ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Si conclude, con le riflessioni dei cinque costituzionalisti coinvolti dai Professori Oreste Pollicino e Corrado Caruso, il focus aperto da Giustizia Insieme sul fine vita all'indomani dei noti interventi della Corte costituzionale sul caso del dj Fabo.
I piani di indagine prescelti- penale, comparato, civile, filosofico e costituzionale - sono stati vivificati da numerosi studiosi, capaci di offrire un quadro estramamente poliedrico di contenuti e prospettive che hanno accompagnato, in questi mesi, i lettori e che, idealmente, si offre ora in tutta la loro ricchezza e problematicità al decisore politico.
Il fine vita e il legislatore pensante
5. Il punto di vista dei costituzionalisti
Considerazioni di Stefano Agosta, Lucia Busatta, Carlo Casonato, Giacomo D’Amico e Chiara Tripodina
Introduzione di Corrado Caruso e Oreste Pollicino
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci) - Il fine vita e il legislatore pensante. 3. Il punto di vista dei filosofi del diritto (di Angelo Costanzo, Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato, Carla Faralli) - Il fine vita e il legislatore pensante. 4. Il punto di vista dei civilisti (di Mirzia Bianca, Gilda Ferrando, Teresa Pasquino e Stefano Troiano)]
Introduzione
Corrado Caruso e Oreste Pollicino
Talune recenti pronunce della Corte costituzionale (ord. n. 207 del 2018, sent. n. 242 del 2019) hanno reso nuovamente attuale le problematiche che ruotano attorno al fine vita, sia da punto di vista dei principi costituzionali coinvolti, sia rispetto alla disciplina positiva da predisporre in un ambito particolarmente delicato sul piano dei valori coinvolti. Si rendono così necessarie le riflessioni degli studiosi di diritto costituzionale, chiamati a discutere anche dell’eventuale riforma della legge n. 219 del 2017 e, più in generale, di un quadro normativo coerente con la giurisprudenza costituzionale.
Hanno partecipato a questo dibattito: Stefano Agosta, professore ordinario di diritto costituzionale presso l’ Università di Messina, Lucia Busatta, dottoressa di ricerca e docente a contratto in diritto costituzionale presso l’Università di Trento, Carlo Casonato, professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università di Trento, Giacomo D’Amico, professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Messina e Chiara Tripodina, professoressa ordinaria di diritto costituzionale presso l’Università del Piemonte Orientale.
1. Le pronunce sul caso “Cappato” della Corte costituzionale (e prima ancora, la sentenza “Englaro” della Cassazione, alla quale ha fatto seguito la legge n. 219 del 2017) possiedono un indubbio valore “normativo”. Può ritenersi vigente oggi, nelle trame dell’ordinamento, un diritto al suicidio?
Prof. Stefano Agosta
Tutt’altro che facile (anche solo provare ad) abbozzare in poche, sintetiche, battute una risposta a così ampi ed articolati interrogativi. In via del tutto preliminare può, innanzitutto, precisarsi come neppure troppo si siano invero fatte attendere in dottrina quelle voci miranti a rilevare (già nel metodo, prima ancora che nel merito su cui ci si sta, più nello specifico, per soffermare) un singolare slittamento del giudizio di costituzionalità – dalla nuda e cruda fattispecie incriminatrice dell’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 cod. pen. alla vera e propria richiesta di suicidio medicalmente assistito del singolo nei confronti delle strutture ospedaliere pubbliche – il quale avrebbe finito per portare la Corte costituzionale inevitabilmente a pronunziarsi, per così dire, extra petitum.
Venendo al versante del merito – prima di ricondurne nell’alveo della c.d. alleanza terapeutica tra medici e degenti il quomodo della protezione – è ovviamente indispensabile una disamina dell’an costituzionale della «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze» [così ord. n. 207/2018 (punto 9 cons. dir., ultimo cpv) e sent. n. 242/2019 (punto 2.3 cons. dir., ultimo cpv)], che possa eccezionalmente spingersi fino al legittimo accesso ad un farmaco letale. Nella riconosciuta impossibilità di una ricostruzione, per così dire, a “rime obbligate” discendente tanto dai principi costituzionali che EDU (rispetto ai quali ultimi la relativa giurisprudenza è stata, casomai, ritenuta assai fumosa, nella migliore delle ipotesi, quando non correttamente ricostruita, nella peggiore), è ovvio che intanto potrà legittimamente ammettersi un vero e proprio diritto dei degenti in relazione alla richiamata somministrazione in quanto non ci si accontenti del ricorso al comune procedimento di estensione analogica: dal positivo diritto di essere curati ex art. 32 Cost., cioè, al suo speculare negativo di abbandonare ogni cura sino al sopraggiungere della morte ovvero, da quest’ultimo, direttamente a quello di ottenere che siano predisposti e forniti presidi farmacologici con proprietà abbrevianti della vita stessa.
Allo scopo è stato, al contrario, evocato (non già dal giudice remittente bensì dalla Consulta) in campo il criterio ternario di cui al tradizionale giudizio d’eguaglianza ex art. 3 Cost. Essendosi giovati insomma, come tertium comparationis, del riconoscimento già operato in materia dalla l. n. 219/2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, nel 2018 [cfr. ord. n. 207 cit. (punto 9 cons. dir., ultimo cpv)], anche la più forte declinazione della libertà di autodeterminazione terapeutica supra cit. – intesa, appunto, nel senso della legittima accessibilità ai farmaci letali – ha così potuto finalmente entrare nel delicato gioco del bilanciamento con le altre esigenze costituzionali coinvolte, nel successivo giudizio del 2019.
Alla luce di quanto appena detto, è ad ogni modo di tutta evidenza come non sia certo stato un assoluto ed incondizionato diritto al suicidio tout court quello avuto di mira dalla giurisprudenza – come invece inizialmente suggerito dalla medesima Corte d’Appello di Milano – quanto, ed all’opposto, un relativo e condizionato diritto al suicidio medicalmente assistito (e, pertanto, anch’esso frutto di una ponderazione con l’imperativa esigenza di tutela della vita in capo allo Stato ancora peculiarmente emergente dall’art. 580 cit.). La titolarità del quale ultimo è stata, in altre parole, eccezionalmente ammessa solo a beneficio di un ristretto novero di aventi (loro malgrado…) diritto, in virtù di taluni canonizzati presupposti: tra di essi non potendo non assumere precipuo rilievo proprio l’elevato grado di sofferenza di cui costoro finirebbero per essere drammaticamente vittima (tale riconoscimento rispecchiando, d’altro canto, non solo le condizioni in cui aveva tragicamente versato Fabiano Antoniani nella vicenda giudiziaria in concreto ma, anche, quelle a suo tempo autorevolmente delineate dallo stesso Comitato nazionale di bioetica in materia).
Dott.ssa Lucia Busatta
Sicuramente esiste un diritto a chiedere di ricevere assistenza medica al morire, se sussistono le condizioni soggettive espressamente indicate, e definite in modo minuzioso, dal giudice costituzionale. Personalmente escluderei l’esistenza di un “diritto al suicidio” tout court. La Corte è infatti assai attenta nel circoscrivere l’ambito di operatività della propria (duplice) decisione. Da un lato, infatti, esclude che si possa parlare di piena incostituzionalità dell’art. 580 c.p. perché tale norma «assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere» (ord. 207/2018, p.to 6 considerato in diritto).
La Corte radica la possibilità di chiedere l’assistenza medica al suicidio, per una persona che si trovi in condizioni di salute gravissime e irreversibili, secondo la descrizione dei criteri delineata già a partire dall’ordinanza del 2018, nelle trame del principio di eguaglianza. La condizione esclusiva per riconoscere uno spazio effettivo nel nostro ordinamento a tale possibilità consiste nella situazione clinica della persona: questi deve essere sottoposto a un trattamento medico rispetto al quale potrebbe esercitare il diritto al rifiuto previsto dalla legge n. 219 del 2017.
Sono tanti, quindi, gli argini che la Corte costruisce per limitare la possibilità di poter parlare di un diritto al suicidio. Tutti i limiti individuati, inoltre, sono espressamente previsti per la tutela della persona e per proteggere chi si trova in situazioni di maggiore fragilità.
Sebbene esista un diritto a chiedere l’assistenza al suicidio, poi, non pochi sono i vuoti di effettività, come ora vedremo.
Prof. Carlo Casonato
La questione è complessa. Cercherò, anzitutto, di fare un po’ di ordine.
Nel caso di Eluana Englaro, la questione non si poneva in termini di suicidio, ma di interruzione di trattamenti di sostegno vitale di una persona che non poteva esprimere alcuna volontà attuale. Il principio del consenso informato e il diritto al rifiuto delle cure, già riconosciuti dall’art. 32, secondo comma della Costituzione letto in combinato con gli articoli 2 e 13 (a partire dal primo gennaio 1948, quindi) hanno dovuto attendere, rispettivamente, il 2007 e il 2008 per essere concretamente considerati per via giurisprudenziale ordinaria (caso Welby) e poi costituzionale (sent. n. 438 del 2008), e addirittura il dicembre del 2017 per essere precisati a livello legislativo (legge n. 219). Tale intervento normativo, fra l’altro, ha confermato e specificato l’esistenza di un diritto al rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, comprese nutrizione e idratazione artificiali, indicando, come noto, anche gli strumenti per esprimere le proprie volontà anticipate (disposizioni anticipate di trattamento e pianificazione condivisa delle cure). Dopo tali passaggi, quindi, il consenso informato è oggi un dato giuridico costituzionale non più discutibile.
Il caso “Cappato” aggiunge una ulteriore tappa nel percorso di riconoscimento di una più ampia tutela dell’autonomia individuale nelle fasi finali della propria esistenza; tappa riferibile alla non punibilità, a determinate condizioni, dell’assistenza al suicidio. Anche qui può essere utile articolare il discorso su più piani. Il suicidio in sé, nonostante in alcuni paesi comportasse in passato sanzioni sia per il suicida (sepoltura fuori dalle mura della città o in territorio non consacrato) sia per gli eredi (trattenuta sul patrimonio), consiste in un atto cui non è collegata oggi alcuna conseguenza giuridica di sfavore. In questi termini, alcuni ne parlano come di una facoltà. Altra cosa, evidentemente, è l’assistenza al suicidio, condotta che in Italia era, e in molti paesi ancora è, considerata reato in termini assoluti e incondizionati.
A fronte dell’’inerzia del Parlamento, come noto, è stata la Corte costituzionale (sent. n. 242 del 2019) a ritagliare la non punibilità per chi agevoli “l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Da questo punto di vista, quindi, si potrebbe parlare di un diritto all’assistenza al suicidio come di un diritto di libertà; diritto condizionato, però, da quattro requisiti, uno dei quali (la presenza di trattamenti di sostegno vitale) fortemente problematico, in quanto legato sì alla logica adottata dalla Corte, ma foriero di possibili discriminazioni.
D’altro canto, la mia posizione è che, in presenza dei quattro requisiti citati, le strutture del Servizio Sanitario Nazionale non possano negare la presa in carico del malato e la soddisfazione della sua richiesta di assistenza. Se la sentenza è chiara nel non porre “alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”, è altrettanto precisa nell’affidare la verifica delle quattro condizioni citate “a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale”, alla stregua di quanto già disposto in riferimento, ad esempio, alla sent. n. 96 del 2015 sull’ampliamento nell’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Se quindi la sentenza lascia libero il singolo professionista di aiutare o meno il malato, la struttura non potrebbe rifiutarsi di assisterlo nel porre fine alla sua esistenza accampando motivi di delicatezza etica o di incertezza giuridica. Tale condotta, similmente a quanto è già accaduto in riferimento alla condanna della Regione Lombardia da parte del TAR Lombardia (sent. n. 214 del 26.1.2009) e del Consiglio di Stato (sent. n. 4460 del 2014) per non aver ottemperato alla sentenza della Corte di Cassazione sul caso di Eluana Englaro, costituirebbe, quindi, un atto contrario ai principi di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza della Pubblica Amministrazione.
Se non si può parlare quindi di un diritto al suicidio in termini generali e assoluti, in presenza dei quattro menzionati requisiti, la persona malata ha diritto a che la struttura si attivi per soddisfare la sua richiesta.
Prof. Giacomo D’Amico
La risposta a questa domanda non può che essere decisamente negativa perché non è rinvenibile nelle due pronunce sul caso “Cappato” né nella sentenza Englaro alcuna indicazione che possa giustificare una simile affermazione. Per questa ragione discutere di “diritto al suicidio” può risultare fuorviante e può addirittura costituire un argomento per una lettura denigratoria delle decisioni sopra citate. Ma vi è di più. Infatti, non solo non vi è traccia di questo diritto nelle motivazioni della Corte costituzionale e della Cassazione ma neanche Marco Cappato – imputato nel processo – ha rivendicato questo presunto diritto. Ribadito, quindi, che di un diritto al suicidio non può discutersi, occorre circoscrivere la portata delle due decisioni del Giudice delle leggi a quella che la stessa Corte definisce «l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio».
Volendo provare a leggere queste pronunce alla luce di alcuni topoi argomentativi della giurisprudenza costituzionale, può dirsi che in queste decisioni confluiscono alcuni orientamenti consolidati sugli anacronismi legislativi. È infatti l’evoluzione della scienza medica (che ha permesso la sopravvivenza dell’individuo financo in uno stato vegetativo permanente, come nel caso della povera Eluana Englaro) ad aver reso anacronistica l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio e quindi l’automatica riconduzione di ogni caso di aiuto alla fattispecie penale di cui all’art. 580 c.p. In altre parole, l’accertamento dell’anacronismo ha determinato l’illegittimità costituzionale di quello che potrebbe definirsi, non senza qualche approssimazione, l’automatismo sanzionatorio di cui all’art. 580 c.p. (si discute di automatismo nel senso che ogni condotta di aiuto, anche la più blanda, rientrava nella fattispecie penale). Illuminanti sono al riguardo gli esiti di un recente studio sugli automatismi legislativi, nel quale si fa notare che l’«ineliminabile discrasia fra quanto astrattamente prescritto e il campo del concretamente verificabile impone la necessità che il profilo materiale sia in grado di condizionare quello formale; in altri termini che vengano prescritti meccanismi interpretativo-applicativi che permettano l’adattabilità dell’effetto al fatto» (L. Pace, L’adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Napoli 2020, 69). Proprio in questa direzione sembra essersi mosso l’intervento della Corte, che ha eliminato la «discrasia» creatasi come conseguenza di un anacronismo legislativo, rendendo così inaccettabile l’automatismo sanzionatorio.
In definitiva, la prospettiva da cui ha preso le mosse la Corte non è quella del riconoscimento di un illimitato diritto a scegliere come porre fine alla propria esistenza, ma è piuttosto quella, ben delimitata e inevitabilmente circoscritta alle caratteristiche del caso sottoposto al suo esame, della repressione penale della condotta di chi, in presenza delle condizioni tassativamente indicate dal Giudice delle leggi, agevola l’altrui proposito suicidario.
Da questo punto di vista, a mio avviso si registra una singolare analogia tra l’argomentazione della Corte costituzionale nella sent. 242 del 2019 e nell’ord. 207 del 2018 e quella della Cassazione nel caso Englaro (sent. n. 21748 del 2007). In quest’ultima pronuncia, infatti, il principio di diritto enucleato dalla Cassazione era ritagliato sulla vicenda di Eluana e si presentava in una veste analoga a quella che, per le pronunce della Consulta, assumono le c.d. decisioni additive di procedimento.
In conclusione, la Corte costituzionale non si è occupata di un diritto al suicidio; piuttosto, ha ritagliato un’area di immunità penale nell’ambito della fattispecie di aiuto al suicidio che continua a essere prevista nell’art. 580 c.p.
Prof.ssa Chiara Tripodina
Le pronunce della Corte costituzionale sul Caso Cappato possiedono un sicuro “valore normativo”, se con ciò si intende la capacità di una decisione giurisprudenziale di concorrere alla definizione dell’ordinamento giuridico. In particolare, la sent. 241/2019 Corte cost. ha inciso sulla fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio, delimitandone una “circoscritta area” sottratta alla punibilità: il c.d. suicidio medicalmente assistito. Ha infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p. «nella parte in cui non esclude la punibilità» di chi agevola l’esecuzione del proposito suicidario, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona «a) affetta da una patologia irreversibile e b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Prima della pronuncia della Corte, il suicidio senz’altro non era “diritto”, bensì “libertà”: l’ultima libertà, estrema e di fatto, di gettarsi oltre la soglia. Sarebbe stato diritto se su altri fosse gravato l’obbligo di agevolare il suicida o di non ostacolarlo. Ma così non era – e non è -, esistendo all’opposto nel nostro ordinamento il divieto di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) e il dovere di impedire l’altrui suicidio nella ricorrenza dei presupposti dell’omissione di soccorso (art. 593 c.p.).
Ma anche dopo la pronuncia della Corte non si può dire che il suicidio, neppure nella sola forma del suicidio medicalmente assistito, sia assurto al rango di diritto. In primo luogo, perché è la Corte costituzionale stessa a non pronunciare mai la parola “diritto”. Usa esclusivamente la parola “libertà”: «libertà di autodeterminazione» del paziente «nella scelte delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze» (includendo – forzatamente - il suicidio medicalmente assistito tra le terapie anti-dolore che il paziente può scegliere).
In secondo luogo, perché «un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui corrisponde» [S. Weil, La prima radice, 1943]. All’assenza del “diritto” corrisponde nella sentenza l’assenza dell’“obbligo”; rectius la sua esplicita esclusione: la Corte, infatti, esclude «la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Ma è ineludibile: se sul medico non ricade l’obbligo di aiutare il paziente a suicidarsi, questi non è titolare di alcun diritto, bensì, al più, della libertà di esprimere una richiesta di essere aiutato a suicidarsi. Se la libertà del paziente si incontra con quella del medico di accettare tale richiesta, ciò non è ora più punibile. Ma questo non rende il suicidio (medicalmente assistito) un diritto.
2. Con le menzionate decisioni, il Giudice delle leggi ha inaugurato una innovativa tecnica decisoria. A suo parere, si tratta di un modus decidendi ispirato alla leale collaborazione istituzionale, capace di valorizzare la discrezionalità legislativa o, al contrario, di ridurre lo spazio di azione delle Camere in questioni eticamente (e politicamente) sensibili?
Prof.Stefano Agosta
Non poche volte, com’è noto, le pronunzie sui diritti (specie, se non principalmente, su quelli di natura personalissima, come nel nostro caso) finiscono anche profondamente per incidere sul piano dei poteri e, in particolar modo, sulle tecniche decisorie in concreto adottate (così come, pure, viceversa) [sul cruciale punto ha molte volte insistito, ad esempio, A. RUGGERI, ex plurimis nei suoi “Dialogo” tra le Corti e tecniche decisorie, a tutela dei diritti fondamentali, in www.diritticomparati.it (19 novembre 2013); Eguaglianza, solidarietà e tecniche decisorie delle più salienti esperienze della giustizia costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2017, 1 ss.; Tutela dei diritti fondamentali e ruolo “a fisarmonica” dei giudici, dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale, in Dir. fondam., n. 2/2018, 1 ss.].
A tale generale considerazione non fa eccezione – e anzi, a ragion veduta, può essere preso ad emblematica testimonianza di essa – proprio il c.d. caso Cappato [e – in termini parzialmente sovrapponibili – la più recente questione di legittimità costituzionale, rispettivamente, degli artt. 595, comma 3, cod. pen. (Diffamazione) e 13 l. n. 47/1948, Disposizioni sulla stampa, di cui all’ord. n. 132/2020]. È anche in quest’ultima occasione, del resto, che la Consulta non ha mancato di offrire ulteriore efficace prova, nel metodo, della «sostanziale fungibilità delle tecniche decisorie» [così, nuovamente, A. RUGGERI, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in www.giurcost.org (20 novembre 2018), 571] allo scopo, neanche poi tanto velatamente perseguito, di cogliere il risultato di una maggiore flessibilizzazione della disciplina del processo costituzionale; così come, nel merito, di volere audacemente intraprendere – e battere fino in fondo ai suoi ultimi esiti – l’intermedio, innovativo, sentiero della pronunzia c.d. “ad incostituzionalità differita”: di una peculiare decisione, vale a dire, collocabile tra quel quid pluris rappresentato dal tradizionale strumento dell’accoglimento mediante additiva di principio e quel quid minus costituito, invece, dall’altrettanto diffuso ricorso all’inammissibilità per rispetto della discrezionalità del legislatore (di norma affiancata pure da un monito rivolto al Parlamento nel senso di risolversi al più presto a provvedere).
Quasi inutile dare, a questo punto, conto – se non, appunto, di sfuggita – del fitto polverone di critiche che una pronunzia così confezionata (di ordinanza, nella forma, e, ciononostante, di sentenza di accoglimento, nella sostanza) ha finito, nell’immediato così come anche nel prosieguo, di sollevare. Se è difatti in astratto che dall’introduzione di questo nuovo genere di decisione il primato stesso della Costituzione potrebbe giovarsi – e, anche per tale via, riaffermarsi – è tuttavia sul diverso piano del vincolo in concreto discendente da tale pronunzia che sono sembrate emergere le maggiori perplessità: in altri termini quindi, per un verso, con riferimento alla persistenza dell’obbligo o meno di applicazione della normativa indubbiata da parte del giudice a quo, degli altri giudici diversi dal primo, così come, pure, di ogni altro operatore giuridico ovvero della Pubblica amministrazione [la previsione temporaneamente salvata pur sempre reclamando, ad ogni buon conto, «l’applicazione che compete alle norme che continuano a comporre l’ordinamento, e che non ne siano ancora state espunte formalmente»: in tal senso, M. BIGNAMI, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in www.questionegiustizia.it (19 novembre 2018)]; per un altro, nei confronti dello stesso Tribunale costituzionale (se vincolato o meno al proprio, così ingombrante, decisum, qualora ad esempio ne sia, nel frattempo, mutata la composizione); per un altro ancora, infine, avuto riguardo allo stesso legislatore, se sol si consideri la non insolita – e anzi, spesso, fisiologica – vocazione degli stessi decisa costituzionali ad innescare (piuttosto che sopire ovvero immobilizzare) i processi di produzione normativa.
Dott.ssa Lucia Busatta
Non ho una risposta univoca a questa domanda.
Da un lato, infatti, ho trovato convincenti le motivazioni con le quali la Corte, nell’ordinanza 207, spiega perché ha scelto di escludere la strada “tradizionale” del rigetto (o dell’inammissibilità, che forse sarebbe stata la via più semplice per il giudice costituzionale e più facile da adattare alle maglie dell’ordinanza di rimessione), cui aggiungere un monito al legislatore. Chiudere il giudizio costituzionale, in quel caso specifico, avrebbe però aperto più problemi rispetto a quelli risolti. Altre persone, nella medesima posizione dell’imputato Cappato, sarebbero infatti andate incontro a un processo penale. Altri malati, nelle condizioni di Antoniani, si sarebbero trovati ancora nell’impossibilità di dare seguito alle proprie volontà. Quasi di sicuro, una questione simile sarebbe in breve tornata al Palazzo della Consulta.
La Corte dimostra una sensibilità particolare per le vicende umane che si celano dietro la questione ad essa rimessa e per l’eventualità – per nulla peregrina – che si possano ripresentare situazioni analoghe. Del resto, dinamiche simili possono essere osservate anche in altri ordinamenti (è di poche settimane fa, ad esempio, una sentenza del Tribunale costituzionale austriaco, G-139/2019 dell’11 dicembre 2020, mentre il Bundesverfassungsgericht tedesco si è pronunciato il 26 febbraio 2020).
Su questa linea, non posso dire di trovare eccessivamente invasive le indicazioni per il legislatore contenute nella prima ordinanza. Mi sembra che la Corte abbia cercato di declinare rispetto alle specificità del caso in discussione nel processo a quo il monito rivolto al legislatore.
Dall’altro lato, però, qualcosa di poco convincente, a mio avviso, rimane. Il problema non sta nei contenuti dell’ordinanza n. 207, ma in qualcosa che viene prima (e, a dirla tutta) anche in ciò che è venuto poi, ossia la definizione della “procedura” stabilità nella sentenza n. 242.
Sospendere il giudizio per undici mesi per consentire al Parlamento «ogni opportuna riflessione e iniziativa» può rispecchiare effettivamente una visione attuale della leale collaborazione istituzionale, nella quale il giudice delle leggi è calato anche nella concretezza delle situazioni individuali. Prendere tale decisione, però, significa aver già meditato sulle sue implicazioni e sul risultato finale, dal punto di vista legislativo (ossia, sull’eventualità in cui il legislatore rimanga inerte). La prospettiva che la Corte adotta per decidere come pronunciarsi, in altre parole, si pone non tanto – come invece le motivazioni dell’ordinanza sembrano far intendere – nella (sola) dimensione del caso concreto da cui la questione di legittimità costituzionale prende origine, ma in un’ottica legislativa propriamente detta. D’altro canto, in considerazione della velocità dei rivolgimenti tecnologici e valoriali che caratterizzano la società contemporanea, non si può pensare, per tematiche tanto delicate, di inaugurare un’annosa stagione di pronunce dai moniti progressivamente più severi rivolti a un legislatore tradizionalmente lento sulle questioni c.d. eticamente sensibili. La giurisprudenza stessa della Corte, però ci insegna che è possibile anche scegliere subito la via dell’accoglimento della questione, imponendo, di fatto, l’intervento legislativo necessario a chiarire come realizzare quanto affermato dal giudice delle leggi (mi sto riferendo alla sentenza n. 27 del 20175, con cui la Corte si pronunciò per la prima volta sul reato di aborto, dichiarandolo in parte incostituzionale e cui, come è noto, è seguita la legge n. 194 del 1978).
Ciò che, forse, non è molto aderente ad una leale collaborazione istituzionale pienamente intesa sta nell’eccesso di zelo nel definire come procedere in attesa dell’agognato intervento legislativo (v. sent. n. 242). Questo, a mio avviso, tradisce un’eccessiva sfiducia nei confronti del legislatore e sembra lasciar trasparire un intento dai tratti forse pedagogici in cui il giudice delle leggi non dovrebbe incappare.
Sulle implicazioni future di tale innovativa tecnica decisoria, poi, tutto è ancora da scrivere. La Corte ha già sperimentato nuovamente la possibilità di rinviare di un anno la propria decisione in attesa di un’opportuna iniziativa parlamentare (cfr. ordinanza n. 132 del 2020, in tema di libertà di stampa): in questo caso i giochi sono ancora aperti e si vedrà nei prossimi mesi quale seguito avrà la scelta della Corte e se tale tecnica decisoria avrà successo.
Prof. Carlo Casonato
In presenza di questioni eticamente sensibili, la Corte mi sembra abbia sempre agito con la massima cautela adottando pronunce (sentenze o ordinanze) di inammissibilità. Si pensi, fra le altre, alla sentenza n. 84 del 2016 in cui, pur di non negare la “dignità antropologica” che alcuni attribuiscono all’embrione fin dai suoi primi stadi di sviluppo, ne ha negato l’impiego a fini di ricerca, anche se l’alternativa, trattandosi di embrioni non impiantabili, è quella di essere mantenuti in uno stato di crioconservazione indefinitamente. Il fatto è che moltissime questioni eticamente sensibili sono anche costituzionalmente inquadrabili, e quindi non possono sfuggire all’esame da parte della Corte, a meno di non riconoscere una “zona franca” dell’oggetto all’attenzione della Corte ovvero di non produrre una “de-costituzionalizzazione” dei parametri di riferimento.
In questi casi, la tecnica adottata dalla Corte mi sembra costituire un apprezzabile bilanciamento fra le esigenze di tenuta del sistema costituzionale, che non può sopportare riduzioni del controllo della Corte oltre la sfera della discrezionalità politica, e la fisiologia che vorrebbe che fosse il Parlamento ad adottare discipline generali e comprensive su questioni che coinvolgono il diritto e i diritti costituzionali. L’alternativa ad una decisione di “illegittimità differita”, del resto, sarebbe consistita in una pronuncia di rigetto con monito, che non avrebbe garantito in alcun modo il ripristino del vulnus costituzionale, o da una decisione di accoglimento di principio, che avrebbe lasciato margini di incertezza ancora maggiori.
Prof. Giacomo D’Amico
Per tentare di dare una risposta a questa domanda occorre chiarire due profili preliminari: innanzitutto, cosa si intende per «leale collaborazione istituzionale» e quanto questa si differenzia da un atteggiamento di mera deferenza nei confronti del legislatore? In secondo luogo, quali tecniche decisorie avrebbe potuto adottare la Corte in alternativa a quella poi fatta propria?
Quanto al primo interrogativo, non vi è dubbio che la risposta sia condizionata dal modo di concepire i rapporti tra Giudice delle leggi e Legislatore, di tal che, per quella parte della dottrina particolarmente critica nei confronti degli atteggiamenti “suprematisti” della Corte (su tutti, A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss.), la leale collaborazione non può che coincidere con un atteggiamento di massima deferenza nei confronti dell’organo deputato all’approvazione delle leggi. Rispetto a questa posizione, degna di massima considerazione e comprensibile (almeno per alcuni versi), è lecito però ritenere che l’inerzia del legislatore su tante questioni e la possibilità per quest’ultimo di intervenire in qualsiasi tempo e senza alcuna preclusione consentano al Giudice delle leggi un “margine di movimento” utile esclusivamente a garantire un’effettiva tutela di alcuni diritti fondamentali che, senza l’intervento della Corte, potrebbe essere definitivamente compromessa (ancora di recente, G. Amato nel webinar su Rappresentanza, populismo, democrazia, la cui registrazione è disponibile in https://fb.watch/41I49EtbFV/). Da questo punto di vista, il caso Cappato è particolarmente emblematico: una pronuncia di inammissibilità per rispetto della discrezionalità del legislatore avrebbe infatti portato alla condanna dell’imputato, soluzione, questa, che francamente sarebbe risultata inaccettabile agli occhi di molti (se non di tutti).
