che si instaurino canali di dialogo privilegiati e finalizzati esclusivamente a perseguire interessi estranei alla cultura della legalità?
MARIA TIZIANA BALDUINI
Il dibattito sull’orientamento politico della magistratura è avvelenato da posizioni ideologiche e ambizioni personali provenienti da una piccola parte di colleghi in danno di tutti gli altri. Il diritto anche dei magistrati di partecipare alla vita pubblica e al confronto dialettico implica assoluto equilibrio per la delicatezza delle funzioni esercitate, perché non è l’attività giudiziaria, ma quella politica, ad essere primariamente deputata ad elaborare ed attuare i valori e le trasformazioni della società. I magistrati non perseguono fini politici e non sono investiti di alcuna salvifica missione morale. La Costituzione ci richiama al dovere di una collaborazione che deve essere leale fra poteri dello Stato, in totale contrapposizione con l’immagine di avversari da contrastare. La maggioranza di colleghe e colleghi si ispirano a valori di moderazione, essendo esenti da pregiudiziali ideologiche, competenti, capaci di ascoltare, aperti al confronto sui contenuti, mai prevenuti, in grado di farsi interpreti di quei valori di servizio che sono propri del rilievo istituzionale del ruolo, da esercitare sempre con onore e dignità rifuggendo da logiche di potere.
L’inchiesta di Perugia ha tuttavia scoperchiato ben più di qualche deprecabile fatto, svelando appieno anche finte purezze, ipocrisie e un gravissimo corto circuito in cui è precipitato il Csm. Occorrono certamente norme più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, ma la questione non è limitata a coloro che finiscono negli organi elettivi. E’ un tema di valenza culturale, anzi di fragilità culturale, di pensiero debole, di perdita di valori fino a qualche tempo fa ben saldi e interiorizzati. Il reciproco rispetto istituzionale passa attraverso la forza culturale delle persone chiamate ad incarnare certi ruoli e a rispettare sempre le regole. Si tratta di profili generali e mentalità che o si possiedono o non si possiedono.
Sono favorevole alla previsione per legge di una separazione più marcata che eviti le cd. “porte girevoli", ma, al contempo, osservo che non si può nascondere la verità con l’ennesimo velo di pudore. Nelle note vicende degli ultimi due anni la politica non è la principale, insana, protagonista, giacché non può sfuggire che si è in realtà prevalentemente consumata una indecente lotta oligarchica di conservazione del potere, tutta interna alla magistratura.
MARIO CIGNA
Il rapporto tra politica e magistratura deve essere ispirato al rispetto reciproco, con la consapevolezza della diversità delle rispettive funzioni.
Il magistrato, soggetto soltanto alla legge, deve giudicare da terzo, senza alcuna interferenza, al solo fine di tutelare la legalità e di far valere, anche nei confronti della “politica” e della stessa magistratura, il rispetto delle regole.
La “politica” deve pretendere detta terzietà ed essere quindi consapevole che i procedimenti penali tendono all’accertamento dell’illegalità e non costituiscono mai strumento per attaccare o indebolire una certa parte politica; al riguardo va peraltro evidenziato che i fatti di cui all’inchiesta di Perugia, ancora compiutamente da accertare nel loro rilievo penale o disciplinare o deontologico, sono stati portati alla luce dalla stessa magistratura, senza alcuno spirito corporativo, al solo fine di far valere la legalità.
La magistratura, da parte sua, deve evitare ogni commistione con la politica, con cui deve dialogare solo attraverso gli organi istituzionalmente competenti; a tal fine la magistratura non solo deve essere terza, ma anche apparire tale, sicché, non potendosi impedire al magistrato di aspirare a cariche politiche, apportando la propria specifica esperienza, va poi impedito (o comunque reso estremamente complesso) il ritorno nella magistratura (c.d. porte girevoli), non potendosi dubitare che la candidatura del magistrato in una carica politica (e, a maggior ragione, l’effettivo espletamento della carica) comporti un “offuscamento” della sua precedente immagine di terzietà.
MARCO D’ORAZI
Vorrei innanzi tutto ringraziare la redazione di GIUSTIZIA INSIEME, per la opportunità di questa intervista; essa consente ai lettori di conoscere le posizioni dei vari candidati. E’ una iniziativa importante, in questo periodo grigio per la magistratura italiana.
La risposta richiede una premessa.
Abbiamo assistito, nel biennio 2019-2021, al manifestarsi acuto di una crisi della gestione dell’autogoverno, da parte delle tre correnti tradizionali (Area-Unicost-M.I.). L’esito di questa gestione è, francamente, fallimentare. Gli allarmi di molti magistrati sono rimasti inascoltati, quando non irrisi; anche quando emergevano spie chiarissime di questa crisi. Oggi, raccogliamo dunque i cocci di una gestione negativa, che dura da almeno un quindicennio (anche se, come si usa dire, motus in fine velocior). E’una valutazione politica, che prescinde dalla qualità delle persone che hanno gestito le tre correnti tradizionali (quattro, prima della fusione in Area), a volte persone di grande levatura ed ottimi colleghi.
La grave crisi dell’autogoverno si è evidenziata nella mancata trasparenza delle scelte di alcune posizioni; con una evidente sotto-rappresentazione, ad esempio, dei magistrati non correntizzati nei posti direttivi; in vere e proprie macroscopiche ingiustizie, che inevitabilmente conducono a risentimenti e tensioni negli uffici; in una normazione secondaria ipertrofica e non tecnicamente avveduta; in un carrierismo a volte grottesco; in un disciplinare spesso feroce con i magistrati di prima linea.
Lo scorso anno, nel libro Una Giustizia degna dell’Italia-Idee sparse per la riscossa della magistratura, ho cercato di analizzare le ragioni di questa malattia, paragonando questo fenomeno, mutatis mutandis, a quello che Enrico Berliguer denunciò nella famosa intervista a Scalfari (Repubblica, 28 luglio 1981); una perdita di senso dei partiti tradizionali e la loro riduzione a centri di potere, ad agenzie di placement.
Questa la premessa.
Ed è la ragione che mi ha spinto, superando una personale vocazione al lavoro puramente intellettuale, ad impegnarmi in un gruppo di magistrati, come Autonomia e Indipendenza, nel quale ho trovato una casa, che profuma di bucato, dalla quale iniziare una ricostruzione, insieme e non contro i colleghi.
In questo quindicennio e per le ragioni che ho detto sopra, si sono infiacchite le risposte immunitarie.
La risposta alla domanda è dunque questa: è stato allora possibile, in alcuni casi, che si creassero canali di dialogo non trasparenti ed il perseguimento di interessi privatistici. Quanto avvenuto è però la conseguenza di questo fallimento storico delle tre correnti tradizionali, che ci lascia un corpo infiacchito ed aperto a questi fenomeni.
LUCA MINNITI
Il tema è risalente, si pensi alle infiltrazioni della Loggia P2, ma oggi presenta delle novità significative non solo per le cadute deontologiche emerse di recente, ma per il profondo mutamento del sistema politico.
In ogni caso il problema è sempre quello dell’imparzialità e dell’immagine di imparzialità dei magistrati.
Ma la trasformazione in un sistema bipolare del sistema politico, l’accentuazione della polemica personale, il conflitto individuale come paradigma della competizione, rendono l’agone politico vieppiù incompatibile con l’immagine di imparzialità del magistrato.
Ed anche il modo di raccogliere il consenso, attraverso i nuovi media, ha alimentato una idea personalistica della politica e del potere, incompatibile con l’immagine che deve offrire il potere giurisdizionale attraverso tutti i suoi membri.
Nelle proposte del Governo si vuole introdurre il divieto per i magistrati di candidarsi, anche per le elezioni amministrative, nel territorio in cui hanno esercitato le funzioni ed il divieto, per i magistrati eletti in parlamento o che abbiano assunto incarichi di governo nazionale, di rientrare in magistratura alla fine del mandato con destinazione a funzioni amministrative.
La proposta mi trova d’accordo.
Per altro verso l’impegno dei magistrati in incarichi amministrativi è fenomeno molto diverso: gli incarichi fiduciari da parte di una istituzione, sono incarichi di tipo amministrativo, affidati a magistrati, che pur fondandosi su una scelta di tipo fiduciario, hanno natura tecnica, che nulla ha a che vedere con la rappresentanza politica.
Non è corretto, a mio avviso, equiparare l’incarico elettivo o di Governo, con incarichi amministrativi, anche se è giusto prevedere, come fa la proposta governativa, un periodo di decantazione tra l’incarico amministrativo e la nomina ad incarichi direttivi o semi-direttivi; esso serve sia a preservare l’immagine di imparzialità delle decisioni del Consiglio che a garantire la nomina di dirigenti che provengono da un impegno attuale e recente nella giurisdizione.
2. Nell’articolo di Giovanni Tamburino Ripensando ad A. Nappi “Quattro anni a palazzo dei marescialli” di Giovanni Tamburino, pubblicato su questa rivista il 29 marzo scorso viene affrontato l’argomento della politicità del Csm. Politicità intesa non come politica di governo sui temi della giustizia, funzione che spetta ai rappresentanti del popolo, ma come “attuazione della politica della giustizia”. Scrive Giovanni Tamburino “coloro che entrano nel CSM devono avere la consapevolezza che nel ruolo di gestione/amministrazione dei singoli magistrati e nei provvedimenti paranormativi hanno un compito di rilievo politico: il rilievo politico che possiede in uno Stato il funzionamento concreto della sua giustizia”. La caduta della “politicità” è così individuata come la prima causa della crisi del CSM. Cosa pensi di questa affermazione?
MARIA TIZIANA BALDUINI
Anche a costo di apparire in minoranza, reputo che il Csm sia un organo di alta amministrazione, anche se fra le funzioni ve n’è una, quella disciplinare, che ha natura giurisdizionale. Non occorre impegnare il termine “politicità” per affermare che occorre operare le scelte con consapevolezza, comprendendone il valore per la vita delle Istituzioni e dell'intera magistratura. La rilevanza costituzionale del Csm risiede nella circostanza che gli atti di gestone che riguardano i magistrati, risultando potenzialmente lesivi della loro indipendenza, vanno preservati da un esercizio diretto del potere politico. Da qui il concetto di organo di garanzia, che mi appare assai più confacente. Mi rafforza nel convincimento pensare che una natura diversa, con rilievo politico, non sembra comunque avere attecchito in Consiglio nel significato auspicato, dal momento in cui l’odierno comune sentire attribuisce invece al termine il valore - non nobile - di “schieramento sistematico di parte, per appartenenza”, piuttosto che di declinazione del funzionamento concreto della giustizia.
MARIO CIGNA
Il Csm è organo di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, il cui “rilievo costituzionale” è dato proprio dalla sua stessa finalità, atteso che autonomia ed indipendenza costituiscono valori costituzionali.
Il Csm non è, tuttavia, un organo costituzionale “politico” (come Parlamento e Governo), non essendo i suoi atti volti ad attuare un programma prefissato; è indubbio, tuttavia, che i suoi atti, come quelli di tutti gli altri organi di garanzia (v. Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale), concernendo il funzionamento in concreto della giustizia nel Paese, influenzino la “politica” ed in particolare concorrano alla “politica giudiziaria” , abbiano quindi, per usare l’espressione di Paolo Barile, una loro “politicità intrinseca”; il Csm non può comunque considerarsi un organo meramente tecnico-amministrativo (sia pure di “alta amministrazione”), come reso evidente dalla partecipazione dei “laici” e dalla stessa Presidenza, attribuita al Capo dello Stato; partecipazione che non avrebbe alcun senso se il CSM fosse solo un organo meramente tecnico-amministrativo.
MARCO D’ORAZI
La affermazione di Tamburino è pienamente condivisibile.
La crisi dell’autogoverno non è dovuta alla “politicizzazione” della magistratura, per usare uno slogan.
La crisi dell’autogoverno è dovuta alla perdita di forza ideale delle tre correnti tradizionali; che si sono così adagiate su una gestione mediocre dell’esistente, se non su un franco familismo amorale. Il fallimento storico, di cui parlavo prima, non è dunque dovuto ad un eccesso di politicizzazione ma alla perdita di forza degli ideali che sorreggevano le tre correnti tradizionali.
Meglio di Tamburino, francamente, non saprei dire.
LUCA MINNITI
L’art. 105 Cost., disegna un organo con proprie attribuzioni sostanziali, che implicano l’esercizio di una discrezionalità amministrativa e non meramente tecnica.
L’azione di governo autonomo della magistratura, in ossequio ai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, deve essere capace di un immediato adeguamento all’evoluzione dei tempi e alle mutevoli necessità della giurisdizione, a loro volta continuamente sollecitate dalle imprevedibili necessità sociali e dalle specifiche esigenze dei diversi territori.
Un irrigidimento dei parametri valutativi e degli indicatori, attraverso la loro sussunzione a livello normativo primario, e un eccessivo dettaglio nella loro formulazione, privano l’azione consiliare della duttilità necessaria per un intervento tempestivo ed efficace nel settore dell’organizzazione della giurisdizione civile e penale, in tutte le declinazioni in cui tale intervento si attua (dall’organizzazione degli uffici alla carriera dei magistrati).
La qualità, l’efficacia, l’efficienza della giurisdizione esigono un Csm in grado di fare scelte di politica giudiziaria consone con il dettato normativo ma adeguate alle specificità del caso, alle necessità del momento, alla migliore attuazione dei principi di buona amministrazione della giustizia.
3. Sono oramai molte le delibere del Csm per conferimenti di incarichi direttivi e semidirettivi che vengono annullate dalla giustizia amministrativa; di recente è stata ritenuta censurabile anche la delibera di nomina di alcuni componenti del comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura. Il tema del sindacato sull’esercizio della discrezionalità amministrativa è stato oggetto di numerose riflessioni e approfondimenti sia in dottrina che in giurisprudenza.
La commissione Paladin – molto rigida sull’applicazione del principio di riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario – affermava comunque che «l’esistenza di un organo quale il CSM rischierebbe di non avere senso, se i provvedimenti ad esso spettanti fossero del tutto vincolati alla necessaria e meccanica applicazione di previe norme di legge». Anche la Corte Costituzionale ha affermato che «dalla riserva di legge discende la necessità che sia la fonte primaria a stabilire i criteri generali di valutazione e di selezione degli aspiranti e le conseguenti modalità della nomina. La riserva non implica, invece, che tali criteri debbano essere predeterminati dal legislatore in termini così analitici e dettagliati da rendere strettamente [esecutive e vincolate le scelte relative alle persone cui affidare la direzione degli […] uffici, annullando di conseguenza ogni margine di apprezzamento e di valutazione discrezionale, assoluta o comparativa, dei diversi candidati» (sentenza nr. 72 del 1991).
Qual è la tua posizione in merito? Avresti difficoltà a sostenere, per un incarico direttivo o semidirettivo, un candidato non iscritto ad alcuna corrente oppure iscritto ad una corrente diversa da quella nella quale ti riconosci, qualora lo ritenessi più meritevole?
MARIA TIZIANA BALDUINI
La mia storia personale ed in particolare l’attività che ho svolto in seno al Consiglio Giudiziario presso la Corte d’Appello di Roma fornisce un’adeguata risposta a questa domanda. Le mie azioni sono sempre state improntate alla valorizzazione dei meriti dei colleghi ed all’esame delle differenti questioni in un’ottica di equità.
MARIO CIGNA
La nomina dei magistrati negli uffici direttivi spetta al CSM per previsione dell’art. 105 Costituzione. La Corte costituzionale esclude che la legge possa sopprimere ogni discrezionalità nelle nomine, come nelle scelte organizzative e tabellari. Vi è un ambito di discrezionalità, quindi, rimesso al CSM, che certamente non deve significare arbitrio.
Al CSM è necessario esercitare la discrezionalità utilizzando lo stesso modello che il magistrato adotta nell’attività giurisdizionale; e cioè: accertare i fatti, studiare le regole ed applicare le regole al caso concreto, decidere da terzo, senza alcuna interferenza; esattamente in quest’ordine, e mai prima decidere e poi collegare alla decisione regole e fatti; il Csm, specie nelle valutazioni comparative, deve utilizzare al meglio la necessaria discrezionalità, dopo avere condiviso le regole generali (i cd. “paletti”) entro le quali la stessa va applicata in maniera identica per tutti i casi analoghi.
Ritengo fondamentale che il magistrato, anche all’interno del CSM, conservi la sua terzietà, da tutti, e non subisca alcuna interferenza né da gruppi politici o economici né da gruppi associativi; Unicost, il gruppo associativo che mi sostiene, ha consacrato ufficialmente questo principio, prevedendo espressamente nel nuovo Statuto (la cui bozza è stata predisposta dall’assemblea costituente e sarà –si spera- a breve approvata dall’assemblea generale del gruppo) il “patto di corresponsabilità etica” tra elettore e candidato al CSM, in base al quale “il candidato si impegna, in caso di elezione, a rifiutare ogni indebita interferenza ed a combattere logiche spartitorie”; di conseguenza, mi impegno ad indicare, per la nomina ad un incarico direttivo o semidirettivo, sempre il collega più meritevole, prescindendo dalla sua appartenenza, o meno, a qualsiasi gruppo associativo.
MARCO D’ORAZI
Le domande sono due.
Parto dall’ultima.
La crisi del C.S.M. nasce proprio dalla natura partigiana di molte delle scelte delle tre correnti tradizionali. Così, se un candidato è della corrente Verde, questo viene sospinto dai consiglieri della corrente Verde come una meraviglia della giurisprudenza del XXI secolo; lo stesso se il candidato è della corrente Blu: i consiglieri Blu lo descriveranno come novello Papiniano.
Occorre che questi fenomeni cessino e questa esigenza di cambiamento è la ragione fondamentale del mio impegno.
La risposta all’ultima domanda è dunque un forte e chiaro sì; peraltro, proprio l’analisi del voto degli attuali componenti di Autonomia e Indipendenza mostra come gli stessi votino spesso in modo difforme fra loro, proprio perché vi è una libertà di coscienza assoluta, senza alcun vincolo di gruppo.
Nei miei scritti - da ultimo nel libro Una giustizia degna dell’Italia, pg. 53 - da molti anni ho battezzato questa domanda come la “domanda di Mimmo”; un collega di Ferrara, Domenico “Mimmo” Stigliano, in una precedente campagna elettorale, chiese ad alcuni candidati se, in presenza di un candidato, di un’altra corrente o di nessuna corrente ma di maggior valore del candidato della loro corrente, quei candidati avrebbero avuto il coraggio intellettuale di votare per il magistrato di maggiore valore.
A costo di ripetermi, la risposta alla “domanda di Mimmo” è un forte e chiaro sì. È anzi questa la ragione del mio impegno; la constatazione che troppe volte a quella domanda non è stata data l’unica risposta degna di un magistrato.
Diverso discorso va fatto per la gestione della discrezionalità come tema generale.
La riforma c.d. Castelli-Mastella ha letteralmente gettato sul C.S.M. una discrezionalità inedita.
Non vi è stata, da parte delle correnti tradizionali, una adeguata capacità culturale e tecnica, per gestire questa discrezionalità. Innanzi tutto, sul piano culturale: l’ideologia che sorreggeva la riforma era una ideologia, già vecchia al momento in cui è stata proposta, vagamente efficientista; l’associazionismo non ha saputo offrire una narrazione alternativa, che tenesse fermo il principio del terzo comma dell’articolo 107 Cost., pur nella necessità di una scelta del “più adatto”.
Anche sul piano tecnico, occorreva meglio regolare questa inedita discrezionalità. La discrezionalità può essere “spesa”, per usare la espressione del diritto amministrativo, anche in più fasi, cioè con provvedimenti più generali (circolari), che chiariscano in modo preciso i criteri delle scelte concrete (le nomine). Così facendo, il C.S.M. non abdica alla sua discrezionalità ma la regola “a cascata”; naturalmente, per alcune nomine, rimane un profilo, per così dire, di “intuitus personae”; rispetto a tali nomine, rimane ferma la “domanda di Mimmo”.
LUCA MINNITI
Ovviamente non avrei nessuna difficoltà ed anzi riterrei arbitraria una scelta opposta che desse alla collocazione associativa un qualunque peso nella scelta e mi batterei per spogliare qualsiasi decisione da questa interferenza.
Ma l’inquinamento delle decisioni del CSM non si combatte con la dissoluzione del potere del Csm ma con il suo corretto uso: i magistrati esercitano nella giurisdizione la propria imparzialità, devono conservare e coltivare la stessa capacità anche nell’Autogoverno, costruendo strumenti tecnico giuridici idonei a dotare anche l’esercizio della discrezionalità nel CSM del medesimo standard di imparzialità adottato nella giurisdizione.
4. Quale possibile futuro componente del Consiglio Superiore della Magistratura sei favorevole ad introdurre una normativa che impedisca ai consiglieri di concorrere per uffici direttivi o semidirettivi immediatamente dopo la fine del mandato? In caso positivo come potrebbe essere, in concreto, strutturato tale limite anche in relazione alla durata?
MARIA TIZIANA BALDUINI
La disciplina sul rientro in ruolo dei consiglieri togati (art. 30, comma 2, del dpr 26 settembre 1958 n. 916), vigente fino al 2017, traeva la sua ragion d’essere nel forte impegno dei gruppi associativi nell’aggregazione del consenso elettorale. E anche i consiglieri uscenti dei singoli gruppi erano in grado di assumere, in tale contesto, un ruolo di polarizzazione del consenso contribuendo all’elezione dei neo consiglieri. La disciplina previgente sul rientro in ruolo mirava quindi a rimuovere l’ombra del sospetto che i neo eletti potessero, vuoi per contiguità associativa vuoi per debito di riconoscenza, esercitare le funzioni consiliari in modo improprio favorendo le ambizioni dei loro predecessori, il tutto secondo uno schema destinato a perpetuarsi da una consiliatura all’altra. Certo sarebbe utile, a mio personale avviso, reintrodurre tale disciplina, ma con l’avvertenza che non basta: ci vuole molto di più per recuperare la fiducia dei colleghi nell’Organo di autogoverno. Occorre un cambio radicale di prospettiva che intervenga sul piano decisivo delle condotte individuali in modo da rassicurare i colleghi sul fatto che la funzione istituzionale sia sempre esercitata con assoluta trasparenza ed obiettività e soprattutto al di fuori da logiche di appartenenza.
MARIO CIGNA
Sono assolutamente favorevole. In tal modo, infatti, possono essere evitati ipotetici condizionamenti, derivanti dalla precedente attività consiliare, che potrebbero inquinare le regole e la valutazione del merito.
MARCO D’ORAZI
Come è noto, un limite di questo tipo già esisteva. L’art. 13 della legge 44 del 28 marzo 2002 aveva infatti modificato l’art. 30, comma 2, del d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916, nel senso di prevedere un periodo, successivo alla fine del mandato, durante il quale i componenti uscenti del C.S.M. non potevano essere destinati ad ufficio direttivo o semi-direttivo o ad un nuovo fuori-ruolo, per un biennio. La ratio della norma era chiara; già nel 2002 si evidenziavano tendenze oligarchiche dei gruppi dirigenti delle correnti e, dunque, il legislatore aveva inteso imporre un “bagno di giurisdizione”, come si usa dire, proprio per impedire carriere parallele.
È altresì noto che, attraverso un emendamento di incerta attribuzione - in termini giornalistici, si è parlato di una “manina” - si è consentito ai magistrati uscenti dalla consiliatura 2014-2018 nuovi fuori ruolo, abrogando appunto l’articolo 30, comma 2, del d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916 ed il relativo divieto. La A.N.M. ha mostrato la propria contrarietà a questa modifica, invitando anzi i magistrati uscenti ad improntare la loro condotta alla normativa abrogata.
Questa la storia.
Tecnicamente, ritengo non praticabile reintrodurre il divieto in via amministrativa. Spetta dunque al legislatore, qualora lo ritenga opportuno, prevedere una norma analoga a quella abrogata; appunto con il fine di ribadire, in modo plastico, che il periodo al C.S.M. è un servizio alla giurisdizione e scoraggiare carriere parallele.
Quindi, attendiamo il legislatore.
Posso però dire che, anche in mancanza di tale norma, assumo l’impegno, se eletto, di rientrare in ruolo come giudice del Tribunale di Bologna.
LUCA MINNITI
In prima persona, come hanno già manifestato i Consiglieri candidati ed eletti da Area Dg, assumo l’impegno, anche in assenza di una legge, di non chiedere incarichi per due anni.
In questo senso potrebbe esser utile una legge e la riforma Bonafede, che ne prevede 4 di anni, mi vede comunque favorevole.
5. Come valuti l'attuale sistema di valutazione di professionalità e come ti poni rispetto alla prospettiva, di recente ventilata, di inserire dei meccanismi di verifica della tenuta dei provvedimenti giurisdizionali nei gradi successivi come indice di qualità del lavoro?
MARIA TIZIANA BALDUINI
L’attuale sistema di valutazione di professionalità è troppo macchinoso e certamente sarebbe utile semplificarlo; in tale ottica, senz’altro positivi sono alcuni spunti contenuti nel ddl di riforma ordinamentale attualmente all’esame del Parlamento.
Non credo tuttavia sia corretto concentrarsi su una verifica della “tenuta” dei provvedimenti giurisdizionali nelle successive fasi giudiziali. Si tratta di un tema che viene strumentalmente agitato nel dibattito pubblico allo scopo di intimidire la magistratura inquirente e imbrigliare il controllo di legalità dalla stessa esercitato.
L’attuale sistema già prevede, come noto, un monitoraggio delle “significative anomalie” nel rapporto tra i provvedimenti emessi e gli esiti delle successive fasi o gradi del giudizio. E mi fermerei qui: spingersi oltre questo limite significa negare in radice il valore intellettuale del lavoro del magistrato e ignorare che una diversità di valutazioni nelle diverse fasi del processo è in qualche misura fisiologica. Lo scopo del processo è proprio quello di pervenire, nella pienezza del contraddittorio, all’accertamento della verità, che è frutto di un percorso complesso che si nutre dell’approfondimento di un dato sovente mutevole anche per l’incidenza fondamentale esercitata su di esso dalla dialettica processuale. L’eventuale riforma della decisione non significa che ha sbagliato il magistrato che l’ha emessa, essendo anzi frequente che una difformità di valutazione tra un grado di giudizio e l’altro non sia affatto dipesa da precedenti manchevolezze.
MARIO CIGNA
Le valutazioni di professionalità, pur assolutamente necessarie, hanno perso il loro spirito più autentico, e cioè la verifica del raggiungimento, da parte del magistrato in valutazione, di uno standard quantitativo e qualitativo adeguato alla funzione giudiziaria; il che rileva, anche per il conferimento di incarico direttivo o semidirettivo (v. art. 11, comma 15 d.lgs. 160/2006), in quanto il contenuto della valutazione di professionalità può essere poi utilizzato al fine della valutazione comparativa in sede di conferimento dell’incarico predetto.
Le valutazioni di professionalità presentano, poi, altre criticità; tra queste: la difficoltà, da parte dei dirigenti sia di esprimere giudizi negativi sia di far emergere specifiche doti del magistrato in valutazione; la difficoltà di far emergere la qualità del lavoro svolto da quest’ultimo, non essendo a volte il relatore ( spesso impegnato in un settore diverso) in grado di compiutamente valutare i provvedimenti a campione del magistrato in valutazione; l’eccessivo peso attribuito alle statistiche comparate, che possono indurre il magistrato a privilegiare cause più semplici, a discapito di quelle più complesse, al solo fine di migliorare il dato statistico .
Indice della qualità del lavoro può essere solo una significativa e patologica alta percentuale di riforma dei provvedimenti adottati; di per sé la riforma del provvedimento in un grado successivo non può invece essere considerata indice della qualità del lavoro; al contrario, l’eccessiva importanza attribuita alla tenuta dei provvedimenti può indurre il magistrato a conformarsi passivamente alle decisione dei giudici di grado superiore, con evidenti pericoli di limitare la sempre auspicabile evoluzione della giurisprudenza; ciò vale anche per le valutazioni dei magistrati requirenti, la cui professionalità non può essere valutata sulla base degli esiti dibattimentali, troppo spesso fondati su variabili indipendenti dall’attività di indagine.
MARCO D’ORAZI
Il criterio di tenuta dei provvedimenti, nei gradi successivi, già è presente, come segnalazione di “anomalie”, nel rapporto fra conferme e riforme. Dunque, il criterio esiste già. Come per molti altri aspetti della gestione del governo autonomo, quello che conta è il buon senso e la onestà intellettuale in sede di redazione del parere, più che la creazione di nuove norme. Ciò sia a livello di Consiglio giudiziario sia poi al C.S.M.
Il buon senso impone dunque di verificare se gli eventuali scostamenti siano dovuti a sciatteria, oppure ad una consapevole e motivata giurisprudenza, pur non conforme alla giurisprudenza dei livelli di decisione superiori.
LUCA MINNITI
Sono decisamente contrario.
Ogni automatismo è foriero di pericoli per l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati nell’esercizio della giurisdizione che è garanzia di evoluzione e crescita culturale della giurisdizione. Le anomalie possono già esser poste all’attenzione del sistema di valutazione, ma si deve trattare di serie anomalie, non di mere divergenze di orientamento giurisprudenziale.
6. Cosa ritieni che sia la “qualità della giurisdizione” ed in quale direzione può e deve muoversi il Consiglio Superiore della magistratura per darvi concretamente attuazione? E qual è, in questa tua visione, il modello di magistrato cui dovremmo aspirare per garantire tale qualità?
