ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Michele Taruffo, Verso la decisione giusta, Torino, Giappichelli, 2020, 447
di Bruno Capponi
L’ultima opera di Michele Taruffo, scomparso lo scorso dicembre, è una raccolta di saggi, taluni molto brevi, che l’a. ha evidentemente immaginato come un percorso “culturale” verso la ricerca della decisione “giusta” (già la scelta dell’aggettivo è sintomatica del contesto in cui l’opera va collocata). Manca una introduzione che illustri al lettore le ragioni della silloge, mancano i riferimenti della eventualmente già avvenuta pubblicazione dei saggi in qualche rivista, italiana o straniera (l’impressione che se trae è che, a fronte di scritti già noti, altri sono il frutto inedito dell’allineamento lungo quel percorso che lo Studioso aveva deciso di intraprendere, o di far intraprendere al lettore, quasi a conclusione della sua parabola). Assenti anche le notizie sull’autore che pubblicazioni di questo tipo, riassuntive di un lungo cammino di riflessioni e di studi, in genere presentano (anche quando gli autori sono ben noti, com’è certamente il caso di Michele Taruffo). Come avviene per gli scritti dei giuristi maturi, il corredo di note è sempre ridotto all’essenziale, ovvero manca del tutto.
Il lettore si trova così di fronte a una raccolta piuttosto estesa (quasi 450 pagg.) che presenta 32 saggi divisi in quattro parti: Aspetti della giustizia civile (6), che segna l’inizio del cammino e che rimanda a temi generali come l’accesso alla giustizia, la giurisdizione come attività di “creazione” del diritto, il multiculturalismo processuale; Sulla verità (6), tema caro all’a. e anche indagato in forma monografica (La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Laterza, Bari, 2009); Sulla prova (13), parte che riflette i forse più consistenti interessi scientifici di Taruffo, o almeno quelli per i quali lo Studioso è maggiormente noto anche all’estero, e che infatti raccoglie il maggior numero di saggi; Sulla decisione (7), argomento la cui analisi l’a. non ha mai più abbandonato dopo la pubblicazione della sua prima monografia (1975) su La motivazione della sentenza civile e che, ovviamente, è strettamente connesso col tema del giudizio di fatto che lo aveva portato a indagare in modo inedito e di fatto insuperato, già nei primi anni Settanta, il tema scivoloso delle prove atipiche.
Il tratto caratteristico di tutti i saggi – perché questo era il tratto dell’a. – è la linearità e, diremmo, l’ineluttabilità degli argomenti grazie ai quali vengono contestate, e spesso ribaltate, quelle opinioni comuni che il neofita tenderebbe ad accettare come fossero declinazioni della legge. Taruffo dubita di tutto, e dimostra con abilità che qualsiasi argomentazione del giurista è reversibile, qualsiasi opinione per quanto consolidata può essere ridiscussa sin dalle premesse, qualsiasi conclusione può rivelarsi fallace quando assoggettata a verifica serrata con autonomia e indipendenza di giudizio. Ciò non soltanto allorché oggetto dell’esame sia un tema sfuggente e “filosofico” come quello della “verità” (gustose le tre divagazioni ispirate dalla lettura del saggio di U. Eco, Sulle spalle dei giganti, La Nave di Teseo, Milano, 2017), ma anche quando viene presa di petto l’interpretazione, comunemente accettata da intere generazioni di processualisti, di una norma centrale dell’istruzione probatoria qual è l’art. 115 c.p.c.; dopo gli studi di Carnacini, Cappelletti e Liebman e dopo i tentativi, un po’ meno riusciti, di studiosi successivi che avevano provato a ravvisare nella norma una garanzia del diritto alla prova (mi riferisco a E.F. Ricci), poteva darsi per scontato che il brocardo sui probata partium fosse giustificato a garanzia dell’imparzialità anche psicologica del giudice, che non può porsi alla ricerca della prova, che è quanto dire indagare sul fatto, senza rischiare di perdere, anche inconsapevolmente, la sua posizione di terzietà rispetto alle parti in contesa. Taruffo, in un saggio breve (neppure venti pagine) ma densissimo, giunge a dimostrare non soltanto che il brocardo, generalmente tramandato come «aforisma dell’antica sapienza», è frutto di una manipolazione letterale relativamente recente – con l’aggiunta di partium – che sembra aver ingannato lo stesso Calamandrei, ma soprattutto che la tesi di Liebman, che per molto tempo è parsa la sintesi vincente di tutti i precedenti studi, risulta essere del tutto ingiustificata proprio alla luce della Relazione al Re (§ 14), che lascia l’asserto – «la mancanza di autonomi poteri istruttori del giudice è condizione necessaria per assicurare la sua imparzialità e neutralità di giudizio» – privo di qualsiasi conferma empirica. La conclusione attinta – «nel momento presente non si può far altro che constatare che nel nostro ordinamento [il principio dispositivo in materia di prove] non trova adeguata giustificazione né come principio tecnico né come principio categorico, oltre a non essere chiaramente enunciato nel tenore letterale di alcuna norma» (pag. 344) – suona, oltre che come conclusione critica di un saggio che abbatte una sorta di idolum, come un programma di ricerca per il futuro studioso che voglia indagare – mutuando le parole di Liebman – il vero Fondamento del principio dispositivo.