Quanto al secondo interrogativo, si è già fatto riferimento a una possibile decisione di inammissibilità, con le conseguenze che da essa sarebbero derivate. Parimenti “pesante”, ma per ragioni opposte, sarebbe risultato l’accoglimento secco delle questioni già a seguito dell’udienza pubblica svoltasi a ottobre 2018. Altre soluzioni intermedie, pur apprezzabili teoricamente, come ad es. un’eventuale additiva di principio, avrebbero fatto ricadere sulle spalle del giudice comune il peso di una decisione formalmente di accoglimento ma di problematica attuazione nella sostanza. Infatti, la naturale genericità dell’addizione operata dalla Corte in questi casi (appunto, di un principio) avrebbe determinato un’estrema difficoltà a rinvenire nella sentenza l’indicazione di un percorso concreto da seguire per giungere all’assoluzione dell’imputato.
Ed allora, ben venga una nuova tecnica decisoria!
In particolare, l’aver differito di un anno la decisione delle questioni di legittimità costituzionale mediante l’ord. n. 207 del 2018 va oltre il mero rinvio di una questione cui talvolta la Corte ha fatto ricorso per consentire l’intervento del legislatore (il riferimento è al rinvio dell’udienza di discussione della questione concernente il sistema elettorale c.d. Italicum). L’ord. n. 207 è tale, infatti, solo per il nomen utilizzato ma già dall’articolazione della motivazione (suddivisa in Ritenuto in fatto e Considerato in diritto) e soprattutto dalla pregnanza delle argomentazioni svolte si deduce la sua sostanza di sentenza.
Non a caso l’allora Presidente della Corte Giorgio Lattanzi ha parlato di un’«incostituzionalità prospettata», aggiungendo che «la Corte ha inteso evidentemente riconoscere il primato delle Camere nel definire dettagliatamente la regolamentazione della fattispecie in questione, perciò confido fortemente che il Parlamento dia seguito a questa nuova forma di collaborazione, nel processo di attuazione della Costituzione, e non perda l’occasione di esercitare lo spazio di sovranità che gli compete. Il successo della tecnica dell’ordinanza di “incostituzionalità prospettata” sarebbe anzitutto un successo per la funzione rappresentativa del legislatore, che andrebbe perduto se tale funzione non fosse in concreto esercitata» (Relazione in occasione della Riunione straordinaria del 21 marzo 2019, in www.cortecostituzionale.it, 12-13).
Sebbene, com’è noto, questa tecnica decisoria non abbia fin qui prodotto gli effetti sperati (né nel caso Cappato né nell’altra ipotesi in cui si è ad essa fatto ricorso, ord. n. 132/2020), stante la perdurante inerzia del legislatore, credo che le parole del Presidente Lattanzi e, prima ancora, la soluzione adottata dalla Corte siano del tutto condivisibili. Ciò nondimeno, possono immaginarsi correttivi, come ad es. quello di concedere un rinvio più lungo, specie là dove la decisione della Corte dovesse intervenire a ridosso dello scioglimento delle Camere; peraltro, la previsione di un rinvio più lungo potrebbe costituire un’alternativa preferibile rispetto a un’eventuale pronunzia della Corte che manipoli gli effetti temporali di una decisione di accoglimento, posticipandone il momento di produzione.
Si potrebbe ancora immaginare una ordinanza di rinvio (della causa ad altra udienza) un po’ più “contenuta” nella trattazione dei profili di merito rispetto a quella adottata nel caso Cappato, proprio al fine di non limitare eccessivamente i margini di manovra del legislatore e della stessa Corte. In ogni caso, però, credo che la strada tracciata dall’ord. n. 207/2018 costituisca uno strumento utile per garantire la leale collaborazione istituzionale.
Prof.ssa Chiara Tripodina
La Corte costituzionale, con la “doppia pronuncia” sul caso Cappato, ha in effetti inaugurato una nuova tecnica decisoria, data da un’“ordinanza di incostituzionalità prospettata” [Lattanzi], a cui segue una sentenza di accoglimento additiva di regola.
In particolare, nell’ord. 207/2018, la Corte, benché riscontrasse un vulnus costituzionale nel divieto assoluto di aiuto al suicidio ex dell’art. 580 c.p., non lo dichiarava nel dispositivo: riconoscendo che la questione di legittimità costituzionale si collocava all’«incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone[va …] scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere», i giudici costituzionali sospendevano il loro giudizio, dando al Parlamento undici mesi di tempo per «assumere le necessarie decisioni». Tali decisioni erano rimesse «in linea di principio alla sua discrezionalità»; ma, in linea di fatto, avrebbero dovuto essere adottate «nei limiti indicati dalla presente pronuncia» e «in conformità alle segnalate esigenze di tutela». Limite ed esigenze dettati in modo così stringente da fare pensare a un’“ordinanza-delega”, con tanto di indicazione di oggetto, principi, criteri direttivi e termine.
Che in undici mesi il Parlamento italiano - in quel momento storico e con quella maggioranza – potesse giungere a un accordo per un’apertura all’aiuto al suicidio nel senso indicato dalla Corte era assai improbabile. Così è infatti stato: non essendo sopravvenuta «nessuna normativa in materia», la Corte, ha adottato la sent. 241/2019.
Unico freno alla Corte costituzionale all’adozione di una sentenza additiva di regola avrebbe potuto venire – e in passato veniva – dal fatto che per disciplinare la materia fossero possibili plurime «risposte differenziate» e non vi fosse alcun contenuto che discendesse “a rime obbligate” dalla Costituzione. Ma la Corte ha reputato superato quel suo storico self-restraint: ciò «non è di ostacolo». Ove «i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta – come nel caso di specie – in una menomata protezione di diritti fondamentali», la Corte «può e deve farsi carico dell’esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento “secco” della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento».
Nel caso di specie, invero, non vi era un “vuoto di disciplina”, giacché il legislatore si era premurato di colmarlo con l. 219/2017, prevedendo per i pazienti nelle condizioni indicate dalla Corte il diritto alla rinuncia o alla sospensione dei trattamenti terapeutici vitali e la possibilità della sedazione profonda e continua e dichiarando al contempo inesigibili e irricevibili i «trattamenti sanitari contrari alle norme di legge», quali l’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente.
Alla luce di ciò, benché la Corte costituzionale cerchi di collocare il suo innovativo modus procedendi in un contesto «collaborativo e dialogico fra Corte e Parlamento», a me non pare si possa parlare di “leale collaborazione istituzionale”: una questione così irriducibilmente divisiva a livello etico, giuridico, medico, politico e sociale, come superare il tabù del non uccidere e rendere non punibile una seppur circoscritta area di aiuto al suicidio, rispetto alla quale la Costituzione italiana non dice, meno che mai “a rime obbligate”, non avrebbe dovuto essere risolta dalla Corte costituzionale attraverso una scelta politica – quale inevitabilmente è una scelta che si assume in assenza di vincoli costituzionali - ma dal Parlamento, unico organo al quale la Costituzione riconosce tale potere, perché rappresentativo dei cittadini e dell’evoluzione della loro coscienza sociale. È la Corte Costituzionale stessa, per altro, ad affermarlo nell’ordinanza 207/2018: la questione «reclama una valutazione approfondita da parte del legislatore» e «richiede un approccio prudente delle corti», il cui «compito naturale» è quello «di verificare la compatibilità di scelte già compiute dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità politica», pur «con i limiti dettati dalle esigenze di rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali delle persone coinvolte». Salvo poi di fatto discostarsi da questo quadro teorico.
E non vale dire che l’ordinanza del 2018 aveva proprio l’obiettivo di far decidere il Parlamento, rimasto colpevolmente inerte: in primo luogo, perché l’ordinanza conteneva già una decisione politica, poi confermata dalla sentenza, e si chiedeva al Parlamento di ratificarla, o al più di dettagliarla; e poi perché, come detto, una scelta sul fine-vita il legislatore l’aveva da poco compiuta con la legge del 2017. Neppure vale dire che era in questione un “diritto fondamentale” che non poteva essere lasciato privo di protezione, perché, in realtà neppure la Corte osa poi chiamare l’aiuto al suicidio medicalmente assistito “diritto” né apprestare le necessarie tutele che un diritto fondamentale esigerebbe a garanzia della sua effettività.
3. A pochi anni dall’approvazione della legge n. 219 del 2017, quali margini ha il legislatore rispetto alle coordinate fissate dal Giudice delle leggi e quali nodi è chiamato a sciogliere?
Prof. Stefano Agosta
Già ad una superficiale lettura, non pochi né secondari appaiono invero i semi variamente sparsi dalla giurisprudenza costituzionale in esame che il legislatore potrebbe decidere di far germogliare, fino a mettere utilmente a frutto, per il futuro.
In disparte l’ovvia considerazione per cui quelle fatte oggetto di censura non siano state norme qualsiasi bensì incriminatrici penali (con tutto quello che ne consegue in termini di variabile ampiezza del sindacato di legittimità costituzionale) e che, lungi dall’essere aggiornate alla luce del più recente progresso tecnico-scientifico, esse apparissero già assai usurate ed obsolescenti – e, in quanto tali, bisognose di un dibattito pubblico ed un successivo intervento legislativo che potesse così ri-nobilitare lo stesso Parlamento (il quale avrebbe potuto, ad esempio, non limitarsi ad intervenire sul solo aiuto al suicidio ma spingersi a ripensare l’intero ambito del fine-vita) – è pur sempre al legislatore che incombe la decisione ultima sul se adoperarsi e sul come farlo: in astratto anche decidere di non decidere, come si usa dire, rappresentando un naturale esercizio di discrezionalità legislativa (oltre che dimostrarsi in linea con talune indicazioni deontologiche e legislative in tema di responsabilità medica).
In concreto tuttavia – nonostante l’auspicio che il mantenimento di questo contegno normativo in materia possa in qualche misura rafforzare la «‘sovranità’ del sofferente» (così, S. PRISCO, Il caso Cappato tra Corte Costituzionale, Parlamento e dibattito pubblico. Un breve appunto per una discussione da avviare, in Biolaw Journal, n. 3/2018, 169) – il rischio è piuttosto che un legislatore non legiferante finisca solo per consolidare il ruolo di supplenza dei giudici comuni, «sollecitati a produrre le regole richieste dal principio (…) somministrato dalla Corte» (in tal senso, A. RUGGERI, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale, cit., 573). Qualora dovesse invece risolversi a colmare quel vuoto di tutela (già ex se costituzionalmente dannoso) conseguente all’incostituzionalità dell’art. 580 cit., sempre al Parlamento spetterebbe, poi, di definire quale sia l’ordine di priorità dei lavori da cui cominciare: se, cioè, dare finalmente avvio ad un vero e proprio processo riformatore dell’intero settore – a partire, ad esempio, dalla mancata (o largamente incompleta…) attuazione della l. n. 38/2010, Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore – ovvero semplicemente accontentarsi di un circoscritto atto più o meno formalmente ossequioso delle linee-guida tracciate dalla Consulta intorno ai «casi, i presupposti e le modalità di accertamento della validità della richiesta di aiuto al suicidio» [così, U. ADAMO, In tema di aiuto al suicidio la Corte intende favorire l’abbrivio di un dibattito parlamentare, in www.diritticomparati.it (23 novembre 2018), 3] (non troppo dissimilmente dalla pregressa esperienza dell’interruzione volontaria della gravidanza, ad esempio, introducendo una sorta di “scriminante procedurale”, il rispetto delle cui condizioni delimiterebbe l’ambito del penalmente consentito).
Dott.ssa Lucia Busatta
A mio avviso sarà necessaria una legge ad hoc, autonoma rispetto alla legge n. 219 del 2017.
La legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, infatti, è stata pensata come una legge di carattere generale, volta a regolare molteplici profili del consenso all’atto medico. Diversamente da quanto comunemente molti credono, la legge n. 219 del 2017 non si occupa solo di fine-vita. Certo, essa prende in considerazione anche i casi e le circostanze nelle quali la persona non desideri intraprendere un determinato trattamento oppure lo voglia rifiutare e, necessariamente, disciplina tutte le relative conseguenze, inclusa l’ipotesi in cui dal rifiuto possa derivare la morte della persona. Il consenso viene, poi, declinato anche nella dimensione temporale, ossia per un (più o meno) eventuale momento futuro in cui la persona, per un evento accidentale o a causa di una malattia già nota, perda la capacità di manifestare validamente e contestualmente la propria volontà.
Il perno della legge n. 219 è, dunque, il consenso, cardine della relazione di cura che si costruisce tra medico e paziente.
Differente è, invece, la natura giuridica dell’assistenza medica al morire. Si tratta, infatti, di una particolare tipologia di prestazione che, in linea con alcuni profili enucleati dalla Corte costituzionale stessa, dovrà essere ancorata ad un forte ruolo di controllo sia sulle condizioni di ammissione che sulle modalità di attuazione alle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale.
Al legislatore restano molti nodi da sciogliere, a cominciare dalla decisione o meno di definire l’assistenza medica a morire come trattamento sanitario, in carico al Sistema sanitario nazionale, in via esclusiva o meno. Questa scelta necessariamente preliminare condizionerà, di conseguenza, l’intero impianto di una futura legge. A me pare, però, che questo sia il contenuto costituzionalmente vincolato che la Corte attribuisce ad una necessaria disciplina normativa della materia. Il giudice costituzionale, infatti, sottolinea ripetutamente che l’assistenza medica a morire può essere richiesta solo da una persona che, rientrando nelle condizioni cliniche e soggettive già richiamate, potrebbe esercitare il proprio diritto al rifiuto secondo quanto previsto dalla legge n. 219 del 2017. A motivo delle condizioni in cui la persona versa, però, un mero rifiuto non sarebbe sufficiente a realizzare l’autodeterminazione terapeutica e si rende, invece, necessario un ulteriore intervento esterno che non può che qualificarsi come intervento di carattere medico.
Questa strada, a mio avviso, è l’unica che può aiutare il legislatore a costruire una regolazione ragionevole e costituzionalmente rispettosa di tutti i molteplici valori coinvolti. Non è un percorso, però, scevro da ostacoli: come si è avuto modo di sostenere in altra sede, infatti, anche la medicina è in qualche modo costretta a rivedere il proprio statuto ontologico, dando maggiore rilievo al progetto di vita della persona e non solo al dato biologico.
Gli altri nodi che il legislatore dovrà sciogliere, poi, seguono tutti a grappolo il grosso problema definitorio di cui si è già detto e sono stati in larga parte già individuati dal giudice delle leggi. Il primo di essi consiste nello stabilire se riservare in via esclusiva o meno al sistema sanitario tali interventi, anche se ad avviso di chi scrive, così come con l’interruzione volontaria di gravidanza, deve essere preservato il ruolo del servizio pubblico per salvaguardare l’eguaglianza e l’universalità nell’accesso ad un trattamento per propria natura delicatissimo. Tutto il procedimento da seguire, poi, si presenta come un fitto groviglio, con interrogativi non di poco conto: a chi affidare l’incarico di verificare la sussistenza dei requisiti; se definirli diversamente rispetto a quelli indicati dalla Corte (il caso Trentini, da questo punto di vista, è significativo); quanti medici coinvolgere; se e come disciplinare l’obiezione di coscienza; se prevedere il ruolo obbligatorio o facoltativo di organismi collegiali, quali i comitati etici, e, nel caso, entro quali limiti; se disciplinare una procedura d’urgenza, e così via.
Un lavoro scritto da un gruppo interdisciplinare di medici e giuristi, pubblicato pochi mesi prima della sentenza n. 242 cerca di affrontare in modo bilanciato alcuni di questi interrogativi.
Prof. Carlo Casonato
In termini generali, il mio giudizio sulla legge n. 219 è certamente positivo. Ciò non toglie che ci siano alcuni aspetti che la normativa non ha previsto, e che andrebbero aggiunti; e altri che, invece, sono stati disciplinati ma in termini migliorabili. Fra le prime, va detto che la legge si occupa del diritto di esprimere le proprie volontà anticipate con strumenti molto efficaci, come le DAT (art. 4 ) e, ancor di più, la pianificazione condivisa delle cure (art. 5). La legge tace, però, sulla disciplina relativa alla prosecuzione dei trattamenti per malati che siano caduti in uno stato di incapacità senza aver lasciato alcuna disposizione al riguardo. Su questo punto, la legge potrebbe essere integrata, ad esempio, con quella che in Francia è definita la procedura collegiale, che precisa il percorso da intraprendere per ricostruire la volontà dell’incapace o per considerare la futilità o meno (ostinazione irragionevole) dei trattamenti.
Fra le parti che potrebbero essere migliorate, a mio giudizio, stanno la disciplina delle volontà dei minori, che a differenza di altri Stati europei è in Italia ancora solamente presa in considerazione, rimanendo però il consenso informato “espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale”, oltre che un concetto di capacità tuttora ancorato a categorie giuridiche fisse e poco adattabili alle mille sfumature che la realtà delle malattie neurodegenerative o delle demenze, ad esempio, presenta. La clausola di invarianza finanziaria (art. 7) è inoltre del tutto inadeguata, attesi, ad esempio, i compiti di formazione dei professionisti e di sensibilizzazione della società civile che la legge stessa presuppone.
Per quanto più da vicino riguarda le vicende del fine-vita, e la sentenza n. 242 in particolare, ritengo che il Parlamento dovrebbe intervenire ad eliminare il requisito della presenza dei trattamenti di sostegno vitale. Tale condizione è una conseguenza della logica adottata dalla Corte che, più che basarsi sul diritto all’autodeterminazione individuale, ha preferito poggiarsi sul principio di eguaglianza e, in particolare, sull’equiparazione fra i malati che potrebbero chiedere l’interruzione delle cure e quelli per cui tale interruzione provocherebbe, come nel caso di Fabiano Antoniani, una agonia considerata contraria alla propria dignità. D’altro canto, però, imporre tale condizione produce risultati paradossali. Alcuni malati, ad esempio, potrebbero non voler essere ventilati meccanicamente o idratati artificialmente, e richiedere l’aiuto nel porre fine alla propria vita proprio per evitare tali interventi. Costringerli a subire questi trattamenti al solo scopo di rientrare nelle condizioni per essere assistiti nel suicidio sarebbe irragionevole; e potrebbe rivelarsi incostituzionale in quanto lesivo del «rispetto della persona umana» che rinforza la riserva di legge dell’art. 32, secondo comma, sui trattamenti sanitari obbligatori. Le condizioni cliniche di altri malati, inoltre, potrebbero non essere compatibili con una tracheostomia o una PEG, ad esempio, privandoli, così, dell’assistenza richiesta per motivi del tutto casuali. Procedendo nel solco della decisione adottata per il caso di Davide Trentini dalla Corte d’assise di Massa Carrara (27 luglio 2020), e andando oltre, sarebbe quindi utile – ritengo – sganciarsi da tale requisito, il quale, non a caso, non appare all’interno dell’ormai ampio panorama offerto dal diritto comparato.
Un ultimo elemento critico della sentenza n. 242 che ritengo debba essere precisato dal Parlamento – che auspico intervenga in tempi non lunghissimi – si riferisce all’intervento contestuale delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale e di un Comitato etico.
Prof. Giacomo D’Amico
I margini di manovra del legislatore sono, per definizione, ampi e lo sono in modo particolare nel caso di specie. La legge n. 219 del 2017, che pure costituisce una straordinaria conquista di civiltà, è pur sempre limitata al consenso informato e alle disposizioni anticipate di trattamento. Sul primo versante, la legge afferma «che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge» (art. 1). Sul secondo fronte, si stabilisce che «[o]gni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari» (art. 4).
Al di fuori dei casi anzidetti e in assenza dei presupposti sopra indicati esiste a tutt’oggi un vuoto normativo. Al riguardo, la stessa Corte nella sent. n. 242 del 2019 precisa che «[l]a declaratoria di incostituzionalità attiene […] in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge [n. 219 del 2017]» (punto 5 cons. dir.).
In particolare, è evidente che manca nel quadro normativo una disciplina relativa ai comportamenti attivi (diversi, quindi, dalla mera rinuncia a trattamenti vitali) volti a porre termine alla propria esistenza in condizioni di particolare sofferenza, come quelle di Davide Trentini. In questa prospettiva le coordinate fissate dalla Corte costituzionale nelle due decisioni sul caso Cappato costituiscono un punto di partenza, non un punto di arrivo. Restano infatti da definire le condizioni generali per porre fine alla propria esistenza, valevoli in astratto e non ritagliate sui singoli casi. Sia chiaro, non vi è una soluzione obbligata ma non si può negare che la strada tracciata dalla Corte abbia definito i confini di una decisione legislativa conforme ai principi costituzionali dell’autodeterminazione della persona, della dignità dell’individuo, ma anche del sostegno dei soggetti particolarmente vulnerabili. Muovendo da queste premesse i nodi principali da sciogliere sono – come dicevo sopra – quelli della definizione delle condizioni in presenza delle quali il singolo individuo può essere “sostenuto” e “accompagnato” nella sua scelta di porre fine alla propria esistenza.
Su un piano diverso, resta poi il grande problema dell’effettività dell’offerta di cure palliative e di terapia del dolore che, se pure regolato a livello legislativo, sconta «molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie» (così la Corte nella sent. n. 242 riprendendo il parere del 18 luglio 2019 «Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito» del Comitato nazionale per la bioetica). Anche su questo punto, forse, un intervento del legislatore statale, oltre che un’iniziativa coordinata in sede di Conferenza Stato-Regioni, potrebbe contribuire ad assicurare quel “sostegno” di cui sopra si è detto.
Prof.ssa Chiara Tripodina
Nel dettare la disciplina del suicidio medicalmente assistito, la Corte dichiara più volte che essa è valida «nelle more dell’intervento del legislatore» [sent. 242/2019]. Quella della Corte è dunque sì un’opera di supplenza, ma sub condicione; una sorta di sentenze self executing, «fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento».
La Corte ha tuttavia posto dei paletti stringenti, rispetto ai quali il Parlamento non avrebbe margini di discostamento in caso di intervento, a meno di non volere innescare un conflitto istituzionale: nelle ultime parole della sent. del 2019, la Corte, se da un lato ribadisce «l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore», dall’altro conclude «conformemente ai principi precedentemente enunciati».
I paletti sono, in primis, il riconoscimento della libertà di autodeterminare la propria morte con suicidio medicalmente assistito per le persone si trovino nelle condizioni delineata dalla Corte.
«Dalle coordinate del sistema vigente» - e in particolare dagli artt. 1 e 2 della l. 219/2017 - la Corte ricava, poi, le «modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa chiedere aiuto [al suicidio]»: la necessità che la persona sia «capace di agire»; che la sua volontà sia acquisita «nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente» e documentata «in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare»; che sia sempre assicurata «la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà». Sempre dalla legge si ricava che il medico deve prospettare al paziente «le conseguenze» della sua decisione «e le possibili alternative», tra le quali il coinvolgimento in un percorso di cure palliative, giacché, dice la Corte, proprio «l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta […] a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita».
Alle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale la Corte riserva «la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio» e la verifica delle «relative modalità di esecuzione», che dovranno essere «tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze». A un organo collegiale terzo - che nelle more dell’intervento del legislatore la Corte individua nei comitati etici territorialmente competenti – è riservata la «tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità».
Infine la Corte, discostandosi in ciò dalla legge 219/2017, riconosce al medico l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza.
Oltre questi paletti, restano comunque margini di discrezionalità al legislatore: se difficilmente egli potrebbe tornare indietro rispetto all’apertura tracciata dalla Corte, pena un conflitto istituzionale, potrebbe però andare avanti nel solco già tracciato.
Potrebbe, ad esempio, decidere di riconoscere la libertà (o questa volta il diritto) di determinare il proprio modus moriendi anche a persone che si trovino in condizioni diverse da quelle individuate dalla Corte costituzionale: anche alle persone che, pur affette da patologia irreversibile, in preda a sofferenze intollerabili, capaci di prendere decisioni libere e consapevoli, non vedano tuttavia la loro vita dipendere da trattamenti di sostegno vitale; oppure anche alle persone che, versando in condizioni tali per cui è loro precluso anche quel barlume di autosufficienza che consentirebbe di darsi la morte premendo con le labbra lo stantuffo di una siringa (i locked-in), chiedono non di essere aiutate nel suicidio, ma di essere direttamente uccise (omicidio del consenziente, ex art. 579 c.p.). Come la Costituzione non impone il riconoscimento dell’aiuto al suicidio o dell’omicidio del consenziente, infatti, neppure lo vieta. Semplicemente non dice.
Il punto più estremo potrebbe essere il riconoscimento dell’esistenza di un diritto universale a morire nel modo più corrispondente alla propria visione di dignità nel morire. Una volta fatto saltare il tabù del “non aiutare a morire” e in definitiva del “non uccidere” in ragione dei parametri dell’autodeterminazione, della dignità umana e dell’uguaglianza, infatti, tutti gli argini volti a strettamente circoscrivere l’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio potrebbero poi saltare.
Resterebbe, in ogni caso, il vincolo costituzionale dato dai principi di solidarietà e autodeterminazione, che impone che sia garantita la certezza che la scelta della morte sia compiuta da persone autenticamente libere nella volontà e coscienza, e non costrette dalla percezione che la morte è l’unica via d’uscita a una situazione di sofferenza fisica e morale, alla quale la Repubblica (ciascuno incluso) non sa dare alternative dignitose.
4. Quale ruolo sono chiamati a svolgere i comitati etici, anche rispetto alle ipotesi che giustificano il ricorso all’aiuto al suicidio?
Prof. Stefano Agosta
Premessa la peculiare parabola cui sembra andato incontro l’innesto di un organo di consulenza indipendente (solo eventualmente previsto nell’ord. n. 207 cit. per poi essere ritenuto indispensabile nella successiva sent. n. 242 cit.) all’interno della procedura di suicidio medicalmente assistito, affatto scontato invero è che esso debba poi finire interamente per coincidere col comitato etico competente per territorio. Qualora, poi, la scelta dovesse ricadere proprio su quest’ultimo, ad ogni modo, di perplessità non ne mancherebbero. E, ciò, non tanto – o non solo – sotto il profilo dell’attitudine in astratto di tale organo «a garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità» [così, sent. n. 242 cit. (punto 5 cons. dir., dodicesimo cpv)] quanto, piuttosto, su quello della sua idoneità in concreto.
Se, difatti, può seriamente non discutersi – per così dire, in vitro – l’importanza del parere reso da quest’organo intorno ai presupposti di liceità dell’aiuto al suicidio assistito così come alle sue modalità esecutive (seppure originariamente immaginato per la sperimentazione di tipo farmacologico e clinico e solo successivamente integrato con funzioni di consulenza squisitamente etica), non altrettanto potrebbe dirsi della sua effettiva capacità nel vivo dell’esperienza: vale a dire una volta che si siano attentamente vagliate una serie di non trascurabili variabili spazianti dalla vincolatività o meno del parere eventualmente reso alla potenziale diversità di esiti cui potrebbero approdare comitati tendenzialmente frazionati sul territorio, passando attraverso la composizione assai eterogenea che tradizionalmente connota tale comitato (in quanto tale, non propriamente calibrata sulla valutazione di condizioni ex se più clinico-mediche che non semplicemente etiche).
Dott.ssa Lucia Busatta
Il ruolo dei comitati etici, come enucleato nella sentenza n. 242, è – a mio avviso – il punto più critico dell’intera vicenda. La Corte li ha indicati quali organismi privilegiati per tutelare le persone vulnerabili da eventuali abusi, ma non specifica (né, a rigore, avrebbe potuto farlo) come esattamente essi vengano coinvolti nel procedimento. Rimane, poi, aperto il nodo della competenza dei Comitati etici per la sperimentazione clinica, che sono gli organismi cui le norme di legge che la Corte cita fanno precipuo riferimento, che sono distinti dai Comitati etici per la pratica clinica. Questi ultimi, sia per composizione che per funzioni, parrebbero più adeguati a svolgere il compito di tutela che il giudice costituzionale vorrebbe ad essi attribuire. Laddove presenti, poi, non si può nemmeno escludere che possano pronunciarsi entrambi: il primo sull’utilizzo della sostanza da somministrare; il secondo sui profili più strettamente attinenti alla relazione di cura.
Il problema, però, oggi sta a monte: difficilmente un’azienda sanitaria si prende la responsabilità di avviare l’intera procedura, sebbene i contorni della legittimità dell’agire per l’assistenza medica al morire siano accuratamente cesellati dalla Corte. Un caso riportato nei giorni scorsi dagli organi di stampa (cfr. V. Zagrebelsky, Suicidio assistito, la legge negata, in La Stampa, 24 febbraio 2021, sulla lettera di Mario C.) lo dimostra chiaramente: prima di pensare a quale ruolo dovrebbero o potrebbero avere i Comitati etici, dobbiamo ragionare su come concretamente si può avviare il procedimento disegnato dal giudice costituzionale ormai più di un anno fa, in attesa che il legislatore intervenga a colmare evidenti vuoti di effettività. In questo senso, la Commissione Regionale di Bioetica della Regione Toscana, con il parere 2/2020, prendendo atto degli esiti della decisione, ha cercato di affrontare le immediate ripercussioni della sentenza costituzionale sull’organizzazione sanitaria regionale.