MARIA TIZIANA BALDUINI
Innanzitutto mi piacerebbe poter contare su una buona qualità della legislazione, con norme chiare, osservabili, precedute da una analisi di sostenibilità qualitativa e quantitativa. Dopodiché la qualità dei provvedimenti, e non necessariamente la rapidità, è il parametro più efficace di una giurisdizione efficiente: scorrevolezza, intelligibilità, risposta a tutte le questioni rilevanti, accettazione delle parti dell’esito del giudizio. Nessun magistrato può essere contento di vedere la propria decisione riformata, anche soltanto sul piano della reputazione e dell’auto-responsabilità. Sono contraria a una spinta eccessiva verso la velocità così come inculcata in questi anni. Si tratta di un produttivismo dannoso se indifferente ad esiti e qualità che sta rivelando i suoi primi effetti. Anziché incalzare ulteriormente i tempi decisionali occorre lavorare sulla diffusione delle banche dati (che sono anche strumenti di trasparenza), su una maggiore prevedibilità della giurisprudenza, sulla circolarità delle informazioni, sulla giustizia predittiva accompagnata da nuova tecnologia e investimenti adeguati.
MARIO CIGNA
Ho molto a cuore la qualità della giurisdizione, spesso da ultimo dimenticata a vantaggio della produttività e dei numeri; la qualità della giurisdizione, già di per sé garantita dal superamento del concorso, va perseguita intensificando l’aggiornamento professionale del magistrato attraverso la Scuola Superiore della magistratura e, soprattutto, consentendo al magistrato di decidere senza fretta, con la necessaria ponderazione, nella consapevolezza che dietro ad ogni fascicolo e ad ogni numero vi è una vicenda umana, e che la decisione andrà inevitabilmente ad incidere sulla stessa.
Per garantire tale “qualità” è necessario un magistrato equilibrato che, senza alcuna presunzione e senza fretta e clamore, con il lavoro quotidiano e con la necessaria ponderazione, ricerchi sempre la giusta decisione, la giusta risposta ai casi concreti che sono sulla sua scrivania.
MARCO D’ORAZI
Le domande sono due. Quale il modello di giurisdizione e di giudice e cosa fare per darvi concretamente attuazione.
Il modello di giudice è largamente condiviso fra i magistrati ma, direi, fra tutti i cittadini: una persona equilibrata e che prenda poco sul serio sé stesso e molto sul serio il proprio lavoro; scelto fra i migliori giuristi della sua generazione con un concorso rigoroso e trasparente; laborioso e ben organizzato; aggiornato e colto, così da rimanere sulla frontiera avanzata della dottrina giuridica; ferocemente indipendente da centri di potere esterni alla giurisdizione ed interni ad essa; fedele alla ispirazione progressiva della Costituzione; moderno ed attento ai movimenti della società in cui opera, senza farsi travolgere da calchi alla moda; fisicamente e moralmente coraggioso.
Credo che su questo vi sia un generale consenso.
Volendo evidenziare una specificità di Autonomia e Indipendenza, questo modello di magistrato, ideale, può portare a due visioni della giurisdizione, entrambe positive ma non esattamente coincidenti: una - se si vuole semplificare, di tipo “francese” - in cui il magistrato è parte di una più larga classe dirigente di estrazione tecnica, ben selezionata; altra - se si vuole “inglese” - in cui i giudici hanno una loro autonoma specificità (un proprium che condividono con le professioni giuridiche, come condivisione della autorevolezza del sapere giuridico). In questo ultimo modello, è maggiore la (pur rispettosa) distinzione rispetto alla funzione politica.
Quest’ultimo è il modello cui maggiormente inclina Autonomia e Indipendenza.
Cosa può fare il C.S.M.; è la seconda domanda.
Semplicemente, fare la cosa giusta. Noi abbiamo preservato, ed è un merito inestimabile dell’autogoverno, un concorso trasparente e rigoroso, ambìto dalle giovani generazioni. Va preservato con rigore. Occorre poi che, nelle nomine successive, si superi il particolarismo, che ha contrassegnato gli ultimi quindici anni. Ogni consigliere deve sentirsi al servizio del tutto, della Repubblica; non di una associazione privata.
LUCA MINNITI
Ho articolato nelle sette schede tematiche inviate a tutti i magistrati (reperibili al link https://www.areadg.it/elezioni/suppletive-aprile-2021/ ) le proposte per orientare il CSM e l’autogoverno in questa direzione.
Non tutto può fare il CSM e soprattutto nulla può il CSM fare da solo.
In sintesi
1) il CSM deve semplificare ed alleggerire le procedure volte a disciplinare l’impegno organizzativo. Le procedure tabellari, i programmi di gestione ed organizzativi, il sistema di rendicontazione, anche quello dei Mag. Rid e Mag rif, il ruolo delle Commissioni flussi può esser rivisto nel senso di rendere le procedure più agili, più veloci, più selettive, più eventuali e rivolte ad affrontare le specifiche criticità.
2) Il Csm deve sostenere una idea di innovazione tecnologica in grado di arricchire il sapere giudiziario ( banche dati agili e facilmente accessibili ) e di evitare la diffusione di prassi semplificatorie, riduttive della singolarità della decisione del caso concreto.
3) Il Csm deve promuovere un uso dei monitoraggi volto a preservare obiettivi di qualità ed evitare la corsa verso ritmi incompatibili con una giurisdizione ponderata
4) Il Csm deve favorire una idea di direzione degli uffici basata sul coordinamento di magistrati autonomi ed indipendenti, attenta alle difficoltà dei magistrati ed ai rischi di isolamento
5) Il Csm deve saper preservare lo spazio per la formazione dei magistrati in particolare nei primi anni di lavoro
6) Il Csm deve promuovere una flessibilità organizzativa che, in particolare nelle sedi dove approdano i giovani magistrati, consenta la tutela della genitorialità. La dotazione organica flessibile su base distrettuale è un nuovo importante strumento da valorizzare.
L’obiettivo, in sintesi, dovrà esser quello di consentire ai magistrati di recuperare tempo per la cura del contenuto dell’attività giurisdizionale, tempo per conoscere, per capire, per studiare, per confrontare gli orientamenti.
Ed anche la valutazione di professionalità dovrà valorizzare queste qualità professionali.
7. Il rischio di astensione alle prossime elezioni è molto elevato. Per quale ragione è importante andare a votare e quali sono gli aspetti del programma e del profilo del candidato che l’elettore dovrebbe valutare per esprimere un voto consapevole?
MARIA TIZIANA BALDUINI
È fondamentale andare a votare perché è l’unico modo per cambiare le cose, non votare vuol dire rinunciare a influire, accantonare la propria opinione, marginalizzarla. Comprendo lo sdegno dei colleghi per le recenti vicende legate al caso Palamara, e l’insoddisfazione crescente verso l’Organo di autogoverno: solo per fare un esempio, penso ad alcune recenti decisioni che hanno valorizzato, quasi “riesumandole”, sanzioni disciplinari assai risalenti di alcuni colleghi in tal guisa mortificandone ingiustamente le legittime aspirazioni. Per questo credo che l’elettore dovrebbe prima di tutto chiedersi: questo candidato, per le idee che incarna e la progettualità politico-associativa che esprime, è in grado di interpretare le mie speranze di cambiamento?
MARIO CIGNA
È vero! I colleghi sono giustamente disaffezionati ed amareggiati; è questa la terza elezione suppletiva, che si svolge peraltro in periodo di emergenza da Covid 19, e che segue i fatti di cui all’inchiesta di Perugia; è tuttavia assai importante andare a votare, in quanto nel residuo periodo di consiliatura il CSM dovrà esaminare e decidere questioni essenziali per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, conseguenti anche ai fatti di cui sopra; tali questioni dovranno essere affrontate con la necessaria ponderazione ed in assoluta terzietà.
Il mio programma, in estrema sintesi, è quello di portare il modello della giurisdizione in CSM, cioè di continuare a fare il Giudice nel CSM; nella “giurisdizione” ho infatti sempre svolto la mia lunga attività professionale, essendo entrato in magistratura nel 1985 ed avendo svolto dapprima le funzioni di Pretore mandamentale a Cinquefrondi (R.C.) e poi per 16 anni tra il Tribunale di Brindisi e quello di Lecce; poi otto anni di Corte Appello nel distretto di Lecce ed otto anni presso la Corte di Cassazione, dapprima alla sezione tributaria e poi alla terza civile; ora sono Presidente della prima sezione civile del Tribunale di Lecce. Mi sono reso disponibile proprio perché credo nella magistratura, nel suo ruolo costituzionale e, pur non avendo svolto mai attività associativa in prima persona, ho ritenuto di rendermi disponibile proprio ora per dare il mio contributo in un momento tanto difficile. Spero e sono certo che molti colleghi vorranno recarsi al voto per contribuire con la propria scelta a restituire credibilità al governo autonomo della magistratura, quella credibilità che tanti magistrati conquistano giorno dopo giorno nel proprio lavoro, qualificato e silenzioso. La magistratura deve tornare ad ottenere la fiducia, e non il consenso, dei cittadini: spero che anche questo momento elettorale possa servire a muoversi in questa direzione.
MARCO D’ORAZI
Negli incontri che teniamo, via TEAMS, insieme agli altri candidati, io inizio sempre la mia presentazione invitando i colleghi, in primo luogo, a votare; poi, ad andare a votare informati.
Andare a votare, innanzi tutto. La Costituzione della Repubblica ci ha dato il governo autonomo (che noi non abbiamo, invero, sempre onorato). Il che significa che dobbiamo averne cura, innanzi tutto con il voto. Non corrisponde al modello di magistrato, che la Costituzione disegna, un magistrato (magari laborioso, aggiornato, onesto), che non si occupi e preoccupi del suo organo di autogoverno.
Per offrire ai magistrati la possibilità di un voto informato, noi quattro candidati (ormai “quasi amici”, per richiamare il titolo di un film) abbiamo dato la disponibilità ad incontri via TEAMS a tutti i distretti; insieme ed in amichevole contraddittorio fra noi. Una “carovana virtuale”, che ha consentito ai colleghi interessati di conoscerci e che ha arricchito noi candidati.
Per quanto mi riguarda, ho cercato di riassumere la mia posizione in tre pilastri, rinviando poi ai vari scritti l’analisi degli aspetti tecnici.
Innanzi tutto, una radicale discontinuità rispetto al passato.
In secondo luogo, un atteggiamento di umiltà e colleganza. Non si può ricostruire, con recriminazioni, meschini j’accuse, dichiarandosi o sentendosi superiori ai colleghi. L’atteggiamento, mio personale e di Autonomia e Indipendenza, è quello di aiutare anche gli altri gruppi ad assumere un atteggiamento di discontinuità, rispetto ai fallimenti del passato; nonché di offrire a tutti i magistrati uno strumento concreto per cambiare le cose.
Infine, come terzo aspetto, occorre una notevole capacità tecnica, per metter mano alla normazione secondaria, spesso insoddisfacente.
Chiunque di noi sia eletto avrà inevitabilmente dei limiti temporali (un anno) e meccanici (salire su un treno in corsa) e farà tuttavia il possibile.
Questa consiliatura deve essere il seme di un cambio di paradigma; che sbocci in un C.S.M. casa di vetro; una casa di vetro che possiamo consegnare, orgogliosi, alle future generazioni di magistrati.
LUCA MINNITI
La storia professionale dei candidati è sempre un significativo elemento di valutazione del candidato e delle sue qualità rilevanti, qualità che individuo nella sua conoscenza del lavoro giudiziario, dei diversi mestieri del magistrato, requisito indispensabile nel Csm.
Rileva poi la capacità di approfondimento e di studio di temi complessi, dove i valori in gioco non sono sempre coerenti ed in relazione ai quali è necessario ponderare interessi contrastanti.
Infine, la capacità di porsi con le proprie idee in maniera trasparente, aperta, limpida, di non sottrarsi alle difficoltà.
Provvedimenti cautelari del giudice ordinario e giudizio di ottemperanza (in materia di pubblico impiego privatizzato)
(nota a Cons. Stato, Sez. VI, 17 febbraio 2021, n. 1463).
di Giuseppina Mari
Sommario: 1. Premessa e fattispecie oggetto della sentenza. – 2. I provvedimenti equiparati alle sentenze passate in giudicato del g.o. nell’art. 112, comma 2, lett. b), c.p.a. – 3. La strumentalità attenuata dei provvedimenti anticipatori nelle controversie di lavoro. – 4. Le modalità di attuazione a disposizione del g.o. nel procedimento ex art. 669-duodecies c.p.c. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa e fattispecie oggetto della sentenza
Il Consiglio di Stato, nella sentenza della Sezione VI n. 1463 del 2021, ha dichiarato inammissibile il ricorso per ottemperanza proposto per l’esecuzione di un’ordinanza cautelare resa dal giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro ex art. 700 c.p.c.. Ai sensi dell’art. 112, co. 2, lett. c), c.p.a. l’azione di ottemperanza con riguardo ai provvedimenti del g.o. è proponibile, infatti, solo per le sentenze passate in giudicato e per gli altri provvedimenti ad esse equiparati; in quest’ultima categoria il Consiglio di Stato non ha ritenuto inquadrabile il provvedimento ex art. 700 c.p.c., trattandosi di decisione interinale, ontologicamente inidonea ad incidere con efficacia di giudicato su posizioni giuridiche di natura sostanziale. La sentenza fornisce occasione per una riflessione sui provvedimenti attuabili in sede di ottemperanza, sul persistente limite del giudicato quando venga in rilievo una pronuncia del giudice ordinario e sulla utilità, o meno, in termini di effettività della tutela giurisdizionale, dell’attuazione nelle forme previste dall’art. 669-duodecies c.p.c..
Nel caso deciso un dirigente del Mibac si era rivolto al giudice civile affinché venisse accertato il suo diritto a permanere in servizio fino al raggiungimento di una determinata età contributiva. Il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, aveva accolto in sede cautelare la domanda ex art. 700 c.p.c., con ordinanza poi confermata dal Tribunale in formazione collegiale.
Veniva quindi proposto dinanzi al giudice amministrativo ricorso per ottemperanza, in ragione della mancata esecuzione del provvedimento e della sua elusione integrata dall’adozione di un decreto direttoriale di risoluzione del rapporto di lavoro ripropositivo dei medesimi vizi censurati dal giudice civile.
In primo grado il TAR Lazio[1] dichiarava inammissibile il ricorso, essendo l’ordinanza cautelare ex art. 700 c.p.c. priva, in quanto tale, dell’attitudine al consolidamento nelle forme del giudicato. Confortato da giurisprudenza costante[2], il TAR rilevava come tale considerazione restasse valida pur dopo la riforma del rito cautelare che ha “infievolito la strumentalità del provvedimento d’urgenza rispetto alla fase del merito (divenuta eventuale), ma non ha inciso sul carattere intrinsecamente provvisorio di esso (cd. strumentalità attenuata), posto che le parti possono comunque avviare il giudizio di merito per un’ulteriore definizione giudiziale della controversia”.
La contestazione della sentenza in appello si è basata su due principali argomenti: la equiparabilità dell’ordinanza alle sentenze passate in giudicato del giudice ordinario, in quanto caratterizzata dall’attitudine alla stabilità del comando giudiziale con la stessa impartito; il carattere necessitato dell’azione di ottemperanza (per la cognitio plena estesa al merito del giudice amministrativo) – e l’inidoneità del rimedio di cui all’art. 669-duodecies c.p.c. –, interferendo nella specie la tutela effettiva della posizione di lavoro con valutazioni di interesse pubblico discrezionali della p.A. datrice di lavoro. Ad integrazione di tali argomenti, è stata dedotta l’asserita contraddizione – in violazione degli artt. 3 e 113 Cost. – tra la competenza del giudice dell’ottemperanza sull’esecuzione dei provvedimenti meramente esecutivi del g.a. (ivi incluse le misure cautelari, ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. b, c.p.a.) e l’impossibilità di conoscere dell’inottemperanza di corrispondenti decisioni del g.o. assunte nei confronti della p.A..
Entrambi gli argomenti sono stati respinti, basandosi l’appello– a giudizio del Consiglio di Stato –, da un lato, su un’erronea interpretazione del dato normativo in ordine alla definitività dell’ordinanza in parola e, dall’altro, su un equivoco in merito ai poteri del g.o. adito per l’attuazione delle misure cautelari ex art. 669-duodecies c.p.c..
2. I provvedimenti equiparati alle sentenze passate in giudicato del g.o. nell’art. 112, comma 2, lett. b), c.p.a.
Sotto il primo dei profili indicati (asserita equiparabilità al giudicato), il Consiglio di Stato ha rilevato la non coincidenza tra giudicato e tendenziale intangibilità della misura cautelare.
La riforma del rito cautelare (operata dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35 convertito con modificazioni in l. 14 maggio 2005 n. 80), con un chiaro intento deflattivo delle cause ordinarie, ha come noto affievolito la strumentalità del provvedimento d’urgenza – e degli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito – rispetto alla tutela di merito, diventata eventuale con la soppressione della regola dell’obbligatoria introduzione del giudizio di merito.
Nonostante ciò, la riforma non ha reso il provvedimento idoneo al giudicato in senso sostanziale ex art. 2909 c.c..
Stabilito che ai provvedimenti di urgenza emessi a norma dell'art. 700 c.p.c. non si applicano le disposizioni dell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c. – sulla perdita di efficacia del provvedimento cautelare per il mancato inizio tempestivo del procedimento di merito (entro il termine perentorio assegnato dal giudice o comunque entro il termine previsto dall’art. 669-octies, comma 2 c.p.c.) o per l'estinzione di quello eventualmente avviato –, l’avvenuta attenuazione della strumentalità non ha inciso sul carattere intrinsecamente provvisorio, potendo ciascuna delle parti della procedura cautelare scegliere comunque di avviare il giudizio di merito[3] (art. 669-octies, comma 6, c.p.a.).
Gli effetti del provvedimento ex art. 700 c.p.c. rimangono dunque provvisori[4] in quanto eliminabili o riformabili all’esito del giudizio a cognizione piena – avviabile da ciascuna parte – che dichiari inesistente il diritto a cautela del quale il provvedimento venne emesso.
Come evidenziato dalla giurisprudenza[5], “il provvedimento ai sensi dell’art. 700 c.p.c. non è “stabile”, tanto che il permanere della sua efficacia può venir meno per effetto di altra sentenza, anche essa instabile, perché impugnabile o impugnata”, con la conseguenza che “deve logicamente negarsi che esso possa divenire giudicato, finché l'accertamento a base della sua emissione non risulti confermato da una sentenza di merito divenuta non più impugnabile”.
La riforma, pertanto, ha conferito stabilità all’efficacia esecutiva, ma non all’accertamento su cui il provvedimento si basa, potendo venire meno in conseguenza di altra pronuncia “che in tanto può incidere su di esso senza costituire giudicato in quanto il provvedimento urgente è solo apparentemente definitivo”[6]. Coerentemente, l’art. 669-octies, u.c., c.p.c. dispone che “l’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo”.
Permane, dunque, quella provvisorietà carattere essenziale delle misure cautelari e che ne denota l’inidoneità a dettare una disciplina definitiva del diritto controverso. Con l’ulteriore conseguenza che, in mancanza dell’instaurazione della causa di merito, il risultato determinato dall’attuazione del provvedimento cautelare si consolida in modo definitivo solo tramite i meccanismi di stabilizzazione del diritto sostanziale (come, ad esempio, la prescrizione). Tali considerazioni spiegano perché la Cassazione[7] abbia ripetutamente giudicato non proponibile contro i provvedimenti urgenti ex art. 700 c.p.c. il ricorso straordinario per cassazione.
Quanto descritto si inserisce senza forzature in un sistema in cui la Costituzione garantisce che la tutela giurisdizionale dei diritti possa avvenire in un processo a cognizione piena che si concluda con un provvedimento avente attitudine al giudicato formale e sostanziale, senza però che tale garanzia implichi la necessità che ogni giudizio miri alla formazione del giudicato; il legislatore può prevedere, nella sua discrezionalità, che determinati diritti possano essere fatti valere, oltre che in processi a cognizione piena, anche in processi sommari sfocianti in provvedimenti non idonei a dettare una disciplina incontestabile del rapporto controverso: la garanzia costituzionale del giusto processo impone, in tale caso, di prevedere la possibilità di instaurare il giudizio a cognizione piena[8].
Con riguardo al secondo carattere essenziale tradizionalmente riconosciuto alle misure cautelari (la strumentalità), venuta meno la strumentalità strutturale – quale nesso indissolubile con il giudizio di merito a pena di inefficacia –, permane la strumentalità funzionale – che sta a significare che il tenore della misura continua a commisurarsi, in chiave anticipatoria, a quello di un ipotetico provvedimento definitivo (di cui scongiura la tardività) e a ritagliarsi, quindi, sulla funzione che la pronuncia di merito è chiamata ad esprimere[9]. L’art. 700 c.p.c. dispone, infatti, nel testo persistente alla riforma, che il contenuto atipico ed elastico dei provvedimenti di urgenza è funzionale a renderli, nel caso concreto, “idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”.
Corollario di tali considerazioni è la riserva al giudice cautelare della fase esecutiva, ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c., nel caso in cui il provvedimento cautelare non sia ottemperato dalla parte soccombente. La disposizione, nel prevedere che “l’attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare avviene sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il quale ne determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti”, prevede un procedimento tipico che va promosso ai danni del soccombente. Ciò vale anche quando quest’ultimo sia una p.A..
I descritti caratteri differenziano le misure in parola rispetto ad altri provvedimenti del g.o. diversi dalle sentenze, per la cui esecuzione è pacificamente giudicata proponibile l’azione di ottemperanza ex art. 112, comma 2, lett. c), c.p.a..
Il testo della lett. c) dell’art. 112, comma 2, c.p.a., nel fare riferimento ai provvedimenti “equiparati” al giudicato, usa una formula aperta, sul cui riempimento molto si deve alla giurisprudenza che ne ha chiarito i presupposti applicativi.
È stata giudicata inquadrabile in tale formula, ad esempio, l’ordinanza che conclude il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c.[10] e che, ai sensi dell'art. 702-quater c.p.c., se rimasta inoppugnata, “produce gli effetti di cui all’articolo 2909 del codice civile”[11] acquisendo una stabilità pari a quella del provvedimento conclusivo del rito ordinario. Il riferimento testuale all’art. 2909 c.c. evidenzia la destinazione funzionale dell’ordinanza all’accertamento di un rapporto – a prescindere dalla tesi cui si aderisca del rito a cognizione sommaria[12] o del rito semplificato a cognizione piena[13] in cui la sommarietà incide sulle modalità istruttorie[14] –, rendendo equiparabile la stessa alle sentenze passate in giudicato.
Ulteriori provvedimenti del g.o. cui pacificamente è riferita l’anzidetta equiparazione sono il decreto ingiuntivo non opposto o per il quale l’opposizione sia stata respinta e l’ordinanza di assegnazione del credito emessa dal giudice dell’esecuzione nel procedimento di esecuzione forzata.
Quanto al decreto ingiuntivo, esso, al pari della sentenza passata in giudicato, definisce la controversia in quanto, ove esecutivo, è impugnabile solo per revocazione o per opposizione di terzo nei limitati casi di cui all'art. 656 c.p.c., così acquistando valore di cosa giudicata.
Con riguardo all’ordinanza di assegnazione di un credito pronunciata ex art. 553 c.p.c. dal giudice ordinario nell’ambito di un processo di espropriazione presso terzi e in cui la p.A. ha la veste del terzo debitore del debitore, l’Adunanza plenaria nel 2012[15] ha concluso per la relativa attuabilità mediante giudizio di ottemperanza sulla base dell'analisi del tipo di provvedimento azionato e del tipo di procedimento di cui esso costituisce esito, giudicando sussistenti sia il carattere decisorio (dell'esistenza e ammontare del credito e della sua spettanza al creditore esecutante[16]) sia l’attitudine a passare in giudicato una volta divenuta l’ordinanza definitiva per decorso dei termini di impugnazione.
Diversamente, l’esperibilità dell’azione di ottemperanza è stata esclusa dalla giurisprudenza con riguardo all’ordinanza anticipatoria di condanna per somme non contestate ex art. 186-bis c.p.c.. Il Consiglio di Stato[17] ha rilevato al riguardo come l’ordinanza, in caso di estinzione del giudizio, benché dotata di stabilità nei suoi effetti esecutivi, non sia equiparabile ad un accertamento definitivo in merito all’obbligazione; poiché l’estinzione del processo non estingue l’azione (art. 310 c.p.c.), un nuovo procedimento di merito tra le parti potrebbe condurre alla revoca dell’ordinanza ai sensi dell’art. 177 c.p.c.[18].
3. La strumentalità attenuata dei provvedimenti anticipatori nelle controversie di lavoro
Alla prima condivisibile considerazione di carattere generale, il Consiglio di Stato ne aggiunge una ulteriore e specifica ai provvedimenti cautelari nelle controversie di lavoro, compresi quelli anticipatori ex art. 700 c.p.c.: “detti provvedimenti, quando resi nella cause di lavoro, ritornano per il chiaro disposto dell’art. 669 IV co. c.p.c., alla regola generale (della strumentalità) emergendo piuttosto l’inapplicabilità di tal semplificazione (strumentalità attenuata) ai provvedimenti cautelari (anche a quelli anticipatori ex art. 700 c.p.c.) nelle controversie di lavoro”; per essi vigerebbe, dunque, un regime di strumentalità piena.
Tale ultima affermazione consegue all’adesione, da parte del Consiglio di Stato, all’orientamento interpretativo della Cassazione[19] secondo cui il ricorso d’urgenza ante causam ex art. 700 c.p.c. non sarebbe idoneo ad impedire la decadenza dall’impugnazione stragiudiziale del licenziamento (o degli altri atti datoriali di cui all’art. 32, commi 3 e 4, l. n. 183 del 2010) ai sensi dell’art. 6, comma 2, l. n. 604/1966, a tale fine valendo solo il deposito del ricorso di cui all’art. 414 c.p.c. nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato[20].
È utile riportare quanto affermato dalla Cassazione nel 2018[21] in merito alla predetta inidoneità: “l'assenza, nel sistema della strumentalità attenuata di cui all’art. 669-octies, comma 6, c.p.c., di un termine entro il quale instaurare il giudizio di merito all'esito del procedimento cautelare vanificherebbe l'obiettivo della disciplina introdotta dalla l. n. 183 del 2010 di provocare in tempi ristretti una pronuncia di merito sulla legittimità del licenziamento”. L’intento perseguito dal legislatore nel 2010 è quello di evitare che un possibile contenzioso attivabile dal lavoratore possa restare latente per tutto il tempo di prescrizione dell’azione di annullamento o per un tempo lungo e indefinito in caso di azione di nullità. Stante la finalità acceleratoria dei tempi di emersione del contenzioso, la Cassazione ritiene non compatibile con l’obiettivo della l. n. 183 del 2010 l’incertezza sui tempi di instaurazione del giudizio di merito.
Tale argomento è però venuto meno in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 212 del 14 ottobre 2020[22] che, a pochi giorni dalla camera di consiglio della sentenza in commento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato art. 6 l. n. 604 del 1966, come modificato dalla l. n. 183 del 2010, nella parte in cui non prevede tra le iniziative idonee ad impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale anche il deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c.[23].
La Corte costituzionale ha giudicato fondato, e assorbente, il contrasto con l’art. 3 Cost. in ragione del non giustificato diverso trattamento della richiesta di attivazione del tentativo di conciliazione o di arbitrato: se la procedura conciliativa si conclude positivamente con un accordo delle parti, questo, quantunque versato nel relativo verbale reso esecutivo dal giudice, non costituisce infatti cosa giudicata formale (art. 324 c.p.c.) né sostanziale (art. 2909 c.c.); analogamente, l’art. 412-quater c.p.c. prevede che il lodo, emanato a conclusione dell’arbitrato irrituale, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui agli artt. 1372 e 2113, comma 4, c.c., è impugnabile ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c., e contiene un accertamento di tipo negoziale. Pertanto, la mancata previsione anche del ricorso per provvedimento d’urgenza ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c.., quale atto idoneo a impedire, se proposto nel termine di decadenza, l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale e a dare accesso alla tutela giurisdizionale, è contraria al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.)…”.
La Consulta ha ravvisato inoltre la violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della ragionevolezza in riferimento alla finalità sottesa alla previsione del termine di decadenza, stante l’idoneità della domanda di tutela cautelare “a far emergere il contenzioso insito nell’impugnazione dell’atto datoriale”.
Ed è a tale ultimo proposito che la Corte svolge alcune interessanti considerazioni collegate a quanto poc’anzi rilevato sulla natura delle misure ex art. 700 c.p.c. e che confortano il ragionamento del Consiglio di Stato in punto di non equiparabilità al giudicato.
Ricordato che la tutela cautelare è strumentale all’effettività della tutela giurisdizionale[24], collegandosi al principio per il quale “la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione”[25], viene rilevato che con la più volte citata riforma del 2005 il legislatore ha accentuato la natura autonoma della tutela cautelare rispetto a quella di merito, “rendendo soltanto funzionale, almeno per i provvedimenti cautelari anticipatori e per quelli di urgenza exart. 700 cod. proc. civ., il relativo nesso di strumentalità, stante l’idoneità di detti provvedimenti a restare efficaci indipendentemente dall’instaurazione del giudizio di merito, divenuta per gli stessi solo eventuale”. In sostanza, i provvedimenti cautelari “a strumentalità attenuata” sono caratterizzati da una sorta di “definitività condizionata in modo risolutivo” ad una differente decisione assunta nel giudizio di merito che una delle parti eventualmente decida di incardinare in quanto insoddisfatta dell’assetto di interessi provvisorio “potenzialmente stabile” recato dal provvedimento cautelare o intenzionata ad “ottenere una pronuncia sul merito del diritto controverso, idonea al giudicato sostanziale”.
