ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Note de iure condito e de iure condendo sulla valutazione di professionalità dei magistrati[1]
di Giuliano Scarselli
1. Il tema della valutazione della professionalità dei magistrati, voluta nei termini attuali dalla riforma Mastella di cui alla legge n. 111/2007, non è argomento semplice, perché si presta all’esposizione di banalità.
Ed infatti, una volta detto che dette valutazioni consentono ampi margini di discrezionalità agli organi preposti a pronunciarle, e che sarebbe meglio, come normalmente si dice fra serio e faceto, che queste fossero più oggettive e con meno aggettivi, probabilmente non v’è molto altro da aggiungere, e il tema sfugge ad una analisi più propriamente giuridico/teorica.
Che dire, dunque?
Io, evitando di esporre la normativa che darei per conosciuta, affronterei il tema sotto un duplice profilo:
a) de iure condito proverei a offrire una lettura delle norme che evidenzi i punti di relatività del procedimento, e ciò non tanto per dar conferma dell’esistenza di questa discrezionalità del giudizio, quanto piuttosto per prenderne consapevolmente atto anche dal punto di vista normativo ai fini di ogni correttivo immaginabile;
b) e, de iure condendo, e sulla base di quanto analizzato, proverei altresì a dare alcuni suggerimenti di riforma, anche tenuto conto di quanto già si trovi in tal senso nel progetto Bonafede di riforma dell’ordinamento giudiziario.
Situazione de iure condito
2. Dunque, se da una parte è senz’altro vero che il giudizio circa la professionalità del giudice lascia grandi margini di manovra a chi lo conduce, dall’altra, forse, è utile approfondire questo aspetto, che prima ancora che dipendere dal comportamento umano, dipende dal sistema di norme che lo regolano.
Ed infatti, una prima relatività è data dalla circostanza che i parametri con i quali la professionalità del magistrato è giudicata, sono tutti rappresentati da termini elastici, quali, appunto, quelli della capacità, laboriosità, diligenza e impegno (v. Circolare CSM n. 20691/2007, Cap. IV).
E’ evidente, infatti, che, nell’elasticità di queste espressioni, non solo un medesimo magistrato potrebbe essere capace per taluni e incapace per altri, ma anche che da un parametro potrebbe dedursi l’esistenza di altri: e così, infatti, se una separazione di questi si ha tra capacità e laboriosità, poiché un giudice può certo essere capace e non laborioso o al contrario essere laborioso e non capace, più difficile è separare i parametri di diligenza e impegno, poiché, dinanzi a questi è invece difficile immaginare un magistrato che sia diligente ma non si impegni, o un magistrato che si impegni ma non sia diligente.
Ne segue, direi, che, al di là dello sforzo, comunque lodevole, che il legislatore ha fatto nell’indicare dei precisi parametri, resta insuperato il dato che tale giudizio è qualcosa di ampiamente discrezionale anche una volta dati detti parametri.
2.2. Proprio per queste ragioni, ovvero proprio perché v’è consapevolezza che il giudizio sulla professionalità di un magistrato è un giudizio ampiamente discrezionale, tanto la legge n. 111/2007, quanto la Circolare del CSM del 2007 (e sue successive integrazioni e/o modificazioni), hanno individuato degli indicatori, ovvero dei criteri per arrivare ad esprimere il giudizio (v. Circolare CSM n. 20691/2007, Cap. V).
Così, in tanto un magistrato può ricevere un giudizio positivo, in quanto possieda quegli elementi che sono considerati dalla normativa come indicatori.
Questo metodo di giudizio, a pensarci, è quello che noi conosciamo come tecnica delle presunzioni di cui all’art. 2727 c.c.: dall’esistenza di uno o più fatti noti (indicatori), si risale all’esistenza dei fatti ignoti (parametri).
Se le cose stanno in questi termini, noi vediamo, allora, che alla relatività dei parametri se ne aggiunge una successiva avente ad oggetto il percorso logico che unisce gli indicatori ai parametri, e che è costituito dal giudizio “grave, preciso e concordante” (art. 2729 c.c.).
Ed inoltre, mentre la tecnica delle presunzioni di cui agli artt. 2727 c.c. muove comunque sempre da un fatto (noto) che deve essere certo e oggettivo (e ove non lo sia il giudice non può ammettere la presunzioni, v. Cass. 28 settembre 2020 n. 20342, per la quale: “Una presunzione giuridicamente valida non può fondarsi su dati meramente ipotetici”), nel nostro caso i fatti c.d. noti, ovvero gli indicatori, non sono invece in senso stretto dei fatti, poiché a loro volta sono semplicemente dei giudizi che si danno al magistrato esaminando.
Giudizi sono, infatti, e faccio degli esempi, il possesso di tecniche di argomentazione, la preparazione giuridica, la capacità di condurre l’udienza, la capacità di dirigere i collaboratori, ecc….(v. ancora Circolare CSM n. 20691/2007, Cap. V).
Cosicché, può dirsi, che nel giudizio di valutazione della professionalità del magistrato è ammessa, ed anzi è la regola, la praesumptio de praesumpto, che al contrario è normalmente e tassativamente vietata dalla giurisprudenza in altri ambiti (v. Cass. 18 gennaio 2019 n. 1278; Cass. 9 aprile 2002 n. 5045; Cass. 28 gennaio 1995 n. 1044).
2.3. Si fa poi riferimento alle c.d. fonti di conoscenza, ovvero a quegli strumenti con i quali ritenere esistenti gli indicatori, e quindi deducibili i parametri (Circolare CSM n. 20691/2007, Cap. VII).
Le fonti di conoscenza altro non sono che i mezzi di prova: con essi si ha la conoscenza, ovvero la prova, dell’indicatore, e con la prova dell’indicatore si ha conseguentemente la possibilità di affermare l’esistenza del parametro.
Orbene, il problema è che anche le fonti di conoscenza non sono mezzi di prova in senso tradizionale, non hanno niente di dimostrativo del fatto, ma sono, ancora una volta, espressione di un ulteriore giudizio che va a sommarsi agli altri giudizi già espressi.
E ciò vale soprattutto per le principali fonti di conoscenza, che sono il rapporto del capo dell’Ufficio e la relazione del magistrato interessato.
Peraltro, questi dati sono acquisiti con una procedura del tutto deformalizzata, poiché ne’ la legge ne’ la Circolare del CSM contengono regole procedurali relative al giudizio di valutazione della professionalità, se si fa esclusione delle poche cose che si leggono nell’art. 11, comma 14, del d. lgs. 160/2006; e soprattutto questi dati sono acquisiti senza minimi meccanismi di contraddittorio, poiché al c.d. “magistrato interessato”, che ovviamente porterà acqua al suo mulino, non si contrappone nessun altro se questi non si è fatto delle inimicizie.
2.4. Arriviamo, cosi, ai criteri di giudizio, ovvero alla parte conclusiva della Circolare del CSM n. 20691/2007.
I criteri di giudizio indicano il percorso logico che deve essere seguito per esprimere il parere: sulla base di certe fonti di conoscenza si danno per esistenti certi indicatori, e sulla base dell’esistenza di certi indicatori si deduce l’esistenza di certi parametri.
I criteri di giudizio non aggiungono niente dunque, semplicemente confermano che il percorso logico da seguire è quello.
Il problema, semmai, è che le conclusioni logiche di tutto questo percorso devono essere poi sintetizzate in un modulo predefinito ove si devono semplicemente mettere delle crocette su dei pallini, nei quali sta scritto “positivo”, “carente” “gravemente carente”.
Dal che, direi, il giudizio di valutazione della professionalità oltre a presentare quelle relatività/discrezionalità evidenziate, termina con risposte secche, che consentono di evitare, per chi voglia evitarlo, analisi più dettagliate o approfondite.
3. Ciò premesso, desidero poi porre l’attenzione su una ulteriore dato, che è quello che un magistrato, prima ancora di essere capace, laborioso e diligente, deve essere indipendente e imparziale; e tuttavia su questi criteri, che dovrebbero essere i primi, la legge n. 111/2007 non dice niente, e nella Circolare del CSM n. 20691/2007 si trova solo qualcosa di molto sintetico al Capo II e nient’altro.
La circolare, infatti, si limita a dare sul punto delle tautologie, poiché dice che si ha l’indipendenza quando il giudice decide senza condizionamenti, si ha l’imparzialità quando il giudice decide in modo obiettivo ed equo, e si ha l’equilibrio quando il giudice decide con senso della misura e moderazione.
Manca, in questi casi, una disciplina più dettagliata, e del tutto assente è poi un ulteriore parametro di valutazione del giudice, che è quello, a mio parere di non secondaria importanza, del senso pratico.
La Circolare del CSM n. 20691/2007 afferma poi sul tema dell’indipendenza del giudice che “Gli orientamenti, politici, ideologici o religiosi del magistrato non possono costituire elementi rilevanti ai fini della valutazione della professionalità”, e che “La valutazione della professionalità non può riguardare l’attività di interpretazione di norme di diritto, ne’ quella di valutazione del fatto e delle prove” (Capo II, punto 6 e 7).
Ora, se questo è giusto e certamente condivisibile, lo diventa meno, a mio parere, se questi due elementi vengono messi in connessione tra loro.
Ed infatti, l’interpretazione delle norme può dipendere (anche) dall’orientamento politico o ideologico del giudice, cosicché, se presi separatamente questi elementi non devono costituire criteri di valutazione, quando invece un giudice tenda ad interpretare la legge in un certo modo perché quello è il modo conforme al suo orientamento politico o ideologico, allora lì un rilievo nel giudizio sulla professionalità dovrebbe ammettersi.
Stando al processo civile, esso è colmo di momenti sensibili, ove gli aspetti ideologici e politici possono avere rilevanza: si pensi al diritto all’immigrazione, alle cause di lavoro, a quelle societarie e dell’impresa, alle controversie di famiglia, agli sfratti.
Scriveva Calamandrei (Studi sul processo civile, Padova, 1956, VI, 67) che “E’ possibile che un giudice, nel contrasto tra un ricco e un povero, o tra un ateo e un credente, dia ragione senza accorgersene all’uno o all’altra non per ragioni oggettive della causa, ma per la propensione morale che egli prova verso la categoria sociale a cui l’uno o l’altro appartiene”.
Calamandrei sottolineava senza accorgersene, poiché certo non è in discussione la buona fede del giudice; e tuttavia si tratta di aspetti che non andrebbero trascurati in un giudizio sulla professionalità, e che invece sono del tutto messi in angolo dalla legge n. 111/2007 e dalla Circolare n. 20691/2007 del CSM.
4. Ne’, con riferimento a tutto questo, gioca un ruolo di un certo rilievo il controllo giurisdizionale.
Stando alla giurisprudenza amministrativa (v. per tutte Consiglio di Stato 31 agosto 2017 n. 4149), la valutazione della professionalità rientra tra i poteri discrezionali del Consiglio superiore della magistratura ai sensi dell’art. 105 Cost. e ciò esclude il controllo giurisdizionale “con la sola eccezione di vizi di carattere formale, ovvero logici, a fronte cioè di provvedimenti irragionevoli, incoerenti o contraddittori”.
Dunque, nessun sindacato è ammesso sulle valutazioni di merito del CSM, e poiché le decisioni del CSM sono quasi sempre conformi ai pareri dati dai Consigli giudiziari, va da sé che anche le attività dei Consigli giudiziari non sono soggette ad alcun controllo giurisdizionale, considerato che l’esistenza di vizi formali appare ipotesi rarissima.
Peraltro, poi, si tratta pur sempre di un controllo giurisdizionale a senso unico, poiché l’intervento giurisdizionale può essere richiesto dal magistrato che non abbia ottenuto la valutazione positiva di professionalità, ma non v’è (normalmente) nessuno che possa al contrario chiedere il controllo giurisdizionale nelle ipotesi nelle quali il magistrato sia stato valutato positivamente in assenza dei presupposti.
Prospettive de iure condendo
5. Veniamo alle prospettive future.
Lo stesso progetto Bonafede contiene in punto di valutazione di professionalità due proposte di riforma:
a) una attiene al c.d. diritto di tribuna, ovvero alla possibilità che anche i laici del Consiglio giudiziario possano partecipare alle discussioni sulla valutazione di professionalità dei magistrati, seppur senza diritto di parola e di voto;
b) e l’altra attiene alla procedura, che andrebbe, si dice, meglio e più semplicemente regolata.
Alla luce di quanto ho premesso, esterno il mio pensiero anche su questi aspetti.
6. Per quanto attenga al diritto di tribuna, se una prossima riforma dovesse riconoscere ai laici questo diritto, essa solo in parte introdurrebbe una novità, poiché il diritto di tribuna, nel silenzio della legge, è già riconosciuto a livello di regolamento da molti Consigli giudiziari, cosicché la novità sarebbe solo per quei Consigli giudiziari che ad oggi, con loro regolamento, non ammettono i laici all’audizione delle discussioni in ordine alla valutazione di professionalità dei magistrati.
Ma:
a) da una parte, se il tema è quello di determinare il ruolo dei laici in ordine alla valutazione di professionalità dei giudici, il diritto di tribuna, che esclude comunque agli stessi la partecipazione al dibattitto e al voto, non sembra soluzione soddisfacente;
b) e, da altra parte, sembra altresì una soluzione del tutto inutile ove si voglia parimenti affermare il diritto alla riservatezza su quanto avvenga all’interno dei Consigli giudiziari.
V’è da chiedersi, infatti, a cosa serva che taluni avvocati partecipino alle discussioni sulle valutazioni di professionalità dei giudici se questi avvocati, poi, ammessi come semplici auditori, non possono esternare quanto hanno ascoltato, ne’ rendere pubblico quanto hanno appreso.
6.2. Io credo, allora, che l’intervento da fare sia altro.
Penso si possa affermare che i compiti attribuiti al Consiglio giudiziario dall’art. 15 del d. lgs. 25/2006 si dividano in due ambiti: alcuni non attengono strettamente a quelli previsti dall’art. 105 Cost. (quali, ad esempio, le c.d. variazioni tabellari), e altri, tutto al contrario, sono pienamente riconducibili a quelli, e tra questi ultimi vi rientrano i giudizi di valutazione della professionalità dei magistrati, che infatti sono provvedimenti di competenza del CSM, seppur emanati a seguito di parere del Consiglio giudiziario.
Orbene, se questo è vero, v’è da affermare che in tutti i casi nei quali il Consiglio giudiziario operi in materie strettamente riservate al CSM ai sensi dell’art. 105 Cost., il Consiglio giudiziario debba procedere e decidere con le stesse proporzioni, e con le stesse modalità di esercizio del potere, proprie del CSM, e cioè con la presenza di un terzo di laici che abbiano su ciò il diritto di discussione e di voto.
I Consigli giudiziari, soprattutto quelli relativi ai distretti più grandi, non hanno al loro interno un terzo di laici, poiché la misura è normalmente minore, e decresce ulteriormente all’aumentare del numero dei giudici del distretto.
Dunque, la proposta di riforma è chiara: i Consigli giudiziari, quando operano in materie di cui all’art. 105 Cost. devono essere composti di un terzo di laici, e devono decidere con il voto di un terzo di laici.
La diversa scelta, cui oggi abbiamo, non solo non sembra equilibrata, ma potrebbe addirittura essere incostituzionale.
Ed infatti, nella misura in cui la valutazione di professionalità è materia assegnata dall’art. 105 Cost. al CSM, e nel momento in cui le decisione del CSM devono essere prese ai sensi dell’art. 104 Cost. con un terzo di componenti laici, l’art. 16, d. lgs. 25/2006, per essere conforme agli artt. 104 e 105 Cost., deve prevedere che ogni decisione riconducibile a detta materia debba essere presa con un terzo di laici.
Detta riforma appare tanto più necessaria quanto più, e come sopra abbiamo visto, il giudizio di valutazione di professionalità dei magistrati è un percorso che lascia a chi lo compie ampi margini di discrezionalità; cosicché la partecipazione (anche) di avvocati e professori universitari secondo le misure dell’art. 104 Cost. appare dovuta.
Questa proposta io già la facevo molti anni fa (v. SCARSELLI, Ordinamento giudiziario e forense, IV ed., Milano, 2013, 179); la speranza è che oggi siano maturi i tempi per realizzarla.
6.3. A questo proposta di riforma vanno però aggiunte due considerazioni:
a) una prima è che mentre gli avvocati componenti del CSM non possono, per tutta la durata del mandato, svolgere la professione, gli avvocati del Consiglio giudiziario non hanno questo limite, anche perché non sono retribuiti per il compito che svolgono, e possono così, contestualmente, sia esercitare la professione forense, sia sedere in Consiglio giudiziario.
Questo, evidentemente, costituisce un problema, poiché, mentre un avvocato componente del CSM può liberamente esprimersi su un giudice senza alcun possibile conflitto di interesse, lo stesso non può dirsi con riferimento all’avvocato che sieda in un Consiglio giudiziario, visto che questo potrebbe giudicare un giudice in Consiglio giudiziario e poi il giorno dopo quel giudice potrebbe giudicare una causa di quell’avvocato.
E’ ovvio che questo problema esiste e va risolto.
Credo, però, che questo rilievo non debba far venir meno l’idea della riforma che si suggerisce; semplicemente si tratta di trovare una soluzione che renda impossibile un simile conflitto di interesse, creando una incompatibilità, da studiare e verificare, tra l’avvocato consigliere giudiziario e l’esercizio della professione forense.
b) Una seconda considerazione attiene alla preparazione degli avvocati e dei professori universitari in ordine all’ordinamento giudiziario.
Non ho remore ad affermare che sia gli uni che gli altri, quasi sempre, hanno conoscenze assai limitate della materia.
Peraltro, l’ordinamento giudiziario è materia che nemmeno si insegna nei dipartimenti di giurisprudenza, è materia che non si ha agli orali dell’esame di avvocato, è materia sulla quale poche sono anche le occasioni di studio in ordine alla formazione e all’aggiornamento professionale successivo, e addirittura è ora materia che sembra (ma forse è solo una mia impressione) ridimensionata anche nell’orale del concorso in magistratura, se si tiene conto del progetto di riforma Bonafede (v. art. 28, lettera f) di quel progetto).
Si tratta, tutto al contrario, di diffondere le conoscenze della disciplina dell’ordinamento giudiziario, poiché solo su una simile premessa sarà possibile che il maggior peso dei laici in Consiglio giudiziario produca dei frutti.
7. La seconda proposta di riforma attiene, come detto, al procedimento.
Non si tratta, a mio parere, di operare una semplificazione della procedura, poiché certe precisazioni e puntualizzazioni delle questioni sono, a mio parere, seppur con i limiti che mi sono divertito ad esaltare, necessarie e dovute, e non si tratta nemmeno di irrigidire il sistema di valutazione oltre una certa misura, poiché credo che al di là delle ampie discrezionalità che i meccanismi della Circolare del CSM n. 20691/2007 offrono, il giudizio non possa che rimanere elastico, anche perché non è pensabile che un magistrato ogni quattro anni debba, in un certo senso, e altrimenti, superare quasi ex novo, un concorso.
Si tratta, a mio parere, di suggerire solo qualche minima regola procedurale, in grado, se si vuole, di compensare l’ampia discrezionalità di merito che il giudizio sulla valutazione della professionalità ha.
E in questa ottica, se mi è consentita una proposta extravagante, a me viene in mente Papa Benedetto XIV e la sua Bolla del 3 novembre 1741.
Papa Benedetto XIV, constatato che dinanzi ai tribunali ecclesiastici l’annullamento dei matrimoni si concedeva con gran facilità e talvolta con grandi abusi, istituì, con la bolla su menzionata, il defensor matrimonii, che aveva il compito di difendere il vincolo matrimoniale nella procedura prevista per l’udienza delle cause matrimoniali che implicavano la validità del matrimonio.
Il defensor matrimonii aveva il compito di vigilare, era parte necessaria di ogni procedimento di annullamento del matrimonio, e assicurava la regolarità del contraddittorio e la fondatezza delle prove che venivano poste a sostegno della domanda.
Qualcosa del genere potrebbe esser pensato anche con riguardo all’odierno giudizio di valutazione della professionalità dei magistrati, date, evidentemente, le dovute differenze.
Non sarebbe impensabile, per ogni valutazione, immaginare che il relatore della pratica abbia anche una funzione di defensor, con un ruolo, se si vuole, un po’ più incisivo.
Ciò assicurerebbe, in una certa misura, una sorta di contraddittorio oggi inesistente in ordine agli indicatori e alle fonti di conoscenza che sopra abbiamo ricordato, e consentirebbe altresì un eventuale controllo duplice in sede giurisdizionale: poiché, mentre oggi ogni impugnativa al giudice amministrativo è del magistrato giudicato, con questo sistema l’impugnazione potrebbe essere altresì assegnata alla legittimazione del defensor in tutti quei casi in cui lo stesso ritenga sia stato commesso un eccesso.
[1] Relazione tenuta presso la Scuola Superiore della magistratura in data 8 febbraio 2021 in un incontro di studio dedicato a L’Ordinamento giudiziario.
Il fine vita e il legislatore pensante
3. Il punto di vista dei filosofi del diritto
Considerazioni di Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato e Carla Faralli
Introduzione di Angelo Costanzo
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci)]
Introduzione
Angelo Costanzo
Le decisioni della Corte di cassazione della Corte costituzionale sulle questioni del fine-vita e l’esplicitazione del principio di libertà di autodeterminazione terapeutica (con il correlato strumento del consenso informato) nella legge n. 219/2017 non forniscono sufficienti principi normativi generali che regolino sia la posizione della persona interessata sia quella di coloro (sanitari, amministratori, familiari) che operano al suo intorno. Occorrono ulteriori leggi che definiscano la reale portata delle decisioni delle Corti e gli ambiti da queste non considerati. Resta, in ogni caso, il problema (in sé irresolubile) che sorge quando si tratta di sostituire una altrui volontà a quella di un soggetto che più non la possiede (o non può esprimerla), come se a quel soggetto in quel momento tale volontà effettivamente appartenesse. I pochi ordinamenti giuridici che disciplinano la materia possono suggerire modi per affrontare le questioni, ma, in assenza di nette scelte legislative, è possibile che per risolvere i casi concreti siano seguiti valori di fonte extralegislativa.