Prof. Carlo Casonato
La Corte affida alle strutture del SSN il compito di verificare la concreta presenza delle quattro condizioni menzionate e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio, che dovranno essere tali “da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”. Inoltre, vista la delicatezza dei valori in gioco, la Consulta richiede “l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità”. Tale organo dovrebbe essere rappresentato dai comitati etici per l’etica clinica di cui alcune, ma non tutte le realtà territoriali, dispongono; in loro assenza, tale responsabilità è affidata ai comitati etici per la sperimentazione clinica.
Come anticipato, tali compiti non possono essere disattesi a pena di non contraddire il disegno tracciato dalla Corte e, quindi, di instaurare una situazione non compatibile con il quadro costituzionale. Su queste basi, le strutture del SSN e i comitati etici devono attivarsi per prendere in carico ogni richiesta di aiuto.
Da un punto di vista procedurale, sarebbe peraltro utile, pur nelle more della legge invocata dalla Corte, un decreto ministeriale o forse anche una circolare, che precisasse alcuni passaggi necessari, come i tempi (necessariamente rapidi) da rispettare e il carattere (presumibilmente obbligatorio ma non vincolante) del parere del comitato. Pur in assenza di una normativa nazionale di riferimento per la costituzione dei comitati etici per l’etica clinica, inoltre, sarebbe molto utile che tutte le realtà territoriali si attivassero per la loro costituzione, a motivo del fatto che i comitati etici per la sperimentazione, per composizione e per attività ordinariamente esercitata, non appaiono i più adatti a svolgere l’assegnato compito di verifica delle situazioni di vulnerabilità.
Prof. Giacomo D’Amico
Com’è noto, la Corte costituzionale, nella sent. n. 242 del 2019 (ma non anche nell’ord. n. 207 del 2018) si è fatta carico, «[n]elle more dell’intervento del legislatore», dell’onere di “costruire” una «procedura medicalizzata» analoga a quella prevista nella legge n. 219 del 2017. In questa procedura trovano spazio i comitati etici territorialmente competenti, il cui intervento si giustifica – nella prospettiva del Giudice delle leggi – sia per la loro composizione (la Corte discute di «un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità»), sia per le loro attribuzioni («[t]ali comitati – quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria – sono, infatti, investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o, amplius, all’uso di questi ultimi e dei dispositivi medici»).
In questa prospettiva, i comitati etici costituiscono uno strumento per salvaguardare la posizione dei «soggetti vulnerabili». Invero, il riferimento a questi organi risulta non privo di un certo tasso di creatività, specie se si considera che l’attività di questi comitati è a tutt’oggi caratterizzata da forti ambiguità. Si allude ad ambiguità che investono sia la loro reale indipendenza dall’amministrazione sanitaria presso cui sono incardinati sia la loro stessa mission; in altre parole, essi ampliano o restringono il dibattito pubblico sulle questioni etiche? (su questi aspetti E. Furlan, Comitati etici in sanità. Storia, funzioni, questioni filosofiche, Milano 2015, spec. 34 ss.).
A ciò si aggiunga il carattere di precarietà che li contraddistingue e che certamente non favorisce la loro autonomia e indipendenza, riconosciuto dallo stesso Comitato Nazionale per la Bioetica (I Comitati per l’etica nella clinica, 31 marzo 2017, 3), che già in passato ne aveva sottolineato gli aspetti problematici (I Comitati etici, 27 febbraio 1992; I Comitati etici in Italia: problematiche recenti, 18 aprile 1997; Orientamenti per i Comitati etici in Italia, 13 luglio 2001).
Come si vede, dunque, il riferimento ai Comitati etici risulta alquanto audace, non potendosi, in base al quadro normativo vigente, immaginare il loro intervento al di fuori delle ipotesi espressamente indicate dalla stessa Corte, vale a dire «al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del Ministro della salute 7 settembre 2017, recante “Disciplina dell’uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica”)».
5. La Corte costituzionale ha riconosciuto ai sanitari la possibilità di opporsi all’aiuto al suicidio per ragioni di coscienza. L’obiezione di coscienza ha lo stesso rango costituzionale del diritto all’autodeterminazione terapeutica? Entro quali coordinate essa può essere riconosciuta ed esercitata?
Prof. Stefano Agosta
Singolare, innanzitutto, è che all’obiezione di coscienza del personale sanitario il giudice delle leggi pare aver voluto dedicare uno spazio (quantitativo) ed un approfondimento (qualitativo) inversamente proporzionale all’importanza che ad essa invece dovrebbe comprensibilmente spettare in un campo talmente delicato come quello in discussione (a meno di non volersi rassegnare all’idea dell’ennesimo diritto proclamato ma non praticato e, per ciò, malinconicamente relegato nel cono d’ombra di una sostanziale ineffettività): la natura bifronte di ogni diritto – ivi (se non soprattutto) compreso proprio quello del ammalato a vedersi somministrati farmaci con proprietà abbrevianti della vita – dovendo necessariamente convertirsi, d’altro canto, nella imposizione, anche “mite”, di un frontistante dovere altrui.
Mentre, ad ogni modo, ci si può ancora confrontare sull’esistenza per il singolo medico in concreto di un vero e proprio obbligo oppure di una mera facoltà di dare seguito alla richiesta del malato – a seconda se sia, ad esempio, possibile intravedere una continuità ovvero una discontinuità con quanto già disposto in tal senso dalla l. n. 219 cit. (ovvero che si vogliano o meno sottovalutare le esiziali ricadute che un siffatto dovere potrebbe provocare per la professionalità dell’intera categoria medica) – non ugualmente può certo dirsi in capo al sistema sanitario nel suo complesso interamente considerato. Con l’inevitabile corollario, insomma, che ogni struttura pubblica di riferimento dovrà costantemente garantire la presenza e la disponibilità di almeno un medico non obiettore.
Dott.ssa Lucia Busatta
Allo stato attuale, non possiamo parlare di un vero e proprio diritto all’obiezione di coscienza per i medici, poiché la Corte non crea in capo ad essi un obbligo giuridico. Se si presenterà il caso, dunque, i medici potranno eventualmente richiamarsi alla clausola di coscienza prevista all’art. 22 del loro codice di deontologia medica.
In assenza di una legge che definisca il procedimento da seguire e le modalità per realizzare un intervento di assistenza al morire, a mio avviso, è difficile individuare precisamente i confini dell’obbligo di intervento del medico e la sua possibilità di sottrarsi ad esso. Anche per questo serve una legge: per chiarire ai medici (anche a quelli che vorrebbero poter aiutare persone nelle condizioni di Fabiano Antoniani o di Davide Trentini a trovare una morte dignitosa, non solo a quelli che non vorrebbero farlo) quali sono i termini del loro obbligo professionale.
L’intervento legislativo, dunque, è dovuto non solo per i pazienti, ma anche e soprattutto per i professionisti della salute che scelgono di dedicare la propria vita alla cura e alla salute degli altri e che per svolgere al meglio la propria professione devono potersi muovere entro un terreno giuridico chiaro e certo.
Prof. Carlo Casonato
In realtà la sentenza si limita a “escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”. In questo senso, non è necessario attivare in termini propri l’istituto dell’obiezione di coscienza, con i relativi limiti, tempistiche, procedure ecc., come ad esempio previsto per la legge n. 194 del 1978 in riferimento all’interruzione volontaria di gravidanza. In termini concreti, così, ogni professionista può decidere del tutto liberamente la propria disponibilità o meno all’aiuto al suicidio. Anche a motivo dell’incertezza che questo assetto potrebbe provocare, tale profilo dovrebbe essere affrontato specificamente nella legge che il Parlamento – mi auguro – non tarderà troppo ad approvare.
Prof. Giacomo D’Amico
Quanto alla possibile obiezione di coscienza dei medici, la sua previsione nella «procedura medicalizzata» costruita dalla Corte, pur apparendo in una certa misura scontata, non è priva di venature problematiche. Se è vero, infatti, che lo stesso Giudice delle leggi si fa carico di precisare che dalla declaratoria di incostituzionalità non deriva «alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici», restando affidato «alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato» (sent. n. 242 del 2019, punto 6 cons. dir.), è altrettanto vero che l’obiezione di coscienza non può avere lo stesso rango del diritto all’autodeterminazione terapeutica.
Utili sono al riguardo le considerazioni svolte dalla Corte, in alcune risalenti pronunce, in relazione a due vicende tra loro profondamente differenti: l’obiezione di coscienza all’aborto e quella al servizio militare. In particolare, si segnalano, per la loro pertinenza rispetto al tema del quesito, la sent. n. 467 del 1991 e la sent. n. 43 del 1997, entrambe relative all’obiezione al servizio militare.
Nella prima, la Corte ha affermato che «la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico». In questa prospettiva «la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana».
Ciò nondimeno, la Corte ha precisato che «la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili», «se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale».
Dunque, non di un diritto assoluto si deve discutere, ben potendo il legislatore bilanciare la previsione di esenzione dall’assolvimento di doveri pubblici con l’esigenza di tutela di doveri o beni di rilievo costituzionale.
Ancora più esplicita è la Corte nella sent. n. 43 del 1997, nella quale si puntualizza che la protezione dei c.d. diritti della coscienza «non può ritenersi illimitata e incondizionata». Spetta, infatti, «al legislatore stabilire il punto di equilibrio tra la coscienza individuale e le facoltà ch’essa reclama, da un lato, e i complessivi, inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale che la Costituzione (art. 2) impone, dall’altro, affinché l’ordinato vivere comune sia salvaguardato e i pesi conseguenti siano equamente ripartiti tra tutti, senza privilegi».
Se dunque, da un punto di vista teorico, è chiaro il carattere “non illimitato” e “non incondizionato” del diritto all’obiezione di coscienza, non altrettanto semplice è definire in concreto le coordinate entro le quali essa può essere esercitata nell’ambito delle ipotesi (rese dall’intervento della Corte) lecite di aiuto al suicidio. La difficoltà nasce dalla fondamentale constatazione che l’obiezione di coscienza non è stata qui configurata dal legislatore, delineandone magari presupposti e condizioni, bensì dalla Corte in un passaggio abbastanza sbrigativo della pronuncia.
Più che definire le coordinate, si può dunque tentare di delineare i confini di questa ipotesi di obiezione di coscienza: innanzitutto, non deve avere carattere pretestuoso (come emblematicamente avvenuto nel caso di recente deciso dalla Corte di Cassazione, sezioni unite civili, 9-15 febbraio 2021, n. 3780, a proposito dell’asserita obiezione di coscienza di un magistrato in relazione al ricorso all’aborto da parte di una donna ristretta in regime di detenzione domiciliare); in secondo luogo, l’obiezione di coscienza del medico in relazione a condotte di aiuto al suicidio non può determinare la sostanziale vanificazione del diritto del paziente, gravando quindi sui responsabili delle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale (espressamente individuate nella sent. n. 242 del 2019) la responsabilità di assicurare la presenza di medici non obiettori.
È dunque sul versante del bilanciamento «con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale» che si può configurare un diritto del medico all’obiezione di coscienza.
In conclusione, vale la pena ricordare che analoghi problemi sono stati affrontati dal Bundesverfassunsgericht nella sentenza del 26 febbraio 2020, nella quale, pur riconoscendo un diritto alla morte autodecisa, il Tribunale costituzionale tedesco ha precisato che «il singolo deve, fondamentalmente, sopportare la mancanza di disponibilità medica individuale all’aiuto al suicidio come decisione tutelata dalla libertà di coscienza della persona che gli sta di fronte. Dal diritto alla morte autodecisa non deriva alcuna pretesa nei confronti di terzi ad essere sostenuti nella propria decisione a suicidarsi».
Prof.ssa Chiara Tripodina
Nella sentenza del 2019 la Corte afferma che «resta affidato […] alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato», giacché la sentenza stessa «si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Questo passaggio è cruciale, sia perché la Corte si discosta dal «preciso punto di riferimento» normativo che essa stessa aveva assunto, ossia la l. 219/2017, che non prevede alcuno spazio per l’obiezione di coscienza dei medici in caso di rifiuto o rinuncia a trattamento sanitario anche salva vita; sia perché l’«impellente esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore», che la Corte assume a ragione giustificativa della sua sentenza, mostra di non essere davvero tale, se i supposti “diritti fondamentali” vengono poi degradati a mere “richieste”: come più sopra detto, se sui medici non ricade alcun obbligo di procedere all’aiuto al suicidio richiesto dal paziente, questi non può dirsi titolare di alcun diritto, meno che mai fondamentale.
Neppure si può dire che, se il singolo medico è libero, le strutture pubbliche del servizio sanitario sono invece vincolate a garantire il suicidio medicalmente assistito, trovando altro medico a ciò disposto: in capo ad esse la Corte pone solo oneri di verifica delle condizioni del paziente e delle modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio, non anche di esecuzione dello stesso.
Nelle mani del paziente che si trovi nelle condizioni indicate dalla Corte, resta dunque solo la libertà di richiedere l’aiuto al suicidio, che il medico ha la libertà di accogliere oppure rifiutare. Due libertà che si fronteggiano: possono incontrarsi e fondersi, oppure restare su binari separati e paralleli. Nessun diritto, nessun dovere. Questa costruzione è il chiaro sintomo della fragilità del fondamento costituzionale del supposto diritto all’aiuto al suicidio. All’opposto, il rifiuto o la rinuncia di trattamenti terapeutici, anche salva-vita, gode del solido fondamento dell’articolo 32.2 Cost., ed è questa la ragione per la quale correttamente la legge del 2017 non consente alcuna obiezione di coscienza al medico.
6. Quali soluzioni hanno individuato gli altri ordinamenti (in special modo europei)? Quali suggerimenti potrebbe cogliere il legislatore da queste esperienze?
Prof. Stefano Agosta
Il sempre maggiore rilievo che la comparazione giuridica è andata nel corso degli ultimi anni acquistando, tanto nelle esperienze di giustizia costituzionale che in quelle di normazione, è dato, ormai, di comune riconoscimento – al punto che non metterebbe quasi conto evidenziarlo [non poche volte ne ha, tra gli altri, discorso A. RUGGERI, ad esempio, nei suoi Comparazione giuridica e certezza del diritto costituzionale, in www.diritticomparati.it (28 luglio 2015); Diritto giurisprudenziale e diritto politico: questioni aperte e soluzioni precarie e La garanzia dei diritti costituzionali tra certezze e incertezze del diritto, entrambi in www.giurcost.org, rispettivamente, 18 dicembre 2019, part. 719 ss., e 26 marzo 2020, spec. 172 ss.] – ed anche la materia che oggi ci occupa non fa invero eccezione.
Lasciando per il momento da parte il versante, per così dire, processuale della comparazione – con riferimento, cioè, a quelle tecniche decisorie (adottate non solo in Gran Bretagna e Canada ma, pure, in Germania) cui il nostro Tribunale costituzionale dimostra di aver guardato nella conduzione del proprio processo costituzionale – per soffermarci adesso sul solo profilo sostanziale, non vi è dubbio che molteplici potrebbero essere le soluzioni astrattamente prospettabili al legislatore italiano. Nella perdurante assenza della maturazione di un sufficiente grado di consensus europeo sul punto, assai esemplificativi potrebbero così rivelarsi i modelli di disciplina assunti da taluni paesi a noi più vicini come Belgio, Olanda e Svizzera (ad oggi ancora alla ribalta delle cronache nostrane, nondimeno, più per il cospicuo flusso di turismo c.d. eutanasico che li interessa che non quale fruttuoso esempio di buona normazione cui eventualmente ispirarsi).
A prescindere dall’oggettiva esiguità dei modelli comparati di disciplina attualmente disponibili quindi per il Parlamento – e volendo momentaneamente accantonare il merito delle misure in concreto importabili nel nostro paese – è pur vero che, nel metodo, quel paventato rischio rappresentato da normative che per attendere ad una singola, drammatica ed eccezionale, vicenda hanno finito radicalmente per mutare lo stesso approccio medico-culturale di un’intera nazione alla sofferenza ed alla dignità della vita dei soggetti più vulnerabili non dovrebbe mai essere perso di vista nemmeno dal nostro legislatore.
Non meno vero, tuttavia, è che tale pericolo neppure troppo dovrebbe essere però enfatizzato, se non si voglia del tutto sopprimere sul nascere qualsivoglia tentativo – per quanto laborioso e difficile possa in concreto rivelarsi – di riforma della materia in commento.
Dott.ssa Lucia Busatta
Le soluzioni in campo sono molte e fra loro assai differenti: ci sono ordinamenti che hanno valorizzato la dimensione di autonomia individuale del paziente, riducendo quindi molto il ruolo del medico (Oregon e California, ad esempio). Ci sono altri Stati il perno è costituito dalla procedura da seguire (Paesi Bassi, Belgio).
La strada da fare, per molti Paesi, è ancora tanta, come dimostrano le recenti sentenze in Austria e in Germania, mentre altri sono recentemente giunti all’approvazione di testi legislativi, che ora saranno passeranno alla prova dei fatti (v. Spagna e Portogallo).
A mio avviso, anche sulla scorta di ciò che l’esperienza pandemica ci sta insegnando, va salvaguardata la centralità del sistema sanitario nazionale, al fine di garantire a tutti in maniera eguale sul territorio nazionale tale possibilità di compiere questa scelta, con tutte le tutele dovute. In questo senso, la struttura pubblicistica e articolata del nostro Sistema sanitario è insostituibile per svolgere questo necessario ruolo di garanzia.
L’esperienza che, sopra a tutte, a mio avviso il legislatore dovrebbe seguire è, però, interna ed è quella del dialogo e del «paziente lavoro di confronto e di ricerca di soluzioni concrete» che ha portato, infine, all’approvazione della legge n. 219 del 2017 (le parole citate sono di Donata Lenzi, relatrice della legge alla Camera): un testo attento, equilibrato e inclusivo, capace cioè di abbracciare i diversi orientamenti valoriali individuali e di salvaguardare il ruolo della professione medica. Su questa strada dovrebbe, a mio parere, muoversi con celerità un legislatore consapevole e volenteroso di dar seguito alla leale collaborazione istituzionale invocata dalla Corte stessa.
Prof. Carlo Casonato
Il panorama di diritto comparato sul fine-vita è molto ampio e variegato. In termini generali, tuttavia, colgo una crescente tendenza all’ampliamento del ruolo riconosciuto alla volontà della persona; ampliamento che dal consenso informato sta transitando verso una più comprensiva tutela dell’autodeterminazione individuale. Mi spiego.
Le origini storiche del consenso informato possono essere ricercate nel diritto al rifiuto, il quale si riferisce non tanto ad un principio complessivo di autodeterminazione della persona, quanto, più semplicemente, al diritto di non essere sottoposti a trattamenti medici contro la propria volontà (right to refuse). Tale diritto trova negli Stati Uniti dei primi del ’900 i suoi primi riconoscimenti (sent. Mohr v. Williams, 104 N.W. 12, Minn. 1905, della Corte Suprema del Minnesota). Il principio dell’informed consent, così, si riferisce al diritto del paziente di autorizzare i medici a procedere con un intervento che altrimenti avrebbe costituito un reato contro l’integrità fisica del malato. Si trattava, quindi, dell’autorizzazione a intervenire con procedure invasive sul corpo del malato; autorizzazione che escludeva il carattere altrimenti illecito delle stesse. In questo modo, si vennero a fissare le coordinate di un principio che si riferiva strettamente alla tutela della dimensione fisica, corporale della persona (“bodily integrity” e “immunity from physical interference”, nelle parole della Corte).
Con il passare degli anni e con i progressi della medicina e della sensibilità sociale e giuridica, i limiti di questa impostazione, tutta e solo fisica, sono divenuti troppo stretti. Sono quindi ormai moltissimi i casi, da DJ Fabo e Davide Trentini a Gloria Taylor (Canada), da Daniel James (Regno Unito) a Vincent Lambert e Chantal Sébire (Francia), da Ramón Sampedro e María José Carrasco (Spagna) a Timothy Quill, Harold Glucksberg, Robert Baxter e Brittany Mainard (USA), in cui non si chiede una tutela della dimensione corporale, ma il rispetto di una ben più ampia autodeterminazione e di un complessivo orizzonte di valori: di una precisa e consapevole idea di sé e delle proprie prospettive esistenziali. Tali considerazioni portano a ridefinire la natura del consenso che, anziché avere come oggetto la mera dimensione fisica e come fine la sua integrità, si espande verso un più ampio concetto di autodeterminazione individuale, giungendo ad avere per oggetto l’identità personale (la struttura, in senso lato morale, della persona) e per obiettivo il suo rispetto e la sua promozione.
Tale tendenza mi pare ormai largamente affermata a livello comparato, anche se sono diversi, in ogni Stato, il grado di avanzamento, le forme e le modalità con cui si presenta. Così, solo per fare qualche esempio, il Regno Unito mantiene il reato di assistenza al suicidio, ma ne limita la perseguibilità concreta grazie alla prosecutorial discretion e alle direttive impartite dal Director of Public Prosecutions, mentre la Spagna adotterà a breve una legge che apre decisamente tanto all’assistenza al suicidio quanto all’eutanasia. Il Canada ha ormai da anni una normativa sull’aiuto al morire (Medical Assistance in Dying, 2016) e si accinge ora ad espanderne i termini di applicazione, mentre la Germania ha visto una sentenza del secondo senato del Bundesverfassungsgericht (26 febbraio 2020) che radica all’interno dei concetti costituzionali di libertà e dignità un amplissimo diritto all’autodeterminazione nel morire. “L’art. 1 del Grundgesetz” secondo le parole dei giudici tedeschi “garantisce la libertà dell’uomo, per come egli stesso si concepisce nella propria individualità […]. Elemento determinante è la volontà del suo titolare, che si sottrae a qualsiasi apprezzamento svolto alla stregua di valori generalmente accettati, di precetti religiosi, di modelli socialmente acquisiti sulla vita e sulla morte […]. La decisione del singolo, di porre fine alla propria vita sulla base della propria concezione della qualità della vita e del senso della propria esistenza, è nel momento finale un atto frutto di un’autonoma determinazione che lo Stato e la società devono rispettare”. E ancora: “[i]l diritto di uccidersi non può essere negato sostenendo che il suicida si privi della propria dignità, poiché egli contemporaneamente rinuncia al presupposto della sua autodeterminazione e con ciò alla sua soggettività [..] È vero che la vita è la base fondamentale della dignità umana. […] Da ciò, tuttavia, non si può dedurre che il suicidio compiuto sulla base di una volontà libera sia un atto contrario alla dignità umana […] La libera ed autonoma disposizione della propria vita è, al contrario, diretta espressione dell’idea – insita nella dignità – del libero sviluppo della personalità. Essa è, per quanto l’ultima, un’espressione di dignità. […] La dignità dell’uomo è, dunque, non un limite all’autodeterminazione della persona, ma piuttosto il suo fondamento”.
Con queste parole, la giustizia costituzionale comparata del fine-vita si è arricchita di una posizione robusta e coerente che, riecheggiando alcuni profili di una risalente pronuncia colombiana (C-239/1997), mi pare costringa ogni Stato di derivazione liberale ad un franco confronto con la sua logica stringente.
Prof. Giacomo D’Amico
La comparazione giuridica con altri ordinamenti costituisce senza dubbio uno degli argomenti che fa più presa sui giudici chiamati a risolvere questioni eticamente controverse. Al contempo, però, essa si rivela estremamente problematica, dovendosi “tarare” le argomentazioni “importate” sulla base delle peculiarità degli ordinamenti presi in considerazione. Pur con queste avvertenze, non v’è dubbio che la circolazione delle argomentazioni delle Corti (genericamente intese) costituisce un fattore formidabile di quella tendenza alla formazione di un diritto comune europeo in materia di tutela dei diritti (G. Silvestri, Verso uno ius commune europeo dei diritti fondamentali, in Quad. cost., 1/2006, 7 ss.), se non di un diritto globale o, quantomeno, di un linguaggio comune globale.
Nella specifica tematica di cui si discute in questa sede, non può non balzare agli occhi l’esplicito richiamo, compiuto dalla Corte nell’ord. n. 207 del 2018, alla decisione della Corte Suprema del Canada del 6 febbraio 2015. In particolare, è significativo che il nostro Giudice delle leggi abbia tratto ispirazione da questa pronunzia per la scelta della tecnica decisoria da adottare. Nel caso Carter contro Canada (nel quale veniva in rilievo una normativa analoga a quella dell’art. 580 c.p.), infatti, «i supremi giudici canadesi stabilirono di sospendere per dodici mesi l’efficacia della decisione stessa, proprio per dare l’opportunità al parlamento di elaborare una complessiva legislazione in materia, evitando la situazione di vuoto legislativo che si sarebbe creata in conseguenza della decisione». In senso analogo si era espressa poco meno di un anno prima la Corte Suprema del Regno Unito, sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri.
Ma, tornando alla vicenda canadese, di particolare importanza è il fatto che a quella pronunzia della Corte Suprema ha fatto seguito l’adozione della legge 16 luglio 2017 sulla c.d. aide médicale à mourir che ha novellato il Code criminel prevedendo una procedura medicalizzata molto simile a quella delineata dalla nostra Corte. In sintesi, si prevede che la persona debba essere affetta da problemi di salute grave e incurabili tali da causargli sofferenze fisiche o psicologiche persistenti e insopportabili, che la sua richiesta di aiuto medico a morire sia stata formulata per iscritto, in modo chiaro e dopo che l’interessato sia stato informato della possibilità di avvalersi di cure palliative. Si prevede, altresì, la possibilità che la richiesta di aiuto medico a morire sia formulata da persona incapace di esprimere la propria volontà.
Guardando, invece, al vecchio continente, particolarmente interessante è la vicenda del decreto dell’Assemblea della Repubblica portoghese, che regula as condições em que a morte medicamente assistida não è punível e altera o Código Penal. Questo decreto, approvato con un’ampia maggioranza il 29 gennaio 2021, è stato però impugnato in via preventiva dal Presidente della Repubblica portoghese (in data 18 febbraio 2021) sull’assunto del carattere indefinito delle condizioni di non punibilità individuate dal legislatore.
In particolare, le censure del Presidente portoghese si sono appuntate sui concetti di «situação de sofrimento intolerável» e di «lesão definitiva de gravidade extrema de acordo com o consenso cientifico», dovendosi, al contempo, escludere che l’insufficiente definizione legislativa possa essere corretta in sede di attuazione della stessa.
Il Tribunale costituzionale, con l’acórdão n. 123 del 15 marzo 2021, ha ritenuto che il primo concetto («situação de sofrimento intolerável») sia comunque determinabile nei casi concreti, ma che la nozione di «lesão definitiva de gravidade extrema de acordo com o consenso cientifico» non delimiti con sufficiente rigore le situazioni che possono giustificare la depenalizzazione della morte medicalmente assistita. Pertanto, con una decisione assunta a maggioranza (sette favorevoli e cinque contrari, peraltro con sei opinioni concorrenti e quattro dissenzienti), il Tribunale costituzionale ha ritenuto incostituzionale la norma in questione e, di conseguenza, il decreto, dopo il veto del Capo dello Stato, è ritornato all’esame dell’Assemblea della Repubblica.
Il decreto in parola aveva novellato alcuni articoli del Código Penal prevedendo una serie di condizioni per l’avvio del procedimento di morte medicalmente assistita (la volontà doveva essere attuale e reiterata, seria, libera e chiara). La richiesta doveva essere presentata a un medico scelto dall’interessato ma doveva essere sottoposta a un medico specialista e a uno psichiatra. Di particolare interesse era la previsione del parere favorevole della Comissão de Verificação e Avaliação, composta da due giuristi, da un medico, da un infermiere e da uno specialista di bioetica. Tutti i soggetti e organi coinvolti avrebbero dovuto esprimere parere favorevole, perché altrimenti il procedimento si sarebbe arrestato.
La normativa portoghese prevedeva, inoltre, il diritto all’obiezione di coscienza a favore dei medici e sanitari coinvolti nel procedimento.
La decisione del Tribunal constitucional – che richiama le due decisioni della Corte costituzionale sul caso Cappato, oltre a un’intervista de Il Fatto Quotidiano a G. Zagrebelsky – non sembra però preclusiva di un nuovo intervento legislativo. I giudici costituzionali si sono infatti preoccupati di precisare che non è preclusa al legislatore la possibilità di disciplinare l’anticipazione della morte tramite assistenza medica; devono, però, essere rispettati alcuni limiti, come la volontarietà della collaborazione dei terzi chiamati a intervenire e la piena autodeterminazione della persona interessata (punto 33: «No entanto, na conformação de tal regulação, o legislador tem de observar limites, designadamente os que decorrem dos deveres de proteção dos direitos fundamentais que estão em causa na antecipação da morte medicamente assistida a pedido da própria pessoa. Para além da salvaguarda da voluntariedade da colaboração dos terceiros, maxime a possibilidade de os mesmos invocarem objeção de consciência, impõe-se a proteção da autonomia e da vida da própria pessoa que pretende antecipar a sua morte. Esta encontra-se numa posição vulnerável, razão acrescida por que deve ser defendida contra atuações precipitadas ou determinadas por pressões sociais, familiares ou outras. Está em causa a adoção de uma decisão cuja concretização se traduz num resultado definitivo e irreversível, pelo que a mesma só deve ser atendida desde que existam garantias suficientes de se tratar de uma genuína expressão da autodeterminação esclarecida de quem a toma. Ora, é no quadro da definição de tais garantias que assume relevância a importância objetiva do bem vida»).