Ne emerge la figura di uno studioso rigoroso, privo di preconcetti, disposto a qualsiasi indagine anche (o forse soprattutto) fuori del diritto e dei confini nazionali alla perenne ricerca dei principi fondamentali presenti e ricorrenti in ordinamenti anche tra loro lontani, che vengono vagliati senza preconcetti e soprattutto senza la pretesa di ricavarne ricette e pratiche soluzioni da esportare sic et simpliciter nel nostro sistema, eternamente in crisi e così alla continua ricerca di “soluzioni”; con una chiara tendenza a sorridere di talune opinioni, quando riconosciute prive di qualsiasi fondamento scientifico (ciò che avviene sovente). Di certo, al nostro a. non difetta una buona dose di umorismo: qualità che si affaccia prepotente, ad esempio, quando afferma, a proposito dell’assonanza tra “disponibilità” del diritto e “principio dispositivo”, che «l’art. 12 delle Preleggi invita l’interprete a tener conto del “significato proprio” delle parole usate dal legislatore, non del loro suono» (pag. 328); o quando accenna ai terrapiattisti come portatori «di una certezza che a quanto pare continua ad essere largamente condivisa» (pag. 373); o quando, parlando della motivazione giustificativa, conclude che «tutto sommato, la dimostrazione del teorema di Pitagora non ha nulla di retorico ma il teorema vale perché è logicamente giustificato» (pag. 395); o ancora quando ci informa che l’espressione italiana equivalente di bullshit – “stronzata” – «non è elegante … anche se allude efficacemente al fenomeno» (pag. 131, in nota).
Ogni recensione non è neutra, riflettendo i gusti e le preferenze del redattore. Dico questo per giustificare che, dell’intero e vario materiale raccolto nella ricca e ariosa pubblicazione, a me sembra di dover prediligere gli aspetti che rimandano ai due grandi “fari” del lungo impegno di studio dell’a.: la motivazione della sentenza anche in funzione del suo controllo e – tema strettamente connesso – la Corte di cassazione vertice delle giurisdizioni (la sua definizione “vertice ambiguo” è ormai entrata nell’uso comune: cfr. Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Il Mulino, Bologna, 1991). Nella quarta parte dell’opera, Taruffo torna sul modello del vertice tra common e civil law, definendolo stavolta “astratto” e ciò «nella misura in cui la decisione della singola corte – che pure riguarda sempre questioni di diritto – prende o non prende in considerazione i fatti che hanno determinato la controversia nel caso concreto» (pag. 421); prosegue comparando il precedente con efficacia persuasiva, proprio del nostro sistema, con le pronunce di altre Corti supreme recanti “direttive interpretative” (in uso in Russia come a Cuba) che hanno carattere vincolante per tutti i giudici, le amministrazioni, i soggetti pubblici e privati e dunque risultano frutto di un’attività «sostanzialmente analoga a quella di produzione di norme, anche perché non deriva dalla decisione di casi concreti».