Con un taglio prevalentemente ma non esclusivamente filosofico, rispondono alle domande:
- il prof. Lorenzo d’Avack, professore emerito di filosofia del diritto, presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica;
- il prof. Salvatore Amato, professore ordinario di Filosofia del Diritto dell’Università di Catania, componente del Comitato Nazionale per la Bioetica;
- la prof.ssa Carla Faralli, professore ordinario di Filosofia del Diritto, attualmente insegna Bioetica nell’Università Alma Mater di Bologna, è componente del Comitato Etico di area vasta Emilia Centro.
D’Avack evidenzia l’eterogeneità dei disegni di legge presentati in parlamento e il loro discostarsi dai canoni ricavabili dalla giurisprudenza costituzionale. Ritiene ottima la legge n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) perché è riuscita a affermare l’autonomia di scelta del paziente rispetto ai trattamenti sanitari (anche a quelli ritenuti ‘salva vita’). Rileva che il diritto all’obiezione di coscienza non è espressamente previsto ma che se fossero imposti ai sanitari obblighi relativi all’aiuto al suicidio allora ne andrebbe tutelata l’autonomia professionale. Per altro verso, osserva che gli orientamenti della giurisprudenza in materia biogiuridica sono fra loro difformi e mostrano eccessi esegetici che non giovano alla certezza del diritto.
Amato osserva che in materia di fine-vita i giudici attingono a decisioni adottate in altri ordinamenti e così introducono principi normativi nuovi. Rimarca che l’equilibrio tra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute è il fondamento ma anche il limite della bioetica perché non esistono un diritto a morire o un dovere di vivere assoluti e il diritto si rivela imperfetto quando regola situazioni in cui la vita perde la sua pienezza. Considera che sui giudici, in assenza di norme legislative adeguate, grava un sovraccarico morale che li porta a farsi legislatori, così avvicinandosi al cittadino ma allontanandosi dal quadro istituzionale. Ritiene che il dissenso del medico rispetto alle richieste del paziente rientri nel “diritto di astensione” previsto dall’art. 22 del Codice di deontologia medica non nell’obiezione di coscienza.
Faralli descrive alcuni fra i casi più rilevanti affrontati dalla giurisprudenza nei diversi sistemi giuridici. Ripropone la questione se il diritto debba disciplinare le situazioni che interessano la bioetica, esprimendo, comunque, preferenza per le teorie proceduraliste del liberalismo giuridico rispetto al modello della legislazione autoritaria. Ritiene che introdurre l’obiezione di coscienza nella legge n. 219/2017 sarebbe stato inappropriato ma che risulterebbe necessario se si allargasse l’applicazione della legge al caso del suicidio medicalmente assistito. Auspica una regolazione che consenta ai Comitati per l'etica nella clinica di essere consultati; in particolare quando, a parere del medico o su richiesta del paziente, appaia necessario acquisire ulteriori elementi di valutazione su questioni etiche.
1. l valore “normativo” della sentenza Englaro e delle pronunzie della Corte costituzionale sull'aiuto al suicidio. Punto di arrivo o punto di partenza per il legislatore?
Prof. Lorenzo d’Avack
Dovrebbe essere almeno un punto di partenza per il legislatore o almeno uno stimolo.
La ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio evidenzia la preoccupazione del Giudice delle leggi di regolamentare legislativamente il più possibile l’ambito del proprio operato e di non lasciare un “vuoto normativo”. A tal fine nell’ordinanza si era data al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità per completare una ricostruzione dell’articolo 580 c.p. Dal momento, tuttavia, che nelle more di un anno la Corte ha dovuto prendere atto che nessuna normativa in materia era sopravvenuta, ha con sentenza pronunciato nel merito delle questioni in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale, già riscontrato con l’ordinanza e ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari.
Tuttavia, emergono aspetti problematici di questa decisione che inevitabilmente avranno una incidenza sull’auspicato e necessario intervento del legislatore perché provveda ad assicurare alla prestazione di aiuto medicalizzato ai pazienti all’interno della cornice regolatoria, tracciata dalla Corte, la chiarificazione dei contenuti e della procedura, così da evitare abusi, ma anche limiti che ne rendano difficile la realizzazione.
Non possiamo ora immaginare quale sarà la strada che verrà percorsa da una eventuale futura legge, una strada di fatto già accidentata vista l’eterogeneità dei disegni di legge presenti oggi in parlamento e tendenzialmente portati a legittimare l’eutanasia, ma ben poco conformi alle regole e ai principi ricavabili dalla sentenza della Corte. Ciò preoccupa, dato che non è la prima volta che i parlamentari e i partiti politici non adempiono ai loro compiti. È frequente che il Parlamento ignori o lasci troppo a lungo senza risposta le indicazioni della Corte costituzionale che segnala la necessità di mettere la legislazione in linea con la Costituzione.
L’ auspicio è allora che in questa vicenda di fine-vita il legislatore faccia un passo avanti, non lasciando che il ‘diritto a morire’ continui a restare nel vago di diverse letture giurisprudenziali.
Prof. Salvatore Amato
Un paio di premesse a questa e a tutte le altre domande. L’attivismo giudiziario è un fenomeno che riguarda tutti i paesi a democrazia avanzata, perché la tutela della salute, la qualità della vita, il rispetto dell’integrità personale coinvolgono radicalmente quei principi di libertà, uguaglianza e solidarietà che stanno alla base del tessuto costituzionale. Abbiamo una sorta di cosmopolitismo giudiziale con cui si tenta di dare voce alle tensioni morali che emergono da singole istanze individuali, per parlare alla coscienza della società oltre le norme, perché spesso manca un quadro legislativo definito, ma dentro le norme, perché il diritto è considerato uno strumento vivo. Significativamente la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), la prima volta in cui nel 2015 è intervenuta sul suicidio medicalmente assistito nel caso Pretty, ha parlato del diritto come un living instrument. Del resto, la stessa CEDU si è autodefinita “the conscience of Europe” in un volume del 2010 con cui celebrava i cinquant’anni della propria attività.
A questo fenomeno è legato un singolare sviluppo della tecnica argomentativa, la transnazionalizzazione dei flussi giuridici o judicial borrowing, vale a dire l’assunzione di concetti giuridici, assunti etici, espedienti tecnici, tratti dall’elaborazione giurisprudenziale di altri paesi. Il giudice non si sente più vincolato solo al diritto statale nella misura in cui trova, anche se in decisioni maturate in altri contesti, il segno di un cambiamento di fronte al quale non può restare indifferente. La sentenza della Corte di cassazione italiana sul caso Englaro è estremamente significativa in questo senso (se non ha addirittura introdotto questo modello nel nostro paese), perché fonda gran parte dei propri assunti su alcune decisioni della giurisprudenza americana (Quinlan, Cruzan, Glucksberg), dell’Alta Corte Inglese (Ms. B), del Bundesgrerichtshof, oltre che naturalmente della CEDU (Pretty).
Senza questo espediente, che è tecnico e culturale nello stesso tempo, la Cassazione non avrebbe potuto giustificare il rilievo non meramente interpretativo, ma chiaramente normativo del punto più delicato della sua decisione: l’interruzione delle cure nei confronti di un soggetto di cui si ignora la volontà, perché è in stato vegetativo persistente da diversi anni. L’unico modo per trovare un fondamento a questa drammatica conclusione negli art. 13 e 32 II comma della Costituzione era ricorrere alla suggestione retorica di decidere “non per Eluana, ma con Eluana”. Questa aspirazione a stare “con” Eluana, a rispettare e realizzare le sue volontà, non sarebbe stata possibile se i giudici non avessero “importato” il modello del “consenso presunto” o “subsistuted judgement” dalla giurisprudenza americana. Modello desunto inoltre da altri due istituti, il living will e il power of attorney, estranei, anch’essi, al nostro orizzonte normativo.
Dico “importato” perché nella sentenza della Cassazione c’è un inciso, un obiter dictum, che è diventato una norma, “e non abbia… specificamente indicato… attraverso dichiarazioni di volontà anticipate”. Come avrebbe potuto Eluana compilare delle Dat, se non esisteva nulla del genere nel nostro ordinamento giuridico? Con poche parole, ripeto meramente incidentali, è stato legittimato un nuovo istituto e poi, in forza di questa particolare creazione, si è ritenuto di poter dare voce a chi non poteva parlare, attribuendo al rappresentante legale il diritto a chiedere l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale.
È difficile non comprendere e non condividere la tensione etica che sta dietro questa decisione, ma è altrettanto difficile ricondurla entro i canoni dell’art. 12 delle preleggi. La cosa è ancora più singolare perché tanto negli Stati Uniti quanto in Italia nessuna legge attribuiva esplicitamente tale potere al rappresentante legale. Negli Stati Uniti le law of agency di vari Stati, sul modello di una legge della Virginia degli anni ‘50, avevano ampliato il potere del procuratore investendolo di compiti che andavano oltre la cura degli interessi patrimoniali, ma non contemplavano le questioni di fine-vita. È stata la giurisprudenza ad allargare l’orizzonte, “benché la legge non autorizzi esplicitamente la concessione di un’autorizzazione permanente a prendere decisioni di carattere medico” (In Re Peter 529 A. 2d 419 N.J. 1987).
In Italia è avvenuta la stessa cosa: la dizione dell’art. 357 del Codice civile, “il tutore ha la cura della persona”, si è dilatata finendo per assorbire ogni dimensione esistenziale. Non so se questo sia avvenuto solo per spirito emulativo della giurisprudenza degli altri paesi o per una strutturale forza espansiva dell’istituto. Fatto sta che, a partire dal caso Englaro e ben oltre il caso Englaro, l’amministratore di sostegno ha assunto definitivamente una “particolare” declinazione giudiziale, mentre le Dat sono entrate a far parte del nostro tessuto normativo.
Il caso Englaro punto di arrivo o punto di partenza? Faccio rispondere a una nota decisione del Tribunale di Modena (Decreto 5.11. 2008) che fa rilevare “l’assoluta superfluità di un intervento del legislatore volto a introdurre e disciplinare il c.d. testamentario biologico”, perché già esistevano gli strumenti normativi per esprimere le proprie volontà. Quindi molto più di un punto di arrivo: un vero e proprio vincolo giudiziale all’operato del legislatore, perché una volta riconosciuti determinati diritti non è facile rimetterli in discussione.
Non posso dire lo stesso del caso Cappato. Qui, per me, la Corte ha aperto (penso senza rendersene conto) una voragine a cui può o, forse meglio, deve porre rimedio solo il legislatore. Ma vorrei chiarire questa mia convinzione, rispondendo a una delle domande successive.
Prof. Carla Faralli
Nell’ambito della bioetica/biodiritto un ruolo fondamentale è stato svolto dalla giurisprudenza sia nei sistemi di common law sia nei sistemi di civil law.
Negli Stati Uniti sul tema del fine-vita i casi che per primi e in maniera particolarmente significativa hanno aperto il dibattito e influenzato l’orientamento delle corti sono i ben noti casi di Karen Ann Quinlan e di Nancy Cruzan.
Nel 1976 il padre di Karen Ann Quinlan chiese l’autorizzazione alla Corte Suprema del New Jersey di staccare il respiratore che, unitamente a una sonda gastrica, teneva in vita la figlia. La Corte con sentenza del 31 marzo dello stesso anno, per la prima volta, riconobbe un «right to die» quale espressione di un più generale diritto alla privacy, argomentando che l’interesse della ragazza alla rimozione del respiratore artificiale era superiore all’interesse dello Stato alla conservazione della vita. La sentenza della Corte introdusse anche il principio del «giudizio sostitutivo» (substituted judgement) che estende il potere decisorio (surrogate decision making) a coloro che sono legati al paziente da un rapporto di particolare vicinanza – familiare, amico intimo, ecc – tale da permettere loro di affermare che l’avente diritto avrebbe consentito all’interruzione delle cure se avesse potuto manifestare la sua volontà e, quindi, di adottare, in sua vece, decisioni di ordine medico.
Orientamento più restrittivo emerge dall’altro caso che ho sopra citato: il caso Cruzan. Nel 1990 i genitori di Nancy Cruzan, una ragazza in stato vegetativo persistente a causa di un incidente occorsole sette anni prima, chiesero che le fosse tolto il tubo attraverso il quale era alimentata artificialmente, ma la loro richiesta fu respinta dai medici. Seguirono due giudizi contrastanti (uno della Trial court che autorizzava e uno della Corte Suprema del Missouri che negava l’autorizzazione) e del caso, su iniziativa degli stessi genitori di Nancy Cruzan, fu investita la Corte Suprema. Questa accolse la decisione della Corte del Missouri, non essendovi la certezza che la volontà espressa in vita da Nancy fosse stata nel senso di non essere più alimentata in quelle condizioni.
Tale sentenza ridimensiona quindi notevolmente la portata del diritto alla privacy e mette in primo piano il problema del consenso, affermando che, in mancanza di una volontà effettiva e cosciente del paziente, non è sostenibile il ricorso ad alcun giudizio sostitutivo quando non vi sia la prova, certa, chiara e convincente (clear and convincing evidence) della precedente volontà del paziente incosciente, tenuto conto anche dell’irreversibilità degli effetti di tale atto.
In Italia un ruolo analogo è stato svolto dai casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro.
Alla fine del 2006 Piergiorgio Welby, come è noto, dopo una lunga battaglia civile, volta ad affermare il diritto a rifiutare le cure, e una sentenza del Tribunale di Roma , che aveva respinto la sua richiesta dichiarata inammissibile a causa del vuoto legislativo in materia (il diritto al rifiuto delle cure viene definito dai giudici un “diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento”), morì grazie all’intervento del medico anestesista Marco Riccio che procedette al distacco del respiratore e alla somministrazione di sedazione.
Il medico, autodenunciatosi, fu prosciolto da ogni accusa, prima dall’Ordine dei medici, che riconobbe la piena legittimità del suo comportamento etico e professionale, poi dal Tribunale di Roma, che ordinò il non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato. Il giudice richiama l’art. 41 del Codice penale italiano che prevede la non punibilità per il medico che adempie al dovere di dare seguito alle richieste del malato, compreso il rifiuto delle cure sancito dall’art. 32 della Costituzione.
Pochi anni dopo, nel 2009, arriva a conclusione anche il caso altrettanto noto di Eluana Englaro.
A partire dal 1999 il padre e tutore di Eluana aveva iniziato una battaglia giudiziaria volta a chiedere la sospensione dell’alimentazione artificiale e delle terapie, battaglia giunta in Cassazione, che nell’ottobre 2007 aveva inviato il caso alla Corte d’appello di Milano, fissando due presupposti per l’autorizzazione all’interruzione dell’alimentazione artificiale e delle terapie:
- che “la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”;
- che “tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce della paziente medesima, fatta dalle sue precedenti dichiarazioni, ovvero della sua personalità, del suo stile di vita e dei suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.
La Cassazione sottolinea che chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, quindi, consentendo all’incapace di esprimere il rifiuto di ogni tipo di cura per mezzo del rappresentante legale, si ristabilisce piena parità di trattamento tra i soggetti competenti e quelli che non sono in grado di esprimere le proprie determinazioni.
La Cassazione, inoltre, non riconosce al legale rappresentante il diritto di decidere al posto dell’incapace o in nome dell’incapace, ma insieme all’incapace, condizione quest’ultima che si dà quando il legale rappresentante dà sostanza e coerenza all’identità complessiva della persona che rappresenta e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della vita.
Ed è quanto ha fatto la I° sezione civile della Corte d’Appello di Milano, alla quale la causa è stata rinviata, nella pronuncia del 9 luglio 2008, dopo aver accertato entrambe le condizioni, autorizzando il padre/tutore non al posto di Eluana ma con Eluana ad interrompere l’alimentazione artificiale e la terapia.
I due leading cases della bioetica di fine vita in Italia hanno aperto la strada, insieme ad altre sentenze sul consenso informato, alla legge 219 del 22 dicembre 2017 (entrata in vigore il 31 gennaio 2018) in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.
All’art. 1 comma 5 la legge prevede: “ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha inoltre il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento…. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici” e al comma 6 “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile e penale”.
L’art. 1 della legge 219 nei due commi sopra citati riguarda casi analoghi a quello di Welby, cioè soggetti capaci; per quanto riguarda invece soggetti incapaci, come Eluana Englaro, la legge prevede le disposizioni anticipate di trattamento attraverso le quali (art. 4):” ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in presenza di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte può esprimere la propria volontà in materia di trattamenti sanitari nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia … che ne faccia le veci o la rappresenti nella relazione con il medico e con le strutture sanitarie”.
Nel caso di patologie croniche e invalidanti, caratterizzate da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, la legge 219 all’art. 5 prevede la pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico “alla quale il medico e l’equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”.
Il caso di aiuto al suicidio oggetto delle due pronunce della Corte costituzionale del 2018 e del 2019 sul caso del DJ Falbo esula dalle previsioni della legge 219, come affermato dalla stessa Corte costituzionale: la legislazione in vigore in Italia “non consente al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente trattamenti diretti non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte”.
Alla luce di ciò nella prima pronuncia del settembre 2018 la Suprema Corte aveva ritenuto di rinviare al Parlamento “in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale” “ogni opportuna riflessione e iniziativa e solo davanti all’inerzia del legislatore è intervenuta con la seconda pronuncia del settembre 2019 dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, ribadendo peraltro “con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore”.
2. Alla ricerca di un bilanciamento fra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute. Potrà mai essere trovato “per legge” dopo gli interventi della Corte costituzionale? La vulnerabilità e le scelte di fine vita.
Prof. Lorenzo d’Avack
Ritengo che questo sia già avvenuto, anche se con grave ritardo senza la necessità di un intervento costituzionale. La legge n. 219/2017 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento è una ottima legge che è riuscita, con molte difficoltà, ad affermare l’autonomia e responsabilità del paziente nei confronti delle scelte in merito ai trattamenti sanitari, anche quelli ritenuti ‘salva vita’. Nel rispetto di principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dopo decenni di colpevole silenzio e di ondivaghi interventi giurisprudenziali (Welby, Riccio, Englaro, Testimoni di Geova, ecc.), finalmente troviamo stabilito per legge che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.
Come già avvenuto in altri Paesi (ad es. Francia, Germania, ecc.) il legislatore, pur conservando l’implicito divieto all’eutanasia, ha voluto rendere legittime all’interno dell’alleanza terapeutica e della relazione di cura le autonome decisioni del paziente sulla propria salute, richieste che ricadono nell’ambito di una più ampia tutela dei diritti della persona.
Prof. Salvatore Amato
L’equilibrio tra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute costituisce il fondamento della bioetica, ma anche il suo limite, perché delinea una zona grigia sempre variabile in cui si scontrano e si incontrano sensibilità e modelli culturali diversi. Tutti sono d’accordo nel ritenere che dignità, vita, libertà, salute siano valori indiscutibili, ma ognuno li legge a suo modo. Nel caso Englaro la dignità è stata invocata tanto per giustificare l’interruzione dei trattamenti quanto per rivendicare il dovere di preservare la vita.
La nostra Corte costituzionale nel caso Cappato (242/2019) muove dalla premessa che “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”, salvo poi a relativizzare questa affermazione in nome del diritto all’autodeterminazione.
Potremmo concludere che non esiste un diritto assoluto a morire e non esiste un dovere assoluto di vivere. L’esperienza morale e giuridica si muove a tentoni tra questi due estremi, senza riuscire a individuare un canone certo su cui fissare le prospettive normative. Forse è un bene che sia così, perché le questioni di fine vita sono talmente diverse, l’una dall’altra, da impedire qualsiasi facile generalizzazione. È in contrasto con la dignità della persona “condannarla” a restare attaccata a una macchina ed è in contrasto con la dignità della persona “abbondonarla” alla morte. Anche chi crede che la vita sia “sacra” non può non avere dubbi su quanto la tecnologia stia condizionando, se non falsando, il senso della fine della vita.
Ce ne rendiamo conto proprio attraverso il concetto di vulnerabilità che, praticamente assente nel linguaggio giuridico fino alla fine del secolo scorso, è divenuto ormai una costante della lettura giurisprudenziale e legislativa delle esigenze umane, ponendo l’accento su un numero sempre più ampio di situazioni in cui si delineano, per i motivi più eterogenei, condizioni di emarginazione, sfruttamento e disagio, se non addirittura di oppressione sociale o esistenziale. Un “catalogo aperto”, per usare un’espressione della Cassazione (11110/2019) in tema di protezione umanitaria. Talmente aperto che, sempre nel caso Cappato, la Corte costituzionale ci pone di fronte a una sorta di vulnerabilità della vulnerabilità, quando affida alle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale il compito di verificare le modalità̀ di esecuzione del suicidio assistito, per evitare abusi in danno di “persone vulnerabili”, e poi riserva ai Comitati etici il compito di “intervenire” a tutela dei soggetti “particolarmente vulnerabili” (per inciso saremmo l’unico paese al mondo che attribuisce ai Comitati etici questo compito). Quando si diventa “particolarmente” vulnerabili? Sempre? In alcuni casi? Mai? D. J. Fabo era “solo” vulnerabile o anche “particolarmente” vulnerabile? Forse dietro questo scivolamento linguistico, si fa strada la convinzione che la sofferenza dell’uno non sia mai la sofferenza dell’altro. Più il diritto tenta di scendere negli orizzonti insondabili in cui la vita perde la sua pienezza e più scopriamo quanto sia imperfetto ed approssimativo.
Prof. Carla Faralli
Il rapporto tra diritto e morale è tema classico della filosofia del diritto. Negli ultimi decenni, caduta la rigida distinzione tra diritto e morale che aveva caratterizzato il positivismo giuridico fino ad Hart, si è aperta la via per una filosofia del diritto normativa, impegnata in questioni con una forte ricaduta politica e morale, comprese quindi le questioni bioetiche.