Di particolare interesse è proprio l’ultima affermazione del passo sopra riportato in cui il Tribunale costituzionale precisa che, (solo) alla luce della definizione di queste garanzie, il bene vita assume una rilevanza oggettiva.
Un’altra iniziativa interessante in tema di legalizzazione dell’eutanasia si registra, di recente, in Spagna, con l’approvazione della legge organica n. 3 del 24 marzo 2021, che ha disciplinato l’eutanasia modificando l’art. 143 del Codice penale. Questa legge prevede che l’eutanasia possa essere richiesta dalle persone con infermità grave e incurabile o con infermità grave, cronica e invalidante, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psichiche. È previsto che la richiesta debba essere scritta, assunta in piena coscienza dall’interessato e confermata più volte nel corso del procedimento. La verifica della sussistenza delle condizioni è rimessa a una commissione di garanzia interna al Sistema sanitario nazionale (Comisión de Garantía y Evaluación). Anche nei confronti di questa legge sono già preannunciati ricorsi al Tribunale costituzionale (soprattutto da parte del Partito popolare e di Vox).
Come si vede da questa rapida panoramica, alcuni punti fermi sembrano ormai acquisiti: la necessaria procedimentalizzazione dell’iter con il pieno coinvolgimento di specialisti, non solo dell’ambito medico di pertinenza in base alla malattia di cui è affetta la persona interessata, ma anche di bioeticisti e di giuristi; in secondo luogo, il carattere reiterato della richiesta che deve essere più volte confermata e la conseguente revocabilità della stessa in qualsiasi momento; infine, l’individuazione di un organo terzo e dotato al proprio interno delle competenze necessarie per la verifica della sussistenza delle condizioni richieste.
Anche con queste indicazioni – oltre che con quelle della nostra Corte costituzionale – il legislatore italiano si dovrà confrontare se non vorrà incorrere in un’altra esperienza fallimentare come quella che tuttora connota la normativa in materia di procreazione medicalmente assistita. Dunque, quanto mai opportuno è l’auspicio di un intervento da parte di un «legislatore pensante» (secondo quell’espressione che dà il titolo a questa rubrica). Utili mi sembrano sul punto le conclusioni formulate da Cass. R. Sunstein ormai più di venti anni fa: «It is not the Supreme Court but these other arenas – state legislatures, prosecutor’s office, hospitals, and private homes – that should decide whether, when, and how to legitimate a “right to die”» [The Right to Die, 106 Yale Law Journal (1997), 1163].
Questa frase non reca una semplice devoluzione di ogni “responsabilità” al legislatore, anzi tutt’altro!
In essa sono racchiuse tutte le istanze che in questi casi devono essere tenute in considerazione e da queste è difficile prescindere.
La responsabilità del datore di lavoro per Covid-19 tra tutele di sistema e normativa emergenziale.
La ricostruzione critica di un giuspositivista
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Fabrizio Amendola
«Covid-19 e responsabilità del datore di lavoro – ovvero delle illusioni percettive in tempo di pandemia». Un libro, piccolo, ma intenso, pubblicato, nel mese di febbraio 2021, per i tipi di Cacucci Editore (nella prestigiosa Collana “Biblioteca di cultura giuridica”, diretta da Pietro Curzio, serie Breviter et dilucide) che analizza il tema della responsabilità, civile e penale, del datore di lavoro, con riferimento al contagio da Covid-19, delineandone i confini nello stretto perimetro del diritto positivo, di sistema e speciale, senza le emozioni e i facili condizionamenti indotti dalla drammatica situazione emergenziale che da oltre un anno stiamo vivendo.
«Si darà corso ad una cronaca degli avvenimenti, con l’occhio di un osservatore minore ed uso all’analisi del diritto positivo per obbligo professionale, cogliendo anche l’opportunità per una riflessione più generale sugli intricati rapporti tra danni alla persona del lavoratore e responsabilità del datore di lavoro»: è questo il percorso dell’analisi dell’Autore (che di professione fa il Magistrato giuslavorista di Cassazione), con il quale, in questo dialogo, affrontiamo i temi più rilevanti ben sintetizzati dal titolo del libro, con una lettura sistematica delle tutele del lavoratore.
1. Innanzitutto il riferimento al “metodo giuridico”: lo ritroviamo nelle pagine finali del libro e nell’epigrafe che riporta il pensiero di Luigi Mengoni tratto dal suo importante saggio «Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico», Jus, 1976, p. 3 e ss., qui pp.46-47). «La scienza giuridica non è una scienza pratica nello stesso senso in cui lo sono la politica, l’economia o l’etica (quando non sia fondata su basi teologiche). Essa fa riferimento a comportamenti umani, ma il suo compito non è di spiegare o elaborare criteri di agire corretto, bensì di comprendere il significato di testi normativi autoritativamente predisposti per dettare regola ai rapporti sociali. La scienza giuridica è essenzialmente una scienza ermeneutica come tale dominata dal primato del testo».
La questione dell’interpretazione è da sempre al centro di ogni riflessione sul discorso giuridico e, con essa, il tema dei rapporti tra il giudice e la legge. Sappiamo che i giudici sono spesso accusati di sconfinare dal compito che sarebbe loro riservato e di utilizzare gli strumenti dell’interpretazione per andare oltre la legge. Nel brano di Luigi Mengoni che ho citato in esergo mi sembra sia mirabilmente condensato come al giurista non si addica elaborare canoni per stabilire in che modo ci si debba comportare, quanto piuttosto comprendere il significato delle disposizioni emanate da chi ha titolo per farlo: di qui l’esigenza di rispettare il testo normativo, al quale il Maestro significativamente attribuisce un ruolo di “primato” e dal quale la scienza ermeneutica è, con incisivo termine, “dominata”.
2. Quindi il giudice deve rispettare, prima di tutto, il vincolo della legge e il primato del testo, senza perdere di vista i «problemi»?
Che il giudice sia soggetto alla legge è ancora scritto nell’art. 101 della Costituzione. Quella legge che, nel nostro ordinamento democratico, è posta dal Parlamento in rappresentanza della sovranità popolare, anche quando quella sovranità si esprime con maggioranze non gradite. In nome di ciò che Massimo Luciani definisce “un sottile sentimento antipolitico, una sottile tentazione aristocratica”, mi pare siano state alimentate sofisticate dottrine della creatività giudiziale che hanno teorizzato la svalutazione dell’enunciato legislativo in favore di una “comunità interpretante” ritenuta più sapiente del legislatore, visto come incolto ed incapace di intuire i bisogni della collettività. I rischi di una giurisprudenza creativa, però, sono stati esposti, tra altri, da Luigi Ferrajoli, il quale ha evidenziato lucidamente come solo nella soggezione dei giudici alle leggi si fondi la legittimazione stessa del potere giudiziario. Senza questa “soggezione” non c’è legittimazione per esercitare il “terribile” potere che è dato dal giudicare i propri simili.
Questo non vuol dire che il giudice non debba costantemente misurarsi con le nuove questioni che si presentano in una realtà in repentina evoluzione. Anzi. Ma a mio parere deve farlo – raccogliendo il suggerimento di Nicolai Hartmann – mantenendosi “sistematicamente in contatto con i problemi”. Come ho cercato di dire nel libro, in tempi di trasformazioni imposte da complessi mutamenti sociali ed economici, così come dagli accidenti della pandemia, è lecito pretendere dai protagonisti della scienza giuridica “un diritto orientato sistematicamente”. Per sottrarsi alla frammentarietà del contingente, il giurista è chiamato a ricercare pazientemente la trama connettiva delle singole parti ed offrire soluzioni che tengano insieme il sistema, restituendo unitarietà all’ordinamento e garantendo una dose ragionevole di stabilità anche nelle trasformazioni.
Ma il sistema - ci ricorda ancora Mengoni – è quello che si ricava, con rigoroso metodo giuridico, per astrazione dall’analisi del contenuto delle norme positive.
3. Un sistema aperto, ma pur sempre un sistema e, quindi, un inquadramento logico-razionale d’insieme delle regole che governano la realtà. Ma non ritiene auspicabile, e giusta, l’apertura del giudizio ai valori e alle conseguenze pratiche delle regole giuridiche?
So che la risposta precedente può avere il sentore di una “legolatria” ottocentesca, contraria a ciò che Natalino Irti chiama il “brivido dei valori”, i quali – aggiunge - consentirebbero però all’interprete di “aggirare” le leggi e “di invocare più alta e nobile fondazione, sostituendo all’oggettività del testo normativo l’intuizionismo dei singoli”. Non credo si tratti di insensibilità al bisogno di giustizia che scaturisce da ogni caso concreto, perché ritengo che, per un giudice, i valori che contano non possano essere il frutto di personali opzioni o di precomprensioni militanti, ma piuttosto siano quelli inverati nei principi costituzionali o, nei limiti in cui la Costituzione lo consente, nelle fonti sovranazionali. Ma poiché i principi non son regole ed il loro contenuto ampio ed indeterminato si presta ad operazioni in cui l’interprete invoca gli stessi solo per trovare conferma ai propri soggettivi convincimenti, magari opposti agli intenti del legislatore, occorre chiedersi – come ha fatto con onestà intellettuale Antonio Ruggeri in una celebre intervista raccolta proprio da Giustizia Insieme – “quante volte questo o quel giudice abbia ammantato delle candide vesti dell’interpretazione conforme una sostanziale manipolazione dei dati normativi, invece di investire – come si sarebbe dovuto – la Consulta di una questione di legittimità costituzionale” [Giudice o giudici nell'Italia postmoderna? Intervista in tre domande, a cura di Roberto Giovanni Conti, a Antonio Ruggeri e Roberto Bin, in Giustizia Insieme, 10 aprile 2019, https://www.giustiziainsieme.it/it/news/112-main/le-interviste-di-giustizia-insieme/623-giudice-o-giudici-nell-italia-postmoderna-le-conclusioni]. Quindi, se la domanda sottende che l’applicazione delle “regole giuridiche” può talvolta dare luogo a “conseguenze pratiche” che appaiono contrarie a sentimenti morali di giustizia sostanziale, concordo con Massimo Luciani nel dire che, nello Stato costituzionale di diritto, un giudice ha un’unica strada: “verificare se quei principi morali siano stati positivizzati (cioè, in senso proprio, se si siano fatti diritto positivo) in Costituzione e procedere, in caso affermativo, a promuovere un incidente di costituzionalità”.
4. Fatta questa doverosa premessa, una domanda è d’obbligo, tratta dal sottotitolo e dalle pagine introduttive del libro: quali sono le illusioni percettive (e cognitive) in tempo di pandemia che possono condizionare il discorso giuridico?
La psicologia sperimentale ha indagato quel particolare fenomeno per cui la mente umana talvolta raccoglie informazioni dall’esterno e le elabora in modo anomalo, causando un’illusione per la quale si resta convinti di ciò che non è corrispondente alla realtà. Comunemente si tratta di illusioni visive, ma più di recente si è scoperto, nell’ambito dei modelli teorici che analizzano i processi decisionali, che il fenomeno interessa anche i comportamenti, sia individuali che collettivi: i giudizi della mente, soprattutto quando influenzati da scelte intuitive rese in condizioni di urgenza e di incertezza, possono condurre ad errori di percezione e, quindi, di decisione. Mi è sembrato di cogliere tale fenomeno anche nella vicenda che, in occasione della pandemia, ha visto interventi del legislatore volti a disciplinare gli effetti sul rapporto di lavoro della malattia da coronavirus eventualmente contratta sul lavoro. Nel libro mi sono dunque chiesto in successione: se l’art. 42, co. 2, d.l. n. 18/2020, con cui l’INAIL è chiamato a garantire tutela ai casi accertati di infezione contratta in occasione di lavoro, fosse davvero indispensabile oppure se l’indennizzo potesse essere riconosciuto già in ragione delle norme preesistenti; in qual modo, poi, gli operatori del mondo del lavoro abbiano reagito a tale innovazione legislativa e se tale reazione potesse dirsi giustificata o piuttosto il frutto della errata percezione della realtà giuridica; infine, se il successivo art. 29 bis del d.l. n. 23/2020, evidentemente volto a contenere l’eventuale responsabilità dei datori di lavoro, abbia probabilità concrete di centrare l’obiettivo ovvero se anche ciò possa finire per tradursi in un’illusione.
5. L’esposizione del discorso giuridico, nello specifico, inizia con una completa, seppur sintetica, ricognizione degli assetti del diritto vivente in tema di obblighi datoriali correlati alla tutela della persona nei luoghi di lavoro e delle conseguenti responsabilità per inadempimento, nel perimetro dell’art. 32 Cost. Come opera, e con quali limiti, il bilanciamento del diritto alla salute con gli altri diritti costituzionalmente tutelati?
Per comprendere cosa sia mutato con i recenti interventi legislativi, ho pensato fosse utile una preliminare ricognizione dello status quo ante. A partire, ovviamente, dalla Costituzione e da quell’art. 32 che costruisce la salute come diritto fondamentale ed inviolabile dell’individuo, immediatamente operante nei rapporti tra privati e, sicuramente, anche quale schermo protettivo nei luoghi di lavoro, dove assume espressione significativa la personalità individuale. Tuttavia la Corte costituzionale (sentenza n. 85 del 2013) ci ha detto che neppure il diritto alla salute assurge a diritto “tiranno”, gerarchicamente sovraordinato, considerato che pur esso è partecipe di un inevitabile bilanciamento con principi fondamentali di carattere sistemico (sentenza n. 264 del 2012). Spetta al legislatore il compito di trovare il necessario contemperamento ed alla Corte costituzionale poi verificare la compatibilità di tali scelte legislative con il dettato della Carta fondamentale.
6. Il sistema legislativo si basa, tuttora, sull’art. 2087 c.c., che ha un contenuto flessibile e opera in stretta connessione con la normativa speciale. Tuttavia la configurazione della responsabilità del datore di lavoro, anche in campo civilistico, non è mai oggettiva. Nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore come si realizza e prova e con quali rispettivi oneri delle parti?
La struttura aperta dell’art. 2087 c.c. ha consentito alla norma per decenni di adattarsi alle evoluzioni del progresso tecnico e scientifico, assolvendo la funzione di chiusura dell’intero sistema antinfortunistico. Tuttavia molti evidenziano il rischio che una norma “in bianco” così concepita presti il fianco ad addebiti di responsabilità secondo il senno del poi, per il solo fatto che l’evento lesivo si sia comunque verificato. La giurisprudenza di legittimità ha cercato di scongiurare tale pericolo affermando costantemente che la disposizione codicistica non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva. Dal dovere di prevenzione non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile, occorrendo invece che l’evento sia pur sempre riferibile a colpa dell’imprenditore, per violazioni di obblighi di condotta imposti da norme tipizzate o suggeriti dalla tecnica, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della possibile conoscenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Inoltre incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un danno, l'onere di provare l'esistenza di esso, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l'una e l'altro, mentre spetta al datore di lavoro, per liberarsi dalla responsabilità avente natura contrattuale, dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno stesso.
7. Il perimetro costituzionale della tutela dei lavoratori è segnato anche dall’art. 38, co. 2, Cost., che realizza, ora, in termini solidaristici la sicurezza sociale.
Con l’art. 38, co. 2, Cost., si abbandona la logica chiusa della mutualità corporativa, e la conseguente forma privatistica della copertura assicurativa, in favore di un sistema di sicurezza sociale improntato alla solidarietà, con l’obiettivo di realizzare un interesse pubblico generale, ancorato non più a contribuzioni o premi versati quanto piuttosto ad istanze di maggiore giustizia sociale. Un tempo la tutela contro gli infortuni e le malattie professionali era ispirata all’idea che il datore di lavoro, pagando il premio all’istituto previdenziale, fosse esonerato dalla responsabilità per l’evento dannoso cagionato come si trattasse di un’assicurazione privata. Con l’avvento della Costituzione l’assicurazione obbligatoria si distacca dal concetto statistico assicurativo di rischio, al quale era originariamente legata, per approdare ad una interpretazione dell’art. 38, co. 2, Cost., coordinata con l’art. 32 Cost., che ha lo scopo di garantire con la massima efficacia la tutela fisica dei lavoratori e di liberare costoro rapidamente dallo stato di bisogno determinato dall’infortunio o dalla malattia.
8. Quali sono i principi che regolano il rapporto trilatero, con la presenza anche dell’Inail, sul piano contributivo-assicurativo e indennitario-risarcitorio?
I tre protagonisti così ripartiscono i rispettivi ruoli: da un lato, il datore di lavoro, su cui grava la parte più consistente di contributi, il quale, per contropartita, viene di regola esonerato dalla responsabilità civile conseguente all’infortunio; dall’altra, l’INAIL, che paga le rendite secondo un ammontare predeterminabile, con eventuale diritto di regresso verso il datore penalmente responsabile o di surroga verso i terzi; infine il lavoratore, il quale, con una ridotta partecipazione agli oneri contributivi, viene a fruire delle prestazioni fornite dall’Istituto in modo quasi automatico. Ne risulta un articolato meccanismo in cui la tutela indennitaria riconosciuta dall’istituto assicuratore pubblico concorre con la tutela risarcitoria dovuta dal datore per i danni patrimoniali e non.
9. C’è da considerare, poi, l’art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, sull’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile in materia infortunistica, che è sempre punto di ricaduta di tensioni interpretative giurisprudenziali.
Mi pare che, negli ultimi anni, la giurisprudenza di legittimità abbia cercato di fornire una ricostruzione sistematica dei complessi rapporti di reciproca interferenza delle regole che presiedono il sistema di assicurazione obbligatoria con le azioni di risarcimento del danno promosse dal lavoratore, a partire da Cass. lav. n. 9166 del 2017, passando per Cass. n. 8580 e 9112 del 2019, per giungere alla recente Cass. lav. n. 12041 del 2020, con l’affermazione di principi utili per gli operatori di cui ho cercato di dare sinteticamente conto nel libro.
10. Con la finalità di prevenzione, anche per garantire la possibilità di continuare a mantenere aperte le attività economiche, produttive e sociali hanno assunto, sin dall’inizio, un’importanza fondamentale i «protocolli». Come giudica questa scelta del governo e, poi, del legislatore?
Sin dai primi giorni di marzo del 2020 i “protocolli di sicurezza anti-contagio” hanno contrassegnato la decretazione d’emergenza, sino a trovare menzione in fonti di rango legislativo che ne sanciscono, senza più equivoci, l’efficacia normativa generalizzata. Innanzitutto essi sono stati lo strumento utilizzato dall’autorità pubblica per consentire attività che risultavano pericolose per il solo fatto che, nell’esercizio di esse, venivano a contatto più persone; si subordinava quindi la loro prosecuzione all’adozione delle misure di contenimento previste dai protocolli condivisi, tanto che la violazione delle cautele ivi indicate determinava, come sanzione, la sospensione amministrativa dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza. In tal modo si è agevolata la graduale ripresa delle attività produttive, garantendo livelli sufficienti di tutela. Non può negarsi, poi, la capacità dei protocolli di orientare le condotte dei datori di lavoro nell’assolvimento dell’obbligo di sicurezza, in un momento in cui anche la scienza ufficiale era in difficoltà nel fronteggiare un fenomeno del tutto inedito; da subito la dottrina ha rilevato che - in tempo di Covid-19 - il perimetro della responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. doveva ragionevolmente dirsi contenuto nell’obbligo di diligente adempimento delle specifiche misure di sicurezza tempo per tempo definite dai protocolli, quali best practices secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico per la prevenzione del contagio negli ambienti di lavoro. Valuto positivamente anche l’immagine di sinergia offerta al Paese in un frangente drammatico, derivata dal fatto che le parti sociali si sono sedute allo stesso tavolo, su invito del Governo, per trovare il modo di condividere, in brevissimo tempo, ciò che c’era da fare.
10. Si arriva, quindi, alla previsione dell’art. 42, co. 2, del decreto-legge “Cura Italia” (d.l. n. 18/ 2020, conv. in l. n. 27/2020), che sin da subito ha sollevato, da più parti, contestazioni, anche a livello parlamentare, e allarmate proteste per l’assimilazione del contagio da Covid-19 all’infortunio sul lavoro. Tutto giustificato? Qual è l’esatta portata di questa disposizione ritenuta superflua in base al contesto normativo e amministrativo vigente?
Secondo la norma citata l’INAIL “assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato […] nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro” ed ho spiegato le ragioni per le quali non sarebbe stato possibile negare la tutela antinfortunistica, anche secondo le regole già vigenti in virtù del d.P.R. n. 1124 del 1965, al lavoratore che fosse stato contagiato “in occasione di lavoro”, sulla scorta di una giurisprudenza che accetta una nozione ampia di essa, rilevando solo che l’attività lavorativa sia svolta secondo il contratto di lavoro e rientrando nella protezione assicurativa qualsiasi attività riconducibile funzionalmente a questa. Sul fatto che la nuova disposizione non fosse indispensabile per garantire la copertura INAIL ha convenuto pressoché unanime dottrina, taluno evidenziando solo che la norma potesse essere utile per sgombrare il campo da eventuali dubbi interpretativi. Anche l’Istituto assicuratore, con due circolari in successione di aprile e maggio 2020, ha subito chiarito che l’art. 42 non presentava aspetti innovativi rispetto “all’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie”, perché l’INAIL, da sempre, tutela tali “affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro”, per cui occorreva ricondurre ad essi anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto. In definitiva l’art. 42 del “Cura Italia”, analizzato alla stregua del diritto positivo, è in larga parte riproduttivo di effetti che si sarebbero realizzati anche se non fosse stato emanato ed ha contenuti realmente innovativi davvero circoscritti e residuali, quali il mancato computo dell’infortunio eventualmente accertato ai fini del calcolo del premio aziendale (con aggravio della gestione assicurativa in favore delle imprese) e l’erogazione delle prestazioni anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare. In ogni caso l’art. 42 cit. interviene in un ambito che vale nel rapporto tra lavoratore ed INAIL, a fini indennitari, ed è estraneo ad ogni valutazione circa condotte eventualmente omissive del datore di lavoro che possano essere stata causa del contagio; la protezione assicurativa pubblica non è subordinata ad alcun accertamento di responsabilità datoriale, essendo sufficiente che l’evento si sia verificato in occasione di lavoro, a prescindere che l’imprenditore abbia o meno rispettato le misure prescritte, di modo che non possono essere confusi i presupposti per la responsabilità civile o penale del datore di lavoro con quelli previsti per l’erogazione di un indennizzo INAIL.
11. Nella Sua ricostruzione di questo aspetto della normativa emergenziale rilevo due punti critici. Innanzitutto la tendenza di alcuni interpreti ad accreditare una sorta di «socializzazione del rischio da contagio», per rendere più effettiva la tutela prevenzionistica.
Non mi ha convinto la tesi, pur autorevolmente sostenuta, che costruisce un sistema di presunzioni, anche assolute, le quali non ammetterebbero prova contraria circa l’origine professionale della patologia, in favore di chi si sia ammalato ed abbia comunque lavorato nei giorni precedenti la manifestazione del virus. Salvo ritenere che ogni incertezza circa il luogo ove si sia consumato l’evento contagiante debba sempre e in ogni caso porsi a carico della collettività; ma ciò avrebbe dovuto passare attraverso una chiara assunzione di responsabilità politica del legislatore che non mi pare emerga dalla lettura dell’art. 42 in commento.
12. In secondo luogo l’ipotizzata possibilità di stravolgere il compendio probatorio tipico delle cause previdenziali infortunistiche, con riferimento agli oneri di allegazione e di prova che fanno carico al lavoratore, per farne derivare una presunzione assoluta di indennizzabilità. È così?
Stante l’esigenza di armonizzare la nuova disciplina con i consolidati principi in materia, a mio avviso innanzi ai giudici opereranno le regole probatorie lungamente sperimentate dalla giurisprudenza che si è occupata dell’accertamento della sussistenza di un infortunio sul lavoro indennizzabile, senza teorizzare nuove regole in difetto di esplicite disposizioni che sovvertano quelle già vigenti. In generale, l’occasione di lavoro rappresenta un elemento costitutivo della domanda giudiziale volta ad ottenere le provvidenze da infortunio, con allegazione e prova incombente sul lavoratore che le richiede. Nella consapevolezza che per le malattie a trasmissione silente chi agisce può trovarsi nella difficoltà, se non nell’impossibilità, di stabilire ed allegare il momento contagiante, si è da sempre consentito un largo uso della dimostrazione fornita in giudizio mediante presunzioni semplici.
13. Eppure l’allarme sociale è stato enorme e da più parti è stata invocata la necessità anche di uno «scudo penale» per rendere effettivo l’esonero da ogni responsabilità del datore di lavoro, quanto meno in conseguenza del rispetto dei protocolli sottoscritti.
Nel paragrafo dedicato a “La cronaca degli eventi” racconto come l’art. 42 del “Cura Italia” – norma nuova solo in apparenza – abbia effettivamente suscitato reazioni allarmate. Sulle pagine dei giornali dell’epoca rappresentanti delle associazioni imprenditoriali invocavano garanzie e si prefiguravano indagini penali a tappeto che potessero investire la struttura produttiva del Paese; nella aule parlamentari si interpellava il Governo per sollecitarlo ad adottare “iniziative necessarie” al fine di scongiurare che la “equiparazione della malattia all’infortunio sul lavoro”, asseritamente realizzata dall’art. 42 del decreto legge n. 18/20, producesse conseguenze “gravissime” sui datori di lavoro, anche sul piano penale; i consulenti del lavoro formulavano ipotesi di “scudo penale” e le opposizioni proponevano che l’imprenditore che rispettasse i protocolli venisse esonerato “da ogni responsabilità connessa ad eventuali contagi”; la task-force di Colao poneva al primo punto del suo programma l’esclusione della contaminazione da coronavirus da ogni ipotesi di responsabilità civile e penale dei datori di lavoro.
Pur essendo chiaro a chiunque avesse voluto vedere che l’art. 42 non prefigurava alcuna nuova responsabilità civile, né, tanto meno, penale del datore di lavoro, il dato reale è stato così travisato – come sostengo nel libro – “per difetto di comprensione ovvero per le pressioni di interessi particolari, procurando all’opinione collettiva un’illusione cognitiva”. Questa ha generato una reazione che non corrisponde alla realtà del fenomeno giuridico ed ha innescato un successivo intervento legislativo che trae origine in quella svista percettiva.
14. Così è stata partorita la norma di cui all’art. 29 bis introdotto dalla l. n. 40/2020, in sede di conversione in legge del d. l. n. 23/2020, che definisce il perimetro della responsabilità datoriale nella situazione di contagio epidemiologico. Pensa che questa norma renda effettivo l’esonero da ogni responsabilità del datore di lavoro che rispetti i protocolli condivisi?
Secondo l’art. 29bis del c.d. “Decreto Liquidità”, che ha visto la luce su emendamento di matrice governativa ed in coincidenza con la ripresa dell’attività produttiva nella Fase 2, i datori di lavoro “adempiono all’obbligo” previsto dall’art. 2087 c.c. “mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute” nei protocolli indicati dalla stessa norma. È stato subito chiaro a tutti che l’obiettivo di fondo fosse quello di limitare la responsabilità datoriale per il rischio da Covid-19 negli ambienti di lavoro; si è cercato di conseguirlo elevando le misure contenute nei protocolli alla stregua di regole tipizzate da rispettare in tempo di pandemia. Ho riportato i primi commenti, soprattutto della dottrina penalistica, improntati a scetticismo – con toni anche aspri – circa la reale possibilità di centrare l’obiettivo. Ho provato, quindi, nel libro a rispondere all’interrogativo sul se l’adempimento delle prescrizioni contenute nei protocolli esaurisca gli obblighi gravanti sul datore di lavoro ovvero se residui ancora un margine per l’operatività dell’art. 2087 c.c.; in altre parole, se l’art. 29bis riesca a surrogarsi totalmente alla disposizione codicistica, così trasformandola da clausola aperta a contenitore che raccolga solo ed esclusivamente le misure prevenzionali indicate nei protocolli.
15. In questo contesto si colloca, con riferimento al contagio da Covid-19, la disputa tra rischio generico e rischio specifico che, sin dall’inizio, ha appassionato, e appassiona tuttora, gli interpreti e gli operatori di settore.