La Corte costituzionale ha quindi osservato come nel 2005 sia stato introdotto un nuovo modello di tutela che può esitare in un provvedimento celere, fondato sul periculum in mora, “a cognizione sommaria e a seguito di un procedimento deformalizzato, che si iscrive nell’ambito di una più ampia tendenza normativa, espressa anche mediante riti di natura diversa (semplificati, sommari, camerali), a svincolare la decisione concreta della lite dalla necessità dell’accertamento con il “crisma” del giudicato sostanziale”.
Il regime della strumentalità attenuata non si pone peraltro in contrasto con l’obiettivo dell’emersione celere del contenzioso (per l’incertezza sui tempi di instaurazione del giudizio di merito), dal momento che, definita la vicenda cautelare, nulla impedisce che l’iniziativa per far venir meno ogni incertezza sul rapporto giuridico sostanziale tramite il giudizio di merito possa essere assunta dal datore di lavoro.
In definitiva, l’intervenuta pronuncia della Consulta se, da un lato, fa cadere il secondo argomento utilizzato dal Consiglio di Stato, dall’altro lato fornisce autorevole e definitivo sostegno, nella descrizione dell’efficacia alquanto peculiare del provvedimento d’urgenza, al primo degli argomenti utilizzati a sostegno dell’inammissibilità del giudizio di ottemperanza, vale a dire la non equiparabilità ad una sentenza passata in giudicato.
4. Le modalità di attuazione a disposizione del g.o. nel procedimento ex art. 669-duodecies c.p.c.
La non esperibilità del giudizio di ottemperanza per conseguire l’adempimento da parte della p.A. dell’ordinanza ex art. 700 c.p.c., una volta esclusa l’equiparabilità alla sentenza passata in giudicato, costituisce pertanto esito necessitato a normativa vigente. L’esigenza della stabilità del giudicato per l’esecuzione dei provvedimenti del g.o. tramite il giudizio di ottemperanza è prevista espressamente dall’art. 112, comma 2, lett. c), c.p.a. che, in tale parte, ha confermato quanto già in precedenza previsto dall’art. 37 l. n. 1034 del 1971.
La questione di legittimità costituzionale – sollevata in relazione agli artt. 3, 24, 111 e 113 Cost. – del previgente art. 37 l. TAR nella parte in cui, pur dopo le modifiche recate dalla l. n. 205/2000 sulle sentenze esecutive del g.a., non consentiva per le sentenze ordinarie solo esecutive l’utilizzo del giudizio di ottemperanza, è stata più di una volta affrontata e dichiarata infondata dalla Corte costituzionale[26]. A giudizio della Consulta, il testo modificato nel 2000 dell’art. 33 l. TAR, nella parte in cui aveva esteso l’ottemperanza alle sole sentenze amministrative esecutive, è espressione di una scelta discrezionale del legislatore, “il quale ha voluto dare concretezza al principio di esecutività delle sentenze [del giudice amministrativo] di primo grado, evitando che l’amministrazione possa arbitrariamente sottrarsi alle pronunce giurisdizionali”, non essendo previsti per le sentenze amministrative esecutive, non costituenti titolo esecutivo, strumenti diversi di esecuzione coattiva; diversamente, l’esecuzione delle sentenze ordinarie meramente esecutive è garantita dagli strumenti previsti dal c.p.c., per cui l’estensione ad esse del giudizio di ottemperanza non costituirebbe soluzione costituzionalmente necessitata.
A questi argomenti la Corte ha aggiunto l’ulteriore considerazione per cui le azioni esecutive esperibili dinanzi al g.o. secondo le norme di procedura civile e dinanzi al g.a. non sarebbero comparabili, poichè le sentenze o i provvedimenti esecutivi del g.o. non richiedono “l’esame di merito proprio del giudizio di ottemperanza”[27]. Conseguentemente: non sussisterebbe una disparità di trattamento tra l’ipotesi di esecuzione di sentenza amministrativa meramente esecutiva attraverso il giudizio di ottemperanza e l’ipotesi di esecuzione delle sentenze di primo grado del g.o. tramite gli strumenti del c.p.c.; e, stante la diversità degli istituti, in relazione all’esecuzione delle sentenze del g.o. non si porrebbe né una questione di pregiudizio per la tutela dei diritti, né di pregiudizio per la ragionevole durata del processo, comunque garantita dai tempi processuali disposti dal c.p.c..
Nel giudizio di ottemperanza, come noto, l’utilità concreta (in termini di effettività della tutela giurisdizionale) della risposta giurisdizionale è stata progressivamente garantita con il riconoscimento al giudice dell’ottemperanza del potere di individuare gli strumenti più idonei per l’attuazione del giudicato, in ciò anche declinandosi i poteri di giurisdizione “anche in merito”[28]. La prospettiva della compiuta attuazione del decisum è tale che il vincolo che deriva al giudice dalla domanda di parte attiene solo al risultato, non al quomodo per raggiungerlo, tant’è che, in presenza di una domanda di ottemperanza fondata, il giudice può adottare tutte le misure atte a garantire che l’ottemperanza avvenga effettivamente e in tempi rapidi, esercitando poteri sostitutivi, in via diretta o indiretta, ordinatori e cassatori, eventualmente cumulabili in presenza dei necessari presupposti, la cui scelta – ad eccezione dell’astreinte per la quale resta necessaria la domanda di parte – è affidata allo stesso giudice[29]. L’ampiezza dei poteri del giudice sul quomodo trova conferma nell’art. 114, comma 4, lett. a), c.p.a. che, coerentemente con la portata della giurisdizione di merito, dispone che, in caso di accoglimento del ricorso per ottemperanza, il giudice ordina l’ottemperanza “prescrivendo le relative modalità”. Il potere del giudice dell’ottemperanza di individuare gli strumenti più idonei per l’esecuzione del giudicato spiega l’utilità dell’intervento sostitutivo del g.a. anche per l’ottemperanza alle sentenze del g.o., dove il giudicato di regola definisce la fattispecie determinando l’assetto del rapporto in relazione alla relativa prefigurazione legale. L’obbligo della p.A. di conformarsi al giudicato dell’autorità giudiziaria ordinaria può richiedere, infatti, determinazioni o operazioni riservate all’Amministrazione, alle quali il g.o. non può sostituire la propria volontà e la propria attività. Anche le sentenze di contenuto più semplice, come quelle di condanna al pagamento di una somma di denaro, possono rendere necessaria una serie di atti e di adempimenti, determinando un intervento del giudice nella procedimentalizzazione dell’erogazione della spesa, allo scopo di dare concreto soddisfacimento al diritto di credito.
Data l’indicata ampiezza dei poteri decisori del giudice dell’ottemperanza, il presupposto del giudicato per le pronunce del g.o. affinché di tali poteri si possa usufruire – sebbene dichiarato più volte conforme a Costituzione – potrebbe essere ripensato dal legislatore in ragione delle maggiori utilità che, in termini di effettività (utilità) della tutela, il giudizio di ottemperanza può presentare rispetto all’esecuzione civile. A bilanciare tali maggiori utilità, si pone di contro la – non eliminabile – impossibilità di integrare o arricchire il giudicato nella soluzione di questioni funzionali all’attuazione ma la cui cognizione sia devoluta a giudice diverso da quello amministrativo, in ragione del limite esterno della giurisdizione[30].
Resta da vedere, peraltro, se nel caso specifico esaminato dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento il giudizio di ottemperanza avrebbe potuto presentare effettivamente maggiori utilità rispetto all’esecuzione tramite gli strumenti consentiti dal c.p.c. nelle forme di cui all’art. 669-duodecies c.p.c.
A giudizio del ricorrente, la tutela effettiva della propria posizione di lavoro interferisce con valutazioni di interesse pubblico discrezionali della p.A. datrice di lavoro (nel caso di specie, l’invocata preposizione ad un ufficio dirigenziale generale); il che comporta che la vicenda possa essere apprezzata e definita solo con la cognizione piena estesa al merito del giudice dell’ottemperanza.
Il Consiglio di Stato ha respinto l’argomento richiamando la giurisprudenza della Cassazione in tema di conferimento di incarichi dirigenziali e di natura della situazione giuridica soggettiva connessa: nel pubblico impiego privatizzato il conferimento di incarichi dirigenziali ha natura di determinazione negoziale assunta dalla p.A. con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (art. 5 d.lgs. n. 165 del 2001); tali determinazioni devono conformarsi alle clausole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.), che impongono alla p.A. di effettuare valutazioni comparative, di adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e di esternare le ragioni giustificatrici delle scelte[31]. Da ciò consegue che, in caso di mancato conferimento di un incarico dirigenziale, il dirigente pubblico può far valere il suo interesse legittimo di diritto privato[32], connesso ai predetti obblighi datoriali[33], relativamente all’atto di incarico (che è atto di micro-organizzazione). Se tanto vale per incarichi dirigenziali generali, a fortiori il trattenimento in servizio del ricorrente non impinge su scelte discrezionali e costituisce un prius rispetto all’affidamento allo stesso ricorrente di incarichi dirigenziali.
L’esecuzione ai sensi dell’art. 669-duodecies c.p.c. da parte del giudice della cautela (titolare, peraltro, anche del potere di disapplicare eventuali atti amministrativi illegittimi che dovessero porsi in contrasto con quanto deciso, exart. 4 l. n. 2248 del 1865 all. E[34]), pertanto, non incontra preclusioni tali da far emergere una irragionevole contraddizione (in violazione degli artt. 3 e 113 Cost.) tra la competenza del giudice dell’ottemperanza a conoscere delle misure cautelari del g.a. ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. b) c.p.a. e l’impossibilità di conoscere dell’esecuzione di analoghe misure adottate dal g.o..
Il ragionamento svolto dal Consiglio di Stato è condivisibile, purché, a parere di chi scrive, venga integrato con alcune precisazioni – probabilmente sottintese nel ragionamento del g.a. – in merito all’ampiezza dei poteri del g.o. adito per l’esecuzione ai sensi del più volte citato art. 669-duodecies c.p.c.
A seguito della privatizzazione del pubblico impiego e della devoluzione al g.o. della giurisdizione in materia, i profili dell’esecuzione del giudicato e delle misure cautelari non sono stati disciplinati espressamente. L’art. 63 d.lgs. n. 165 del 2001, nel disporre che “il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati”, si occupa direttamente dei poteri del giudice del lavoro nel processo di cognizione, mentre nulla dispone in merito alle modalità di attuazione delle pronunzie emanate dal g.o. nel caso in cui la p.A. non si conformi spontaneamente[35].
All’indomani della privatizzazione, era stata da una parte della dottrina esclusa l’esperibilità del giudizio di ottemperanza persino per le sentenze passate in giudicato, sul rilievo che la particolare invasività della procedura – connotata dalla giurisdizione di merito del g.a. – avrebbe riportato nell’alveo della giurisdizione amministrativa quelle stesse controversie che il legislatore aveva inteso invece attribuire al g.o.[36]. Superato tale orientamento, ed ormai pacifica l’esperibilità del giudizio di ottemperanza per le sentenze passate in giudicato del giudice del lavoro[37], permane, per le ragioni già esaminate, l’esclusione per le sentenze meramente esecutive ed i provvedimenti del g.o. in funzione di giudice del lavoro non equiparati al giudicato.
Diviene allora rilevante verificare se il giudizio di ottemperanza potrebbe in tali casi essere necessario ai fini della effettività della tutela giurisdizionale[38]. In particolare, si pone la questione se tra le modalità di attuazione previste dall’art. 669-duodecies c.p.c. possa essere compreso il potere del giudice di nominare, quale suo ausiliario, un commissario ad acta.
Tenuto conto che l’art. 68 c.p.c. (“Altri ausiliari”) prevede che, “quando ne sorge necessità”, il giudice può farsi assistere da “persona idonea al compimento di atti che egli non è in grado di compiere da sé solo”, la lettura in combinato con l’art. 669-duodecies c.p.c. induce a ritenere non estranea al sistema la possibilità anche per il g.o. di nominare un commissario incaricato di compiere quegli atti di micro-organizzazione necessari per assicurare il conseguimento del bene della vita attribuito in fase cautelare[39].
Lo impone una lettura costituzionalmente orientata della norma, dal momento che, diversamente opinando, si configurerebbe, nella fase di attuazione di sentenze o provvedimenti meramente esecutivi, un’ingiustificata disparità di trattamento tra pubblico impiego privatizzato e non privatizzato, potendo quest’ultimo fruire, in sede di attuazione dinanzi al g.a., della misura sostitutoria in questione.
Il commissario nominato dal g.o. svolge funzioni ed attività non dissimili da quelle proprie dei commissari nominati dal giudice dell'ottemperanza. Poiché l’attività commissariale attiene al rapporto di lavoro privatizzato nell’ambito del quale la p.A. agisce, come detto, quale datore di lavoro jure privatorum[40], lo strumento in questione non invade la sfera dei poteri pubblicistici della p.A.[41]; ove ciò si verificasse, sarebbe infatti necessaria l’attribuzione al g.o. di una giurisdizione di merito, analoga a quella del g.a. dell’ottemperanza. Resta quindi fermo che i poteri commissariali non possono eccedere quelli della autorità giurisdizionale che lo ha nominato[42] e, quindi, non possono concernere l’adozione di atti amministrativi in senso proprio[43].
La soluzione non soffre il limite della non surrogabilità del datore di lavoro inadempiente a obblighi di facere o non facere[44], non potendo l’infungibilità essere riferita alla p.A. datrice di lavoro[45] stante la funzionalizzazione della sua attività ai principi di legalità, buona amministrazione e imparzialità di cui all’art. 97 Cost. anche quando l’attività sia regolata da norme di diritto comune[46]. Dal carattere funzionale dell’attività della p.A. datrice di lavoro consegue, quindi, la fungibilità in re ipsa delle obbligazioni inadempiute[47].
Anche in merito ad eventuali elusioni poste in essere dalla p.A. datore di lavoro (come accaduto nel caso di specie) tramite atti di micro-organizzazione, contrasterebbe con l’effettività della tutela giurisdizionale imporre la proposizione di una nuova domanda giudiziale piuttosto che un’istanza ex art. 669-duodecies c.p.c. diretta a contestare l’inesatta ottemperanza e, quindi, la persistente non soddisfazione della pretesa azionata in sede cautelare[48].
5. Considerazioni conclusive
Le descritte soluzioni – atte a fornire al giudice dell’esecuzione strumenti idonei a far conseguire al privato un’utilità sostanziale concreta – sono alla base della decisione del Consiglio di Stato e, quindi, dallo stesso condivise, seppure in maniera non particolarmente argomentata (ed implicitamente con riguardo alla possibilità di nomina di un commissario). Illustrata la natura negoziale delle determinazioni della p.A. e la natura di interesse legittimo di diritto privato dell’antistante situazione giuridica soggettiva, si legge in sentenza che “scolora così ogni adombrata questione d’illegittimità costituzionale del diverso regime esecutivo delle ordinanze di questo Giudice affidato a quest’ultimo in via ordinaria col rito ex art. 59 c.p.a., rispetto a quanto accade per le ordinanze dell’AGO, per la duplice, evidente ragione, per un verso, che ciascuno dei due sistemi processuali, specularmente e rispettivamente, offre un medesimo tipo di tutela esecutiva cautelare … sì da render superfluo l’intervento esecutivo dell’una giurisdizione sull’altra”.
Va del resto considerato che, oltre a richiedere il giudicato, i poteri del giudice amministrativo di ottemperanza nei confronti dei provvedimenti del g.o. scontano il limite ordinamentale del passaggio di giurisdizione, con la conseguente impossibilità di integrazione da parte del g.a.[49]. Da ciò consegue, ad esempio, che anche eventuali contestazioni ad atti adottati dal commissario ad acta nominato dal giudice dell’ottemperanza non potrebbero essere mosse dalle parti tramite reclamo ai sensi dell’art. 114, comma 6, c.p.a., ove introduttive di un thema decidendumesterno alla giurisdizione del giudice amministrativo[50].
Fornendo al giudice civile dell’esecuzione adeguati strumenti per l’effettività della tutela giurisdizionale, attraverso l’interpretazione proposta del quadro normativo di riferimento, il giudizio di ottemperanza non pare, quindi, una soluzione costituzionalmente necessitata nella specifica controversia di lavoro all’attenzione del Consiglio di Stato.
[1] TAR Lazio, Sez. II-quater, 12 febbraio 2020 n. 1934.
[2] Ex multis, TAR Campania, Sez. VII, 30 dicembre 2017 n. 6156; TAR Campania, Sez. VIII, 2 febbraio 2021 n. 689; TAR Calabria, Reggio Calabria, 17 settembre 2020 n. 555.
[3] TAR Campania, Sez. VIII, 2 febbraio 2021 n. 689; TAR Lazio, Sez. II-quater, 12 febbraio 2020 n. 1934.
[4] TAR Campania, Sez. VII, 30 dicembre 2017, n. 6156; Id., Sez. VIII, 2 febbraio 2021 n. 689; TAR Calabria, Reggio Calabria, 17 settembre 2020 n. 555.
[5] Cass., Sez. un., 28 dicembre 2007 n. 27187; Id., Sez. VI, 8 febbraio 2011 n. 3124.
[6] Cass., Sez. un., 28 dicembre 2007 n. 27187.
[7] Cass., Sez. un., 28 febbraio 2019 n. 6039; Id., Sez. II, 5 marzo 2019 n. 6360.
[8] Cfr. R. Caponi, La nuova disciplina dei procedimenti cautelari in generale (l. n. 80 del 2005), in Foro it., 2006, V, 69.
[9] A. Carratta, Processo sommario (dir. proc. civ.), in Enc. dir., 2008.
[10] TAR Toscana, Sez. I, 17 dicembre 2020 n. 1687; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 31 gennaio 2018, n. 167; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 1° aprile 2016, n. 834; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 25 marzo 2015 n. 4566; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 13 marzo 2013 n. 764.
[11] Ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. III, 25 maggio 2020 n. 5464. In dottrina M. De Cristofaro, Sommarizzazione e celerità tra efficienza e garanzie, in Riv. trim. dir. e proc. civile, 2020, 481 ss.
[12] A. Carratta, Processo sommario, cit.
[13] R. Caponi, Un nuovo modello di trattazione a cognizione piena: il procedimento sommario ex art. 702-bis c.p.c., in www.judicium.it; P. Biavati, Le recenti riforme e la complessità trascurata, in Riv. trim. dir. e proc. civile, 2020, 434.
[14] Per una sintesi delle quali cfr. G. Lisella, Modelli decisori nel procedimento sommario di cognizione e termini per appellare, in Riv. trim. dir. e proc. civile, 2020, 297.
[15] Cons. Stato, Ad. plen., 10 aprile 2012 n. 2.
[16] Essa, infatti, “da un lato dà atto dell’esistenza e della misura del credito (vuoi sulla base della dichiarazione del terzo, vuoi sulla base dell’esito di un giudizio di cognizione incidente nel processo di esecuzione) e, dall’altro lato, trasferisce tale credito dal debitore pignorato al creditore esecutante” (Cons. Stato, Ad. plen., 10 aprile 2012 n. 2).
[17] Cons. Stato, Sez. III, 13 marzo 2019 n. 1677.
[18] Cons. Stato, Sez. III, 13 marzo 2019 n. 1677: “Non si può infatti escludere che le parti, a differenza di quanto avviene per le procedure monitorie non opposte, agiscano con diverso e autonomo giudizio di cognizione per far valere l'insussistenza dell'obbligazione a base dell'ordinanza”.
[19] Ex multis Cass., Sez. lav., 15 novembre 20918 n. 29429; Id., 6 dicembre 2018 n. 31647; Id., 4 luglio 2016 n.14390.
[20] La disposizione aggiunge che, qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo; viene coì comunque recuperata la via giudiziaria ordinaria.
[21] Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2018 n. 29429.
[22] Corte cost., 14 ottobre 2020, n. 212, in Guida al dir., 2020, 43, 30, per un commento alla quale M. Basilico, Il ricorso d’urgenza impedisce la decadenza verso gli atti del datore di lavoro. Dalla Corte costituzionale un ammonimento al giudice comune, in Giustiziainsieme.it, 24 novembre 2020.
[23] La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, legge 15 luglio 1966 n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), nella parte in cui non prevede che l’impugnazione stragiudiziale di cui al primo comma della stessa disposizione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dagli adempimenti ivi indicati, anche dal deposito del ricorso cautelare ante causam ex artt. 669-bis, 669-tere 700 c.p.c., per violazione degli artt. 3, 24, 111, 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, era stata sollevata dal Tribunale di Catania, Sezione lavoro, con ordinanza del 17 maggio 2019 (in G.U. serie speciale 9 ottobre 2019 n. 41), nel caso di un lavoratore che aveva proposto ricorso d’urgenza contro il trasferimento disposto dal datore di lavoro nella sede di un’altra regione senza poi promuovere anche il giudizio di merito previsto per impedire la decadenza dall’impugnazione.
[24] Corte cost., sentenze n. 236 del 2010, n. 403 del 2007; n. 165 del 2000, n. 437 e n. 318 del 1995, n. 190 del 1985; ordinanza n. 225 del 2017.
[25] Corte cost., sentenza n. 253 del 1994.
[26] Come ricordato anche da Cons. Stato, Sez. IV, 22 giugno 2018 n. 3853.
[27] Corte cost., ord. 25 marzo 2005 n. 122; Id., 8 febbraio 2006 n. 44.
[28] In argomento sia consentito rinviare a G. Mari, Giudice amministrativo ed effettività della tutela. L’evoluzione del rapporto tra cognizione e ottemperanza, Napoli 2013, 170 ss.
[29] Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 22 giugno 2016 n. 2769: “il giudice dell’ottemperanza è investito, per un verso, della potestà della cognizione piena del rispetto del giudicato e, quindi, della regola di azione stabilita con il dictum della decisione di cui si domanda l’esecuzione e, per un altro verso, ove ne ravvisi la mancata attuazione, la violazione o l’elusione, dei poteri dispositivi catalogati dall’art. 114, comma 4, c.p.a. La titolarità e l’esercizio di tali poteri si rivela, peraltro, del tutto funzionale alla compiuta attuazione del decisum (in un’ottica di piena effettività della tutela) e alla conseguente conformazione ad esso dell’azione amministrativa e, come tale, automaticamente implicata dalla proposizione dell’azione di giudicato”.
[30] Cfr., ex multis, Cass., Sez. un., 14 aprile 2020 n. 7825, che distingue tra potere di interpretare il giudicato e potere integrativo ai fini del rilievo dell’eccesso di potere giurisdizionale sindacabile ai sensi dell’art. 111 Cost.; Cons. Stato, Sez. IV, 30 ottobre 2015 n. 4977.
[31] Cass., Sez. lav., ord. 10 novembre 2017 n. 26694; Id., 12 ottobre 2010 n. 21088.
[32] Su cui L. Bigliazzi Geri, voce Interesse legittimo: diritto privato, in Dig. disc. priv., Sez. civ., IX, Torino, 1993, 527. In giurisprudenza, tra le più recenti: Cass., Sez. lav., 28 febbraio 2020 n. 5546; Id., 10 novembre 2017 n. 26694.
[33] Cfr., Cass., sez. lav., 28 febbraio 2020 n. 5546; Cass., sez. lav., 18 giugno 2014 n. 13867.
[34] Sul potere di disapplicazione del g.o. nelle controversie sul pubblico impiego privatizzato cfr. A. Police, Inottemperanza della p.a. ai provvedimenti del giudice ordinario (in materia di pubblico impiego) ed esecuzione in forma specifica, in Dir. proc. amm., 2003, 925.
[35] In argomento, in aggiunta alla dottrina citata nelle successive note, G. Vercillo, Profili problematici in ordine alle tecniche di tutela esecutiva specifica dei diritti strumentali del lavoratore alle dipendenze della p.A., in Judicium.it, 2010; G. Albenzio, L’esecuzione delle sentenze del giudice del lavoro nei confronti della pubblica amministrazione, in Foro it., 1999, I, 3475; A. Pileggi, I poteri del giudice, in Commentario sulla riforma del lavoro pubblico, Milano, Aggiornamento 2010; A. Travi, La giurisdizione civile delle controversie di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in Dir. proc. amm., 2001, 310.
[36] B. Sassani, Giurisdizione ordinaria, poteri del giudice ed esecuzione della sentenza nelle controversie di lavoro con la pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 413 ss., che propende, quindi, per la sola esecuzione tramite gli strumenti del c.p.c. aperti, tuttavia, ad alcune modalità attuative riprese dal giudizio di ottemperanza, quale la nomina di un commissario ad acta, ausiliario del giudice ai sensi dell’art. 68 c.p.c., allo scopo di realizzare le prestazioni di facere indicate in sentenza, connotate da alcune peculiarità rispetto a quelle strutturalmente semplici cui è preordinata di regola l’esecuzione nel c.p.c..
[37] Ex multis Cons. Stato, Sez. V, 2 febbraio 2009 n. 561; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 24 marzo 2018 n. 1922.
[38] Sul principio di effettività della tutela giurisdizionale sia consentito nuovamente rinviare a G. Mari, Giudice amministrativo ed effettività della tutela, cit., 34 ss. e alla dottrina ivi richiamata.
[39] In argomento I. Zingales, Pubblica amministrazione e limiti della giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007, 112; G. Meliadò, L’effettività della tutela giurisdizionale nel pubblico impiego, in Riv. it. dir. lav., 2010, 65; B. Sassani, L’esecuzione delle sentenze civili di condanna dell’amministrazione nei rapporti di lavoro, in Riv. esec. forz., 2005, 1.
[40] Cfr. Trib. Campobasso, Sez. lav., ord. 19 agosto 2013 n. 403; Trib. Roma, Sez. II lav., 19 marzo 2018 n. 6099.
[41] Cfr. I. Zingales, Pubblica amministrazione, cit., 113, osserva che “neanche sulla base di quanto statuito nell’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 all. E può escludersi l’attuazione coattiva attraverso commissari ad acta”, poiché “il divieto di revoca o modifica contemplato in tale norma si riferisce esclusivamente a provvedimenti amministrativi (quali, ad esempio, gli atti macroorganizzativi) e non può, pertanto, riguardare gli atti privati o paritetici, quali quelli di microorganizzazione”.
[42] A. Police, Inottemperanza, cit.
[43] In argomento cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21 dicembre 2011 n. 6773.
[44] Per una sintesi ricostruttiva dei diversi orientamenti A. Police, Inottemperanza, cit.
[45] B. Sassani, Giurisdizione ordinaria, poteri del giudice, cit., 413.
[46] Cfr. Trib. Reggio Calabria, Sez. lav., 11 aprile 2011: “Gli spazi di fungibilità nel pubblico impiego sono più ampi rispetto a quanto accade nel lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati, dal momento che nel rapporto di pubblico impiego sono ravvisabili passaggi di carattere formale - assenti nei rapporti di lavoro privati -, come tali fungibili. Infatti … l'infungibilità è concetto riferibile a mere condotte materiali e non si attaglia a tutti quegli atti e provvedimenti formali che nel pubblico impiego contrattualizzato - in misura maggiore di quella riscontrabile nei rapporti di lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati - costituiscono "necessario presupposto della condotta materiale (ad es. inserimento del dipendente nella pianta organica, atto attributivo di diversa qualifica, ovvero formale inserimento del dipendente in un elenco di aspiranti cui necessariamente attingere (...)" (ordinanza 1.12.2006). Inoltre la potenziale coercibilità dei provvedimenti giudiziali nei rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione trova fondamento nel dover essere, l'attività della pubblica amministrazione, improntata ai canoni di cui all'art. 97 Cost., a differenza di quella del datore di lavoro privato, riconducibile invece all'art. 41 Cost. E fa parte del buon andamento dell'amministrazione l'osservanza del principio di legalità e conseguentemente dei comandi giudiziali che di tale principio rappresentano la specificazione nel caso concreto”; Trib. Larino, Sez. lav., ord. ex art. 669-duodecies c.p.c., 19 settembre 2013 (R.G. n. 403/13); Trib. Pavia, Sez. lav., 5 giugno 2017 (R.G. N. 361/2017).
