ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La nomofilachia informatica re-interpreta gli istituti processuali in chiave evolutiva: la rilevanza del principio di non contestazione ai fini dell’improcedibilità ex art. 369 c.p.c. in ambiente digitale*
di Enzo Vincenti (Consigliere e direttore del C.E.D. della Corte di Cassazione)
Sommario:1. Premessa: il nuovo orizzonte di senso della “nomofilachia informatica” - 2. Il continuum con la giurisprudenza del recente passato - 3. Il principio del raggiungimento dello scopo - 4. Conclusioni.
1. Premessa: il nuovo orizzonte di senso della “nomofilachia informatica”
L’esperienza della Corte di cassazione maturata in ambito di processo civile telematico (PCT) ha mostrato, almeno fino ad oggi, una peculiarità di fondo, che ha influito in modo anche significativo sull’adozione di talune scelte ermeneutiche su questioni processuali. Difatti, nonostante che il PCT non fosse realtà operativa per il processo civile di legittimità, la Cassazione si è trovata investita della soluzione di problematiche giuridiche relative al PCT e, quindi, chiamata ad enunciare principi di diritto interferenti non soltanto con il processo analogico di legittimità, ibridato telematicamente in alcuni limitati aspetti (comunicazioni di cancelleria, notifiche degli atti di parte, modalità di deposito di atti già nativi digitali), ma anche sul PCT dei gradi di merito.
Dal 31 marzo scorso, però, la Cassazione è entrata ufficialmente nel circuito del PCT e questo evento non potrà assumere una valenza neutra su come verrà a modularsi, nel prossimo futuro, anche lo svolgimento dei compiti che l’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario affida istituzionalmente al giudice di legittimità, ossia quelli di assicurare “l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge” e “l'unità del diritto oggettivo nazionale”.
Ciò che, in sintesi, chiamiamo nomofilachia.
Occorrerà il giusto tempo di rodaggio perché sotto il profilo dell’efficienza e stabilità del sistema infrastrutturale il PCT di legittimità possa funzionare in modo del tutto soddisfacente; ci auguriamo che questo rodaggio si esaurisca in tempi ragionevoli, così da consentire anche il passaggio dal regime di facoltatività del deposito degli atti di parte a quello della obbligatorietà, che si presta ad essere il più coerente rispetto alla morfologia stessa del giudizio di cassazione, che presenta, rispetto al giudizio di merito, una indubbia semplicità strutturale.
Ma quel periodo di rodaggio servirà anche per metabolizzare, da parte dei giudici di legittimità, il passaggio da un rito a vocazione essenzialmente analogica ad un rito a centralità digitale. Passaggio che segna, anzitutto, una rivoluzione simbolica, la quale non potrà che plasmare in modo nuovo la percezione complessiva del contesto – quello processuale - in cui si realizza quotidianamente l’esercizio della giurisdizione.
Dunque, anche in Cassazione il PCT è divenuto “carne viva”, non più realtà mediata e questo darà all’espressione “nomofilachia informatica” un nuovo orizzonte di senso.
E’, quella “informatica”, una particolare declinazione della nomofilachia, che ha avuto modo di affermarsi, per l’appunto, ancor prima che il PCT di legittimità fosse una realtà e che si è potuta realizzare in ragione di una lettura dell’assetto processuale “dato” – dunque, un assetto calibrato non solo formalmente, ma anche culturalmente sulle norme del codice di rito e non su quelle di settore - in chiave sistematica e secondo una interpretazione evolutiva che si è avvalsa, essenzialmente, dei principi, anche sovranazionali, che governano il processo civile.
Tuttavia, si prospetta – come detto - un nuovo orizzonte di senso per la “nomofilachia informatica”, sebbene questo specifico contesto non possa prescindere dalla linfa vitale alla quale ha attinto la giurisprudenza sinora formatasi, con essa, quindi, dovendosi anche confrontare.
Si può, dunque, prefigurare un continuum tra recente passato e futuro prossimo nella giurisprudenza della Cassazione in materia di PCT e tanto perché il percorso è segnato dalla stessa funzione e dal quomodo (che non è solo “modalità”) di formazione dell’interpretazione nomofilattica.
Questa non vive di astrattismi, ma è sempre relativa al caso oggetto della lite.
Il principio di diritto è la regola del caso concreto, quella alla quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia. Di qui, anche l’attenuarsi della contrapposizione, a volte troppo sopravvalutata, tra ius litigatoris e ius constitutionis.
Il piano dell’interpretazione della legge non è, infatti, scisso dalla vicenda storica che viene portata dinanzi al giudice, ma da essa è alimentato.
Tutto ciò, ovviamente, vale anche per l’interpretazione della legge processuale; anzi, per essa, in ragione proprio della particolare conformazione dei poteri del giudice di legittimità, il contatto con la realtà storica della controversia è apprezzabile con ancor maggiore forza e penetrazione.
Nella verifica dell’error in procedendo la Cassazione è anche giudice del “fatto processuale” e, quindi, entra nel vivo del processo, di come si è svolto, coniugando direttamente l’interpretazione della norma di rito con l’attività processuale in concreto realizzatasi.
Sicché, l’entrata in vigore del PCT di legittimità ha reso possibile (o meglio, renderà possibile da oggi in poi) la diretta cognizione, a tutto tondo, di un particolare fatto processuale – intimamente legato all’informatizzazione del processo - dapprima conosciuto essenzialmente “in vitro”, così da consentire una interpretazione della norma processuale ancora più consapevole rispetto alla realtà normata e ad essa maggiormente aderente.
Dunque, un nuovo orizzonte di senso per la c.d. “nomofilachia informatica”.
Ciò, per le ragioni anzidette, non significherà di per sé svalutazione della giurisprudenza già formatasi in materia; il valore nomofilattico degli orientamenti giurisprudenziali pregressi andrà semmai depurato da incertezze interpretative (o anche da abbagli, come a volte è capitato e non lo si può nascondere) ovvero rimeditato se necessario, proprio in virtù di quella diretta cognizione e consapevolezza che colma la distanza precedente.
2. Il continuum con la giurisprudenza del recente passato
In una sintetica ricognizione della giurisprudenza che ha reso comunque possibile questa prima fase della “nomofilachia informatica”, l’attenzione sarà concentrata sulle decisioni delle Sezioni Unite (n. 22438 del 24 settembre 2018 e n. 8312 del 25 marzo 2019) che hanno reinterpretato l’istituto della procedibilità del ricorso per cassazione, regolato dall’art. 369 c.p.c., ascrivendo peculiare rilievo al principio di non contestazione in ambito processuale, nel contesto però di altri cooperanti principi, che la stessa giurisprudenza della Cassazione aveva già messo a fuoco nell’affrontare talune problematiche giuridiche relative al processo civile telematico.
Anzitutto, il principio del raggiungimento dello scopo, ma non da solo, perché vengono in risalto i presidi costituzionali e sovranazionali del “giusto processo” e, con essi, la stessa problematica delle fonti del processo in modalità telematica, in quel dialogo complesso tra codice di rito e norme, non solo di rango primario, che dettano discipline peculiari tra loro interagenti.
Interazioni che, del resto, hanno trovato rilievo nella stessa giurisprudenza della Cassazione, sebbene non sempre in modo organico.
Una visione d’insieme, tuttavia, si rinviene nella sentenza n. 22871 del 10 novembre 2015 in tema di sottoscrizione della sentenza con firma digitale a norma dell’art. 15 del d.m. n. 44/2011.
In quell’occasione si è ritenuto di poter “salvare” dalla nullità (si evocava, addirittura, la categoria dell’inesistenza), per mancanza di sottoscrizione (ovviamente autografa) necessaria in base al combinato disposto di cui agli artt. 132, secondo comma, n. 5, e 161, secondo comma, c.p.c., le sentenze redatte in formato elettronico dal giudice e recante la sua firma digitale, in quanto equiparata alla sottoscrizione autografa in base ai principi del d.lgs. n. 82 del 2005 (codice dell’amministrazione digitale: CAD), resi applicabili al processo civile dall'art. 4 del d.l. n. 193 del 2009, convertito dalla l. n. 24 del 2010.
Equiparazione resa ancor più netta dalla normativa successiva, ossia tramite l’art. 16-bis, commi 9-bis e 9-octies, del d.l. n. 179 del 2012, all’esito delle modifiche recate dal d.l. n. 90 del 2014 e dal d.l. n. 83 del 2015, quali disposizioni che presuppongono l’esistenza di un provvedimento del giudice inserito nel fascicolo informatico e, dunque, sottoscritto con firma digitale.
Tuttavia, proprio l’ulteriore evoluzione normativa sembra aver complicato il problema della ordinazione delle fonti.
In primo luogo, il fatto che la disciplina di rango primario e sub-primario risente necessariamente delle disposizioni dettate dalle fonti di livello eurounitario, con il preciso obiettivo di uniformare determinate materie comuni al mercato interno. Ne accenna la citata sentenza del 2015, ma, in particolar modo, assume un ruolo centrale nell’economia della ratio decidendi del principio espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 10266 del 27 aprile 2018, sulle firme digitali in formato “Cades” o “Pades”, il Regolamento UE 910/2014 (e-IDAS), che stabilisce le condizioni per il riconoscimento reciproco in ambito di identificazione elettronica, nonché le regole comuni per le firme elettroniche, l’autenticazione su web ed i relativi servizi fiduciari per le transazioni elettroniche.
E’, quindi, una trama di rinvii e di rimandi che davvero rendono il significato di come la “nomofilachia informatica” si sia trovata, in precondizioni non affatto favorevoli, a governare un habitat impegnativo.
E di ciò ne è prova, in guisa di peculiare cartina di tornasole, proprio la questione della procedibilità del ricorso per cassazione, la cui soluzione non rimaneva astratto esercizio di logica giuridica, ma opzione determinante effetti radicali sulla controversia, come quelli che derivano dalla sanzione dell’improcedibilità dell’atto di impugnazione adottata dal giudice di legittimità, quale esito, non di merito, che chiude definitivamente la vicenda del processo.
3. Il principio del raggiungimento dello scopo
In siffatto contesto, il principio del raggiungimento dello scopo ha costituito, dunque, il filo conduttore del percorso giurisprudenziale intrapreso dalla Cassazione sul PCT.
Esso ha avuto modo di affermarsi chiaramente con la sentenza n. 9772 del 12 maggio 2016, secondo cui, anche prima della disciplina introdotta dal d.l. n. 83 del 2015 – che modificando l’art. 16 bis del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) recante la disciplina ordinaria sul deposito degli atti processuali con modalità telematiche nell’ambito dei procedimenti civili, aveva consentito il deposito anche degli introduttivi -, il deposito per via telematica non dava luogo a nullità, bensì a mera irregolarità, là dove detto deposito, tramite generazione della ricevuta di avvenuta consegna, avesse avuto esito positivo e così da raggiungere il proprio scopo.
Il principio è stato enunciato in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ma poi è stato esteso anche ad altri atti introduttivi; ad es. – con l’ordinanza n. 1717 del 23 gennaio 2019 - al reclamo avverso decisione del Tribunale dei minorenni.
Due sono i profili che, della citata sentenza n. 9772/2016, occorre mettere in evidenza.
Il primo, relativo alla lucida individuazione del principio cardine di strumentalità delle forme desumibile dal combinato disposto degli artt. 121 e 156 c.p.c., per cui esse, lungi dal perseguire un valore e fine autoreferenziali, sono dettate per la realizzazione dell'obiettivo che la norma disciplinante la forma dell'atto intende conseguire. Di qui, pertanto, il raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato impedisce di dare rilievo al vizio dello stesso, in quanto il processo deve essenzialmente tendere ad una pronuncia di merito.
Il secondo profilo, anch’esso di rilievo peculiare, riguarda l’affermazione secondo cui anche in “ambiente telematico” lo scopo del deposito dell’atto processuale è quello della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione di esso alle altre parti.
In tal modo non solo si è dato risalto alla necessaria triangolarità in cui si risolve il “giusto processo”, ma è stata pure disinnescata quella opzione ermeneutica, fatta propria da una certa giurisprudenza di merito, secondo cui il deposito telematico avrebbe avuto anche lo scopo, essenziale, di veicolare le richieste della parte al giudice mediante un supporto smaterializzato e decentralizzato. Opzione che, peraltro, aveva portato ad affermare (con conseguente declaratoria di inammissibilità rese in numerose decisioni di merito) che tra i requisiti essenziali dell’atto processuale digitale figurano anche gli standard tecnici per il confezionamento e, tra questi, i c.d. formati.
Va precisato che la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 10266/2018, sulle firme digitali in formato “Cades” o “Pades”, non ha affrontato, ex professo, la questione dell’operatività della sanatoria per raggiungimento dello scopo per violazione delle specifiche tecniche, ritenendola assorbita nella affermata utilizzabilità di entrambi detti formati.
Tuttavia, già le stesse Sezioni Unite, con la sentenza n. 7665 del 18 aprile 2016, avevano ritenuto che la notificazione a mezzo PEC di un controricorso in formato “.doc”, anziché “.pdf”, come stabilito dall’art. 19-bis del provvedimento del direttore SIA del 16 aprile 2014, in quanto la controparte non aveva dedotto alcun specifico pregiudizio all’esercizio del diritto di difesa, fosse da reputarsi sanata per raggiungimento dello scopo.
Il principio è stato successivamente ribadito (tra le altre, da due ordinanze del 2018, la n. 14042 e la n. 14818) nel caso di notificazione a mezzo PEC irrispettosa della prescrizione, dettata dall’art. 19-ter del citato provvedimento dell’aprile 2014, sull’indicazione del nome del file contenuto nell’attestazione di conformità di una copia informatica.
L’ordinanza n. 14042 del 1° giugno 2018 ha, peraltro, enunciato il principio, di portata più generale, per cui la violazione di specifiche tecniche dettate in ragione della mera configurazione del sistema informatico, non può mai comportare la invalidità degli atti processuali compiuti, qualora non vengano in rilievo la violazione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione finale, ma al più, una mera irregolarità sanabile in virtù proprio del principio di raggiungimento dello scopo.
3. Le questioni relative alla procedibilità del ricorso per cassazione
Questa direttrice di orientamento ha rappresentato certamente l’humus fertile che ha alimentato la maturazione dapprima della decisione delle Sezioni Unite n. 22438/2018 e poi della decisione, sempre delle Sezioni Unite, n. 8312/2019, rispettivamente sulle questioni, sostanzialmente analoghe, della procedibilità, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., del deposito di copia analogica del ricorso nativo digitale e della sentenza redatta in formato telematico notificati a mezzo PEC, in assenza tuttavia di attestazione del difensore di conformità all’originale telematico, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa.
Questioni sulle quali si era venuto ad affermare un indirizzo più restrittivo, incline alla soluzione dell’improcedibilità.
Quell’humus si è poi arricchito di ulteriori piani di riflessione che proprio una interpretazione in chiave evolutiva e sistematica ha fatto convergere verso la soluzione poi adottata: si tratta, come ho già accennato, dei piani, intersecantesi, dei principi fondamentali della giurisdizione e delle fonti di regolazione della materia processuale implicata.
La realtà processuale – come detto - registrava la presenza di un giudizio, quello di legittimità, in cui l’impianto della disciplina era (e lo è stato sino al 31 marzo 2021), radicalmente ancorato a modalità analogiche e dove, nel proprio ambito, non si faceva applicazione (salvo minime eccezioni) delle regole del PCT.
Un processo, dunque, dove la formazione digitale del ricorso e della sentenza e il loro deposito in copia analogica autenticata certamente non trovavano ancoraggio nel combinato disposto degli artt. 365 e 369 c.p.c., quali norme mai modificate nella loro originaria e risalente formulazione.
Eppure già la giurisprudenza che aveva adottato un indirizzo meno liberale aveva avvertito l’esigenza di rendere coerente, per quanto possibile, questa distanza tra discipline differenti, così da ritenere ammissibili quei presupposti (ossia il deposito di atti nativi digitali o formati telematicamente) e questo in base già ad una prima interpretazione evolutiva in consonanza con il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, che, proprio in ambito sovranazionale, ha trovato coerente sponda nel principio di “non discriminazione” (quanto ad effetti giuridici) del documento digitale dettato dall’art. 46 del regolamento UE n. 910 del 2014 (eIDAS).