Contro la tesi giuspositivistica della separazione tra diritto e morale (Trennungsthese, come la definisce Robert Alexy) si è sviluppata la tesi della connessione tra diritto e morale (Verbindungsthese, sempre seguendo Alexy). Tale ultima tesi assume connotazioni diverse, riconducibili però a due filoni principali, quelle delle concezioni perfezioniste e quello delle concezioni proceduraliste.
Per le concezioni perfezioniste, nella forma forte, tutte le scelte sia pubbliche sia private devono perseguire un ideale di vita buona. Tipico rappresentante John Finnis il quale, come è noto, sostiene che occorre un’organizzazione della società che sia in grado giuridicamente e politicamente di garantire il perseguimento della piena fioritura umana (human floroushing) attraverso la valorizzazione dei sette beni fondamentali, indeducibili e indimostrabili, che presiedono ogni valutazione moralmente rilevante. Tali beni rimandano a norme morali inderogabili, gli “assoluti morali”, la cui validità non ammette eccezioni e che il diritto deve tutelare.
L’eutanasia, ad esempio, è un caso paradigmatico di azione che è sempre sbagliata, perché è una scelta contro uno dei beni fondamentali, la vita, e nessun argomento può giustificare un atto contro la vita. La nozione di bene comune è per Finnis costitutiva del diritto, nel senso che rappresenta il criterio a partire dal quale è possibile legittimare il diritto positivo. Nel caso dell’eutanasia, Finnis sostiene che il diritto deve proibire gli atti che vanno contro il valore vita.
C’è anche una versione meno assoluta e radicale di perfezionismo, quella, ad esempio, dei comunitarians, che sostengono che l’oggettività dei criteri morali deriva dalla storia di un determinato popolo, storia che determina una sorta di moralità diffusa.
è la tesi espressa da Lord Devlin, nella polemica con Hart sul Wolfenden Report, riguardante, come è noto, la questione dell’opportunità della repressione penale della omosessualità e della prostituzione in Inghilterra. Contro Hart che, alla luce della tesi positivista della separazione tra diritto e morale, aveva sostenuto che il diritto non deve entrare in comportamenti non offensivi per il prossimo (le self regarding actions di J. Stuart Mill), Devlin sostenne che una morale condivisa –di cui, a suo parere, le regole che condannano l’omosessualità e la prostituzione devono essere considerate parte- è una componente irrinunciabile dell’organizzazione sociale, nel senso che rappresenta un aspetto essenziale della struttura di una società e ne determina l’identità, quindi la società, anche attraverso il ricorso alle norme coercitive del diritto, può e deve difendersi per evitare la propria distruzione.
Al lato opposto delle concezioni perfezioniste, soprattutto nella loro forma più forte, le concezioni proceduraliste, in base alle quali si sostiene che i criteri delle scelte non devono riguardare le concezioni sostanziali del bene e che si possa giungere a scelte eque di giustizia a partire da procedure che abbiano determinate caratteristiche.
Il merito di queste concezioni è quello di prendere sul serio “il fatto del pluralismo” – come l’ha definito Rawls -, vale a dire il fatto che esistono diverse concezioni sostanziali del bene e che primo dovere dell’uomo è rinunciare alla pretesa di fare delle proprie personali credenze il modello universale del conoscere e dell’agire, e proporre scelte ragionevoli che non rimandano cioè ad una presunta verità o falsità, giustizia o ingiustizia di una realtà precedente alla deliberazione stessa, ma che ricevono, in forza delle procedure di giustificazione seguite, un generale consenso, ovvero un “consenso per intersezione”, per dirla sempre con le parole di Rawls. Sulla stessa linea si muove Jurgen Habermas: anche il filosofo tedesco prende atto che non esiste un’unica concezione del bene e conseguentemente non sono possibili accordi sostanziali sui valori ma solo accordi procedurali.
Queste concezioni proceduraliste sono alla base delle teorie neo- costituzionaliste di Dworkin e Alexy che, pur nelle loro diverse declinazioni, affermano la non riducibilità del diritto al mero diritto formalmente valido e l’inclusione in esso di contenuti morali espressi dai principi e dai diritti inviolabili degli individui racchiusi nelle Costituzioni. Dal che discende il vincolo del legislatore di fronte ai principi e ai diritti e il ruolo decisivo dei giudici per la loro attuazione attraverso lo sviluppo di nuove forme di decisione giudiziale, come, ad esempio, il bilanciamento.
Su questo sfondo il filosofo del diritto si trova ad affrontare il problema se il diritto debba o meno disciplinare le questioni bioetiche e, in caso di risposta affermativa, come devono essere le norme giuridiche che le regolano. Semplificando e schematizzando si può dire che da una parte vi sono coloro che nutrono dubbi o addirittura rifiutano una regolazione giuridica in ambito bioetico; dall’altra quanti ritengono utile, se non necessario, che il diritto disciplini i diversi ambiti della bioetica attraverso il cosiddetto biodiritto.
Se si cerca di esaminare più da vicino le due posizioni si scopre che al loro interno sono estremamente composite e diversificate. Tra gli avversari, per così dire, della regolazione giuridica della bioetica alcuni, innanzitutto, temono che il diritto possa creare ostacoli allo sviluppo scientifico; altri (soprattutto esponenti di orientamenti religiosi) pensano che disciplinare, anche severamente e restrittivamente, certe pratiche (ad es. procreazione medicalmente assistita o eutanasia) significhi pur sempre legittimarle; altri ancora ritengono che le autoregolamentazioni della comunità scientifica (ad es. i codici deontologici), i pareri dei comitati etici, le dichiarazioni di principio adottate dalla comunità internazionale dei medici e degli scienziati siano sufficienti a garantire la correttezza dell’operare; altri ancora che gli interventi giuridici nell’ambito della bioetica costituiscano un’intrusione inaccettabile della sfera pubblica nella sfera privata delle persone, imponendo quasi sempre modelli di comportamento conformi a una particolare concezione morale. Come si vede, si va da posizioni estreme di chi sostiene che il diritto non deve entrare in nessuna forma nelle questioni bioetiche, a posizioni più moderate di chi manifesta uno sfavore relativo, limitato cioè allo strumento legislativo, e ritiene che non occorrono strumenti normativi nuovi con cui disciplinare le questioni bioetiche in quanto ogni controversia può essere risolta ricorrendo al diritto che c’è già, applicato in via analogica, o con il riferimento ai principi sanciti a livello internazionale o a livello interno nelle Costituzioni.
Passando quindi al partito dei fautori della regolazione giuridica in materia bioetica, anche in questo si trovano posizioni diverse che sono, tuttavia, riconducibili sostanzialmente a due. Da una parte c’è chi sostiene che le questioni bioetiche debbano essere disciplinate in maniera conforme a particolari valori morali; dall’altra chi ritiene che il diritto nell’ambito della bioetica dovrebbe garantire a ogni individuo la possibilità di perseguire i propri valori nelle azioni che non danneggiano gli altri, realizzando quindi un equilibrio tra interessi diversi, rinunciando a imporre una particolare concezione morale e salvaguardando l’autonomia delle persone.
La prima posizione è riconducibile al perfezionismo di cui si è detto sopra: si presuppone cioè l’esistenza (e la conoscibilità) di valori e principi morali assolutamente giusti o, quanto meno, suscettibili di raccogliere generale consenso e si afferma che il diritto debba porre al servizio di questi il suo apparato coercitivo.
Ne consegue la richiesta di una legislazione che fissi modelli rigidi, ponendo divieti e limiti rigorosi, una legislazione autoritaria che finirà per sancire la superiorità di una particolare concezione morale e non sarà in grado di comporre in maniera adeguata i conflitti tra diverse concezioni morali presenti nelle moderne società pluraliste.
La seconda posizione ha sullo sfondo le teorie proceduraliste del liberalismo giuridico sopra ricordate: si riconosce la difficoltà di fare appello a criteri morali condivisi e si guarda al diritto non come ad un mezzo per imporre particolari concezioni morali (come sosteneva Stuart Mill compito del diritto d’altra parte non è quello di obbligare i cittadini a essere virtuosi), ma come a un mezzo per permettere la convivenza sociale e il confronto tra posizioni diverse, riconoscendo che, con l’unico limite del danno agli altri, ogni individuo (adulto e consapevole) ha il diritto di vivere secondo le proprie convinzioni.
Ne consegue la richiesta di una legislazione che può essere definita “mite” con Zagrebelski o “leggera” e “aperta” con Rodotà: “leggera”, perché richiede che le regole giuridiche siano poco numerose e il più possibile povere di contenuti morali rivolte cioè a regolamentare gli aspetti tecnici e procedurali; “aperta”, perché rende possibile realizzare diversi modelli di vita, diverse “morali”, non privilegiando un unico punto di vista.
Personalmente ritengo questa seconda opzione preferibile alla prima, non solo dal punto di vista teorico, ma anche dal punto di vista pratico.
Dal punto di vista teorico tale posizione è coerente con un’etica, che, semplificando tra le tante classificazioni proposte, possiamo definire della responsabilità, in contrapposizione all’etica dei principi. Quest’ultima poggia sull’idea che esistono dei principi universali, assoluti, oggettivi, validi per tutti e si coniuga con il cognitivismo etico, incorrendo nella fallacia naturalistica (denunciata da Hume) di far derivare l’ought dall’is, ossia il dover essere dall’essere. L’etica della responsabilità, invece, parte dalla premessa che i giudizi di valore non sono conoscitivi, ma costitutivi, ossia soggettivi e relativi, in quanto l’uomo è soggetto non oggetto della legge morale (senza che tale relativismo implichi lassismo morale) e si coniuga con il non cognitivismo etico, evitando così di violare la legge di Hume.
Dal punto di vista pratico, poi, tale posizione meglio risponde a una società pluralistica e multietnica come quella contemporanea.
3. L’obiezione di coscienza del medico. Quale disciplina?
Prof. Lorenzo d’Avack
L’obiezione di coscienza appartiene al genus della resistenza al potere e come tale è per definizione contra legem. Quando l’ordinamento rimette all’individuo la scelta tra comportamenti alternativi è più corretto parlare di ‘opzione di coscienza’, alludendo così non più ad un gesto di resistenza, ma ad uno spazio di scelta individuale pienamente legittimato dall’ordinamento vigente. Di fatto si scrive abitualmente di ‘diritto all’obiezione di coscienza’.
Si è molto discusso in dottrina sull’opportunità o meno di riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza nel caso della L. 219/2017. Di fatto questo non è espressamente previsto, dato il presupposto che non si tratta di porre in essere un’attiva causazione della morte, bensì di restituire al paziente le condizioni per un processo naturale del morire maggiormente consono alla sua volontà. La sentenza della Corte costituzionale a sua volta non crea alcun obbligo di legge al medico per procedere all'aiuto al suicidio e quindi nell'ipotesi prevista dalla Corte non si menziona il diritto obiezione di coscienza. Se, tuttavia, il legislatore nell’ambito dell’aiuto al suicidio medicalizzato dovesse imporre l’obbligo per il medico, anche solo di preparare la cd ‘pozione fatale' e a più forte ragione di somministrarla, vi sarebbero motivi per riconoscere il diritto all’obiezione, considerato che vi sono profonde difformità in merito ai valori professionali del medico e del personale sanitario, coinvolti in una pratica che comporta un cambiamento di paradigma nell’ambito del rapporto medico/paziente.
Emerge un problema di tutela dell'autonomia professionale sia dal punto di vista della libertà della comunità di professionisti di autoriflettere e determinare le finalità specifiche della professione esercitata, sia dal punto di vista della libertà del singolo professionista nei confronti di una eventuale eterodeterminazione legale riguardo alle finalità del proprio operare. In questo secondo caso il diritto all'obiezione di coscienza si presenta perciò come diritto della persona che uno Stato costituzionalizzato e sensibile alla libertà di coscienza non può non tutelare giuridicamente.
Prof. Salvatore Amato
Non vorrei entrare nel merito della questione, che divide da tempo la nostra dottrina, se sia possibile un’obiezione praeter legem o addirittura contra legem e se sia un atto individuale o se possa essere esercitato da un’istituzione nel suo complesso. Mi limito a riflettere sulla legge 219/2017 e sugli effetti della sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato.
Credo sia decisivo che la legge 219, nel rispetto delle richieste del paziente, lasci al medico uno spazio decisionale. Il n. 5 dell’art. 4 afferma che il medico può disattendere le DAT quando appaiano “palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della loro sottoscrizione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. Questa prescrizione va letta assieme all’ indicazione di carattere generale dell’art. 1 n. 6 secondo cui “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali”. Non ci troviamo, quindi, di fronte all’imposizione astratta di un comportamento che si pone a priori e incondizionatamente in contrasto con un sistema di valori, come nel caso della soppressione del feto nell’aborto o dell’accettazione della guerra nel servizio militare.
Non vi è una contrapposizione che impedisce l’alleanza terapeutica, ma l’assunzione di una responsabilità professionale che passa per un processo diagnostico all’interno del rapporto tra possibilità terapeutiche e aspettative del paziente. Non vi è l’obbligo di praticare l’eutanasia, ammesso che l’eventuale rifiuto delle cure possa essere considerato eutanasia, ma di dare ascolto alle ragioni del paziente in stretta correlazione con le sue effettive condizioni. Non ci troviamo di fronte a una scelta di campo, ma a una scelta terapeutica. Nulla esclude che un medico contrario all’eutanasia possa ritenere la richiesta del paziente, in quella specifica circostanza, assolutamente ragionevole e, viceversa, che uno strenuo sostenitore dell’eutanasia ritenga che le condizioni non siano tali da giustificare l’interruzione del trattamento.
Mi pare sia corretto, quindi, lasciare il dissenso del medico rispetto alle richieste del paziente dentro il “diritto di astensione” previsto dall’art. 22 del Codice di deontologia medica. L’unico fondamento di una dichiarazione astratta di obiezione di coscienza alle DAT, in quanto tali, potrebbe essere l’insistenza terapeutica elevata a principio etico assolutamente vincolante. L’insistenza terapeutica è l’altra faccia dell’ostinazione irragionevole. Nell’una il medico si trova di fronte alla possibilità estrema di tentare un rimedio, nell’altra all’impossibilità di aiutare il malato. È innegabile che il medico abbia il dovere di prolungare le terapie tutte le volte in cui vi sia una speranza. Il problema è se questo dovere sussista indefinitamente e indipendentemente dalla volontà del paziente. Gli obblighi del medico non si definiscono in astratto sui manuali di medicina, ma all’interno di una situazione specifica e determinata che ha nella soggettività del paziente uno dei suoi elementi costitutivi. Se è illegittimo, eticamente prima che giuridicamente, intubare un soggetto contro la sua volontà, non vi è motivo per negare il diritto di esercitare analogo rifiuto attraverso una DAT.
In termini di civiltà giuridica e di sensibilità etica le DAT sono il naturale prolungamento del diritto fondamentale di ciascun paziente di essere informato e di decidere sulle terapie che dovrà subire. Pretendere o minacciare un’obiezione di coscienza, astratta, generica e incondizionata non è solo in contrasto con quanto il codice di deontologia medica è andato indicando in questi anni, ma è privo di qualsiasi fondamento. Sarebbe un’obiezione all’alleanza terapeutica, all’ascolto del paziente, alla valutazione del singolo caso, se non alla stessa responsabilità della diagnosi. Il dovere del medico di decidere per il bene del paziente non è separabile dal dovere di ascoltarlo. L’insistenza terapeutica esiste per “qualcuno” e non per qualcosa. L’accanimento terapeutico si può manifestare anche nel rendere la vita un rigido rituale imposto da altri.
Penso alle belle parole di Jonas: “…il medico dovrebbe essere disposto a onorare il significato fondamentale della morte per la vita terrena (contro la sua moderna valutazione a male che si deve rimuovere) e a non negare a un morente la sua prerogativa di entrare in rapporto con la fine che si avvicina, e di farla propria, a suo modo, rassegnandosi, rappacificandosi con lei o rifiutandola, in ogni caso comunque nella dignità del sapere".
È diverso il caso del suicidio medicalmente assistito, perché presuppone un coinvolgimento del medico molto più intenso rispetto all’ipotesi precedente. Si è parlato trionfalmente (saremmo il primo paese al mondo) di una sentenza che avrebbe smantellato il modello ippocratico (Maurizio Mori). Mi sembra, quindi, un escamotage retorico l’affermazione della Corte secondo cui, esistendo un diritto del paziente a porre fine alle proprie sofferenze ma non un dovere del medico, sarebbe fuor di luogo prevedere la possibilità dell’obiezione di coscienza. Se si può parlare di smantellamento del modello ippocratico, allora è l’impostazione complessiva dell’identità e del ruolo del medico ad essere messa in discussione. Sarebbe, quindi, grave non disciplinare le modalità di esercizio dell’obiezione di coscienza. E questo anche a tutela della dignità del paziente, perché sappia con chiarezza a chi rivolgersi, senza dover ricorrere, come nella triste vicenda Welby, a una “coscienza a nolo”, a un appello pubblico per essere aiutato a morire.
Si poteva, con una sentenza, disciplinare un istituto così delicato? No, a mio avviso. E così torno alla prima domanda e mi avvicino alla prossima. La Corte costituzionale, in questo caso, sembra non voler guardare la crepa aperta nel nostro ordinamento. Crepa che avrebbe potuto colmare soltanto scendendo nei dettagli. I dettagli propri di quegli articolati provvedimenti normativi che spetta al legislatore elaborare.
Prof. Carla Faralli
La legge 219 non contiene alcuna previsione all’obiezione di coscienza, come alcuni avrebbero voluto, previsione che, a mio parere, sarebbe stata del tutto inappropriata, perché la legge non prevede alcuna pratica a danno del paziente e tantomeno consente l’eutanasia. D’altra parte “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali: a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali”, ma entro questi limiti “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo” e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale (art. 1, comma 6).
Particolare attenzione merita il caso del paziente che intende rinunciare o rifiutare le cure, ma che si trova in uno stato tale da richiedere l’intervento del medico per attuare concretamente la sua scelta. Il tema è stato ampiamente dibattuto dal CNB (v. parere del 24 ottobre 2008) con posizioni molto differenti: alcuni hanno sostenuto che, soprattutto se si tratta di rinuncia/rifiuto di cure salvavita, l’intervento del medico presenta profili di attrito con il dovere di curare il paziente e tutelarne la vita; altri hanno sottolineato la priorità dell’autodeterminazione del paziente, anche al fine di evitare esiti discriminatori, in quanto si creerebbe una disparità tra i pazienti in grado di sottrarsi autonomamente alle cure e i pazienti non in grado di farlo, che perciò si vedrebbero negato in concreto l’esercizio di un diritto garantito ai primi.
Solo qualora l’opzione indicata dalla Corte Costituzionale nel caso del DJ Fabo, di cui si dirà, di allargare l’ambito di applicazione della legge 219 ai casi di suicidio medicalmente assistito, la previsione dell’obiezione di coscienza si renderebbe, io credo, necessaria.
4. Le DAT e l’aiuto al suicidio. Quali modifiche all’impianto normativo già esistente?
Prof. Lorenzo d’Avack
La L. 219/2017 è importante perché valida le ‘Disposizioni anticipate di trattamento’ (DAT). Le DAT non erano legittimate fino ad allora, sebbene alcuni Comuni le registrassero. Ma non avevano alcun valore giuridico e soprattutto non rappresentavano alcuna garanzia per il paziente e per il medico.
Non riscontro alcuna necessità di modifiche, anche perché le DAT, diversamente dalla terminologia utilizzata (“disposizioni” anziché “dichiarazioni”), che fa presumere una vincolatività del documento, non sono tali in relazione alla reale situazione clinica del paziente in rapporto agli eventuali sviluppi della scienza medica.
Per quanto concerne l’aiuto al suicidio medicalizzato, la sentenza della Corte costituzionale non le prevede, ritenendo che la volontà del paziente, oltre che libera ed informata, debba essere attuale
Altre legislazioni eutanasiche muovono dalla possibilità per un paziente di avvalersi delle DAT.
Prof. Salvatore Amato
Non credo che le DAT abbiamo alterato il nostro impianto normativo, perché sono il naturale ed eticamente doveroso prolungamento del diritto all’autodeterminazione, consentendo al soggetto incapace di pretendere quelle stesse cose che avrebbe potuto esigere se fosse stato capace. Del resto, come mette in luce il decreto del Tribunale di Modena di cui ho parlato precedentemente, si sono inserite nel nostro contesto normativo ben prima della L. 219/2017. La legge ha naturalmente definito il quadro complessivo, ampliandolo ad esempio con la pianificazione condivisa delle cure, ma ha sostanzialmente un carattere riepilogativo di quanto, oltre ad essere asseverato in molte disposizioni giudiziali, era già presente nella pratica clinica e nelle regole deontologiche.
Non è così per la sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato. Come ho detto viene già letta come il definitivo ripudio della differenza tra far morire e lasciar morire con evidenti riflessi sul modello ippocratico delle tradizionali linee di lettura del nostro ordinamento giuridico. Non so se sia effettivamente così. Probabilmente non era questa l’intenzione di alcuni o della maggior parte dei giudici della Corte. Non lo sapremo mai, finché non introdurremo il principio della motivazione individuale delle sentenze, proprio della cultura anglosassone. Purtroppo, noi continuiamo a nasconderci dietro il modello del giudice “senza anima”, “bocca della legge” a cui forse non credeva veramente neppure Montesquieu, se guardiamo alla confusa costruzione della magistratura come un potere nullo che tuttavia avrebbe dovuto frenare gli altri poteri.
Quali che fossero le intenzioni della Corte, questa sentenza ha creato dei vuoti dalle conseguenze imprevedibili. Sul piano generale è, a mio avviso, illusorio pretendere di normalizzare o, forse meglio, “normativizzare” l’eccezione: lasciare, cioè, invariato l’impianto del nostro Codice penale, restringendone l’efficacia quando ricorrono situazioni ben determinate e circoscritte. Le maglie si sono subito allargate, come attesta la sentenza della Corte d’Assise di Massa 27.07.2020 nel caso Trentini che, con una singolare disinvoltura semantica, ha sostenuto che “per trattamento di sostegno vitale deve intendersi qualsiasi trattamento sospeso il quale si verificherebbe la morte del malato anche se in maniera non rapida”. Anche un antibiotico, quindi.