[47] In argomento A. Police, Inottemperanza, cit., 954, che osserva che “La tesi dell'infungibilità del comportamento del datore di lavoro pubblico - in conformità con quanto già dottrina e giurisprudenza maggioritaria hanno riconosciuto per i comportamenti del datore di lavoro privato - si giustifica in quanto parifica la tutela offerta dall'ordinamento al lavoratore pubblico con quella tradizionalmente assicurata al lavoratore privato. Detta parificazione degli strumenti di tutela, tuttavia, non è perfetta, giacché al lavoratore pubblico, a differenza del privato, è sempre consentita - una volta che si sia formato il giudicato - la strada del ricorso al giudizio d'ottemperanza. Tale impostazione, in ogni caso, non consente di cogliere la differenza sostanziale che esiste tra il datore di lavoro pubblico e quello privato. Il datore di lavoro privato, infatti, persegue con la sua attività principalmente un proprio fine di lucro; altrettanto non può dirsi per la p.A. che, anche quando si avvale di strumenti di diritto privato, è istituzionalmente deputata alla cura dell'interesse pubblico”; I. Zingales, Pubblica amministrazione, cit., 109-110. Cfr., in argomento, per una soluzione non pienamente coerente, Trib. Reggio Calabria, Sez. lav., 22 luglio 2010: “non può automaticamente ritenersi incoercibile per il datore di lavoro pubblico ogni attività che deve ritenersi tale per il datore privato. Semmai è vero il contrario: la regola, in materia di impiego contrattualizzato, è la coercibilità dei comandi giudiziali, in quanto questi costituiscono la specificazione nel caso concreto del comando normativo, al cui rispetto la pubblica Amministrazione non può sottrarsi, in quanto soggetta ai principi di buona amministrazione affermati dall'art 97 Cost. Deve quindi distinguersi fra gli atti che possono essere coattivamente posti in essere tramite ausiliario del giudice (o commissario ad actache dir si voglia), previsto in via generale dall'art 68 c.p.c., ed atti fortemente discrezionali, o involgenti scelte infungibili della pA. Solo in relazione a questi ultimi è oggettivamente preclusa qualsiasi attuazione coattiva ... Nella specie l'ordinanza del giudice della cautela, emessa il 1.2.2010, della quale si chiede l'attuazione, contiene in realtà due statuizioni: l'una è la sospensione dell'efficacia del conferimento dell'incarico di Direttore dell'Ufficio Acquisizioni al N; l'altra l'ordine di rinnovo della procedura selettiva, nel rispetto delle norme di legge e regolamentari (cfr ordinanza del 1.2.2010). La decisione in questa sede dev'essere diversa in relazione alle due pronunzie. La prima pronunzia non necessita di attuazione. È un provvedimento che colpisce direttamente l'atto di nomina, sospendendone gli effetti in via cautelare, e prelude ad una eventuale pronunzia di annullamento in sede di giudizio di merito. Non necessita di alcun altro intervento, trattandosi di atto per sua natura autoesecutivo ... Diversa riflessione deve invece effettuarsi per il secondo comando cautelare, cioè l'ordine di rinnovare la procedura di affidamento dell'incarico conteso Questa attività è tuttavia insuscettibile di essere surrogata da altri o da un commissario ad acta, in quanto le scelte che richiede attengono alla discrezionalità ed a valutazioni non fungibili dell'ente , cui queste scelte sono demandate e che non possono essere svolte da altri”.
[48] I. Zingales, Pubblica amministrazione, cit., 116.
[49] C. Delle Donne, L’esecuzione: il giudizio di ottemperanza, in B. Sassani, R. Villata, Il codice del processo amministrativo, Torino, 2012, 1255. In giurisprudenza TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 19 novembre 2018 n.6654.
[50] Cass., Sez. un., 15 ottobre 2020 n. 22374.
Efficacia dell’annullamento ex tunc, ex nunc o a die crastino?
di Raffella D’Agostino
Sommario: 1. La vicenda sottoposta all’esame del G.A. e le ragioni addotte a sostegno della decisione. – 2. La controversa natura dell’inefficacia del contratto: le tesi ancora sul tappeto. – 3. Della natura e dell’ampiezza dei poteri del G.A. sulla sorte del contratto. – 4. Le ulteriori spinte in avanti del G.A. quale giudice a cognizione piena. – 5. Della specialità dei poteri del G.A. ex art. 122 c.p.a., quale giudice di merito (ossia a cognizione piena) e non già sul merito. – 6. Analisi delle motivazioni addotte dal GA a sostegno della propria decisione. – 7. Brevi considerazioni conclusive.
1. La vicenda sottoposta all’esame del G.A. e le ragioni addotte a sostegno della decisione
Con sentenza n. 1737 dell’11 febbraio 2021, il Tar Lazio, sez. II bis, disponendo l’annullamento della procedura di gara, ha ritenuto opportuno modulare la decorrenza dell’inefficacia del contratto di appalto conseguente all’annullamento dell’aggiudicazione, coordinandone gli effetti con l’obbligo di ripetizione della procedura ad evidenza pubblica, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 122 e 34, comma 1, lett. e) c.p.a., non essendosi concluso il giudizio con la possibilità di una pronuncia di aggiudicazione o di subentro in favore del ricorrente vittorioso.
La controversia ha preso avvio con dispiegamento di un ricorso principale avverso il provvedimento di aggiudicazione di un appalto di servizi, nel caso di specie di trasporto pubblico con assistenza domiciliare distrettuale in favore di persone svantaggiate, da rendersi nei comuni di Marino e di Ciampino, nonché di tutti gli atti ad esso presupposti, connessi e consequenziali, con conseguente richiesta di declatoria di inefficacia del contratto per la gestione del servizio, nelle more stipulato, e successivo subentro. In via subordinata, parte ricorrente ha chiesto la ripetizione del procedimento di gara e conseguente risarcimento del danno patito.
La ricorrente principale ha addotto a fondamento delle proprie ragioni, l’illegittimità per eccesso di potere della determina dirigenziale con cui si era provveduto a confermare l’aggiudicazione della gara in favore della controinteressata, superando con esito favorevole la verifica dell’anomalia dell’offerta effettuata dalla stazione appaltante. Secondo parte ricorrente, dalla relazione prodotta ai fini della giustificazione dell’anomalia dell’offerta, cui aveva fatto accesso, era possibile evincere l’erronea formulazione dell’offerta economica presentata dalla concorrente risultata poi aggiudicataria. Pertanto, si è desunta la sussistenza dell’obbligo di esclusione della concorrente dalla procedura di gara, l’illegittimità della stessa e della conseguente aggiudicazione.
Ha dispiegato ricorso incidentale l’aggiudicataria, controinteressata, chiedendo a sua volta l’annullamento degli atti di gara nella parte in cui non avevano comportato l’esclusione della ricorrente per la presentazione di un’offerta parimenti viziata.
I ricorsi sono stati esaminati contestualmente, dipendendo entrambi dalla medesima questione di diritto. Il ricorso incidentale è risultato destituito di ogni fondamento, emergendo dalla semplice documentazione degli atti di gara la correttezza dell’offerta presentata da parte ricorrente. Diversamente, è parso fondato il ricorso principale per via della rilevata incongruità dell’offerta presentata dall’impresa risultata poi aggiudicataria. Pertanto, il Tar Lazio ha disposto l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione con conseguente obbligo per l’amministrazione di riesaminare le offerte e di pronunciarsi sulle medesime conformemente a quanto rilevato in giudizio.
Purtuttavia, fermo l’accoglimento del ricorso principale con obbligo di ripetizione della procedura di gara, vista la particolare rilevanza sociale del servizio prestato, il giudice amministrativo ha disposto che l’inefficacia del contratto nelle more stipulato, decorresse a partire dal termine di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza, o sua notificazione a cura di parte, oltre il quale il contratto stesso doveva intendersi risolto, con salvezza delle prestazioni medio tempore rese, così da consentire alla P.A. procedente di poter riesaminare le offerte e adottare le determinazioni necessarie ad assicurare la continuità di un servizio di particolare importanza sociale, senza soluzione di continuità, anche nel caso di subentro della ricorrente alla controinteressata, all’esito delle rinnovate operazioni di gara.
Nel caso di specie, pertanto, la possibilità per il giudice amministrativo di modulare gli effetti della dichiarazione d’inefficacia del contratto stipulato a valle di un’aggiudicazione dichiarata illegittima è stata coordinata con il riesercizio della funzione da parte della pubblica amministrazione, ossia collegata all’esito della ripetizione della procedura di gara, al fine di assicurare continuità al servizio reso.
Le ragioni giuridiche su cui il giudice amministrativo ha basato la propria decisione sono state essenzialmente tre.
La prima motivazione posta a fondamento del ragionamento giuridico seguito dal Tar Lazio, data per presupposto, è stata individuata nella possibilità di regolare gli effetti conformativi dell’accoglimento del ricorso anche in deroga all’efficacia retroattiva della pronuncia di annullamento, possibilità riconosciuta in linea generale dalla recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (in particolare Cons. Stato, Ad. pl., n. 13/2017) e, nel caso di specie, ex artt. 121 e 122 c.p.a., nei limiti in cui consentono al giudice amministrativo di modellare gli effetti della pronuncia di annullamento dell’aggiudicazione.
Di poi, si è insistito sull’autonomia degli effetti costitutivi dell’assetto d’interessi derivanti dalla pronuncia d’inefficacia del contratto rispetto all’annullamento dell’aggiudicazione, ai sensi dell’art. 122 c.p.a.
Infine, si è posto l’accento sulla natura generale e atipica dei poteri conferiti al giudice amministrativo ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. e) c.p.a. che, letti in combinato disposto con i peculiari poteri riconosciuti all’organo giudicante sulla sorte del contratto, ex art. 122 c.p.a., a dire del Tar Lazio, si risolverebbero in un efficace strumento di garanzia dell’effettività della tutela, ampliando gli effetti costitutivi della pronuncia stessa d’inefficacia del contratto.
Ciò posto, al fine di comprendere la portata novativa e ampliativa della soluzione resa dal Tar del Lazio, si ritiene opportuno ripercorrere, seppur succintamente, le complesse questioni sottese alla pronuncia d’inefficacia del contratto, al fine di valutarne profili di criticità o di eventuale apprezzamento.
2. La controversa natura dell’inefficacia del contratto: le tesi ancora sul tappeto.
Gli artt. 121 - 125 c.p.a. e 133, comma 1, lett. e), n. 1 c.p.a., come noto, hanno attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva sulla sorte del contratto, previamente stipulato, in esito all’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione. Tali disposizioni normative hanno riprodotto, sostanzialmente, la disciplina precedentemente contenuta negli artt. 245-bis e 245-ter del d.lgs. n. 163/2006, a sua volta conforme alla direttiva ricorsi n. 2007/66/CE, disciplina con cui il legislatore ha definitivamente inquadrato le questioni relative alle conseguenze sul contratto derivanti dall’annullamento dell’aggiudicazione, innanzitutto come un problema processuale e non piuttosto di diritto sostanziale[1].
Di qui, il permanere di alcuni profili d’incertezza su questioni teoriche che per anni hanno impegnato la dottrina nella decriptazione del dato normativo e nella qualificazione giuridica delle categorie sottese alla fattispecie normativa, dalla cui soluzione ancora oggi dipende la risposta a diverse problematiche, fra cui quella relativa all’ampiezza e all’incidenza dei poteri riconosciuti al giudice amministrativo circa la sorte del contratto, in particolare nelle ipotesi di “vizi residuali”, meno gravi, del procedimento di aggiudicazione, di cui all’art. 122 c.p.a., in cui la discrezionalità riconosciuta al giudice amministrativo sembra avere più ampi margini d’intervento.
Si ribadisce, che è proprio nella suddetta fattispecie normativa che s’inquadra la questione oggetto della presente analisi.
È noto che la soluzione normativa dell’inefficacia del contratto è stata adottata in quanto conforme alle indicazioni poste a livello comunitario, in particolare al 13° considerando della direttiva n. 2007/66/CE ove era individuata, come conseguenza necessaria di un appalto aggiudicato all’esito di un affidamento illegittimo, la privazione di ogni effetto del contratto a valle stipulato, con la precisazione che la carenza di effetti non doveva essere automatica ma accertata da un organo di ricorso indipendente o l’esito di una decisione assunta da quest’ultimo.
Di qui, il superamento di alcune tesi dottrinarie prima avvalorate, quali quelle: dell’annullabilità del contratto, maggiormente caldeggiata dalla giurisprudenza di Cassazione[2], nelle sue varie sfaccettature giuridiche – essendo stata essa ricondotta sia alle ipotesi di annullabilità relativa, ex artt. 1441 c.c., sia da annullabilità per vizio del consenso o per errore essenziale, secondo lo schema normativo di cui agli artt. 1428, 1429, comma 3, c.c. o, ancora, all’annullabilità per difetto di capacità a contrarre dell’amministrazione – ; nonché la diversa tesi della caducazione automatica[3], ossia dell’inefficacia assoluta, basata sul nesso di presupposizione e interdipendenza fra la serie procedimentale ad evidenza pubblica e quella contrattuale, tale per cui simul stabunt simul cadunt.
L’attuale disciplina normativa, dunque, individua una pluralità di fattispecie che consentono al giudice amministrativo di addivenire a una pronuncia di inefficacia del contratto a valle a stipulato, a seguito dell’accertamento della tipologia di violazione commessa nel corso della procedura di affidamento. Non a caso, si è parlato della predisposizione di un meccanismo d’inefficacia a geometrie variabili[4], o meglio ancora flessibile e funzionale[5], essendo l’inefficacia sostanzialmente riconducibile a due differenti regimi giuridici: una inefficacia per così dire “ordinaria” ma cedevole, per le violazioni più gravi, ritenute tassative (art. 121 c.p.a); l’altra facoltativa o discrezionale (art. 122 c.p.a.). E invero, mentre nella prima ipotesi, al verificarsi delle fattispecie declinate dal legislatore, la pronuncia d’inefficacia del contratto dovrebbe essere la regola, ossia conseguenza necessaria ma non per questo automatica, ben potendo sussistere esigenze imperative connesse a un interesse generale che impongano la conservazione del contratto, esigenze che il giudice amministrativo è tenuto a valutare secondo le indicazioni fornite dalla legge (art. 121, comma 2), nella fattispecie residuale, quella di cui all’art. 122 c.p.a., al giudice amministrativo sono lasciati più ampi margini interpretativi per via della maggiore indeterminatezza della disposizione legislativa, essendo Egli sostanzialmente chiamato a effettuare un giudizio complesso – della cui natura si dirà nel prosieguo – sulla pluralità d’interessi in gioco ai fini della decisione sulla sorte del contratto, bensì anche sulla regolazione della decorrenza degli effetti dell’inefficacia stessa. Pertanto, mentre nel primo caso si è difronte a un’inefficacia “cedevole”, nell’altro caso si tratterebbe di un’inefficacia meramente facoltativa, non essendo quella né una conseguenza necessaria ma nemmeno ordinaria dell’annullamento dell’aggiudicazione[6].
E tutto ciò, con evidenti ricadute sulla soluzione di questioni giuridiche ancora controverse, quali quelle relative alla definizione della natura giuridica della suddetta “inefficacia”, del necessario rispetto del principio della domanda per ciascuna delle due fattispecie giuridiche e, specularmente, della possibilità di riconoscimento, o meno, di poteri officiosi[7] in capo al giudice amministrativo ai fini della pronuncia d’inefficacia del contratto.
Con particolare riferimento al primo profilo, quello inerente la natura giuridica dell’inefficacia del contratto, è possibile rinvenire, oggi, due ricostruzioni fra loro alternative, da cui poi è gemmata una tesi mediana.
Secondo una prima impostazione, tale “inefficacia” dovrebbe interpretarsi alla stregua di una nullità-sanzione[8], intesa o come violazione di regole imperative che s’indirizzano sul regolamento negoziale o, piuttosto, secondo altra interpretazione, come nullità speciale da cui conseguirebbe l’illeceità del contratto per violazione dell’ordine pubblico economico o per nullità da disvalore. In questo caso l’inefficacia avrebbe una funzione rimediale, costituendo la reazione a un difetto contrattuale.
Diversamente, secondo altra ricostruzione, l’inefficacia dovrebbe interpretarsi come una risoluzione di fonte giudiziale[9].
Le due ricostruzioni si rifanno a una diversa interpretazione del concetto d’inefficacia, sul presupposto che l’inefficacia non è una categoria giuridica a se stante, non trovando un’autonoma disciplina nemmeno nella materia civilistica, tale per cui essa può intendersi o come inefficacia in senso lato, ossia come predicato di un contratto invalido, dunque come esito di un giudizio sulla validità o meno del rapporto contrattuale, oppure in senso stretto, come mero effetto giuridico di una valutazione sganciata da profili di validità contrattuale, effetto giuridico riconducibile a cause diverse dall’invalidità del rapporto contrattuale[10]. Secondo quest’ultima impostazione l’inefficacia si porrebbe come categoria autonoma rispetto all’invalidità.
Avvalorando quest’ultima prospettiva, dell’inefficacia in senso stretto, ossia dell’inefficacia intesa come effetto giuridico dell’annullamento dell’aggiudicazione, oggetto di un’autonoma e distinta valutazione rispetto a quella di validità del contratto e del rapporto contrattuale, di cui il giudice amministrativo non è chiamato ad occuparsi[11], sembra essere gemmata in dottrina una tesi mediana, per così dire neutrale, che tende a considerare l’inefficacia di cui agli artt. 121-122 c.p.a. come un autonomo istituto giuridico non sussumibile nell’ambito delle altre categorie. Ne deriverebbe una nozione complessa d’inefficacia, che valorizzerebbe la funzionalizzazione della stessa in relazione al subentro nel contratto del ricorrente vittorioso e che consentirebbe, diversamente, di apprezzarne la natura sanzionatoria nei limiti in cui il subentro non sia consentito[12].
Pertanto, è chiaro che la ricostruzione della natura giuridica dell’inefficacia ha ricadute anche sul piano interpretativo e applicativo delle norme di riferimento.
E’ evidente, dunque, che per sciogliere i nodi interpretativi sia opportuno ricostruire anche la ratio legis sottesa alla vigente disciplina, non potendosi negare che, da sempre, le differenti soluzioni interpretative offerte dalla dottrina circa la sorte del contratto e, di conseguenza, sui poteri spettanti al giudice amministrativo, abbiano fortemente risentito della ricostruzione teorica che si è fatta della procedura ad evidenza pubblica, delle finalità ad essa sottese, nonché della natura giuridica dell’aggiudicazione e del rapporto intercorrente fra essa e il contratto a valle stipulato.
Pertanto, non può non considerarsi innanzitutto la ratio sottesa alla disciplina comunitaria che ha le sue fondamenta nell’esigenza, sempre fortemente avvertita a livello europeo, di tutela della concorrenza, quale principio cardine della procedura di affidamento e, con essa, di tutela, in via prioritaria, degli interessi (pretensivi) degli operatori economici, cui è stata attribuita una tutela in forma specifica, che s’invera attraverso il conseguimento dell’aggiudicazione della gara, con conseguente stipula ed esecuzione del contratto.
Tuttavia, una disciplina integralmente calibrata sulla tutela della concorrenza e degli operatori economici avrebbe certamente trovato una migliore e più proficua soluzione nella previsione di una caducazione automatica del contratto all’inverarsi di violazioni della procedura ad evidenza pubblica, soluzione invece scartata dal legislatore.
La vigente disciplina codicistica, invece, sebbene conforme a quella comunitaria, si presenta ben più complessa perché impone al giudice amministrativo una sintesi fra contrapposti interessi, pubblici e privati, da valutarsi anche in termini di proporzionalità in relazione alle conseguenze che potrebbero derivare dalla declatoria d’inefficacia del contratto.
Pertanto, la medesima appare maggiormente improntata a una pubblicizzazione, o se si preferisce, a una vera e propria funzionalizzazione dell’inefficacia del contratto, imponendo un bilanciamento in concreto fra tutela della concorrenza e, dunque, per essa, dell’interesse del ricorrente, ma anche delle altre parti (art 122 c.p.a), nonché della pluralità d’interessi pubblici sottesi al contratto, non necessariamente coincidenti con quello di cui è titolare la pubblica amministrazione, così come la nozione di «esigenze imperative» lascia chiaramente evincere (art 121 c.p.a.), da cui inevitabilmente scaturisce una nozione complessa d’inefficacia del contratto.
In questa prospettiva, pertanto, sembra forse preferibile perseguire quella via interpretativa, per così dire neutrale, che vuole sganciata dalle categorie civilistiche la spiegazione della natura dell’inefficacia del contratto, valorizzando l’intentio legis sottesa alla disciplina codicistica che, lungi da fornire qualificazioni di diritto sostanziale sembra avere piuttosto delineato un complesso meccanismo in cui, fuor d’ogni dubbio, un ruolo cardine spetta al giudice amministrativo che, a seconda del caso concreto, nel rispetto della legge, sarà chiamato a decidere della sorte del contratto, quale conseguenza/effetto giuridico dell’annullamento dell’aggiudicazione, modificando l’assetto d’interessi a quello sottesi, con una pronuncia costitutiva.
Di qui, la necessità di definire la natura e l’ampiezza dei poteri spettanti al giudice amministrativo sulla sorte del contratto e sulla regolazione della decorrenza degli effetti dell’inefficacia.
3. Della natura e dell’ampiezza dei poteri del G.A. sulla sorte del contratto.
Anche con particolare riferimento alla natura e all’ampiezza del sindacato giudiziale sulla sorte del contratto è possibile rinvenire in dottrina diverse tesi che sono originate, sostanzialmente, dalla incerta dicitura espressa nella direttiva comunitaria 2007/66/CE e nella legge delega del 7 luglio 2009, n. 88, in cui si era prevista una giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo circa gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto.
Il punto, come noto, è stato presto chiarito in sede giurisdizionale[13], e definitivamente fugato con la vigente disciplina codicistica, essendosi chiaramente prevista la giurisdizione esclusiva del g.a. sulla sorte del contratto, non potendo Egli sostituire le proprie valutazioni a quelle spettanti alla p.a., nonostante, nel caso di specie, sia legittimato a svolgere un sindacato forte[14], a tutela dei contrapposti interessi sottesi al contratto.
Proprio la specialità[15] che connota i poteri del giudice amministrativo in relazione alla sorte del contratto ha però alimentato dubbi in dottrina sulla tipologia di sindacato da quello svolto.
Secondo un primo orientamento[16], il giudice amministrativo sarebbe chiamato ad effettuare un giudizio equitativo, alla stregua di un giudizio di volontaria giurisdizione, in cui la valutazione e la decisone del giudice, piuttosto che natura decisoria, sembrerebbero avere natura gestionale, per via della molteplicità delle soluzioni cui il giudice può giungere, vista l’ampia discrezionalità a questi riconosciuta, avendo la normativa fatto ampio uso di concetti giuridici indeterminati, generici o incompleti. Pertanto, secondo questa teorica, i poteri del giudice amministrativo sarebbero da leggersi nell’ottica dell’equità integrativa o correttiva, così da conciliare il principio di legalità con l’indeterminatezza e flessibilità normativa, anche in ragione dell’effettività della tutela.
Di diverso avviso chi[17], valorizzando la prospettiva pan-processualista o giudice-centrica sottesa alla predetta normativa, ha ritenuto si fosse comunque difronte a un sindacato di merito del giudice amministrativo, essendo la normativa essenzialmente protesa ad assicurare una tutela effettiva e rapida del ricorrente attraverso l’inefficacia del contratto. Di conseguenza, secondo questa tesi dovrebbe ritenersi che il giudice amministrativo avrebbe un potere-dovere di compiere una valutazione dell’interesse pubblico sostitutiva di quella dell’amministrazione, compiendo una scelta discrezionale afferente a profili di opportunità e convenienza circa la conservazione, o meno, del contratto e dei suoi effetti[18].
Questa teorica, tuttavia, è confutata dal dato normativo e da quella dottrina[19] che, piuttosto, ha evidenziato come, nel caso di specie, per la prima volta, si sia chiaramente al cospetto di un sindacato pieno del giudice amministrativo sul rapporto, un sindacato particolarmente incisivo che attribuisce al giudice amministrativo una cognizione piena per l’accertamento e la valutazione dei fatti e dei contrapposti interessi sottesi alla fattispecie di riferimento, senza per questo, tuttavia, cadere in un sindacato di mera opportunità politica sulla scelta precedentemente effettuata dall’amministrazione (ossia sul merito). Ciò anche in ragione del fatto che il legislatore ha effettuato una scelta differente sul tipo di giurisdizione spettante al GA, a seconda che ricorrano le fattispecie di cui agli artt. 121-122 cp.a. o piuttosto 123 c.p.a.
La tesi merita un chiarimento, anche perché, come si dirà in seguito, differenti sono i parametri normativi che indirizzano il sindacato del G.A. nel caso concreto a seconda che ricorra l’ipotesi di cui all’art. 121, comma 2, c.p.a. o piuttosto, quella ben più problematica, per la maggiore indeterminatezza e per lo specifico riferimento all’apprezzamento degli interessi in gioco, di cui all’art 122 c.p.a.
Più in particolare, sembra possibile ritenere che nel caso di specie il legislatore abbia autorizzato il giudice amministrativo a compiere, nel rispetto della terzietà, imparzialità e indipendenza della propria posizione, una valutazione contestuale dell’interesse individuale, sia esso l’interesse legittimo pretensivo vantato dal ricorrente sia quello oppositivo del controinteressato, in uno con l’interesse pubblico sotteso al contratto; interesse, quest’ultimo, non inteso come strettamente coincidente con l’interesse pubblico prevalente, ossia quello rispondente all’interesse dell’amministrazione procedente, piuttosto come “interesse pubblico del caso concreto”, ossia come sintesi della pluralità degli interessi sottesi al contratto, da valorizzarsi nella prospettiva del rispetto di esigenze imperative espressione di un interesse generale.
Il che vorrebbe significare che il G.A. non sarebbe chiamato a esprimere ex post un giudizio sulla meritevolezza della scelta precedentemente effettuata dalla p.a., sostituendo la propria decisione con il merito amministrativo, bensì – e qui la peculiarità della normativa di riferimento – a compiere una valutazione autonoma, ora per allora, sull’assetto degli interessi in gioco, sottesi al contratto nelle more stipulato, per come emergente e per come determinatosi in conseguenza dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione illegittima.
Tale prospettazione, tuttavia, potrebbe far sorgere il dubbio che ci si trovi di fonte a una palese violazione dell’art. 34, comma 2 c.p.a., ossia dell’inderogabile divieto per il giudice amministrativo di pronunciarsi su poteri amministrativi non ancora esercitati.
Purtuttavia, come la dottrina non ha mancato di precisare, tale norma impedirebbe al G.A. di anticipare l’amministrazione nell’esercizio del proprio potere, non già di individuare l’assetto definitivo del rapporto controverso[20].
Con particolare riferimento all’ipotesi di cui all’art.122 c.p.a., ciò starebbe a significare che la valutazione “dell’interesse pubblico del caso concreto” demandata al GA, nell’ipotesi in cui si rende necessaria un’ulteriore attività procedimentale della p.a. (ossia, la riedizione della procedura di gara), sarebbe meramente strumentale all’esplicazione dell’effetto conformativo della sentenza di annullamento.
Il che vorrebbe dire che il G.A., non ricorrendo l’ipotesi della giurisdizione di merito, non è tenuto a stabilire il nuovo e definitivo assetto d’interessi, non avendo Egli poteri costitutivi, bensì è legittimato a orientare, in maniera più puntuale, il riesercizio della funzione amministrativa, esplicitando nel dispositivo della sentenza gli effetti conformativi derivanti dall’annullamento dell’aggiudicazione sulla sorte del contratto, con particolare riferimento alla decorrenza dell’inefficacia del contratto medesimo.
Pertanto, dovrebbe ritenersi che la specialità dei poteri riconosciuti al giudice amministrativo sulla sorte del contratto, atto di natura privatistica consequenziale e direttamente connesso all’esercizio di una pubblica funzione cristallizzatasi nel provvedimento di aggiudicazione, trovi un fondamento in ragioni di economicità ed efficienza processuale che hanno, evidentemente, portato ad estendere – probabilmente oltremodo (?) – le maglie della giurisdizione esclusiva, essendo Egli di fatto chiamato a effettuare una valutazione, neutrale e obiettiva, di pura efficienza economica, non già di buona amministrazione, non dovendo esprimere un giudizio di opportunità politica o di convenienza in sostituzione della pubblica amministrazione.
In questa prospettiva, dunque, l’ampiezza dei poteri cognitori, istruttori e decisori del giudice amministrativo, per come specificatamente delineati nella normativa in esame, dovrebbe potersi apprezzare e necessariamente coniugare nel rispetto dei limiti legali alla pienezza ed effettività della tutela, per come posti dai precetti costituzionali di cui agli art. 24, 111 e 113 della Costituzione. Principi, a loro volta, recepiti e declinati nel codice del processo amministrativo che è, chiaramente, un processo di parti, fondato sul principio dispositivo, o meglio ancora, sul principio della domanda e della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, come tali invalicabili, essendo nella disponibilità delle parti l’oggetto del processo, non potendo certamente accettarsi l’idea del “giudice regolatore”.
Pertanto, in questa prospettiva, sembra possibile affermare che si sia difronte a un’eccezionale ipotesi normativa di esercizio della giurisdizione piena del g.a.[21], non semplicemente perché si legittima una cognizione piena del giudice amministrativo sul fatto, bensì perché s’impone una valutazione della situazione fattuale venutasi a creare in conseguenza della sottoscrizione del contratto, tale per cui il g.a. è tenuto a valutare le conseguenze dell’annullamento dell’aggiudicazione sull’efficacia del contratto, senza per questo divenire giudice della validità del contratto stesso[22].
Purtuttavia, è evidente, però, che il giudice amministrativo, nell’ampiezza dei poteri cognitivi e decisori attribuitogli dalla legge in codesta materia, in uno con l’indeterminatezza del precetto normativo, in specie dell’art. 122 c.p.a., potrebbe inopinatamente spingersi al di là dei confini della giurisdizione di tipo soggettivo[23], verso una vera e propria funzionalizzazione del processo, esercitando poteri, e non semplici effetti, conformativi, come tali inaccettabili.