Vero. Da una parte coloro che hanno sostenuto la tesi secondo cui non si tratterebbe di rischio professionale cui il lavoratore è ordinariamente esposto in ragione della mansione espletata, bensì di rischio sanitario generico già valutato a monte dalle autorità pubbliche e da fronteggiare mediante le generali misure di igiene imposte all’intera popolazione. Dall’altra parte la dottrina che ha sottolineato come, sebbene il pericolo del contagio incomba sulla collettività intera, chi è chiamato a lavorare in presenza subisca un aggravamento del rischio rispetto a quello generale della comunità, già solo per l’aumento delle occasioni di contagio nei luoghi di lavoro e per recarsi presso di essi, e che, comunque, le modalità di organizzazione della prestazione possono costituire ex se un potenziale fattore di rischio. Tuttavia a me è parso che con l’art. 29bis il legislatore si sia reso conto che, al fine di accertare eventuali responsabilità datoriali, non importa tanto chiedersi se il rischio da Covid-19 sia generico o specifico oppure aggravato, quanto piuttosto identificare le condotte da adottare per prevenire il contagio, sulla banale considerazione che ogni luogo dove lavorano più persone diventa – per ciò stesso - occasione di propagazione del virus, il che rende doverosa l’applicazione di misure di cautela.
16. Resta, comunque, la necessità di aggiornare il documento di valutazione dei rischi, tenuto conto anche degli arresti giurisprudenziali.
Anche questo dibattito ha appassionato molto l’Accademia, ma, dal punto di vista pratico, ritengo sarà ben difficile che qualsiasi consulente d’impresa, al cospetto di una pandemia ad effetti duraturi che incide così profondamente sui modelli organizzativi, non suggerisca prudentemente di adeguare “lo strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”, piuttosto che esporre il cliente al rischio d’incorrere nella contravvenzione dell’art. 55, co. 1, lett. a) e co. 3 del Testo Unico. Tenuto altresì conto che per le Sezioni unite penali (cfr. sentenza n. 38343 del 2014) il datore di lavoro ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare “tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e all'esito deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi”.
17. Come giudica la tesi prospettata da una parte della dottrina (ad es. Arturo Maresca) sulla esaustività dei protocolli condivisi rispetto anche alla disposizione normativa generale di cui all’art. 2087 c.c., che risulterebbe superata?
Il Professor Maresca ha espresso l’opinione che, in base all’art. 29bis, il rispetto delle prescrizioni dei protocolli sarebbe idoneo ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, senza alcuno spazio per l’art. 2087 c.c., elidendo così vari effetti negativi, quali la carenza di uniformità delle misure di prevenzione del contagio, l’incertezza in ordine al loro contenuto, l’amplissima discrezionalità del giudice nell’accertamento della responsabilità datoriale che, al di là delle affermazioni di principio, sarebbe acclarata spesso con valutazioni ex post. Mi sono permesso di insinuare qualche dubbio sul fatto che questa netta ricostruzione, rassicurante per l’aspirazione datoriale ad una codificazione delle regole cautelari che renda giuridicamente “calcolabili” le conseguenze dell’attività d’impresa, possa trovare un sicuro successo nelle aule giudiziarie. È sufficiente scorrere i contenuti dei protocolli anti contagio per rendersi conto che ben pochi sono i comandi dal carattere univoco che si traducano in puntuali regole comportamentali, mentre la gran parte delle “prescrizioni” ha connotati elastici, per non dire orientativi. In molti casi sarà forse inevitabile un’opera di adattamento delle misure - in astratto delineate dai protocolli - al concreto assetto organizzativo della singola azienda, opera affidata all’imprenditore che conserva innegabili spazi di discrezionalità applicativa. E nel caso di evento dannoso sottoposto al controllo giudiziale, quale potrà essere mai il parametro normativo che la lente del giudice esaminerà per valutare se l’imprenditore, in detti margini operativi, abbia adottato le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, se non l’art. 2087 c.c.? Tanto più che da tempo il diritto vivente afferma che neppure il rispetto di ogni regola contenuta in una norma positiva che individui misure di prevenzione nell’ambiente di lavoro comporta l’automatica esclusione di profili di colpa valutabili ex art. 2087 c.c. In tal senso, un qualche presagio mi è sembrato di poter trarre - “per similitudine” - da quell’introduzione nel nostro ordinamento di norme dirette a delimitare la responsabilità medica, prima con la cd. Legge Balduzzi e poi con la cd. Legge Gelli-Bianco, le quali hanno fatto perno sulle linee guida accreditate nonché sulle buone pratiche clinico-assistenziali, che, se rispettate, possono escludere la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria. Le Sezioni Unite penali (sentenza n. 8770 del 21 dicembre 2017) hanno contenuto l’esonero da responsabilità, ove siano in gioco la vita e la salute delle persone, entro limiti assai ridimensionati, probabilmente tali da tradire le attese della cerchia dei professionisti interessati, che magari confidavano in ben più estese protezioni.
18. Quindi, l’art. 29bis non solo realizza la più volte denunciata illusione percettiva dell’esonero da responsabilità, ma addirittura alimenta la tanto deprecabile incertezza del diritto, come pure qualcuno ha paventato?
Potrebbe accadere. Basti pensare che la disposizione richiama plurimi protocolli di vario livello e ambito territoriale, dai quali scaturisce un vasto insieme di obblighi e/o raccomandazioni, per cui è agevole prevedere l’affanno degli interpreti nello sceverare dalla selva regolativa le misure applicabili – o che avrebbero dovuto essere applicate – in ciascuna azienda. Inoltre, ulteriore fattore di incertezza è il rinvio a previsioni protocollari dai contenuti, come si è detto, per lo più elastici o indeterminati, che necessitano di adattamento alla specificità del caso concreto, inevitabilmente demandato al datore di lavoro e, successivamente, al giudice che dovrà controllarne l’operato, probabilmente utilizzando ancora l’art. 2087 c.c. in via residuale. Vi è pure il rischio di alimentare l’impropria convinzione che basti rispettare i protocolli per andare esenti da responsabilità, suscitando incauti affidamenti. Tornando al tema di fondo, circa le illusioni cognitive che tendono a propagarsi velocemente in situazioni emergenziali, generando catene di inganni: “L’illusione del legislatore genera l’illusione di chi ha confidato nell’aver conquistato uno ‘scudo’ e si troverà, invece, la stessa protezione d’un tempo”.
19. Ma se, come Lei sostiene, opererà sempre e comunque in via sussidiaria, in una virtuosa integrazione reciproca delle fonti cautelari, il ricorso all’art. 2087 c.c. «onde preservare la sua funzione dinamica di norma di chiusura dell’intero sistema antinfortunistico, civile e penale», a cosa servono i protocolli condivisi?
Una volta disillusi che l’art. 29bis possa costituire la lama che scioglie ogni nodo, va ribadito che i protocolli, con la norma che li evoca, comunque servono. Servono ad indurre una maggiore responsabilizzazione dei datori di lavori sulla necessità di adottare tutte le misure di contenimento del contagio previste dai protocolli, anche in cambio di potenziali esoneri da responsabilità, orientandoli nell’apprestare le cautele ritenute convenzionalmente basilari, tanto più in un contesto scientifico dominato dall’incertezza. Ma ritengo sia positiva pure la spinta verso una delimitazione del novero delle condotte colpose addebitabili, quanto meno attenuando -come pure è stato scritto- “la tentazione di un pericoloso scivolamento verso la logica semplificatoria del giudizio ex post, per la quale – a posteriori – si può e si potrà sempre pretendere qualcosa in più da parte dei datori di lavoro”. In tale prospettiva le disposizioni del protocollo potrebbero rappresentare un imprescindibile punto di partenza per la verifica della misura oggettiva della colpa dell’agente modello, con conseguenze in punto di esclusione della responsabilità datoriale.
20. Il legislatore è intervenuto, quindi, offrendo una soluzione di mediazione, che non risolve il problema, ma lo sposta, inevitabilmente, nelle aule giudiziarie. È questa l’«astuzia compromissoria» di cui parla?
Sono persuaso che il testo dell’art. 29bis in discorso costituisca comunque l’elaborazione di una mente politicamente avveduta. In un momento delicato in cui si fronteggiavano, da una parte, i clamori della piazza che reclamava “scudi” penali e, d’altra parte, il timore di pregiudicare la tutela della salute dei lavoratori, il Governo ha optato per una formula di mediazione, in larga parte ricognitiva ma comunque rassicurante, perché anche le illusioni cognitive procurate sanno esserlo. Politicamente, in quella formula, ciascuno ha potuto vedere la parte di bicchiere pieno e, per l’intanto, sfumate le contrapposizioni, si è agevolata la graduale ripresa delle attività produttive, lasciando alla futura opera della giurisprudenza dire quali effetti avrà prodotto la scelta normativa.
21. Sgombrato il campo da «pretese aprioristiche di eccezionali garanzie d’immunità», come Lei scrive nell’ultimo capitolo del libro, quali sono le «salvaguardie di sistema», per evitare di accreditare la tesi che da ogni infortunio sul lavoro da Covid-19 possa derivare la responsabilità sia civile che penale del datore di lavoro?
Per evitare una piena discovery, lascerei alla curiosità del lettore che ha avuto la pazienza di seguirci fin qui di scoprire nel libro quali siano quelle che ho definito “le salvaguardie di sistema”, intese come “mura di cinta […] idonee a preservare un equilibrato contemperamento degli interessi in gioco”. Direi solo che ho cercato di argomentare perché, a mio avviso, “l’esatta visione del problema all’interno di principi consolidati dal sistema - e non al di fuori di esso - costituisce il vaccino idoneo a creare gli anticorpi sufficienti a proporre soluzioni adeguate pure in condizioni di emergenza pandemica”.
21. Grazie per il quadro d’insieme che ha saputo dare, non solo ai lettori di Giustizia Insieme, su temi così importanti e di stringente attualità.
Molte grazie alla Rivista Giustizia Insieme, e grazie a Lei, per avermi offerto l’opportunità di parlarne.
Possiamo concludere richiamando l’idea, dichiarata sin dall’esordio del libro: «che il racconto sviluppi una commedia degli inganni, dove la distorta percezione dei fenomeni giuridici, determinata da difetti di comprensione ma anche dagli umori dell’opinione pubblica tanto più variabili in situazioni emergenziali, procura illusioni alla mente collettiva, condizionandone pesantemente le valutazioni e le scelte; così come il pensiero intuitivo, influenzato dalle emozioni e dalle precomprensioni in condizioni di allarme e di incertezza, genera illusioni cognitive che condizionano i comportamenti individuali, indirizzandoli secondo ciò che loro falsamente appare».
Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale?
Riflessione a più voci sugli effetti dell’emergenza epidemiologica nei rapporti di lavoro del personale più esposto ai contatti con la collettività
Intervista di Marcello Basilico a Fabrizio Amendola, Raffaele De Luca Tamajo e Vincenzo Antonio Poso
[v., per i precedenti in tema su questa Rivista, Il vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro. Riflessioni a partire dall’ordinanza cautelare del Giudice del lavoro di Messina di Lisa Taschini - Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico ad Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli - Vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione. Note a margine del parere del Comitato Nazionale per la Bioetica di Marianna Gensabella Furnari.]
La scelta del tema
Gli episodi di nuovi contagi all’interno di strutture ospedaliere o socioassistenziali in coincidenza col rifiuto del relativo personale di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19 riaccendono il dibattito sull’imposizione di obblighi, almeno per alcune categorie mirate di lavoratori, e sui poteri rimessi al datore di lavoro.
L’urgenza di pervenire a soluzioni giuridiche chiare nasce dalla diffusione delle posizioni di avversione al vaccino col rischio di rendere inefficace la campagna vaccinale, unico rimedio allo stato per conseguire una vittoria su larga scala contro la pandemia. L’annuncio d’un imminente intervento normativo interroga i giuristi sul suo possibile contenuto, in una materia investita da molteplici temi giuridici, espressivi talvolta di valori contrastanti, e lascia spazio anche a valutazioni preventive sugli effetti nell’ordinamento delle disposizioni preconizzate.
Abbiamo interpellato tre studiosi del diritto del lavoro che rappresentano anche tre categorie di giuristi: i professori universitari (Raffaele De Luca Tamajo), gli avvocati (Antonio Poso) e i giudici (Fabrizio Amendola), per avere da loro un’opinione utile per questa riflessione anche in vista dell’iniziativa legislativa. Ecco il loro pensiero, che riportiamo su ciascuna domanda in rigoroso ordine alfabetico.
1. Come per tutti i cittadini, neppure per gli operatori sanitari v’è a oggi un obbligo di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19. I connotati specifici del loro rapporto contrattuale, pubblico o privato, consentono comunque al datore di lavoro di imporre loro tale obbligo?
Fabrizio Amendola Registro che il tema alimenta tra i giuristi un vivace dibattito, che sostanzialmente forma due schieramenti i quali giungono a conclusioni diametralmente opposte. Entrambe le tesi risultano autorevolmente sostenute, con argomentazioni davvero pregevoli. Mi limito ad osservare che chi propende per l’esistenza dell’obbligo vaccinale in delimitati ambiti lavorativi già sulla base delle norme vigenti è costretto a fare ricorso ad una mezza dozzina di disposizioni, reperite in varie fonti legislative che vanno dal codice civile (art. 2087 c.c.) a leggi speciali (il T.U. sulla sicurezza sul lavoro, la legge di bilancio del 2020, l’art. 42, d.l. n. 18/2020) ed anche secondarie (ad ex. il decreto ministeriale sul piano nazionale dei vaccini), in combinata ed orientata lettura con una o più norme e princìpi costituzionali; rilevo poi che, anche chi milita in questo stesso campo, giunge alla medesima conclusione ma con argomenti spesso diversi.
Personalmente leggo nell’art. 32, co. 2, Cost., che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La materia delle vaccinazioni è dunque sicuramente coperta da riserva di legge e lo stesso legislatore incontra dei limiti, come ha spiegato più volte il Giudice delle leggi (Corte cost. n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990). Se lo stesso Parlamento è costretto a muoversi in spazi confinati in un ambito che coinvolge più diritti e libertà di rilievo costituzionale – il diritto alla salute nel duplice profilo individuale e pubblico, il diritto al rispetto della persona umana, la libertà di autodeterminazione nella sottoposizione a trattamenti sanitari, la libertà d’impresa – ho difficoltà a convincermi che l’obbligo di vaccinazione possa trovare origine certa nelle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, sebbene integrato da fonti legali e dall’esegesi di princìpi generali.
In ogni caso proverei a mettermi nei panni del cittadino comune, sia esso datore di lavoro, che ha alle dipendenze un infermiere che rifiuta di vaccinarsi, ma anche infermiere renitente, che magari vorrebbe sapere preventivamente quali potranno essere le conseguenze del suo rifiuto. In un momento già così complicato per la vita delle persone, mi sembra irragionevole pretendere dal cittadino di cercar di capire, tra le decine di pagine di contributi specialistici, se bisogna seguire la tesi patrocinata da un accademico esperto o piuttosto quella, opposta, sostenuta da un magistrato, parimenti esperto.
Noi giuristi spesso trascuriamo come i destinatari delle norme siano innanzi tutto persone comuni che, per quanto è possibile, dovrebbero conoscere anticipatamente come conformare i loro comportamenti alle regole del diritto; forse il legislatore, in situazioni così incerte e dibattute, dovrebbe assumersi le conseguenti responsabilità.
Raffaele De Luca Tamajo A rigore non sarebbe necessaria la legge in gestazione per obbligare alla vaccinazione i medici e tutti coloro che operano in strutture sanitarie o socioassistenziali a stretto contatto con malati o anziani. Ferma restando, infatti, la libertà costituzionalmente sancita di rifiutare il vaccino (art. 32), nel momento in cui volontariamente un cittadino entra in un contratto di lavoro avente ad oggetto la cura e l’assistenza di pazienti “fragili” egli assume vincoli e obblighi in qualche misura dismissivi anche di libertà fondamentali. Così come accade, ad esempio, per il giornalista assunto da un giornale con forte orientamento politico o addirittura di partito che accetta una limitazione della libertà di esprimere il proprio pensiero o la propria (in ipotesi diversa) ideologia e da tale volontaria accettazione risulta vincolato, anche a costo di vedere contenuto l’esercizio di una libertà fondamentale.
Una legge, ad hoc, tuttavia, troncherebbe ogni incertezza ed ogni dibattito, anche in merito alle conseguenze del rifiuto e alla delicata posizione di coloro che non possono sottoporsi al vaccino per ragioni di salute. Il dibattito in atto appare infatti appesantito da troppi distinguo e da uno spirito libertario che francamente andrebbero banditi in una fase storica in cui l’interesse generale deve essere anteposto con fermezza rispetto a conati di individualismo poco coerenti con la gravità del momento. Di buon auspicio al riguardo è, però, la circostanza che l’attuale Ministra della Giustizia, cui compete il varo del provvedimento legislativo sul tema, è stata la redattrice di una significativa ordinanza della Corte costituzionale (la n.5 del 2018), nella quale si legge tra le righe un giudizio di ragionevolezza in ordine ad un bilanciamento tra il diritto alla autodeterminazione personale in materia sanitaria e la tutela della salute della collettività decisamente favorevole a quest’ultima, quanto meno in presenza di fasi epidemiologiche particolarmente gravi e fatto salvo ogni previo tentativo di informazione e persuasione dei renitenti.
Nell’ottica della chiarezza c’è da augurarsi, piuttosto, che la legge in fieri lasci uno spazio davvero residuale agli accordi sindacali, dal momento che proprio il rilievo “generale” degli interessi in gioco non può tollerare soluzioni di compromesso tendenzialmente favorite dagli attori rappresentativi di interessi sociali settoriali, quando non anche corporativi.
Vincenzo Antonio Poso La vaccinazione degli operatori sanitari, unitamente ad altre misure di protezione, collettive e individuali, per la prevenzione della trasmissione delle infezioni nelle strutture sanitarie, risponde a tre esigenze di sanità pubblica: proteggere l’operatore dal rischio professionale di carattere infettivo; proteggere le persone che si rivolgono ai servizi sanitari, la cui condizione di fragilità le rende maggiormente esposte alle infezioni; garantire l’operatività dei servizi assistenziali, salvaguardando continuità, qualità e sicurezza delle prestazioni erogate durante le epidemie.
Fatta questa premessa, è da escludere che il datore di lavoro possa imporre ai suoi dipendenti l’obbligo della vaccinazione, in considerazione della assoluta riserva di legge stabilita dall’art. 32 Cost. E tuttavia si potrebbe pensare (ma il tema è assi delicato) alla necessità della vaccinazione per l’espletamento di specifiche mansioni o quanto meno per l’accesso in particolari ambienti di lavoro.
Di qualche interesse è il percorso legislativo della Regione Puglia, che a ragion veduta cito, anche perché gli operatori sanitari, di fatto, si possono considerare dipendenti regionali, latu sensu, anche se il rapporto di lavoro pubblico privatizzato è con le aziende sanitarie e ospedaliere.
Con legge 19 giugno 2018, n. 27, è stato previsto, in particolare, all’art. 1: “1.La Regione Puglia, al fine di prevenire e controllare la trasmissione delle infezioni occupazionali e degli agenti infettivi ai pazienti, ai loro familiari, agli altri operatori e alla collettività, individua con la deliberazione di cui all'articolo 4, i reparti dove consentire l'accesso ai soli operatori che si siano attenuti alle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente per i soggetti a rischio per esposizione professionale. - 2. In particolari condizioni epidemiologiche o ambientali, le direzioni sanitarie ospedaliere o territoriali, sentito il medico competente, valutano l'opportunità di prescrivere vaccinazioni normalmente non raccomandate per la generalità degli operatori”.
Come è noto, con la sentenza n. 137 del 6 giugno 2019 la Corte Costituzionale mentre ha dichiarato “costituzionalmente illegittimo l’art. 1, c.2, di detta legge per violazione dell’art. 117, c.3 e 32, Cost. che, in combinato disposto, disciplinano in materia la riserva di legge statale”, ha lasciato indenne dalla censura di incostituzionalità il comma 1 (e gli altri articoli della legge regionale) riconducendolo all’organizzazione sanitaria di competenza regionale. La prescrizione della legge regionale non si rivolge, infatti, alla generalità dei cittadini “ma si indirizza specificamente agli operatori sanitari che svolgono la loro attività professionale nell’ambito delle strutture facenti capo al servizio sanitario nazionale, allo scopo di prevenire e proteggere la salute di chi frequenta i luoghi di cura: anzitutto quella dei pazienti, che spesso si trovano in condizione di fragilità e sono esposti a gravi pericoli di contagio, quella dei loro familiari, degli altri operatori e, solo di riflesso, della collettività”; tenuto conto, peraltro, che anche “le società medico-scientifiche […] segnalano l’urgenza di mettere in atto prassi adeguate a prevenire le epidemie in ambito ospedaliero, sollecitando anzitutto un appropriato comportamento del personale sanitario, per garantire ai pazienti la sicurezza nelle cure”. In questa ottica la regolamentazione regionale dell’accesso ai reparti degli istituti di cura è finalizzata a prevenire le epidemie in ambito nosocomiale e si muove nel solco del PNPV vigente che “indica per gli operatori sanitari alcune specifiche vaccinazioni in forma di raccomandazione, sulla base della fondamentale considerazione che un adeguato intervento di immunizzazione degli operatori sanitari non solo protegge gli interessati, ma svolge un ruolo di «garanzia nei confronti dei pazienti ai quali», date le loro particolari condizioni di vulnerabilità, «l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali» (PNPV 2017-2019, p. 67)”.
È intervenuta, di recente, la l. 10 marzo 2021, n. 2 che, in applicazione della precedente l. n. 27/2018 e del suo regolamento attuativo 25 giugno 2020, n. 10, e muovendosi nella stessa prospettiva, estende le disposizioni di sicurezza da questi atti normativi previste a carico degli operatori sanitari anche con riferimento al contagio da Covid-19.
Queste disposizioni possono rappresentare un modello normativo virtuoso per rispondere alle tante aspettative in assenza di una legislazione che imponga la somministrazione del vaccino.
Merita anche ricordare la recente ordinanza cautelare del Tribunale del Lavoro di Messina del 12 dicembre 2020 ( pronunciata in una causa promossa da alcuni sanitari ausiliari), che, senza entrare nel merito delle altre problematiche lavoristiche, ha disapplicato il decreto assessorale regionale siciliano e le note aziendali ospedaliere di sua conseguente applicazione, che, proprio per evitare la concomitanza della “ordinaria” influenza con il contagio pandemico, avevano imposto al personale sanitario l’obbligo della vaccinazione antinfluenzale e anti pneumococcica, sul presupposto, incontestabile, che la tutela della salute è materia che la Costituzione, con l’art. 32, riserva alla legge statale.
2. In che misura il codice deontologico di medici e infermieri influisce nella possibile configurazione di tale obbligo?
Fabrizio Amendola Dal mio punto di vista, siccome dubito che un coacervo di disposizioni, comunque di livello primario, possa considerarsi sufficiente a rispettare la riserva di legge contenuta nella Costituzione per un trattamento sanitario qual è la vaccinazione, a maggior ragione le mie perplessità aumentano laddove la fonte dell’obbligo voglia rinvenirsi in previsioni di un codice deontologico, che sono destinate a produrre effetti prevalentemente sul ben diverso piano degli illeciti disciplinari sanzionati dai rispettivi ordini professionali.
Raffaele De Luca Tamajo Probabilmente non c’è bisogno di scomodare il pur rilevante codice deontologico dei medici e degli infermieri per affermare il loro obbligo vaccinale: è sufficiente ricorrere all’oggetto del contratto di lavoro da essi sottoscritto per comprendere che l’adempimento risulta vulnerato o reso impraticabile da una condizione (evitabile) di esposizione potenziale al virus, foriera di pericolo per i pazienti fragili, specie nella fase in cui il contagio del sanitario è presente, ma non ancora conclamato (fase che neanche il frequente ricorso ai tamponi accertativi potrebbe disinnescare del tutto).
Vincenzo Antonio Poso Sono sempre stato convinto che la vaccinazione debba essere considerata un obbligo deontologico per i medici e gli operatori sanitari, in una nozione ampia, che comprende tutti quelli che vengono a contatto con le persone che accedono ai servizi e alle strutture sanitarie, ma anche negli ambulatori e nelle visite domiciliari, indipendentemente dal lavoro e dall’attività (anche specificamente non sanitaria) svolta.
Tutti i giuristi che hanno posto il problema della regolamentazione della vaccinazione con la legge, hanno evidenziato, comunque, l’obbligo morale di vaccinarsi.
Ne ho tratto conferma leggendo, seppur fugacemente, in occasione di questa intervista, i Codici deontologici, che andrebbero esaminati con maggiore attenzione e capacità di analisi.
Per i medici (Codice di deontologia approvato il 18 maggio 2014 e successive modificazioni) è già significativa la formula del giuramento professionale, tutta incentrata sui principi di competenza, responsabilità, cura dei pazienti e salute pubblica. Nello specifico, trovo significative queste disposizioni: l’art. 3, c.1, che declina i doveri del medico e tra questi la tutela della vita, della salute psico-fisica; l’art. 4, che richiama espressamente il principio della responsabilità; l’art. 14, secondo il quale il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e degli operatori coinvolti… contribuendo alla prevenzione e alla gestione del rischio clinico, anche con le buone patiche cliniche.
Ritengo rilevante, anche, l’art. 30 che impone al medico di segnalare le situazioni di contrasto e conflitto di interessi, che io vedo anche nel rapporto, di necessaria trasparenza, tra medico non vaccinato e paziente.
Poi ci sono tutte le norme, art. 33 e ss., sugli obblighi informativi, sulla comunicazione del consenso e del dissenso.
Per le professioni infermieristiche (Codice approvato il 12 e 13 aprile 2019) ho appuntato la mia attenzione sui principi generali definiti dall’art. 1: responsabilità, cura, sicurezza e dall’art. 2: bene della persona, della famiglia e della collettività. Poi c’è l’intero Capo II dedicato alla responsabilità assistenziale. L’infermiere ha un ruolo rilevante di responsabilità nell’organizzazione (art. 30) e in base all’art. 32 partecipa al governo clinico, promuove le migliori condizioni di sicurezza della persona assistita, fa propri i percorsi di prevenzione e gestione del rischio, anche infettivo, e aderisce fattivamente alle procedure operative, alle metodologie di analisi degli eventi accaduti e alle modalità di informazione alle persone coinvolte. Gli infermieri hanno un ruolo nevralgico nell’organizzazione sanitaria e per questo si capisce, anche, come siano di maggiore evidenza i contenziosi che sull’obbligo vaccinale si sviluppano in misura maggiore rispetto ai medici.
Anche qui c’è una norma, l’art. 43, sul conflitto di interessi, per la quale richiamo la lettura che ho dato alla norma parallela del Codice deontologico per i medici.
Posso, quindi, in estrema sintesi, enucleare quattro profili di etica nella materia che ci occupa: etica clinica, etica di salute pubblica, etica professionale, etica delle istituzioni.
Ciò precisato, mi sento di dire, rispondendo a questa specifica domanda, che il problema etico, di deontologia sanitaria (se così si può riassumere), è più teorico, che pratico, ai fini della imposizione dell’obbligo vaccinale. Intendo dire che certamente ci potranno essere ricadute sul piano del rapporto di lavoro, per le valutazioni disciplinari che l’ordine professionale (e lo stesso datore di lavoro) potrà trarne con evidenti, anche gravi, conseguenze; sicuramente la violazione delle norme deontologiche potrà essere utilizzata in funzione dissuasiva e gli ordini professionali potranno agire più facilmente nell’opera di convincimento per gli iscritti. Non credo, però, che solo per questo possa essere costruito, in termini strettamente giuridici, un obbligo di vaccinazione.
3. Pur in assenza d’un obbligo, quali effetti può avere il rifiuto a vaccinarsi da parte dell’operatore sanitario per il suo rapporto di lavoro o, quanto meno, per la sua posizione nel contesto lavorativo in cui è inserito?
Fabrizio Amendola Escluso che il lavoratore nolente possa essere licenziato con una procedura disciplinare, tuttavia la non obbligatorietà del vaccino non significa che il lavoratore che liberamente si determina in tal senso non possa andare incontro a conseguenze incidenti sul rapporto di lavoro.
Allo stato attuale della legislazione mi pare che la strada più prudente da percorrere sia quella ricavabile dalle disposizioni di cui al d.lgs. n. 81/2008, nel capo dedicato alla “sorveglianza sanitaria”. Il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive “particolari” per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra cui la messa a disposizione di vaccini efficaci (che non significa, però, obbligo di sottoporsi al vaccino) e l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’art. 42 (art. 279, comma 2, d.lgs. n. 81/2008). Il medico competente, dunque, valutati i compiti svolti dal dipendente ed il contesto aziendale di riferimento, può esprimere un giudizio di inidoneità rivolto al lavoratore nelle ipotesi in cui questi abbia rifiutato di vaccinarsi, con allontanamento temporaneo dello stesso e adibizione ad altre mansioni, anche inferiori, ove possibile.
I vantaggi di una tale soluzione stanno nell’adattamento alle circostanze del caso concreto, filtrate da un giudizio tecnico del medico, che potrà selezionare caso da caso, tenuto conto della situazione del singolo e delle sue funzioni, in rapporto al contesto in cui opera e ad eventuali misure di sicurezza alternative; nella sindacabilità in sede di impugnazione da parte di un organo terzo quale la commissione medica ai sensi dell’art. 42, comma 9, del d.lgs. n. 81/2008; nell’adeguamento delle misure all’evoluzione dell’andamento epidemiologico e delle conoscenze scientifiche, oltre che dei ripensamenti personali. Non possiamo, però, nasconderci che laddove il rifiuto si moltiplichi, ad ex. in strutture sanitarie, la strada descritta, anche per i tempi necessari a percorrerla, può generare problemi organizzativi inconciliabili con l’emergenza pandemica.