Secondo Taruffo, il modello italiano produce un elevato grado di astrattezza specie nella formulazione delle massime, rivolte dal passato (il caso deciso) al futuro ma con l’utilizzo di espressioni sintetiche e stereotipate che non sempre enunciano la vera ratio decidendi della questione di diritto affrontata; sottolinea l’a. che «il punto essenziale è che comunque il precedente di civil law viene concepito come una regola, formulata in termini generali e astratti, e non come l’applicazione di una norma a una fattispecie concreta» (pag. 424); una mitigazione di questa “astrattezza” può venire dal fatto che il nostro precedente è tutt’altro che uno stare decisis, non esistendo da noi – ovvero esistendo in modo assai flebile, soprattutto nell’interpretazione giurisprudenziale, tra sezione semplice e sezioni unite – un vincolo che deriva dal precedente, vincolo che del resto, ove ritenuto sussistente, si mostrerebbe in conflitto con la norma costituzionale – davvero abusata nelle sue applicazioni – che vuole qualsiasi giudice soggetto soltanto alla legge.
Eppure, proprio nel nostro sistema – nel quale peraltro la Corte di cassazione svolge una pluralità di funzioni anche tra loro in conflitto: vedi il caso della cassazione c.d. sostitutiva – sta sempre più prendendo piede la decisione di ricorsi “nell’interesse della legge”, in casi, cioè, in cui non c’è o non c’è più una controversia da risolvere (ciò che quasi spregiativamente viene indicato come jus litigatoris) e resta un principio, ossia una regola rivolta al futuro, da affermare (lo jus constitutionis). Si tratta, a mio avviso, di una chiara anomalia del nostro sistema, sebbene non da tutti percepita, che rischia di alterare la funzione della Corte: la quale, sebbene suprema, è pur sempre un giudice, che deve giudicare un caso concreto e proprio giudicando quel caso concreto può affermare una regola astratta (o suscettibile di essere astrattizzata); non anche, da giudice, affermare una regola in pura “astrattezza” per i soli casi futuri, prendendo magari spunto da un caso che, quanto alla sua concreta risoluzione, più non interessa. Nel contesto attuale, citare le parole di Calamandrei che parlano di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria rischia di essere fuorviante. L’evoluzione in atto della nostra Corte suprema mostra che forse, ora come ora, non risponde del tutto al vero l’idea che essa «rimane vincolata a decidere nel merito, in un modo o nell’altro, tutte le specifiche questioni di diritto su cui vertono tutti i ricorsi che ad essa vengono proposti» (pag. 428), anche perché la selezione dei ricorsi, che la Corte non riesce a realizzare con lo strumento a ciò deputato (art. 360 bis c.p.c., norma di incertissima interpretazione e, perciò, di occasionale applicazione) viene poi eseguita in modo piuttosto indiscriminato – nonostante il self-restraint che a volte è dato cogliere all’interno della stessa Corte – con gli strumenti dell’autosufficienza del ricorso e della specificità del motivo, grazie ai quali l’organo di legittimità riesce spessissimo ad affrancarsi dalla decisione del “merito” dei ricorsi. Ma, fatta in questo modo, la selezione ha un intollerabile tasso di casualità, e risulta addirittura odiosa allorché sanziona la più o meno esercitata perizia del difensore tecnico nel redigere il ricorso che la Corte si dichiarerà poi in condizioni di poter scrutinare.
Un discorso molto chiaro l’a. dedica al tema della motivazione e del suo controllo, e in particolare al controllo che avviene, o dovrebbe avvenire, in sede di legittimità (pag. 409 ss.). Con una lucida analisi, e resistendo al mantra del “nulla è cambiato” col quale molta dottrina ha tentato di esorcizzare l’improvvisata riforma del 2012, Taruffo prende atto che il nostro sistema sta affrontando una vera e propria crisi della motivazione: che nasce da interventi normativi, realizzati e tentati (chi non ricorda quelli del ministro Orlando, con gli avvocati chiamati a motivare i verdetti dei giudici?), da discorsi ambigui su diritto ed economia e anche da orientamenti giurisprudenziali (non esclusi quelli della stessa Cassazione – specie la sezioni unite del 2015 sulla mancata copertura offerta dalla legge sul diritto d’autore quanto alle attività processuali, ciò che legittimerebbe la riproduzione in sentenza di qualsiasi atto di parte o degli ausiliari). Una crisi che viene da lontano, come ben testimoniano, nella IX Legislatura, le pagine della Risoluzione del CSM sul d.d.l. Vassalli recante Provvedimenti urgenti per il processo civile, redatta da G. Borrè, specie nei passaggi sul “collo di bottiglia” delle decisioni e sulla conseguente necessità di “sdrammatizzare” il problema della stesura delle motivazioni.