Di qui, l’ulteriore passo compiuto dalle Sezioni Unite secondo una prospettiva convergente con l’esigenza di consentire la più ampia espansione, nel perimetro di tenuta del sistema processuale, del diritto fondamentale di azione (e, quindi, anche di impugnazione) e difesa in giudizio (art. 24 Cost.), in coerenza proprio con il principio “obiettivo” dell’effettività della tutela giurisdizionale, alla cui realizzazione coopera, in quanto principio “mezzo”, il giusto processo dalla durata ragionevole (art. 111 Cost.), in una dimensione complessiva di garanzie che rappresentano patrimonio comune di tradizioni giuridiche condivise a livello sovranazionale (art. 47 della Carta di Nizza, art. 19 del Trattato sull’Unione europea, art. 6 CEDU).
Il che, ovviamente, non poteva che dare spazio ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità che devono guidare eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale – e quindi le sanzioni processuali radicali come l’improcedibilità –, ascrivendo rinnovata vitalità al principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo e, quindi, del raggiungimento dello scopo.
Assumono, quindi, primazia i principi immanenti al “giusto processo”, che non possono comunque essere recessivi rispetto alle forme e alle modalità, contingenti, nei quali il processo stesso viene ad essere configurato in base all’esercizio, ragionevole, della discrezionalità di cui gode il legislatore nel plasmarne gli istituti (tra le molte, Corte cost., sentenze n. 243 del 2014 e n. 216 del 2013).
E ovviamente deroghe non sono consentite nel caso del processo telematico, sebbene esso sia venuto ad acquisire, in misura sempre crescente, il ruolo di strumento duttile e funzionale in un’ottica di semplificazione ed efficienza del c.d. servizio giustizia.
Una breve riflessione a margine.
Giova, infatti, dare ancora maggiore rilievo ai concetti appena espressi prendendo spunto da una delle più recenti decisioni della Corte costituzionale sul processo civile telematico, la sentenza n. 75 del 2019.
Con questa decisione è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16-septies del d.l. n. 179 del 2012 nella parte in cui prevedeva che la notifica eseguita con modalità telematiche, la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24, si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione dell’anzidetta ricevuta.
Era stato proprio il “diritto vivente” ad imporre quella lettura della norma - in sostanza, il divieto per il notificante di provvedere alla notifica telematica dopo le ore 21 -, che la Corte costituzionale ha ritenuto irragionevole e vulnerante il principio di effettività della tutela giurisdizionale, ritenendo applicabile anche in questo caso la regola generale di scindibilità soggettiva degli effetti della notificazione.
Particolarmente significative sono le affermazioni del Giudice delle leggi, perché l’irragionevolezza o meglio l’irrazionalità intrinseca della norma vivente è stata colta proprio nel fatto che essa veniva a sterilizzare le virtualità del presupposto che ne conformava indefettibilmente l’applicazione, ossia quelle del sistema telematico di notificazione degli atti.
In altri termini, il vulnus che l’art. 16-septies, nella portata ad esso ascritta dal “diritto vivente”, recava al pieno esercizio del diritto di difesa – segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare –, era apprezzabile proprio nell’aver fatto venire meno quell’affidamento che il notificante riponeva nelle potenzialità tutte del sistema tecnologico (affidamento ingenerato dallo stesso legislatore immettendo tale sistema nel circuito del processo), il cui pieno dispiegamento avrebbe invece consentito di tutelare e ciò senza pregiudizio del destinatario della notificazione.
Dunque, lo iato irrazionale tra nomos e techne che il “diritto vivente” aveva determinato è stato ricomposto attraverso il riconoscimento delle potenzialità proprie del sistema tecnologico, ma nell’alveo imprescindibile dei valori del giusto processo e dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Tornando in medias res, proprio su questi principi/valori si è mossa la “nomofilachia informatica” espressa dalle sentenze del 2018 e del 2019, facendoli interagire con una pluralità di fonti – il codice di rito, la normativa di settore del PCT e la normativa generale del d.lgs. n. 82 del 2005 – attribuendo rilievo eminente a quest’ultima, intesa non solo come piattaforma regolativa di chiusura – secondo quanto previsto dell’art. 2 dello stesso d.lgs. n. 82/2005, modificato dal d.l. n. 179 del 2016 -, ma anche come criterio finalistico di orientamento.
E’ in questo contesto, quindi, che viene attribuito rilievo centrale al mancato disconoscimento, da parte del controricorrente destinatario della notificazione del ricorso nativo digitale o della sentenza redatta in formato telematico, della conformità di detta copia all’originale telematico, in applicazione dell’art. 23, comma 2, del CAD stesso.
La saldatura interpretativa è operata anzitutto con la giurisprudenza più risalente (addirittura richiamando una decisione delle Sezioni Unite del 2 febbraio 1976, n. 323) che aveva già avuto modo di sterilizzare la sanzione dell’improcedibilità, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., del deposito del ricorso in copia informe qualora non vi fossero dubbi sulla sua conformità all’originale.
Ebbene quella saldatura si fa presente nell’interpretazione in senso evolutivo, adottata dalle più recenti Sezioni Unite, del superamento delle ragioni per cui quegli stessi precedenti (e poi la giurisprudenza più restrittiva sul deposito del ricorso nativo digitale e della sentenza redatta in formato telematico), avevano predicato come ostative della possibilità di far valere la non contestazione della controparte ai sensi dell’art. 2719 c.c.
La certezza della conformità della copia all’originale – si diceva - non può essere data dalla mancata contestazione di controparte perché si tratta di verifica ad essa sottratta (indisponibile), per essere riservata (stante la rilevanza pubblicistica degli interessi) alla Corte di cassazione, non essendo del resto la parte stessa comunque in possesso dell’originale del ricorso e, quindi, impossibilitata ad operare la stessa valutazione di conformità.
Questo apparato argomentativo è stato ritenuto non dirimente una volta mutata la forma dell’atto, ossia consolidatosi il passaggio da quella analogica a quella digitale.
Dunque, secondo una linea comune e di continuità tra la decisione del 2018 e quella del 2019, avendo la prima tracciato il sentiero poi ribadito dalla seconda, si viene ad escludere la sanzione dell’improcedibilità ove il controricorrente non abbia disconosciuto, ai sensi del citato art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 82 del 2005, la conformità della copia informale all’originale notificatogli; con il corollario che, in caso di disconoscimento o in caso di parte rimasta soltanto intimata, il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio.
Il percorso seguito dalle due sentenze, come detto, è comune e ha dato vita ad una osmosi concettuale tra due piani operanti nello stesso contesto (ricorso e sentenza), che la sentenza n. 8312 del 2019 ha ricondotto ad unità, rilevando che sia per il ricorso, che per la sentenza “contano principalmente due elementi, la conformità all’originale e la tempestività del deposito”, essendo entrambi, anche “in ambiente di ricorso analogico e di norme processuali calibrate su tale forma di atto”, presi in considerazione, ai fini della procedibilità il ricorso, sia come “atti processuali (ovviamente di valenza diversa), sia con riguardo all’attività rappresentata dal relativo deposito, nella necessaria ricerca di un punto di equilibrio, che consenta di bilanciare la esigenza funzionale di porre regole di accesso alle impugnazioni con quella a un equo processo, da celebrare in tempi ragionevoli”.
Il contesto, dunque, è quello, affatto peculiare, del giudizio di cassazione, in cui l’impianto e lo svolgersi della relativa disciplina processuale è – recte: era fino al 31 marzo scorso - ancorato ad una dimensione analogica degli atti (salva l’eccezione delle comunicazioni di cancelleria).
Ed è un contesto che già di fatto, prima ancora che giuridicamente, giustifica l’inserimento nel circuito processuale della collaborazione del depositante dell’atto e del controricorrente, ai fini di verifiche di conformità (involgenti sia il ricorso nativo digitale, che la sentenza estratta dal fascicolo informatico) che erano oggettivamente precluse alla Corte in quel momento storico.
Proprio nel dare rilievo al mancato disconoscimento, da parte del controricorrente destinatario della notificazione, della conformità di detta copia all’originale telematico è la stessa sentenza del 2019 a riconoscere che la decisione del settembre 2018 aveva già operato decisamente una interpretazione innovativa dell’art. 23, comma 2, del CAD, intendendo tale disposizione come “norma di chiusura” in base al duplice presupposto:
a) della impossibilità per la Corte di effettuare la verifica diretta sull’originale nativo digitale;
b) della possibilità della parte destinataria dell’atto processuale nativo digitale, sottoscritto con firma digitale, di poterne operare, o meno, il disconoscimento rispetto alla copia analogica che non sia stata autenticata dal difensore autore dell’atto notificato, in quanto in possesso proprio del suo originale.
In tal senso, viene superata la configurazione tradizionale del citato art. 23, comma 2, quale norma dalla valenza meramente probatoria e confinata in un rapporto meramente privatistico, che si riteneva, quindi, inapplicabile in sede di verifiche come quelle in esame, che hanno implicazioni pubblicistiche e non sono nella disponibilità delle parti.
Tale approdo ermeneutico si è reso possibile proprio perché operante – come più volte ripetuto - sul terreno già fertile del principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, secondo una lettura particolarmente attenta ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità, di matrice soprattutto sovranazionale, i quali devono orientare eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale, senza indulgere ad “inutili formalismi”, ma operando per dare concretezza al principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Ma questa operazione ermeneutica coerenziatrice va anche letta come implementazione dello spazio vitale della funzione nomofilattica, perché viene a rafforzare lo statuto del “precedente” nell’ottica valoriale della certezza giuridica e, dunque, rendendolo affidabile criterio e misura della prevedibilità riguardo alla decisione dei casi futuri.
4. Conclusioni
Il descritto contesto impone di affrontare, tra le altre, una sfida impegnativa per la c.d. “nomofilachia informatica”, che – come già in parte evidenziato – viene posta dalla pluralità delle fonti di produzione del diritto di settore (incluso il livello eurounitario), che interagiscono tra loro, esibendo peraltro un diverso rango: primario, secondario, tecnico, quest’ultimo espressione anche di determinazioni amministrative (ad es., i decreti direttoriali del Ministero della Giustizia), la cui posizione, peraltro, è spesso frutto di interventi settoriali e non coordinati, secondo un disegno non sempre armonico, ma dettato sovente da contingenze e urgenze.
Invero, lo stesso CAD, sebbene venga evocato come corpo omogeneo di disposizioni di fonte legislativa con valenza di disciplina generale e di principio, affida la propria attuazione alle c.d “regole tecniche”, ossia ad una disciplina operativa di dettaglio, che, oggi, dopo la modifica dell’art. 71 del medesimo Codice, introdotta dal d.lgs. n. 217 del 2017, sono dettate sotto forma di “Linee guida”, adottate non più in forma regolamentare (con decreto del Presidente del consiglio o di un Ministro delegato), ma direttamente dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), divenendo efficaci non più dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (dove è solo previsto che si dia notizia della loro adozione), bensì dopo la pubblicazione nell’apposita area del sito Internet istituzionale dell’AgID. Ciò che apre ulteriormente alla discussione di come sussumere le “Linee guida” nell’ambito di una gerarchia delle fonti del diritto.
La giustificazione di fondo di tale assetto la si rinviene nel fatto che la flessibilità regolativa della normativa sub-primaria si presenta congeniale all’evoluzione tecnologica di natura prettamente informatica che il sistema del PCT non può ignorare.
Il che, se da una parte consente davvero la flessibilità, per altro verso, come è facile intuire, risulta un fattore di complicazione nell’ambito della regolazione del processo.
Sono i nostri filosofi contemporanei (Severino, Galimberti) ad ammonirci che la tecnologia non è asettica e neutrale, ma fa politica.
Affermazione questa che acutissimo e insigne giurista, come Natalino Irti, ha tradotto evidenziando che privilegiare, secondo una visione prospettica e di risultato, l’una o l’altra opzione regolativa che si affidi anche alla tecnica diventa una “questione di potere”.
Così nel nostro campo: diventa “questione di potere” rendere una certa scelta tecnica (prendiamo ad es. le tipologie di errore nel deposito telematico dell’atto digitale) impediente o meno dell’intervento del giudice all’interno del circuito della verifica processuale.
Nel contesto del PCT, dove fonti che non sono la legge vengono abilitate a regolare aspetti non certo irrilevanti del processo civile, non sembri ultronea la precisazione (che è dato trarre dalla più volte citata sentenza delle Sezioni Unite del settembre del 2018) per cui è necessario che siano i principi generali della legge processuale ad assumere il ruolo privilegiato di fonte interpretativa condizionante la portata della disciplina settoriale.
In altri termini, occorre davvero che la “nomofilachia informatica”, in dialogo con la dottrina (ma anche con le altre giurisdizioni in un’ottica di semplificazione e di armonizzazione della disciplina del processi telematici: passaggio anche questo necessario e da effettuare in tempi stretti), rifletta seriamente su un’actio finium regondorum che misuri con certezza ambiti competenziali e spazi di intervento attraverso la stella polare del “giusto processo regolato dalla legge”, secondo quanto predicato dal secondo comma dell’art. 111 Cost., che deve orientare in modo forte le “regole del gioco”, per non rendere evanescente il nucleo indefettibile del diritto inviolabile della difesa in giudizio.
*Relazione tenuta il 20 aprile 2021 al corso della SSM “Nomofilachia e informatica”
Decisione nel merito della Corte di Cassazione e risarcimento danni ex lege 117 del 1988: tempus fugit...talvolta inconsapevolmente!
di Gian Andrea Chiesi
Cass., Sez. U, 24.11.2020, n. 26672, Pres. Curzio, Est. Scoditti, P.M. Sgroi (Conf.)
In tema di responsabilità civile dei magistrati, nell'ipotesi di domanda di risarcimento per danno attribuito a provvedimento della Corte di cassazione che abbia deciso la causa nel merito, il termine di decadenza di cui all'art. 4, comma 2, della l. n. 117 del 1988 decorre dalla pubblicazione del provvedimento sull'istanza di revocazione ai sensi dell'art. 391-bis c.p.c., anche se dichiarata inammissibile per estraneità al parametro legale dell'errore di fatto, ovvero, se il rimedio della revocazione non sia stato esperito, dal provvedimento asseritamente fonte del danno, salvo, in quest'ultimo caso, la valutazione da parte del giudice dell'azione di responsabilità civile della ricorrenza dei presupposti per proporre la revocazione e, in caso positivo, la dichiarazione di inammissibilità della domanda per mancato esperimento del rimedio di cui all'art. 391-bis c.p.c.
Sommario: 1. Premessa - 2. Sulla natura “elastica” dell’art. 4 l. n. 117 del 1988 - 3. La naturale (in)stabilità della pronunzia di legittimità che decide sul merito - 3.1. (Segue) La “vera” natura della revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c. - 4. Un revirement delle Sezioni Unite?
1. Premessa
Con sentenza 24.11.2020, n. 26672 le Sezioni Unite, confrontandosi con una domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento con cui la Corte di cassazione aveva deciso la causa nel merito, hanno chiarito che il termine di decadenza fissato dall’art. 4, comma 2, della l. n. 117 del 1988 (nella specie, nella versione, applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, lett. a, della l. n. 18 del 2015) per promuovere l’azione di responsabilità decorre (a) dalla pubblicazione del provvedimento reso sull'istanza di revocazione ex art. 391-bis c.p.c. (anche se dichiarata inammissibile, per estraneità al parametro legale dell'errore di fatto) proposta nei confronti del provvedimento asseritamente dannoso ovvero (b) dalla data di pubblicazione di questo, ove il rimedio della revocazione non sia stato esperito, salva, in tal caso, (b1) la valutazione, da parte del giudice dell'azione di responsabilità civile, dell’astratta ricorrenza dei presupposti per proporre la revocazione (con conseguente declaratoria di inammissibilità della domanda, in caso di positivo riscontro, per mancato esperimento del rimedio volto a conseguire “la modifica o la revoca del provvedimento” oggetto di doglianza).
A tali conclusioni la Corte è pervenuta valorizzando, da un lato, (1) l’“elasticità” dell’art. 4 cit. (quale previsione, cioè, “aperta alla variabilità degli strumenti processuali che nel tempo il legislatore modifica o introduce ex novo”), rispetto all’individuazione del dies a quo da considerare, per ritenere “...comunque...non...più possibili la modifica o la revoca del provvedimento” ingenerante il lamentato danno e, dall’altro, nel peculiare contesto delle pronunzie cd. sostitutive della Corte di Cassazione, (2) la natura latamente “endoprocessuale” della revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c.