Raffaele De Luca Tamajo La conseguenza del rifiuto del vaccino, a mio avviso, non potrebbe mai consistere nel licenziamento, ma al massimo in una anche prolungata sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, cui approdare, peraltro, dopo un estremo tentativo di informazione e persuasione e dopo la fruizione delle ferie, dei congedi retribuiti ed eventualmente dopo la verifica in merito alla possibilità di adibizione a diversa postazione lavorativa (che escluda il contatto con pazienti o anziani), purché esistente allo stato della organizzazione aziendale e purché non “premiante”.
La sospensione dovrebbe durare da quando il vaccino è soggettivamente fruibile a quando si realizza nel luogo di lavoro una sostanziale immunità di gregge, così da rendere irrilevante la presenza di qualche unità di dipendenti non vaccinati. La legge, comunque, potrebbe utilmente chiarire se si è in presenza di una impossibilità/inidoneità ad adempiere o di una misura disciplinare (con tutte le conseguenze procedurali).
Vincenzo Antonio Poso Prima di dare una risposta a questa domanda, ci dobbiamo chiedere se e in quali limiti il datore di lavoro possa imporre al proprio dipendente l’obbligo della vaccinazione: sembra del tutto evidente che non possa farlo se non violando il principio stabilito dall’art. 32, c. 2, Cost., che vieta l’assoggettamento del lavoratore a un determinato trattamento sanitario che diventerebbe, in tal modo, obbligatorio per volontà di una parte contrattuale e non della legge statale alla quale questa scelta è riservata in maniera esclusiva.
Questo, però, non risolve il problema della responsabilità del datore di lavoro e degli obblighi del dipendente nei suoi confronti.
Qualcuno ha coniugato il principio della prevenzione con quello della solidarietà, ma è indubbio che la solidarietà, se non è imposta dalla legge, resta un mero postulato, un problema di coscienza individuale (e collettiva), ma sul piano degli obblighi della prevenzione, però, la situazione è diversa. L’art. 2087 c.c., che, come norma residuale, ha un ambito di applicazione esteso, non arriva ad imporre al datore di lavoro di adottare misure di prevenzione, a tutela di tutti i dipendenti, non previste dalla legge e in contrasto con la Costituzione che tutela i diritti della persona; e tuttavia il datore di lavoro deve adottare misure adeguate ed efficaci, per prevenire e limitare il rischio del contagio, imposte dalla scienza medica e dalla tecnica.
Mi sentirei di riassumere il mio pensiero in questo breve decalogo: a) il datore di lavoro può, anzi deve pretendere dai suoi dipendenti e collaboratori una certificazione attestante la loro avvenuta vaccinazione, assumendo le necessarie informazioni, nel rispetto della privacy sui lavoratori vaccinati e non vaccinati, per accettare la loro prestazione, in attuazione del rapporto obbligatorio in cui si realizza l’esecuzione del contratto di lavoro (su questo punto la posizione espressa da ultimo dal Garante deve essere presa in considerazione, per valutarne gli effetti, ma non mi sembra condivisibile); b) l’attività di prevenzione e controllo è prevista espressamente dall’art. 279, d.lgs. n. 81/2008, che affida la sorveglianza sanitaria al medico competente (ex art. 41), e al datore di lavoro, anche con la messa a disposizione di vaccini efficaci e con le informazioni necessarie sui vantaggi e gli inconvenienti delle vaccinazioni; c) il comportamento del lavoratore non collaborativo, ostativo, assume indubbiamente un connotato disciplinare, con tutto ciò che ne consegue, sul piano fisiologico o patologico del rapporto di lavoro.
Altra cosa, nella situazione data, è la valutazione datoriale del comportamento di chi non ha effettuato il vaccino e rifiuta la sua somministrazione. Non è di natura disciplinare, ma non è immune da conseguenze. È un comportamento che non può integrare gli estremi dell’infrazione disciplinare perché è esplicazione di un diritto coperto dalla massima tutela, quella costituzionale. In proposito faccio mie tutte le argomentazioni spese da chi ha parlato di sospensione del rapporto di lavoro, impossibilità temporanea sopravvenuta della prestazione, inadempimento, che consentono al datore di lavoro di non corrispondere la retribuzione (e non versare la relativa contribuzione previdenziale ed assistenziale), escludendo la misura estrema del licenziamento, per motivi disciplinari, che, frettolosamente, qualcuno ha pure avanzato all’inizio del dibattito su questo tema. In breve sintesi: il datore di lavoro può eccepire l’inadempimento del lavoratore all’obbligo di sicurezza del lavoratore e pertanto rifiutarsi di ricevere la sua prestazione e non retribuire il lavoratore fino a quando questi non provveda a vaccinarsi.
È indubbio che, nella grave contingenza nella quale ci troviamo, il datore di lavoro ha interesse non solo a che il proprio dipendente si sottoponga alla vaccinazione, così da fare tutto il possibile per realizzare la prevenzione del rischio di contagio nei luoghi di lavoro, ma deve porsi anche il problema interno alla sua organizzazione di lavoro, per evitare e limitare, nei limiti del possibile, le probabilità di assenze causate dal Covid-19, e, all’esterno, per fornire a clienti e utenti prestazioni e servizi resi da personale vaccinato, tendenzialmente immunizzato, per evitare i rischi del contagio. Il datore di lavoro non può essere costretto ad adeguare la sua organizzazione, anche in termini di organico dei lavoratori dipendenti (ad esempio con un lavoratore a termine o somministrato), per consentire l’esercizio di un diritto, seppure di rilevanza costituzionale, ad un suo dipendente che non intende vaccinarsi. Certamente il problema dovrà essere valutato nell’ambito concreto del luogo di lavoro, dell’impresa e della specifica unità di lavoro, ma il datore di lavoro potrebbe arrivare alla determinazione del recesso per motivi oggettivi e ad anche per inidoneità all’esercizio delle mansioni assegnate o assegnabili, non essendo sempre possibile il trasferimento di sede e l’assegnazione di mansioni diverse, anche inferiori. La norma guida rimane l’art. 42, d.lgs. n. 81/2008.
Ritengo assai discutibile, invece, la soluzione, pure prospettata con argomenti di indubbio interesse, di consentire, in regime di sospensione del rapporto di lavoro, la CIG-Covid-19, perché la situazione di temporanea impossibilità della prestazione, per quanto possa essere definita oggettiva, deriva, pur sempre, da una scelta del lavoratore, legittima, magari apprezzabile, anche sul piano delle personali convinzioni di ognuno (ma su questo aspetto non è da escludere da parte di qualche lavoratore una censura di discriminatorietà), che, se non risulta giustificata sulla base di presupposti oggettivi che impongano l’esenzione dal vaccino, non può certamente essere messa in conto alla collettività.
4. Il giudice del lavoro del Tribunale di Belluno ha nei giorni scorsi respinto il ricorso di dieci operatori socio-sanitari che avevano chiesto il ripristino in via d’urgenza delle proprie prestazioni lavorative dopo che, avendo rifiutato il vaccino Pfizer, erano stati collocati in ferie e dichiarati inidonei alla mansione dal medico competente. Il giudice ha ritenuto che, stante la notorietà dell’efficacia del vaccino, “la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c.”. Condivide questa impostazione?
Fabrizio Amendola Nel corso di decenni l’art. 2087 c.c. ha svolto mirabilmente la sua funzione di norma di chiusura del sistema antinfortunistico, consentendo, con la sua struttura aperta, l’adattamento delle misure di sicurezza alle evoluzioni del progresso tecnico e scientifico. Assegnargli anche il gravoso compito di soddisfare la riserva di legge di cui al comma 2 dell’art. 32 Cost. mi sembra un tentativo apprezzabile, ma rischioso in termini di tenuta dell’orientamento giurisprudenziale che si fondi sulla norma codicistica.
Ho difficoltà a rinvenire in una norma “in bianco” così ampia e generica, dettata esclusivamente per i rapporti di lavoro, quella specifica “disposizione di legge” richiesta dall’art. 32 Cost. per imporre a qualsiasi cittadino un trattamento sanitario obbligatorio; una legge che, secondo la stessa previsione costituzionale “rafforzata”, dovrebbe stabilire anche i contenuti per non “violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Credo occorra, invece, una disposizione ad hoc, che obblighi alla vaccinazione specificamente individuata, onde evitare di trasferire sul terreno privatistico-contrattuale le conseguenze di una traslazione della responsabilità della scelta dal legislatore al singolo datore di lavoro, cui risulterebbe probabilmente anche addossata una responsabilità per gli eventi avversi della vaccinazione. Concordo invece, come già detto, sull’utilizzo degli strumenti forniti dalla sorveglianza sanitaria.
Peraltro, nell’ordinanza del giudice bellunese viene dato per “notorio che non è scientificamente provato che il vaccino per cui è causa prevenga, oltre alla malattia, anche l’infezione”; il che prospetta l’ulteriore complicazione data dal fatto che la scienza ufficiale non ha ancora sancito con certezza che, oltre a proteggere sé stessi, il vaccino impedisca anche la trasmissione del virus ad altri, tanto che l’Istituto Superiore di Sanità ancora raccomanda, anche dopo la somministrazione di entrambe le dosi del vaccino, di continuare a seguire scrupolosamente le abituali indicazioni utilizzate da ciascuno di noi per prevenire la diffusione del Covid-19.
Raffaele De Luca Tamajo Quanto alla sentenza del Tribunale di Belluno, essa, pur nella sua sinteticità assoluta, va letta nel senso che la permanenza dei renitenti nel luogo di lavoro precluderebbe al datore l’adempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure precauzionali e di sicurezza ex art. 2087c.c. e violerebbe, quindi, l’ obbligo di cooperazione a carico dei dipendenti previsto dall’art. 20 D. Lgs. n. 81/2008. In tal senso la sentenza è condivisibile.
Vincenzo Antonio Poso Mi attengo al contenuto dell’ordinanza cautelare che abbiamo potuto leggere perché ampiamente divulgata. Dalle notizie di stampa non è dato sapere, con esattezza, l’oggetto e il perimetro della domanda cautelare proposta. Se è stata richiesta l’adozione di provvedimenti generici e indefiniti, come par di capire, diretti a dichiarare o realizzare il loro diritto alla libera scelta di vaccinarsi o meno, dubito sull’ammissibilità, ab origine, del ricorso. Se sono stati impugnati specifici provvedimenti datoriali (risultano, comunque, smentite le prime notizie di stampa sulla sospensione senza retribuzione alcuna) di collocamento forzato in ferie, per unilaterale determinazione del datore di lavoro, la decisione è, a mio avviso, corretta, proprio per il bilanciamento degli interessi in gioco – diritto alle ferie, con un minimo di autodeterminazione nella scelta del periodo di fruizione da parte del lavoratore, e sicurezza delle condizioni e dell’ambiente di lavoro – evidenziato, seppur sinteticamente, nella stessa.
E tuttavia questa soluzione risolve il problema solo per il periodo, limitato, di fruizione delle ferie, esaurito il quale, perdurando la loro condizione di non vaccinati, i lavoratori si ritroveranno nella stessa situazione precedente. Dovranno, quindi, essere sottoposti alla visita del medico competente ex art. 279, c. 2, lett. b), d.lgs. n. 81/2008 e, in caso di ritenuta inidoneità alla mansione specifica, il datore di lavoro dovrà disporre l’allontanamento temporaneo, secondo le procedure dell’art. 42.
Uso, consapevolmente, il verbo dovere perché se il datore di lavoro sanitario ha considerato la situazione del lavoratore non vaccinato pericolosa per l’esercizio delle sue mansioni a contatto diretto con assistiti, ma anche colleghi di lavoro, la sua valutazione, in termini (anche generali) di sicurezza, di prevenzione e di misure tecniche e organizzative da adottare, non potrà certo cambiare dopo il breve periodo delle ferie godute, a meno che non muti il quadro generale della pandemia e della diffusione del contagio oppure non risulti con certezza o grande approssimazione l’inefficacia della vaccinazione.
Il rigetto del ricorso poteva essere deciso sulla (sola) base della manifesta insussistenza del periculum in mora, in quanto è stato, correttamente, rilevato dal giudicante il difetto assoluto di allegazione di fatti e comportamenti che facessero solo pensare all’intenzione del datore di lavoro di procedere alla sospensione dal lavoro e dalla retribuzione ed al licenziamento.
Sul fumus boni iuris il giudice richiama, correttamente, il dovere di sicurezza del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, previsto dall’art. 2087 c.c., non solo, ma anche la necessità d protezione dei colleghi di lavoro, dei pazienti e dei terzi con i quali i lavoratori non vaccinati possano venire in contatto.
Aggiungo io, e non è cosa di poco conto, il rischio, concreto, di azioni risarcitorie che la struttura sanitaria potrebbe subire in caso di contagio diffuso, di pazienti, dipendenti e terzi, non solo in caso di esiti infausti) per responsabilità imputabile al datore di lavoro per non aver messo in campo tutte le misure tecniche e organizzative adeguate al fine di evitare il danno.
Se proprio devo fare una critica all’ordinanza citata, devo evidenziare che viene usato per cinque volte, sebbene per ipotesi differenti, il termine notorio/notoria, anche per fatti e circostanze che avrebbero meritato una più chiara esposizione, compatibilmente con la natura sommaria del procedimento.
5. C’è davvero bisogno di una norma risolutiva della questione? Il legislatore come potrebbe bilanciare le scelte in materia autodeterminazione individuale del sanitario e di diritto collettivo alla salute improntandole a razionalità e proporzionalità, canoni su cui la Corte costituzionale ha insistito ancora di recente?
Fabrizio Amendola Ho avuto occasione di occuparmi della responsabilità del datore di lavoro, sia civile che penale, in caso di malattia da coronavirus contratta dal lavoratore («Covid-19 e responsabilità del datore di lavoro – ovvero delle illusioni percettive in tempo di pandemia», Bari, 2021). Ho riflettuto, tra l’altro, sul fatto che il Covid-19 ha rappresentato una sopravvenienza nei rapporti di lavoro che ha inciso sull’originario assetto di interessi e, innanzi ai mutamenti, il giurista deve chiedersi se i fenomeni nuovi vadano governati con gli strumenti concettuali e dogmatici esistenti, ovvero se occorra cercare ricostruzioni inedite o addirittura propendere per nuovi interventi della legge. In ogni caso ha il doveroso compito di trovare soluzioni che siano coerenti con il sistema ordinamentale su cui la sopravvenienza impatta.
Riterrei che, nella materia dell’obbligo vaccinale, solo un intervento specifico e consapevole del legislatore potrebbe dare luogo ad una soluzione che possa dirsi compatibile con il sistema, per di più sgombrando il campo da soluzioni opinabili che lascerebbero gli operatori, soprattutto quelli in prima linea in ambiente sanitario, esposti all’incertezza delle diverse opzioni interpretative.
Mi appare dirimente il rilievo che, secondo la giurisprudenza costituzionale in materia di vaccinazioni, “l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti od accettati) con il coesistente e reciproco diritto di ciascun individuo e con la salute della collettività” (per tutte: Corte cost. n. 258 del 1994, che richiama Corte cost. n. 307 del 1990 e n. 218 del 1994, e che è stata seguita, più di recente, da Corte cost. n. 268 del 2017 e n. 5 del 2018). Questo delicato “contemperamento” tra plurimi valori costituzionali non può che spettare esclusivamente al legislatore, il quale deve esercitarlo in modo mirato, articolando il contenuto dell’obbligo nella misura in cui assicuri la prevenzione necessaria, con il corredo di norme strumentali e sanzionatorie, le quali, a loro volta, concorrono in maniera sostanziale a conformare l’obbligo stesso, alla stregua delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche e dell’evoluzione della ricerca medica. Solo un plesso normativo così specificamente predisposto è in grado di calibrare il bilanciamento tra diversi interessi e la discrezionalità del legislatore in tal modo esercitata risulta poi eventualmente soggetta ad un sindacato di ragionevolezza ad opera del Giudice delle leggi. Mi domando come possa essere realizzato tutto ciò, affidandosi all’architettura di un insieme di norme diffuse raccolte dall’interprete in vari ambiti e dettate ad altri scopi e per altre ragioni.
Raffaele De Luca Tamajo La legge risulterebbe chiarificatrice in ordine alle conseguenze del rifiuto, potendo, tra l’altro, mettere a tacere l’obiezione che i vaccinati, al pari dei non vaccinati, sarebbero pur sempre in condizione di contagiare i terzi, sicché – a parità di rischio – non vi sarebbe la necessità di coartare i renitenti. Andrebbe, viceversa, chiarito che – stando alle più recenti evidenze statistiche internazionali – le probabilità che il vaccinato sia fonte di contagio per i terzi sono basse e, comunque, inferiori a quelle di un più possibile contagio da parte di un non vaccinato.
Vincenzo Antonio Poso La mia risposta è sì: in primo luogo, perché le politiche di vaccinazione volontaria, per quanto estese e condivise dalla collettività, non consentono (quasi) mai il raggiungimento di coperture vaccinali efficaci (e l’immunità c.d. di gregge); in secondo luogo, perché è necessario assicurare un unico regime a livello nazionale (su questo punto ritornerò dopo), per evitare fughe in avanti o arretramenti delle Regioni, che, anche (e soprattutto) in questa situazione, hanno dimostrato, in più occasioni, scarsa disponibilità al dialogo con lo Stato ( e le autorità sanitarie nazionali) e arroccamento su posizioni di autonomia autoreferenziale.
Ma andiamo con ordine, partendo da lontano. Il Comitato Nazionale per la Bioetica già in un parere del 22 settembre 1995 (“Le vaccinazioni”) pose il problema delle vaccinazioni in tutta la sua complessità (“problemi di facoltatività, di obbligatorietà e di coattività, problemi di rapporto costi-benefici, problemi di consenso, problemi di alternatività”) nei termini di una “prospettiva di ampio respiro, nella quale il bene di cui si va alla ricerca è insieme il bene del singolo e il bene di tutti”, senza escludere modalità più incisive tra le quali anche la coercizione esplicita, proponendosi lo scopo di una protezione vaccinale sufficientemente estesa da proteggere sia i singoli soggetti, sia l’intera popolazione da rischi significativi di contagio. In una mozione del 24 aprile 2015 (“L’importanza delle vaccinazioni”) di fronte all’allarme suscitato dalla recrudescenza del morbillo, anche in conseguenza della diminuzione della copertura vaccinale, ritorna su questo tema, richiamando, in maniera più incisiva, la responsabilità personale e sociale per assicurare una copertura adeguata per le vaccinazioni obbligatorie e per quelle solo raccomandate, senza escludere l’obbligatorietà della vaccinazione in caso di emergenza.
Questa posizione è richiamata nel recente parere del 27 novembre 2020 “I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione”, espresso sempre dal Comitato Nazionale per la Bioetica, che, pur ribadendo il rispetto dell’autonomia individuale e della spontanea adesione, non esclude un’imposizione autoritativa del vaccino, ove il diffondersi di un senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della di diffusione della pandemia lo consentano, ritenendo legittimi i trattamenti sanitari obbligatori in caso di necessità e pericolo per la salute delle singole persone e della collettività ( sul punto si possono richiamare le sentenze di Corte Cost. 307/1990 e 258/1994). Questo il punto centrale, che qui interessa: “Pertanto, nel caso in cui questa pandemia, che mette a rischio la vita e la salute individuale e pubblica, tanto più qualora non si disponga di nessuna cura, il Comitato ritiene eticamente doveroso che vengano fatti tutti gli sforzi per raggiungere e mantenere una copertura vaccinale ottimale attraverso l’adesione consapevole. Nell’eventualità che perduri la gravità della situazione sanitaria e l’insostenibilità a lungo termine delle limitazioni alle attività sociali ed economiche, il Comitato ritiene inoltre che – a fronte di un vaccino validato e approvato dalle autorità competenti - non vada esclusa l’obbligatorietà, soprattutto per gruppi professionali che sono a rischio di infezione e trasmissione di virus. Tale obbligo dovrebbe essere discusso all’interno delle stesse associazioni professionali e dovrà essere revocato qualora non sussista più un pericolo per la collettività”.
Il perimetro costituzionale, come è noto, è segnato dall’art. art. 32, comma 2, Cost., ma merita richiamare anche la legge 219/2017, sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (sul diritto alla libertà di cura v., tra le ultime, le sentenze di Corte Cost. 242/2019 e 207/2018).
Questo è il problema etico; resta il problema giuridico. Si impone, quindi, una scelta del legislatore che, giustamente, alcuni hanno considerato coerente con i principi enunciati dalla Corte costituzionale nelle sentenze 218/94 e 258/94, proprio nella prospettiva di evitare rischi per la salute dei terzi e per realizzare un virtuoso bilanciamento tra la salute del singolo individuo e la salute collettiva, realizzata anche, e soprattutto, dalle prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie.
Nessun obbligo può essere imposto senza l’intervento del legislatore, come pure qualcuno ha ritenuto possibile richiamando le norme fondamentali sulla sicurezza del lavoro, prime fra tutte l’art. 2087 c.c. e del d.lgs. 81/2008, nel perimetro degli obblighi non solo del datore di lavoro (art.18), ma anche dei lavoratori (art. 20). E, come ho anticipato sopra, l’intervento del legislatore, necessitato anche dalla previsione costituzionale dell’art. 32, c. 2, Cost., porterebbe nell’alveo nazionale una scelta che, anche su questo specifico punto, non può essere di rango regionale ( in proposito mi limito a richiamare la recente sentenza della Corte Costituzionale 37/2021 che ha dichiarato l’illegittimità di diverse norme della l. 11/2020, della Regione autonoma della Valle d’Aosta confermando che la materia della profilassi internazionale, sancita dall’art. 117, c. 2, lett. q, Cost., non spetta alle Regioni, nemmeno a statuto autonomo, ma rientra nella competenza esclusiva dello Stato).
Aggiungo che la riserva di legge è assoluta e non sono consentiti atti normativi secondari derivanti dalla legge.
Un’ultima osservazione. Come da alcuni è stato osservato, le soluzioni date sono due: obbligo o libertà di scelta, tertium non datur. Dal precetto obbligatorio ne conseguiranno le sanzioni; ma se la scelta resta libera (come ora) anche io credo che non sia possibile condizionare alla avvenuta vaccinazione l’esercizio di diritti fondamentali della persona, che non possono subire alcuna diminuzione.
Non possiamo, però, sottovalutare le problematiche connesse alla legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale anti Covid -19, che si potrebbero porre in futuro, ma che il legislatore attento (e intanto il Governo, visto che si parla di una misura da introdurre con decreto-legge) dovrebbe valutare sin da ora, anche perché il tema dei vaccini obbligatori nei confronti degli adulti in modo generalizzato non è stato mai affrontato dalla Corte Costituzionale (a differenza, ad esempio, delle materie riguardanti i vaccini obbligatori per i minori e le ipotesi di indennizzo per i danni derivanti dalle vaccinazioni non obbligatorie).
Dirimenti saranno le acquisizioni della scienza medica sugli effetti del vaccino per chi lo riceve e nei confronti degli altri, se, come in passato è accaduto (cito, per tutte, le sentenze n. 307/1990 e 258/1994), la Corte Costituzionale , al fine di affermare la liceità dell’obbligo vaccinale, nel rispetto dell’art. 32, Cost., valuterà “…se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato ma anche a preservare lo stato di salute degli altri”.
C’è da chiedersi, anche, se una legge che imponga agli adulti trattamenti sanitari obbligatori, contrasti, e in che misura, con il diritto alla libertà di cura e al consenso informato, che pure sono considerati valori a protezione costituzionale.
Una cosa è certa, se il legislatore farà una legge per imporre il vaccino anti Covid-19 dovrà stabilire anche le sanzioni derivanti dalla sua inosservanza, sol che si consideri quanto blande siano quelle conseguenti alla violazione dell’obbligo vaccinale per i minori (sanzioni amministrative e condizione di accesso solo alle suole dell’infanzia e agli asili).
6. Ritiene che una simile disposizione andrebbe estesa ad altri lavoratori addetti a servizi pubblici essenziali?
Fabrizio Amendola Compito del legislatore è anche quello di individuare esattamente i destinatari dell’obbligo vaccinale, valutando la corrispondenza tra il mezzo utilizzato ed il fine perseguito con criteri di proporzionalità e di coerenza logica. Il Parlamento è il luogo della sintesi elettiva che pondera i diversi interessi ed individua il perimetro dell’intervento, stabilendo il confine dove la prerogativa della persona di autodeterminarsi al trattamento sanitario cede il passo alla salvaguardia della salute collettiva ed individuale, con assunzione della responsabilità politica che ne deriva innanzi al Paese.
Non immagino un intervento generalizzato, bensì un criterio selettivo volto a scomporre e differenziare le situazioni, distinguendole non solo in base alla tipologia delle mansioni e al settore operativo, ma anche in rapporto alla maggiore o minore esposizione verso l’esterno dell’attività prestata. Magari in correlazione con quella scala di presunzioni disegnata dalla circolare n. 13 del 2020 dell’INAIL, per cui è ragionevole ritenere che laddove lo Stato assuma l’onere di indennizzare l’infortunio occasionato dal contagio in modo pressoché automatico, si può esigere la sottoposizione ad un trattamento sanitario obbligatorio in nome della salute pubblica. Possiamo comunque confidare nella fortunata evenienza che l’attuale Ministro della Giustizia è anche la redattrice dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 5 del 2018 che rappresenta, a mio avviso, il migliore prontuario operativo per il legislatore che voglia consapevolmente cimentarsi con il tema delle vaccinazioni obbligatorie.
Raffaele De Luca Tamajo Ai fini della necessità della vaccinazione non rileva la essenzialità del servizio reso, ma semmai il contatto frequente o prolungato tra gli addetti e i clienti o tra gli addetti tra loro. Il problema allora è di carattere generale e investe quasi tutti i luoghi di lavoro, anche se diversamente dai sanitari non attiene all’oggetto del contratto di lavoro.
Il tema pertanto è molto delicato, ma sarei incline a ritenere che anche qui, in ragione della peculiare e grave situazione epidemiologica, il bilanciamento tra la libertà dell’individuo di amministrare la propria salute e la tutela della salute collettiva debba pendere tutto a favore di quest’ultima. Naturalmente questa è solo una prevalutazione ideologica, occorrendo corroborarla con un sostegno tecnico-giuridico o, meglio ancora, con un chiaro intervento normativo.
Sul primo versante si potrebbe pensare ancora una volta all’obbligo del lavoratore di cooperare con il datore di lavoro per la messa in campo di ogni misura prevenzionistica, così da far rientrare l’obbligo vaccinale in questa dimensione di precauzione e da estenderlo a tutti coloro che operano a contatto con il pubblico o gomito a gomito con altri lavoratori. Anche in tal caso, tuttavia, occorrerebbe riconoscere un ruolo rilevante al “medico competente”, superare ogni ostacolo (derivante da eccessive preoccupazioni di privacy) alla conoscenza datoriale della condizione di lavoratore non vaccinato e potrebbe darsi luogo alla sospensione solo dopo che siano state verificate le possibilità di lavoro da remoto, di spostamento a diverse mansioni che non contemplano contatti, di ricorso alle ferie o ai congedi retribuiti.
Vincenzo Antonio Poso In coerenza con le mie risposte precedenti, la risposta a questa domanda è semplice: certamente sì. Se partiamo dal presupposto che la vaccinazione anti Covid-19 serve a proteggere non solo se stessi, ma l’intera collettività, non ha senso riservarla solamente agli operatori del settore sanitario.
È indiscutibile che nel settore sanitario l’incidenza del rischio sia maggiore rispetto ad altri settori, ma quanto meno tutti gli addetti ai servizi essenziali dovrebbero essere coinvolti. E non sono pochi. Ho trovato stucchevole la polemica sulla vaccinazione prioritaria che alcune regioni, come quella Toscana, hanno riservato al personale, tutto, addetto al comparto della giustizia, perché la ragione della preferenza è del tutto evidente.
Ma poi mi sono chiesto se non fosse stato meglio individuare, sin dall’inizio e con criterio fissato a livello nazionale, le categorie più fragili e maggiormente esposte al rischio del contagio, da proteggere con priorità, attingendo da quelle che operano in tutti i servizi essenziali e procedere, poi, in ragione dell’anzianità».
Le conclusioni
Marcello Basilico L’interferenza del tema vaccinale con gli obblighi insiti nel contratto di lavoro subordinato introduce – con caratteristiche del tutto proprie – un altro elemento d’incertezza nell’applicazione delle categorie giuslavoristiche, mai sotto tensione come in questa fase storica per l’invadenza della tecnologia in ogni forma di attività umana, per l’evoluzione dei fenomeni socio-economici e, ora, per gli effetti sociali della pandemia. Alla base di quest’ultima emergenza c’è la matassa del difficile bilanciamento tra libertà individuali e tutela della collettività, che i giuristi sono chiamati a dipanare in più settori dell’ordinamento, nella consapevolezza dell’inevitabile approssimazione di ogni intervento normativo in una vicenda così travolgente e nuova.
La pluralità delle idee e delle soluzioni emerse dal dibattito tra i tre illustri intervistati dimostra la controvertibilità delle questioni sul tappeto. Ma c’è dell’altro. Se da un lato l’intervento legislativo è giudicato utile anche da parte di chi ravvisa nel quadro normativo la possibilità di ricavare un obbligo vaccinale per gli operatori sanitari e socioassistenziali, d’altro canto non vi sono illusioni sulla capacità definitivamente chiarificatrice della norma in gestazione presso i Ministeri competenti.