Quando Taruffo parla del “minimo costituzionale” delle sentenze gemelle del 2014 (che ribattezza come “massimo” costituzionale, perché la norma del comma 6 dell’art. 111 Cost. non può essere intesa se non in termini di effettiva motivazione: pag. 412), avverte chiaramente il carattere posticcio e autoreferenziale delle massime ripetute, anche a fronte della garanzia imposta da quel comma 6; gli sembra infatti impossibile che il controllo – pur “evoluto” dalla logicità alla legittimità – non debba ricomprendere la “sufficienza” e la “contraddittorietà”, salvo che quest’ultima non si presenti nella ennesima forma patologica della «manifesta e irriducibile contraddittorietà» (qui la massima consolidata, dice Taruffo, è «in poche righe intrinsecamente contraddittoria o, nel migliore dei casi, irrimediabilmente vaga» perché la corte non affronta mai il problema di stabilire «quando una contraddizione non è né “manifesta” né irriducibile” e quindi potrebbe essere considerata irrilevante»: pagg. 413-414). L’a. sottolinea che il recupero della formula originaria del n. 5) dell’art. 360, realizzato nel 2012, non ha avuto l’obiettivo di selezionare un vizio nuovo, fino ad allora inedito, sulla ricostruzione del fatto (come la giurisprudenza della corte, a partire dalle sentenze gemelle, ha ripetuto allo scopo di regolare i confini col vecchio motivo), bensì ha perseguito il risultato di escludere del tutto il controllo sulla motivazione, che poi la corte stessa ha “recuperato” lavorando sul n. 4) e anche sul n. 3) dello stesso art. 360 ma imponendo comunque il limite del “minimo costituzionale”; d’altra parte, non può non convenirsi sulla considerazione secondo cui un recupero pieno del controllo dovrebbe passare attraverso un mutamento di giurisprudenza sulle violazioni degli artt. 115 e 116 c.p.c., che un consolidato orientamento tende a non ammettere (o, meglio, tendeva, vigente il n. 5) nella lezione che abbiamo conosciuto tra il 1950 e il 2012).
Le pagine su precedente e nomofilachia (pag. 442 ss.) mostrano gli equivoci alla base della riforma del 2016, nota per aver realizzato la “cameralizzazione” del giudizio di legittimità. Chi abbia esperienza pratica di tale giudizio sa bene che spesso restano del tutto imperscrutabili le ragioni per le quali un ricorso complesso viene avviato per la camera di consiglio mentre altro ricorso, in apparenza più lineare o modesto, è ammesso ai fasti della pubblica udienza; d’altra parte, si leggono spesso ordinanze ampiamente motivate (a volte anche della sezione VI, che dovrebbe realizzare una selezione preliminare) che vengono poi richiamate quale “precedente” alla stessa stregua di una sentenza delle sezioni unite. Per l’osservatore, infatti, spesso non è dato distinguere le sentenze dalle ordinanze, anche perché le raccomandazioni dei primi presidenti sulla relativa tecnica di redazione raramente vengono seguite; e del resto nessuna raccomandazione tecnica potrebbe suggerire all’estensore di una sentenza, fosse anche delle sezioni unite, di scrivere un trattatello in cui esibire la propria cultura o le proprie preferenze scientifiche senza collegamenti o ricadute espliciti rispetto al caso deciso.
Troppo spesso si perde di vista che nelle sentenze (o nelle ordinanze) a parlare è la Suprema Corte di cassazione e non questo o quell’estensore: i quali hanno molte altre sedi (dalle Accademie alle Scuole) in cui poter liberamente dibattere, smessa la toga, i problemi giuridici che sono o saranno chiamati ad affrontare da giudici.