2. Sulla natura “elastica” dell’art. 4 l. n. 117 del 1988
Procedendo per gradi e muovendo dal primo profilo, l’art. 4, comma 2, chiarisce che l'azione di risarcimento – proponibile, a pena di decadenza entro due anni (poi divenuti tre, a seguito della novella ex lege n. 18 del 2005) dal momento in cui l'azione è esperibile - può essere esercitata “soltanto quando siano stati esauriti i mezzi ordinari di impugnazione” o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e “comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento” ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno.
Invero, nel perimetrarne l’esatto ambito applicativo, già Cass. civ., sez. I, 23.12.1997, n. 13003, evidenziò che la norma, per come è formulata, appare diretta a privilegiare i rimedi endoprocessuali rispetto all'azione risarcitoria (cfr. anche, sul punto, Boccagna, Legge 13 aprile 1988, n. 117, sub art. 4, Competenza e termini, in La responsabilità civile dei magistrati. Commentario alle leggi 13 aprile 1988, n. 117 e 27 febbraio 2015, n. 18, a cura di Auletta, Boccagna e Rascio, Bologna, 2017, 212 ss.), subordinando quest'ultima alla circostanza che il danneggiato abbia attivato i meccanismi predisposti dall'ordinamento per eliminare o, almeno, ridurre il danno: in altri termini l’errore - secondo l’idea di fondo sottesa anche all’originario impianto del codice di rito (cfr. gli artt. 55 e 56) - va corretto “nel” processo (attraverso la rimozione, la più immediata possibile, del provvedimento dannoso e, con esso, in nuce della fonte del danno, mediante gli strumenti processuali che l'ordinamento appresta all’uopo. Cfr. anche Cass. civ., sez. I, 13.12.1996, n. 2186), mentre l’azione risarcitoria “esterna”, attivata con il giudizio di responsabilità rappresenta una extrema ratio.
Ben si comprende, allora, come la Corte, in tale prospettiva “finalistica”osservi che “proprio perché retto da un principio di resilienza dell'ordinamento, che vieta di accedere al rimedio risarcitorio se prima non si è fatto il possibile per eliminare il danno che l'ordinamento stesso ha cagionato mediante il provvedimento giudiziario, l'art. 4 costituisce, alla stregua di una norma c.d. elastica, una valvola di apertura rispetto al mutamento nel corso del tempo dei rimedi esperibili nei confronti dei provvedimenti del giudice": con l’unico limite – derivante dall’interferenza con la disciplina dei termini per l’esperimento di un’azione giudiziaria - della sottoposizione di tali rimedi, inclusi quelli di “nuovo conio,” ad un termine di proponibilità ovvero, comunque, al dato certo dell'impossibilità di modifica o revoca del provvedimento.
3. La naturale (in)stabilità della pronunzia di legittimità che decide sul merito
Risolta tale preliminare questione, la Corte affronta, a valle, il tema del rapporto esistente tra azione risarcitoria ex lege n. 117 e danno ingiusto derivante da un provvedimento della Corte di Cassazione che, cassando la decisione impugnata, abbia poi deciso la causa nel merito, ex art. 384, comma 2, secondo inciso, c.p.c..
Il carattere “paradossale” della vicenda riposa sul rilievo che il danno asseritamente cagionato dal provvedimento del giudice di merito, emendabile “nel” processo attraverso la (auspicata) fisiologica impugnazione (sub specie, per l’appunto, di ricorso per cassazione), è cancellato da un “altro” danno, stavolta provocato da un provvedimento (la decisione della Corte di legittimità, per l’appunto) che, decidendo la causa con effetto sostitutivo della decisione gravata è, al contrario di quello impugnato, dotato del carattere di “tendenziale” definitività e stabilità, divenendo esso stesso - eccezionalmente - regola del caso concreto (cd. cassazione sostitutiva): come a dire...due torti non fanno una ragione!
Definitività e la stabilità, però, solo tendenziali, si diceva, giacché la decisione sul merito è idonea al giudicato ed è irretrattabile, salva (a) l’esperibilità nei confronti della stessa (contrariamente, peraltro, a quanto previsto per le altre decisioni assunte dalla Corte: cfr. Cass. civ., sez. II, 31.5.2016, n. 11236) dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., nonché (b) la sua impugnabilità per revocazione, ex artt. 391-bis e ter c.p.c. (si rinvia, per un approfondimento sul punto, a Sorrentino, La revocazione delle pronunce della Corte di cassazione, in www.cortdicassazione.it).
Orbene, esclusa la rilevanza, ai fini che in questa sede interessano, tanto del primo rimedio suddetto (idoneo a tutelare le ragioni dei terzi e non delle parti coinvolte nel giudizio definito con la sentenza opposta. Arg. da Cass. civ., sez. II, 15.12.2010, n. 25344), quanto della revocazione ex art. 391-ter c.p.c. (siccome non vincolata ad un termine fisso di proposizione e, dunque, inidonea a soddisfare quell’esigenza di certezza richiesta dall’art. 4, comma 2 e di cui si è appena detto), le Sezioni Unite concentrano la propria attenzione sul se e come la revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c. possa interferire con la duplice prescrizione contenuta nell’art. 4, comma 2, cit. ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria e, cioè, con (a) il previo esaurimento di tutti gli strumenti per ottenere la revoca o la modifica del provvedimento “danneggiante” e (b) il rispetto del termine di decadenza biennale (ora triennale).
3.1. (Segue) La “vera” natura della revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c.
Non interessando, per quanto già detto in precedenza, che l’istituto non fosse previsto al momento in cui fu promulgata la l. n. 117, la Corte constata che l'impugnazione di un provvedimento reso da un giudice che ha lo status di Suprema Corte “non appartiene alla logica della formazione del giudicato formale, ma a quella più limitata del conseguimento della stabilità della decisione in funzione di tutela di esigenze costituzionali. La presenza del termine fisso di decorrenza per la proposizione dell'impugnazione non vale dunque a riprodurre nell'ambito dei provvedimenti della Corte di Cassazione la distinzione fra il mezzo ordinario ed il mezzo straordinario, ma serve solo a conciliare, in presenza di errore di fatto, l'esigenza di stabilità della decisione (e di rispetto del giudicato formale nel caso di ricorso per cassazione respinto) con i diritti di difesa e di eguaglianza, lasciando aperta la possibilità di denunciare i vizi occulti nei diversi limiti temporali previsti per la c.d. revocazione straordinaria nel caso della decisione della causa nel merito in quanto atto costitutivo della cosa giudicata in senso sostanziale di cui all'art. 2909 cod. civ.”.
Con la conseguenza che ne discende per cui il rimedio in esame, a dispetto della terminologia usata dal legislatore, si colloca fuori dal perimetro applicativo dell’art. 324 c.p.c., essendo piuttosto espressione di una regola diversa e, in specie, di un’impugnazione non preclusiva del giudicato (e, in tale prospettiva, per ciò stesso “straordinaria”, come osservato anche da Cass. civ., sez. VI-5, 17.9.2015, n. 18300, la quale chiarisce ulteriormente che "la sentenza della Corte di cassazione, dunque, non "passa in giudicato" ma, per mutuare una felice formula dottrinaria, "nasce già formalmente come passata in giudicato"), ma comunque idonea ad incidere sulla stabilità del provvedimento verso cui è rivolta.
Rispetto alle condizioni poste dall’art. 4 della l. n. 117, dunque, la revocazione ex art. 391-bis c.p.c. gioca la propria parte non già sul piano del giudicato quanto, piuttosto, su quello dell’effetto che essa produce e, cioè, della possibilità di “revoca del provvedimento” nei cui confronti è proposta, di rimozione, cioè, entro un determinato termine, del provvedimento asseritamente fonte di danno:“l’'istituto della revocazione per errore di fatto dei provvedimenti della Corte di Cassazione – si legge ancora in motivazione - entra pertanto nell'art. 4 proprio dalla porta della disposizione di chiusura rappresentata dall'inciso «comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento»...Trattandosi della disciplina del termine per proporre l'azione di responsabilità, la «revoca del provvedimento» viene in rilievo, limitatamente all'ipotesi dell'art. 391-bis, come ritiro dal mondo del diritto entro un termine di decadenza...”.
4. Un revirement delle Sezioni Unite?
È, dunque, attraverso l’osservazione e la valorizzazione del fenomeno da un diverso angolo prospettico (cfr. anche Metafora, Responsabilità civile magistrati: ricorso per revocazione e decorrenza del termine per l'azione di responsabilità, in www.ilprocessocivile.it, 5 marzo 2021) che risulta superato l’arresto di Cass., sez. un., 3.5.2019, n. 11747 la quale, al § 6.3 della motivazione (richiamandosi a Cass., sez. VI-3, 14.5.2015, n. 9916), aveva al contrario escluso che la proposizione dell'azione di revocazione fosse idonea ad impedire la decadenza ex art. 4 cit., ritenendo, al contrario, che la proponibilità dell'azione risarcitoria decorresse dal consumarsi del pregiudizio, momento coincidente, in ogni caso, con il passaggio in giudicato della sentenza di rigetto della domanda o del ricorso avanzati dall’asserito danneggiato.
In ipotesi di cassazione cd. sostitutiva, dunque, la domanda risarcitoria ex lege n. 117 del 1988 va proposta, a pena di decadenza, entro tre anni (due anni, secondo la norma applicabile ratione temporis) decorrenti dal momento in cui il procedimento di revocazione ex art. 391-bis c.p.c. promosso avverso il provvedimento asseritamente dannoso è esaurito: tanto, si badi, indipendentemente, precisa la Corte, dalla correttezza dell’attivazione del rimedio, giacché la decisione sull'ammissibilità dello strumento è valutazione che spetta ex post al giudice dell'impugnazione, mentre "il diritto di promuovere l'azione di responsabilità civile, da esercitare entro un termine previsto a pena di decadenza, deve restare ancorato ad un termine certo e prevedibile e non può dipendere dall'evento rappresentato dal tipo di qualificazione che, all'esito del giudizio, opererà il giudice della revocazione". Diversamente, ove la revocazione ex art. 391-bis c.p.c. non sia stata esperita, il termine per la proposizione dell'azione di responsabilità decorre dalla pubblicazione del provvedimento asseritamente fonte del danno, purché, però, in relazione all'illecito denunciato non fosse in astratto proponibile il rimedio revocatorio (e, dunque, non avendo egli da dolersi del vizio alla cui ricorrenza è condizionato quel gravame), non potendo "imputarsi" al danneggiato (nell'ottica dell'esaurimento degli strumenti endoprocessuali) il mancato esperimento dell'impugnazione "naturale" allorché, trattandosi di gravame - come nella specie - a critica vincolata, questa fosse preclusa per difetto dei presupposti e, quindi, "non prevista" o "non più possibile" secondo il disposto dell'art. 4 (arg. da Cass. civ., sez. I, 4.5.2005, n. 9288).
Sull’utilizzabilità in sede disciplinare delle intercettazioni eseguite in sede penale. A proposito delle recenti Sezioni Unite Civili n. 9390/2021.
di Giorgio Spangher
Le Sezioni Unite civili sono chiamate ad affrontare alcune questioni connesse all’uso dei risultati di intercettazioni telefoniche poste a fondamento di un provvedimento di sospensione cautelare dalla funzione e dallo stipendio.
In particolare, con i motivi del ricorso avviato nei confronti dell’ordinanza della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, la difesa eccepiva: a) la violazione dell’art. 270 c.p.p., in relazione all’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quelli in cui le stesse sono state disposte; b) la preclusione per la difesa nel processo ad quem di eccepire la mancanza o l’illegalità dell’autorizzazione disposta nel giudizio a quo; c) l’impossibilità per l’incolpato in sede disciplinare di verificare il reale contenuto delle intercettazioni acquisite in sede penale; d) il difetto in relazione ad alcune specifiche intercettazioni (quelle successive al 22 marzo 2019) del vincolo della connessione di cui all’art. 12 c.p.p., alla luce di quanto precisato dalle Sezioni Unite Cavallo, sempre in tema di utilizzabilità dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse sono state autorizzate.
Se in relazione alle censure sub b) e c) la sentenza agevolmente supera le eccezioni richiamando consolidati orientamenti giurisprudenziali che sono in grado di assicurare ampia tutela alla difesa dell’incolpato al profilo critico coinvolgente le questioni a) e d) meritano una attenzione particolare ancorché la decisione richiami un orientamento consolidato delle Sezioni Unite civili sul punto.
La Corte dopo aver riconosciuto e ribadito che “il procedimento disciplinare a carico dei magistrati ha piena natura giurisdizionale e quindi durante l’intero procedimento devono essere rispettati il diritto di difesa e il principio del contraddittorio”, rigetta le riferite eccezioni (a e d), sulla scorta della ritenuta specialità della procedura de qua orientata all’accertamento penetrante sulla correttezza del comportamento dei magistrati, al fine di alimentare la fiducia dei consociati nell’ordine giudiziario tenuto conto che l’efficacia dell’azione di accertamento e repressione degli illeciti disciplinari trova fondamento nell’art. 105 Cost. in relazione alle funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nel ricercare un fondamento normativo di natura fattuale e processuale, la Corte richiama gli artt. 16 e 18 del d. lgs. n. 109 del 2006.
Con la prima disposizione si stabilisce che “per le attività di indagine si osservano, in quanto compatibili le norme del codice di procedura penale”; con la seconda si dispone che “si osservano in quanto compatibili le norme del codice di procedura penale sul dibattimento”.
In altri termini, il riferimento alla “compatibilità” servirebbe a modulare l’operatività delle norme processuali in relazione alla ricordata specialità dell’oggetto della procedura disciplinare nei confronti dei magistrati. Alle Sezioni Unite non sfuggono che argomentazioni che il tema della segretezza ha assunto nella giurisprudenza costituzionale che seppur risalente resta fondamentale in materia.
Non mancano del resto altre previsioni espresse derogatorie come in tema di prescrizioni varie nella procedura de qua, ma – appunto – sono definite ex lege, ancorché sottendono una tutela specifica della funzione.
In particolare, con la sentenza n. 63 del 1994 si afferma che l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni disposte nell’ambito di un determinato processo limitatamente ai procedimenti diversi, limitatamente all’accertamento di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza risponde all’esigenza di ammettere una deroga alla regola generale del divieto di utilizzazione.
In altri procedimenti, giustificata dall’interesse dell’accertamento di reati di maggiore gravità...la norma che eccezionalmente consente, in casi tassativamente indicati dalla legge,...limitatamente all’accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare allarme sociale.
Si impongono due riflessioni che si integrano tra loro.
In primo luogo, lascia perplessi che una clausola di compatibilità possa incidere su diritti fondamentali a copertura costituzionale, anche perché la stessa previsione non manca di specificare limiti precisi all’azione disciplinare, ed il riferimento agli atti coperti dal segreto (investigativo) non appare suscettibili di allargare il novero degli atti acquisiti, ma solo di quelli legittimi coperti dal segreto.
In secondo luogo, il riferimento al bilanciamento che comunque richiederebbe una specificazione dei reati e dell’autore (magistrato) di cui alla motivazione di C. cost. n. 63 del 1994 andava a fondamento di una espressa “estensione” ritenuta in quel caso legittima e giustificata, ma non prospettava la legittimità di ulteriori bilanciamenti, tutti da verificare nel loro fondamento costituzionale, alla luce di una espressa previsione normativa che la prevedesse.
Infatti, proprio quel passo della decisione prevede che sia il legislatore a fare quell’opera di bilanciamento. Con tutto il rispetto per la Corte di Cassazione, di operazioni di bilanciamento la giurisprudenza costituzionale è rigogliosa, per cui richiamare la sentenza relativa alla questione Ilva-Taranto, non può non suscitare perplessità, in quanto estranea alla materia de qua.
Invero, trattandosi di estensione in malam partem rispetto al dato codicistico la copertura di un diritto costituzionalmente garantito sembra attribuibile al solo legislatore e del resto resta dubbio se la stessa Corte costituzionale possa dare copertura ad un diritto “vivente” così costruito.