Non si può dimenticare, infatti, che anche nel caso in cui si volesse riconoscere nella fattispecie normativa in esame un esempio di giurisdizione piena del giudice amministrativo, vi sono dei limiti invalicabili – espressi nelle regole del giusto processo di cui all’art 111 Cost. – posti a presidio della legalità ordinamentale di cui il principio della separazione dei poteri è emblema, che il GA è sempre tenuto a rispettare: innanzitutto una cognizione piena sul fatto non potrà mai significare uso della scienza privata da parte del giudice, né elusione del principio dispositivo per come declinato nell’art. 64 c.p.a., né indebita violazione del principio del contraddittorio e della parità processuale fra le parti; di poi, anche un eventuale riconoscimento di poteri decisori più pervasi non potrà giustificare un sindacato del giudice sulla scelta valoriale che costituisce il proprium della funzione amministrativa[24].
Pertanto, è nel rispetto di questi termini che bisognerà condurre l’analisi della questione.
4. Le ulteriori spinte in avanti del G.A. quale giudice a cognizione piena.
Al fine di comprendere fino a che punto, nel caso di specie, il g.a. si sia spinto al di là del dato normativo e delle regole processuali è opportuno innanzitutto guardare al tenore letterale della disposizione normativa di riferimento, l’art. 122 c.p.a., e all’interpretazione estensiva che di quella si è data, anche sulla scia di una recente pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite[25] che ha, per vero, aperto la strada a tale nuovo indirizzo interpretativo, sempre più seguito dal giudice amministrativo nelle sue recenti pronunce[26].
Ai sensi dell’art. 122 c.p.a., il giudice amministrativo che, al di fuori dei casi indicati nell’art. 121, comma 1 e nell’art. 123, comma 3, c.p.a., annulla l’aggiudicazione definitiva, può dichiarare inefficace il contratto, stabilendone la decorrenza, tenendo conto degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto stesso, nel caso in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovo della gara e la domanda di subentro sia stata presentata.
La disposizione normativa, come noto, pone una fattispecie residuale di inefficacia, come detto facoltativa, trattandosi di una norma di chiusura rispetto alle ordinarie ipotesi di inefficacia del contratto declinate dall’art. 121 c.p.a., che lascia più ampi margini di discrezionalità al giudice amministrativo sulla scelta inerente la sorte del contratto.
La decisione sull’inefficacia, rimessa al giudice in termini di “possibilità”, è infatti condizionata alla valutazione di una serie presupposti normativi che, tuttavia, pongono in primo piano la considerazione degli interessi delle parti, dunque, del ricorrente, interessato all’inefficacia del contratto funzionale al subentro o, in via subordinata, alla riedizione della gara, dell’aggiudicatario - contraente in buona fede, così come della stessa pubblica amministrazione. E la ponderazione di tali interessi, in cui senza dubbio un peso primario è da attribuire all’interesse del ricorrente, essendo la norma calibrata sulla tutela in forma specifica da assicurare a quest’ultimo, non può che essere inversamente proporzionale alla gravità del vizio che inficia l’aggiudicazione.
Proprio in riferimento a tale profilo, con particolare riferimento ai quei vizi della procedura, pur di “gravità risiduale” rispetto a quelli declinati nell’art. 121 c.p.a., con cui la disposizione normativa va coordinata, che comunque comportano la riedizione della gara, sono sorti dubbi interpretativi in merito alla discrezionalità del giudice di dichiarare l’inefficacia del contratto.
Secondo una interpretazione letterale più rigorosa, infatti, richiamata anche nella sentenza che si commenta, nelle ipotesi di violazioni residuali che comunque comportino una riedizione della gara, la dichiarazione d’inefficacia del contratto dovrebbe essere la conseguenza ordinaria, non richiedendo alcuna valutazione comparativa degli interessi e degli altri elementi contemplati nella disposizione normativa (Cfr. Cons. Stato, Ad. Pl. n. 13/2011).
Il giudice amministrativo, pertanto, accertata la necessità di riedizione della gara, dovrebbe limitarsi ad annullare l’aggiudicazione e a disporre l’inefficacia del contratto, presumibilmente con efficacia ex tunc, quale conseguenza ordinaria dell’effetto retroattivo della pronuncia di annullamento dell’aggiudicazione cui il contratto è comunque connesso.
È proprio in relazione a questo profilo, della regolazione degli effetti dell’inefficacia del contratto, che si registrano orientamenti differenti, come quello espresso dalla sentenza in commento, partendo proprio dal presupposto della valorizzazione dell’autonomia degli effetti costitutivi della pronuncia di inefficacia del contratto rispetto a quelli derivanti dall’annullamento dell’aggiudicazione.
La disposizione normativa, infatti, è stata oggetto di differenti letture per via dell’ambivalenza del tenore letterario che la connota. Secondo un recente arresto della Corte di Cassazione, interpellata sul punto per motivi di giurisdizione, ritenuti però infondati, due sarebbero le possibili letture interpretative che la disposizione consentirebbe.
La prima corrisponderebbe alla tesi più rigorosa appena sopra richiamata, secondo cui le condizioni normative di esercizio del potere del giudice amministrativo varrebbero esclusivamente per le ipotesi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovazione della gara; nel caso contrario, pertanto, il giudice non sarebbe tenuto ad effettuare tali valutazioni.
Diversamente, secondo altra interpretazione, la disposizione normativa dovrebbe essere letta nel senso di consentire al giudice amministrativo, in ogni caso – sia che si debba o non si debba procedere al rinnovo della procedura di gara – di compiere la valutazione dei parametri condizionanti la declatoria d’inefficacia. Di conseguenza, il giudice amministrativo al ricorrere delle ipotesi di cui all’art 122 c.p.a. sarebbe sempre tenuto a tenere in considerazione gli interessi delle parti, lo stato di avanzamento dell’esecuzione del contratto, l’effettiva possibilità, per il ricorrente, di conseguire l’aggiudicazione del contratto o di subentrare nel contratto, alla luce del vizio della procedura in concreto riscontrato. Pertanto, l’eventuale obbligo di rinnovo della gara non limiterebbe i poteri cognitori e decisori del g.a., per come individuati dalla disposizione di legge, bensì impedirebbe, semplicemente, la possibilità di subentro nel contratto.
Secondo questa lettura dunque, le due condizioni della non necessità di riedizione della gara e dell’avvenuta presentazione della domanda di subentro sarebbero pregiudiziali – o meglio, necessarie anche se da sole non sufficienti, dovendo comunque valutarsi gli altri elementi condizionanti l’inefficacia – ai soli fini della tutela in forma specifica del ricorrente.
È evidente che questa seconda interpretazione amplia lo spettro dei poteri spettanti al giudice amministrativo, consentendogli di compiere un giudizio complesso anche nelle ipotesi di riedizione della gara; soluzione interpretativa, questa, che sarà maggiormente condivisibile nei limiti in cui si prediliga la tesi neutrale dell’inefficacia funzionale, posto che la qualificazione dell’inefficacia in termini di nullità-sanzione certamente imporrebbe un maggior rigore interpretativo.
Ad avvalorare tale soluzione interpretativa soccorre anche una lettura sistematica delle fattispecie di cui agli artt. 122 e 121 c.p.a. in quanto, se nelle ipotesi di violazioni più gravi di cui all’art. 121 c.p.a. è consentito al g.a. di conservare gli effetti del contratto al ricorrere delle esigenze imperative di cui al secondo comma dell’art. 121, escludere la ponderazione d’interessi contrapposti nel caso di violazioni meno gravi della procedura di gara sarebbe alquanto irragionevole, perché si giungerebbe ad un’applicazione più rigorosa della fattispecie residuale, meno grave, in cui l’inefficacia è comunque ope legis una conseguenza meramente eventuale.
Infatti, se al ricorrere delle fattispecie di cui all’art 121 c.p.a. l’inefficacia del contratto deve considerarsi una conseguenza ordinaria e, invece, la conservazione degli effetti del contratto una ipotesi eccezionale e derogatoria, possibile al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 121 comma 2, nei casi di cui all’art 122 c.p.a. la soluzione è differente, non essendo posta una priorità a livello normativo al ricorrere di fattispecie che si pongono come regola ed eccezione, rimettendosi al giudice la decisione sulla sorte del contratto.
Pertanto, mettendo a sistema le due norme, un’interpretazione estensiva della disposizione in esame, con conseguente ampliamento dei poteri cognitori e decisori del giudice amministrativo, sarebbe legittima nei limiti in cui all’inverarsi di violazioni non gravi della procedura di gara che comunque comportino la riedizione della gara stessa, l’accoglimento della declatoria di d’inefficacia del contratto, con efficacia immediata o retroattiva, sarebbe da escludere perché conseguenza sproporzionata rispetto agli interessi di cui è causa.
È anche vero, però, che le condizioni normative cui è subordinato il giudizio sulla sorte del contratto divergono a seconda che ricorrano le fattispecie di cui all’art 121, comma 2, o 122 c.p.a.
Mentre nell’ipotesi di cui all’art 121, comma 2, c.p.a. ai fini della conservazione degli effetti del contratto si avvalorano esigenze imperative connesse alla sussistenza di un interesse generale – dunque, di più ampio respiro dell’interesse pubblico perseguito dalla p.a. competente, per vero recessivo – le sole capaci di giustificare una deroga alle accertate gravi violazioni della procedura di gara, nell’ipotesi di cui all’art. 122 c.p.a., la decisione dell’organo giudicante è strettamente calibrata sulla valutazione degli interessi di parte sottesi al contratto stipulato, ponendo particolare attenzione all’interesse del ricorrente non solo di subentrare al contratto, bensì anche alla ripetizione della gara allorché il medesimo abbia una effettiva possibilità di conseguire l’aggiudicazione.
Orbene, nell’ipotesi in cui il giudice accerti che ricorra un vizio che richieda la ripetizione della gara, l’unica conseguenza diretta e ordinaria cui la disposizione normativa darebbe luogo sarebbe quella di escludere la possibilità di subentro del ricorrente che ne abbia fatto domanda, non già quella di procedere alla declatoria d’inefficacia del contratto. Infatti, resterebbe in piedi il potere del giudice di decidere della sorte del contratto, dell’inefficacia dello stesso e della decorrenza dei relativi effetti.
Di conseguenza potrebbero aversi soluzioni divergenti a seconda del caso di specie, posto che questa interpretazione accentua i profili di autonomia degli effetti costitutivi dell’assetto d’interessi derivanti dalla pronuncia d’inefficacia del contratto rispetto all’annullamento dell’aggiudicazione. Un parametro normativo certamente rilevante, capace di condizionare la declatoria d’inefficacia del contratto sino ad escluderla, è quello dello stato di esecuzione del contratto, che postula una valutazione complessa dei profili fattuali ad esso sottesi[27].
Al di là di questa ipotesi di più semplice soluzione, la decisone sull’inefficacia del contratto e sulla sua decorrenza, dovrebbe calibrarsi tutta sul bilanciamento dei contrapposti interessi di parte sottesi al contratto, nonché sulla valorizzazione dell’interesse strumentale del ricorrente alla riedizione della gara. Considerando che l’accertamento di un vizio che comporti la riedizione della gara esclude, di fatto, la possibilità di offrire tutela piena al bene della vita del ricorrente, ossia di subentrare al contratto, non sembra errato ritenere che in suddette ipotesi si avrebbe un recupero valoriale degli interessi diversi da quello del ricorrente, – o se si preferisce, si avrebbe un depotenziamento dell’interesse del ricorrente, nella ratio della norma considerato primario – sia della pubblica amministrazione resistente che del controinteressato in buona fede, ai fini della ponderazione che il giudice deve eseguire, con il rischio di derive protezionistiche, a vantaggio della conservazione degli effetti del contratto.
Che gli effetti di decisioni improntate alla tutela di interessi superindividuali, siano essi interessi collettivi, diffusi, generali, o anche solo pubblici[28], incidano sull’effettività della tutela dell’interesse del singolo ricorrente, arretrandola o financo svuotandola di contenuto nei limiti in cui tali esigenze debbano, ope legis, prevalere sulle contrapposte ragioni del singolo dedotte in giudizio, anche se fondate, è conseguenza del tutto evidente proprio al ricorrere della fattispecie di cui all’art. 121, comma 2, c.p.a[29]. Sebbene debba ritenersi che al ricorrere di tali fattispecie, della cui eccezionalità non può dubitarsi, tale conseguenza oltre che possibile sia legittima perché conforme non semplicemente alla voluntas legis bensì alla littera legis, è altrettanto vero che non si possa dubitare della necessità di vagliare con stretto rigore il ricorrere di suddette ipotesi, in quanto le stesse implicano una evidente scissione fra illegittimità amministrativa/procedimentale, anche grave, e legalità sostanziale o ordinamentale, che dir si voglia, intesa come bisogno di tutela di un interesse generale, che si manifesta al ricorrere di specifiche esigenze imperative, come potrebbero essere quelle connesse alla realizzazione di infrastrutture strategiche o alla realizzazione di opere pubbliche fruibili dall’intera collettività, o la prestazione di servizi essenziali.
Il problema, come detto, si pone con maggior evidenza proprio in riferimento alla valutazione che il giudice è chiamato a compiere ex art. 122 c.p.a, per via della maggiore indeterminatezza della fattispecie normativa rispetto a quella di cui all’art. 121, comma 2, c.p.a.
Tuttavia, valorizzando una lettura coordinata della disciplina posta dall’art. 121, comma 2, e dall’art.122 c.p.a., trattandosi di norme fra loro complementari, si ritiene che anche per quest’ultima fattispecie l’apprezzamento, da parte del giudice, della situazione di fatto esistente, da effettuare attraverso la lente della valutazione dei contrapposti interessi, debba essere operata nella logica della valorizzazione dell’interesse pubblico del caso concreto, così come precedentemente chiarito.
Le considerazioni svolte, dunque, sembrano far ritenere che, in via del tutto generale, l’interpretazione meno rigorosa dell’art 122 c.p.a., per come prospettata, non possa considerarsi, sic et simpliciter praeter legem; più in particolare, che la lettura coordinata delle due disposizioni porti piuttosto a valorizzare i limiti all’esercizio della funzione giurisdizionale relativamente alla decisone sulla sorte del contratto, dovendo fugarsi l’insidia di una strumentalizzazione interpretativa delle regole processuali[30].
Pertanto, sarà fondamentale attenzionare le modalità con cui il giudice, di volta in volta, ne darà applicazione, potendo tale interpretazione portare a facili strumentalizzazioni, o meglio a una più accentuata pubblicizzazione o funzionalizzazione dell’inefficacia del contratto, allontanando ancor più la norma dalla sua ratio originaria di garanzia di tutela della concorrenza e dell’interesse pretensivo del ricorrente a godere di una tutela piena, in forma specifica, ma anche solo di essere ripagato della chance di concorrere nuovamente per l’aggiudicazione.
5. Della specialità dei poteri del G.A. ex art 122 c.p.a., quale giudice di merito (ossia a cognizione piena) e non già sul merito.
Orbene, nel caso di specie il giudice amministrativo non sembra aver oltrepassato o violato le regole del processo amministrativo quale processo di parti, piuttosto sembra aver speso i propri poteri effettuando una valutazione comparativa dei contrapposti interessi di parte ai soli fini della regolazione della decorrenza degli effetti dell’inefficacia del contratto, valorizzando l’interesse strumentale del ricorrente alla riedizione della gara, in uno con l’interesse non solo pubblico bensì collettivo alla continuità nell’esecuzione del contratto, evincibile dall’oggetto della prestazione contrattuale, nelle more resa dal contraente aggiudicatario, trattandosi di servizio essenziale di trasporto con assistenza domiciliare a soggetti svantaggiati.
Il giudice amministrativo, infatti, ha ritenuto di non emettere, nel caso di specie, una pronuncia d’inefficacia immediata o comunque retroattiva del contratto, non per ragioni di equità o di opportunità meramente politica, bensì in conseguenza di un giudizio complesso dal medesimo effettuato in maniera conforme ai parametri normativi condizionanti l’efficacia del contratto, sebbene, come detto, gli stessi impongano valutazioni a dicrezionalità piuttosto ampia, richiamando, gli elementi normativi della fattispecie, giudizi di tipo valoriale, oltre che tecnico ed economico.
Poteri del GA, che sembrerebbero trovare una plausibile spiegazione solo nella prospettiva della giurisdizione piena, intesa come espressione di un sindacato radicato nella pienezza della cognizione dei fatti e caratterizzato da una ampiezza della discrezionalità del giudice nel decidere la controversia[31]. Discrezionalità, tuttavia, che s’invera non nell’esercizio di poteri sostitutivi, non essendo chiamato il giudice a una scelta politica dell'interesse pubblico prevalente, bensì attraverso l’esplicazione di effetti conformativi più pervasivi, conseguenti alla valutazione dell'interesse pubblico del caso concreto che la norma gli impone di effettuare.
La disciplina normativa oggetto d’analisi[32], infatti, sembrerebbe porsi in posizione di assoluta distonia nel sistema processuale amministrativo, inverando una ipotesi peculiare di modello processuale di giurisdizione piena del G.A. Per comprenderne appieno il significato, è necessaria una breve riflessione storica sul punto.
Ripercorrendo le coordinate storiche sul tema, infatti, la normativa in esame invita innanzitutto a riflettere sulla complessità del concetto di giurisdizione di merito, risalente alla l. del 7 marzo 1907, n. 62, per certi versi riecheggiato nell’art. 27 del R.d. n. 1054/1924, molto spesso dimenticato.
E invero, la lettura di tali disposizioni normative porta a domandarsi cosa s’intenda per «giudicare nel merito», per coglierne una duplicità di significati: il primo significato, che forse con una maggior eco si è tramandato nella cultura del processo amministrativo, è quello di esprimere una valutazione di opportunità politica sulla scelta operata dall’amministrazione procedente; il secondo significato, il cui valore oggi, con il codice del processo amministrativo, si tende a recuperare con maggior vigore, è quello di intendere l’espressione giudicare del merito come riconoscimento di una cognizione piena del giudice amministrativo sul fatto[33].
Orbene, si è già più volte rimarcato che l’ipotesi di specie non comporti una valutazione da parte del GA in termini di opportunità politica. Con la conseguenza, che deve esser ben salda, che lo stesso non possa sostituirsi all’amministrazione, ergendosi a giudice-regolatore del caso concreto.
Diversamente, proprio il profilo della valorizzazione dell’ampliamento della cognizione del giudice, anche nel recente passato (si pensi all’art. 35 del d.lgs. n. 80/1998) è stato strumentale per valorizzare la funzione propria della giurisdizione esclusiva (nella quale rientra la materia di cui ci stiamo occupando) come giurisdizione piena del giudice amministrativo, intesa non soltanto come cognizione piena sul fatto per la verifica del corretto esercizio della funzione pubblica, bensì anche, per il profilo decisorio, come possibilità di rendere pronunce davvero satisfattive dell’interesse del ricorrente, in conformità al principio di pienezza ed effettività della tutela, di cui all’art. 1 c.p.a., quale corollario degli artt. 24, 103, 111 e 113 della Costituzione[34].
Più in particolare, l’eccezionalità dei poteri decisori che nel caso di specie sembrano riconosciuti, ope legis, al giudice amministrativo, paiono potersi giustificare proprio valorizzando il precetto di cui all’art. 113, comma 2 della Costituzione che impone di non limitare le forme di tutela giurisdizionale avverso l’esercizio scorretto della pubblica funzione, a garanzia della completa soddisfazione della pretesa fatta valere in giudizio dalla parte vittoriosa.
Norma che, tuttavia, non va interpretata nel senso di consentire, in ogni caso, dunque, incondizionatamente, una tutela giurisdizionale illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo, spettando al legislatore il compito di regolarne modi di esplicazione ed efficacia (così testualmente, Corte Cost., 25 giugno 2019, n. 160).
E ciò con un evidente recupero del basilare e invalicabile principio di legalità ordinamentale.
Pertanto, se è vero che nella giurisdizione piena si assiste a un ampliamento tanto dei poteri cognitori quanto dei poteri decisori del giudice amministrativo, in ragione della concentrazione di una tutela potenzialmente esaustiva per la posizione soggettiva lesa dall’esercizio illegittimo della funzione, ciò non può avvenire ad libidum, non potendo farsi del giudice un organo legibus solutus, ricadendo altrimenti nel vizio del giudice- regolatore o amministratore, che dir si voglia.
6. Analisi delle motivazioni addotte dal GA a sostegno della propria decisione.
A sostegno della decisione assunta, il giudice amministrativo non si è limitato a valorizzare l’interpretazione meno rigorosa dell’art. 122 c.p.a., di cui si è ampiamente detto, ma ha giustificato la spendita dei propri poteri in relazione alla regolazione degli effetti del contratto, sfruttando le maggiori potenzialità degli effetti conformativi della propria pronuncia sul riesercizio della funzione pubblica, conseguenti alla (pacificamente riconosciuta) autonomia degli effetti costitutivi dell’assetto d’interessi derivanti dalla pronuncia d’inefficacia del contratto rispetto all’annullamento dell’aggiudicazione.
La soluzione cui il giudice amministrativo è giunto è senza dubbio innovativa perché, nella regolazione degli effetti del contratto, ha disposto la conservazione dello stesso per il tempo presuntivamente necessario alla riedizione della procedura di gara, reputando che nel bilanciamo degli interessi in gioco, ai fini della declatoria d’inefficacia del contratto, l’interesse strumentale del ricorrente vittorioso potesse essere ragionevolmente bilanciato con quello della continuità di un servizio essenziale, oggetto del contratto illegittimamente aggiudicato.
Se la soluzione cui il G.A. è giunto potrebbe essere condivisibile, qualche dubbio è lecito sollevare sul percorso motivazionale dal medesimo dispiegato.
In particolare, si ritiene opinabile un primo presupposto motivazionale cui il giudice amministrativo ha fatto impiego nell’argomentare la propria tesi, spendendolo quasi in sordina, con un obiter dictum. Ebbene, il GA sembra aver fondato (o per lo meno voluto rafforzare) la propria decisione, muovendo da un recente arresto dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, del 22 dicembre 2017, n. 13, con cui si è giunti a riconoscere, in via generale, la possibilità per il giudice amministrativo di disporre degli effetti conformativi dell’accoglimento del ricorso, seppure per derogare all’effetto retroattivo dell’annullamento.
Principio, questo, su cui la dottrina[35] ha speso rimarchevoli argomenti critici, non potendo essere accettato ad libidum posto che l’effetto retroattivo della sentenza di annullamento resta una regola fondamentale dello Stato di diritto, quale esplicazione dello stesso principio di legalità.
Sebbene tale presupposto motivazionale, pur utilizzato incidentalmente e a corollario della tesi poi dispiegata non pare condivisibile, si ritiene che il medesimo comunque non vizi la soluzione finale cui il giudice è addivenuto per una semplice ragione, dirimente, data dal fatto che il richiamo del principio generalmente posto dalla Plenaria, se non inconferente, appare comunque inutiliter datum perché, nel caso di specie, è la legge stessa ad autorizzare l’esercizio di poteri peculiari in capo al GA. Tale richiamo, pertanto, appare, se non pertinente, comunque non rilevante ai fini del decisum.
Diversamente, sembrerebbe più corretto insistere sulla specialità dei poteri riconosciuti al Giudice amministrativo dagli artt. 121 e soprattutto 122 c.p.a. cui, ope legis, gli è consentito di modulare gli effetti dell’inefficacia del contratto, sul presupposto dell’autonomia degli effetti dell’annullamento rispetto alla sorte del contratto. E di tanto si è detto.
Rilevante pare, inoltre, la lettura in combinato disposto di cui all’art. 34, comma 1, lett. e), c.p.a. e all’art. 122 c.p.a., operata dal giudice amministrativo. E qui la valenza novativa della pronuncia.
Partendo dal presupposto che tale ultima disposizione normativa legittimi la regolazione degli effetti dell’inefficacia del contratto in conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione, con effetti costitutivi dell’assetto d’interessi ulteriori e non meramente dipendenti dall’annullamento, il GA è giunto a ritenere che la natura generale e atipica dell’azione cui all’art. 34, comma 1, lett. e) sia idonea a potenziarne l’efficacia, ampliando la valenza costitutiva della pronuncia a garanzia dell’effettività della tutela.
E ciò innanzitutto perché la dichiarazione d’inefficacia del contratto - e il conseguente potere di regolazione della decorrenza dei suoi effetti - quale conseguenza della decisione di annullamento dell’aggiudicazione, può essere intesa come effetto ulteriore, complementare e conformativo, della sentenza costitutiva di annullamento dell’aggiudicazione[36].
Di poi, il richiamo all’art. 34, comma 1, lett. e), c.p.a.[37], in riferimento a una azione di cognizione e non di ottemperanza, impone, come noto, una valutazione più complessa in rapporto ai poteri spettanti al giudice, avendo questa disposizione, nel suo contenuto generale e atipico, le potenzialità per amplificare gli effetti di una pronuncia di annullamento, consentendo al giudice di esplicitare nel dispositivo della sentenza non solo gli effetti ripristinatori, bensì e soprattutto quelli conformativi. Sebbene questa resti, in generale, una mera facoltà del giudice.
Tale norma di legge, infatti, nell’attribuire a una sentenza di annullamento (o anche di condanna) ulteriori effetti finalizzati a garantire l’efficacia pratica di una sentenza di accoglimento del ricorso, valevoli in particolar modo per la tutela di interessi legittimi pretensivi, implica il riconoscimento di poteri atipici atti a integrare e rafforzare il contenuto della tutela costitutiva[38].
L’atipicità delle misure attuative di cui all’art. 34, comma 1, lett. e), inoltre, varia a seconda del diverso grado di penetrazione dello scrutinio di legittimità concesso, nel singolo caso, al giudice amministrativo; pertanto tali misure potrebbero concretizzarsi o in puntualizzazioni del modo di esercizio del potere amministrativo o in misure satisfattive sulla spettanza del provvedimento richiesto.
Tuttavia, proprio con riferimento a tale ultimo profilo, il richiamo ai poteri di cui all’art. 34, comma 1, lett. e) c.p.a. è a volte ritenuto ridondante, in particolare nel caso in cui il giudice sia legittimato a usare i poteri ben più penetranti di cui all’art. 34, comma 1, lett.c), c.p.a. o legittimato a condannare la p.a. a un facere specifico[39].
Diversamente, la norma sembrerebbe avere maggiore capacità d’incidenza proprio nelle ipotesi in cui residui in capo alla p.a. un più o meno ampio margine di discrezionalità nel riesercizio della funzione, tale per cui la misura attuativa si concretizzerebbe in una maggiore specificazione dell’effetto conformativo della sentenza di annullamento, alla stregua di misure complementari o piuttosto di prescrizioni esecutive dell’effetto conformativo, con efficacia più o meno stringente sul riesercizio della funzione.
E tale sembrerebbe essere il caso di specie, in cui il G.A. ha voluto rafforzare gli effetti conformativi della sentenza costitutiva di annullamento, adottando una statuizione di completamento dell’annullamento dell’aggiudicazione, senza per questo assumere misure di carattere sostitutivo, non legittimate, né esprimere un giudizio sul merito.
Ipotesi, che sembrerebbe consentita nel caso di specie perché tipizzata (recte, nominata) nella fattispecie normativa in esame (art. 122 c.p.a.), sebbene la stessa, nell’individuazione dei presupposti normativi legittimanti tale potere presenti un contenuto alquanto indeterminato; di qui, l’atipicità del modo di esercizio, in concreto, della funzione giurisdizionale e degli effetti conformativi incidenti sul potere pubblico. Atipicità che, in alcuni casi, potrebbe lasciar interdetti nel modo in cui si dia concreta applicazione del disposto normativo.
7. Brevi considerazioni conclusive.
Alla luce dell’indagine svolta sembrerebbe che, nel caso di specie, il giudice amministrativo abbia cercato di esercitare quei peculiari poteri che la norma di legge gli attribuisce, particolarmente incisivi, districandosi in un delicato e spesso fragile equilibrio fra rispetto delle regole del processo amministrativo come processo di parti e divieto di sostituirsi all’amministrazione nella cura dell’interesse pubblico prevalente.
Sembrerebbe che il medesimo si sia sforzato di compiere una valutazione il più possibile obiettiva, neutrale, in conformità a quei parametri normativi che, pur con tutti gli evidenziati limiti, la norma pone, perseguendo il fine indicato dalla norma di legge (art. 122 c.p.a.), ossia la valutazione dell’interesse pubblico del caso concreto, che passa attraverso la migliore (recte: efficace e contestuale) conformazione possibile della misura di tutela delle ragioni del privato, così come fatte valere in giudizio, con le ragioni d’interesse pubblico che, come detto, non si esauriscono nell’interesse dell’amministrazione procedente.
Peculiari poteri del giudice amministrativo che, si ribadisce, trovano una giustificazione, in via del tutto eccezionale, nei limiti in cui hanno espressa previsione nella disposizione di legge, che sembrerebbe riconoscere al giudice amministrativo una giurisdizione piena, quale giudice di merito[40], nei termini in cui sopra si è detto.
Pertanto, la complessa lettura sistematica della normativa in esame, sembrerebbe non consentire di escludere a priori un’interpretazione estensiva della stessa, sebbene questo comporti un ampliamento dei poteri cognitori e decisori dell’organo giudicante, senza per questo farli ricadere in una cognizione di opportunità amministrativa[41].