Ma mi vorrei soffermare, tra i tanti aspetti discutibili (ad esempio la confusione tra i Comitati etici “territoriali” previsti dalla legge 11 gennaio 2018 n. 3, ma non ancora istituiti, e i Comitati etici regolamentati dalle Regioni ai sensi del decreto 8 febbraio 2013, che sono gli unici attualmente esistenti; e ancora l’incomprensibile riferimento all’uso compassionevole dei farmaci), su un aspetto particolare.
Con innegabile acribia, la Corte non teme di vestire i panni del legislatore, istituendo oltre al suicidio medicalmente assistito, un sistema di controlli per la sua attuazione. Per evitare abusi in danno di “persone vulnerabili”, garantire la dignità̀ del paziente ed evitare al medesimo ulteriori sofferenze attribuisce alle strutture pubbliche del servizio sanitario il compito di “verifica” delle modalità̀ di esecuzione. Aggiunge, poi, che i Comitati etici (come ho detto non è chiaro a quali Comitati si faccia effettivamente riferimento) “intervengono” a tutela dei soggetti “particolarmente vulnerabili”.
A questo punto tutto diventa abbastanza contraddittorio e confuso.
Il primo problema è cosa si intenda con “strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale”? Chi assume una decisione così delicata? Un dirigente amministrativo o un organismo appositamente istituito, come ha proposto ad esempio il Comitato etico della Toscana? L’ “intervento” del servizio sanitario è per verificare o per attuare? Si può attuare senza verificare? E verificare con quali poteri, con quali limiti, attraverso quali competenze? In assenza di un provvedimento normativo che fornisca chiare e omogenee direttive a livello nazionale, c’è il forte rischio di un’applicazione della sentenza affrettata ed eterogenea con intollerabili differenze territoriali nella tutela dei pazienti e nell’adeguatezza dei sistemi di assistenza. Proprio l’opposto di quello che auspica la Corte.
Ancora più complesso è il problema dell’identità e del ruolo dei Comitati etici. Se le espressioni “intervento” e “verifica” sono estremamente vaghe, i loro rapporti sono ancora più equivoci. Il Comitato etico è l’unico organismo a dover “verificare” o si trova a realizzare “una verifica della verifica”? E quando opera questa verifica? Sempre? Solo nel caso di soggetti “particolarmente vulnerabili”? Che natura ha, poi, questa verifica? È meramente orientativa o è assolutamente vincolante?
Ci troviamo innegabilmente di fronte a una sentenza piena di buone intenzioni, ma non bastano a definire un coerente quadro normativo. Abbiamo sicuramente tante nuove norme e tanti orpelli burocratici. Quella che manca è un’effettiva regolamentazione.
Prof. Carla Faralli
Come si è detto, la legge 219 non contiene alcuna previsione relativa al suicidio assistito, come ribadito nella pronuncia della Corte Costituzionale sul caso del DJ Fabo, ma la Corte osserva che “una disciplina delle condizioni di attuazione delle decisioni di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda e continua e con relativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’articolo 580 del Codice Penale, inserendo la disciplina stessa nel contesto della Legge 219 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, opportunamente valorizzata dall’articolo 1 della legge medesima.” A parere della Corte “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze”, “senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio di dignità umana oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”.
Certo, come si è detto, qualora l’opzione indicata dalla Corte di allargare l’ambito di applicazione della Legge 219 fosse seguita, la previsione dell’obiezione di coscienza si renderebbe necessaria.
Personalmente auspico che si possa arrivare ad una legge ad hoc sulla fattispecie del suicidio assistito piuttosto che procedere ad un inserimento nella legge 219 che a tre anni dall’entrata in vigore manifesta alcune problematicità sul piano attuativo.
Consenso informato, disposizioni anticipate di trattamento, pianificazione condivisa delle cure stentano ad essere considerati l’esito finale di un processo comunicativo in grado di costruire un’alleanza fiduciaria tra due persone, medico e paziente, entrambe portatrici di proprie competenze e valori e rischiano di divenire l’ennesimo atto burocratico di firme su fogli prestampati. Ancora carente è inoltre la formazione dei medici e degli operatori sanitari, come la legge 219 prescrive (art. 1 comma 10) in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative in modo che essi non vivano, come spesso accade, l’impossibilità di intervenire su certe patologie, la rinuncia e il rifiuto delle cure da parte del paziente come una sconfitta della loro professione.
Quanto alle disposizioni anticipate di trattamento, si riscontrano difficoltà soprattutto sul piano attuativo. Dopo l’entrata in vigore della legge 219, l’8 febbraio 2018 il Ministero dell’Interno, con propria circolare, ha chiarito che gli sportelli competenti a ricevere le disposizioni anticipate di trattamento (consegnate personalmente da soggetti residenti nel comune) sono solo gli uffici demografici municipali; che la legge non disciplina l’istituzione di un nuovo registro dello stato civile; che gli uffici comunali devono limitarsi a registrare “un ordinato elenco cronologico delle dichiarazioni presentate e ad assicurare la loro adeguata conservazione in conformità ai principi di riservatezza dei dati personali”; che gli uffici anagrafe devono assicurare un raccordo organizzativo tra di loro per garantire “la corretta trattazione delle fattispecie riguardanti quei disponenti che, migrati da altri comuni, consegnino al nuovo comune di residenza nuove disposizioni anticipate di trattamento modificative di quelle precedenti o revoche delle stesse”.
Il 31 luglio 2018 il Consiglio di Stato ha risposto ad alcuni quesiti formulati dal Ministero della Salute in ordine in particolare al registro nazionale previsto dalla Legge 219 (art. 4, comma 7), sottolineando che esso non dovrebbe limitarsi a contenere la semplice annotazione o registrazione delle DAT, ma dovrebbe anche raccoglierle, consentendo in tal modo di renderle conoscibili a livello nazionale, evitando che esse abbiano una conoscibilità circoscritta al luogo in cui sono state rese, il che vanificherebbe la realizzazione concreta della normativa. Il Consiglio rileva che è opportuno che in esso siano raccolte anche le DAT delle persone non iscritte al Servizio sanitario nazionale per garantire a tutti i medesimi diritti.
Solo il 10 dicembre 2019, dopo il via libera del garante della privacy, è uscito il Regolamento concernente la banca dati nazionale delle DAT (originariamente previsto per il 30 giugno 2018) che è entrato in vigore il 1° febbraio 2020.
5. A quale domanda, diversa da quelle qui formulate, avrebbe voluto rispondere sul tema?
Prof. Lorenzo d’Avack
I giudici sono preparati in merito alle problematiche etiche che nelle sentenze debbono affrontare?
Certamente No. Va ricordato che gli interventi dei giudici nei c.d. ‘casi difficili’ con sensibili ricadute etiche non sono riusciti a creare regole di diritto e orientamenti sufficientemente certi in grado di risolvere in modo coerente conflitti tra i diritti della persona e il progresso della scienza, tra gli interessi individuali (tutela della persona) e gli interessi collettivi (salute pubblica).
Questi settori sono stati caratterizzati da orientamenti giurisprudenziali difformi, incoerenti, dominati prevalentemente dalle ideologie proprie del giudice, dagli eccessi esegetici che sovente niente altro sono che dei paraventi, per altre finalità (politiche, sociali, personali), con ricadute negative sui principi cardine quali legalità e tassatività in altre parole: ‘certezza del diritto’. Non è certo possibile dire che siano stati forniti elementi sufficienti per guidare il processo di costruzione di nuovi assetti sociali e politici riguardanti la scienza e le nuove tecnologie in relazione con i principi etici propri dei diritti fondamentali.
Prof. Salvatore Amato.
I giudici devono o vogliono divenire legislatori?
Devono. Come ho cercato di mettere in luce nella lunga premessa alla prima domanda, potremmo dire che il giudice è quasi costretto a divenire l’interprete delle attese sociali, perché è su di lui che si scaricano le rivendicazioni dei diritti individuali. Tra il diritto alla salute e il diritto a interrompere le cure, tra il diritto a interrompere le cure e il diritto a morire vi sono tante tragedie individuali che non possono restare senza tutela. In assenza di un adeguato supporto normativo, il giudice si trova a sopportare da solo questo pesante sovraccarico morale.
Vogliono. Mi sembra che ormai i giudici non avvertano più lo smarrimento e i rischi di questa solitudine che più li avvicina al cittadino e più li allontana dal rispetto del quadro istituzionale. È estremamente significativa dell’assuefazione a questo ruolo di supplenza una recente sentenza della Corte di Cassazione in tema di rifiuto dell’emotrasfusione da parte dei testimoni di Geova (4 – 23 dicembre 2020, n. 29469). Con apprezzabile garbo teorico buona parte della sentenza è dedicata a spiegare come, “in mancanza della disciplina per fattispecie legale”, sia possibile ricavare una norma dai principi costituzionali. Ecco i passaggi che ci vengono illustrati: ricostruzione del caso concreto, individuazione dei principi costituzionali rilevanti, ponderazione tra i vari principi in relazione alle loro prospettive attuative, e infine il giudizio, “il quale consta non della diretta applicazione del principio costituzionale, ma della regola di diritto formulata per il caso concreto sulla base della combinazione del detto principio, se del caso bilanciato con altro principio concorrente, con le circostanze del caso”. Voilà… il giudice si è fatto legislatore e coltiva con elegante disinvoltura il proprio spazio creativo.
Prof. Carla Faralli
Quale ruolo per i CE nei casi di aiuto al suicidio?
Nella sentenza del 2019 sul caso del DJ Fabo la Corte Costituzionale ha fissato alcuni principi circa la legittimità dell’aiuto al suicidio che così possono essere riassunti:
- La persona è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed è affetta da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili
- La persona è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli
- La verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve essere affidata a strutture pubbliche del servizio sanitario e deve vedere l’intervento di un Comitato etico quale “organismo di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possono presentarsi nella pratica sanitaria”.
In un parere del 31 marzo 2017 il CNB, richiamando pareri precedentemente espressi, rileva che la normativa vigente prevede, seppur in via residuale, che i Comitati etici per la sperimentazione possano svolgere anche altre funzioni (il Decreto 8 febbraio 2013 recita: “ove non già attribuita a specifici organismi, i CE possono svolgere una funzione di consultazione in relazione a questioni etiche connesse con attività scientifiche assistenziali allo scopo di proteggere e promuovere i valori della persona; i CE inoltre possono proporre iniziative di formazione degli operatori sanitari relativamente a temi in materia bioetica”), ma constata che tali Comitati come attualmente composti e organizzati svolgono quasi esclusivamente valutazioni per la sperimentazione farmacologia. La pratica clinica pone agli operatori sanitari problemi sempre più complessi in conseguenza degli sviluppi tecnologici, che alimentano nuove speranze e aprono nuovi interrogativi, e dell’accresciuta consapevolezza da parte dei pazienti della propria autonomia di scelta, problemi che richiedono competenze diverse rispetto a quelle previste per i Comitati etici per la sperimentazione.
Se le valutazioni sulle sperimentazioni farmacologiche – sottolinea il CNB – hanno carattere tendenzialmente impersonale e procedurale, l’etica clinica, invece, accentua le condizioni individuali ed esistenziali del rapporto con i pazienti, di qui l’esigenza dei Comitati per l’etica nella clinica che non devono sovrapporsi, sostituire o interferire nel rapporto tra medico, equipe medica e paziente, ma rafforzare tale rapporto quando, a parere del medico o su richiesta del paziente, appare necessario acquisire ulteriori elementi di valutazione e allargare gli orizzonti del dialogo. In questi casi il Comitato per l’etica nella clinica può fornire un parere senza togliere al medico o all’operatore sanitario autonomia e responsabilità decisionali.
Molti paesi si sono forniti di questi organismi: ad esempio in Spagna vi sono i Comités Asistencial de Etica, nel Regno Unito i Clinical Ethics Cmmittees, strutture analoghe negli Stati Uniti e in Francia. In Italia pionieristico è il caso della Regione Veneto che fin dal 2004 ha adottato linee guida per la costituzione e il funzionamento dei Comitati etici per la pratica clinica.
Mi auguro che i Comitati per l’etica nella clinica trovino un’adeguata attenzione legislativa e amministrativa per evitare che gli operatori sanitari siano lasciati soli a prendere decisioni in situazioni particolarmente drammatiche, quali quelle relative al suicidio assistito, ma non solo, decisioni che non devono basarsi su criteri astratti ritenuti oggettivamente validi, ma contestualizzate e individualizzate nei casi concreti, al “letto del malato".
Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un’occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all’apprezzamento del giudice nazionale
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1.Il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter ord. penit. 2. La questione del letto singolo. 3.Le conseguenze della decisione delle SU. 4. Il rapporto tra giurisprudenza alsaziana e giudice nazionale 5. Sui fattori compensativi.
1.Il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter ord. penit.[1]
Le Sezioni Unite penali hanno depositato negli scorsi giorni le motivazioni della sentenza 24 settembre 2020 n. 6551/2021, anticipata da notizia di decisione che aveva già determinato dibattito ed una certa attesa, ora ripagata da ventotto pagine di dense argomentazioni, che sono tra l’altro l’occasione per un inquadramento sistematico dell’istituto del rimedio risarcitorio conseguente alla violazione dell’art. 3 CEDU nei confronti del soggetto detenuto, per come introdotto nel nostro ordinamento con d.l. 92 del 26 giugno 2014, poi conv. con modificazioni in L. 117 dell’11 agosto 2014, nell’art. 35- ter della legge penitenziaria.
Come noto, in seguito alla condanna nel caso Torreggiani ed altri v. Italia, avvenuta in relazione alle condizioni detentive patite dai ricorrenti, la CEDU stigmatizzò l’assenza nel nostro ordinamento di un sistema di rimedi interni di tipo preventivo e compensativo in favore delle persone detenute che subissero violazioni dei propri diritti fondamentali in connessione con la propria condizione di restrizione carceraria. Con il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, poi convertito con modificazioni in L. 21 febbraio 2014 n. 10, si intervenne sull’ordinamento penitenziario con una rimodulazione dell’art. 69 co. 6 e l’introduzione dell’art. 35-bis, apprestando lo strumento inibitorio e rispondendo così, per altro, ad un monito della Corte Costituzionale che era rimasto inascoltato dalla sent. 26/1999. Con il provvedimento già citato, dell’estate 2014, l’operazione fu completata con il rimedio risarcitorio, che si volle modellare in aderenza ostentata alle richieste della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Questo obbiettivo fu perseguito introducendo un “risarcimento del danno”, poi più attentamente descritto in giurisprudenza nei termini del mero indennizzo, in favore del detenuto o dell’internato che avesse subito un grave pregiudizio dalle condizioni detentive patite, che dovevano essere vagliate avendo come parametro di riferimento l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo “come interpretato dalla Corte europea”. Da subito si disse come ciò configurasse un unicum nel nostro panorama normativo, attraverso un richiamo mobile alla giurisprudenza di Strasburgo, che andava a definire il perimetro della valutazione del giudice, in qualche modo agganciandola più fortemente rispetto all’obbligo che comunque grava sul giudice comune di informare le proprie decisioni all’insegnamento della CEDU.
Ove a richiedere il ristoro sia un detenuto, la competenza spetta al magistrato di sorveglianza, che commina una riduzione di pena di un giorno per ogni dieci in cui si è patita una condizione inumana e degradante, mentre ove il reclamo provenga da un soggetto ormai libero, perché già è terminata l’espiazione della pena o della custodia cautelare in carcere, l’azione deve essere proposta dinanzi al giudice civile individuato in relazione al capoluogo del distretto nel quale la persona ha la residenza. In tal caso il ristoro è però di tipo meramente pecuniario, definito in euro 8,00 per ogni giorno di violazione subita. Ancora pecuniario è il rimedio comminato dal magistrato di sorveglianza laddove la pena residua non consenta l’intera decurtazione di pena che sarebbe dovuta, oppure quando la violazione sia durata meno di quindici giorni.
La natura atipica del rimedio, la competenza ripartita lasciando sul tavolo molte situazioni non definite in modo chiaro (persone in misura alternativa? richieste relative a detenzioni pregresse non riferibili al titolo in esecuzione), un richiamo incerto alla attualità del pregiudizio (tuttavia evidentemente escluso da un rimedio di tipo risarcitorio/indennitario), hanno condotto a un profluvio di questioni che il giudice di legittimità è stato chiamato pazientemente a dirimere. Si tratta di questioni complesse che non è obbiettivo di questa prima lettura richiamare.
E’ forse utile, però, ripercorrere, pur senza approfondimento, l’accidentato percorso giurisprudenziale che si è dipanato sino ad oggi, almeno attraverso due questioni di costituzionalità, in entrambi i casi rigettate con complesse precisazioni dalla Consulta (sent. 204/2016 sul rimedio adoperabile nel caso del condannato alla pena dell’ergastolo, sostanzialmente di tipo patrimoniale, se ha già raggiunto soglie espiali utili all’eventuale concessione di benefici penitenziari, e sent. 83/2017 sull’applicabilità dello strumento della riduzione di pena all’internato, con detrazione dalla durata massima della misura di sicurezza detentiva che gli si può comminare) e poi con due interventi delle SU, che hanno preceduto quello di cui qui si parla, circa la sussistenza e la decorrenza di un termine prescrizionale, riconosciuto a partire dall’entrata in vigore della legge anche per l’ipotesi di detenzioni già cessate (cfr. SU penali 21 dicembre 2017, n. 3775), nonché in ordine alla natura (indennitaria) del rimedio e alla durata del predetto termine, ricostruito in dieci anni decorrenti dal compimento di ciascun giorno vissuto in condizioni inumane e degradanti, e salvo sempre il riferimento per le detenzioni esaurite alla data di entrata in vigore della legge (cfr. SU civili 30 gennaio 2018 n. 11018). In tutti i casi il filo rosso seguito dalle decisioni sembra essere quello, di diretta matrice convenzionale, di prescegliere la soluzione più idonea a garantire la massima effettività al rimedio, ed in particolare alla sua forma più compiuta, di riduzione della pena.
La tecnica normativa adoperata dal legislatore del 2014 non ha dunque giovato al lavoro degli interpreti che, per altro, hanno dovuto confrontarsi con una messe soverchiante di richieste. Dalle pronunce in conseguenza emesse dalla magistratura di sorveglianza viene restituita l’immagine di condizioni detentive preoccupanti in molti stabilimenti penitenziari, in particolare per quanto concerne i periodi più risalenti, relativi agli anni del massimo sovraffollamento carcerario, gli stessi che erano già stati non a caso oggetto delle condanne della CEDU nei confronti dell’Italia prima nel caso Sulejmanovic (luglio 2009) e poi Torreggiani ed altri (gennaio 2013).
In concreto, infatti, la maggior parte delle doglianze mosse dai reclamanti ha riguardato proprio il profilo, già preso in considerazione dalle predette pronunce di Strasburgo, della insufficienza degli spazi nei quali la propria esperienza detentiva si era dovuta dipanare. Come si è detto, sotto questo profilo il rinvio mobile contenuto nella disposizione alla giurisprudenza della CEDU richiede al giudice un impegno di approfondimento e aggiornamento costante circa i criteri interpretativi seguiti dai giudici alsaziani. Si tratta di una ricerca resa più complessa dalla natura marcatamente casistica delle decisioni della Corte Europea e dalla diversità delle situazioni nazionali dei paesi che compongono il Consiglio d’Europa, sulle quali la stessa si pronuncia.
Dopo la sentenza Torreggiani, il più significativo approdo della CEDU in materia di condizioni detentive si rinviene ancora oggi nella sentenza 20 ottobre 2016, Grande Chambre Mursic v. Croazia, sulla cui base si è poi costruita la successiva giurisprudenza nazionale.
In quella pronuncia si fissa il criterio per il quale uno spazio procapite di non oltre 3 mq all’interno di una camera detentiva multipla integra una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU, vincibile ove lo Stato dimostri la sussistenza di condizioni che attenuino la portata di tale grave condizione e cioè che i periodi scontati in spazi individuali inferiori ai 3 mq siano stati brevi od occasionali, che l’interessato abbia avuto a disposizione sufficiente libertà di movimento fuori stanza e si sia giovato di una offerta trattamentale sufficiente ed ancora che il contesto detentivo che l’ha ospitato sia stato complessivamente adeguato. Questi tre profili, decisivi, debbono essere tuttavia compresenti e dunque, ove manchi il requisito della sola brevità, nel caso della Mursic considerato carente già a fronte di una detenzione durata poco più di venti giorni, deve riscontrarsi la violazione.
La sentenza Mursic, però, non affronta in modo altrettanto netto e facilmente comprensibile la disamina dei criteri di calcolo con i quali si perviene alla definizione dello spazio minimo da garantirsi al detenuto in cella multipla. Al par. 114 di quella pronuncia si richiama infatti il criterio seguito dal CPT, che esclude dal computo lo spazio occupato dai servizi igienici, ma non scomputa quello occupato dagli arredi. Contemporaneamente, però, la CEDU richiama il c.d. Ananyev test, elaborato nell’omonima pronuncia, alla luce del quale per non configurarsi una detenzione contraria all’art. 3 CEDU occorre che sia garantito uno spazio procapite non inferiore ai 3mq, un letto proprio e non da condividere con altri e la possibilità di muoversi normalmente all’interno della stanza.
Il dibattito che ne è derivato, nella giurisprudenza nazionale, può apparire di poco momento, concernendo di fatto calcoli che sembrano più naturalmente rimessi ad architetti, geometri e capicantiere, ma che in buona sostanza finiscono per riempire (o svuotare) di senso quel minimo di vivibilità che la Corte europea, pur mai dando per assodato che l’umanità e la dignità della detenzione si consumi in metri quadrati, ha voluto comunque assicurare.