Va altresì considerato che per la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la materia disciplinare è considerata Materia penale con tutte le ricadute che ciò determina in materia di riserva di legge oltre agli effetti propri di sistema sanzionatorio.
La transazione fiscale fra giurisdizione e “merito”. Commento a SS. UU. n. 8504/2021
di Matteo Golisano*
Sommario: 1. Premessa: l’arduo temperamento fra i principi fiscali e quelli concorsuali - 2. Il giudice (futuro) munito di giurisdizione in materia di transazione fiscale - 3. Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: un tema mai risolto.
1.Premessa: l’arduo temperamento fra i principi fiscali e quelli concorsuali
La sentenza che si segnala è degna di rilievo per almeno due ordini di ragioni.
In primo luogo, perché rappresenta un punto di rottura rispetto al convincimento cui erano pervenute dottrina e giurisprudenza di merito su un tema, quello dell’impugnabilità del diniego alla transazione fiscale, a fronte del quale neanche la recenti novità di cui al D.L. n. 125/2020[1] sono riuscite a sopire il dibattito ma anzi, come anche testimoniato dai recenti contrasti presenti nella giurisprudenza delle corti territoriali a poco più di tre mesi dall’introduzione, lo hanno viepiù acuito.
Contrasto, questo, dovuto in ultima analisi alla formulazione utilizzata dal legislatore in riferimento all’individuazione delle condizioni fattuali al ricorrere delle quali il tribunale può procedere con l’omologa, esercitando quello che è stato definito il cram down fiscale, pur a fronte della “mancata adesione” determinante dell’Amministrazione[2].
Sotto questo punto di vista, il reale valore dell’Ordinanza non può che essere apprezzato nella sua chiara ambivalenza nella misura in cui, seppur si riferisce evidentemente (e come è ovvio) alla disciplina previgente (ossia prima delle modifiche di cui al D.L. citato) ed oggetto del decisum, al tempo stesso e come traspare dal tessuto motivazionale, ha un occhio proiettato alla disciplina attuale.
Ed è proprio in siffatta prospettiva che allora meglio si possono comprendere sia la scelta di discontinuità rispetto alla propria pregressa giurisprudenza, sia l’apparato motivazionale, certamente non comune, anche solo quanto ad estensione, rispetto alle tradizionali Ordinanze rese in materia di riparto giurisdizionale.
In quest’ottica l’Ordinanza si fa apprezzare e ciò, si badi bene, a prescindere che si intenda condividere l’intero iter argomentativo adottato, per il coraggio nella scelta delle modalità con cui la questione è impostata, prediligendo il campo, quello del dialogo fra principi tributari e principi concorsuali o, se si preferisce, fra la disciplina fiscale e quella fallimentare, un tempo definito, neanche troppo provocatoriamente, come “l’incubo fiscale”[3].
In particolare, la Suprema Corte ribalta il canonico inquadramento della transazione fiscale, da istituto tributario prestato al diritto fallimentare, a istituto fallimentare prestato al diritto tributario, ivi offrendo una pragmatica visione del tema dei rapporti fra le rationes sottese alle rispettive branche del diritto, dove la ratio concorsuale lato sensu intesa viene in qualche misura sovraordinata rispetto alla ratio tributaria, in quanto intesa come frutto di un complessivo bilanciamento costituzionalmente operato dal legislatore[4].
Venendo ora al secondo ordine di ragioni per le quali l’ordinanza si fa apprezzare, anche solo ad un esame superficiale questa si mostra sin da subito gravida di implicazioni sistematiche.
Si collocano in questo solco, per quel che qui più interessa:
a) le affermazioni in punto di estensione (implicita) del giudizio di omologazione, in generale, e del giudizio di omologazione negli accordi di ristrutturazione, in particolare;
b) le affermazioni in punto di (in)disponibilità della pretesa tributaria.
2. Il giudice (futuro) munito di giurisdizione in materia di transazione fiscale
Prima di approfondire brevemente i temi sopra evidenziati, risulta particolarmente utile l’inquadramento del contesto entro il quale l’ordinanza va a collocarsi.
Il caso di specie è dei più semplici e numericamente più ricorrenti nella prassi applicativa: una proposta di transazione fiscale veniva presentata nell’ambito delle trattative che precedono la stipula degli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis l.f. e veniva rigettata dall’Amministrazione Finanziaria.
Il contribuente impugnava tale diniego dinanzi al giudice tributario riconducendolo, in via interpretativa, al diniego di definizione agevolata ex art. 19, lettera h), D. Lgs. n. 546/1992.
L’Agenzia delle entrate proponeva quindi un regolamento preventivo di giurisdizione ivi sostenendo la giurisdizione del giudice fallimentare.
L’esito, piuttosto scontato, sarebbe stato quindi nel senso dell’affermazione della giurisdizione del giudice tributario, in quanto non solo perché in linea con la propria pregressa giurisprudenza e con le conclusioni della Procura ma, altresì, perché conforme all’orientamento maggioritario della dottrina e della giurisprudenza tributaria ed amministrativa[5].
Maggiormente nel dettaglio, dopo una prima stagione in cui sia parte della dottrina sia parte della giurisprudenza amministrativa hanno tentato di affermare la giurisdizione del giudice amministrativo[6], queste si sono successivamente orientate, pure a fronte del passaggio frattanto intervenuto dalla transazione sui ruoli alla transazione fiscale ex art. 182 ter l.f., verso la giurisdizione del giudice tributario[7].
Tale modifica di approccio, in particolare e sintetizzando, è stata dovuta a tre concomitanti ordini di ragioni:
1) per un verso, alla valorizzazione della giurisdizione tributaria, successivamente alle modifiche apportata dalla L. n. 448/2001, quale giurisdizione esclusiva per materia ma limitata per funzione, tale per cui è irrilevante la posizione giuridica vantata dal privato;
2) per altro verso, al riscontrato e perdurante vuoto di tutela della posizione del contribuente a fronte del diniego illegittimo dell’Amministrazione;
3) per altro verso ancora ed in via preponderante, alla riscontrata incapacità della giurisdizione ordinaria, in specie nella sua declinazione fallimentare, ad apprestare adeguata tutela.
Tralasciando il primo profilo in quanto, allo stato, dato pacifico ed iniziando l’analisi dal secondo, pur se appariva condivisibile la posizione di chi[8], anzitempo, aveva ritenuto che l’illegittimità del diniego dell’amministrazione non fosse apprezzabile singolarmente in quanto la determinazione della stessa (almeno per il concordato) non sarebbe stata diretta in via immediata al contribuente, ma al contrario si sarebbe inserita quale componente della più ampia determinazione del ceto creditorio, poi condensatesi nell’approvazione o nel rigetto della proposta, allo stesso tempo era innegabile che, nell’ipotesi in cui il voto dell’erario fosse determinante per l’approvazione della proposta, il contribuente vantasse una posizione giuridica degna di tutela affinché il creditore pubblico assumesse la propria determinazione in conformità ai criteri normativi.
Tanto era imposto dall’impossibilità di predicare una totale parificazione tra creditore pubblico e creditore privato, ciò in quanto le determinazioni del primo, a prescindere dalla peculiare funzione amministrativa che si intendesse individuare, vincolata o discrezionale, non poteva in nessun caso dirsi libera nel fine, ma al contrario pur sempre vincolata alla tutela di uno specifico interesse pubblico e, nella specie, dell’interesse fiscale.
Conseguentemente, la determinazione dell’amministrazione, pur se solo partecipando alla formazione della più ampia volontà del ceto creditorio nell’ambito dell’approvazione o del rigetto della proposta, per ciò solo non poteva dirsi perdere la propria individualità.
Conclusione, detta ultima, a maggior ragione valevole per gli accordi di ristrutturazione dei debiti laddove la genetica dell’effetto era da rapportarsi, almeno sino alle recenti modifiche, le quali parrebbero aver anche inciso su tale profilo[9], all’accordo raggiunto con i singoli creditori più che al giudizio di omologa.
L’intensità con cui tale posizione poteva dipoi essere tutelata, variava evidentemente in ragione della differente opzione concettuale assunta, a monte, in ordine alla funzione esercitata dall’Amministrazione finanziaria: confinata entro i limiti dell’eccesso di potere, ove la funzione fosse ricondotta ad un’attività di tipo discrezionale, estesa all’accertamento del fatto ed alla sua sussunzione e, quindi ed in ultimo, alla produzione dell’effetto, ove la funzione fosse ricondotta ad un’attività di tipo vincolato.
Ciò posto e spostandoci sul terzo profilo, i tentativi di ricondurre la giurisdizione nell’alveo del giudice ordinario (fallimentare) pure proposte, in particolare dall’Amministrazione[10], si sono dimostrate del tutto inadeguate in quanto non di vera tutela si sarebbe trattato, nemmeno nella sua configurazione rimediale, giusta la specifica sede in cui il contribuente avrebbe potuto manifestare le proprie lagnanze, nella specie individuato nel solo giudizio relativo al reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento[11].
Detto altrimenti, l’affermazione del giudice tributario, se sicuramente è stata dovuta anche alla valorizzazione della transazione fiscale quale strumento, seppur sui generis, pur sempre innestantesi nella fase di riscossione (e, per i tributi non ancora iscritti a ruolo, anche in quella di accertamento) del tributo, deve la propria fortuna principalmente all’incapacità dell’ordinamento fallimentare di apprestare una vera forma di tutela, neanche indiretta.
È in un siffatto contesto che si colloca la Suprema Corte con la sua terza via, la cui novità sta dunque non già e non tanto per il plesso giudiziario cui viene riconosciuta la giurisdizione, in quanto quella del giudice fallimentare è stata, come visto, una via interpretativa già prospettata dalla prassi amministrativa, quanto e piuttosto per la sede propria in cui siffatto giudice dovrebbe conoscere della relativa domanda (rectius questione), nella specie rappresentato dal giudizio di omologa.
Ed infatti, la menzionata inadeguatezza dell’ordinamento fallimentare era per lo più dovuta ai limiti propri del giudizio di omologa all’interno del quale i poteri del tribunale, per unanime convincimento e sia pure a fronte delle diversità strutturali esistenti fra il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione, si sarebbero al più potuti tradurre, sia pure nella loro massima estensione prospettata dalla dottrina[12], nel c.d. “controllo di merito”, ossia in una verifica non solo astratta bensì concreta circa la fattibilità del piano e degli altri requisiti richiesti dalla legge[13], ma giammai si sarebbero potuti estendere nel senso di modificare e/o sostituire la determinazione assunta dal creditore pubblico (o da qualunque altro creditore)[14], stante la base consensuale caratterizzante, sebbene con intensità differenti, sia il concordato preventivo che gli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Ragioni, queste, che in tempi meno recenti avevano infatti portato parte della dottrina[15] ad auspicare un intervento di riforma, in ultimo operato dal legislatore attraverso il D.L. n. 125/2020, oggi prevedendosi espressamente che il Tribunale possa procedere con l’omologa, al ricorrere di determinate condizioni, pur a fronte della “mancata adesione” determinante dell’Amministrazione, così di fatto anticipando il contenuto dell’art. 48, co. 5, del nuovo codice della crisi e dell’insolvenza.
Ed allora i profili di immediata rilevanza della ordinanza in commento sono almeno due:
a) per un verso, la Suprema Corte parrebbe interpretare siffatto intervento di riforma alla stregua della mera specificazione, in quanto tale facoltà sarebbe già rientrata nell’ambito delle competenze « “omologatone” generali»[16] del tribunale;
b) per altro verso ed a prescindere dall’affermazione di cui sopra che, siamo sicuri, alimenterà i futuri dibattiti, la rilevanza della pronuncia si manifesta, come detto, non già e non tanto per il passato (rectius per tutti quei casi ancora regolati dal testo previgente alla modifica ed ormai destinati ad esaurirsi), quanto e piuttosto per il futuro.
Ed infatti, la circostanza che la Suprema Corte affronti espressamente il caso del rigetto espresso, e che il potere di intervento del tribunale sia ricondotto nei poteri di omologazione generali (e ciò a prescindere che lo si voglia collocare quale forma di controllo di esercizio del potere – come suggerito dall’ordinanza[17] – ovvero di intervento sostitutivo o concorrente, come anche recentemente prospettato in dottrina[18]), sembra decisamente militare nel senso dell’interpretazione estensiva proposta da talune corti territoriali in ordine all’attuale testo degli artt. 180 e 182bis l.f., così da ricomprendere nel concetto di “mancata adesione” non solo i casi di inerzia dell’Amministrazione, ma anche, e soprattutto, quelli di diniego espresso.
In questo senso, parrebbe quindi che la Suprema Corte più che risolvere il problema del riparto giurisdizionale a fronte del dato normativo ante riforma, abbia comprensibilmente inteso limitare, in una chiara ottica nomofilattica, le possibilità di un contrasto giurisprudenziale fra le diverse corti di merito in riferimento alla normativa attualmente vigente, rendendo sin da subito palese la propria posizione sul punto, ed evitando al contempo il rischio che potesse assegnarsi alla presenza del rigetto espresso la funzione di “selettore” fra la giurisdizione ordinaria (fallimentare) e quella tributaria.
3. Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: un tema mai risolto
Così brevemente analizzato l’impatto diretto che l’ordinanza parrebbe produrre sul profilo dell’impugnabilità del diniego a fronte di un’istanza di transazione fiscale ed il substrato teorico entro il quale lo stesso si colloca, il tessuto motivazionale si presta, lo si è anticipato, ad una valorizzazione anche di più ampio respiro che in qualche misura travalichi i confini propri dell’istituto interessato.
Ci si riferisce, in particolare, agli obiter contenuti nel testo della decisione, i quali ripropongono al centro del dibattito un tema, quello dell’indisponibilità della pretesa tributaria, che affatica dottrina e giurisprudenza da oltre un secolo.
Pur senza poter essere questa la sede per esaminare funditus un profilo tanto complesso, sul quale si sono peraltro confrontate le menti più brillanti della materia, appare comunque utile tentare di fornire delle coordinate minime di sistema le quali, se debitamente storicizzate, consentono di meglio inquadrare le affermazioni dell’Ordinanza commentata.
È noto come tracce del dibattito dottrinale attorno al tema dell’indisponibilità della pretesa siano rinvenibili già in epoca pre-costituzionale laddove il riferimento normativo di siffatto principio veniva ricondotto ora agli artt. 25 e 35 dello Statuto Albertino, ora agli artt. 13, del R.D. n. 3269/1923 e 49 del R.D. n. 827/1924.
Ben presto tali riferimenti vennero però ritenuti insufficienti in quanto rappresentanti, al più, una testimonianza esteriore del principio, piuttosto che il fondamento normativo dello stesso[19].
Conseguentemente, l’indisponibilità veniva ricollegata alle caratteristiche intrinseche dell’obbligazione tributaria, configurandosi come un attributo consustanziale della stessa o, se si preferisce, quale conseguenza indefettibile della origine pubblicistica del fenomeno.
Per tale via, prefigurando una scissione fra il concetto di potestà impositiva (rectius il “diritto di supremazia tributaria”[20]) e singola obbligazione, l’indisponibilità sarebbe stata un predicato ora solo della prima[21], ora anche della seconda[22].
Ma anche per tale ultima impostazione, l’affermata indisponibilità della pretesa avrebbe avuto un valore solo relativo, ciò in quanto tale predicato altro non avrebbe rappresentato che la conseguenza dell’essere l’obbligazione d’imposta un’obbligazione ex lege, sicché la stessa legge tributaria sarebbe stata in condizione di disporre liberamente della medesima, nel senso che questa ben avrebbe potuto stabilire esenzioni, totali o parziali, a favore di coloro che si fossero trovati in una determinata condizione.
In epoca più recente, complici la distinzione frattanto maturata fra Stato-sovrano e Stato-amministrazione ed il nuovo modo di intendere il fenomeno tributario, con la conseguente transizione da un modello di carattere schiettamente autoritativo ad uno più marcatamente improntato ad una logica collaborativa di attuazione del tributo[23], ed in disparte le difficoltà, comunque presenti, di individuare i confini propri del concetto di indisponibilità[24], la dottrina si è riorientata in due diversi correnti principali:
a) una prima che, sebbene attraverso ricostruzioni molto differenti tra loro, ritiene tale principio cogente e di diretta derivazione costituzionale;
b) una seconda la quale, sulla base di constatazioni di fatto[25] sul moderno ordinamento tributario[26], nega l’esistenza del principio di indisponibilità o, comunque, la sua copertura costituzionale.