È anche vero, però, che tali poteri sono apprezzabili nei limiti in cui valorizzino le complesse finalità sottese alla normativa in esame, non solo pro-concorrenziali ma anche d’interesse generale, garantendo ad esempio una tutela più ampia al ricorrente stesso, considerando, nell’economia dell’azione amministrativa, per come dispiegata, anche l’interesse strumentale[42] alla riedizione della gara, inteso come effettiva possibilità per quest’ultimo di conseguire il bene della vita, bensì anche ampliando i poteri di regolazione della decorrenza degli effetti d’inefficacia del contratto a tutela dell’esecuzione di un servizio fondamentale, non solo per l’amministrazione, ma per la collettività.
Con riferimento al caso di specie, pertanto, il giudice amministrativo sembrerebbe aver rispettato la propria posizione di terzietà e imparzialità, garantendo comunque un equilibrio fra rispetto del principio dispositivo e, al contempo, del merito amministrativo, pur nell’esercizio di poteri speciali che la normativa in esame gli consente di esercitare, attraverso un’inedita regolazione degli effetti dell’inefficacia del contratto, decorrenti non rigorosamente ex nunc o ex tunc, ma temporalmente condizionati al riesercizio della funzione da parte della p.a. o comunque al rispetto di un termine dilatorio dal medesimo individuato presumibilmente in base a parametri di proporzionalità e ragionevolezza rispetto alla gravità del vizio e alla complessità della procedura di gara da ripetere.
Tuttavia, si è anche cercato di evidenziare che il rischio cui ci si espone nel riconoscere, o peggio nello sdoganare incondizionatamente tale modus procedendi nell’esercizio della funzione giurisdizionale, è quello di un possibile uso improprio – dunque patologico – di tali poteri, che potrebbe inverarsi o attraverso una tendenziale oggettivazione delle forme di tutela[43] o mediante l’espressione di giudizi equitativi o di mera opportunità politica, come tali non consentiti, costituendo, ciascuno di essi, derive improprie che trasformerebbero il processo amministrativo da dispositivo in dirigistico e il giudice in un amministratore del rapporto contrattuale.
Il problema di fondo che sembra emergere dal riconoscimento di siffatti poteri, specie se non ancorati a elementi normativi sufficientemente determinati (come sembra essere proprio il caso dell’art 122 c.p.a.) o piuttosto legati a clausole generali o a elementi che comportano un giudizio di tipo valoriale altamente opinabile, è quello di lasciare all’ampia discrezionalità del giudice l’individuazione della “regola del caso concreto” con evidente estensione degli spazi interpretativi prima, e decisori poi, con conseguente grave lesione della certezza del diritto[44], intesa in termini di prevedibilità della decisione in linea con le esigenze di uniformità e di uguaglianza sostanziale.
Alla luce di questo filone interpretativo, dunque, sarebbe forse opportuno tornare a chiedersi se Juger l’Administration c’est encore administrer per prenderne immediatamente le distanze, in quanto questa prospettiva di pensiero ci riporterebbe indietro nel tempo, minando quella cultura del processo amministrativo come luogo neutrale di tutela del singolo nei confronti del potere pubblico[45], che inevitabilmente passa dalla valorizzazione dei limiti che il principio di legalità[46] pone all’interprete.
Purtuttavia, ferme queste ultime considerazioni, si ritiene, con riferimento alla fattispecie di cui è causa, che tale modus procedendi non possa essere condannato a priori, trovando fondamento e giustificazione nella specialità dei poteri che il legislatore ha eccezionalmente attribuito al giudice amministrativo nella suddetta materia e, soprattutto, nella lettera stessa della legge[47], nella disposizione normativa per come formulata, la quale forse dovrebbe essere il vero oggetto della contestazione se si ritiene che violi il fondamentale principio della separazione dei poteri, ipotesi, tuttavia, come ricordato, proprio di recente esclusa dalla stessa Corte di Cassazione.
Concludendo, dovrebbe rimarcarsi l’eccezionalità della richiamata fattispecie normativa, se non ci si volesse spingere sino a evidenziarne l’anomalia sistematica della stessa o piuttosto la sua illegittimità costituzionale per via di un evidente difetto di formulazione della medesima, presentandosi largamente indeterminata specie lì dove rimette al giudice amministrativo la valutazione degli interessi di parte, non potendo, l’impervio cammino del riconoscimento di poteri di giurisdizione piena del giudice amministrativo, legittimare “deleghe in bianco” a favore dell’organo giudicante, così ergendolo a giudice-regolatore del caso concreto, promuovendo prassi poco ortodosse di occasionalismo giurisprudenziale[48].
***
[1] E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 4, 2010, 1 ss.
[2] Cass. Civ., sez. I, 17 novembre 2000, n. 14901; Id., 1 agosto 2002, n. 11427, ma anche Cons. Stato. Sez. VI, 1 febbraio 2002, n. 570. Per una ricostruzione delle tesi elaborate dalla dottrina prima del codice del processo amministrativo, cfr.: V. Cerulli Irelli, L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto, in Giorn. dir. amm., 2002, 1195; V. Lopilato, Vizi della procedura e patologie contrattuali, in Foro amm. Tar, 2006, 1521; M. Monteduro, Invalidità del contratto, in Repertorio degli appalti pubblici, L.R. Perfetti (a cura di), II, 2005, 829 ss; Id., Illegittimità del procedimento ad evidenza pubblica e nullità del contratto d’appalto ex art. 1418, comma 1, c.c.: una radicale «svolta» della giurisprudenza tra luci e ombre, in Foro amm. Tar, 2002, 2591; E. Sticchi Damiani, La caducazione del contratto per annullamento dell’aggiudicazione alla luce del codice degli appalti, in Foro amm. Tar, 2006, 3719 - 3728; A. Cianflone - G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, XII ed., II, Milano, Giuffrè, 2012; M. Pisano, Annullamento dell’aggiudicazione e regime d’invalidità del contratto di appalto, in www.filodiritto.it, 6 maggio 2008.
[3] Cons. Stato, sez. V, n. 1518/2003; Cons. Stato, sez. VI, n. 2332/2003. Sulla qualificazione della caducazione automatica come forma d’inefficacia sopravvenuta: Cons. stato, sez. V, n. 3465/2004. Per una critica alla suddetta tesi: F.G. Scoca, Annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto, in Foro amm. Tar, 2007, 283.
[4] F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2017.
[5] M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”: il nuovo processo super accelerato in materia di appalti e l’inefficacia flessibile del contratto nel d.lgs. n. 53 del 2010, in www.federalismi.it, 2010.
[6] M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”, cit.
[7] E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, cit.; M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”, cit.; F. Cintioli, In difesa del processo di parti. (Note a prima lettura del parere del Consiglio di Stato sul “nuovo processo amministrativo sui contratti pubblici), in www.giustamm.it, 2 marzo 2010.
[8] V. Lopilato - R Tuccillo, Effetti delle decisioni giurisdizionali sul contratto, in Trattato sui contratti pubblici, tomo V, Milano, 2019, 852 ss; V. Lopilato, Categorie contrattuali, contratti pubblici e nuovi rimedi previsti dal d.lgs. n. 53/2010 di attuazione della direttiva ricorsi, in Dir. proc. amm., 4/2010, 1326 ss; M. Fracanzani, Annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto nel nuovo processo amministrativo: dall’onere d’impugnazione alla pronuncia di inefficacia, in Diritto della regione, Regione Veneto, 2010, 37 - 48.
[9] F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, cit.
[10] Sulla distinzione fra inefficacia in senso lato e inefficacia in senso stretto nella dottrina civilistica, cfr.: S. Pugliatti, I fatti giuridici, revisione e aggiornamento di A. Falzea, con prefazione di N. Irti, Milano, Giuffrè, 1996. Per una ricostruzione dell’inefficacia, come categoria giuridica: V. Lopilato - R. Tuccillo, Effetti delle decisioni giurisdizionali sul contratto, in Trattato sui contratti pubblici, cit., 860 ss.
[11] E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, cit.
[12] M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”, cit.; E. Sticchi Damiani, Annullamento dell’aggiudicazione e inefficacia funzionale del contratto, in Dir. proc. amm., 1/2011, 240 ss.
[13] Cons. Stato, parere reso in commissione speciale, 1 febbraio 2010, n. 368. F. Saitta, Contratti pubblici e riparto di giurisdizione: prime riflessioni sul decreto di recepimento della direttiva n. 2007/66/CE, in www.giustiziaamministrativa.it.
[14] E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, cit.; il quale sottolinea la specialità dei poteri riconosciuti al G.A. in relazione alla dichiarazione di inefficacia del contratto quale conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione; nonché: F. Cintioli, In difesa del processo di parti, cit.
[15] Più in generale sulle recenti modifiche al rito appalti: M. Lipari, Il nuovo rito appalti nel decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, in l’amministrativista, 22 settembre 2020; Ibidem M.A. Sandulli, Rito speciale in materia di contratti pubblici, 4 giugno 2020.
[16] P. Carpentieri, Sorte del contratto, in www.giustizia-amministrativa.it
[17] M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”, cit.; E. Sticchi Damiani, Annullamento dell’aggiudicazione e inefficacia funzionale del contratto, cit., in particolare 263 ove l’A. parla di «potere sostanzialmente di merito limitato dal solo parametro della ragionevolezza»; ma altresì V. Cerulli Irelli, Osservazioni sulla bozza di decreto legislativo attuativo della delega di cui all’art. 44 L. n. 88/2009 (presentate alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati l’11 febbraio 2010), in Giustamm.it, 2/2010.
[18] R. Caponigro, La valutazione giurisdizionale del merito amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] F.G. Scoca, Il processo amministrativo ieri, oggi domani (brevi considerazioni), in Dir. proc. amm., 4/2020, 1097 ss.; Id., Considerazioni sul nuovo processo amministrativo, in ww.giustizia-amministrativa.it; Id., Annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto, in Foro amm. Tar, 2007, 797 ss.; E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo, cit.; A. Police, Le forme della giurisdizione, in Giustizia amministrativa, F.G. Scoca (a cura di), Torino, III° ed. 2009 e oggi VIII° ed., 2020, 126 ss; Id., Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo. Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001.
[20] Così M. Trimarchi, Full jurisdiction e limite dei poteri non ancora esercitati, in Persona e amministrazione, 2/2018; Id., L’inesauribilità del potere amministrativo, Napoli, 2018.
[21] L. R. Perfetti, La full jurisdiction come problema. Pienezza della tutela giurisdizionale e teorie del potere, del processo e della Costituzione, in Persona e amministrazione, 2/2018; Ibidem: A. Police, L’epifania della piena giurisdizione nella prima stagione della «giurisdizione propria» del Consiglio di Stato. Più in generale, sull’intensità del sindacato giurisdizionale del G.A. può vedersi l’intera sezione monografica del richiamato numero della rivista.
[22] In tal senso: E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, cit.;
[23] Si ricordano le note pronunce del Cons. Stato, Ad. Pl., nn. 4 e 5/2015, su cui cfr.: A. Travi, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel processo amministrativo, in Foro it., 5/2015, 286 ss.; E. Follieri, Due passi avanti e uno indietro nell’affermazione della giurisdizione soggettiva, in Giur. it. 2015, 2192 ss. Più in generale sui temi: Aa.V.v., Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa in ricordo di Leopoldo Mazzarolli, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2017; G. Tropea, La specialità del giudice amministrativo tra antiche criticità e persistenti insidie, in Dir. proc. amm., 2018, 889 ss.; Id., Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Dir. proc. amm, 2017, 1235; A. De Siano, Dall’atipicità delle azioni all’atipicità dei poteri del G.A. Torsioni del processo amministrativo in nome della giustizia, in Dir. proc. amm., 1/2020, 59 ss.
[24] Su questi temi, da ultimo: M.A. Sandulli, Riflessioni sull’istruttoria fra procedimento e processo, in Des 2/2020, 195 ss.
[25] Cass. Civ., sez. un., 22 marzo 2017, n. 7295.
[26] In particolare, possono citarsi: Tar Lazio, sez. II ter, 24 dicembre 2019, n. 14851; Cons. Stato, 24 luglio 2020, n. 3311.
[27] Cfr. Cons. Stato, n. 1032/2018; Cons. stato, n. 4369/2014; Cons. Stato, n. 4585/2015.
[28] Sulla distinzione: G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2020.
[29] Ad es. cfr. T.r.g.a., Sez. autonoma Bolzano, n. 43/2021.
[30] Sui temi, sia consentito rinviare a: R. Dagostino, Le corti nel diritto del rischio, Bari, 2020.
[31] A. Police, L’epifania della piena giurisdizione nella prima stagione della «giurisdizione propria» del Consiglio di Stato, cit.
[32] Stessa considerazione potrebbe farsi anche per la disciplina della c.d. class action pubblica. Sui temi: A. Police, Le forme della giurisdizione, cit.
[33] G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, 505 ss.
[34] A. Police, Le forme della giurisdizione, cit., 126 ss., 133 ss.
[35] R. Di Pace, L’annullamento tra tradizione e innovazione; la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 4/2012, 1273; C.E. Gallo, I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, in Dir. proc. amm., 2/2012, 280 ss.; Ibidem, A. Giusti, La “nuova” sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, 293 ss; A. Cassatella, Nuovi orientamenti in tema di efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo: un’innovazione necessaria? Nota a Cons. Stato, ad. pl., 22 dicembre 2017, n. 13, in Dir. proc. amm., 3/2018, 1134 ss. Sebbene oggi si riconosca un temperamento a tale regola, non rivelandosi assoluta, è anche vero che si tende a circoscrivere le ipotesi in cui la decorrenza retroattiva degli effetti della pronuncia di annullamento può non prodursi. Tali sono: a) factum infectum fieri nequit; b) quando è nell’interesse del ricorrente che l’annullamento non comporti la retrodatazione totale o parziale degli effetti; c) il giudice valuti che gli effetti ex tunc dell’annullamento si rivelino lesivi dell’interesse del ricorrente. Sul punto: E. Follieri, La tipologia delle azioni proponibili, in Giustizia amministrativa, F. G. Scoca (a cura di), Torino, 2020, 190 ss. e in particolare195.
[36] E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, cit.
[37] Commento all’art. 34 c.p.a., in Commentario breve al Codice del processo amministrativo, G. Falcon – F. Cortese – B. Marchetti (a cura di), Wolters Kluwers - Cedam, Vicenza, 2020.
[38] A. Giusti, Il contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo, Napoli, 2012, 214 ss.
[39]Commento all’art. 34 c.p.a., in Commentario breve al Codice del processo amministrativo, cit.
[40] Così, acutamente: A. Police, L’epifania della piena giurisdizione nella prima stagione della «giurisdizione propria» del Consiglio di Stato, 277 ss. in cui l’A. dimostra come «questo tipo di cognizione… non ha nulla a che vedere con le valutazioni di opportunità o di merito amministrativo; il giudice di merito, infatti, non opera scelte discrezionali, né effettua ponderazioni d’interessi che siano alternative .. da quelle effettuate dalla pubblica amministrazione», nonché facendo riferimento proprio all’art. 122 c.p.a., quale ipotesi eccezionale prevista dalla legge, di attualità della giurisdizione di merito nel senso sopra chiarito di piena giurisdizione, si giustifichi proprio «nei casi in cui eccezionalmente si rende necessaria una contestualità tra la tutela delle situazioni d’interesse legittimo dei privati e la tutela delle ragioni dell’interesse pubblico».
[41] A. Police, L’epifania della piena giurisdizione nella prima stagione della «giurisdizione propria» del Consiglio di Stato, cit., 272.
[42] Sulla rilevanza dell’interesse strumentale e sull’autonomia della tutela riconoscibile a tali situazioni giuridiche soggettive, purché non emulative, diverse dal bene vita finale cui il ricorrente aspira: Cons. Stato, Ad. pl., 11 maggio 2018, n. 6; bensì anche Corte Cost., (sent.) 13 dicembre 2019, n. 271.
[43] Tale effetto patologico sembra, invece, essersi concretizzato proprio in una pronuncia di poco antecedente, emessa dallo stesso organo giudicante (Tar Lazio, sez. II ter, 24 dicembre 2019, n. 14851), in cui il G.A., sebbene abbia speso le medesime argomentazioni, sembra aver piegato la logica della funzionalizzazione della dichiarazione di inefficacia del contratto a ragioni di tutela meramente oggettive, mosse dalla evidente finalità di ripristinare la legalità violata, scavalcando il principio della domanda e della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, ex art. 112 c.p.c.. Sul tema, cfr.: M. Condorelli, Rinnovazione della gara e inefficacia “condizionata” del contratto di appalto, in Giorn. dir. amm., 3/2020, 399 ss.
[44] Aa.Vv., Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, F. Francario – M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018; G. Tropea, (In)certezza del diritto e Stato giurisdizionale: il caso dell’abuso del diritto e del processo (riflessioni a margine di V. Omaggio, Saggio sullo Stato costituzionale, Torino 2015), in Dir. e proc amm., 2017, 3, 1063-1118; ID., Diritto alla sicurezza giuridica nel dialogo “interno” ed “esterno” tra Corti, in Dir. proc. amm., 2018, 4, 1244 ss.; M.A Sandulli., Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 3, 2018, 45 ss.
[45] A Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2018.
[46] M. A. Sandulli, Principi e regole dell’azione amministrativa: riflessioni sul rapporto fra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, al sito www.federalismi.it, 6 dicembre 2017
[47] In particolare si allude all’art. 122 c.p.a. nella parte in cui prescrive al G.A. di «tenere conto, in particolare, degli interessi delle parti».
[48] M. Betzu, Diritto giurisprudenziale versus occasionalismo giurisprudenziale, in Riv. dir. publ., 1/2017, 41 ss.; M. Luciani, Funzione e responsabilità della giurisdizione. Una vicenda italiana (e non solo), in Giur. Cost., 2012, 3824 ss.
La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione (nota a Cons. St., ord. 18 marzo 2021, n. 2327)
di Riccardo Pappalardo
Sommario: Premessa. Parte prima 1. Il dialogo come collegamento cosmonautico tra diritto interno e diritto europeo - 2. L’ordinanza Cons. St., Sez. VI, 18 marzo 2021, n. 2327 - 3. I quesiti sottoposti alla Corte di Giustizia e la rilevanza delle questioni; Parte seconda - 4. C’è un giudice a Lussemburgo: il ruolo della Corte di Giustizia dell’UE - 5. Il rinvio pregiudiziale alla CGUE come strumento di verifica dei rapporti tra le giurisdizioni interne; 6. Il principio di autonomia procedurale e i suoi limiti - 7. I motivi inerenti alla giurisdizione al centro del dibattito - 8. Il ruolo riformatore del giudice nel dialogo con la Corte costituzionale e con la Corte europea - 9. L’ordinanza Sez. Un.,18 settembre 2020, n. 19598 - Parte terza - 10. Il compito della Corte di Giustizia: giudice d’interpretazione o d’impugnazione? - 11. Conclusioni (che auspicano una conclusione).
PREMESSA
L’ordinanza Cons. St., 18 marzo 2021, n. 2327 si inserisce, aggiungendovi un importante tassello, nel dibattito sui rapporti tra giudice nazionale e giudice europeo e sui rimedi esperibili contro le sentenze del giudice amministrativo di ultima istanza in contrasto con le decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea: dibattito di cui questa Rivista ha dato ampiamente conto, pubblicando diversi contributi sulla nota ordinanza n. 19598/2020 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (su cui v. infra).
PARTE PRIMA
1. IL DIALOGO COME COLLEGAMENTO COSMONAUTICO TRA DIRITTO INTERNO E DIRITTO EUROPEO
Nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo[1] Galileo Galilei opera una decisa confutazione del sistema geocentrico di stampo aristotelico-tolemaico per abbracciare una visione del cosmo di tipo copernicano. Per spiegare le sue teorie, tanto complesse quanto rivoluzionarie, e persuadere il lettore di questo nuovo modo di leggere la realtà, lo avverte di aver scelto il dialogo come forma di elaborazione e trasmissione del sapere.
Come suggerisce la sua etimologia[2], del resto, la forma dialogica, attraverso una serrata e continua interlocuzione, consente di scandagliare le varie posizioni, spesso contrapposte, per giungere auspicabilmente a un punto di sintesi finale.[3]
Il nostro ordinamento giuridico nell’ultimo ventennio ha assistito ad una vera e propria rivoluzione e il Sole attorno a cui ruotano gli altri pianeti (o, fuor di metafora, gli Stati membri) è con tutta evidenza l’ordinamento europeo.
Sarebbe infatti un’imperdonabile ingenuità ritenere che nell’epoca in cui viviamo la dimensione del giuridico si esaurisca all’interno dei confini nazionali e che non si stia assistendo, in un fertile spazio d’incontro, ad una rapidissima costruzione di un autentico diritto comune.[4]
Non è questa la sede per esaminare i significativi mutamenti che l’ordinamento dell’Unione Europea ha provocato e tuttora provoca nei singoli ordinamenti nazionali, ma quel che è certo è che tale sistema, giorno dopo giorno, si completa ed arricchisce per mezzo della fattiva interlocuzione tra giudici: nazionali ed europeo.
Oggi il dialogo giuridico è necessariamente tra i due massimi sistemi, ossia ordinamento interno ed europeo, ed è sicuramente agevolato da quello tra Corti europee e nazionali, all’insegna di una sempre maggiore cooperazione.[5] Ciò ha reso più frequenti le loro occasioni di confronto e ha portato proprio le magistrature superiori nazionali a ricorrere sempre più spesso alla CGUE[6], tanto da avventurarsi in una vera e propria “corsa al dialogo”, in parte dovuta all’obbligo per i giudici di ultima istanza di effettuare il rinvio pregiudiziale (v. art. 267, par. 3, TFUE, salvo alcune specifiche eventualità[7]), in parte dovuta all’auspicio che, in una rinnovata sistemazione delle fonti, l’autorevolezza di un plesso giurisdizionale “terzo” consenta di risolvere alcune questioni interne ancora insolute.[8]
2.- L’ORDINANZA CONS. STATO, SEZ. VI, 18 MARZO 2021, N. 2327
L’ordinanza in commento è tra le più emblematiche rappresentazioni di questo fenomeno.
La fattispecie oggetto dell’ordinanza riguarda, ancora una volta, l’annoso caso Avastin-Lucentis.[9]
Il fatto può sintetizzarsi così: l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dopo aver accertato un’intesa restrittiva della concorrenza conclusa in violazione dell’art. 101 TFUE tra alcune società operanti nel settore farmaceutico, vietava la prosecuzione delle condotte contestate e irrogava le conseguenti sanzioni amministrative pecuniarie.
Segnatamente, l’intesa avrebbe avuto l’obiettivo di ridurre la domanda, e quindi le quantità vendute, di un farmaco (Avastin) a favore di un altro più costoso (Lucentis) attraverso la diffusione di notizie tese a distorcere la percezione dei rischi dell’uso off label in ambito oftalmico del primo.
Avverso tale provvedimento le case farmaceutiche ricorrevano dinnanzi al giudice amministrativo il quale, dopo aver disposto la riunione dei ricorsi, li rigettava nel merito.[10]
Nel giudizio di appello il Consiglio di Stato sottoponeva alcune questioni pregiudiziali interpretative alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[11], e, dopo la risposta da parte di quest’ultima[12], respingeva gli appelli, confermando così la sentenza di primo grado e, per l’effetto, il provvedimento impugnato.[13]
Il caso torna sub iudice in quanto le originarie ricorrenti hanno chiesto la revocazione della sentenza di appello deducendo, sotto plurimi aspetti, un errore di fatto revocatorio ex artt. 106 c.p.a. e 395, comma 1, n. 4, c.p.c.. Tali profili però qui non interessano, essendo stati risolti dal Consiglio di Stato con sentenza non definitiva (che ha dichiarato l’inammissibilità dei motivi di revocazione dedotti).
Ciò che rileva, invece, è la circostanza che le parti - deducendo anche la violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia nel precedente giudizio[14] - hanno chiesto al Consiglio di Stato sia di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 395 c.p.c. nella parte in cui non prevede un’ipotesi di revocazione per il caso in cui la sentenza sia in contrasto con il diritto eurounitario, sia di sottoporre alla Corte di Giustizia, tramite rinvio pregiudiziale, la questione della compatibilità del nostro sistema processuale rispetto al diritto UE nella parte in cui non prevede un’ulteriore ipotesi di revocazione per il caso di violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla CGUE in sede di rinvio pregiudiziale, non consentendo così di prevenire la formazione di un giudicato contrastante con il diritto eurounitario.
Quest’ultima è la strada intrapresa dal Consiglio di Stato.
I giudici di Palazzo Spada, infatti - dopo aver richiamato il quadro normativo di riferimento (nazionale ed europeo), nonché l’interpretazione dell’art. 111, comma 8, Cost. fornita dalla Corte costituzionale -, evidenziano che nel nostro ordinamento non sussiste uno strumento atto a verificare e garantire che una sentenza emessa da un organo giurisdizionale di ultimo grado non si ponga in contrasto con il diritto eurounitario e, nello specifico, con i principi enunciati dalla Corte di Giustizia.
Quanto appena affermato deve necessariamente porsi in relazione con la giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia sul parallelismo tra principio di autonomia procedurale e intangibilità del giudicato.
È stato infatti più volte ribadito dalla Corte che il diritto dell’Unione non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto.[15]
Il principio dell’intangibilità della res iudicata (che, notoriamente, facit de albo nigrum) è infatti riconosciuto come centrale sia nell’ordinamento giuridico eurounitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali.[16]
Al fine di garantire la certezza del diritto, la stabilità dei rapporti giuridici nonché una buona amministrazione della giustizia, tale principio postula necessariamente che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione.[17]
Proprio muovendo da tali considerazioni il Consiglio di Stato valorizza la circostanza che nel giudizio sottoposto al suo esame il giudicato non si sia ancora formato poiché non sono ancora decorsi i termini di impugnazione stabiliti dall’art. 92 c.p.a..
I tre quesiti interpretativi, difatti, vengono dichiaratamente proposti al fine di “scongiurare la formazione del giudicato, con il conseguente consolidamento della supposta violazione del diritto comunitario”.
Per non incorrere nel rischio che si consolidi una violazione del diritto eurounitario, ad avviso del Consiglio di Stato appare perciò preferibile incidere sulla decisione prima che la stessa passi in giudicato, piuttosto che ricorrere al rimedio successivo del risarcimento del danno.
3. I QUESITI SOTTOPOSTI ALLA CORTE DI GIUSTIZIA E LA RILEVANZA DELLE QUESTIONI
Poste queste premesse, con il primo quesito il Consiglio di Stato chiede alla Corte di Giustizia se il giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, in un giudizio in cui la domanda della parte sia direttamene rivolta a far valere la violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio al fine di ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, possa verificare la corretta applicazione nel caso concreto dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio, oppure se tale valutazione spetti alla Corte di Giustizia.
Con il secondo quesito il Consiglio di Stato chiede alla Corte se nella fattispecie concreta la sentenza impugnata per revocazione abbia violato i principi espressi a suo tempo dalla Corte di Giustizia nella sentenza emanata a seguito del primo rinvio pregiudiziale.
Infine, con il terzo quesito interpretativo si chiede al giudice europeo se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 del TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ostino ad un sistema come quello concernente gli articoli 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui non consente di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, ed in particolare con i principi di diritto affermati da quest’ultima in sede di rinvio pregiudiziale.
Chiarito l’intendimento del Consiglio di Stato, ci si deve tuttavia interrogare sulla rilevanza delle questioni interpretative rimesse alla Corte di Giustizia, nonché sull’opportunità del rinvio.
Com’è noto la questione oggetto del rinvio deve essere rilevante ai fini del decidere. In altre parole la risoluzione del dubbio prospettato deve essere decisiva nella soluzione del caso sub iudice.[18]
Tale precisazione non è da trascurare, specie nel caso al nostro esame.
Il Consiglio di Stato, infatti, se è pur vero che da un lato interpella il giudice europeo - così come suggerito dalle parti -, è però altresì vero che prende subito posizione sulla fondatezza dei sospetti avanzati.
Nell’ordinanza, infatti, si afferma expressis verbis che il Collegio dubita che le violazioni del diritto UE prospettate dalle parti effettivamente sussistano (“da cui l’ipotetica irrilevanza del quesito pregiudiziale proposto dalle società ricorrenti”), affermando altresì che la sentenza impugnata ha ben recepito il dictum della Corte di Giustizia.
Al più, continua l’ordinanza, potrebbe trattarsi di error in iudicando non relativo allo scorretto recepimento della regola di giudizio o dei principi giuridici applicabili in astratto (non essendo stato affermato dalla sentenza revocanda un principio di diritto contrario con gli stessi), bensì riferibile all’applicazione concreta dei principi espressi dalla Corte di Giustizia, a seguito dell’erronea valutazione e interpretazione dei fatti di causa e del materiale probatorio.
Quest’ultima attività però, secondo il Consiglio di Stato - essendo inerente all’esame della fattispecie concreta e non all’interpretazione della norma - è attività tipicamente demandata al giudice nazionale e, quand’anche erronea, non sarebbe idonea a dar luogo ad un orientamento giuridico contrastante con quanto affermato dalla Corte di Giustizia.
Una conferma di tale assunto la si troverebbe nella recente sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 2018 in cui è stato precisato che “nella fisiologica dinamica dei rapporti fra il Giudice della nomofilachia e quello del giudizio a quo, a seguito dell’enunciazione del principio di diritto da parte del primo, spetterà a quest’ultimo l’attività di contestualizzazione della regula iuris in relazione alle peculiarità del caso concreto, dovendosi in via di principio escludere forme di sostanziale ibridazione fra l’enunciazione di un principio e la definizione di una vicenda puntuale”.[19] Il principio, riferito al rapporto tra giudici nazionali, secondo il Consiglio di Stato sarebbe replicabile anche nella prospettiva dei rapporti tra giudice nazionale e Corte di Giustizia.