Le questioni, cui la S.C. ha dato risposte ormai in larga parte consolidatesi, pur con alcune sensibili fibrillazioni, oggetto ora della assegnazione del ricorso nel caso che ci occupa alle SU, si ricollegano in buona sostanza al odo circa i criteri di calcolo per verificare la sussistenza dei 3 mq, dato per scontato che gli stessi debbano ritenersi al netto dello spazio occupato dal bagno che acceda alla camera detentiva (lo stesso art. 7 d.P.R. 30.06.2000, n. 230 lo considera vano annesso), e cioè se al lordo o al netto degli arredi e poi, ove si accolga questa seconda opzione, di quali arredi.
2.La questione del letto singolo. Le SU esaminano ampiamente la giurisprudenza di legittimità accumulatasi in questi anni, che ha naturalmente guardato all’insegnamento di Strasburgo con peculiare attenzione, costituendo lo stesso una vera e propria fonte integrativa del precetto normativo ma che, quanto alle modalità concrete del computo, in assenza di una indicazione chiara, ha dovuto adattare quel dictum alla giurisprudenza che, medio tempore, si era già formata grazie alle pronunce della magistratura di sorveglianza e che, di fatto, interpretava il riferimento contenuto nell’Ananyev test al dovere di verificare la possibilità di muoversi liberamente nella stanza detentiva come realizzabile scomputando dalla dimensione lorda della stessa lo spazio occupato da arredi fissi, che come tali certamente riducono la facoltà di circolare dentro la stanza. Una posizione a lungo avversata da chi, invece, deduceva dalle motivazioni della Mursic un calcolo al lordo degli arredi, con una successiva ed eventuale verifica (molto difficile però da effettuarsi in concreto attraverso la documentazione a disposizione del giudice) circa il libero movimento in stanza.
Ciò su cui il contrasto restava più marcato era il concreto catalogo delle strutture da considerarsi scomputabili. Data per certa la necessità di scomputare i mobili fissi come gli armadi o i termosifoni, si riscontravano fibrillazioni in particolare in relazione allo spazio occupato dal letto. In alcune pronunce da sottrarsi ove a castello, come normalmente in uso nelle stanze multiple, in altre anche quando singolo, in altre ancora citato senza precisazioni o da eliminarsi poiché amovibile, a differenza di quelli a castello, costituiti da pesanti strutture incompatibili con un loro facile spostamento. Sempre esclusi dallo scomputo, invece, gli arredi mobili quali sgabelli e tavoli.
Con la pronuncia in commento le SU giungono sul punto ad affermare il principio di diritto per il quale: “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”. Nelle motivazioni si comprende come la scelta oggi fatta propria dalle SU discenda ancora una volta dall’applicazione dell’Ananyev test , nel senso in grado di valorizzarne la ratio, attribuendo rilievo agli spazi liberi nella cella una volta scomputate le strutture che ne ingombrano pavimento e pareti. Il discrimen è dunque tra arredi fissi (come l’armadio) e mobili (come lo sgabello) e l’esclusione del letto singolo deriva dalla maggior probabilità che quest’ultimo sia facilmente amovibile. Occorre ricordare che in passato la giurisprudenza di merito aveva a lungo sostenuto che non dovesse tenersi conto dello spazio occupato dal letto singolo ai fini della valutazione sui mq a disposizione, poiché lo stesso avrebbe costituito comunque una struttura utilizzabile anche per lo svolgimento di molteplici attività giornaliere, oltre che per dormire, ed in definitiva valorizzabile, ove si fosse acceduto ad una nozione di spazio utile alla quotidianità detentiva, piuttosto che di spazio calpestabile o destinato al movimento.
La posizione assunta dalla SU richiama invece, con rigore, la nozione di spazio evincibile dalla giurisprudenza europea e, abbracciando il metodo di calcolo già fatto proprio dalla cassazione, che prevede la valutazione della possibilità di muoversi liberamente tra gli arredi come realizzabile mediante il calcolo dello spazio libero calpestabile all’interno della cella, richiede di scomputare dal lordo lo spazio occupato dagli arredi fissi o tendenzialmente fissi. Si tratta di un arresto di grande rilievo, perché porrà termine ai dubbi interpretativi rimasti nel tempo non risolti in una parte almeno della giurisprudenza. In concreto non può però non segnalarsi come ben difficilmente i letti singoli presenti all’interno dei nostri istituti penitenziari possano rispondere alla nozione di arredo amovibile nella quale le SU li includono. Si tratta di strutture normalmente in ferro, che vengono ancorate ai pavimenti per ragioni di sicurezza, e che perciò sono non meno fisse delle strutture a castello, di cui per altro costituiscono spesso il primo piano, cui viene aggiunto il secondo (e a volte un terzo), ove necessario. Quand’anche amovibili, poi, a differenza di uno sgabello o di un tavolino, che possono essere impilati nel bagno durante le ore della giornata, ben difficilmente tali letti possono davvero essere spostati dai detenuti in modo da non ingombrare considerevolmente l’esiguo spazio della camera detentiva.
Deve dedursi, quindi, che il giudice chiamato a valutare il reclamo ai sensi dell’art. 35-ter ord. penit. dovrà verificare, attraverso apposita istruttoria sul punto, che il letto singolo eventualmente in uso all’interessato abbia caratteristiche di facile amovibilità, non in astratto e ad opera di addetti alla manutenzione dell’amministrazione, ma da parte del detenuto, che in conseguenza potrebbe facilmente circolare nella stanza.
3.Le conseguenze della decisione delle SU
Il chiarimento fornito sembra idoneo a produrre sicuri effetti nomofilattici, ma potrebbe avere rilevanti conseguenze anche in termini di deflazione del cospicuo contenzioso sussistente in materia. Seguendo lo schema delle SU infatti l’amministrazione penitenziaria potrebbe diramare opportune direttive volte ad uniformare gli schemi di risposta alle richieste istruttorie dell’a.g. in ordine alle dimensioni delle camere detentive e degli arredi che le ingombrano, essendo ormai ben definito il perimetro di interesse ai fini della decisione, mentre certamente potrà limitarsi il ricorso ad impugnazioni circa il metodo adoperato dal giudice nel calcolo degli spazi detentivi che, appunto, non sembra più sotto questo profilo controverso.
Le SU si dimostrano per altro consapevoli di un possibile effetto negativo che l’adozione di questo criterio di calcolo rigoroso potrebbe comportare e cioè la tentazione dell’amministrazione di recuperare spazio per evitare di incorrere nella violazione, mediante lo svuotamento delle stanze e magari il posizionamento di armadi all’esterno delle stesse. La risposta è che, evidentemente, una simile opzione non potrebbe sottrarsi al vaglio che la magistratura di sorveglianza sarebbe poi certamente chiamata a fare circa la compatibilità di questa scelta con la tutela dei diritti della persona ristretta, ex art. 35-bis e 69 co. 6 lett. b) ord. penit.
D’altra parte, in questa sede può aggiungersi che i plurimi richiami contenuti nella legge penitenziaria e nel regolamento di esecuzione agli arredi delle stanze detentive ed al corredo che deve garantirsi ad ogni persona privata della libertà personale, perché la detenzione sia conforme a legge e al rispetto della dignità, difficilmente appare compatibile con ogni eventuale svuotamento delle camere.
Di non facile soluzione si rivela invece il quesito relativo alla riesaminabilità delle decisioni già assunte prima dei chiarimenti oggi forniti agli interpreti dalle Sezioni Unite. Ci si domanda, in sostanza, se il detenuto che si sia visto rigettare nel merito una propria richiesta di riduzione pena ex art. 35- ter in relazione a condizioni detentive patite in un certo periodo di tempo in un dato istituto penitenziario, possa oggi riproporre la sua istanza, ove la decisione in precedenza assunta sia stata il frutto dell’applicazione di criteri di calcolo oggi sconfessati dalle SU.
Il tema era già stato oggetto di riflessioni della cassazione, seppur a fronte di chiarimenti via via consolidatasi nella giurisprudenza della sua prima sezione. In questi casi si era affermato come la mera preclusione, debole, che opera nella fase dell’esecuzione e della sorveglianza (per tutti i procedimenti per i quali opera il rinvio all’art. 666 cod. proc. pen.), inibisca soltanto la reiterazione di una richiesta basata sui "medesimi elementi" di altra già rigettata e dunque, a fronte dell’allegazione di elementi nuovi, di fatto o di diritto, consenta una rivalutazione. Nei casi tuttavia posti all’attenzione della S.C. non era mai stata riscontrata la sussistenza di tale condizione, trattandosi di ipotesi in cui, appunto, a venire in rilievo erano stati differenti criteri di calcolo dello spazio individuale minimo, che avrebbero potuto formare oggetto di rivalutazione attraverso una rituale impugnazione e che, consumata quella, dovevano ritenersi intangibili (cfr. cass. 14.12.2017 n. 41155/2018 e 13.07.2018 n. 1531/2019, non massimate).
In questa sede, però, viene in rilievo un mutamento giurisprudenziale cristallizzato in principi di diritto espressi dalla Sezioni Unite, il massimo organo della nomofilachia. Ed in alcuni casi, all’evidenza comunque diversi da quello odierno, si è statuito come lo stesso, considerato alla stregua di ius novum, possa essere incluso nel concetto di nuovo "elemento di diritto", idoneo a superare la preclusione di cui al secondo comma dell'art. 666 c.p.p. (cfr., attingendo alla sola materia penale, SU 21.01.2010 n. 18288; cass. n. 1.04.2014 n. 27702 e 2.10.2017 n. 4679). Se da un lato deve evidenziarsi, per la soluzione negativa, la peculiarità del rimedio dell’art. 35-ter, concernente il diritto all’indennizzo per aver subito una detenzione in condizioni ritenute inumane e degradanti, e dunque al di fuori dell’ambito ordinario della c.d. giurisdizione rieducativa, che naturalmente prevede un vaglio diacronicamente rinnovato delle evoluzioni personologiche dell’istante, dall’altro milita in favore della ripresentabilità proprio il principio di massima effettività del rimedio richiesta dalla fonte sovranazionale.
4. Il rapporto tra giurisprudenza alsaziana e giudice nazionale
Le conclusioni cui giungono le SU sono però poste a valle di una complessa ricostruzione circa le conseguenze della scelta operata dal legislatore italiano, in seguito alla condanna nel caso Torreggiani v. Italia, di elevare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, mediante il rinvio formale operato nell’art. 35-ter ord. penit., a fonte integrativa del precetto, e dunque, per come già detto, qualcosa di più di un pur autorevole orientamento interpretativo della norma, cui sempre è tenuto il giudice nazionale ex art. 117 Cost.
Le SU chiariscono innanzitutto come il rinvio operi sincronicamente, consentendo di scegliere tra uno dei possibili significati, ma anche diacronicamente, facendo rientrare nella nozione rilevante di cui all’art. 3 diritti e garanzie progressivamente riconosciuti.
Oneroso è dunque il compito attribuito al giudice interno, che tuttavia deve far riferimento alla sola giurisprudenza della CEDU che sia espressione di un suo orientamento consolidato, come tale valorizzato nello stesso art. 28 della Convenzione. Sotto questo profilo le SU richiamano soprattutto l’insegnamento della sent. Corte Cost. 49/2015 che, approfondendo i suoi precedenti fondamentali arresti nelle sent. 348 e 349/2007, tentava di delineare un identikit efficace di questa giurisprudenza convenzionale, mediante indici rappresentativi dell’avvenuto consolidamento: il suo porsi nel solco di precedenti, l’assenza o limitatezza dei dissent, l’aver ottenuto l’avallo della Grande Camera, il non riferirsi in modo peculiare ad ordinamenti giuridici diversi da quello nazionale e poco conferenti alla situazione italiana.
Secondo le S.U., però, una volta che si è individuato l’insegnamento della CEDU rilevante nel caso che il giudice nazionale deve decidere, non soltanto nel campo del sovraffollamento, ma più in generale rispetto all’ampio spettro di possibili violazioni dell’art. 3 CEDU nel campo delle condizioni detentive, non residua al giudice interno uno spazio interpretativo che se ne discosti, e ciò non soltanto nel caso pacifico in cui ciò determini effetti deteriori per il reclamante, ma pure quando invece si vagli un’opzione interpretativa che risulterebbe ampliare la sfera di tutela del diritto rispetto a quanto affermato dalla Corte europea, perché “ciò violerebbe sia il principio dell’obbligo per il giudice comune di uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidata sulla norma conferente, sia lo stesso art. 35-ter ord. pen. che, appunto, ha reso la predetta giurisprudenza consolidata la fonte normativa mediante il rinvio per relazionem più colte ricordato.”
E ciò fatta salva soltanto l’astratta possibilità di sollevare su tale interpretazione una questione di legittimità costituzionale per contrasto con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità ex art. 27 co. 3 Cost.
A questo proposito si cita l’importante precedente costituito, in tema di mandato di arresto europeo, dalla sentenza Corte di Giustizia Unione Europea 15.10.2019 Dumitru-Tudor Dorobantu, nella quale la Corte di Lussemburgo ha inibito ad un giudice nazionale di adottare uno standard di tutela più elevato rispetto a quelli garantiti dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali (speculare all’art. 3 Conv. EDU) poiché, pur ribadita la possibilità per gli Stati membri di prevedere standard detentivi minimi più elevati di quelli individuati dalla Carta, gli Stati membri non possono subordinare la consegna di una persona per MAE al rispetto di questi standard più elevati senza con ciò pregiudicare i principi di fiducia e riconoscimento reciproco che la decisione quadro 2002/584 tutelano. Principi che, sia detto per inciso, non sembrerebbero però venire in rilievo in rapporto al reclamo ex art. 35-ter ord. penit., che ha una portata tutta nazionale.
L’unico spazio interpretativo residuo sarebbe dunque quello, in effetti poi esercitato dal giudice di legittimità, lasciato scoperto da un significato non del tutto chiaro delle parole di Strasburgo, dovendo provvedersi invece a sanzionare per violazione di legge l’interpretazione, eventualmente anche più favorevole, del giudice di merito che si basi però su un criterio difforme rispetto a quello indicato dalla CEDU.
L’insegnamento offerto sul punto dalle SU si pone sotto questo profilo al cuore di un dibattito, denso e ancora vivissimo, circa i rapporti tra giurisprudenza convenzionale, costituzionale e ruolo del giudice comune[2]. Una valutazione circa l’efficacia della soluzione prospettata non può però che misurarsi proprio con le conseguenze che nel caso di specie il giudice della nomofilachia ne ha fatto derivare. Se la dottrina ha da tempo evidenziato ad esempio la difficoltà di discernere concretamente cosa costituisca caso per caso giurisprudenza consolidata, in presenza di indici che spesso non conducono univocamente in una direzione (si pensi in materia carceraria agli slittamenti rilevabili tra Torreggiani v. Italia e Mursic v. Croazia), è proprio nel giungere a definire i corretti criteri di computo degli spazi minimi in cella multipla che si apprezza un risultato interpretativo che è frutto del fecondarsi reciproco di posizioni emerse nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, tenute insieme dal principio di garanzia della massima effettività del rimedio riparatorio.
Il ruolo difficile e nello stesso tempo insostituibile del giudice nazionale, interprete diffuso della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sembra domandare comunque uno spazio significativo che, rispetto ad un sistema convenzionale che focalizza la sua attenzione sugli standard minimi, come necessario a fronte di una pluralità di sistemi nazionali sui quali dispiega la sua opera, li adatti alle peculiarità del contesto domestico in cui deve applicarli, innervando la sua giurisprudenza anche dei risultati di un confronto, nel caso del giudice italiano con la Costituzione (in materia di condizioni detentive trovando nell’art. 27 co. 3 Cost. un moltiplicatore, non necessariamente del tutto sovrapponibile all’art. 3 CEDU), confronto che non può che portare verso un consentito, poiché frutto di tale specifica interpretazione, innalzamento degli standard di tutela.
5. Sui fattori compensativi
Le SU pervengono, infine, a definire un ulteriore principio di diritto che, nelle stesse parole del giudice della nomofilachia, non risultava poi così dibattuto nella giurisprudenza di legittimità, ma richiedeva comunque di essere ribadito, rispetto all’opacità di talune ricostruzioni che potevano trarsi più che altro da pronunce emesse in relazione a procedure per la consegna ad altri Stati di persone in forza di MAE.
Si chiarisce così che “i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen.”.
Sul punto la giurisprudenza convenzionale aveva davvero speso parole di grande chiarezza, che ora semplificano la definizione del principio da parte delle SU. Come già si accennava, brevemente commentando i contenuti della sentenza Mursic v. Croazia, soltanto la compresenza dei tre impegnativi fattori migliorativi di una condizione assai deteriore come quella della restrizione carceraria in uno spazio inferiore ai 3 mq procapite, primo fra tutti la brevità ed occasionalità della stessa, può consentire di superare la forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU.
Quando invece il detenuto abbia avuto a disposizione spazi comunque esigui, tra i 3 ed i 4 mq procapite, prevale una “valutazione multifattoriale della complessiva offerta trattamentale”. Spetterà all’interessato l’allegazione di eventuali carenze nell’accesso alle aree esterne, o nell’areazione o illuminazione della stanza, o nella riservatezza dei servizi igienici, o nelle cattive condizioni sanitarie o igieniche complessive e l’amministrazione potrà invece evidenziare, al contrario, la rilevanza dei fattori positivi eventualmente sussistenti.
Particolarmente significativo è il richiamo delle SU alla necessità che il giudice valuti il complesso di tali elementi, facendo riferimento alle concrete opportunità trattamentali poste a disposizione del condannato e non all’offerta trattamentale che astrattamente un certo istituto penitenziario può offrire e dunque non al fatto che in un carcere fosse previsto l’accesso al lavoro o alla scuola per alcuni detenuti, ma che abbia potuto fruire di questa opportunità, e con quali modalità e in che tempi, il reclamante.
[1] Per approfondite analisi sull’istituto si vedano, tra gli altri, F. Fiorentin a cura di, La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, 2019 e G. Giostra – M. Ruaro, Art. 35-ter commento in F. DElla Casa – G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato.
In ricordo di Gianni Ferrara
di Gaetano Silvestri
Gianni Ferrara apparteneva alla categoria dei giuristi capaci di mantenere saldo il rigore del metodo pur nella consapevolezza – manifestata ampiamente nei suoi scritti – dei profondi legami tra il diritto, l’economia ed i rapporti sociali e politici. Il continuo e vigile controllo sui confini e sui legami tra politica e istituzioni gli ha consentito di svolgere in modo ineccepibile, durante la sua lunga e operosa esistenza, sia il ruolo di costituzionalista scientificamente fedele al dato positivo, sia quello di parlamentare, animato da calda passione civile, anche aspro nelle sue polemiche, ma sempre rispettoso del pluralismo delle idee e delle culture. Non gli è stata difficile questa simbiosi, giacché la sua opzione intellettuale e morale è stata, sin dalla gioventù, lo studio, la difesa e l’attuazione dei princìpi costituzionali. Non a caso la rivista da Lui fondata e diretta per molti anni ha preso il nome di “Costituzionalismo”, che racchiude in sé il proposito della gelosa custodia dei valori di civiltà che stanno alla base di quei princìpi e l’intento di affrontare, senza timidezze, le battaglie necessarie per la loro attuazione.
Non si nascondeva dietro un tremebondo neutralismo. Per questo motivo, specie negli ultimi tempi, esprimeva, nei suoi limpidi interventi, l’amarezza per i ripetuti attacchi alla Carta del 1948 - frutto della Resistenza e dell’ansia di libertà di tanti perseguitati e caduti - non adeguatamente rintuzzati, a Suo parere, dagli stessi costituzionalisti, molti dei quali ritiratisi in vuoti giochini tecnicistici o, peggio, messisi al servizio di “innovatori” miranti a restringere gli spazi di libertà, eguaglianza e pluralismo garantiti dalla Costituzione.
Per Ferrara la lotta per la Costituzione faceva tutt’uno con la difesa del Parlamento, del quale era profondo conoscitore sin dai tempi in cui aveva percorso la carriera di funzionario parlamentare, che gli aveva consentito di analizzare, da vero esperto conoscitore della prassi, i meccanismi di funzionamento delle Camere. Al Parlamento aveva dedicato parte importante della sua produzione scientifica, a partire dall’insuperata monografia sul Presidente di Assemblea parlamentare, del 1965. Non temeva di apparire conservatore dèmodè di fronte alle ricorrenti ondate maggioritarie, presidenzialiste, semipresidenzialiste e simili. In queste tendenze Egli vedeva la veste giuridico-istituzionale di una cultura politica favorevole all’irrigidimento autoritario del sistema costituzionale, celato a stento da velleità efficientistiche e ideologie decisioniste. La disillusione e il pessimismo lo portarono al ritiro dalla politica attiva e alla polemica aperta con molti colleghi (e anche amici), ma non lo ridussero al silenzio, giacché sino all’ultimo fece sentire le sue critiche alle improvvisazioni e ai pasticci dei nuovi mini-costituenti, con i loro ricettari di forme di governo adattati alle aspirazioni contingenti (spesso momentanee!) dei vari leader, di diverse dimensioni, senza idee e senza programmi, che hanno preso il posto dei vecchi partiti, ormai defunti, ma con non minore sete di potere.
Nella sua vastissima produzione scientifica degli ultimi decenni, che non è possibile in questa sede ripercorrere, mi piace citare uno scritto molto significativo del 2004: «Verso la monocrazia. Ovvero, del rovesciamento della Costituzione e della negazione del costituzionalismo». Non rimase solo nell’inesausta lotta contro il disastroso dilettantismo costituzionale talvolta collocato a ridosso della politica politicante, talvolta pateticamente solitario, ma ugualmente animato da volontà distruttiva. Mi basta citare gli accorati avvertimenti di Leopoldo Elia e Temistocle Martines, che dedicarono alla difesa del nostro patrimonio costituzionale gli ultimi anni della loro vita.