Approfondendo brevemente le singole prospettazioni, e scusandoci sin d’ora per il grado di approssimazione che qualunque categorizzazione comporta, la prima impostazione può essere a sua volta utilmente suddivisa secondo tre diversi ordini di argomentazioni principali in funzione del diverso fondamento, pur sempre costituzionale, assunto quale riferimento.
Più nel dettaglio secondo la prima impostazione[27], maggiormente sostenuta in dottrina[28], dovrebbe essere debitamente valorizzata la funzione di riparto[29] svolta dall’imposta la quale comporterebbe l’impossibilità di ricondurre il fenomeno impositivo ad una semplice rapporto dare-avere tra ente pubblico creditore e contribuente debitore.
Ed infatti, in tale ricostruzione si svaluterebbe l’altro aspetto del fenomeno impositivo, rappresentato dal rapporto intercorrente tra singoli contribuenti, pacificamente non riconducibile al modello dare-avere, condensantesi al contrario nella pretesa di ciascun contribuente a un equo riparto del carico pubblico.
Cosicché, rievocando la categoria smithiana[30], la fiscalità statale viene concettualmente accostata a quella del condominio: “Se uno dei condomini paga meno del dovuto o non paga affatto, rimanendo inalterato l’ammontare delle spese condominiali, l’inadempienza si ripercuote a danno degli altri condomini”[31], talché ogni forma di esenzione concessa a taluno si riverserebbe in senso negativo su talaltro[32].
Proprio in tale ultima ottica, si riuscirebbe a comprendere il fenomeno dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria.
A differenza che nel diritto privato, in questo caso il titolare del diritto non avrebbe la relativa disponibilità per via della circostanza che l’intera vicenda non riguarderebbe lui soltanto, dovendosi intendere il credito vantato non già nella sua singolarità, ma come quota, il cui mancato incasso andrebbe a gravare in senso negativo sugli altri consociati[33].
Così correttamente inteso il fenomeno tributario e, soprattutto, la funzione impositiva, i referenti costituzionali cui si dovrebbe guardare sarebbero gli artt. 2, 3 e 53 Cost., definiti congiuntamente come principi di “giusta imposta”[34].
In ragione dei richiamati principi il legislatore sarebbe in primo luogo obbligato ad assumere, quale fatto generatore la contribuzione, soltanto fatti espressivi di capacità economica[35].
In secondo luogo, sarebbe obbligato ad imputare la capacità economica così manifestata soltanto al soggetto che ne sia l’effettivo possessore “andando a tramutare l’indice di ricchezza, che nella sua realtà materiale è fatto neutrale, in indice di idoneità alla contribuzione del singolo soggetto”[36].
In terzo ed ultimo luogo, il legislatore dovrebbe rispettare il principio di universalità del dovere di partecipare al concorso, dovere che viene così ricondotto al precetto contenuto nell’art. 53 Cost. e comportante la nascita in capo a tutti i consociati di altrettanti diritti pubblici soggettivi a che l’imposta venga ripartita in ottemperanza delle regole di riparto non modificabili ex post dal legislatore.
A tale impostazione, sempre muovendo dal ruolo di centralità che l’art. 53 Cost. assume in seno all’ordinamento tributario, se ne è dipoi accompagnata un’altra[37] dal carattere per così dire maggiormente flessibile o, se si preferisce, relativo.
Più nel dettaglio, attraverso una differente enfatizzazione del principio egalitario presente all’interno nell’art. 53 Cost., in uno con una rimodulazione dell’importanza della funzione di riparto svolta dall’imposta, si è sostenuto come questo in realtà tuteli solo l’uniformità del trattamento senza incidere direttamente sugli indici di riparto.
Detto altrimenti, verrebbe impedito un trattamento tributario difforme rispetto a situazioni uguali, ma non vi sarebbe una correlazione diretta rispetto ai procedimenti di determinazione dell’obbligazione tributaria[38].
Quale immediata conseguenza del mutamento di prospettiva, vi sarebbe la possibilità per il legislatore di attribuire all’Amministrazione poteri lato sensu dispositivi in ordine al credito tributario.
Ed infatti, il principio di capacità contributiva, ed il relativo principio di indisponibilità che del primo altro non sarebbe che il riflesso, impedirebbe solo di riconoscere all’Amministrazione poteri discrezionali da esercitare nei singoli casi, andando così a differenziare in concreto le imposizioni.
Tale principio, quindi, sarebbe non già assoluto ma relativo, dovendosi conciliare con le altre istanze legittimamente presenti quali, in ipotesi, le esigenze di certezza e sollecitudine della riscossione in quanto anch’esse costituzionalmente tutelate[39].
Sempre all’interno di tale filone di pensiero, una notazione a sé merita poi quella parte della dottrina[40] che, pur muovendo dalla centrale funzione di riparto che assolve l’imposta, ha ritenuto imprescindibile adottare un approccio meno dogmatico e più sostanzialista che tenga conto dei differenti ambiti, quello dell’accertamento e quello della riscossione, in cui si concretizza la realizzazione del credito d’imposta.
Detto altrimenti, sarebbe necessario adottare un’impostazione che “valorizzi il collegamento tra questo (il principio di indisponibilità ndr.) ed il suo rilievo nel contesto dell’esercizio della funzione impositiva” così valorizzandone le differenti reciproche interferenze.
Per questa via, attraverso una marcata valorizzazione delle diversità sussistenti fra i due momenti in cui la funzione impositiva trova estrinsecazione, quella di accertamento e quella di riscossione, la funzione di riparto viene ricondotta alla prima e non anche alla seconda.
Così opinando, risulterebbero quindi valorizzabili esigenze di celerità e speditezza nell’acquisizione del prelievo, a loro volta espressioni del più generale concetto di interesse fiscale[41], rendendosi possibile incidere, almeno secondo talune elaborazioni[42], anche sui profili relativi all’an e al quantum del tributo.
Argomentazione, questa, in parte condivisa dalle diverse ricostruzioni tendenti ad individuare il referente costituzionale dell’indisponibilità della pretesa fiscale nell’art. 23 Cost.[43], per le quali il referente dell’art. 53 Cost. sarebbe inadeguato giacché, sostanzialmente e semplificando, non limiterebbe affatto le facoltà dispositive, quanto e piuttosto imporrebbe che l’eventuale potere dispositivo sia esercitato nell’interesse della comunità e nel rispetto del criterio progressivo in esso consacrato, limitando così le scelte operabili dal legislatore entro limiti di razionalità e coerenza.
In un simile contesto, l’unico referente sicuro potrebbe allora essere individuato nella riserva di legge, la quale assolverebbe in subiecta materia una fondamentale funzione di garanzia sotto un duplice profilo: di salvaguardia della sfera di libertà personale e patrimoniale del privato da interventi autoritativi dell’Amministrazione, per un verso, e di tutela degli interessi pubblici sottesi alle prestazioni patrimoniali imposte, per altro verso.
Stante la natura della riserva di legge in discorso, il principio di indisponibilità viene per tale via “relativizzato”, non escludendosi a priori la possibilità di poteri dispositivi del credito, a tal fine richiedendosi semplicemente una sufficiente base legislativa ogniqualvolta si voglia incidere su doverosità ed entità della prestazione tributaria.
Detto altrimenti, il potere di disporre dell’obbligazione tributaria sussisterebbe tutte le volte in cui il titolare di detta potestà abbia il potere, perché conferitogli dalla legge, di decidere se e come esercitarla, ossia abbia il potere di effettuare una ponderazione tra i distinti interessi in gioco.
Secondo una terza e differente impostazione[44] l’indisponibilità della pretesa troverebbe la propria fonte genetica nel principio di imparzialità racchiuso nell’art. 97 Cost. o, più precisamente, nella proiezione egalitaria dell’art. 3 Cost. contenuta nell’art. 97 Cost. e, quindi, nella necessità (rectius dovere) di trattare in maniera simile posizioni simili.
In un simile contesto, le difficoltà che si riscontrano nel configurare un concreto potere dispositivo, sarebbero allora da ricollegarsi a mere circostanze fattuali e, più nel dettaglio, alle difficoltà di delineare i presupposti ai quali l’Amministrazione si dovrebbe attenere nell’esercizio di siffatto potere e, ancor di più, a causa delle difficoltà di contemperare eventuali profili dispositivi con il necessario rispetto del principio di imparzialità e trasparenza, che in ambito tributario non tollererebbero compressione alcuna[45].
Sul versante diametralmente opposto si collocano invece quelle teorie[46] le quali, pur muovendo dalla medesima distinzione tra potere impositivo e singola obbligazione tributaria, e quindi dalla assoluta impossibilità di aversi il trasferimento ovvero rinuncia relativamente al primo, negano la sussistenza del principio di indisponibilità allorquando, al contrario, si passi ad analizzare il singolo rapporto obbligatorio d’imposta.
Maggiormente nel dettaglio, secondo tali prospettazioni si dovrebbe partire da due considerazioni di fondo: la prima, legata a constatazioni di fatto e relative all’analisi, qualitativa e quantitativa, delle ipotesi in cui tale principio non verrebbe rispettato e/o derogato, la seconda relativa all’insufficienza di tutte le disposizioni normative di volta in volta richiamate onde fondarne il referente positivo.
In tale prospettiva, quindi, l’indice dell’assenza nell’ordinamento del principio di indisponibilità sarebbe da rinvenirsi proprio in tutte quelle previsioni normative (accertamento con adesione; conciliazione giudiziale; transazione fiscale; fattispecie condonistiche) che a vario titolo ne costituirebbero una deroga[47].
A tale rilevazione seguirebbe quindi l’impossibilità di rintracciare una norma, ora costituzionale, ora ordinaria, che ne funga da riferimento.
Ed infatti, escluso a priori che si possa volgere lo sguardo a norme di rango ordinario, tutti i referenti costituzionali individuati sarebbero comunque inadeguati allo scopo.
Approfondendo l’analisi, anzitutto il richiamato all’art. 23 Cost., sarebbe inappropriato sotto un duplice profilo.
Il primo, derivante dall’aver erroneamente ricondotto l’inammissibilità di atti dispositivi alla più generale inaccessibilità per l’Amministrazione ad una sfera riservata al legislatore (rectius, la determinazione della fattispecie d’imposta), in quanto l’ambito garantistico dell’art. 23 Cost. si risolverebbe nella sola declinazione della coattività, non potendo al contrario afferire al tema dell’ammissibilità degli atti di disposizione del credito tributario.
Il secondo, dato dall’estraneità del richiamo ad eventuali poteri discrezionali in capo all’Amministrazione, in quanto l’ipotetico atto dispositivo compiuto pur a fronte di un’attività in ipotesi interamente vincolata, si dovrebbe risolvere nella responsabilità dei funzionari pubblici per gli atti di disposizione effettuati e non già nell’invalidità dell’atto stesso.
Tale ultima obiezione, peraltro, varrebbe anche nei confronti delle impostazione che vuole quale copertura costituzionale del principio di indisponibilità l’art. 97 Cost.
In particolar modo, riconducendo l’indisponibilità dell’obbligazione tributaria al principio di imparzialità s’incorrerebbe in “un evidente slittamento dei piani da quello dell’essere a quello del dover essere, postulandosi un rapporto di derivazione nient’affatto necessitato”[48].
In parte più complessa, appare invece la critica che viene mossa alle ricostruzioni fondate sull’art. 53 Cost.[49]
Come visto, il tratto accomunante tutte le ricostruzioni facenti perno su tale referente normativo è, in ultima analisi, la funzione di riparto propria della fattispecie d’imposta, venendo questa ad implicare, a seguito della verificazione del presupposto e quindi della manifestazione di capacità contributiva cui la tassazione è ricollegata, non solo la nascita di rapporti c.d. interni tra Stato e contribuente ma, altresì, di rapporti c.d. esterni tra il singolo contribuente e tutti gli altri consociati.
Ebbene, secondo la tesi qui riportata, l’art. 53 Cost. non si riferirebbe affatto alle vicende attinenti ai singoli rapporti d’imposta e ciò per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, perché l’idea della sussistenza di un diritto inviolabile ed indisponibile alla tassazione a fronte della manifestazione di capacità contributiva, sarebbe oggi smentita dall’istituto dell’accollo previsto dall’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente.
In secondo luogo, l’idea della sussistenza di una “quotità”, ovvero l’idea di individuare nel singolo rapporto d’imposta non un fenomeno ex se ma parte di un più ampio rapporto, non terrebbe conto del fatto che per l’Amministrazione l’eventuale rinuncia a singole frazioni ben potrebbe essere più vantaggiosa rispetto ad un ipotetico contenzioso giudiziale risolvibile sfavorevolmente per l’Erario.
In definitiva, bisognerebbe quindi ribaltare la premessa logica da cui è consueto muovere.
In questo senso, tutte le varie norme che in qualche misura sembrano presupporre un potere dispositivo non andrebbero lette come deroghe al principio, bensì come manifestazione esplicita del principio diametralmente opposto[50], ossia della assoluta disponibilità dell’obbligazione tributaria o, al più, quali mere ipotesi latu sensu autorizzatorie[51].
4.Conclusioni: l’intima coerenza dell’ordinanza n.8504/2021
Ciò posto a livello di analisi dottrinale, l’ordinanza in commento si inserisce in siffatto complesso dibattitto propendendo marcatamente per la ricostruzione intermedia, così declinando il principio di indisponibilità, per un verso, quale principio effettivamente esistente nel nostro ordinamento ma, per altro verso, in termini per l’appunto relativi, giusta la possibilità di una sua deroga legislativa.
Dal tessuto motivazionale non risulta chiaro – perché in realtà profilo inconferente rispetto al decisum – quale sia l’intensità con cui siffatta relatività venga intesa.
Se, cioè, la norma derogatoria debba necessariamente predeterminare limiti e contenuti del potere dispositivo in termini precisi, ovvero se tale determinazione possa essere rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione.
Cionondimeno tale funzione derogatoria viene esplicitamente attribuita alla transazione fiscale, ivi individuando un effettivo momento dispositivo del rapporto tributario.
A prescindere dalla condivisibilità di tale affermazione, potendosi al contrario anche argomentare che nell’istituto sia assente qualsivoglia profilo dispositivo giusta le condizioni normative cui è subordinata la falcidia del credito tributario[52], il ragionamento della Corte si presenta intimamente coerente rispetto alle premesse di partenza.
Ed infatti, al menzionato profilo dispositivo la Suprema Corte, correttamente, ricollega l’emersione di una funzione amministrativa discrezionale, riconoscendo in tal modo il rapporto biunivoco[53] che lega il profilo della indisponibilità con quello della funzione amministrativa, essendo impossibile predicare una funzione vincolata non associandola ad una indisponibilità della pretesa (indipendentemente che poi tale indisponibilità sia derivata dalla legge, dalla Costituzione o dal sistema), così come è impossibile predicare una funzione discrezionale non associandola al contempo ad un potere di disposizione del relativo diritto.
*Assegnista di Ricerca presso la Luiss Guido Carli
[1] Le quali, sostanzialmente, hanno anticipato le modifiche apportate all’istituto della transazione fiscale (rectius al giudizio di omologa) previste dal Nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza di cui al D. Lgs. n. 14/2019.
[2] Nella specie si discute se, nel concetto di “mancata adesione” previsto nell’attuale testo degli artt. 180 e 182bis l.f. debba essere ricompreso solo l’ipotesi del silenzio o anche il diniego espresso.
[3] La citazione è chiaramente riferita al Provinciali, il quale utilizzava l’espressione per indicare le criticità originantesi dalle difficoltà di coordinamento fra le due branche del diritto. R. Provinciali, Il processo di fallimento sotto l’incubo fiscale, in Dir. Fall., 1958, I, 58 e ss.. In generale, sul tema dei rapporti fra procedure concorsuali e diritto tributario, per tutti si v.: A. Fantozzi, Considerazioni generali sui profili fiscali delle procedure concorsuali e sul rapporto tra par condicio creditorum, interesse fiscale ed altri interessi diffusi, in Piccini – Panzani – Severini (diretto da), Il fallimento e le altre procedure concorsuali, VI, Torino, 2012, 417 e ss.; M. Esposito, Riflessioni critiche sui rapporti tra diritto tributario e diritto civile alla stregua dei principi costituzionali (muovendo da alcune incongruenze nella disciplina fiscale delle procedure concorsuali), in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, 3 e ss.; nonché da ultimo F. Paparella, Il rapporto tra diritto tributario e diritto fallimentare nel pensiero di Augusto Fantozzi, in Saggi in ricordo di Augusto Fantozzi, Pisa, 2020, 397 e ss..