Sebbene dunque sia lo stesso giudice remittente a dubitare della rilevanza delle questioni[20], il Collegio si interroga comunque se a sindacare la sussistenza di una violazione del diritto dell’Unione Europea debba essere il giudice nazionale o la Corte di Giustizia, quale unica istituzione competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale sulla validità e l’interpretazione del diritto dell’UE (nel cui novero rientrerebbero anche le pronunce della stessa Corte di Giustizia).
Un approfondimento di tali questioni richiede però preliminarmente che si svolga qualche breve riflessione sul ruolo che la Corte di Giustizia occupa nell’ordinamento eurounitario, nonché sul rinvio pregiudiziale, quale istituto centrale nel dialogo tra le Corti.
PARTE SECONDA
4. C’È UN GIUDICE A LUSSEMBURGO: IL RUOLO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UE
Com’è noto, nel sistema giuridico europeo, la Corte di Giustizia è l’Istituzione titolata ad assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati al fine di garantirne l’uniforme applicazione da parte di tutti gli Stati membri, i quali, dal canto loro, stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione.[21]
Il suo ruolo è davvero un unicum nel panorama delle organizzazioni internazionali: essa, in particolare, oltre a ulteriori specifiche funzioni previste dai Trattati, ha il precipuo compito di pronunciarsi, in via principale sui ricorsi presentati da uno Stato membro, da un’Istituzione o da una persona fisica o giuridica, nonché, in via pregiudiziale, su richiesta delle giurisdizioni nazionali, sull’interpretazione del diritto dell'Unione o sulla validità degli atti adottati dalle Istituzioni.[22]
Nei ricorsi diretti la Corte assume, mutatis mutandis, le vesti di giudice costituzionale e di giudice di ultima istanza, ma è in sede di rinvio pregiudiziale che può scorgersi la enorme potenzialità della funzione nomofilattica della Corte.[23
Come anche riconosciuto dalla Corte di Giustizia, le sue decisioni sono vincolanti per il giudice nazionale[24], il quale, ove non osservasse il principio di diritto enunciato dalla Corte, esporrebbe lo Stato membro all’apertura di una procedura di infrazione e a un ricorso per inadempimento a norma dell’art. 258 TFUE.[25]
Nel risolvere la questione al suo esame la Corte di Giustizia realizza una cooperazione virtuosa con i giudici nazionali, che, a loro volta, avendola investita della questione, diventano essi stessi sentinelle del diritto dell’Unione.[26]
La scelta se effettuare o meno il rinvio spetta infatti soltanto ai giudici nazionali che sono investiti della controversia. Essi devono assumersi la responsabilità della futura pronuncia e valutare, in riferimento alle particolarità di ciascuna causa, tanto la necessità di un rinvio pregiudiziale per poter emettere la loro sentenza, quanto la rilevanza delle questioni che essi sottopongono alla Corte.[27]
Tale circuito, per molti versi virtuoso, può tuttavia produrre delle notevoli distorsioni.
Come evidenziato da autorevole dottrina, lo spettro della responsabilità dello Stato-giudice per violazione del diritto UE può comportare alcune forme di abuso della richiesta di rinvio pregiudiziale ad opera delle parti, nonché un eccesso di scrupolo da parte dei giudici di ultima istanza, i quali di fronte alla minaccia della responsabilità potrebbero non trovare più adeguata rassicurazione nell’applicazione della teoria dell’acte clair introdotta a partire dalla sentenza Cilfit.[28]
5. IL RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA CGUE COME STRUMENTO DI VERIFICA DEI RAPPORTI TRA LE GIURISDIZIONI INTERNE
Ma, come già si è avuto modo di accennare, vi è anche un’altra tendenza al rinvio pregiudiziale, più nebulosa, che negli ultimi mesi ha visto protagonisti la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato, che hanno deciso di effettuare due rinvii pregiudiziali interpretativi ex art. 267 TFUE per verificare la compatibilità del nostro sistema processuale rispetto al diritto eurounitario nei casi in cui non siano rinvenibili rimedi interni - diversi da quello risarcitorio - per far fronte all’inosservanza delle sentenze della CGUE.[29]
In realtà tale corsa-rincorsa al rinvio alla CGUE deve necessariamente essere letta insieme ad un altro fenomeno, di segno opposto al dialogo, che ultimamente ha coinvolto Corte di Cassazione, Corte costituzionale e Consiglio di Stato, ossia quella che è stata definita la “guerra tra Corti”[30]sull’interpretazione dell’art. 111, comma 8, Cost. relativo al ricorso in cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per “motivi inerenti alla giurisdizione”.[31]
Il tema, che necessiterebbe un’autonoma trattazione[32], sarà qui affrontato limitatamente ad un suo specifico aspetto, ossia la tenuta dell’attuale assetto dei rapporti tra giurisdizioni di fronte all’applicazione del diritto dell’Unione.
6. IL PRINCIPIO DI AUTONOMIA PROCEDURALE E I SUOI LIMITI
Per affrontare più nel dettaglio quanto ora accennato, giova fare una rapida digressione sui limiti del principio di autonomia procedurale degli Stati membri.
Con riferimento al diritto processuale, a partire dal caso Rewe del 1976[33], la Corte di Giustizia, in mancanza di una specifica disciplina comunitaria volta ad armonizzare il diritto processuale nazionale, ha ripetutamente riconosciuto tale principio, in virtù del quale spetta ai singoli Stati membri il compito di predisporre gli strumenti processuali più idonei a garantire l’attuazione del diritto europeo nei settori di applicazione.[34]
Questa competenza procedurale degli Stati membri viene dunque intesa dal giudice europeo come autonomia nella previsione dei rimedi finalizzati a garantire l’effettività del diritto UE.[35]
Tale autonomia, tuttavia, non è considerata dalla Corte senza limiti, ma viene riconosciuta agli Stati a condizione che gli strumenti interni approntati non siano meno favorevoli rispetto a quelli relativi a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività).[36]
Come giustamente rilevato dalla dottrina più autorevole, la Corte si è riservata una sorta di droit de regard sugli ordinamenti nazionali, per verificare non tanto se essi garantiscano un livello minimo di protezione, bensì se le condizioni procedurali e sostanziali previste siano o meno conformi a parametri di adeguatezza ed effettività, che la Corte stessa desume dal corpus del diritto UE o dai principi generali.[37]
Si delinea così quello che è stato definito uno standard europeo di tutela giudiziaria, a cui i singoli ordinamenti devono cedere il passo, rafforzando le modalità di protezione, “anche a costo di modificare o introdurre norme e procedure ad hoc, nell’ordinamento giuridico nazionale”.[38]
7.- I MOTIVI INERENTI ALLA GIURISDIZIONE AL CENTRO DEL DIBATTITO
Delineata la cornice di riferimento, è il caso adesso di comprendere la ragione per cui i recenti movimenti tellurici tra le Corti abbiano come epicentro proprio l’applicazione del diritto sovranazionale.
Il tradizionale orientamento della Suprema Corte ha sempre escluso che la violazione del diritto dell’Unione Europea comporti un indebito straripamento del giudice amministrativo dalle sue attribuzioni. Si è osservato, infatti, che il primato del diritto eurounitario non è in grado di sovvertire gli assetti procedimentali degli ordinamenti nazionali.[39]
La querelle giurisprudenziale è infatti piuttosto recente. Essa ha inizio nel 2015 con la sentenza Cogeam (dal nome dell’impresa ricorrente), quando, pur senza smentire espressamente il consolidato indirizzo su cui si erano assestate e valorizzando le peculiarità del caso al loro esame, le Sezioni Unite, in considerazione della nozione elastica di giurisdizione, hanno affermato che rientra tra i motivi inerenti alla giurisdizione il caso, estremo, di radicale stravolgimento delle norme europee di riferimento, per come interpretate dalla Corte di Giustizia.[40]
In tale pronuncia si afferma che “la cassazione della sentenza impugnata risulta, allora, indispensabile per impedire, anche nell’interesse pubblico, che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia, con grave nocumento per l’ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l’attività di tutti gli organi degli Stati membri deve conformarsi alla normativa comunitaria”.[41]
Tale orientamento è stato poi rafforzato dalla la celebre sentenza Mantovani (dal nome dell’impresa ricorrente) con cui le Sezioni Unite hanno cassato per diniego di giurisdizione una sentenza del Consiglio di Stato che aveva fatto applicazione di una regola processuale interna che, per come interpretata, si poneva in frontale contrasto con il diritto eurounitario alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia.[42]
Sulla base della specifica collocazione istituzionale della Corte di Giustizia nell’architettura europea, nonché in forza del principio di prevalenza del diritto dell’Unione europea su quello nazionale, le Sezioni Unite hanno affermato infatti che, nell’ambito di intervento del diritto eurounitario, costituiscono motivi di giurisdizione le ipotesi di scostamento dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in tema di accesso alla tutela giurisdizionale, giacché in esse l’errore di interpretazione determina un radicale stravolgimento delle norme di rito ridondante in manifesto diniego di giurisdizione.[43]
Seppur tale approdo abbia introdotto un principio di sicura portata innovativa nei rapporti tra Cassazione e Consiglio di Stato, quanto appena affermato dalla Suprema Corte non ebbe in realtà il tempo di sedimentarsi a sufficienza a causa di una decisa battuta di arresto ad opera della Corte costituzionale.
Le Sezioni Unite, infatti, sulla linea tracciata dalle pronunce sopra ricordate, domandarono alla Corte Costituzionale se la loro recente interpretazione “evolutiva” e “dinamica” del concetto di giurisdizione consentisse altresì di assimilare la violazione del diritto convenzionale a quella del diritto eurounitario al fine di legittimare la ricorribilità in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione in caso di sentenze del Consiglio di Stato contrastanti con le decisioni della Corte EDU.
Il Giudice delle leggi, però, nella ben nota sentenza n. 6 del 2018[44], ha posto un freno a tale accelerazione interpretativa, segnando una tappa fondamentale nel dibattito sui motivi inerenti alla giurisdizione e, attraverso ciò, sui rimedi esperibili in caso di violazione del diritto sovranazionale da parte del Consiglio di Stato.[45]
La risposta della Corte costituzionale ai quesiti sottoposti è stata decisamente opposta rispetto a quanto sostenuto in precedenza dalle Sezioni Unite, non lasciando margini di incertezza: l’interpretazione evolutiva finora avanzata e volta a far rientrare tra i motivi di ricorso in cassazione anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando, non soltanto “mette in discussione la scelta di fondo dei Costituenti dell’assetto pluralistico delle giurisdizioni”, ma non può neppure qualificarsi come “evolutiva”, proprio perché “non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale”.
Secondo Giudice delle leggi, peraltro - ed è questo il punto che qui più interessa - il sindacato della Corte di Cassazione “nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU”, perché ciò costituisce pur sempre un motivo di illegittimità, seppur particolarmente qualificata.
Chiarito ciò, la Corte costituzionale si mostra ben consapevole della sussistenza di un problema nel nostro sistema processuale, specie nel caso di sopravvenienza di una decisione delle Corti sovranazionali, ma esorta a trovare una soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con l’introduzione ad opera del Legislatore di un nuovo caso di revocazione di cui all’art. 395 c.p.c., così come già auspicato nella sentenza n. 123 del 2017[46].
In quest’ultima pronuncia la Corte - investita della questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - ha posto all’attenzione del Legislatore l’invito della Corte EDU a introdurre strumenti processuali interni che consentano la riapertura del processo non penale, precisando infatti che, diversamente da quanto si impone nel processo penale[47], dalla lettura della giurisprudenza della Corte EDU, per gli Stati che non prevedono tale meccanismo, non emerge alcun obbligo di riaprire i processi civili o amministrativi, essendo rimessa alla loro discrezionalità la scelta del miglior rimedio per conformarsi alle pronunce della Corte di Strasburgo.[48]
8. IL RUOLO RIFORMATORE DEL GIUDICE NEL DIALOGO CON LA CORTE COSTITUZIONALE E CON LA CORTE EUROPEA
Le pronunce sopra ricordate non soltanto hanno rappresentato la cassa di riso
nanza di un dibattito già avviato da tempo, ma sono state anche un autentico tonico per una prolifica e vivacissima riflessione giuridica, che tutt’oggi perdura. Esse dunque non vanno lette isolatamente, ma in sinergia tra loro, in un contesto in cui l’una costituisce il terreno di coltura dell’altra.
Ormai, peraltro, è del tutto evidente che sia in corso un profondo ripensamento del nostro intero assetto processuale, a partire dal concetto stesso di potere giurisdizionale quale prerogativa dello Stato che promana dallo Stato. In tale epoca post-moderna- in cui il rigorismo delle fonti del diritto, per come delineato all’art. 1 delle Disposizioni preliminari al codice civile, appare a molti superato -l’opera del giudice sembra decisiva. [49]
In un contesto improntato al pluralismo giuridico il giudice non è più (solo) iudex sub lege, bensì rappresenta “il più autentico garante della crescita di un ordinamento giuridico, della sua perenne storicità e, pertanto, della sua salutare coerenza al divenire sociale”.[50]
In una combinazione di regimi giuridici diversi il ruolo del giudice muta. Un panorama normativo multilivello gli impone infatti di rendersi interprete di rinnovate esigenze attribuendogli nuovi compiti e responsabilità. Ciò inevitabilmente richiede un costante dialogo con altri giudici e Istituzioni.
L’esperienza insegna che il dialogo può svilupparsi sia in senso orizzontale, tra più giudici di un medesimo ordinamento giuridico (in tal caso l’interlocutore privilegiato, dato il suo ruolo, è la Corte costituzionale), sia in senso verticale (tra giudici nazionali e giudici sovranazionali, primi tra tutti Corte di Giustizia e Corte EDU).
Per tornare al nostro caso, dopo la sentenza n. 6 del 2018, si è registrato un pacifico recepimento da parte della Corte di Cassazione di quanto affermato dal Giudice costituzionale: le Sezioni Unite in plurime occasioni hanno infatti ritenuto recessivo l’orientamento di segno evolutivo dalle stesse avanzato con le sentenze Cogeam e Mantovani, riprendendo pertanto a negare che il loro intervento, in sede di controllo di giurisdizione, possa essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU e/o dall’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, trattandosi di motivi attinenti alla legittimità della decisione e, come tali, esulanti dalle questioni di giurisdizione.[51]
Com’è noto, però, il dibattito è stato riaperto, in termini peraltro assai più accesi, da una recente riconsiderazione critica da parte delle Sezioni Unite dei rimedi che l’ordinamento appresta per far fronte alle violazioni del diritto eurounitario da parte del giudice amministrativo.
La strada scelta dalle Sezioni Unite è ancora una volta quella del dialogo, ma stavolta si è cambiato interlocutore. Come si è già detto supra, vi è infatti una corsa, sempre maggiore, al dialogo con la Corte di Giustizia su questioni di diritto processuale interno.
Il diritto europeo, in altre parole, assume sempre più spesso il ruolo di metro di giudizio attraverso cui misurare l’effettività della tutela giurisdizionale garantita dal Legislatore nazionale.
Di tutto questo è urgente tener conto perché mai come oggi si è avvertito il bisogno di spostare in ambito sovranazionale la risoluzione di questioni pressoché interne, richiedendo al giudice europeo un compito che forse neppure gli è proprio, e che egli stesso in verità ha avuto cura di non assumere avendo ripetutamente riconosciuto il principio di autonomia processuale degli Stati membri.
9. L’ORDINANZA SEZ. UN.,18 SETTEMBRE 2020, N. 19598
Con l’ormai notissima ordinanza 18 settembre 2020 n. 19598 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione - tornando sull’annoso tema dei motivi inerenti alla giurisdizione di cui all’art. 111, comma 8, Cost. - hanno rimesso alla Corte di Giustizia dell’UE tre questioni pregiudiziali.[52]
Il caso all’attenzione della Corte di Cassazione interessava quella fecondissima fucina che è il contenzioso sugli appalti pubblici, che l’esperienza ha insegnato essere un prodigioso banco di prova del diritto nazionale e di quello eurounitario.
Anche in questo caso la decisione del Consiglio di Stato impugnata veniva contestata in quanto ritenuta in contrasto con i principi affermati dalla Corte di Giustizia, in particolare nelle sentenze Lombardi[53], Puligienica[54] e Fastweb[55].
Non è certamente questa la sede per scandagliare nel dettaglio la ricchissima intelaiatura di argomentazioni poste dall’ordinanza in questione[56]; ci soffermeremo pertanto su un punto specifico, ossia l’esigenza, manifestata dalle Sezioni Unite, di evitare la formazione di un giudicato amministrativo gravemente contrastante con il diritto eurounitario.
A tal proposito la Suprema Corte ravvisa nel ricorso per cassazione ex art. 111, comma 8, Cost. lo strumento più idoneo a scongiurare siffatto esito. Tale mezzo impugnatorio viene infatti descritto come “l’estremo rimedio apprestato dall’ordinamento nazionale per evitare la formazione di qualunque giudicato contrario al diritto dell’Unione”.
Le Sezioni Unite ampliano la riflessione che si imporrebbe nel caso concreto al loro esame per soffermarsi su alcuni profili centrali del nostro ordinamento processuale, ossia i rapporti tra le diverse giurisdizioni interne laddove venga in rilievo l’applicazione del diritto dell’Unione Europea.
La Corte di Cassazione, infatti, ben conscia dell’orientamento della Corte costituzionale di cui alla sentenza n. 6 del 2018, ne sospetta l’incompatibilità con il diritto UE sulla base di molteplici argomentazioni.
Essa muove dalla considerazione che “il giudice nazionale che faccia applicazione di normative nazionali (sostanziali o processuali) o di interpretazioni elaborate in ambito nazionale che risultino incompatibili con disposizioni del diritto dell'Unione applicabili nella controversia, come interpretate dalla Corte di giustizia (…) esercita un potere giurisdizionale di cui è radicalmente privo, ravvisandosi un caso tipico di difetto assoluto di giurisdizione - per avere compiuto un’attività di diretta produzione normativa non consentita nemmeno al legislatore nazionale - censurabile per cassazione con motivo inerente alla giurisdizione, a prescindere dall’essere la sentenza della Corte di giustizia precedente o successiva alla sentenza amministrativa impugnata nel giudizio di cassazione”.
Questa tesi, se portata alle sue estreme conseguenze, a rigor di logica, dovrebbe condurre alla conclusione per cui qualsiasi giudice nazionale (ordinario o amministrativo che sia) è radicalmente privo del potere giurisdizionale quando applica norme nazionali che risultino (ex ante, ma forse anche ex post, dato il richiamo alle sopravvenute sentenze della CGUE) contrarie al diritto europeo.
Seguendo tale impostazione, tanto affascinante quanto parossistica, sembrerebbe pertanto che il giudice nazionale, non soltanto sia vincolato all’osservanza e all’applicazione del diritto dell’Unione Europea, ma, nei campi regolati da tale diritto, questo costituisca il presupposto della giurisdizione, la quale verrebbe meno nel momento in cui si effettuino interpretazioni della normativa interna contrastanti con esso.
Quanto testé tratteggiato si spiegherebbe, ad avviso della Suprema Corte, giacché, contrariamente a quanto avviene con la sentenza affetta da semplice violazione di legge nelle fattispecie regolate dal diritto nazionale - ove la erronea interpretazione o applicazione della legge è, tranne in casi eccezionali, pur sempre riferibile a un organo giurisdizionale che è emanazione della sovranità dello Stato -, “nelle controversie disciplinate dal diritto dell’Unione lo Stato ha rinunciato all’esercizio della sovranità, la quale è esercitata dall’Unione tramite i giudici nazionali, il cui potere giurisdizionale esiste esclusivamente in funzione dell’applicazione del diritto dell'Unione”.
Tale passaggio, che sembra far discendere dalla violazione del diritto eurounitario una lesione della sovranità europea, è stato oggetto di puntuali critiche da parte della dottrina, la quale si è anche interrogata sia sulle ragioni per cui debba gravare sulla Corte di Cassazione il compito di “garante naturale della sovranità europea”, sia sull’adeguatezza a tali fini dello strumento del ricorso ex art. 111, comma 8, Cost..[57]
La risposta che la Cassazione fornisce a tali interrogativi è lineare: scongiurare il consolidamento di una violazione del diritto eurounitario, prima che la decisione del Consiglio di Stato passi in giudicato.
Che tale problema esista, - specie in caso di sopravvenienza delle decisioni delle Corti sovranazionali -, è stato perfino attestato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018, la quale, come già si è avuto modo di accennare, affermando che la soluzione vada ricercata all’interno di ciascuna giurisdizione, ha esortato il Legislatore a introdurre un nuovo caso di revocazione nell’art. 395 c.p.c..
Due punti meritano però di essere sottolineati.
La Corte di Cassazione, registrando allo stato attuale l’insussistenza di un utile rimedio revocatorio per scongiurare le violazioni del diritto dell’Unione addebitabili agli organi giurisdizionali, giunge alla conclusione che il ricorso per cassazione costituisca l’unico possibile rimedio avverso le sentenze del Consiglio di Stato contrastanti con la giurisprudenza - antecedente o sopravvenuta - della Corte di Giustizia.
Ma vi è di più. Secondo le Sezioni Unite, quand’anche si introducesse un nuovo caso di revocazione per far fronte alle violazioni del diritto UE[58], tale rimedio, comunque, non sarebbe agevolmente praticabile per i limiti strutturali dell’istituto, specialmente laddove le sentenze delle Corti sovranazionali siano precedenti alla sentenza impugnata. Concludendo, esse dubitano anche che lo strumento revocatorio sia idoneo a paralizzare l’ammissibilità del ricorso per cassazione, non potendosi escludere che anche la sentenza emanata in sede di revocazione possa potenzialmente violare i limiti della giurisdizione.
PARTE TERZA
10.- IL COMPITO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA: GIUDICE D’INTERPRETAZIONE O D’IMPUGNAZIONE?
Come si è avuto modo di illustrare, la Corte di Giustizia è chiamata a svolgere un ruolo determinante che suscita vivo interesse tra gli studiosi poiché, trascendendo il caso specifico al suo esame, può ricucire uno strappo attualmente presente nel nostro ordinamento processuale.
È evidente infatti che il rinvio effettuato dall’ordinanza del Consiglio di Stato in commento è speculare a quello recentemente operato dalle Sezioni Unite: in entrambi i casi il giudice europeo, attraverso l’utilizzo di uno strumento tipico (i.e. il rinvio pregiudiziale), è chiamato a svolgere un compito atipico, tanto inusuale quanto delicato.
A questo proposito sorge una domanda: a seguito di un rinvio pregiudiziale interpretativo, la Corte di Giustizia può dismettere le vesti dell’interprete per assumere il compito di giudice dell’impugnazione?
Dal tenore dell’ordinanza di rinvio emerge che il Consiglio di Stato sia ben consapevole che, per giurisprudenza consolidata, la Corte di Giustizia non sia competente a decidere lo specifico caso da cui origina il rinvio: spetta unicamente al giudice nazionale esaminare e valutare i fatti del procedimento principale nonché determinare l’esatta portata delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative applicabili.[59]
Ciononostante, secondo il giudice amministrativo di ultima istanza, visto che il ricorso per revocazione proposto dalle ricorrenti, nella sua fase rescindente, si fonda soltanto sulla pretesa violazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia nel precedente giudizio, allora “anche le circostanze di fatto e i relativi elementi di prova, che in base alla giurisprudenza già citata dovrebbero essere di esclusiva valutazione del giudice nazionale, vengono a costituire – nella loro prospettata errata o mancata valutazione da parte del giudicante – gli specifici parametri alla stregua dei quali verificare la sussistenza o meno della dedotta violazione dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia”.
Siffatta affermazione appare tuttavia poco persuasiva, almeno per due ragioni.
Innanzitutto, se spettasse alla Corte di Giustizia verificare la corretta applicazione nel giudizio a quodei principi espressi in sede di rinvio pregiudiziale è ovvio che tale attività imporrebbe necessariamente un esame della fattispecie concreta (attività che la Corte tende ad escludere).
Ma, soprattutto, si snaturerebbe lo strumento del rinvio pregiudiziale interpretativo.
In realtà, in via di principio, il quadro normativo di riferimento astrattamente consentirebbe pure di adire una seconda volta la Corte.
Stando all’art. 104 del Regolamento di procedura della Corte di Giustizia, riguardante l’interpretazione delle pronunce della Corte, in caso di rinvio pregiudiziale spetta ai giudici nazionali valutare se essi abbiano ricevuto sufficienti chiarimenti mediante una pronuncia pregiudiziale, o se appaia necessario adire nuovamente la Corte.
Ma tale nuovo rinvio, se si guarda alla norma, dovrebbe riguardare la sufficienza dei chiarimenti e non la loro correttezza applicazione.
Se così non fosse, all’intervento della Corte di Giustizia “a monte”, sulla corretta interpretazione delle norme eurounitarie, si sommerebbe pertanto una sua intromissione “a valle” avente come obiettivo il controllo sull’operato dei giudici nazionali.
Si tratterebbe allora di un malcelato, e finora sconosciuto, strumento impugnatorio, la cui non attivazione peraltro esporrebbe a responsabilità lo Stato membro, con tutte le conseguenze immaginabili in tema di dilatazione dei tempi processuali e di sovraccarico del ruolo della Corte.
Le suddette conclusioni appaiono smentite anche dalle Raccomandazioni relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale[60], in cui si afferma espressamente che “La domanda di pronuncia pregiudiziale deve riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione, e non l’interpretazione delle norme del diritto nazionale o questioni di fatto sollevate nell’ambito del procedimento principale”.
Se dunque appare difficile che la Corte accolga la prima questione (e, per l’effetto, la seconda), giova allora domandarsi quale strumento le parti avrebbero a disposizione a fronte di un erroneo recepimento nel caso concreto dei principi affermati dalla Corte di Giustizia da parte dei giudici di ultima istanza.
A tal fine occorre soffermarsi sul terzo quesito (il quale non è posto in subordine rispetto ai precedenti, e quindi autonomamente analizzabile), ossia se sia incompatibile con il diritto UE la mancata previsione di un’apposita ipotesi di revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, “e in particolare con i principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”.
Il quesito si presta a due possibili interpretazioni letterali, giacché il significato da attribuirsi alla locuzione “in particolare” potrebbe essere sia quello di ulteriore precisazione volta a delimitare il perimetro entro cui va letta la parte che precede (quindi come equivalente di “più specificamente”); sia quello di aggiunta tesa solamente a focalizzare l’attenzione (quindi come sinonimo di “soprattutto”, “prima di ogni altra cosa”). Quest’ultimo significato consentirebbe di ricomprendere nel quesito anche le ipotesi di contrasto di una sentenza del Consiglio di Stato con sentenze sopravvenute della Corte di Giustizia.
Tuttavia, attraverso un argomento teleologico, che tenga dunque conto della finalità che ha la rimessione alla Corte di Giustizia, deve preferirsi un’interpretazione che non trascenda dal caso concreto e che quindi sia ossequiosa del principio della rilevanza.
È evidente, pertanto, che deve essere preferito il primo dei due significati prospettati, ritenendo così il quesito circoscritto all’assenza di ipotesi di revocazione dirette a verificare la corretta applicazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale nella “medesima” controversia.
Se però il principio di rilevanza impone la formulazione di una domanda così circoscritta, ciò comunque non dovrebbe indurre a escludere che la Corte di Giustizia, nell’illustrare la sua risposta, possa comunque svolgere alcune argomentazioni sistematiche volte a chiarire in che rapporto il principio di autonomia procedurale si pone rispetto all’attuale sistema processuale italiano per il caso di decisioni del giudice amministrativo di ultima istanza, non ancora passate in giudicato, che violino il diritto europeo.
11. CONCLUSIONI (CHE AUSPICANO UNA CONCLUSIONE)
L’occasione è d’oro, poiché pendono dinnanzi alla Corte di Giustizia due rinvii - quello operato dalla Corte di Cassazione e quello effettuato dal Consiglio di Stato - nella sostanza convergenti, perché diretti a scongiurare il consolidamento di violazioni del diritto europeo che ben potrebbero essere corrette tramite rimedi interni (siano essi il ricorso in cassazione o un nuovo caso di revocazione), allo stato però inattivabili, vuoi per una solida e resistente interpretazione della norma costituzionale, vuoi per la mancanza di una disposizione legislativa al riguardo.
Semplificando: con il primo rinvio, la Corte di Cassazione chiede alla Corte di Giustizia se il ricorso per motivi di giurisdizione possa essere utilizzato per impugnare sentenze del Consiglio di Stato che seguano interpretazioni incompatibili con le sentenze della Corte di Giustizia nei settori disciplinati dal diritto UE; con il secondo, quello del Consiglio di Stato, invece si domanda alla Corte di Giustizia se un tale rimedio non possa essere invece la revocazione.
La Corte di Giustizia è dunque stata chiamata a dipanare un intricatissimo nodo problematico, forse non solo interpretativo, che investe incisivamente l’assetto costituzionale delle giurisdizioni.
Essa, dunque, assume di fatto il ruolo di arbitro di una contesa che trascende le singole tematiche e concerne invece gangli ben più profondi del nostro ordinamento: il rapporto tra le giurisdizioni, e quindi il ruolo ordinamentale della Corte di Cassazione.