Pare non secondario, peraltro, il concorde richiamo degli autori – e sotto più profili – alla sentenza della Corte costituzionale 5/2018, la quale si era pronunciata sulle questioni sollevate verso più disposizioni del d.l. 73/2017 (conv. nella legge 119/2017), allorché una Regione voleva censurare la scelta centralizzata d’introdurre l’obbligo di sottoporre a dieci vaccini i minori sino a sedici anni d’età, accompagnata, in caso di violazione, da sanzioni amministrative pecuniarie e dal divieto di accesso ai servizi educativi per l’infanzia.
La Consulta aveva ricondotto l’intervento legislativo ai principi fondamentali conferiti allo Stato dall’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di “tutela della salute”, e ritenuto legittime le disposizioni in questione escludendo l’irragionevolezza del sacrificio della libera autodeterminazione individuale. E’ interessante ricordare come per la Corte la tendenza al calo delle coperture vaccinali, desunta da più fonti pubbliche, sia, in presenza d’una situazione “preoccupante” sul territorio italiano con riferimento alle malattie prevenibili mediante vaccino, criterio di valutazione dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza ex art. 77 Cost. e, al contempo, parametro di razionalità nel bilanciamento tra le opposte esigenze in gioco.
V’è un’ulteriore aspetto non sempre evidenziato. Riguarda la minore “distanza tra raccomandazione e obbligo”, che i giudici di legittimità hanno colto nella pratica sanitaria rispetto ai rapporti giuridici: il tasso di analoga doverosità percepita tra questi due concetti in ambito medico, infatti, stempera la portata innovativa d’un intervento che renda obbligatoria in quel contesto la vaccinazione.
Com’è stato evidenziato, era relatrice di quella sentenza l’attuale Ministra della giustizia. E’ possibile dunque che parte del ragionamento articolato allora dalla Corte sia alla base della nuova disciplina vaccinale destinata agli operatori di sanità e servizi socio-assistenziali.
Per intanto Giustizia Insieme si porta avanti col lavoro, iniziando già a interrogarsi se e in che misura l’intervento legislativo imminente potrà influire, pur non regolandolo, sul rapporto lavorativo di altre categorie di addetti a servizi pubblici essenziali. C’è da augurarsi che il mondo del diritto, in particolare quello degli interpreti, sia all’altezza dei problemi che l’emergenza genera costantemente. Per parte nostra, inseguiamo senza tregua l’attualità anche per provare a fornire un supporto in tale direzione.
Ripensando ad A. Nappi, “Quattro anni a palazzo dei marescialli”
di Giovanni Tamburino
Sommario: 1. La democrazia e il CSM - 2. Il vincolo di mandato - 3. Politica dell’istituzione versus condominio sindacale - 4. Deformazione funzionale - 5. False eccezioni vera incoerenza - 6. Chi è il candidato-traditore - 7. Riforme. Debolezza dei rimedi elettorali - 8. Presidenti inascoltati - 9. Dalla crisi al rimedio.
1. La democrazia e il CSM
Il CSM è un’istituzione democratica. Lo è sotto tre profili: è collocato dalla Costituzione nell’architettura democratica della Repubblica; è quasi per intero eletto dal grande popolo sovrano intermediato dal Parlamento e dal piccolo popolo magistratuale; decide con voto all’esito di pubblica discussione assembleare. Una famosa frase attribuita a Winston Churchill avverte che “la democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre inventate dagli uomini”. Lo humor britannico aiuta a comprendere due verità in apparente contraddizione. Spiega perché il CSM ci viene invidiato da magistrature meno indipendenti e dalle persone che pagano le conseguenze di tale minore indipendenza e spiega, in secondo luogo, perché il CSM non può essere immune da difetti.
Rispetto a questi ultimi le reazioni possibili sono varie. Si può minimizzarli e coprirli, si può descriverli con l’indifferenza dell’entomologo, ci si può adattare sfruttandoli a proprio vantaggio, si può gridare la propria indignazione e qui fermarsi. Abbiamo esempi, anche recenti, di tali reazioni.
Aniello Nappi nel libro “Quattro anni a palazzo dei marescialli” (Aracne editore, 2014, prefazione di Luciano Violante) segue una strada diversa. Il libro è anzitutto la raccolta di decisioni rivelatrici di alcuni dei maggiori difetti del CSM. La raccolta è dura, documentata e precisa. Non vi è nessuna sottovalutazione della gravità dei problemi. Ma caso dopo caso, riga dopo riga, la raccolta è accompagnata dall’indicazione di ciò che si sarebbe dovuto e potuto fare. Non vi è nessun fatalismo nell’analisi di Nappi, men che meno scandalismo. Ogni frase è attraversata dalla preoccupazione per una istituzione che si vuol difendere perché se ne comprende il valore essenziale, non per la sola magistratura.
“Le istituzioni democratiche vivono dell’apertura alla critica. Muoiono dei silenzi conniventi o rassegnati” - scrive Nappi. La sua ricostruzione è quella di chi vuole che l’istituzione viva, consapevole della necessità di arrestarne lo slittamento verso il basso, il distacco dei magistrati che lavorano negli uffici e una caduta d’immagine che rischia l’irrecuperabilità.
2. Il vincolo di mandato
Il libro affronta alcuni nodi che spiegano i difetti del CSM. Uno di questi è il problema della fedeltà correntizia che, secondo una certa tesi, imporrebbe al consigliere eletto un obbligo di mandato. Nappi lo contesta e ricorda di averne fatto una pietra di inciampo al punto di giungere all’espulsione dal gruppo consiliare per non aver voluto acconsentire alla disciplina di voto.
Mi sembra evidente che le correnti non sono taxi sui quali salire e scendere a piacere. Tuttavia, ogni associato dev’essere consapevole del significato strumentale della corrente rispetto a obiettivi. I valori stanno negli obiettivi, non negli strumenti. Nel caso del CSM il valore è la tutela della correttezza della giurisdizione. Questa è la funzione del CSM, funzione che non è nemmeno essa finale, essendo a sua volta finalizzata alla giustizia della società. Nessun obbligo di mandato può frapporsi al rispetto di questa gerarchia di valori. Sono perciò convinto che il tema posto nel libro sia reale e che la risposta data da Nappi nel corso della sua consiliatura non abbia rappresentato una manifestazione di soggettivismo bensì la difesa di un principio.
Se è consentito un richiamo “storico”, ricordo che nella consiliatura 1981/1985, essendo Vladimiro Zagrebelsky, Raffaele Bertone e io stesso spesso in dissenso rispetto alle posizioni della maggioranza del gruppo di UniCost di cui facevamo parte, rivendicammo la possibilità del voto dissenziente. Anche dalla battaglia su tale principio trasse origine la consapevolezza che portò, via via, un paio d’anni dopo, alla scissione da UniCost e alla nascita del “Movimento per la Giustizia”, dapprima unito a “Proposta 88”, poi confluito in “Area”. Non sarebbe stata possibile quella novità se ci si fosse sottomessi all’idea del “vincolo di mandato”, giustamente contestata da Nappi.
3. Politica dell’istituzione versus condominio sindacale
Un secondo nodo che il libro affronta attiene alla “politicità” del CSM. Contrariamente a una tesi diffusa, Nappi identifica nella caduta della “politicità” la prima causa della crisi del CSM. Mi sembra che occorra fare chiarezza sul significato del termine. Le scelte relative alla politica della giustizia non sono appannaggio dei magistrati, ma dei rappresentati del popolo. È evidente, peraltro, che l’attuazione della politica della giustizia passa dai magistrati. Ora, se la garanzia dell’indipendenza dei magistrati comporta che ogni provvedimento che li riguarda sia riservato al CSM, quest’ultimo diventa corresponsabile dell’attuazione della politica della giustizia. Questo compito possiede indiscutibilmente una dimensione politica. Se ad esempio il CSM ammettesse che un magistrato può essere trasferito a domanda ogni tre mesi o che il 50% dei magistrati può essere messo fuori ruolo o che un magistrato lavativo può far “carriera” allo stesso modo del magistrato laborioso, il CSM avrebbe il potere di affossare di fatto qualunque politica diretta al funzionamento della giustizia. Sotto questo profilo il CSM è un organo il cui modo di operare ha conseguenze sull’andamento della giustizia. Sarebbe un esercizio sofistico non definire “politiche” tali conseguenze, se è vero che l’andamento della giustizia in qualunque Paese è uno degli elementi fondamentali del suo assetto politico. In conclusione, coloro che entrano nel CSM devono avere la consapevolezza che nel ruolo di gestione/amministrazione dei singoli magistrati e nei provvedimenti paranormativi hanno un compito di rilievo politico: il rilievo politico che possiede in uno Stato il funzionamento concreto della sua giustizia.
La debolezza o meglio quella che Nappi chiama “crisi di rappresentanza politica dei gruppi consiliari” si riflette in un declino dell’organo, soltanto in parte supplito, nella consiliatura 2010/2014, da un Comitato di presidenza “forte” anche grazie alla presenza di un primo presidente dotato della autorevolezza e dell’equilibrio di Ernesto Lupo. Ma l’incapacità di iniziativa “politica”, nel senso sopra chiarito, dei gruppi consiliari non può trovare rimedio nello spirito di iniziativa di un Comitato di presidenza e nemmeno nelle risorse della componente laica che, quand’anche di buon livello – e il libro alle pagine 150-153 si spiega perché ciò è oggettivamente non facile -, è minoritaria.
4. Deformazione funzionale
All’incapacità di comprendere il ruolo politico e dotarlo di contenuti programmatici, si lega nell’ambito dei difetti del CSM un terzo nodo identificato da Nappi in una deformazione funzionale. Si tratta della deformazione per cui la tutela dell’indipendenza dell’istituzione-Magistratura viene confusa con la difesa parasindacale degli interessi corporativi e/o del singolo magistrato. Tale deformazione funzionale emerge nelle delibere che il testo riporta taluna delle quale è difficile rileggere, pur a distanza di tempo, senza un forte imbarazzo.
Si tratta quasi sempre di decisioni lassiste o “buoniste”, in cui una parte dei consiglieri, purtroppo spesso la maggioranza dei togati, ha piegato le regole a vantaggio di questo o quel magistrato beneficiandolo o “miracolandolo” in un modo o nell’altro. Soluzioni talora scandalosamente corrive, riportate nel libro di Nappi, fanno trasparire nei consiglieri che le hanno sostenute o la ricerca di consenso o rapporti di gratitudine o il condizionamento correntizio: in ogni caso, anche a “pensar bene”, è evidente l’incoscienza del proprio ruolo e delle impegnative esigenze che esso comporta.
Altre volte la stessa incoscienza e le stesse esigenze di accaparrare o non perdere consenso si sono ripercosse su delibere di carattere generale. Con conseguenze talora anche peggiori.
Si è fatto dire alla legge ciò che non dice e alla logica il contrario di ciò che la logica impone. Si è arrivati ad affermare, ad esempio, che il procuratore nazionale antimafia deve bensì esercitare poteri di coordinamento sulle procure distrettuali, ma non può pretendere di conoscere gli atti necessari a realizzare tale doveroso coordinamento, salvo poi, come Nappi ricorda con amara ironia, deliberare, su proposta di un laico di Centrodestra e di un togato di UniCost, una “giornata della memoria” per la vittime della mafia. Iniziativa invero più facile dell’assunzione di una chiara posizione istituzionale che avrebbe potuto scontentare qualcuno degli appartenenti alla corporazione (la ricostruzione della vicenda alle pp. 108-112). Per fare un altro esempio, in tema di “carichi esigibili” la maggioranza togata ha formulato una delibera cosiffatta da suggerire paradossalmente ai magistrati la cui produzione superi la media di contenere i loro “eccessi” di laboriosità.
5. False eccezioni vera incoerenza
Come viene surrogata l’assenza di capacità progettuale relativa alla politica della giustizia? Con altri difetti, come l’incoerenza delle delibere soggette a oscillazioni che aprono la via ai ricorsi, o come l’uso di deroghe giustificato da motivazioni attinenti al servizio che non riescono a nascondere la realtà della relazione clientelare. La silloge lascia pochi margini di interpretazione quanto all’impiego “amicale” o “familistico” del potere derogatorio che taluni componenti del CSM si attribuiscono, spesso con l’aggravante del do ut des.
Penso che un’istituzione credibile debba poter assumere decisioni oltre e contro le regole nei casi eccezionali in cui la necessità lo esige. Si pensi, per un esempio di tragica attualità, alla vicenda covid. Vi sono eventi in cui la salus Reipublicae non può non essere la suprema lex che sarebbe ridicolo sottomettere al rispetto formale di una qualche circolare. Né si può immaginare che sia dato sempre il tempo di riscrivere le regole prima di assumere talune decisioni urgenti e tanto meno ci si può illudere che le regole siano in grado di tutto prevedere. Il problema attiene alla correttezza dell’esercizio del potere di eccezione. Non lo è l’eccezione frequente e priva di proporzionata ragione né l’eccezione pretestuosa che maschera il favoritismo.
6. Chi è il candidato-traditore
Il libro di Nappi fa la scelta di non riportare mai i nomi dei magistrati coinvolti nelle delibere segnate dal favoritismo o dal lassismo corporativo. Mi sono chiesto la ragione di tale scelta e mi sono risposto che è dovuta non solo al rispetto delle persone coinvolte, ma anche alla volontà di far comprendere che è il problema nella sua oggettività ciò che interessa, non il fatto che sia implicato di volta in volta Tizio o Caio.
Nappi fa la scelta opposta quanto ai nomi dei consiglieri, togati e laici, autori delle decisioni. Qui non ci sono sconti per nessuno e, oltre ai nomi, il testo ricorda anche i gruppi di provenienza o di appartenenza, compreso quello di “Area” all’interno del quale Nappi fu eletto e iniziò l’avventura consiliare. Mi sembra chiara la ragione di questo diverso trattamento. Tornando alla frase di Churchill, il fatto che la democrazia sia “il peggiore sistema politico eccezion fatta per tutti gli altri”, non implica che i rappresentanti del difettoso demos debbano sentirsi rasserenati dall’essere altrettanto carichi di difetti dei loro rappresentati. Essi hanno scelto, con volontà battagliera, di diventare i rappresentanti della democrazia proponendosi come “candidati” (ovvero limpidi, immuni, trasparenti, puliti), giurando su programmi, impegnando il proprio onore nella difesa di valori, garantendo la propria coerenza. Per essi vale, dunque, una ben diversa condizione. Possiamo dire che essi hanno volontariamente abbracciato l’impegno di trasformare – nei limiti delle loro forze, delle condizioni storiche e dei tempi del mandato - il peggior sistema del mondo nel migliore sistema possibile. Rispetto a questo impegno la loro responsabilità è diversa da quella dei rappresentati. Suggerisco la lettura del libro di Nappi come valido sussidio per non dimenticarlo.
7. Riforme. Debolezza dei rimedi elettorali
“Quattro anni a palazzo dei marescialli” è animato, direi in ogni riga, dal “voler bene” all’istituzione, posto che “voler bene” significa “volere il bene”. Nel capitolo finale la preoccupazione dell’Autore si traduce in un complesso di ipotesi riformatrici destinate a contrastare quel declino del CSM che le pagine precedenti hanno mostrato nella sua pesante gravità.
Nappi ci dice che esistono rimedi anche con interventi tutto sommato semplici. Per richiamare taluna delle proposte, si pensi al superamento della lottizzazione dei componenti dell’ufficio studi e della segreteria del CSM, all’abbandono del sistema delle nomine dei direttivi “a pacchetto” e alle limitazioni di una discrezionalità che apre le porte all’arbitrio o ancora al contenimento degli incarichi extragiudiziari, alla semplificazione della selva selvaggia della normazione secondaria (“labirinto di un medievaleggiante sistema normativo”), a una Sezione disciplinare maggiormente distaccata dal CSM per accrescere la credibilità della giustizia amministrata nei confronti dei magistrati. Inserisco qui una considerazione personale: se è vero che il sorteggio è inidoneo ad assicurare una selezione fondata sulla rappresentatività e sulla competenza, esso va apprezzato quando il valore prevalente da tutelare è l’imparzialità. Perché non utilizzarlo allora, al fine di ridurre possibili condizionamenti correntizi e contrastare l’aspetto di giustizia “domestica”, nella selezione dei componenti della Sezione disciplinare (che potrebbe contemplare anche un parziale rinnovo nel quadriennio) tra gli eletti del CSM? Mi sembra che ciò non richiederebbe nessuna riforma costituzionale.
Il testo rifiuta la taumaturgica fiducia nel sorteggio come risposta al prepotere correntizio. L’ANM e i gruppi organizzati da un lato hanno una funzione, storica e non esaurita, nella riflessione collettiva dei magistrati, dall’altro sono insopprimibile espressione delle aggregazioni sociali. Si tratta di affrontare nella concretezza le degenerazioni incidendo sui meccanismi che consentono l’invasività del sindacalismo correntizio sulla logica istituzionale. Certamente anche una riforma elettorale è utile – si trova qui l’idea di un sistema a doppio turno con obbligo di un ampio numero di candidature – ma è noto che l’ingegneria dei sistemi elettorali per quanto sofisticata può essere aggirata, come è avvenuto quando la legge elettorale adottata all’insegna dell’anticorrentismo ha comportato il massimo rafforzamento elettorale delle correnti.
8. Presidenti inascoltati
Il testo segnala le occasioni in cui il presidente Napolitano ha inviato messaggi al CSM non sempre recepiti come sarebbe stato opportuno e documenta che troppo spesso tale insufficiente sensibilità è stata ascrivibile ai togati. La crisi del CSM e di riflesso della magistratura esplosa nel 2019 rinvia a tale insufficienza di sensibilità e alla conservazione di atteggiamenti di miope difesa corporativa, di tutela parasindacale e favoritismo. Senza quegli atteggiamenti, diffusi nella componente togata, quale sarebbe stato il “potere” di un capo-corrente e quale audience avrebbero trovato in Consiglio le esigenze di acquisizione-mantenimento-gestione del “consenso” che non lui soltanto impersonava?
Il successore di Napolitano, l’attuale presidente Mattarella, affrontando tale crisi ha pronunciato parole gravi: “Tutta l’attività del Consiglio, ogni sua decisione sarà guardata con grande attenzione critica e forse con qualche pregiudiziale diffidenza” (si legga l’intervento completo nella fonte aperta www.csm.it sotto la voce news 21 giugno 2019). Quando la suprema magistratura, che per la sua funzione di garante la Costituzione pone al vertice anche dell’organo di governo della magistratura, è costretta a guardare “con qualche pregiudiziale diffidenza” le decisioni adottate dall’istituzione che presiede e quando tale preoccupazione fa seguito alle analoghe preoccupazioni di suoi precessori, appare giustificato il timore che l’assetto costituzionale del 1948 abbia riposto eccessiva fiducia nella capacità dei magistrati di governarsi.
Le proposte che troviamo nel capitolo terzo del libro sono tali da attenuare le distorsioni e i condizionamenti che una malintesa appartenenza correntizia fa ricadere sulla rappresentanza istituzionale. L’Autore si rende conto, peraltro, che ciò non basta a risanare un sistema “il cui disfacimento rischia di travolgere non solo [talune] eleganze da ballo sul Titanic, ma anche alcune garanzie istituzionali faticosamente conquistate quando la magistratura esprimeva una capacità progettuale” (p. 160). Occorre ben più di alcune riforme se il costume diffuso nella magistratura finirà per conformarsi a quell’etica pubblica della quale Nappi vede il profondo scadimento (p. 167).
Perché, alla fine, se è vero che le responsabilità del rappresentante sono ben maggiori di quelle del rappresentato, è altrettanto vero che dietro ogni favoritismo, ogni lassismo, ogni clientelismo sta (almeno) un magistrato che preme e si preoccupa meno del rispetto della regole che del proprio interesse. Siamo così ricondotti a considerare la parte comune e corale di una pur differenziata responsabilità. Il libro di Nappi come abbiamo visto nomina soltanto i rappresentati del popolo magistratuale, ma fa ben intravvedere dietro di loro i cento magistrati diversamente responsabili - ma non irresponsabili.
9. Dalla crisi al rimedio
Al termine della lettura di “Quattro anni al palazzo dei marescialli” mi sono chiesto se la situazione sia oggi peggiore di quella che vissi nel Consiglio del 1981. La risposta a questa domanda non può essere data con un no o un sì. Sotto un certo profilo la vicenda Palamara con quanto ne emerge alle spalle in termini di costume diffuso fa pensare a un peggioramento.
In realtà, il Consiglio del 1981 vide per almeno un paio d’anni il trionfo della famigerata “regola del 17” che comportava la nomina agli incarichi direttivi – allora più drammatica di oggi perché teoricamente “a vita” – grazie alla convergenza sistematica dei togati di due correnti con i laici “governativi”. Insieme facevano appunto 17 voti, che, nel CSM allora di 33 componenti, erano stabile maggioranza. Né quello era l’unico difetto del Consiglio, pur se lo si ricorda più facilmente di altri.
Ma vi è anche un altro motivo che mi porta a ritenere che non si possa dire soltanto che le cose sono peggiorate. Ed è la reazione che vi è stata ad opera del Capo dello Stato, dell’ANM e dello stesso Consiglio. Una reazione non ancora sufficiente, ma certamente non simbolica. Faccio molta fatica a credere che la risposta sarebbe stata così netta nel tempo in cui le due correnti maggioritarie in magistratura facevano il bello e il brutto. Dobbiamo vedere che una trasformazione vi è stata. L’ingresso nell’Associazione del Movimento per la Giustizia-Proposta 88 e poi di Area non hanno certamente appagato tutte le attese né realizzato tutte le speranze, ma hanno portato una novità che si è riflessa sull’associazionismo e ha raggiunto il CSM. Non vederlo sarebbe sbagliato.
Altrettanto sbagliato sarebbe considerare “Quattro anni a palazzo dei marescialli” un elenco di malefatte da cui nulla e nessuno si salva. Al contrario di alcuni scandalistici pamphlet messi ora in circolazione, il libro di Aniello Nappi ci dice che la democrazia è quel sistema pieno di difetti in grado più di ogni altro di correggerli. Purché li si descriva con precisione, si distinguano le situazioni, si contestino con forza gli errori e si partecipi alla mai conclusa lotta per rimuoverli.
In ricordo di Valerio Onida.
Intervista di Elisabetta Lamarque e Alberto Roccella al prof. Valerio Onida (15 maggio 2021)
Elisabetta Lamarque e Alberto Roccella Grazie innanzitutto di averci ricevuto e della Tua disponibilità. Ci piacerebbe iniziare la nostra conversazione parlando dei tempi e dei modi di attuazione della Costituzione repubblicana.
La Costituzione italiana uscita dai lavori dell’Assemblea costituente del 1946-1947 è una Costituzione che ha innovato moltissimo, anche e soprattutto per quanto riguarda l’ispirazione fondamentale.
Tuttavia prima che tutte le novità introdotte dalla Costituzione siano entrate a circolare nel “sangue” dell’ordinamento c’è voluto molto tempo e ce ne vorrà ancora.
La responsabilità di questa lentezza è da addebitare in primo luogo a un’opera legislativa di rinnovamento tardiva, frammentata e raramente organica.
Basti pensare che la Costituzione è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, ma sono rimasti in vigore quasi tutti i codici preesistenti e altre grandi leggi fondamentali. Ancora oggi, oltre settanta anni dopo, soltanto il codice di procedura penale è stato sostituito, non invece il codice penale che pure ha un impianto e dei contenuti inadeguati quanto meno allo spirito della Costituzione e alla realtà dei nostri tempi; gli altri codici e varie altre leggi organiche sono sempre quelli già allora vigenti, come la legge sull’ordinamento giudiziario, che è ancora quella del 1941, sia pure modificata e integrata alla luce delle innovazioni portate direttamente dalla Costituzione. Ancora oggi c’è un debito mai completamente saldato. Ad esempio, appena entrata in vigore la nuova Costituzione, una delle prime cose da rifare organicamente sarebbe stato il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Ma ciò, come sappiamo, non è avvenuto né allora né in seguito.
Agli inizi, quindi, c’era un cammino lungo da percorrere, e molto da rinnovare. Ma questa innovazione a chi era rimessa? Essenzialmente al legislatore ordinario, poi anche alla Corte costituzionale, la quale tuttavia non è stata operante fino al 1956; in un’epoca ancora successiva ci si è affidati anche all’influenza di ordinamenti esterni come quello internazionale.
Principalmente il legislatore ordinario è mancato quasi totalmente nell’opera di ripensamento organico dei corpi legislativi.
Non c’è stata però soltanto una mancanza del legislatore ordinario. Molto ha inciso anche la cultura giuridica diffusa, nella magistratura e in generale fra gli operatori giuridici, per cui la Costituzione veniva vista bensì come una tavola di valori e di principi, ma la cui attuazione era rimessa principalmente al legislatore ordinario, in mancanza del cui intervento ci si atteneva alle regole precedenti. Tutti ricordiamo la tesi, prevalsa a lungo anche nella giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale per le disposizioni costituzionali cosiddette programmatiche l’attuazione sarebbe spettata al legislatore, non ad altri, e nell’attesa dell’intervento del legislatore esse non avrebbero avuto alcun effetto concreto.
Il tempo che la magistratura ha impiegato ad accettare l’idea di una Costituzione che pervade tutto l’ordinamento è stato lungo. Si tratta di un’idea relativamente recente, che non si è affacciata subito perché la nostra magistratura era un corpo qualificabile, dal punto di vista delle concezioni giuridiche dominanti, come piuttosto conservatore. Non si è affermata subito l’idea che, essendovi la Costituzione, anche l’applicazione concreta delle leggi dovesse senz’altro cambiare in correlazione con essa. Prevalse a lungo la tesi per cui le disposizioni costituzionali non erano tutte “precettive”, e quindi immediatamente applicabili nei casi concreti, ma che molte norme erano da intendersi come solo “programmatiche” a efficacia differita, con effetto cioè soltanto nei confronti del futuro legislatore. Non si è affermata subito l’idea di un’operatività immediata della Costituzione, con influenza a tutti i livelli, compresa l’interpretazione e l’applicazione delle leggi
Si usa ricordare il Congresso di Gardone del 1965 dell’Associazione Nazionale Magistrati come il momento nel quale si iniziò a sostenere in maniera netta nell’ambito della magistratura che la Costituzione ha un rilievo giuridico concreto, in base ai principi che essa enuncia, affidati bensì spesso a una specificazione da parte del legislatore ordinario, ma operanti fin da subito ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme legislative esistenti, anche in attesa di nuovi interventi legislativi di adeguamento.
Dunque il confronto ravvicinato tra la Costituzione e molte norme legislative preesistenti, ai fini di decidere sulla perdurante applicazione di queste, all’inizio è avvenuto in misura solo parziale, pur essendosi previsto in Costituzione (art. VII, secondo comma, delle disposizioni transitorie e finali) che fino a quando non fosse entrata in funzione la Corte costituzionale, la decisione delle controversie ad essa devolute avrebbe avuto luogo “nelle forme e nei limiti delle norme preesistenti all’entrata in vigore della Costituzione” (quindi, si sarebbe potuto dire, limitandosi i giudici a “disapplicare”, alla stregua dei regolamenti illegittimi, le leggi incostituzionali). Quando, otto anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, ha iniziato a operare la Corte costituzionale, il sindacato sulle leggi ordinarie è divenuto più stringente: la Corte, fin dalla sua prima sentenza, ha fatto immediatamente un grande passo avanti, smentendo la teoria delle norme “programmatiche”, applicabili in concreto solo dopo l’intervento del legislatore ordinario. Gli interventi della Corte costituzionale, tuttavia, sono per loro natura puntuali, su singole disposizioni, e non potevano del tutto rimediare alla carenza di interventi organici del legislatore, che sarebbero stati necessari per una piena attuazione della Costituzione. È mancato l’organico intervento del legislatore ordinario diretto a “costituzionalizzare” l’intero ordinamento, innovando profondamente settori dell’ordinamento disciplinati da leggi organiche pre-costituzionali, in molti casi approvate durante il regime fascista. Risalivano infatti all’epoca fascista tutti i codici, e solo nel 1989 si è sostituto integralmente il codice di procedura penale. Il legislatore ordinario si è limitato per lo più a interventi puntuali e frammentari, salvo i non molti casi di leggi organiche davvero organiche e complessivamente orientate a adeguare l’ordinamento ai principi costituzionali: a parte alcune leggi approvate soprattutto negli anni Settanta, come ad esempio lo “statuto dei lavoratori” (1970) e il diritto di famiglia (1975), e più tardi il nuovo codice di procedura penale (1989).
Elisabetta Lamarque Tra le grandi novità della Costituzione repubblicana c’è dunque la Corte costituzionale, alla cui attività hai partecipato dapprima come avvocato e poi come componente e, infine, Presidente. Ma c’è anche l’ordinamento regionale. Vuoi dirci qualcosa della fase dell’istituzione delle Regioni ordinarie, che Ti ha visto testimone e per alcuni aspetti protagonista?