[4] Conclusione, detta ultima, collocantesi in termini sintonici rispetto a quanto prospettato da acuta dottrina in riferimento al nuovo codice della crisi e dell’insolvenza. Sul punto di v. G. Fransoni, Codice della crisi d’impresa e privilegi fiscali: rivoluzionarie novità?, in Rass. Trib., 2019, 247 e ss..
[5] In aggiunta alla giurisprudenza richiamata in seno all’Ordinanza si v., altresì: Consiglio di Stato, n. 4021/2016.
[6] Tale conclusioni venivano peraltro sostenute mediante due percorsi argomentativi non coincidenti. Secondo una prima prospettiva, la giurisdizione del giudice amministrativo sarebbe stata la conseguenza della peculiare posizione vantata dal privato, nella specie declinata nei termini dell’interesse legittimo. Per ciò che, essendo al tempo diffuso il convincimento per il quale anche la giurisdizione tributaria dovesse essere individuata non già e non solo in funzione della materia oggetto della lite, quanto e piuttosto, dal tipo di posizione giuridica soggettiva vantata dal contribuente, ove questa fosse stata di interesse legittimo la giurisdizione doveva essere necessariamente riconosciuta al giudice amministrativo. Secondo un diverso percorso argomentativo, si individuava la giurisdizione del giudice amministrativo non già e non tanto in virtù della posizione giuridica presente in capo al contribuente, anzi espressamente ritenuta inidonea a fondare un riparto giurisdizionale, quanto e piuttosto per i limiti intrinseci della giurisdizione tributaria e, più nel dettaglio, per il limite c.d. esterno rappresentato – almeno secondo l’interpretazione “piana” dell’art. 2, d.lgs. n. 546/1992 al tempo prevalente – dalla notifica (intesa come fatto materiale) della cartella di pagamento. Per tali orientamenti si v.: L. Magnani, La transazione fiscale, in G. Schiano Di Pepe (a cura di), Il diritto fallimentare riformato, Padova, 2007, 773 e ss.; E. Grassi, Transazione fiscale e indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Il Fisco, 52 e ss.; M. Basilavecchia, La transazione sui ruoli, in Corr. Trib., 2005, 1217 e ss.; Parere del Consiglio di Stato n. 526 del 2004.
[7] Sotto il vigore della transazione fiscale hanno aderito a tale orientamento, tra gli altri: G. Marini, La transazione fiscale: profili procedimentali e processuali, in F. Paparella, (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, 678 e ss.; Id., La transazione fiscale, in Rass. Trib., 2010, 1193 e ss.; G. Verna, I nuovi accordi di ristrutturazione, in S. Ambrosini (a cura di), Le nuove procedure concorsuali dalla riforma “organica” al decreto “correttivo”, Bologna, 2008, 593 e ss.; M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 251; L. Del Federico, La nuova transazione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali, in Riv. Dir. Trib., 2008, 234 e ss.; V. Ficari, Riflessioni su “transazione” fiscale e “ristrutturazione” dei debiti tributari, in Rass. Trib., 2009, 75 e ss.; S. Lo Conte, La tutela giurisdizionale del debitore nell’ambito della transazione fiscale, in A. Caifa (a cura di), Le procedure concorsuali nel muovo diritto fallimentare, Torino, 2009, 700 e ss.; E. Stasi, Impugnabilità del diniego alla transazione fiscale – Transazione fiscale – La transazione fiscale dal punto di vista del giudice tributario, in Il Fall., 2014, 1222 e ss.; C. Attardi, Transazione fiscale: questioni procedurali, effetti sui crediti e sulla tutela giurisdizionale, in Il Fisco, 2017, 4448. Sebbene si mostri dubbioso, aderisce a questo orientamento anche: M. Basilavecchia, L’azione impositiva nelle procedure concorsuali: il caso della transazione fiscale, in Studi in onore di E. De Mita, Napoli, 2012, 72 e ss..
[8] La posizione è stata sostenuta, sebbene con sfaccettature differenti da: L. Tosi, La transazione fiscale, in Rass. Trib., 2006, 1083 e ss.; F. Randazzo, Il “consolidamento” del debito tributario nella transazione fiscale, in Riv. Dir. Trib., 2008, 825 e ss.; G. Gaffuri, Aspetti problematici della transazione fiscale, in Rass. Trib., 2011, 1124 e ss..
[9] Per un approfondimento della questione sia consentito rinviare a: M. Golisano, La nuova “transazione fiscale” dell’art. 63 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: fra nuove difficoltà interpretative, inediti poteri sostitutivi e definitive conferme circa la vincolatezza della funzione esercitata, in Riv. Trib. Dir. Trib., 2019, 499 e ss..
[10] Cfr. Circ. n. 15/E del 2018, par. 2.2 per la quale: «In definitiva, deve ritenersi che, nel caso di mancata raggiungimento della maggioranza per l’approvazione del concordato e di successiva dichiarazione di fallimento, il debitore e gli altri creditori potranno tutelare la propria posizione mediante la proposizione del reclamo di cui all’art. 18 L.F.”.
[11] Ed infatti, l’idea di tutela proposta si poneva sempre e comunque a valle dell’intera procedura concorsuale, presupponendosi l’intervenuto fallimento.
In un simile contesto, l’eventuale doglianza in ordine alla legittimità del voto, sarebbe valsa al più ad evitare il fallimento e quindi si sarebbe collocata in maniera del tutto incidentale rispetto all’illegittimità del voto, essendo il petitum immediato rappresentato dall’accertamento dell’astratta ammissibilità del concordato preventivo e non già dalla legittimità della determinazione assunta dall’Amministrazione finanziaria.
[12] Sul tipo di controllo demandato al Tribunale in sede di giudizio di omologa nell’ambito del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti si v., anche i per i dovuti richiami dottrinali: G. Carmellino, I giudizi di omologazione tra degiurisdizionalizzazione e contratto, Napoli, 2018, 120 e ss..
[13] Interpretazione, questa, poi rigettata dalla Suprema Corte la quale ha al contrario aderito alla tesi più restrittiva del c.d. “controllo di legittimità” enunciando il seguente principio di diritto: «Il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dalla attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti…» SS. UU. n. 1521/2013.
[14] Ed infatti, giova sottolineare che anche nel concordato, dove era già contemplato un potere generale di cram down previsto dall’originaria formulazione dell’art. 180, comma 4, l.f. e dove, del pari, era già contemplata un’ipotesi di estensione automatica degli effetti ai sensi dell’art. 184 l.f., trattavasi comunque di ipotesi che presupponevano, tutte, l’intervenuta apertura del giudizio di omologa la quale, a sua volta, presupponeva indefettibilmente l’intervenuta approvazione della proposta concordataria in sede di adunanza dei creditori. Ipotesi, questa, non ipotizzabile in caso di voto contrario determinante da parte di uno dei creditori in quanto, in tale ultimo caso, ai sensi dell’art. 179 l.f. non si sarebbe aperto il giudizio di omologa, bensì il tribunale avrebbe dovuto procedere alla declaratoria di inammissibilità del concordato ex art. 162, comma 2, l.f..
[15] Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, documento di prassi di Dicembre 2015.
[16] Per la Corte infatti: «nella sostanziale invarianza dei presupposti e delle modalità del “trattamento dei crediti tributari” dettata da quest’ultima e da quella previgente – e qui ratione temporis applicabile, deve ritenersi che anche dalla seconda tale sindacato fosse comunque affidato allo stesso tribunale fallimentare, nell’ambito delle sue competenze “omologatone” generali (art. 162, 163, 179 ss. e 182 bis e ter, L. Fall., rispettivamente per il concordato e l’accordo di ristrutturazione dei debiti)».
[17] Laddove parla di: «sindacato giudiziale sul diniego di accettazione della proposta transattiva».
[18] Cfr. G. Fransoni, Trattamento dei debiti tributari e concordato preventivo: dal procedimento al processo, in corso di pubblicazione su Rass. Trib., 2021.
[19] Sul punto si v.: G. Tesoro, Il principio “dell’inderogabilità” nelle obbligazioni tributarie della finanza locale, in Riv. It. Dir. Fin., I, 1937, 56 e ss.; R. Pomini, L’inderogabilità dell’obbligazione tributaria tra privato e comune, in Riv. Dir. Fin., II, 1950, 52 e ss.. Sull’inadeguatezza dei riferimenti normativi si v., più di recente: F. Batistoni Ferrara, L’evoluzione del quadro normativo, in Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Fondazione Luca Pacioli, studio n. 3, 2002, 20 e ss., nonché M. Poggioli, Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in M. Poggioli (a cura di), Adesione, conciliazione, autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Milano, 2007, 5 e ss..
[20] La distinzione è stata introdotta per la prima volta da A. Berliri, Principi di diritto tributario, volume I, Milano, 1957, 110 e ss, per il quale, salvo un cambio di terminologia successivo, la potestà tributaria sarebbe stata “quella speciale esplicazione della capacità giuridica del soggetto attivo che riguarda l’istituzione e la regolamentazione dei tributi”.
[21] A. Berliri, Principi di diritto tributario, volume I, Milano, 1967, 177 e ss..
[22] A. D. Giannini, Circa l’inderogabilità delle norme regolatrici dell’obbligazione tributaria, in Riv. Dir. Fin., 1953, 291 e ss; Id., Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1968, 79 e ss. L’Autore, pur partendo dalla medesima constatazione circa il modo di essere del rapporto giuridico d’imposta, ossia il suo essere un rapporto complesso, già presente nel Berliri, giunge a conclusioni diametralmente opposte. Nel senso che sarebbero stati gli altri elementi di tale rapporto e non già l’obbligazione tributaria ad essere disponibili, ciò in quanto quest’ultima avrebbe rappresentato “la parte essenziale e fondamentale, nonché il fine ultimo cui tende l’istituto dell’imposta”. L’importanza di tale passaggio è tutt’altro che secondaria perché per la prima volta l’accento viene messo, sebbene in maniera non decisiva (tanto è vero che l’indisponibilità in tale impostazione assume ancora un carattere relativo e non già assoluto) sul fine (e quindi sulla ratio) dell’imposizione. Tale riferimento è stato ripreso successivamente in particolare dal Falsitta con un’incisività ben più decisiva tramutandosi esso stesso (fine) nella vera ragione ultima dell’indisponibilità dell’imposta. In maniera analoga al Giannini si esprime anche G.A. Micheli, Profili critici in tema di potestà di imposizione, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1964, 3 e ss.; Id., Corso di diritto tributario, Torino, 1981, 86 e ss. il quale, pur riprendendo la fondamentale distinzione tra potestà tributaria e singola obbligazione tipica del Berliri, contrappone alla “potestà normativa tributaria” la “potestà amministrativa tributaria” (o anche definita successivamente “potestà di imposizione”), indicante “l’aspetto finale del concretarsi della norma giuridica tributaria”, ossia il suo divenire, da potere impositivo astratto, singola obbligazione tributaria.
[23] Cfr. F. Gallo, La natura giuridica dell’accertamento con adesione, in Riv. Dir. Trib., 2002, 435 e ss.
[24] Sulle criticità relative all’individuazione positiva del concetto di “indisponibilità” si v. la lucida analisi di A. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi nella fase di riscossione, Milano, 2010, 68 e ss.; nonché M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001, 312 e ss..
[25] Sottolinea un trend legislativo non certamente improntato al principio di indisponibilità: L. Tosi, Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazione fiscale, in Giust. Trib., 2008, 13.
[26] Essendo diffusa in dottrina l’affermazione per la quale sarebbero tali e tante le deroghe al principio presenti nell’ordinamento da porne in dubbio l’effettiva sussistenza.
[27] Invero corre l’obbligo di rilevare come, sebbene la maggioranza deli Autori prenda le mosse dall’art. 53 Cost., poi sia opinione diffusa il dover ricondurre il fenomeno dell’indisponibilità agli artt. 2, 3 e 53 Cost. congiuntamente.
[28] Senza pretese di esaustività, aderiscono a tale impostazione, sebbene con sfaccettature differenti: A. Fantozzi, La teoria dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, in Fondazione Luca Pacioli,, studio n. 3, 2002, 6 e ss.; S. La Rosa, Gli accordi nella disciplina dell’attività impositiva: tra vincolatezza, discrezionalità e facoltà di scelta, in Giust. Trib., 2008, 13 e ss.; F. Gallo, Ancora sul neoconcordato e sulla conciliazione giudiziale tributaria, cit., 1994, 1491 e ss.; M. Beghin, Giustizia tributaria e indisponibilità dell’imposta nei più recenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali. La transazione concordataria e l’accertamento con adesione, in Riv. Dir. Trib., 2010, 679 e ss.; M. Cardillo, La transazione fiscale: problemi e possibili soluzioni, Dir. e Prat. Trib., 2012, 1143 e ss.; M. T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 126 e ss.; F. Batistoni Ferrara, L’evoluzione del quadro normativo, in Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, cit., 2 e ss.; F. Paparella, Le situazioni giuridiche soggettive e le loro vicende, in A. Fantozzi (a cura di), Diritto tributario, Milano, 2012, 482 e ss.; M. Poggioli, Il principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, tra incertezze definitorie e prospettive di evoluzione, cit., 5 e ss.; G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, Milano, 2008, 210 e ss.; Id., Il doppio concetto di capacità contributiva, in Riv. Dir. Trib., 889 e ss.; M. Allena, Profili costituzionali della transazione fiscale, in Studi in onore di E. De Mita, Napoli, 2012, 3 e ss.
[29] La formulazione originaria come obbligazione di riparto risale a L.V. Berliri, La Giusta imposta, 1945, 336 e ss.. Successivamente la teoria viene ripresa da G. Abbamonte, Principi di diritto finanziario, Napoli, 1975, 269 e ss., per il quale: “la spesa pubblica è in sostanza il dato dal quale si parte per ripartire il carico tra i vari soggetti obbligati al concorso, secondo la capacità contributiva di ciascuno. In tempi recenti, come noto, l’impostazione è stata ripresa dalla quasi generalità degli Autori e, in particolare, da G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, cit., passim. In generale sul tema si v., tra gli altri, G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2020, 45 e ss.; A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva”, in Perrone – Belriri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 1 e ss.; Id. Concorso alle pubbliche spese e diritti individuali, in Riv. Dir. Trib., 2002, 31 e ss.; Id., Dovere tributario e garanzie dell’iniziativa economica e della proprietà nella costituzione italiana, in Riv. Dir. Trib., 1999, 872 e ss.. Contra D. Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta. Tributi e determinabilità della ricchezza tra diritto e politica, Bologna, 2014, 97 e ss. L’A., nello sforzo concettuale di individuare un limite massimo all’imposizione, critica apertamente la scuola di pensiero che affida all’imposta una funzione di riparto ciò in quanto, assumendo tale prospettiva, verrebbe del tutto ribaltato il piano dei rapporti nel diritto tributario, finendosi per focalizzare inutilmente l’attenzione solo sui rapporti interni (ossia i rapporti fra contribuenti) e lasciando simmetricamente sullo sfondo quello che sarebbe il vero rapporto principale, di natura esterna (ossia il rapporto fra contribuenti e Stato). Nel pensiero dell’Autore e lungo questa direttrice, il principio di capacità contributiva andrebbe al contrario valorizzato in chiave protezionistica, ossia alla stregua di una norma limitatrice dei poteri sovrani di imposizione. Il fenomeno impositivo andrebbe quindi ricondotto alla misurazione e apprezzamento ai fini sociali dei redditi e patrimoni: posto che le entrate tributarie servono a finanziarie le spese pubbliche, tra tasse e diritti si verrebbe a creare un rapporto circolare, un’interdipendenza, nel senso che una collettività può garantire a sé stessa soltanto i diritti sociali e le libertà che è in grado di sostenere da un punto di vista economico. Per tale via, è evidente come l’Autore sposi la teoria del beneficio, sebbene questa appaia formulata non già nella sua declinazione più radicale (la quale interpreta il dovere alla contribuzione solo quale contraltare dei servizi resi dallo Stato), bensì in una variante maggiormente articolata. In termini parzialmente conformi, si v. anche: G. Gaffuri, La nozione della capacità contributiva e un essenziale confronto di idee, Milano, 2016, 308 e ss., per il quale all’art. 53 Cost. “non è assegnato e non è assegnabile un compito propulsivo per lo Stato impositore, nel senso di una sollecitazione o di un invito a perseguire obiettivi genericamente perequativi”.