Ad avviso di chi scrive la Corte di Giustizia, pur senza abdicare al ruolo cui è chiamata, non potrà né dovrà scegliere essa stessa quale dei due rimedi processuali sia più adatto ad assicurare l’osservanza del diritto UE, compito questo inequivocabilmente spettante agli Stati membri.
Ciò, in verità, sarebbe astrattamente possibile ove - come paventato dalla Corte di Cassazione con dovizia di argomenti - risultasse con riferimento a uno specifico rimedio violato il principio di equivalenza
Nel ritenere violato il principio di equivalenza (specie nel caso in cui non si consenta il ricorso in cassazione per denunciare l’eccesso di potere del giudice amministrativo che travalichi la sfera di competenza del Legislatore europeo) ci si scontrerebbe però con la considerazione, prontamente avanzata in dottrina, secondo cui è la stessa giurisprudenza della Sezioni Unite a ritenere più teorica che effettiva l’ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale rispetto al Legislatore nazionale[61], avendo così “dequotato” il diniego di giustizia a mero errore interpretativo, “avvertendo poi l’esigenza di ricorrere al radicale stravolgimento delle regole UE per giustificarne la sindacabilità, così, in buona sostanza, teorizzandone il confinamento a tale ipotesi (così peraltro indebolendo, se non radicalmente svilendo, il richiamo all’equivalenza)”. [62]
Tra i limiti al principio di autonomia procedurale quello più pregnante potrebbe invece essere il principio di effettività, che si assumerebbe leso se il nostro ordinamento non offrisse un rimedio utile per far fronte all’inosservanza della giurisprudenza della Corte di Giustizia (anche sopravvenuta nell’intervallo temporale precedente al giudicato). Tale dubbio appare più consistente del primo, e sembra peraltro condiviso - seppur da diversi punti di osservazione - tanto dalla Suprema Corte quanto dal Consiglio di Stato.
Sicché, è proprio muovendo dall’esigenza di garantire il principio di effettività che la Corte di Giustizia - come peraltro già fatto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 - potrà prendere atto dell’esistenza di un vuoto di tutela incompatibile con l’ordinamento eurounitario, rimettendo però al singolo Stato membro la scelta dello strumento utile ad evitare, prima della formazione del giudicato, che si consolidino interpretazioni contrarie al diritto eurounitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia.
A tal punto, a seguito di una siffatta risposta, esaustiva ma rispettosa delle competenze statali in materia, la logica conseguenza per evitare di esporre lo Stato italiano ad una procedura di infrazione sarebbe quella di investire della questione nuovamente la Corte costituzionale, che valuterà se cambiare l’orientamento manifestato con la sentenza n. 6 del 2018 (consentendo così il ricorso per cassazione anche nei casi di violazione da parte del Consiglio di Stato delle sentenze della Corte di Giustizia) o se svilupparlo ulteriormente dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 395 c.p.c. nella parte in cui non consente di ricorrere al rimedio del ricorso per revocazione al fine di impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con le sentenze della Corte di Giustizia.
Se è pur vero che il giudice nazionale, per garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione, può disapplicare (rectius non applicare) le disposizioni nazionali contrastanti, senza dover necessariamente attendere un intervento del Legislatore o una declaratoria di incostituzionalità, nel nostro caso l’interlocuzione con la Corte costituzionale sarebbe certamente opportuna (forse dovrebbe essere indicata come strada dalla stessa Corte di Giustizia), ripristinando così virtuosamente il dialogo interno tra le nostre Corti.
Ma vi sono altre ragioni che inducono ad auspicare un intervento della Corte costituzionale.
In entrambi i casi prospettati, infatti, non si tratterebbe “semplicemente” di disapplicare una disposizione nazionale contrastante con il diritto UE.
In un caso si tratterebbe di disapplicare una disposizione costituzionale o, per meglio dire, l’interpretazione che ne fornisce la Corte costituzionale (che è l’interprete naturale del dettato costituzionale) senza però investirla della questione.
Nel secondo caso, ove si propendesse per lo strumento revocatorio, è pacifico che solamente la Corte costituzionale potrebbe introdurre una nuova ipotesi di revocazione. Diversamente, il giudice a quodovrebbe operare una sorta di disapplicazione additiva, senza peraltro che da essa possano scaturire effetti erga omnes.
In ambedue le ipotesi l’ordinamento non se ne gioverebbe.
***
[1] G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Firenze, 1632.
[2] L’origine del lemma è dato dall’unione di logos (cioè “discorso”) e dia (ossia “fra”): starebbe a significare pertanto “discorso tra” (individui).
[3] L’aspetto teleologico del dialogo, finalizzato ad un’intesa, è proprio connaturato nella stessa definizione della parola. Si v. a tal proposito www.garzantilinguistica.it che definisce il dialogo come “colloquio, comunicazione costante tra persone o tra gruppi che favorisce la comprensione reciproca e permette di eliminare o ridurre i conflitti”.
[4] Sul tema gli studi sono molti, per un’analisi del fenomeno da una prospettiva storica si rinvia in particolare a A. Padoa Schioppa, Il diritto comune in Europa: riflessioni sul declino e sulla rinascita di un modello, in Foro it.,1996, V, 14; Id., Storia del diritto in Europa. Dal Medioevo all’età contemporanea, Bologna, 2007; Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, 2003. Si v. anche L. Lacchè, Europa una et diversa. A proposito di ius commune europaeum e tradizioni costituzionali comuni, in Forum historiae iuris, 2003; P. G. Monateri, T. Giaro, A. Somma, Le radici comuni del diritto europeo, 2005.
[5] Sul dialogo tra le Corti e sugli apporti delle Corti nella dimensione europea v. M. Cartabia, «Taking Dialogue Seriously» The Renewed Need for a Judicial Dialogue at the Time of Constitutional Activism in the European Union, in www.jeanmonnetprogram.org, 2007; S. Cassese, La funzione costituzionale dei giudici non statali. Dallo spazio giuridico globale all’ordine giuridico globale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 3, 609 ss.; F. Fontanelli e G. Martinico, Alla ricerca della coerenza: le tecniche del « dialogo nascosto » fra i giudici nell’ordinamento costituzionale multlivello, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 2, 351 ss..; A. Sandulli, La Corte di giustizia europea e il dialogo competitivo tra le Corti, in Aa. Vv., Il diritto amministrativo oltre i confini, Milano, 2008..
Con specifico riferimento, invece, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, l’intensificarsi del dialogo è testimoniato dai Protocolli d’intesa tra la Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato siglati a Roma nel 2017 e seguiti da un Convegno dall’evocativo titolo “Il dialogo tra le Corti e l'attuazione del diritto convenzionale nell’ordinamento interno”. Gli atti del convegno sono rinvenibili in www. giustizia-amministrativa.it.
[6] Con particolare attenzione al tema del rinvio pregiudiziale v. M. P. Chiti, Il rinvio pregiudiziale e l’intreccio tra diritto processuale nazionale ed Europeo: come custodire i custodi dagli abusi del diritto di difesa?, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2012, 745 ss.; R. Conti, Il rinvio pregiudiziale alla Corte UE: risorsa, problema e principio fondamentale di cooperazione al servizio di una nomofilachia europea, disponibile in www.cortedicassazione.it; A. Ruggeri, Il rinvio pregiudiziale alla Corte dell’Unione: risorsa o problema? (Nota minima su una questione controversa), in Diritti comparati, 2011; S. Spuntarelli, Il ruolo del rinvio pregiudiziale alla CGUE nella giurisdizione amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2018, 3, 985 ss.; G. Vitale, La logica del rinvio pregiudiziale tra obbligo di rinvio per il giudice di ultima istanza e responsabilità, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2013, 1, 59 ss..
[7] In base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia il giudice nazionale può astenersi dall’effettuare il rinvio nel caso in cui la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, esaminata in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale (acte éclairé); oppure nel caso in cui la giurisprudenza costante della Corte, indipendentemente dalla natura dei procedimenti da cui sia stata prodotta, abbia risolto il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità fra le materie del contendere (acte clair). Si v. CGUE, 27 marzo 1963, cause riunite C-28/62, C- 29/62 e C-30/62, Da Costa; e CGUE, 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit, punto 14.
[8] Appare notevolmente mutato lo scenario che si profilava non molti anni fa e ben evidenziato da M. Cartabia, La Corte costituzionale italiana e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea, in N. Zanon (a cura di), Le corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Napoli, 2006, 127, ad avviso della quale “i dati che emergono dai rapporti annuali della Corte di giustizia rivelano come le Corti supreme siano assai pigre nell’investire la Corte di giustizia, dimostrando così che quello che in base alla formulazione letterale del trattato dovrebbe costituire un obbligo, in realtà viene generalmente interpretato come opportunità da utilizzare all’occorrenza”.
Peraltro, stando alle statistiche riportate nelle Relazioni annuali della Corte di Giustizia (disponibili fino al 2018 e rinvenibili nel sito https://curia.europa.eu/), l’Italia è seconda solamente alla Germania per numero di rinvii pregiudiziali: sessantotto nel 2018, cinquantasette nel 2017, sessantadue nel 2016, quarantasette nel 2015.
[9] Per un approfondimento si rinvia a L. Arnaudo e R. Pardolesi, La saga Avastin/Lucentis: ultima stagione, in Foro it., 2019, III, 533; S. Gorza, Il caso Avastin/Lucentis tra contraddizioni ed omissioni, in Dir. ind., 2020, 1, 30 ss.; B. Bertan, L'ordinanza di rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato nel caso I760, Roche/Novartis - farmaci Avastin-Lucentis: la valutazione concorrenziale degli accordi di licenza e l'uso off label del farmaco nella definizione di mercato rilevante, in Riv. dir. industr., 2017, 3, 402 ss.; e M. Colangelo, Il caso Avastin-Lucentis: violazione antitrust o regulatory failure?, in Riv. dir. industr., 2016, 2, 218 ss..
[10] TAR Lazio, 2 dicembre 2014, n. 12168.
[11] Cons. St., Sez. VI, 11 marzo 2016, n. 966.
[12] CGUE, 23 gennaio 2018, C‑179/16, Hoffmann-La Roche e altri.
[13] Cons. St., Sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990.
[14] Sul punto v. G. Tesauro, Sui vincoli (talvolta ignorati) del giudice nazionale prima e dopo il rinvio pregiudiziale: una riflessione sul caso Avastin/Lucentis e non solo, in federalismi.it, 2020, secondo cui il Consiglio di Stato non ha dato seguito agli accertamenti richiesti dalla Corte di Giustizia ed ha deciso direttamente con affermazioni in contrasto con la risposta chiesta e ottenuta da Lussemburgo.
[15] CGUE, 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub, punto 20; e CGUE, 16 marzo 2006, C‑234/04, Kapferer, punto 21. Cfr. anche, CGUE, 1 giugno 1999, C-126/97, Eco Swiss, punti 46 s..
[16] Solo in casi particolarissimi il principio dell’autorità della cosa giudicata è stato messo in discussione dalla Corte. Si tratta ad es. del celebre caso Lucchini (CGUE, 18 luglio 2007, C‑119/05) che però riguardava una situazione del tutto peculiare in merito alla ripartizione delle competenze tra Stati membri ed Unione in materia di aiuti di Stato; e del già citato caso Olimpiclub nella parte riguardante il valore del c.d. giudicato esterno.
[17] CGUE, 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub, punto 22; Cfr. anche CGUE, sentenza 30 settembre 2003, C‑224/01, Köbler, punto 38; e CGUE, 16 marzo 2006, C‑234/04, Kapferer, punto 20.
[18] Cfr. CGUE, 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit, punto 10, in cui si afferma che la questione non è pertinente “nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della lite”.
[19] Cons. St., Ad. plen., 23 febbraio 2018, n. 2.
[20] Nell’ordinanza lo si afferma diffusamente in termini chiarissimi. Si v. ad esempio il punto 9 in cui si sostiene “Alla luce delle considerazioni che precedono, dovendosi escludere la sussistenza di una violazione, sia dal punto di vista della sua configurazione astratta che da quello fattuale, del diritto dell’Unione europea e dei principi affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia del 23 gennaio 2018, è opinione del Collegio che non sussista il requisito della rilevanza della questione pregiudiziale sollevata dalle parti”.
[21] Art. 19, par. 1, TUE. Per ulteriori approfondimenti in dottrina sul ruolo della Corte, tra i tantissimi, v. G. Tesauro, Alcune riflessioni sul ruolo della Corte di giustizia nell’evoluzione dell’Unione europea, in Dir. Un. Eur., 2013, 3, 483 ss.; nonché il fondamentale contributo di A. Tizzano, La Corte di giustizia delle Comunità europee, Napoli, 1967.
[22] Art. 19, par. 3, TUE. Per un quadro generale del rinvio pregiudiziale si rinvia alla recente opera monografica di C. Iannone e F. Ferraro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020. Si v. anche G. Martinico, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia delle Comunità europee come forme di produzione normativa, in Riv. dir. cost., 2004, 249 ss.; e D. U. Galetta, Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE ed obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale: una rilettura nell’ottica del rapporto di cooperazione (leale) fra giudici, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2012, 2.
[23] Così M. Condinanzi, Innovazione e continuità alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in C. Amalfitano e M. Condinanzi (a cura di), La Corte di Giustizia dell'unione europea oltre i trattati: la riforma organizzativa e processuale del triennio 2012-2015, 15.
[24] Chiara in tal senso è CGUE, 5 ottobre 2010, C-173/09, Elchinov, secondo cui “la sentenza con la quale la Corte si pronunzia in via pregiudiziale vincola il giudice nazionale, per quanto concerne l’interpretazione o la validità degli atti delle istituzioni dell’Unione in questione, per la definizione della lite principale (…). Da queste riflessioni discende che il giudice nazionale, che abbia esercitato la facoltà ad esso attribuita dall’art. 267, secondo comma, TFUE, è vincolato, ai fini della soluzione della controversia principale, dall’interpretazione delle disposizioni in questione fornita dalla Corte e deve eventualmente discostarsi dalle valutazioni dell’organo giurisdizionale di grado superiore qualora esso ritenga, in considerazione di detta interpretazione, che queste ultime non siano conformi al diritto dell’Unione”.
[25] Sulla responsabilità dello Stato membro per inosservanza degli obblighi comunitari v. CGUE, 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler; e CGUE, 13 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo.
[26] Cfr. E. D’Alessandro, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di Giustizia, Torino, 2012; G. Raiti, La collaborazione giudiziaria nell’esperienza del rinvio pregiudiziale comunitario, Milano, 2003. Sui temi in argomento si v. anche R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I “volti” delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustizia insieme, 4 marzo 2021, che interrogandosi sul dialogo pregiudiziale tra Corte di Cassazione e Corte di Giustizia dell’UE, afferma che “la richiesta di rinvio crea un percorso virtuoso di avvicinamento del diritto comunitario a quelle tradizioni culturali comuni che costituiscono, come è noto, una delle basi fondamentali dei principi generali dell’ordinamento comunitario coniati, ancora una volta, dalla Corte di Giustizia”.
[27] Tra le molte pronunce si v. CGUE, 18 giugno 1991, causa C-369/89, Piageme e a., punto 10; CGUE, 15 giugno 1995, procedimenti riuniti C-422/93, C-423/93 e C-424/93, Teresa Zabala Erasun e Instituto Nacional de Empleo, punto 14.
[28] M. A. Sandulli, Riflessioni sulla responsabilità civile degli organi giurisdizionali, in federalismi.it, 2012. Si v. anche A. Barone, Nomofilachia, corti sovranazionali e sicurezza giuridica, Dir. proc. amm., 2020, 3, 557 ss..
[29] Sul nuovo volto del rinvio pregiudiziale, specie con riferimento alla giustizia amministrativa, degno di interesse è il recente contributo di S. Foà, Giustizia amministrativa e rinvio pregiudiziale alla CGUE: da strumento “difensivo” a mezzo per ridiscutere il sistema costituzionale, in federalismi.it, 2021.
[30] L’espressione è di R. Bin, È scoppiata la terza “guerra tra le Corti”? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di Cassazione sui limiti della giurisdizione, in federalismi.it, 2020. Si v. anche M. Clarich, Giurisdizione: partita a poker tra Cassazione e Consulta sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Norme e Tributi, Il sole 24ore, 14 ottobre 2020.
[31] L’art. 111, comma 8, Cost. statuisce infatti che “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
[32] La letteratura sul tema è copiosa, si rinvia pertanto ex multis agli ottimi lavori di A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2018; A. Corpaci, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. pubbl., 2013, 1, 341 ss.; F. Francario, Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Libro dell’anno del diritto, Treccani, Roma, 2017; C. E. Gallo, L’impugnazione in cassazione delle decisioni del Consiglio di Stato, in Dir. e proc. amm., 2013, 2-3; Id., Il controllo della Corte di Cassazione sul rifiuto di giurisdizione del Consiglio di Stato, ora in F. Francario e M. A. Sandulli (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018; M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012; A. Panzarola, Il controllo della Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione del giudice amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 1; P. Patrito, I «motivi inerenti alla giurisdizione» nell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, Napoli, 2016; A. Police e F. Chirico, «I soli motivi inerenti la giurisdizione» nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il Processo, 2019, 1, 113 ss.; M. A. Sandulli, A proposito del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni dei giudici amministrativi, in F. Francario e M. A. Sandulli (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018; M. A. Sandulli, Finalmente “definitiva” certezza sul riparto di giurisdizione in tema di “comportamenti” e sulla c.d. «pregiudiziale» amministrativa? Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela” (a primissima lettura in margine a Cass., sez. un., nn. 13659, 13660 e 13911 del 2006), in Riv. giur. edilizia, 2006, 1; A. Travi, Eccesso di potere giurisdizionale e diniego di giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione, in www.giustamm.it, 2017; R. Villata, Sui “motivi inerenti alla giurisdizione”, in Riv. dir. proc., 2015, 632 ss..
[33] CGUE, 16 dicembre 1976, C-33/76, Rewe, in cui si afferma “In mancanza di una specifica disciplina comunitaria, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro il designare il giudice competente e stabilire le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta, modalità che non possono, beninteso, essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale”.
[34] Con particolare riguardo al principio di autonomia procedurale si v. D. U. Galetta, La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione europea, in Ius publicum, 2011; Ead., L’autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione europea: Paradise Lost?, Torino, 2009 ; M. Gnes, Verso la «comunitarizzazione» del diritto processuale nazionale, in Giorn. dir. amm., 2001, 5, 524 ss.
[35] D. U. Galetta, La giurisprudenza della Corte di giustizia, cit..
[36] CGUE, 17 marzo 2016, C-161/15, Bensada Benallal, punto 24; CGUE, 21 gennaio 2016, C-74/14, Eturas, punto 32.
[37] R. Adam e A. Tizzano, Manuale di diritto dell’Unione Europea, Torino, 2017, 357.
[38] R. Adam e A. Tizzano, cit., 357.
[39] Così Cass., Sez. Un. 1 marzo 2012, n. 3236.
[40] Cass., Sez. Un., 6 febbraio 2015, n. 2242, in Foro it., 2016, I, 327, che riguardava un caso peculiare in quanto, prima che la sentenza del Consiglio di Stato passasse in giudicato (perché impugnata per motivi inerenti alla giurisdizione innanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) era sopravvenuta l’interpretazione della Corte di Giustizia, sollecitata, in un caso analogo da altro giudice.
[41] Muovendo da tali decisive considerazioni le Sezioni Unite enunciano tale principio di diritto “In tema di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione (che l’art. 111, ultimo comma, Cost. affida alla Corte di cassazione) non include anche una funzione di verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto dell’Unione europea, neppure sotto il profilo dell’osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, 3° comma, Tfue. Tuttavia, è affetta da vizio di difetto di giurisdizione e per questo motivo va cassata la sentenza del Consiglio di Stato che, in sede di decisione su ricorso per cassazione, è riscontrata essere fondata su interpretazione delle norme incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo; accesso affermato con l’interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia”.
[42] Cass., Sez. Un., 29 dicembre 2017, n. 31226, in Foro it., 2018, I, 1721, con nota di G. Sigismondi, Questioni di giurisdizione in senso dinamico e nuovi limiti all'impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato con ricorso per cassazione: una via percorribile?.
[43] Sul diniego di giurisdizione, tra tutti, v. F. Francario, Diniego di giurisdizione, in Libro dell’anno del diritto, Roma, 2019.
[44] Corte Cost., 18 gennaio 2018, n. 6, in Foro it., 2018, I, 373.
[45] Per i commenti alla sentenza si v. F. Francario, Diniego di giurisdizione, cit.; A. Police e F. Chirico, «I soli motivi inerenti la giurisdizione», cit.; G. Sigismondi, Questioni di legittimità costituzionale per contrasto con le sentenze della Corte EDU e ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione contro le sentenze dei giudici speciali: la Corte costituzionale pone altri punti fermi, in Giur. cost., 2018, 1, 122 ss.; P. Tomaiuoli, L’”altolà” della Corte Costituzionale alla giurisdizione dinamica (a margine della sentenza n. 6 del 2018), in www.giurcost.org, 2018.; A. Travi, Un intervento della Corte costituzionale sulla concezione ‘funzionale’ delle questioni di giurisdizione accolta dalla Corte di cassazione, in Dir. proc. amm., 2018, 3, 111 ss..
[46] Corte Cost., 26 maggio 2017, n. 123.
[47] Com’è noto, la Corte costituzionale, con la sentenza 7 aprile 2011, n. 113, ha riconosciuto l’esistenza dell’obbligo convenzionale di riapertura del processo penale allorquando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza della Corte EDU, e conseguentemente ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede una specifica ipotesi di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna.
[48] Per un’esaustiva analisi si v. C. Contessa, Giudicato amministrativo e vincoli CEDU, in Il libro dell'anno del diritto 2018, Roma, 2018; F. Francario, La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza, in federalismi.it, 2017.; Id., Giudicato e revocazione, in Il libro dell'anno del diritto 2018, Roma, 2018; C. Nardocci, Esecuzione delle sentenze CEDU e intangibilità del giudicato civile e amministrativo. L’orientamento della Corte costituzionale, in federalismi.it, 2018; A. Police, Giudicato amministrativo e sentenze di Corti sovranazionali. Il rimedio della revocazione in un’analisi costi benefici, in Dir. proc. amm., 2018, 2, 646 ss.; A. Randazzo, A proposito della sorte del giudicato amministrativo contrario a pronunzie della Corte di Strasburgo (note minime alla sent. n. 123 del 2017 della Corte costituzionale), in Consulta online, 2017, 460 ss.; I. Rossetti, Stabilità giuridica contro revocazione: la Corte costituzionale chiude la partita, in Dir. proc. amm., 2018, 665 ss.; A. Travi, Pronunce della Corte di Strasburgo e revocazione delle sentenze: un punto fermo della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2017, 1246.
[49] Sul tema non può non farsi riferimento alle riflessioni di P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2007, III ed.; Id., Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015; Id., L’invenzione del diritto, Roma-Bari, 2017; Id., Oltre la legalità, Roma-Bari, 2020. Per gli aspetti critici v. M. A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 e ss.
[50] P. Grossi, L’invenzione del diritto, cit., 129.
[51] Si v. Cass., Sez. Un., 15 aprile 2020, n. 7839, che ha riconosciuto natura vincolante all’interpretazione fornita dalla sentenza della Corte costituzionale “in quanto dispiegata su una pura sostanza costituzionale”. Cfr., ex multis, anche Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2018, n. 32773; Cass., Sez. Un., 20 marzo 2019, n. 7926; Cass., Sez. Un., 6 marzo 2020, n. 6460; Cass., Sez. Un., 21 agosto 2020, n. 17578.
[52] Per una breve illustrazione dell’ordinanza si permetta il rinvio a R. Pappalardo, Sul ricorso in cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato per violazione del diritto europeo: le Sezioni Unite rimettono la questione alla Corte di Giustizia, in Foro amm., Osservatorio sulla Giustizia Amministrativa diretto da M. Lipari e M. A. Sandulli.
[53] CGUE, 5 settembre 2019, C-333/18.
[54] CGUE 5 aprile 2016, C-689/13.
[55] CGUE, 4 luglio 2013, C-100/12.
[56] Per tali aspetti, nonché per un approfondito esame delle questioni sottese si rinvia a A. Carratta G. Costantino e G. Ruffini, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Questione Giustizia, 19 ottobre 2020; S. Barbareschi e A. Caruso, La recente giurisprudenza costituzionale e la Corte di cassazione “fuori contesto”: considerazioni a prima lettura di ord. Cass. SS.UU., 18 settembre 2020, n. 19598?, in federalismi.it, 2020; F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in Giustizia insieme, 11 novembre 2020; G. Greco, La violazione del diritto dell’Unione europea come possibile difetto di giurisdizione?, in Eurojus, 2020; M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione europea: la parola alla Corte di Giustizia, in Giustizia insieme, 11 dicembre 2020; Id., L’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia: i rimedi previsti dal diritto dell’Unione europea, l’inammissibilità del ricorso in Cassazione e la revocazione ordinaria, in www.giustizia-amministrativa.it, 2021; B. Nascimbene e P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in Giustizia insieme, 24 novembre 2020; M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte dicassazione n. 19598 del 2020, in Giustizia insieme, 29 novembre 2020; Ead., Corte di Cassazione, Sentenza n. 27770/2020, Le Sezioni Unite confermano il profilo di self restraint sull’eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo nei confronti del legislatore, in federalismi.it, 2020; P. Tomaiuoli, Il rinvio pregiudiziale per la pretesa, ma incostituzionale, giurisdizione unica, in Consulta online, 2020; A. Travi, La Cassazione sottopone alla Corte di giustizia il modello italiano di giustizia amministrativa, in Foro News, 12 ottobre 2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustizia insieme, 7 ottobre 2020.
[57] M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, cit., secondo cui non pare convincente la prospettata contrapposizione funzionale tra l’applicazione del diritto nazionale e quella del diritto europeo, perché entrambe le attività sono riconducibili ad una funzione giurisdizionale unitaria.
[58] Le Sezioni Unite ricordano, peraltro, che le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto le disposizioni normative pertinenti nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo sono state puntualmente rigettate. Si citano a tal proposito Corte Cost., 27 aprile 2018, n. 93 e Corte Cost., 2 febbraio 2018, n. 19.
[59] Si v. CGUE, 13 aprile 2010, C-73/08, Bressol, punto 64; nonché CGUE, 23 ottobre 2003, cause riunite C-4/02 e C-5/02, Schönheit e Becker, punti 82 e 83, in cui si precisa altresì che la Corte di Giustizia, per dare al giudice nazionale risposte utili, può fornire indicazioni, tratte dal fascicolo della causa principale come pure dalle osservazioni scritte ed orali sottopostele, idonee a mettere il giudice nazionale in grado di decidere.
[60] CGUE, Raccomandazioni all'attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea del 25 novembre 2016 (2016/C 439/01), e poi pubblicate nella nuova versione sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 novembre 2019 (2019/C 380/01).
[61] Si v. Cass., Sez. Un., 28 febbraio 2019, n. 6059, secondo cui “questa Corte è pervenuta movendo dalla considerazione secondo cui l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è figura di rilievo affatto teorico, in quanto - dovendosi ipotizzare che il giudice applichi, non già la norma esistente, ma una norma all’uopo creata - detto eccesso potrebbe ravvisarsi solo a condizione di poter distinguere un'attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’attività interpretativa; attività quest'ultima certamente non contenibile in una funzione meramente euristica, ma risolventesi in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto”. In senso analogo, ex multis, Cass., Sez. Un., 1 febbraio 2016, n. 1840; Cass., Sez. Un., 21 marzo 2017, n. 7157; Cass., Sez. Un., 20 aprile 2017, n. 9967; Cass., Sez. Un., 10 aprile 2017, n. 9147.
In dottrina v. R. De Nictolis, L’eccesso di potere giurisdizionale (tra ricorso per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” e ricorso per “violazione di legge”), in www.sipotra.it, 32, secondo cui “sembra cogliersi un particolare self restraint delle sez. un. nel sindacare una decisione giurisdizionale per invasione della sfera legislativa, nella consapevolezza che si tratta di un terreno scivoloso in cui, se non si vuole accedere alla tesi del giudice come “bocca della legge”, è innegabile che l’interpretazione della legge ha insito un margine di “creazione” della regola del caso concreto. E se tale “creazione” venisse stigmatizzata come “invasione di campo”, si perderebbe del tutto il confine tra “violazione di legge” e “invasione della competenza legislativa””.
[62] Così M.A. Sandulli, Guida alla lettura, cit.. Si v. anche M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, cit., secondo cui inoltre “Va ricordato, comunque, che la CGUE, nello spettro fisiologicamente limitato del proprio giudizio, ben potrebbe attestarsi sulla rappresentazione fornita dal giudice remittente. Dunque, non è da escludere che la CGUE possa anche affermare, in via ipotetica, che se, effettivamente, la Cassazione ha consolidato un singolare indirizzo interpretativo penalizzante il diritto UE, il sistema processuale nazionale italiano deve essere riallineato, consentendo il ricorso per cassazione diretto a censurare una violazione del diritto UE alle medesime condizioni previste per la proposizione del ricorso che lamenti la trasgressione del diritto nazionale. Una eventuale pronuncia di tale contenuto, tuttavia, sarebbe inutiliter data, dal momento che l’ipotizzata mancanza di equivalenza non sembra sussistere nella realtà”.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.