Con la scomparsa di Gianni Ferrara perdo un Maestro e un Amico. Ricorderò sempre con nostalgia le serate trascorse insieme a commentare i fatti di attualità e a riflettere sullo stato degli studi di diritto costituzionale. Mi mancherà la Sua sapienza, ma anche la Sua bonaria umanità, che traspariva dai suoi modi burberi, che me lo rendevano ancor più caro.
Il preavviso di diniego e la costruzione della decisione amministrativa (nota a Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2021, n. 130). di Marco Brocca
Sommario: 1. La vicenda. 2. La soluzione del giudice. 3. Spunti di riflessione. La fisionomia del preavviso di diniego e le novità normative. 4. Le potenzialità dell’istituto.
1. La vicenda
Il ricorrente, in qualità di imprenditore agricolo, presentava domanda di concessione di un contributo nell’ambito di un bando regionale dedicato al sostegno delle aziende agricole. A seguito di dichiarazione di inammissibilità della domanda, l’imprenditore agricolo presentava controdeduzioni/osservazioni ai sensi dell’art. 10-bis della legge 241/1990, con le quali esponeva le ragioni ritenute prevalenti per la revisione del giudizio dell’amministrazione nel senso dell’accoglibilità della domanda, allegando correlata documentazione a sostegno delle proprie tesi.
La commissione dava atto, con un apposito verbale di riesame, di aver analizzato le controdeduzioni e l’allegata documentazione e di aver concluso il giudizio di revisione nel senso di confermare la conclusione dell’istruttoria in termini di “domanda non ammissibile”, esito confluito nella graduatoria definitiva, che è stata impugnata dal ricorrente dinanzi al giudice amministrativo.
Le censure sollevate da parte ricorrente sono molteplici, ma il Tar si concentra sulla prima, relativa alla violazione dell’art. 10-bis legge 241/1990, giudicata dirimente e assorbente le ulteriori contestazioni dedotte, con l’effetto di ritenere sussistenti i presupposti per la definizione immediata del ricorso nel merito e di decidere con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a.
2. La soluzione del giudice
Per dirimere la questione il giudice si sofferma sull’asserita violazione dell’art. 10-bis della legge 241/1990, disposizione che, come noto, disciplina l’istituto della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda.
Il ricorso è accolto perché – a detta del giudice – il provvedimento impugnato è sprovvisto di quella parte motivazionale necessaria in presenza di osservazioni presentate ex art. 10-bis. Riscontrano i giudici “la assoluta genericità, carenza di motivazione, illogicità, sommarietà ed indeterminatezza dell’impugnato verbale nel quale sono state usate delle mere formule di stile che configurano una motivazione apparente [...], l’amministrazione resistente nel procedimento di riesame si è limitata a confermare quanto precedentemente valutato, non dando puntuale ragione, nel provvedimento finale, del mancato accoglimento delle osservazioni presentate, in altri termini, omettendo ogni motivazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato, in relazione alle risultanze dell’istruttoria, la propria decisione, con connessa lesione delle finalità e garanzie partecipative. Tale valutazione è mancata anche nella istruttoria preordinata alla emanazione del provvedimento finale e segnatamente nel verbale di riesame […].
Il Tar, nell’accogliere il ricorso, si sofferma sulla portata della norma e sulle finalità e garanzie dell’istituto del cd. preavviso di diniego. Esso è collocato anzitutto nelle sue coordinate essenziali: si tratta di un supplemento procedimentale la cui attivazione è indefettibile e infungibile per l’amministrazione procedente (almeno nei procedimenti ad istanza di parte e secondo l’ambito delimitato dalla norma) e, al contempo, costituisce una “opportunità” per il privato, il quale può anche non avvalersene e quindi attendere il provvedimento finale. Alla facoltà del privato corrisponde un obbligo per l’amministrazione, quello di prendere in considerazione il materiale ricevuto e di darne conto nella motivazione del provvedimento finale. Con l’ulteriore avvertenza che il preavviso di diniego, quale che sia la reazione del privato, cristallizza l’apparato delle ragioni ritenute dall’amministrazione ostative all’accoglimento dell’istanza, nel senso che il provvedimento finale dovrà reggersi soltanto sulle ragioni già esternate in sede di comunicazione ex art. 10-bis, in una una sorta auto-vincolo e di limitazione dello jus variandi. In altre parole, si tratta di un momento di interlocuzione tra p.a. e cittadino ulteriore e successivo a quello della fase istruttoria connotata dalle forme tipiche della partecipazione; non soltanto una seconda chance per il privato di addivenire all’accoglimento dell’istanza, ma un momento di confronto, più pregnante e potenzialmente più utile perché si colloca in uno stadio più avanzato del processo di ‘costruzione’ della decisione amministrativa, quando la determinazione amministrativa è ormai ‘matura’ e quindi le parti possono interagire non più ai fini della raccolta del materiale istruttorio, ma ormai rispetto al contenuto dispositivo della decisione amministrativa da adottare. Un istituto che implica un’utilità reciproca per le parti in causa: per il privato, che, come detto, può saggiare in sede procedimentale un ultimo tentativo per convincere l’amministrazione all’accoglimento della propria istanza (ovvero, da altra angolatura, il privato può comprendere e assimilare le ragioni della non accoglibilità della propria domanda con la conseguenza di desistere da reazioni impugnatorie e questo genera un evidente effetto deflattivo del contenzioso); per l’amministrazione che può svolgere al meglio la propria ‘missione’ di adozione di decisioni le più ponderate e meditate possibili, anche sul piano della condivisibilità del destinatario.
Lo sforzo di comprensione e consapevolezza della portata dell’istituto emerge nella sentenza e accompagna come un fil rouge ogni passaggio e presa di posizione del giudice, non soltanto per affrontare e risolvere il caso di specie, ma anche per esaminare i tanti dubbi interpretativi che la norma di riferimento ha suscitato nella pratica e ha indotto la giurisprudenza a formulare orientamenti non sempre univoci. In questa direzione si pongono le seguenti affermazioni del Tar:
1) la confutazione delle osservazioni presentate dal privato in risposta alla comunicazione dei motivi ostativi addotti dall’amministrazione ex art. 10-bis legge 241/1990 deve risultare nella motivazione del provvedimento finale, nel senso che nella parte motivazionale che correda l’atto una ‘quota’ deve essere specificamente dedicata all’esternazione delle ragioni per cui non sono condivisibili le osservazioni presentate dal privato; peraltro, questa motivazione non deve essere puntuale e analitica, essendo sufficiente una motivazione che complessivamente e logicamente chiarisca le ragioni del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato[1];
2) la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza determina una limitazione dello jus variandi, nel senso che l’amministrazione non potrà, in sede di emanazione del provvedimento finale, addurre nuove ragioni rispetto a quelle già prospettate con il preavviso di diniego[2];
3) non può invocarsi la cd. sanatoria processuale di cui all’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo, legge 241/1990 e ciò vale sia per l’ipotesi, più lampante, di omesso avviso dei motivi ostativi sia per il caso di omessa considerazione, in sede di emanazione del provvedimento finale, delle controdeduzioni presentate dal privato. Questa impossibilità si spiega in ragione della diversità ontologica tra la garanzia preliminare di cui all’art. 7 legge 241/1990 e quella sostanziale ex art. 10-bis[3]. La comunicazione ex art. 7 e quella ex art. 10-bis condividono la dimensione garantistica e partecipativa, peraltro la garanzia dell’art. 10-bis – evidenziano i giudici – «svolge un ruolo diverso, e consente alla parte di intervenire a sostenere le proprie ragioni, nella fase predecisoria, contestando l’apparato motivazionale predisposto dall’amministrazione all’esito del procedimento. La partecipazione alla fase decisoria e predecisoria assume una valenza rispetto al formarsi della decisione amministrativa che ha valore ulteriore e diversa da quella che assume la partecipazione alla fase istruttoria, sicchè la mancata previsione del vizio di violazione dell’art. 10-bis tra quelli suscettibili di sanatoria ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo non può essere ascritta ad una lacuna, ma ad una scelta legislativa, non emendabile dall’interprete». Si tratta, infatti, di fase procedimentale avanzata, in cui «le osservazioni del privato potrebbero condurre ad un esito provvedimentale diverso da quello preannunciato, e la loro attenta valutazione trasfusa nella motivazione costituisce estrinsecazione di garanzia sostanziale, sì che non può dedursi un superamento in sede giudiziale di quanto non espresso in sede amministrativa»; ecco perché «le osservazioni del privato introdotte nella sede procedimentale esigono una specifica controdeduzione, proprio nella appropriata sede amministrativa (che potrebbe essere anche l’unica, senz’altro per i motivi di merito)», nella consapevolezza che «il procedimento amministrativo è la naturale sede in cui il contrasto tra PA e cittadino deve emergere ed essere affrontato, mentre il ricorso al giudice amministrativo rappresenta il rimedio esperibile quando gli strumenti del procedimento non hanno consentito di comporre il dissidio e permesso al privato di conseguire il bene della vita cui aspira. Pertanto, trasportare in sede giurisdizionale quanto doveva essere oggetto di adeguata e piena verifica amministrativa non risponde al principio del giusto procedimento, come definito anche in sede sovranazionale. Vien in rilievo al riguardo l’articolo 6 della CEDU […] che pone le garanzie del giusto processo e ancor prima del giusto procedimento».
3. Spunti di riflessione. La fisionomia del preavviso di diniego e le novità normative
A quindici anni dalla sua introduzione[4], il preavviso di diniego sembra ancora alla ricerca della propria identità, fermo su un crinale incerto quanto ad applicazione e, ancora prima, concezione. Alla consapevolezza dell’effetto utile dell’istituto, per la capacità di contribuire in modo essenziale alla costruzione della decisione amministrativa in virtù del contraddittorio tra p.a. e cittadino innescato in una fase molto avanzata del procedimento, si contrappone l’idea che si tratta di uno strumento poco incisivo rispetto al processo unilaterale di determinazione della volontà dell’amministrazione, che si traduce per questo in un (ulteriore) adempimento formale e, dal punto di vista del privato, in un’arma processuale in caso di violazione della relativa disciplina. I piani sono separati, ma collegati, perché è di tutta evidenza che una piena e convinta applicazione dell’istituto e dei sottesi canoni della correttezza e collaborazione tra le parti possa neutralizzare la sua alterazione in adempimento inutile e sterile, anzi disfunzionale nell’economia del procedimento e comodo appiglio processuale per il privato. Si aggiunga che la dimensione garantistica dell’istituto rileva su un duplice piano, quello del privato, in termini di rafforzamento del confronto dialettico con l’autorità procedente, e quello dell’amministrazione che può giovarsi del contraddittorio predecisorio ai fini dell’adozione della più corretta decisione amministrativa.
Di questa prospettiva vi è contezza nella decisione in commento, in cui si evidenzia il binomio degli obiettivi di «effettività della partecipazione del privato» e di «emanazione di un provvedimento il più possibile completo», ovvero, in altre parole, di «trasparenza» e di «dialogo» tra amministrazione e amministrato.
I giudici trovano conferma della visione ‘rafforzata’ dell’istituto nel dato normativo più recente, pur nella consapevolezza dell’inapplicabilità ratione temporis al caso di specie.
Il riferimento è al cd. decreto semplificazioni (decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 conv. in legge 11 settembre 2020, n. 120), il cui art. 12 ha modificato l’art. 10-bis legge 241/1990. I profili emendati che appaiono qui di interesse sono tre: 1) la portata della motivazione del provvedimento finale rispetto alle osservazioni presentate dal privato; 2) i margini di valutazione dell’amministrazione in caso di riedizione del potere a seguito di annullamento giudiziale; 3) i limiti di applicazione della sanatoria processuale ex art. 21-octies legge 241/1990. La direzione seguita dal legislatore è, come si vedrà, evidente: quella di potenziare l’istituto nella sua portata condizionante la successiva attività decisionale. Come si vedrà, emerge una fisionomia dell’istituto rafforzata in termini di vincolo conformativo e preclusivo non soltanto rispetto al provvedimento finale, ma addirittura in caso di riedizione del potere conseguente ad annullamento giurisdizionale; il rilievo della specificità dell’istituto comporta il corollario dell’impossibilità di parificazione con altri istituti, come la comunicazione di avvio del procedimento, e dunque la non riconducibilità della violazione dell’art. 10-bis tra i vizi non invalidanti il provvedimento amministrativo (discrezionale).
La norma riformata dispone che, in presenza di osservazioni presentate dal privato ex art. 10-bis, il responsabile del procedimento o l’autorità competente «sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego», statuizione che evidentemente ribadisce e rafforza la doverosità della valutazione da parte della p.a. dell’apporto dei privati e del riscontro nella motivazione del provvedimento, con l’avvertenza, aggiunta dalla riforma, che in sede motivazionale l’autorità può intervenire «indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni». Dunque, la norma interviene sull’obbligo di motivazione provvedimentale nella direzione di perimetrarne il contenuto[5]: con la motivazione l’amministrazione, da un lato, deve prendere puntuale posizione rispetto alle osservazioni avanzate dai privati, dall’altro non può discostarsi dai motivi ostativi esternati con la comunicazione ex art. 10-bis, potendo soltanto aggiungere ragioni ostative che valgono come risposta alle osservazioni del privato. In altre parole, la comunicazione dei motivi ostativi determina una cristallizzazione del materiale su cui si fonderà la decisione, con l’effetto di un rafforzamento della fase istruttoria e di quella predecisoria e la rappresentazione che emerge del preavviso di diniego è di un adempimento che “va preso sul serio”, perché segna “un punto di non ritorno” nella costruzione della decisione amministrativa. Il nuovo dato normativo sembra disattendere l’orientamento della giurisprudenza più lassista e sostanziale, che legittima la p.a. a svolgere, in sede di adozione del provvedimento e di suo compendio motivazionale, una valutazione complessiva delle osservazioni del privato e a precisare ulteriormente le proprie posizioni giuridiche, con il limite della riconducibilità di queste ulteriori argomentazioni nello «schema» delineato dalla comunicazione ex art. 10-bis»[6].
Non solo. Nel nuovo dettato normativo emerge che l’effetto preclusivo del preavviso di diniego si prolunga e si riverbera anche sull’attività amministrativa ulteriore ad una pronuncia giurisdizionale di annullamento. La disposizione recita che «in caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato».
In altre parole, la fisionomia rafforzata del preavviso di diniego come linea di confine infraprocedimentale che plasticamente chiude l’attività istruttoria e si riversa sul corredo motivazionale del provvedimento amministrativo, si applica anche in caso di riesercizio del potere doveroso a seguito di annullamento del giudice. In questo caso alla portata conformativa tipica della sentenza di annullamento (variabile, come noto, in base alla tipologia delle censure accolte) si aggiunge una sorta di effetto preclusivo ex lege, che impedisce all’amministrazione di porre a fondamento della decisione, in sede di rinnovazione del potere innescato dalla sentenza caducatoria, motivi già emergenti dall’istruttoria e non esternati in sede provvedimentale.
La valorizzazione legislativa dell’istituto, dunque, investe sia l’ambito procedimentale sia quello post-processuale, con l’aggiunta che quest’ultimo si salda anche con l’ambito processuale, rispetto al quale l’istituto è ulteriormente rinforzato. Il riferimento è al riformato art. 21-octies, che esclude espressamente l’applicabilità della sanatoria processuale di cui al secondo comma, secondo periodo (quella riferita all’omessa comunicazione di avvio del procedimento), al provvedimento illegittimo per violazione dell’art. 10-bis. La norma disattende categoricamente quell’orientamento giurisprudenziale che opera un parallelismo tra gli istituti di cui all’art. 7 e art. 10-bis in nome di una presunta identità funzionale ed estende la sanatoria processuale relativa alla mancanza di comunicazione di avvio del procedimento all’ipotesi del preavviso di diniego. All’esito della riforma la violazione dell’art. 10-bis costituisce sempre un vizio di legittimità dell’atto amministrativo discrezionale, potendo rilevare come vizio non caducante solo in relazione ad attività vincolata (ipotesi di cui al secondo comma, primo periodo dell’art. 21-octies), in evidente differenziazione rispetto al vizio relativo all’avviso di avvio del procedimento per il quale si applicano entrambe le ipotesi di sanatoria dell’art. 21-octies.
La saldatura tra ambito processuale e ambito post-processuale si spiega perché, in assenza della previsione che delimita i motivi ostativi in caso di riedizione del potere e in presenza della disposizione che rende impossibile la sanatoria processuale per l’attività amministrativa di tipo discrezionale inficiata dalla violazione dell’art. 10-bis, si potrebbe verificare quello scenario paventato e stigmatizzato dalla giurisprudenza di una «defatigante alternanza tra procedimento e processo»[7]: ossia di una riespansione piena del potere di valutazione (discrezionale) dell’amministrazione che potrebbe fondare la determinazione di diniego su elementi già noti ma non esternati, con l’effetto di prestarsi a ulteriore contenzioso.
La previsione che inibisce all’amministrazione di invocare, in sede di riedizione del potere, motivi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato non arriva ad azzerare l’ambito valutativo dell’amministrazione ovvero a predefinirne l’esito (non potrebbe farlo), ma certamente circoscrive lo spettro entro il quale l’amministrazione dovrà rivalutare la vicenda. In altre parole, l’efficacia oggettiva del giudicato amministrativo non esclude in assoluto la possibilità di riedizione del potere sfavorevole per il privato, ma comporta una perimetrazione dell’ambito motivazionale dell’amministrazione. L’effetto della norma è di contribuire a quella «riduzione progressiva della discrezionalità amministrativa»[8] a seguito di passaggio processuale, che la giurisprudenza più recente postula in un’accezione forte come risvolto del carattere conformativo della sentenza e suffraga sulla base di una interpretazione articolata ed evolutiva del codice del processo amministrativo, da cui ricava un modello di giurisdizione piena ed effettiva, in cui la garanzia della legalità dell’azione amministrativa si salda con la tutela sostanziale delle pretese del privato. Il riferimento non è solo ai principi di giustiziabilità delle pretese e di effettività della tutela, che hanno copertura costituzionale (artt. 24, 103 e 113 Cost.) e sovranazionale (artt. 6 e 13 CEDU), cui si uniforma il codice (art. 1), bensì ai nuovi strumenti di cognizione “ad esecuzione integrata” (art. 34 c.p.a.) ovvero al contenuto della domanda, che richiama l’aspettativa del privato di conseguire il bene della vita (art. 31, comma 3, art. 34, comma 5, art. 40 c.p.a.). Questa giurisprudenza si ricollega con quella che, ispirandosi ai medesimi principi e muovendo dalla consapevole accettazione della permanenza di spazi non coperti dalla sentenza, ritiene doveroso che l’amministrazione, in sede di riesame della vicenda controversa, sia particolarmente rigorosa nella verifica di tutti i profili rilevanti, dunque non soltanto di quelli investiti dalla sentenza, dovendo esaminare l’affare nella sua interezza e sollevando tutte le questioni che ritenga di interesse una volta per tutte e senza la possibilità di tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati (principio del cd. one shot temperato)[9].
Mutuando da autorevole dottrina, il preavviso di diniego pare configurato dalla novella legislativa come un «onere di preclusione procedimentale»[10], in una duplice accezione: nel procedimento amministrativo originato da un’istanza privata, quale spartiacque tra la fase istruttoria e quella decisoria, il preavviso di diniego cristallizza i motivi (ostativi) tra i quali l’autorità decidente può attingere per fondare il provvedimento di diniego, essendole precluse ulteriori ragioni; nel procedimento amministrativo doveroso conseguente a sentenza caducatoria, il preavviso di diniego diviene il primo atto (endoprocedimentale) refrattario al recepimento di motivi già emergenti nella precedente istruttoria e non esternati nel provvedimento annullato.
La novella legislativa, pure evidentemente proiettata nella direzione di consolidare l’istituto, presenta delle zone d’ombra in quanto lascia insolute alcune questioni del precedente regime ovvero suscita nuovi punti problematici.
La regola della simmetria dei motivi ostativi condensati nel preavviso con quelli esternati nel provvedimento, con la sola eventualità di addurre motivi ulteriori purchè in funzione di replica delle osservazioni vale, appunto, «qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni» e questo si spiega in nome del rafforzamento dell’effettività della partecipazione che il legislatore ha voluto perseguire. Ma in assenza di osservazioni, quale intensità deve avere la corrispondenza tra il preavviso di diniego e il provvedimento? L’idea di una possibile riespansione della motivazione in sede provvedimentale può fondarsi sul dato letterale della norma che correla appunto il parallelismo motivazionale al caso di presentazione delle osservazioni e può spiegarsi come corollario della mancata partecipazione del privato; purtuttavia, l’ipotesi di mancata presentazione delle osservazioni può anche significare accettazione delle ragioni ostative e acquiescenza del privato, con l’effetto che il destinatario del provvedimento non può ritrovare nel provvedimento finale motivi ulteriori a quelli già rinvenuti nel preavviso. L’esito del ragionamento è ribaltato rispetto alla prima tesi, perché l’eventuale allargamento del corredo motivazionale può aversi soltanto in presenza di osservazioni avanzate dal privato e si giustifica nell’esclusiva accezione di «conseguenza delle osservazioni», come recita la norma.
Ulteriore questione riguarda l’ambito applicativo del limite allo jus variandi in sede di riesercizio del potere ovvero se questa preclusione scatti in presenza di annullamento giurisdizionale per accertata violazione della disciplina dell’art. 10-bis oppure si estenda ad ogni provvedimento preceduto da preavviso di diniego e annullato per qualsivoglia vizio di legittimità. La lettera della norma non pare risolutiva («In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato»), sebbene una lettura più coerente e stretta all’oggetto della disposizione induca alla prima opzione; peraltro l’interpretazione estensiva asseconda il rafforzamento dell’istituto sotteso alla ratio della riforma e determinerebbe un’innovazione di notevole impatto, per la sua portata generale, come è stato evidenziato dalla prima dottrina che ha esaminato la questione[11].