Le Regioni ordinarie sono state istituite solo nel 1970. Gli statuti speciali, quattro dei quali antecedenti alla Costituzione, sono sopravvissuti ma è mancata completamente una loro revisione organica alla luce della Costituzione. Anche la riforma costituzionale del 2001, che ha dato vita a un nuovo regionalismo e che, nella parte in cui accresceva l’autonomia per le Regioni ordinarie, si estendeva anche alle autonomie speciali, per il resto ha mantenuto in vita gli statuti speciali preesistenti.
Il punto di partenza, nel 1948, era un ordinamento fortemente centralizzato, di tipo napoleonico. Con il lungo rinvio dell’attuazione delle Regioni ordinarie, le Regioni speciali sono rimaste per molto tempo le uniche espressioni del nuovo modello di autonomia previsto dalla Costituzione. Ma tale modello non ha potuto avere quell’efficacia innovativa del sistema che avrebbe avuto se avesse riguardato da subito tutto il territorio nazionale. La mancanza delle Regioni ordinarie, quindi, ha storicamente ristretto le stesse possibilità di sviluppo delle Regioni speciali, pur già istituite contemporaneamente o addirittura prima della Costituzione.
Quando nel 1970 si è finalmente deciso di attuare l’ordinamento delle Regioni ordinarie si è aperta una nuova promettente fase. Tra l’altro la legge del 1970 sulla finanza regionale eliminò una delle disposizioni restrittive dell’autonomia regionale contenuta nella legge n. 62 del 1953 (l’art. 9, ai cui sensi nelle materie di competenza concorrente le Regioni avrebbero potuto legiferare solo dopo che lo Stato avessero espressamente stabilito i principi fondamentali cui le Regioni avrebbero dovuto attenersi). La legge del 1970 stabilì invece che le Regioni potessero legiferare “nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”. Innovazione certamente utile a evitare ulteriori ritardi nell’esercizio delle competenze regionali, insieme all’altra disposizione della stessa legge – clamorosamente disattesa – secondo cui entro due anni si sarebbe dovuto adeguare la legislazione statale “alle competenze legislative attribuite alle Regioni"; ma, paradossalmente, questa novità può avere concorso nel ritardare sine die il varo di nuove leggi cornice contenenti i principi fondamentali vincolanti per la legislazione regionale.
Da qui si è sviluppato un lungo e in parte contraddittorio percorso. A un’iniziale attuazione dell’ordinamento regionale piuttosto contenuta a causa delle forti resistenze centralistiche degli apparati statali, in sede di emanazione dei decreti legislativi delegati che delimitavano le competenze amministrative regionali (proverbiale allora la ferma resistenza a maggiori sviluppi regionalistici del Prefetto Elio Gizzi, responsabile per lo Stato dei rapporti con le Regioni), ha fatto seguito una seconda fase, peraltro di breve durata, inaugurata dalla legge n. 382 del 1975 e dal d.P.R. n. 616 del 1977, che avviava il disegno di un nuovo regionalismo. Esso è l’unico provvedimento normativo statale che ha tentato di definire tutte le materie regionali con precisione e in maniera organica: la definizione legislativa delle materie è indispensabile per la costruzione di un ordinamento autonomistico ben funzionante e non può nemmeno essere interamente demandata alla giurisprudenza costituzionale in occasione dei conflitti.
Io ho partecipato alle fasi iniziali di attuazione dell’ordinamento regionale. Ho contribuito insieme, fra gli altri, a Giorgio Pastori ed Enrico De Mita alla stesura del primo Statuto della Regione Lombardia, e ho lavorato come studioso, per cercare di contrastare le resistenze centralistiche, anche se non ho fatto parte della commissione Giannini che elaborò lo schema del d.P.R. 616.
Elisabetta Lamarque E quindi la soddisfazione per il d.P.R. n. 616 l’hai vissuta…
Sì, in concreto. Erano tempi in cui la scuola amministrativistica del Nord, espressa da Feliciano Benvenuti e poi fra gli altri da Umberto Pototschnig, ha avuto un grande ruolo innovativo. C’era l’idea che un buon ordinamento dovesse contemplare ben definiti e importanti compiti delle Regioni anche nella legislazione.
Ricordo che negli anni Settanta e all’inizio degli anni ottanta vennero varate da alcune Regioni anche leggi che tentavano di anticipare importanti innovazioni, non ancora accolte nella legislazione statale, e che ottennero l’avallo della Corte costituzionale. Penso a certe sentenze costituzionali ove si ammetteva che, anche in mancanza di leggi cornice, le singole Regioni avessero il diritto di legiferare desumendo anche in modo evolutivo i princìpi dalla legislazione statale esistente. Ricordo, ad esempio la sentenza della Corte costituzionale n. 7 del 1982, la quale ammise che le Regioni Veneto e Lombardia potessero adottare una legislazione ispirata al principio della necessaria autorizzazione per l’attività di cava anche se nelle leggi statali preesistenti non c’era una regola espressa in questo senso, potendola ricavare in base a una certa ricostruzione del significato dei principi fondamentali evolutivamente desumibili dalla legislazione statale. O ancora la sentenza n. 225 del 1983, che valutò positivamente la disciplina legislativa degli scarichi idrici varata dalla Regione Lombardia con la l. r. 48/1974, approvata ancor prima della legge quadro statale sugli inquinamenti (la legge “Merli” n. 319 del 1976).
Alberto Roccella Forse una cosa che oggi non si ricorda più così chiaramente è che in quegli anni l’istituzione dell’ordinamento regionale veniva sentita non soltanto come un atto formale di attuazione della Costituzione, ma soprattutto come un modo di riorganizzare lo Stato, come una riforma di sistema capace di dare un volto nuovo al potere pubblico nel suo complesso.
Certo. Ricordo lo slogan “le Regioni per la riforma dello Stato”. Del resto la Costituzione era già chiara fin dall’inizio. C’era e c’è tuttora l’art. 5, il quale esprime l’idea che le autonomie regionali e locali non presuppongono soltanto un nuovo modello organizzativo, ma esprimono piuttosto princìpi fondanti dell’ordinamento, che avrebbero dovuto incidere sul modo di legiferare del centro oltre che delle Regioni e sui rapporti tra Stato e Regioni. L’art. 5 della Costituzione stabilisce che la Repubblica “adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”
Passi avanti in questo senso, comunque, come dicevo, sono stati fatti soprattutto negli anni Settanta. Anche il cosiddetto “pacchetto” per la riforma dello Statuto speciale del Trentino-Alto Adige, del 1972, favorito dall’esigenza di rispondere adeguatamente alle tensioni derivanti da conflitti anche di origine internazionale e da fenomeni o minacce di tipo terroristico, fu politicamente molto significativo, perché condusse a un tentativo di costruire un modello di rapporti tra centro e periferia completamente diverso e più aperto alle esigenze dell’autonomia.
Elisabetta Lamarque Ti chiedo ancora della Tua esperienza. Da costituzionalista avvocato delle Regioni nel 1996 sei diventato giudice costituzionale e hai attraversato da giudice costituzionale sia il periodo delle riforme Bassanini sia il periodo immediatamente successivo alle riforme costituzionali sulle Regioni del 1999 e soprattutto del 2001. Tra l’altro ricordo benissimo, perché ero allora Tua assistente alla Corte e seguii io la questione, che fosti relatore e redattore della prima sentenza costituzionale che fece applicazione del nuovo art. 117 Cost. (la sentenza n. 282 del 2002, relativa a una legge della Regione Marche in materia di elettroshock).
Ricordo che quando nel 1996 sono stato eletto giudice costituzionale qualcuno aveva osservato che non sarebbe stato opportuno che io entrassi nella Corte chiamata a dirimere conflitti Stato-Regioni, avendo difeso ripetutamente in giudizio le Regioni.
Elisabetta Lamarque Addirittura! Le obiezioni nascevano dal fatto che avessi difeso le Regioni e quindi la Costituzione nel suo disegno autonomistico?
Qualcuno forse temeva una “intrusione” troppo regionalistica nella giurisprudenza della Corte, la quale peraltro nella sua evoluzione anche molto successiva non ha mostrato granché una tendenza a valorizzare le istanze della cultura regionalistica. In realtà non è che io nei miei anni da giudice costituzionale abbia avuto tante occasioni per cercare di concorrere a spingere verso un’attuazione più ampia del sistema.
In quegli anni si è aperta la fase delle riforme “Bassanini”, tese soprattutto a rafforzare meritoriamente le autonomie sotto il profilo amministrativo. Ma la ridefinizione legislativa delle materie, come ho già detto, dopo il d.P.R. n. 616 non si è mai concretata completamente, pur dopo la riforma costituzionale (come pure non si è concretato un coerente disegno della finanza regionale). Si pensi che dopo il 2001 non c’è più stata una vera legge statale di cornice in nessuna delle materie (vecchie e nuove) demandate alla competenza legislativa concorrente delle Regioni. Lo Stato-legislatore è largamente mancato in questo e, a sua volta, la giurisprudenza costituzionale si è manifestata per lo più incline a far valere le esigenze del centro e dell’uniformità piuttosto che quelle dell’autonomia e della differenziazione. La stessa delega per la ricognizione ordinata dei principi fondamentali della legislazione statale esistente, prevista dalla legge “La Loggia” (l. 5 giugno 2003, n. 131), è stata esercitata solo marginalmente, anche per i suoi limiti intrinseci.
Il fatto che non siano state emanate leggi quadro ha comportato la mancata fissazione dei princìpi fondamentali che consentissero alle Regioni di legiferare in un quadro di stabilità, e dunque la mancata individuazione dei nuovi confini entro i quali si doveva esplicare l’autonomia regionale. Una mancanza che ha costituito, a mio parere, il principale handicap che ha ostacolato lo sviluppo del regionalismo italiano anche e soprattutto dell’ultimo ventennio.
L’innovazione legislativa è dunque stata completamente assente, forse anche perché non era stata portata a compimento l’idea di costruire delle sedi istituzionali forti nelle quali si portasse avanti un confronto tra centro e periferia. Certo, si è creata la Conferenza Stato–Regioni, ma non si è attuato nemmeno il disposto dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 sulla Commissione parlamentare per le questioni regionali, l’unica Commissione bicamerale prevista dalla Costituzione che, integrata con la partecipazione di rappresentanti delle Regioni e degli enti locali, avrebbe potuto esaminare i progetti di legge riguardanti materie regionali rendendo pareri superabili dall’Assemblea solo con la maggioranza assoluta dei suoi componenti.
Alberto Roccella Ricordo che nell’incontro con la stampa del 2004 il Presidente della Corte costituzionale di allora, Gustavo Zagrebelsky, lamentò proprio l’inerzia del Parlamento sull’attuazione della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione: la Corte si era trovata nella condizione di dover esercitare una funzione di supplenza non richiesta e non gradita.
Il punto è proprio che non si è mai arrivati a una completa ridefinizione in via legislativa delle materie. La legislazione promossa in questo campo (e non solo in questo campo) dai Governi e dalle forze politiche nazionali prevalenti nel Parlamento è stata per lo più frammentaria e non organica, così come la legislazione finanziaria non ha per nulla sviluppato l’ambito della finanza regionale. Questo evidentemente ha reso più difficile l’attuazione dell’ordinamento regionale disegnato in Costituzione, già prima del 2001, e poi anche dopo, nonostante una riforma incisiva della Costituzione nata sotto la spinta di nuove forze politiche autonomistiche o addirittura separatiste, e nonostante alcuni referendum approvati volti all’abolizione di alcuni ministeri: iniziative che però a loro volta non hanno inciso granché sulla realtà (a proposito, il Governo Draghi ha reintrodotto, nel silenzio delle Regioni, e con l’entusiasmo delle categorie produttive interessate, il Ministero con portafoglio del turismo, soppresso col referendum del 1993, e affidato a un esponente della Lega).
Un percorso faticoso e contraddittorio, dunque. Nel primo decennio delle Regioni, istituite nel 1970, c’è stato un faticoso avanzamento, ma con resistenze centralistiche; in seguito la fase positiva del d.P.R. n. 616 del 1977; poi quasi tutto resta affidato alla giurisprudenza costituzionale, per l’assenza del legislatore nazionale; infine la riforma costituzionale del 2001, che a prima lettura appare una riforma in senso autonomistico, ma paradossalmente è stata seguita poi dalla mancata attuazione delle molte promesse (come tipicamente quella sulla Commissione bicamerale per gli affari regionali, di cui ho detto prima). La riforma del 2001, tra l’altro, era passata in Parlamento per pochi voti, ma non è del tutto chiaro se i pochi voti erano dovuti al fatto che essa era ritenuta da taluno insufficiente oppure, al contrario, dannosa; e il referendum costituzionale confermativo – richiesto sia dalla maggioranza che dall’opposizione parlamentare, e tenuto a cavallo tra due legislature (la XIII e la XIV), ma per nulla enfatizzato dalle forze politiche e dall’informazione – passò con un esito ampiamente favorevole alla riforma (64% di voti favorevoli) ma con una scarsissima partecipazione popolare (solo il 34% degli elettori). Le forze politiche, dunque, non hanno sentito e trattato la riforma costituzionale delle Regioni come una vera svolta. Soprattutto, la prassi di omettere interventi organici che dessero vita e corpo alle nuove riforme regionalistiche, è continuata. Non si può dire che dopo il 2001 si sia avuta una legislazione nazionale di impronta autonomistica, al contrario, nonostante la presenza al Governo nazionale, in varie fasi, di forze politiche che delle autonomie facevano, almeno apparentemente, la loro bandiera.
Elisabetta Lamarque Quale bilancio faresti allora di questi cinquanta anni di regionalismo italiano, anche alla luce dell’esperienza di questi ultimi mesi nei quali le Regioni si sono trovate in prima linea nella gestione dell’emergenza sanitaria?
La materia della sanità è stata attribuita alle Regioni anche sulla base della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale del 1978, che aveva una visione organica. Ma anche in questo ambito è mancata l’attuazione del disegno a livello legislativo sia nazionale che regionale. Le Regioni hanno anch’esse molte colpe. Solo in alcuni momenti e solo in alcune Regioni c’era una visione della sanità regionale e la volontà di portarla avanti.
L’ordinamento regionale avrebbe dovuto uscire fortemente rafforzato dalla riforma costituzionale del 2001, ma ciò non è avvenuto. Forse hanno prevalso altre preoccupazioni, altri interessi. E le Regioni a loro volta, comprese le più grandi e le più forti, non sono riuscite a portare avanti sempre le rivendicazioni della loro autonomia. Pensiamo alle richieste di autonomia differenziata, che storicamente hanno trovato molte resistenze e ancora oggi suscitano più diffidenze che appoggi in sede nazionale.
Poi c’è stata la crisi finanziaria, che ha spinto verso una nuova centralizzazione. L’attuazione legislativa della riforma costituzionale è largamente mancata proprio per quanto riguarda l’art. 119 Cost., relativo all’autonomia finanziaria regionale. Abbiamo soltanto l’Irap e il bollo automobilistico come imposte regionali. Il sistema fiscale e finanziario è rimasto fortemente accentrato anche perché le restrizioni generali sul bilancio pubblico hanno portato a questo tipo di politica.
Dunque paradossalmente, dopo la grande riforma in senso regionalistico del 2001, abbiamo assistito all’abbandono di una politica regionalista. Certo alcuni scandali e forme di utilizzazione dei contributi pubblici ai gruppi consiliari non hanno giovato alla causa delle Regioni. Inoltre la spesa delle Regioni è per larga parte spesa sanitaria con vincoli di bilancio, per esigenze di garanzia uniforme dei livelli essenziali delle prestazioni, che peraltro non sempre sembrano essere state rispettate. L’attenzione della politica nazionale si è piuttosto spostata sui temi della forma di governo.
Alberto Roccella A proposito: la forma di governo aveva costituito più volte oggetto di studio di Egidio Tosato, componente dell’Assemblea Costituente e poi professore di diritto costituzionale a Milano quando ti sei laureato. Quanto hanno influito Tosato e gli altri pubblicisti milanesi sulla Tua formazione?
Tosato non aveva certo inclinazioni nostalgiche per il periodo fascista, nel quale pure si era formato, ma anzi è stato parte attiva nell’opera costituente. Io non ho avuto la possibilità di usufruire fino in fondo della sua guida scientifica, perché egli si trasferì da Milano a Roma poco dopo la mia laurea, conseguita nel 1958. Subito dopo ho svolto per un anno e mezzo il servizio militare di leva e solo nel 1960 ho iniziato la mia collaborazione universitaria come assistente volontario di diritto costituzionale con Paolo Biscaretti di Ruffia, il quale era stato allievo di Santi Romano e quindi aveva avuto una formazione “classica” di diritto pubblico. A Milano in quegli anni era piuttosto Giorgio Balladore Pallieri, professore all’Università Cattolica, e autore del Manuale sul quale anch’io ho studiato, portatore di una visione moderna del diritto costituzionale. Per il diritto amministrativo ricordo con ammirazione e gratitudine Antonio Amorth. Una personalità molto significativa era Feliciano Benvenuti, il quale fra l’altro aveva contribuito a fondare, col sostegno finanziario del Comune e della Provincia di Milano, l’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica (Isap) nel quale hanno operato a lungo, fra gli altri, Umberto Pototschnig ed Ettore Rotelli. Il disegno di legge generale sulle autonomie locali, elaborato nel 1976 da un gruppo di lavoro guidato da Pototschnig, costituì un frutto di quella impostazione culturale. Purtroppo l’Isap, che ha avuto un ruolo attivo negli studi e nelle proposte sulle autonomie regionali e locali almeno fino alle leggi “Bassanini” di fine anni ‘90, è stato di recente posto in liquidazione. Nei fatti è prevalsa l’impostazione di Massimo Severo Giannini e della sua scuola, meno sensibile al tema delle autonomie. La stessa riforma del 1993, che ha introdotto l’elezione diretta del Sindaco, ha attecchito, ma ha riguardato soltanto il sistema politico e la forma di governo degli enti locali, non i rapporti tra poteri centrali e autonomie locali. Io non ho partecipato molto al dibattito dottrinale sulle autonomie locali: mi sono piuttosto impegnato, sul piano locale, con attività di consulenza, specie dopo che sono stato chiamato, nel 1973, alla cattedra di diritto regionale (e poi nel 1976 a quella di diritto costituzionale), nell’Università di Pavia.
Elisabetta Lamarque La Tua attività principale di professore universitario è stata sempre accompagnata da impegni di tipo pratico, come quella di consulente di Regioni, di avvocato, di giudice costituzionale, di primo presidente della Scuola superiore di magistratura, poi ancora di avvocato, dando così l’immagine di un giurista a tutto tondo che si è occupato di più rami del diritto da punti di vista diversi. Cosa pensi della dottrina che fa solo dottrina?
La dottrina che voglia essere dottrina vera non può fare a meno di misurarsi con la realtà e quindi anche con problemi “pratici”. È una questione di metodo. Per mio conto subito dopo la laurea ho iniziato la pratica professionale di avvocato nello studio di Enrico Allorio, col quale ho lavorato per alcuni anni e che ha fortemente contribuito alla mia formazione.
Alberto Roccella In quegli anni Enrico Allorio era professore di Scienza delle finanze e diritto finanziario all’Università cattolica. Insegnava a piccoli gruppi di studenti che affascinava con la sua straordinaria capacità di dominare rami diversi del diritto, una capacità oggi rara ma che è anche tua.
Ho imparato da Allorio l’impostazione di metodo, l’impostazione teorica ma anche il continuo confronto con la realtà proprio della professione di avvocato. Allorio era un tributarista, ma anche un amministrativista, dal quale molto ho imparato; come collaboratore del suo studio ho avuto occasione di frequentare anche altri importanti giuristi milanesi, come Giacomo Delitala. Ma poi ho sospeso per molti anni l’esercizio della professione di avvocato, che ho ripreso a esercitare nel 1981, essenzialmente occupandomi di questioni di carattere generale e costituzionale concernenti l’autonomia delle Regioni, e occupandomi poi anche di referendum.
Elisabetta Lamarque Tuttavia, anche nel periodo in cui avevi interrotto l’attività professionale di avvocato, i Tuoi studi scientifici sono stati sempre molto attenti alla realtà. Penso in particolare allo studio del 1977 sull’attuazione della Costituzione tra magistratura e Corte costituzionale.
L’attenzione alla realtà nasce già dalla mia tesi di laurea: il tema del bilancio dello Stato mi fu assegnato, con una scelta molto moderna, da Tosato, in un’epoca, il 1957, in cui l’argomento era nuovo e inconsueto. Ho poi sviluppato quel tema che è diventato il libro del 1969 su Le leggi di spesa nella Costituzione.
Certo vari miei studi successivi hanno avuto origine dal confronto con l’esperienza. La monografia su Pubblica amministrazione e costituzionalità delle leggi del 1967, che non ho mai pubblicato in versione definitiva, è nata dopo l’inizio del mio insegnamento a Verona, anche a seguito di un soggiorno di studi in Germania. Era allora dominante la teoria della “esecutorietà” delle leggi: dopo la promulgazione le leggi erano considerate “esecutorie” e quindi dovevano essere eseguite dalle pubbliche amministrazioni fino al loro eventuale annullamento, mentre la Costituzione rimaneva sullo sfondo. La teoria dell’esecutorietà delle leggi impediva un rapporto diretto delle pubbliche amministrazioni con la Costituzione, mentre per i privati operava la possibilità di ricorrere, dopo il 1956, al giudizio incidentale di legittimità costituzionale. L’idea prevalente era che il legislatore legifera e le pubbliche amministrazioni dovevano applicare le leggi, senza poterle contestare, perché sindacarle spettava solo alla Corte costituzionale su impulso dei giudici. A me pareva che si dovesse affermare la piena efficacia della Costituzione anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Mi sono impegnato su questo tema in vista di una più piena attuazione della Costituzione, non solo nel campo dell’ordinamento regionale. Era lo stesso periodo in cui anche la magistratura maturava una più forte sensibilità costituzionale.
Elisabetta Lamarque Ti chiedo di parlarci ancora del Tuo lavoro del 1977, pubblicato negli Scritti in onore di Costantino Mortati, un lavoro accuratissimo sulla giurisprudenza comune: da quel lavoro emerge che l’attuazione della Costituzione è dipesa non soltanto dalla Corte costituzionale ma anche dalla giurisprudenza comune. Quel lavoro ha avuto carattere pionieristico, giacché di interpretazione conforme a Costituzione si è cominciato a parlare solo vent’anni dopo.
Su questo tema ho fruito anche dell’insegnamento di Paolo Barile, il quale ha sempre insistito sulla piena giuridicità della Costituzione.
Alberto Roccella Andrea Proto Pisani nell’intervista rilasciata a Giustizia Insieme ha ricordato in termini critici il suo professore di diritto costituzionale a Napoli.
Alfonso Tesauro era un professore di altra scuola! Fra l’altro, come parlamentare, nel 1971 operò per una linea più prudente per la parte relativa all’autonomia amministrativa delle Regioni.
Alberto Roccella Anche Marco Cammelli in un recente convegno ha ricordato quanto poco la Costituzione contasse nell’insegnamento di diritto costituzionale impartito a Bologna nel 1962, quando egli era studente. Del resto Santi Romano nel 1945 aveva pubblicato i Principi di diritto costituzionale generale, come se si potesse prescindere dalla realtà di una Costituzione scritta.
Certo ci sono stati grandi giuristi dell’era prefascista che hanno coltivato prevalentemente la teoria generale del diritto. La visione di Vittorio Emanuele Orlando è stata anche critica nei confronti di certi aspetti della Costituzione. Era il decano dell’Assemblea costituente e tenne fra l’altro un importante discorso nella seduta conclusiva dei lavori, ma non fu un protagonista di questi, come invece Dossetti, La Pira, Mortati e anche Tosato. E, anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione, una parte della dottrina si fermava piuttosto agli studi di teoria dello Stato.
Elisabetta Lamarque Hai conosciuto Dossetti?
Ho conosciuto Dossetti negli anni ’90 quando, rientrato in Italia dopo l’abbandono della politica attiva e il periodo trascorso in Palestina, si è impegnato fortemente per la difesa e l’attuazione della Costituzione, con una visione politica molto significativa. Per lui il diritto era strumento per perseguire e realizzare una società più giusta e conforme ai principi costituzionali.
Alberto Roccella Ci puoi dire ancora qualcosa dei Tuoi riferimenti scientifici e della Tua carriera?
Ho già ricordato Enrico Allorio, giurista completo capace di spaziare in campi diversi. Ricordo ancora Feliciano Benvenuti, che pure non ho frequentato direttamente, e Umberto Pototschnig, al quale invece sono stato molto legato. Più avanti negli anni sono stato molto legato anche a Leopoldo Elia, che ho frequentato quando era già scaduto dalla carica di giudice costituzionale e che mi ha consigliato e indirizzato, diventando per me un riferimento fondamentale nel mondo accademico. Altri costituzionalisti per me fondamentali sono stati Costantino Mortati, che ho frequentato molto anche personalmente, e Vezio Crisafulli. Ricordo infine, nella generazione successiva, Livio Paladin, un genio del diritto costituzionale. Non ho invece avuto molti rapporti con altri costituzionalisti, come Serio Galeotti e Mario Galizia, che pure hanno insegnato anche in Università lombarde.
Ho superato l’esame di libera docenza in diritto costituzionale, conseguendo il titolo, che allora dava avvio alla carriera universitaria, nel 1965, insieme a Giuliano Amato, Giorgio Lombardi, Michele Scudiero e Federico Morhoff. Per iniziativa e col sostegno di Enrico Allorio mi venne quindi affidato, dal 1966, l’incarico di insegnamento di Istituzioni di diritto pubblico nella Facoltà di economia e commercio di Verona, allora distaccata dell’Università di Padova, incarico che tenni fino al 1970. Dopo aver partecipato a un primo concorso a cattedra nel quale non risultai “ternato”, nel 1970 vinsi un concorso per la cattedra di diritto parlamentare, secondo ternato in una terna che comprendeva Giuliano Amato e Silvano Tosi. A Verona però non potei essere chiamato, e quindi la mia prima sede da professore straordinario fu l’Università di Sassari; poi la Facoltà di Pavia, in cui aveva una forte influenza Piero Schlesinger, mi chiamò a coprire la cattedra di Diritto regionale e dopo tre anni quella di diritto costituzionale. Infine nel 1983 sono rientrato come ordinario di diritto costituzionale alla Statale di Milano. Peraltro quegli anni erano quelli improntati alle vicende del “Sessantotto”, in cui il mondo universitario conobbe grandi sconvolgimenti e innovazioni, da me vissute con entusiasmo, anche nel campo della didattica, oltre che sul terreno culturale e politico.
Elisabetta Lamarque Il Tuo insegnamento di Giustizia costituzionale all’Università statale di Milano, che io da studentessa ho seguito e che mi ha portato a fare questo mestiere, è stato il primo in Italia?
Certamente è stato fra i primi. L’insegnamento della Giustizia costituzionale, rivolto a piccoli gruppi di studenti molto motivati, attraverso anche lo studio di casi giurisprudenziali, mi ha dato grandi soddisfazioni. In altre materie, come il diritto civile o il diritto penale, non si può prescindere dallo studio di casi giurisprudenziali, ma per il diritto costituzionale era una novità. Io stesso peraltro ho avuto grandi maestri che insegnavano anche attraverso lo studio di casi, in particolare Aurelio Candian per il diritto privato e Giovanni Pugliese per il diritto romano.
Elisabetta Lamarque Ci puoi esprimere la Tua idea dell’influenza del diritto europeo sul diritto costituzionale?
Il diritto europeo inizialmente aveva il carattere di un ramo speciale del diritto internazionale, ma ormai non è più così. Il diritto europeo è divenuto un ambito rilevantissimo per lo studio del diritto interno, anche costituzionale, attraverso la Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e più tardi attraverso la Carta Europea dei diritti e la giurisprudenza della Corte di Giustizia, nonostante il fallimento del progetto di Costituzione europea del 2004. I giudici comuni non hanno più soltanto la Costituzione come loro riferimento fondamentale, ma devono confrontarsi anche con la CEDU e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tuttavia non è che il diritto costituzionale interno regredisca, c’è piuttosto uno sviluppo: una visione attuale del diritto costituzionale non può più rimanere limitata alla dimensione nazionale. Si può dire che il diritto costituzionale europeo e internazionale è la nuova frontiera del diritto costituzionale. I diritti sono universali, l’Onu esiste, ancorché ancora debole (pensiamo ad esempio all’Organizzazione mondiale della sanità in rapporto all’attuale pandemia). Inoltre, oggi è fondamentale la questione delle migrazioni, la quale dovrebbe essere affrontata non soltanto nella dimensione nazionale ma anche in quella europea e in quella sovranazionale propria dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (OIM). Il futuro è là, non è più soltanto nel diritto interno.
Il tema dei diritti fondamentali, in particolare, di per sé non può rimanere confinato nella dimensione nazionale. Uno dei grandi principi portanti della nostra Costituzione è costituito dall’art. 11 che espressamente ammette e prefigura “limitazioni di sovranità” dello Stato, portando al superamento del modello classico dello Stato sovrano “superiorem non recognoscens” in nome dell’internazionalismo e dei diritti umani universali. In tal modo la nostra Repubblica non ha avuto bisogno di un’apposita legge costituzionale (di una “clausola europea”) per consentire l’adesione all’ordinamento comunitario e poi a quello dell’Unione. E anche il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, introdotto dalla riforma del 2001, rappresenta la presa d’atto di quella che ormai è l’influenza del diritto e della giurisprudenza europei anche nel campo del diritto costituzionale.
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