[30] A. Smith, Wealth of Nations, London, 1776, Book V, Chapter 2, Part. 2. per il quale: “the expense of government to the individuals of a great nation is like the expense of management to the joint tenants of a great estate, who are obliged to contribute in proportion to their respective interests in the estate”.
[31] G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, cit., 58. In termini assai simili si v., anche: L. V. Berliri, La giusta imposta, Milano, 1945, 42 e ss., per il quale: “il parallelo della imposta […] è da ricercarsi nella gestione di affari esercitata nell’interesse di una collettività di interessati e in particolare nei contributi posti a carico dei singoli partecipanti a un consorzio (cfr. art. 2604 c.c.) che, si noti, possono anche essere obbligatori e come tali costituiti per legge”.
[32] Contra D. Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta. Tributi e determinabilità della ricchezza tra diritto e politica, cit., 135 e ss., il quale rifiuta tanto le premesse quanto le conclusioni di un simile ragionamento. Ed infatti – sostiene l’Autore – l’idea che la finanza statale possa essere accostata a quella di un grande condominio in realtà sarebbe figlia delle teorie sulla “protezione sociale”, tipiche degli Stati ottocenteschi ed il cui perno dogmatico era in realtà rappresentato dal principio del beneficio e, quindi, dall’idea di imposizione fiscale quale proporzionale alle ricchezze oggetto di protezione, ossia al valore connaturato ai servizi pubblici resi dallo Stato. Nel mutato contesto attuale, al contrario, la citata similitudine andrebbe respinta, sintetizzando, per almeno un triplice ordine di argomentazioni. In primo luogo, l’assenza di una “unicità” dell’imposta la quale, sola, consentirebbe di suddividere la spesa pubblica sui consociati, in uno con l’assenza di un vincolo di destinazione dei tributi che consentirebbe, in qualche misura, di rapportare le voci o capitolo di spesa al riparto uti singuli delle stesse. In secondo luogo, la rilevazione circa la non coincidenza tra l’ammontare dei carichi pubblici ed il gettito dei tributi, posto che la spesa potrebbe essere finanziata in parte mediante l’indebitamento. In terzo ed ultimo luogo, si ritiene che l’indice di riparto, per funzionare come tale, “dovrebbe rappresentare una frazione di una certa grandezza già conosciuta (i millesimi del condominio, l’estensione totale dei fondi dei consorziati, il valore complessivo delle merci caricate sulla nave), e fungere da coefficiente da applicare alla spesa […] per determinare la quota individuale di contribuzione […] occorre non soltanto conoscere la spesa da ripartire, ma altresì che gli indici di ripartono consentano una integrale copertura della stessa, il che può avvenire soltanto laddove tali indici rappresentino […]una frazione di un ammontare globale noto, in modo che la somma di tali frazioni restituisca appunto il totale; occorre inoltre che tali indici vengano utilizzati alla stregua di coefficienti per stabilire le quote individuali […] il che non si verifica affatto con i presupposti delle imposte, i quali vengono determinati in relazione alle concrete manifestazioni di ricchezza verificatesi in capo ai contribuenti […] senza che sia possibile stabilire alcuna relazione qualitativa […] con le spese di funzionamento dell’ente pubblico. In senso del tutto analogo si v., anche: D. Stevanato – R. Lupi, Determinazione della ricchezza, “obbligazione di riparto”, e ricchezza non registrata, in Dialoghi tributari, 2013, 7 e ss..
[33] In questa prospettiva, data l’identificazione della singola obbligazione come quota di un insieme, l’attenzione si sposta sull’individuazione dell’indice attraverso cui, dall’insieme, calcolare la singola quota. Questo, si sostiene, è generalmente rappresentato dagli indici di riparto, ossia da quei fatti o situazioni dai quali si fa dipendere la quota di contribuzione in capo al singolo, fissati dalla legge d’imposta. Cfr. G. Falsitta, Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, in S. La Rosa (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 44 e ss..
[34] G. Falsitta, ult. op. cit., spec. 87.
[35] Su tali profili si v. F. Gallo, Nuove espressioni di capacità contributiva, in Rass. Trib., 2014, 771 e ss.; A. Giovannini, Ripensare la capacità contributiva, in Dir. e Prat. Trib., 2016, 15 e ss..
[36] G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, cit., 22 e ss..
[37] Cfr. F. Battistoni Ferrara, voce Accertamento con adesione, in Enc. Dir., Agg. II, Milano, 1998, 28 e ss.; Id., L’evoluzione del quadro normativo, in M. Poggioli (a cura di), Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Padova, 2007, 21 e ss.; G. Petrillo, La conciliazione giudiziale tributaria e la teoria germanica della “intesa effettiva”, in Giust. Trib., 2008, 8 e ss.; L. Tosi, Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazione fiscale, cit., 12 e ss..
[38] Cfr. A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 103 e ss., il quale si esprime in questi termini: “personalmente – lo dico subito – non condivido la teoria pur autorevolmente sostenuta con argomentazioni rigorose che nega alla nostra obbligazione il carattere della disponibilità o, per meglio dire, non condivido se assunta tralaticiamente e senza tenere in debita considerazione il mutato quadro normativi di riferimento. Non dico che questa teoria sia un dogma ingiallito e men che meno che si traduca in un concetto ambiguo, ma non mi sembra ugualmente convincente, a petto del sistema giuridico attuale, continuare ad affermare che l’obbligazione tributaria, siccome obbligazione ex lege, radicata nell’art. 53 e ordinata dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, non possa mai formare oggetto di rideterminazione, neppure parziale, in via negoziale”.
[39] Perché si ritiene, espressioni dei più generali principi di efficienza e buona andamento di cui all’art. 97 Cost..
[40] Cfr. la dottrina richiamata alla nota n. 42.
[41] Su tale concetto sia qui consentito rinviare a: P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 200 e ss.; E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente. Le garanzie costituzionali, Milano, 2006, 101 e ss.; A. Fedele, Concorso alle spese pubbliche e diritti individuali, in Riv. Dir. Trib., 2002, 31 e ss.; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, 157 e ss..
[42] Cfr. S. La Rosa, Accordi e transazioni nella fase di riscossione dei tributi, in Irv. Dir. Trib., 2008, da 324 a 331; Id., Gli accordi nella disciplina dell’attività impositiva: tra vincolatezza, discrezionalità e facoltà di scelta, in Giust. Trib. 2008, 18 e ss.; V. Ficari, Transazione fiscale e disponibilità del “credito” tributario: dalla tradizione alle nuove “occasioni” di riduzione “pattizia” del debito tributario, in Riv. Dir. Trib., 2016, 481 e ss.. Secondo una prospettiva parzialmente diversa, pur valorizzando le differenze intercorrenti fra la fese di accertamento e quella di riscossione, non vi sarebbero comunque spazi per predicare profili dispositivi su an e quantum del tributo. In questo senso, per tutti, si v.: M.T. Moscatelli, Moduli negoziali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, cit., 100 e ss..
[43] Su tali profili si v., per tutti, A. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, cit., 120 e ss..
[44] In particolare sostenuta da M. Miccinesi, Accertamento con adesione e conciliazione giudiziale, in Commento agli interventi di riforma tributaria, Padova, 1999, 3 e ss.. Si veda altresì A. Cuva, Conciliazione giudiziale ed indisponibilità dell’obbligazione tributaria, Milano, 2007, 27 il quale riconduce il principio di indisponibilità agli artt. 23, 53 e 97 Cost. nel loro insieme.
[45] M. Miccinesi, ult. Op. cit., 15.
[46] In particolare, tra gli altri sostenute da: P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in Rass. Trib., 2008, 595 e ss; P. Biondo, L’istituto della compensazione in ambito tributario e la presunta indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Rass. Trib., 2007, 948 e ss.; C. Crovato – R. Lupi, Conferma sull’indisponibilità del credito tributario come regola di contabilità pubblica, in Dialoghi Trib., 2008, 7 e ss., in cui in particolare gli Autori sostengono come la regola dell’indisponibilità sia certamente un principio generale, ma che in realtà questo vada relegato a mera regola di contabilità pubblica, non essendo afferente al rischio di intromissioni degli Uffici amministrativi tese a ridurre il carico tributario in nome di interessi extrafiscali di ordine generale. Ancora la tesi è sostenuta da: R. Lupi, Insolvenza e disposizione del credito tributario, in Dial. Dir. Trib., 2006, 457, dove viene sottolineato come “molti autori evocano il fantomatico principio della indisponibilità del credito tributario, espressione immeritatamente fortunata proprio grazie alla sua ambiguità”; M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, cit., 482 e ss., in cui il principio di indisponibilità è definito “assioma inconsistente”.
[47] Contra M. Poggioli, Il principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Adesione, conciliazione ed autotutela, disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione?, (a cura di) M. Poggioli, cit., 9 e ss., in cui l’Autore, partendo dall’assoluto ruolo di centralità svolto all’interno dell’ordinamento tributario dal principio di indisponibilità, e riconducendo lo stesso all’art 53 Cost., declina i nuovi istituti solo come l’effetto del nuovo modo d’intendere il rapporto tributario, “sempre maggiormente improntato ad una logica collaborativa e ad un ampliamento delle opportunità di attuazione concordata del tributo”.
[48] P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in Rass. Trib., 2008, 595 e ss.. Detto altrimenti, la teoria porterebbe ad assimilare l’aspetto fisiologico a quello patologico dell’azione amministrativa. Per ciò che, se sul piano fisiologico non vi sarebbero ragioni ostative al riconoscimento di un potere dispositivo in capo all’Amministrazione nell’ottica della miglior cura dell’interesse pubblico, questo non potrebbe dipoi essere disconosciuto avendo lo sguardo rivolto solo all’aspetto patologico e, quindi, per meri fini cautelativi.
[49] Cfr. P. Russo, ult. op. cit., 607.
[50] Contra F. Batistoni Ferrara, L’evoluzione del quadro normativo, in Adesione, conciliazione ed autotutela, disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria? (a cura di) M. Poggioli, cit., 27.
[51] Nel senso di norma che autorizzi espressamente il funzionario a disporre si somme di esclusiva spettanza dello Stato, così evitando profili di responsabilità per gli eventuali danni patrimoniali a questo cagionati (su tale profilo si veda più specificatamente M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, cit., 395 e ss.).
In quest’ottica, pertanto, la ratio del dettare la disciplina in maniera espressa di atti che in realtà si sarebbero già potuti compiere anche in assenza della stessa, andrebbe rintracciata proprio nella limitazione della responsabilità del funzionario e, quindi, nell’intenzione da parte del legislatore di rimuovere anche quell’ultimo ostacolo che in via fattuale avrebbe impedito la concreta realizzazione degli stessi. Riprova di tale argomentazione dovrebbe essere così rintracciata nella precisa disciplina sulla motivazione dell’atto.
Quest’ultima, difatti, andrebbe intesa a favore dell’Amministrazione e non già del contribuente, rivestendo in definitiva una funzione di tipo valutativo del comportamento del singolo funzionario ai fini di una sua responsabilità. Cfr. P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in S. La Rosa (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 112 e ss. il quale conclude il proprio percorso argomentativo affermando la sussistenza di “ontologiche ragioni di principio per escludere la disponibilità del credito tributario”.
[52] Cfr. G Falsitta, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo, in Riv. Dir. Trib., 2007 1066, per il quale: «Rinunciare a ciò che mai si incasserà è una pseudorinuncia», ed ancora «rinunciare o disporre significa ridurre l’entità dell’incassabile».
[53] Su tale rapporto sia consentito rinviare nuovamente, anche per i dovuti richiami dottrinali, a M. Golisano, ult. Op. cit., 499 e ss.
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo sulle formalità del rito di Cassazione
di Franco De Stefano[1]
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha ravvisato una violazione del diritto di accesso al giudice in un’applicazione eccessivamente formalistica di una norma sul contenuto del ricorso per cassazione, ma in un caso in cui non se ne è prospettata la funzionalizzazione, tanto meno proporzionale, ad un fine legittimo di buona amministrazione della Giustizia o di certezza del diritto: pertanto, i requisiti di forma restano essenziali, ma vanno introdotti ed applicati con queste cautele.
Sommario: 1. Il caso deciso - 2. Il principio - 3. Una prima conclusione - 4. Uno spunto operativo.
1. Il caso deciso
Con sentenza del 30 marzo 2021, la terza sezione della Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha riscontrato una violazione dell’art. 6 della Convenzione da parte della Federazione Russa, sotto il profilo della lesione del diritto di accesso al giudice in occasione della definizione negativa in punto di rito di un ricorso per cassazione per carenza di un requisito formale, riguardo al quale è stata riscontrata la carenza di un fine legittimo, nonostante la buona fede del ricorrente nel somministrare tutte le informazioni per comprendere la natura del suo ricorso (Corte EDU, affare Oorzhak c/Russia, ricorso n. 4830/18).
L’impugnativa del licenziamento di un lavoratore è stata respinta in primo grado e, quasi allo spirare del termine, egli ha proposto ricorso per cassazione alla Corte suprema della Repubblica di Tuva (una delle ventidue repubbliche della Federazione Russa[2]), ma intestandolo senza specificare in quale composizione (o formazione o sezione) egli intendesse adire quel giudice supremo.
Una prima decisione preliminare – resa a giudice unico – ha rilevato la violazione dei paragrafi 1 e da 4 a 7 dell’art. 378 del codice di procedura civile, poiché sarebbe stato necessario specificare che il ricorso era indirizzato alla composizione di quella Corte che si identificava nel “presidium”, poiché la Corte suprema di ogni entità federata ha plurime competenze: essendo talvolta giudice di prima istanza, di appello e di cassazione e, per di più, di revocazione, mentre sui ricorsi per cassazione è competente soltanto il “presidium”.
Il ricorrente ha posto rimedio alla carenza con un nuovo ricorso, ma quando oramai il termine per proporlo era scaduto; e, respinta pure la sua istanza di rimessione in termini per non avere egli addotto alcuna circostanza rilevante a questo fine, il ricorso è stato dichiarato inammissibile in via definitiva, con decisione confermata sia dalla Corte suprema della Repubblica di Tuva che da quella della Federazione russa.
Il ricorrente si è rivolto allora alla Corte di Strasburgo, prospettando che il rifiuto di esaminare il suo ricorso ha violato il suo diritto di accesso ad un tribunale, poiché la ragione che ha indotto la Corte di cassazione a respingere in rito il suo ricorso, senza cioè esaminarlo nel merito, fosse viziato da un eccessivo formalismo. All’esito della difesa del Governo, che si è limitato ad affermare che la misura controversa - vale a dire il rigetto del ricorso senza esame - era stata adottata in stretta conformità con la legge, il ricorrente ha replicato che non era stato indicato alcuno scopo legittimo che la giustificasse, sostenendo pure di aver agito in buona fede, rispettando sia lo spirito che la lettera del codice di procedura civile, il cui art. 378 gli imponeva solo di indicare il nome del tribunale e non la composizione competente.
In particolare, egli ha aggiunto che tutti i dettagli essenziali per l’esame del ricorso (la decisione impugnata, i nomi e gli indirizzi delle parti, ecc.) vi erano menzionati, in uno a tutte le informazioni necessarie per determinare il tipo di procedura in questione, vale a dire il giudizio di cassazione; ancora, ha sostenuto che anche solamente il buon senso rendeva agevole determinare il tipo di procedura applicabile al suo ricorso (la cui stessa intestazione indicava che si trattava di un ricorso in cassazione) e che quindi la Corte suprema della Repubblica di Tuva avrebbe potuto facilmente attribuirlo alla giusta composizione, cioè il presidium, il solo competente per esaminarlo.
Ha sostenuto che non solo l’obbligo di indicare la parola presidium non era previsto dal diritto interno, ma non era nemmeno giustificato da alcuna considerazione pratica o giuridica; ha aggiunto che i giudici nazionali hanno applicato la legge in un modo eccessivamente formalistico, tale da privarlo dell’accesso ad un grado di cassazione.