Anche a voler aderire all’accezione estensiva, si ritiene che la portata innovativa della norma sia da calibrare, comunque, con peculiari situazioni: si pensi al caso di annullamento del provvedimento per motivi attinenti alla fase istruttoria (difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, ecc.) che comporta la rinnovazione di questa fase, con il quesito conseguente dell’applicabilità o meno del limite dei motivi ostativi già noti secondo l’art. 10-bis: alla tesi che ritiene inapplicabile l’art. 10-bisperché la rinnovata istruttoria supera e azzera quella precedente colpita dal decisum giudiziale, può contrapporsi altra tesi che ritiene persistente il limite di cui all’art. 10-bis con la precisazione che in sede di riesercizio del potere l’amministrazione dovrà discernere nello spettro dei motivi risultanti dalla nuova istruttoria da portare a sostegno del provvedimento quelli già emersi dall’istruttoria precedente sebbene inficiata, come tali inutilizzabili, e quelli frutto della nuova istruttoria, invece rilevanti. Altra vicenda riguarda l’emersione di elementi nuovi, sopravvenuti o rilevati successivamente per causa non imputabile all’amministrazione. In quanto non «già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato» essi sono da ritenere esclusi dall’ambito applicativo dell’art. 10-bis, con l’effetto della loro piena rilevanza in sede di riadozione del provvedimento, ma con l’avvertenza – valida anche per la vicenda dell’istruttoria da rinnovare a seguito di sentenza caducatoria – che i nuovi motivi necessitino di un apposito preavviso di diniego.
Il nuovo tenore dell’art. 21-octies ha escluso, come visto, l’applicabilità della sanatoria processuale riferita dalla norma all’omessa comunicazione di avvio del procedimento, alle ipotesi di violazione dell’art. 10-bis, sconfessando quell’orientamento giurisprudenziale che invece l’ammetteva sul presupposto di un’identità funzionale tra i due istituti di partecipazione. È da comprendere se e come questo divieto si riverberi su quell’orientamento giurisprudenziale che, in base a una lettura sostanzialistica della partecipazione e in virtù del principio di raggiungimento dello scopo, parifica la comunicazione di avvio del procedimento e il preavviso di diniego, negando ai casi di violazione degli artt. 7 e 10-bis la capacità invalidante del provvedimento ogniqualvolta l’interessato abbia aliunde ottenuto equipollenti forme di comunicazione e/o sia stato comunque messo nella condizione di interloquire con l’amministrazione[12].
4. Le potenzialità dell’istituto
Una lettura sistematica delle modifiche alla legge 241/1990 ad opera del decreto semplificazioni offre un ulteriore elemento di riflessione. Il riferimento è all’art. 12, comma 1, lett. a) del decreto-legge n. 76/2020 conv. in legge 120/2020, che ha aggiunto all’art. 1 della legge 241/1990 il comma 2-bis, secondo cui «I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede». In questo modo i principi di collaborazione e buona fede, configurati dalla giurisprudenza quali corollari del principio di buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost. e applicati per specifiche questioni relative anzitutto all’attività negoziale della p.a., quindi estesi all’attività procedimentalizzata, e codificati dal legislatore dapprima per specifici settori (si pensi alla disciplina dei rapporti tra amministrazione finanziaria e cittadini-contribuenti, in cui i suddetti principi sono espressamente enunciati nello statuto dei diritti del contribuente), sono stati assurti al rango di «principi generali dell’attività amministrativa».
Questi principi forniscono una determinante chiave di lettura degli istituti di partecipazione, di cui esaltano l’aspetto dialogico e l’aspirazione a un approccio di tipo costruttivo e non conflittuale tra le parti del procedimento. Questo è particolarmente evidente in relazione al preavviso di diniego, perché, come visto, con esso l’interesse del privato alla partecipazione nel processo decisionale, tradotta nella fase istruttoria in un momento episodico e solitario di presentazione di memorie e documenti che l’amministrazione dovrà valutare, anch’essa in forma separata nel momento terminale del procedimento, si concretizza in uno spazio di dialogo più concreto e avanzato. Il confronto tra le parti non riguarderà genericamente l’istanza del privato (o il progetto dell’amministrazione nei procedimenti officiosi), ma si innescherà allorquando l’amministrazione ha maturato il proprio convincimento sulla vicenda ed è pronta a esternarlo. L’aspirazione del privato alla prevedibilità degli esiti dell’azione e al suo apporto costruttivo trovano compimento perché il contraddittorio potrà vertere sulla decisione dell’amministrazione, prefigurata ma non formalizzata e suscettibile ancora di adattamenti e precisazioni. Con il preavviso di diniego la relazione si fa più stringente e dialogica, perché le parti possono confrontarsi reciprocamente sul progetto della decisione in un momento avanzato del procedimento, nel quale i soggetti hanno consapevolezza e convinzione del problema e l’una, l’amministrazione, anticipa la decisione e l’altro, il cittadino, avanza osservazioni/contestazioni. Una comunicazione che si fa bidirezionale e paritaria[13] e, seppure non compromette l’autoritatività e l’unilateralità del potere decisorio dell’amministrazione, realizza sostanzialmente un «contraddittorio sulla decisione»[14].
I principi di collaborazione e buona fede ora codificati esortano, pertanto, le amministrazioni a maggior rigore e scrupolo nell’applicazione dell’art. 10-bis e, ancor prima, a una maggiore consapevolezza del significato dell’istituto, quello di un essere un modus procedendi che assolve la sua funzione solo se consente un effettivo ed utile confronto dialettico con l’interessato prima della formalizzazione dell’atto amministrativo. Lo sforzo è riposto principalmente sul versante dell’autorità, la quale è chiamata a un atteggiamento di apertura piena ai possibili esiti del procedimento, senza preclusioni dettate dal convincimento già maturato e quindi con un’attenzione massima agli apporti del privato. In caso contrario, l’istituto vedrebbe frustrate le proprie finalità e si tradurrebbe in uno sterile adempimento formale e un inutile aggravio procedimentale, un’ulteriore «foglia di fico»[15] alla realtà dei processi decisionali, più eloquente rispetto alle altre perché interverrebbe in un momento alquanto avanzato del procedimento per “ammantare” decisioni già prese.
Il preavviso di diniego, come noto, apre diversi scenari. L’istante può ribadire la propria posizione, secondo una duplice direzione: omettendo la presentazione di qualsivoglia osservazione, per cui il preavviso di diniego vale come mera anticipazione del provvedimento negativo con l’effetto che il privato ha il vantaggio di conoscere in anticipo la decisione dell’amministrazione per preparare, per tempo, le conseguenti mosse, anzitutto la contestazione processuale; oppure può apportare elementi di valutazione aggiuntivi, anche con l’allegazione di ulteriori documenti, su cui l’amministrazione ha il dovere di pronunciarsi. In quest’ultima accezione l’istituto funge da autentico strumento di contraddittorio “in contestazione” e disvela il senso più intenso della partecipazione, perché il cittadino si inserisce nel processo decisionale non soltanto apportando elementi utili sul piano istruttorio, ma potendo prendere posizione sulla progettata decisione finale, con l’intento di mutarne la direzione, e sulla presupposta condizione che l’amministrazione interlocutrice sia disposta a rivedere la propria opinione e non sia affatto prevenuta e arroccata sulle proprie posizioni. Peraltro, l’utilità del contraddittorio predecisorio si riverbera anche sulla “qualità” del provvedimento finale, perché quest’ultimo sarà frutto di una valutazione dell’amministrazione più completa e meditata.
Il privato può anche convincersi delle ragioni dell’amministrazione e, dunque, persuadersi dell’inaccoglibilità della propria istanza, e questo convincimento può risultare per silentium dalla mancata presentazione di osservazioni ex art. 10-bis, ma, in ipotesi, può anche essere formalizzato mediante presentazione di osservazione con contenuto di presa d’atto e accettazione dei motivi esternati dall’amministrazione, oppure può risultare implicitamente dal ritiro dell’istanza. In questo caso il preavviso di diniego funge da strumento di conoscenza e di fattore di persuasione o, meglio, di promozione dell’accettazione[16] e condivisione della scelta amministrativa, con non indifferenti riflessi deflattivi del contenzioso.
Ma è possibile uno scenario “intermedio”. Attraverso le osservazioni conseguenti al preavviso di diniego, il privato può avanzare proposte modificative dell’istanza, affinchè questa si renda accoglibile e l’opzione può essere promossa direttamente dal privato, in assenza di indicazioni dell’amministrazione, ovvero in risposta alle soluzioni modificative o alternative proposte dall’amministrazione a corredo dei motivi ostativi dell’istanza.
Il profilo è delicato, perché la disposizione dedicata al preavviso di diniego non offre appigli in questo senso e neanche le modifiche apportate dalla riforma del 2020 all’art. 10-bis toccano questo aspetto, sebbene argomentazioni significative possono ricavarsi proprio dai codificati principi all’art. 1, comma 2-bis legge 241/1990.
Questo approccio presuppone una logica più complessa rispetto a quella netta del “sì o no”, del “tutto o niente”, dell’approvazione o del rigetto tout court, e implica flessibilità e non intransigenza delle posizioni personali, disponibilità a rivedere il progetto iniziale, accettabilità di modifiche o ridimensionamenti delle istanze iniziali. Dal versante dell’amministrazione è richiesto uno spirito di collaborazione procedimentale[17], e dunque uno sforzo nel senso dell’ascolto attento e dell’esame approfondito delle ragioni del privato, ma anche la ricerca di soluzioni funzionali alla conclusione positiva del procedimento, nell’ottica di accogliere le ragioni del privato senza abdicare alla ragione suprema di cura dell’interesse pubblico.
Seguendo questa strada, il contraddittorio si presterebbe a una funzione peculiare, ulteriore alle accezioni tipiche di integrazione istruttoria e di contestazione predecisoria, che potrebbe dirsi di natura conciliativa o pre-contenziosa in senso lato[18], e sarebbe tale da sviluppare al massimo grado il significato del contraddittorio nella direzione della costruzione, dialogica e risolutiva, della decisione amministrativa[19].
Un’eco di questa impostazione è rinvenibile in parte della giurisprudenza, la quale, valorizzando la ratio di rafforzamento del confronto procedimentale sottesa al preavviso di diniego, ricava una declinazione di significati che vanno dall’esposizione esaustiva dei rispettivi punti di vista all’apporto di chiarimenti ed esplicazioni sino allo sforzo di «raggiungere e concordare soluzioni alternative che avrebbero potuto condurre il procedimento ad un esito finale diverso»[20]. In altre parole, questo orientamento vede nel contraddittorio innescato dal preavviso di diniego la sede utile per le parti non soltanto per esporre i rispettivi punti di vista e per chiarire le rispettive ragioni, ma anche per avanzare e discutere opzioni modificative o alternative alla pretesa iniziale, sulla base della convinzione che questo momento di confronto, per il valore aggiunto che ricava dalla collocazione nel procedimento, sia infungibile rispetto alla fase istruttoria né sia riproducibile nella sede giudiziale.
Questa opzione apre non poche questioni procedurali relative, ad esempio, al ruolo e all’ordine di intervento delle parti, ossia se attenga al privato avanzare, in prima battuta, le modifiche migliorative dell’istanza ovvero le soluzioni alternative oppure se l’amministrazione debba, contestualmente alla formulazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, identificare proposte modificative ovvero, ancora prima, verificarne la possibilità. È ragionevole ritenere che la prima opzione sia più aderente al dato normativo, perché esso identifica nei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza il contenuto della comunicazione, mentre nulla dice in merito all’ambito delle osservazioni proponibili dal privato, fissando solo il vincolo per l’amministrazione di presa in esame di esse e di esternazione delle ragioni del mancato accoglimento. Addossare all’amministrazione l’onere di individuare e proporre le soluzioni modificative dell’istanza ovvero quelle alternative significherebbe appesantire il ruolo dell’amministrazione con un evidente sbilanciamento tra le parti e il rischio di mortificare principi di buona amministrazione, come quelli di economia e non aggravio procedimentale. Pertanto, spetta al privato proporre soluzioni modificative per rendere accoglibile la domanda, come spetta al privato l’onere di confutare il prefigurato diniego dell’amministrazione, portando a sostegno della domanda ulteriori argomentazioni. Alla stessa stregua l’amministrazione deve esprimersi sulle proposte modificative avanzate dal privato alla stessa stregua della presa in esame delle ragioni addotte dallo stesso sin dalla presentazione della domanda. In entrambi i casi, vige il limite, mutuabile dall’art. 10, della pertinenza all’oggetto del procedimento, con i relativi corollari[21], ma nel caso delle proposte modificative/alternative questo limite assume ulteriore pregnanza. La modifica della domanda non può essere di consistenza tale da snaturare l’impianto originario dell’istanza, perché questo implicherebbe l’elusione delle garanzie che accompagnano il procedimento sin dal suo inizio e che coinvolgono anche altri soggetti (si pensi ai destinatari della comunicazione di avvio del procedimento, diversi dalle destinatario del procedimento, ovvero gli altri soggetti che possono esercitare i diritti di partecipazione), i quali sono esclusi dal contraddittorio ex art. 10-bis, ovvero imporrebbe un supplemento procedimentale incompatibile con gli ordinari tempi di conclusione del procedimento[22]. In siffatti casi, pertanto, si tratterebbe sostanzialmente di una nuova domanda, che dovrebbe innescare un nuovo procedimento[23].
Dalla prospettiva dell’amministrazione, è da ammettere comunque (come possibile e non doverosa) lo sforzo di individuare e porre all’attenzione del privato, attraverso la comunicazione ex art. 10-bis, modifiche e/o soluzioni alternative[24], nell’ottica della massima collaborazione tra le parti, combinata con il rispetto di altrettanti, fondamentali principi procedimentali.
L’impostazione che qui si discute, peraltro, non è nuova nel panorama normativo e lo schema del contraddittorio in chiave “costruttiva”, che importa la proposizione di soluzioni modificative al progetto iniziale per favorire la conclusione positiva del procedimento, è rinvenibile nella legge 241/1990 e soprattutto nella legislazione settoriale. In quest’ottica può leggersi l’evoluzione della disciplina della conferenza di servizi, protesa alla ricerca di correttivi (come il cd. dissenso costruttivo e gli effetti del dissenso qualificato) per garantire la funzionalità della conferenza e favorirne la positiva conclusione[25]. Il meccanismo caratterizza anche il nuovo art. 17-bis, relativo, come noto, ai rapporti tra pubbliche amministrazioni in tutti i casi in cui il procedimento è destinato a concludersi con una decisione pluristrutturata, con evidente applicazione del canone della leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni[26].
Lo schema del contraddittorio “costruttivo” è presente, più convintamente, nella legislazione settoriale. Ne sono esempi il procedimento di rilascio del permesso di costruire (art. 20, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) e quello per l’autorizzazione all’insediamento di attività produttive di cui all’art. 25 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, incardinato presso lo sportello unico di cui all’art. 6 d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 (cd. procedimento unico)[27].
Nel primo caso l’organo competente, qualora ritenga che il titolo abilitativo non possa essere rilasciato, valuta l’eventualità che la domanda non accoglibile sia emendabile e, di conseguenza, esterna al richiedente le proposte modificative con le relative motivazioni. Il privato è chiamato a pronunciarsi sulle modifiche e, in caso di adesione, è tenuto a modificare il progetto e integrare la relativa documentazione (art. 20, comma 4, d.P.R. 380/2001). La norma, peraltro, pone delle condizioni all’attivazione e alla buona riuscita del contraddittorio: le modifiche devono essere «di modesta entità» al progetto originario e l’adeguamento deve avvenire entro un arco temporale prefissato (dal responsabile del procedimento per l’adesione e di quindici giorni per l’integrazione della documentazione). Soprattutto, la portata della norma è ridimensionata o, meglio, è condizionata dall’atteggiamento dell’amministrazione, dalla sua predisposizione verso il contraddittorio, in pratica dalla “buona volontà” del responsabile del procedimento, che ha la facoltà e non l’obbligo di valutare la modificabilità del progetto. L’iniziativa resta confinata al versante dell’amministrazione ed è del tutto eventuale. Una valorizzazione del principio di leale collaborazione induce a ritenere che il responsabile del procedimento prima di esternare le ragioni ostative all’accoglimento della domanda attraverso il provvedimento finale e, ancora prima, attraverso il preavviso di diniego, debba valutare la fattibilità di soluzioni modificative che rendano assentibile il progetto. Si tratta di operazione non particolarmente onerosa, perché andrebbe circoscritta alle modifiche di lieve entità. In altre parole, l’autorità non potrebbe rigettare la domanda per riscontrate difformità, che risultano modeste e facilmente superabili[28], e simmetricamente può porre a fondamento del diniego solo difformità insuperabili ovvero rimuovibili ma solo a condizione di modificare sostanzialmente il progetto[29].
La disciplina relativa all’insediamento di attività produttive è, come noto, improntata a un largo favor per l’iniziativa economica privata, che si traduce seguendo le tecniche della concentrazione e della semplificazione di tipo organizzativo (sportello unico, uso della telematica, ecc.) e funzionale (autocertificazione per la conformità alla normativa di settore, silenzio assenso, ecc.); in questo contesto si colloca anche la previsione di un contraddittorio stretto tra cittadino e amministrazione, evidentemente finalizzato al raggiungimento del risultato dell’intrapresa economica, ma anche strutturato in modo da garantire un assetto degli interessi approfondito e condiviso[30].
È prevista, infatti, l’audizione in contraddittorio quale momento di confronto tra l’amministrazione e il richiedente, attivabile quando emergono degli elementi problematici ritenuti dal legislatore superabili, come quelli attinenti alle caratteristiche tecniche dell’impianto ovvero alla localizzazione (art. 6, comma 4, d.P.R. 447/1998). L’indizione dell’audizione resta eventuale, peraltro la sua conclusione implica uno spettro ampio di soluzioni, compresa quella delle modifiche concordate al progetto originario, e il risultato può essere particolarmente avanzato, perché può tradursi nella definizione di un vero e proprio accordo amministrativo ai sensi dell’art. 11 legge 241/1990.
L’opzione dialogica trova ampia attuazione, perché è collocata in una fase avanzata del procedimento, successiva a quella dell’acquisizione del materiale istruttorio, e perché è congegnata in modo da potersi sviluppare secondo molteplici formule, compresa quella più semplice, di tipo orale, svincolata dalla forma cartacea. Non solo. Lo schema del contraddittorio non è ridotto a un’interazione di tipo bidirezionale tra richiedente e amministrazione, ma aspira ad allargarsi per ricomprendere tutti quei soggetti che possono subire un pregiudizio dalla realizzazione dell’impianto produttivo. Costoro («i soggetti, portatori di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dalla realizzazione del progetto dell'impianto produttivo», comma 13) possono intervenire nel procedimento non soltanto con la rituale presentazione di memorie e osservazioni, ma anche chiedendo di essere ascoltati in contraddittorio ovvero nell’ambito di apposita conferenza di servizi (art. 4, comma 4). In questo modo, l’interesse alla positiva conclusione del procedimento, che pare ispirare l’intera disciplina, non emerge in termini assoluti, perché deve confrontarsi con l’esigenza della pienezza del contraddittorio.
Nell’ordinamento vi sono casi in cui il meccanismo del contraddittorio di tipo “costruttivo” è collegato specificamente all’art. 10-bis legge 241/1990. L’intento di avvicinare ulteriormente le parti, attraverso un rapporto dialettico che favorisca la soluzione positiva del procedimento senza rinunciare alla massimizzazione della cura dell’interesse pubblico, ispira la disciplina del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica semplificata (art. 146, comma 9, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42; d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31).
Qui la semplificazione è declinata in forme accentuate ma usuali – di tipo documentale, organizzativo, procedurale – cui si aggiungono inedite soluzioni di interazione tra le parti funzionali alla conclusione positiva del procedimento.
La prima soluzione si verifica nel caso in cui l’amministrazione procedente si avveda della non accoglibilità dell’istanza perché non conforme al regime paesaggistico dell’area. In questo frangente l’amministrazione deve procedere secondo lo schema dell’art. 10-bis legge 241/1990, con l’avvertenza che la comunicazione non può limitarsi a esternare i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, ma deve esplicare «le modifiche indispensabili affinchè sia formulata la proposta di accoglimento» (art. 11, comma 6, d.P.R. 31/2017). Il preavviso di diniego innesca, in questo modo, un intermezzo procedimentale che si snoda attraverso la presentazione da parte del privato di osservazioni e adeguamenti progettuali e l’ulteriore esame dell’amministrazione procedente, il cui esito sarà l’accoglimento della domanda ovvero il rigetto motivato «con particolare riguardo alla non accoglibilità delle osservazioni o alla persistente incompatibilità paesaggistica del progetto adeguato» (comma 6). Quest’ultima formula lascia intendere che il ricorrente non sia vincolato a recepire tout court le modifiche progettuali indicate dall’amministrazione, ma che può presentare delle altre su cui l’amministrazione si pronuncerà nuovamente. In altre parole, nel momento terminale del percorso decisionale l’amministrazione non dovrà limitarsi a verificare il recepimento pieno delle modifiche progettuali da essa prospettate, ma dovrà sforzarsi di valutare anche quelle differenti che, dal punto di vista del privato, assicurano l’adeguamento del progetto in chiave di compatibilità paesaggistica. Lo spirito che permea questa parentesi procedimentale sembra quello del contraddittorio aperto al massimo grado per la costruzione di una decisione satisfattiva delle ragioni di entrambe le parti[31].
Quasi a compensazione di questo supplemento istruttorio è previsto che, in caso di persistenza della valutazione negativa, l’amministrazione procedente chiuda il procedimento con l’adozione del provvedimento negativo, senza il passaggio dinanzi alla soprintendenza, invece obbligatorio nello schema ordinario. Soluzione che risponde, evidentemente, al principio di economicità dell’azione amministrativa[32] e che non viola quello di leale collaborazione istituzionale, posto che l’autorità competente assume una funzione di “filtro” rispetto alla soprintendenza, che è sgravata dall’esame di istanze già ritenute inaccoglibili[33].
Pur nel silenzio della norma, è da ritenere che l’elemento delle modifiche progettuali per rendere accoglibile la domanda possa essere omesso nel preavviso di diniego, ove l’amministrazione riscontri che l’incompatibilità paesaggistica del progetto sia insuperabile in modo assoluto, nel senso che neanche l’introduzione di modifiche di adeguamento riescono a superare la difformità del progetto alle prescrizioni d’uso ovvero ai valori paesaggistici qualificanti il bene considerato, con l’ovvia precisazione che l’amministrazione dovrà esternare questo profilo in modo adeguato nel preavviso di diniego, in luogo della prospettazione delle modifiche progettuali. Questa soluzione può essere mutuata dalla norma che l’ammette espressamente in sede di valutazione della soprintendenza, in ragione della identità di ratio e struttura delle due valutazioni.
In effetti, quando è superata positivamente la prima valutazione, quella dinanzi all’amministrazione procedente, la proposta di accoglimento della domanda è sottoposta all’esame della soprintendenza (comma 7). All’esito della valutazione le soluzioni sono diversificate. Se la valutazione è positiva, l’amministrazione procedente adotta il provvedimento finale conformandosi al parere (vincolante) della soprintendenza.
Se la valutazione è negativa, occorre distinguere: se i motivi sono insuperabili, nel senso che il progetto «risulti incompatibile con i valori paesaggistici che qualificano il contesto di riferimento ovvero contrasti con le prescrizioni d’uso eventualmente presenti» (comma 7), la soprintendenza dovrà effettuare la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, nella quale fornirà «idonea ed adeguata motivazione» dell’impossibilità di rendere compatibile il progetto. Se i motivi ostativi sono superabili, nel senso che possono essere apportate modifiche al progetto per renderlo compatibile dal punto di vista paesaggistico, nel preavviso di diniego dovranno essere indicate «le modifiche indispensabili per la valutazione positiva del progetto» (comma 7).
In entrambi i casi si apre un momento di contraddittorio in cui il privato può presentare osservazioni e, ove possibile, «il progetto adeguato». La soprintendenza, nel caso in cui ritenga di non poter mutare il proprio convincimento, adotterà direttamente il provvedimento di diniego in luogo dell’autorità procedente. Anche sulla soprintendenza incombe un onere motivazionale rinforzato: il provvedimento di diniego deve essere accompagnato da «specifica motivazione, con particolare riguardo alla non accoglibilità delle osservazioni o alla persistente incompatibilità del progetto adeguato con la tutela dei beni vincolati» (comma 7).
Una lettura congiunta dell’art. 1, comma 2-bis, e dell’art. 10-bis della legge 241/1990 sembra avvalorare e veicolare la linea direttrice che affiora da questi riferimenti normativi, sparsi e settoriali: quella di un “dialogo procedimentale” pieno ed effettivo, serio e leale, dialettico e propositivo, tra pubblica amministrazione e privati quale metodo irrinunciabile nella costruzione della decisione amministrativa.
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[1] In giurisprudenza già Cons. Stato, sez. II, 20 febbraio 2020, n. 1306, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 27 marzo 2019, n. 2026, in www.giustizia-amministrativa.it; Consiglio di Stato, sez. V, 25 luglio 2018, n. 4523, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Sardegna, Cagliari, sez. II, 2 luglio 2020, n. 367, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Toscana, Firenze, sez. III, 21 aprile 2020, n. 464, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. III, 2 marzo 2020, n. 947, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 27 dicembre 2018, n. 1934, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] Si tratta di principio uniforme in giurisprudenza, la quale precisa che «anche se non deve sussistere un rapporto di identità, tra il preavviso di rigetto e la determinazione conclusiva del procedimento, né una corrispondenza puntuale e di dettaglio tra il contenuto dei due atti, ben potendo la p.a. ritenere, nel provvedimento finale, di dover meglio precisare le proprie posizioni giuridiche, occorre però che il contenuto sostanziale del provvedimento conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato dalla comunicazione ex art. 10 bis l. n. 241 del 1990, esclusa ogni possibilità di fondare il diniego definitivo su ragioni del tutto nuove, non enucleabili dalla motivazione dell’atto endoprocedimentale» (Tar Liguria, Genova, sez. I, 25 febbraio 2015, n. 232, in Foro amm., 2015, p. 580; similmente, Consiglio di Stato, sez. III, 29 luglio 2014, n. 4021, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VI, 9 marzo 2020, n. 1041, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Veneto, Venezia, sez. III, 21 gennaio 2019, n. 72, in www.giustizia-amministrativa.it ; Tar Friuli-Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 12 dicembre 2017, n. 371- 29/07/2014, n. 4021, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 12 gennaio 2016, n. 49, in Foro amm., 2016, p. 185).
[3] Il punto non è pacifico in giurisprudenza: nel senso dell’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo, della legge 241/1990, in virtù della riconosciuta identità sostanziale di funzioni sottese alle due comunicazioni, v., ad esempio, Tar Campania, Napoli, sez. I, 1 marzo 2017, n. 1185, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 7 febbraio 2014, n. 883, in Foro amm., 2014, p. 678; Tar Campania, Napoli, sez. III, 30 aprile 2009, n. 2246, in Foro amm., 2009, p. 1170; Tar Basilicata, Potenza, sez. I, 27 novembre 2008, n. 901, in Foro amm., 2008, p. 3137; Tar Campania, Salerno, sez. I, 11 febbraio 2008, n. 183, in Foro amm., 2008, p. 576; Tar Lazio, Roma, sez. I, 8 gennaio 2008, n. 73, in Foro amm., 2008, p. 110. Nel senso, cui aderisce la sentenza in commento, della diversità ontologica con impossibilità di sostenere un parallelismo tra i due istituti e connessa non riconducibilità dell’art. 10-bisnell’ambito applicativo dell’art. 21-octies, secondo comma, secondo periodo, della legge 241/1990, v., ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 6 agosto 2013, n. 4111, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Sicilia, Catania, sez. II, 20 gennaio 2017, n. 121, in Foro amm., 2017, p. 246; Tar Veneto, Venezia, sez. III, 31 marzo 2014, n. 35, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Toscana, Firenze, sez. III, 3 maggio 20143, n. 715, in Foro amm., 2013, p. 1519; Tar Liguria, Genova, sez. I, 27 dicembre 2011, n. 1922, in Foro amm., 2011, p. 3889; Tar Puglia, Bari, sez. II, 14 gennaio 2010, n. 53, in Foro amm., 2010, p. 264; Tar Campania, Napoli, sez. IV, 28 dicembre 2009, n. 9603, in Foro amm., 2009, p. 3553. Peraltro, in giurisprudenza è ricorrente l’affermazione secondo cui «l’istituto del c.d. preavviso di rigetto, di cui all’art. 10-bis, l. 7 agosto 1990, n. 241 ha lo scopo di far conoscere all’amministrazione procedente le ragioni fattuali e giuridiche dell’interessato che potrebbero contribuire a far assumere una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti gli interessi in gioco; tuttavia, tale scopo viene meno ed è di per sé inidoneo a giustificare l’annullamento del provvedimento nei casi in cui il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia in quanto vincolato, sia in quanto, sebbene discrezionale, sia raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non modificabilità» (Cons. Stato, sez. II, 12 febbraio 2020, n. 1081, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. II, 17 giugno 2019, n. 4089, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. II, 30 maggio 2019, n. 3611, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. II, 19 febbraio 2019, n. 1156, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 256, in Foro amm., 2019, p. 62; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 3 ottobre 2019, n. 4726, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. III, 1 dicembre 2016, n. 5555, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. III. 24 novembre 2015, n. 13258, in Foro amm., 2015, p. 2886), massima da cui si ricava l’accostamento, incidenter tantum, del caso di violazione dell’art. 10-bis sia alla prima ipotesi di sanatoria processuale di cui all’art. 21-octies, secondo comma, che attiene ai provvedimenti vincolati, sia alla seconda fattispecie, relativa ai provvedimenti discrezionali. La questione è stata affrontata dal legislatore, con il recente decreto semplificazioni, su cui si dirà al par. 3.
[4] La dottrina che si è occupata dell’istituto è notevole: v., oltre agli Autori citati nelle note successive, P. Chirulli, La partecipazione al procedimento (artt. 7, 8, 10-bis l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020, pp. 291 ss.; F. Trimarchi Banfi, L’istruttoria procedimentale dopo l’articolo 10-bis della legge sul procedimento amministrativo, in Dir. amm., 2011, pp. 353 ss.; S. Fantini. Il preavviso di rigetto come garanzia "essenziale" del cittadino e come norma sul procedimento, in Urb. app., 2007, 11, pp. 1388 ss.; C. Videtta, Note a margine del nuovo art. 10 bis della l. n. 241 del 1990, in Foro amm. Tar, 2006, pp. 837 ss.; E. Frediani, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al preavviso di rigetto, in Dir. amm., 2005, pp. 1005 ss.; S. Tarullo, L’art. 10 bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, in Giustamm, 2005, pp. 1 ss.
[5] In ordine al contenuto della motivazione rileva anche la preclusione di fondare il preavviso di diniego su «inadempienze o ritardi attribuibili all’amministrazione», previsione introdotta dall’art. 9, comma 3, della legge 1 novembre 2011, n. 180, e che la giurisprudenza, soffermandosi sul termine «attribuibile» in luogo di altri come «imputabile», ha letto nel senso che «il legislatore non ha voluto dare alcun rilievo allo stato soggettivo: anche un ritardo incolpevole ma oggettivamente riferibile all’amministrazione sarà dunque rilevante (mentre la colpa continuerà ovviamente a rilevare a fini risarcitori)»: così Tar Lombardia, Milano, sez. II, 14 novembre 2013, n. 2520, in Foro amm. Tar, 2013, 3296.
[6] V. nota 2.
[7] Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, in Dir. proc. amm., 2019, p. 1171; Cass. civ., sez. un., 7 settembre 2020, n. 18592, in Giustamm, n. 9, 2020; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 30 giugno 2020, n. 7254, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 30 luglio 2020, n. 8888, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 3 agosto 2020, n. 8956, in www.giustizia-amministrativa.it. Il tema è sempre più consapevolmente affrontato dalla giurisprudenza: si veda, ad esempio, l’affermazione di Cons. Stato, Adunanza plenaria, 9 giugno 2016, n. 11, in Foro amm., 2016, p. 1470, in tema di giudicato amministrativo a formazione progressiva, secondo cui «»l’esecuzione del giudicato amministrativo (sebbene quest’ultimo abbia un contenuto poliforme), non può essere il luogo per tornare a mettere ripetutamente in discussione la situazione oggetto del ricorso introduttivo di primo grado, su cui il giudicato ha, per definizione, conclusivamente deciso; se così fosse, il processo, considerato nella sua sostanziale globalità, rischierebbe di non avere mai termine, e questa conclusione sarebbe in radicale contrasto con il diritto alla ragionevole durata del giudizio, all’effettività della tutela giurisdizionale, alla stabilità e certezza dei rapporti giuridici (valori tutelati a livello costituzionale e dalle fonti sovranazionali alle quali il nostro Paese è vincolato); da qui l’obbligo di esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla stabile definizione del contesto procedimentale».
[8] V. nota precedente.
[9] «Ciò allo scopo di evitare che la realizzazione dell’interesse sostanziale possa essere frustrato dalla reiterazione di provvedimenti, basati sempre su inediti supporti motivazionali»: ad esempio, Cons. Stato, IV, 54 marzo 2011, n. 1415, in Foro amm. CdS, 2011, p. 846; Cons. St. sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. V, 13 settembre 2018, n. 5371, in Foro amm., 2018, p. 1464.
[10] M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, pp. 115 ss., richiamato, con specifico riferimento al preavviso di diniego, da D. Vaiano, Preavviso di rigetto e principio del contraddittorio nel procedimento amministrativo, in Scritti in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, IV, pp. 447 ss.; Id., Il preavviso di rigetto, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2017, pp. 643 ss.; F. Saitta, La partecipazione al procedimento amministrativo, in AA.VV., Istituzioni di diritto amministrativo, Torino, 2017, p. 190; G. Milo, Il preavviso di diniego dopo la legge 11 settembre 2020, n. 120, in AmbienteDiritto, 2020, n. 4, p. 1152.
[11] G. Milo, Il preavviso di diniego, cit., p. 1151.
[12] In questo senso, con specifico riferimento all’art. 10-bis, v., ad esempio, Cons. Stato, 6 novembre 2007, n. 5729, in Foro amm. CdS, 2007, p. 3097; Tar Umbria, Perugia, sez. I, 5 maggio 2014, n. 241, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 15 gennaio 2018, n. 5, in Com. It., 2008, p. 69; Tar Veneto, Venezia, 7 settembre 2005, n. 3430, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] F. Merusi, Diritti fondamentali e amministrazione (o della «demarchia» secondo Feliciano Benvenuti), in Dir. amm., 2006, 543 ss., il quale vi ravvisa un esercizio attivo di diritti di libertà (p. 550).
[14] Ivi, p. 550.
[15] L’espressione è utilizzata da R. Ferrara, La legge sul procedimento amministrativo alla prova dei fatti: alcuni punti fermi...e molte questioni aperte, in Dir. e proc. amm., 2011, p. 65, per avanzare dubbi sulla consistenza del dato normativo relativo alla partecipazione e sul dato della scarsità di riforme che lo ha interessato a fronte di modifiche più sostanziose di altri istituti.
[16] Sulla logica, sottesa all’art. 10-bis, dell’accettazione che fa da pendant con quella del contraddittorio in contestazione v. M. Protto, Il rapporto amministrativo, Milano, 2008, p. 188. In termini generali, sul criterio dell’accettabilità giuridica della scelta amministrativa v. le osservazioni di F. Manganaro, Principio di legalità e semplificazione dell’attività amministrativa. I. Profili critici e principi ricostruttivi, Napoli, 2000, pp. 119 ss.
[17] S. Tarullo, Il principio di collaborazione procedimentale. Solidarietà e correttezza nella dinamica del potere amministrativo, Torino, 2008.
[18] P. Lazzara, Art. 10 bis, in A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, p. 384, che pure solleva l’esigenza di accogliere questa prospettiva con cautela, in ragione dei risvolti che il mutamento dell’oggetto implica rispetto alle garanzie procedimentali, anzitutto quella dell’art. 7 legge 241/1990.
[19] V. Cerulli Irelli, Lineamenti di diritto amministrativo, Torino, 2017, p. 330; Id., Verso un più compiuto assetto della disciplina dell’azione amministrativa. Un primo commento alla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241”, in ASTRID Rassegna, 2005, p. 11; M. Ramajoli – R. Villata, Procedimento. Art 10 bis l. n. 241/1990, in Libro dell'anno del Diritto 2012 – Treccani, Roma, 2012, p. 2; D. Vaiano, Commento dell’art. 10-bis, cit., p. 641; A Carbone, Il contraddittorio procedimentale. Ordinamento nazionale e diritto europeo convenzionale, Torino, 2016, p. 269.
[20] Tar Campania, Salerno, sez. I, 9 marzo 2016, n. 589, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 23 luglio 2014, n. 2003, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 16 dicembre 2013, n. 1129, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 8 ottobre 2013, n. 8682, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VII, 9 dicembre 2013, n. 5640, in Foro amm. Tar, 2013, p. 3831; Tar Campania, Salerno, 5 agosto 2013, n., 1740, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 27 giugno 2013, n. 1855, in Foro amm. Tar, 2013, p. 2146; Tar Veneto, Venezia, sez. I, 8 luglio 2011, n. 1162, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Latina, sez. I, 18 marzo 2010, n. 322, in Foro amm Tar, 2010, p. 953.
[21] Per esempio, la mera “disponibilità” ad apportare modifiche sostanziali al progetto è stata considerata irrilevante, perché generica, rispetto all’art. 10-bis: Tar Campania, Napoli, sez. IV, 6 giugno 2017, n. 2952, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] Tar Campania, Napoli, sez. IV, 6 giugno 2017, n. 2952, cit.
[23] Tar Toscana, Firenze, sez. II, 12 maggio 2017, n. 684, in www.giustizia-amministrativa.it.
[24] Tar Puglia, Bari, sez. III, 25 novembre 2011, n. 1807, in Foro amm. Tar, 2011, p. 3636.
[25] Per entrambe le tipologie di conferenza di servizi – quella semplificata e quella simultanea – l’amministrazione dissenziente è tenuta ad accompagnare il dissenso con la specificazione delle modifiche necessarie ai fini dell’assenso (art. 14-bis, comma 3; art. 14-ter, comma 3), previa valutazione della fattibilità delle stesse («ove possibile», art. 14-bis, comma 3). La norma si preoccupa anche del profilo dei rapporti tra proposta di modifica e progetto iniziale. Infatti, in sede di conferenza simultanea, l’amministrazione procedente, se valuta che le condizioni e prescrizioni avanzate a corredo del dissenso non comportano «modifiche sostanziali» alla decisione oggetto della conferenza e le ritiene accoglibili, previa consultazione con i privati e con le altre amministrazioni interessate, adotta la determinazione motivata di conclusione positiva della conferenza (art. 14-bis, comma 5). In caso contrario è da ritenere che la questione debba rimettersi alla conferenza in modalità sincrona, per una nuova valutazione collegiale (art. 14-bis, comma 6). Il meccanismo è utilizzato anche per la disciplina del dissenso qualificato. In caso di opposizione avanzata da amministrazione preposta alla cura di interesse sensibile, prima della formale devoluzione della questione al consiglio dei ministri, è prevista, per iniziativa della presidenza del consiglio dei ministri, l’indizione di una riunione alla quale parteciperanno l’amministrazione procedente, quella dissenziente e le altre presenti alla conferenza e l’obiettivo di questa riunione è «l’individuazione di una soluzione condivisa» (art. 14-quinquies, comma 4), segno dell’apertura a un metodo amministrativo orientato alla ricerca di soluzioni appaganti i diversi punti di vista, anche quando questa ricerca imponga un supplemento di attività e uno sforzo reciproco, che implichi pure la rinuncia parziale alle proprie pretese o ragioni. Per questo la devoluzione all’organo politico per eccellenza, il consiglio dei ministri, è configurata come l’extrema ratio e, peraltro, anche in questa sede l’organo non è chiamato a una valutazione risolutiva netta, incentrata sulla mera alternativa di accoglimento o meno dell’opposizione, perché sono possibili soluzioni intermedie, come l’accoglimento parziale dell’opposizione con modifica diretta del contenuto della determinazione di conclusione della conferenza (art. 14-quinquies, comma 6). Si tratta di un modo di procedere che altro non è che un’applicazione del principio di leale collaborazione tra amministrazioni, espressamente richiamato dalla norma (art. 14-quinquies, comma 4).
[26] Infatti, l’amministrazione alla quale è stato chiesto l’assenso può rappresentare esigenze istruttorie ovvero «richieste di modifica», con l'avvertenza che queste devono essere «motivate e formulate in modo puntuale» e nel termine originario (comma 1). La revisione dello schema di provvedimento da parte dell’amministrazione procedente innesca un nuovo momento di confronto con l’altra amministrazione e, nel caso in cui questa non rilascia l’assenso, la questione è devoluta al Presidente del Consiglio dei ministri, il quale «previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento» (comma 2).
[27] Ulteriori forme avanzate di contraddittorio tra p.a. e privati, non solo nelle modalità (interpelli, audizioni, ecc.), ma pure negli esiti possibili, comprensivi di soluzioni concordate, anche modificative o alternative alle istanze o proposte iniziali, sono rinvenibili in molteplici procedimenti dell’amministrazione finanziaria ovvero in quelli di competenza di autorità indipendenti, nonché nel settore ambientale (si pensi al procedimento di valutazione di impatto ambientale) e nella disciplina delle grandi opere infrastrutturali.
[28] Tar Lazio, Latina, sez. I, 4 febbraio 2008, n. 86, in www.giustizia-amministrativa.it.
[29] Nel senso di «obbligo» dell’amministrazione, che comunque sussiste solo qualora le modifiche non siano tali da comportare «un ampio “ripensamento” del progetto e, in sostanza, nella presentazione di un progetto qualitativamente diverso» v. Tar Lazio, Latina, sez. I, 4 marzo 2009, n. 168, in www.giustizia-amministrativa.it. Riconduce al difetto di istruttoria la mancata verifica della proponibilità di modifiche di modesta entità al progetto originario Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 21 gennaio 2015, n. 376, in www.giustizia-amministrativa.it.
[30] Sottolinea che le due parti in causa – impresa e amministrazione – non si pongono in termini di antagonismo, ma di comune obiettivo dello sviluppo del territorio di riferimento e che in questa peculiare configurazione del rapporto tra le parti può scorgersi un’utile chiave di lettura dell’intera disciplina, G. De Giorgi Cezzi, Il procedimento semplificato mediante autocertificazione per la realizzazione di impianti produttivi nel regolamento sullo sportello unico, in E. Sticchi Damiani – G. De Giorgi Cezzi – P.L. Portaluri – F.F. Tuccari, Localizzazione di insediamenti produttivi e semplificazione amministrativa. Lo sportello unico per le imprese, Milano, 1999, pp. 17-18. Evidenzia il profilo della collaborazione tra pubblico e privato quale elemento centrale e tratto distintivo della nuova disciplina, anche in ragione delle traduzioni originali in essa contenute, G. Gardini, Un nuovo modello di azione pubblica: il procedimento di autorizzazione all'insediamento di attività produttive in base al d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, in Dir. amm., 1998, p. 572. Sulle novità in termini di «partecipazione qualitativa» v. I.M. Impastato, La conferenza di servizi «aperta» nel D.P.R. n. 447 del 1998 ovvero della «semplificazione partecipata», in Dir. amm., 2001, pp. 481 ss.
[31] Sottolinea l’importanza riservata dalla norma al cd. dissenso costruttivo P. Marzaro, Autorizzazione paesaggistica semplificata e procedimenti connessi, in Riv. giur. urb., 2017, p. 229.
[32] S. Amorosino, Il nuovo regolamento di liberalizzazione e semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche (d.P.R. n. 31 del 2017), in Riv. giur. urb., 2017, p. 186.
[33] Cons. Stato, sez. atti norm., 1° settembre 2016, n. 1404, in Foro amm., 2016, p. 2140.
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