La Corte di Strasburgo ha dato ragione al ricorrente.
Essa ha dapprima ricordato a questo riguardo che la regolamentazione relativa alle formalità da rispettare per formare un ricorso mira ad assicurare la buona amministrazione della giustizia e il rispetto, in particolare, del principio della certezza del diritto, al riguardo avendo gli interessati una legittima aspettativa a che le regole siano rispettate[3]; ma ha subito soggiunto di avere a più riprese sottolineato come l’applicazione da parte delle giurisdizioni interne di formalità da rispettare per formare un ricorso possa violare il diritto di accesso ad un tribunale, quando l’applicazione troppo formalista delle regole applicabile fatta da una giurisdizione impedisca, di fatto, l’esame nel merito del ricorso proposto dall’interessato[4].
In applicazione dei criteri alla specie, la Corte di Strasburgo, pur precisando di non potere sostituire la sua propria interpretazione del diritto interno (letto in modi evidentemente inconciliabili dal ricorrente e dal Governo) a quella delle giurisdizioni nazionali, ha rilevato che il Governo, pure a volere ammettere la stretta aderenza della decisione interna al codice di rito, non ha indicato quale sarebbe lo scopo legittimo perseguito dalla norma così applicata: non ha precisato, per esempio, se si trattava di assicurare la buona amministrazione della Giustizia, di alleggerire l’ingorgo della giurisdizione di Cassazione con la semplificazione dell’attribuzione dei ricorsi, o ancora di abbreviare la durata dell’esame dei fascicoli. E tanto, impedendo di verificare la proporzionalità della misura e così la sua adeguatezza, ha implicato, per di più dinanzi alla buona fede del ricorrente e così condivisa la sua tesi della sussistenza di tutte le informazioni necessarie nel ricorso da lui formato, quindi la violazione del diritto di accesso ad un tribunale, quand’anche nel grado di legittimità.
Ed ha infine riconosciuto la violazione dell’art. 6, § 1, della Convenzione, accordando al ricorrente una riparazione di € 1.000 per danni morali e di pari misura per spese, oltre interessi a far tempo dalla definitività della sentenza.
2. Il principio
La pronuncia si inserisce nel solco della giurisprudenza di Strasburgo sulla legittimità della previsione generale di formalità di accesso alla giurisdizione, soprattutto in grado di impugnazione, di cui un caposaldo può individuarsi nella celebre pronuncia Trevisanato[5], che anche la nostra Corte ha a più riprese applicato e comunque richiamato[6], mostrando di averne sicura consapevolezza.
Il principio generale che ne viene enucleato è che l’imposizione di condizioni, forme e termini processuali, nel rispetto del principio di proporzionalità, risponde ad obiettive esigenze di buona amministrazione della giustizia, soprattutto se si tratta di regole prevedibili e di sanzioni prevenibili con l’ordinaria diligenza, anche in eligendo[7], sicché l’inammissibilità dell’impugnazione, che consegue all’inosservanza di tali formalità anche quando integrano un termine, non integra una sanzione sproporzionata rispetto alla finalità di salvaguardare elementari esigenze di certezza giuridica[8].
Le formalità di accesso sono quindi legittime, ma solo se perseguono uno scopo legittimo e se esiste un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, coordinando tra loro diritto di accesso al giudice, sicurezza giuridica e buona amministrazione della giustizia; e tale compatibilità delle limitazioni previste dall’ordinamento interno con il diritto di accesso a un tribunale riconosciuto dall’art. 6 § 1 della Convenzione è ancora più accentuata per quelle di accesso al giudizio di legittimità, dipendendo dalle particolarità di questo, tenendo conto del processo complessivamente condotto nell’ordinamento giuridico interno e del ruolo che svolge in quest’ultimo la Corte di cassazione, le regole d’accesso alla quale possono essere più rigorose che per un appello[9].
Il principio esige comunque che la formalità sia sorretta da uno scopo legittimo e che esista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito[10]; ancora, è indispensabile che la formalità sia prevista dalla legge e possa essere prevista ex ante, sicché, ove invece sia di derivazione giurisprudenziale, non sia frutto di una interpretazione “troppo formalistica”, risulti comunque da un orientamento consolidato, sia chiara ed univoca[11].
Ed ogni regola processuale, come pure ogni interpretazione delle regole processuali, per non violare il diritto fondamentale al giusto processo deve allora bilanciare, con un temperamento ragionevole, l’insopprimibile esigenza funzionale di porre regole di accesso alle impugnazioni con quella a un equo processo, da celebrare in tempi ragionevoli, come prescritto pure dall’art. 47 della Carta di Nizza e quindi in armonia con la norma sovranazionale di rango eurounitario, oltre che con l’art. 111 della nostra Carta fondamentale.
3. Una prima conclusione
La stessa Corte europea scolpisce il principio e, già solo con un’esemplificazione però assai significativa, le cause giustificatrici delle formalità: tra gli scopi legittimi idonei a rendere conformi al diritto di accesso le formalità procedurali bene sarebbe stata annoverabile l’esigenza, purché dichiarata e chiara e conoscibile ex ante, di assicurare la buona amministrazione della Giustizia, oppure quella di alleggerire l’ingorgo della giurisdizione di Cassazione[12] con la semplificazione dell’attribuzione dei ricorsi, o ancora quella di abbreviare la durata dell’esame dei fascicoli.
L’unica formalità non in linea con il diritto di accesso al giudice (ed al giudice di legittimità) sarebbe quindi quella che non trova alcuna razionale giustificazione in almeno uno di questi scopi, o anche in altri, purché in linea con le acquisizioni in tema di tutela dei diritti fondamentali: ed in quest’ambito i margini di apprezzamento delle autorità nazionali possono essere davvero assai ampi.
È interessante notare come la sola censura in concreto mossa nel caso concreto alle autorità nazionali sia stata quella di non avere fornito alcuna giustificazione della misura, al di là della sua mera conformità ad un’astratta previsione di legge; ed è interessante pure notare che perfino il semplice scopo di alleviare il carico della Corte suprema sarebbe stato, almeno in linea di principio, idoneo a giustificare la formalità, sebbene sia ragionevole pensare che comunque la Corte europea si sarebbe riservata di valutare la proporzionalità del mezzo impiegato (la draconiana sanzione della inammissibilità, per usare termini cari ai processualcivilisti italiani) rispetto al fine perseguito. E, certo, nella specie l’errore consistente nell’omessa specificazione di quale articolazione interna al pur sempre unitario ufficio giudiziario correttamente adito (la Corte suprema di quella Repubblica) è stato comunque ricondotto al novero delle interpretazioni possibili di una norma sulla mera enunciazione dell’autorità giudiziaria di indirizzo: interpretazione che, al limite, avrebbe potuto perfino essere pure giustificata, con una di quelle ragioni, se il Governo si fosse determinato a farlo.
Fine legittimo può quindi essere quello di alleggerire il carico o quello di accelerare la durata dei processi, oltre quello, più generale ed al contempo generico, di una “buona amministrazione della giustizia”: una vasta gamma di potenzialità, quindi, temperata solo dalla chiarezza della previsione e dalla proporzionalità col fine dichiarato o comunque evincibile; ed una proporzionalità che deve poi fare i conti in concreto con il fatto che l’atto della parte sia comunque con tutta evidenza in buona fede qualificabile come funzionale al suo scopo: sicché questo deve essere il parametro di riferimento.
Nell’ambito dell’ampio margine di discrezionalità riconosciuto dalla Corte europea anche nel caso in esame, molte sono e rimangono le possibili soluzioni alternative, tutte in astratto compatibili con il diritto di accesso al giudice e soprattutto a quello di legittimità.
Le Sezioni Unite già hanno sancito che la valutazione in termini di inammissibilità del ricorso per violazione di requisiti di contenuto o di forma, lungi dall’esprimere un formalismo fine a sé stesso, esprime un richiamo al rispetto - oltre che di una precisa disposizione di legge - di uno standard di redazione degli atti che valorizza la stessa qualificata prestazione professionale svolta dall’avvocato, che si traduce nel sottoporre nel modo più chiaro possibile la vicenda processuale e le ragioni del proprio cliente al giudice, nonché le questioni sottoposte all’attenzione della Corte nel ricorso in cassazione in particolare[13]. Del resto, in termini di inammissibilità la nostra Corte di cassazione si è espressa in caso di violazione dei canoni di chiarezza e sinteticità espositiva, la quale vulnera irrimediabilmente lo stesso diritto di difesa della controparte (in termini nettissimi, Cass. 20/10/2016 n. 21297, seguita – tra le altre – da Cass. ord. 21/03/2019, n. 8009).
Ma non è questa la sede per una compiuta disamina delle tendenze dell’interpretazione delle norme processuali in tema di giudizio di legittimità, dovendo quella riservarsi agli studi istituzionali o a differente sede accademica: né per riflettere sui rischi e sui guasti di interpretazioni troppo rigide o troppo elastiche delle norme processuali, anche per gli effetti negativi sulla certezza e affidabilità del diritto e sulle aspirazioni nomofilattiche della nostra Corte suprema di cassazione.
4. Uno spunto operativo
Qui preme soltanto evidenziare la necessità di una consapevolezza rinnovata della delicatezza dei limiti di e dei requisiti di forma nel giudizio di legittimità: indispensabili, purché funzionali alle esigenze speciali di un giudizio civile connotato però dal più intenso grado di ufficiosità conosciuto, per la coesistenza e l’immanenza del c.d. ius constitutionis accanto a quello delle parti. E, una volta che siano stati individuati tali limiti e requisiti di forma, occorrerà che tanto avvenga, se non con una norma di legge, anche solo con un’elaborazione giurisprudenziale, purché chiara, semplice, di immediata percezione e comprensione, solo in quanto tale obiettivamente conoscibile e tale che il suo rispetto da parte degli operatori specializzati del settore possa dirsi effettivamente esigibile. E con un’interpretazione il più possibile costante, perché in materia processuale non c’è bene maggiore dell’affidabilità delle soluzioni e della stabilità degli approdi ermeneutici (Cass. Sez. U., ord. 06/11/2014, n. 23675), idonei ad orientare la condotta quotidiana degli interpreti - e quindi degli utenti del sistema della Giustizia - al corretto impiego delle risorse del processo.
Occorre prendere coscienza, anche alla luce delle riforme legislative in campo processuale succedutesi a ritmo spesso incalzante negli ultimi tempi e pure con riguardo al giudizio di legittimità, della delicatezza del razionale contemperamento o bilanciamento tra i fondamentali diritti che vengono in gioco e che postulano esigenze non conciliabili.
La Corte di cassazione è assediata da un contenzioso sempre meno tollerabile e sempre meno in linea con la sua funzione istituzionale di nomofilachia; la risposta di Giustizia di legittimità è sempre più affannosa e delicata, dinanzi ad una domanda montante ed incontrollata, a cui si intende porre rimedio con un malinteso senso di rincorsa fordista di una produttività illimitata, tecnicamente e praticamente irraggiungibile per le caratteristiche stesse del sistema.
In questo contesto, è allora comprensibile la tentazione di fare ricorso sempre più ampio ed indiscriminato ad interpretazioni rigide e formalistiche: ma questo potrebbe essere un tragico errore, come certamente un errore è stata l’infelice stagione del quesito di diritto e la non felice delle riforme successive del rito di legittimità, che perseguono obiettivi talvolta contraddittori ed oscillano tra l’aspirazione ad un incremento esponenziale della produttività e la pretesa di autorevolezza del mare magnum del fiume in piena delle sue pronunce.
Le elaborazioni e gli approdi in materia di forme processuali – e soprattutto di forme del giudizio di legittimità, per l’accesso al quale significativamente è richiesta una particolare qualificazione sia dei giudici che dei professionisti difensori delle parti – dovrebbero quindi essere tutte orientate alla combinazione di questi principi, tra loro in evidente tensione dialettica: la necessità di un sensibile rigore, che può diventare via via più accentuato a mano a mano che si avanza nella progressione del processo civile e dei suoi gradi per la irrinunciabile esigenza di razionalizzazione delle risorse, contrapposta all’insopprimibile aspirazione all’esame della propria domanda - o, nei gradi di impugnazione, del proprio gravame - nel suo merito.
L’esigenza di una particolare serietà nella proposizione e nella trattazione dell’impugnazione di legittimità può quindi esigere prezzi, anche notevoli, alla parte che vi si accinge: purché ognuna di quelle sia proporzionale ad un fine legittimo e non comporti, se applicata con rigore formalistico, la sostanziale negazione del diritto all’esame nel merito dell’impugnazione; al contempo, purché poi la loro applicazione sia il più possibile uniforme, dovendosi la controparte attendere che il giudice di ultima istanza sia il primo a rispettare la legge e la sua interpretazione di questa.
Mai come in questo momento storico la legittimazione del giudice e del giudice di legittimità prima di ogni altro poggia sull’effettivo perseguimento dello scopo dell’istituzione all’interno del sistema giudiziario di una moderna società democratica, a tutela dei diritti e soprattutto di quelli fondamentali dell’individuo. Una Corte suprema che è in grado di assolvere al meglio la sua funzione è un bene prezioso; e, soprattutto, è un bene non soltanto di tutti gli operatori o di coloro che con essa hanno a che fare, ma di tutti i cittadini, a presidio dei loro diritti e soprattutto di quelli fondamentali e di quegli altri definiti come inviolabili dalla nostra Costituzione.
È però una risorsa limitata ed è indispensabile amministrarla con accortezza e senso di responsabilità condiviso da tutti gli attori del processo civile; la forma resti allora a doverosa salvaguardia del corretto impiego di questa preziosa risorsa e dell’indispensabile rispetto delle regole di un gioco complesso e delicato in condizioni di parità ed eguaglianza sostanziale per tutti, ma non sia il pretesto o l’occasione per dispensarla in modo capriccioso o, peggio ancora, casuale; affinché il diritto resti funzionale al suo scopo di confinare il caso o l’arbitrio per quanto possibile ai margini della vita sociale e regolare ordinatamente i rapporti tra i consociati secondo i loro diritti fondamentali.
[1] Presidente di sezione della Corte di cassazione.
[2] Nella Siberia centromeridionale ed ai confini nordoccidentali della Mongolia, con capitale Kyzyl.
[3] Nel testo della sentenza si richiama il precedente Corte EDU Miragall Escolano e altri c/ Spagna, nn. 38366/97 e altri 9, § 33, CEDU 2000-I.
[4] Nel testo della sentenza si richiamano i precedenti della stessa Corte: Běleš e aa. c/ Rep. Ceca, n. 47273/99, § 69, CEDU 2002-IX, Zvolský e Zvolská c/ Rep. Ceca, n. 46129/99, § 55, CEDU 2002 IX, Nikolaos Kopsidis c/ Grecia, n. 2920/08, § 22, 18 marzo 2010, Miessen c/ Belgio, n. 31517/12, § 66, 18 ottobre 2016, Zubac, cit., § 98, e Gil Sanjuan c/ Spagna, n. 48297/15, § 31, 26 maggio 2020.
[5] Corte EDU 15 settembre 2016, Trevisanato c/ Italia, in causa n. 32610/07, soprattutto §§ 42-44.
[6] Fin da Cass. ord. 07/12/2016, n. 25074, via via anche a Sezioni Unite, fra le ultime delle quali, v. Cass. sez. U. 30/01/2020, n. 2089, oppure Cass. Sez. U. 25/03/2019, n. 8312.
[7] In tali espressi termini, v. Cass. 08/05/2019, n. 12134.
[8] In tali sensi, Cass. ord. 10/02/2021, n. 3340; in termini analoghi, Cass. ord. 24/03/2021, n. 8223.
[9] Così, con ulteriori richiami alla giurisprudenza di Strasburgo, già Cass. Sez. U. 13/12/2016, n. 25513.
[10] In tali sensi Cass. Sez. U. 07/11/2017, n. 26338.
[11] Cass. 30/09/2019, n. 24224; Cass. 28/06/2018, n. 17036.
[12] Se non singolare, può essere significativo che il lemma impiegato, nella sola lingua francese adoperata dalla decisione, “désengorger”, sia normalmente tradotto con “sturare” o “stappare”.
[13] Tra le più recenti: Cass. Sez. U. 28/11/2018, n. 30754; seguita da molte successive.
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