D’altra parte, come possiamo continuare a parlare di nomofilachia quando – scegliamo un argomento a caso – la sezione III è in grado di pubblicare, nonostante un importante precedente “nomofilattico” delle sezioni unite (sent. 27 novembre 2007, n. 24627), due decisioni che, a soli tre mesi di distanza l’una dall’altra e senza che la successiva tenga conto della precedente, affermano da un lato che sono sempre ammissibili anche le impugnazioni incidentali tardive che riguardano un capo della decisione diverso da quello oggetto del gravame principale o che investono lo stesso capo ma per motivi diversi da quelli già fatti valere con l’impugnazione principale (ord. 11 novembre 2020, n. 25285) e, dall’altro lato, che «ai sensi dell’art. 334 c.p.c. e del combinato disposto di cui agli artt. 370 e 371 c.p.c., sono inammissibili le impugnazioni incidentali tardive che hanno contenuto adesivo al ricorso principale, quelle che investono un capo della sentenza non impugnato ed inoltre quelle che investono lo stesso capo impugnato ma per motivi diversi da quelli fatti valere con il ricorso principale: in tali casi, infatti, essendo l’interesse ad impugnare già sorto in conseguenza dell’emanazione della sentenza di appello, l’impugnazione deve essere proposta nei termini di cui all’art. 325 c.p.c.» (ord. 24 agosto 2020, n. 17614)? E non si tratta certo di un caso isolato, perché chi si dedichi a studiare la giurisprudenza della nostra Cassazione scopre facilmente, in relazione alla stessa questione, l’esistenza di più filoni perfettamente autoreferenziali e “a comparti stagni”, nei quali l’ultima sentenza della serie richiama i soli precedenti conformi ignorando l’esistenza di quelli dell’altro o degli altri filoni, destinati così a marciare paralleli per anni, radicando l’incertezza dei risultati. Due esempi a caso: il tema delle restituzioni in appello di quanto versato in esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado, che a volte è materia di pronuncia d’ufficio e a volte richiede la domanda di parte, ammessa senza preclusioni nonostante l’art. 345 c.p.c.; il tema dell’interpretazione dell’art. 2929 c.c., se la norma riguardi le sole nullità relative o anche a quelle assolute; e gli esempi potrebbero continuare ad libitum. Vengono a proposito le parole dell’a.: «se si parla della funzione nomofilattica che la Cassazione dovrebbe svolgere attraverso i suoi precedenti comunque vincolanti, si giunge a dimenticare l’antico detto, attribuito tra gli altri a Seneca, per cui errare humanum est, ma perseverare diabolicum» (pag. 444).
Non sorprende che dello stesso fenomeno – la nomofilachia – all’interno della Cassazione si abbiano idee molto diverse: per taluni, l’attività muove dal basso, mediante la definizione dei giudizi e l’affermazione della regola che sempre parte dall’esame del caso; per altri, la funzione rileva direttamente dinanzi alla legge e può anche prescindere dall’analisi del caso concreto. Per taluni, il diritto è quello oggettivo (di cui parla l’art. 65 ord. giud.); per altri, il diritto è quello che viene vagliato e ricostruito, a volte “inventato” nel senso latino del termine, secondo canoni di rilevanza costituzionale o eurounitaria, divenendo di necessità opinione, autorevolissima ma pur sempre discutibile, dell’organo di legittimità (il “diritto giudiziario”).
Una nota finale. Il libro è dedicato non alla decisione “legittima”, bensì alla decisione “giusta”; l’a. sembra indicare i passaggi per il raggiungimento di tale obiettivo attraverso la verità (pag. 99 ss.), il corretto utilizzo delle norme sulla prova (pag. 187 ss.), la presentazione di una teoria della decisione giusta (pag. 357 ss.), che sia certa e coerente (pag. 369 ss.) ancorché complessa (pag. 383 ss.) per poi tornare al problema di base (“quel che muove”…), ossia il rapporto tra prova e motivazione (pag. 297 ss.) e il suo controllo specie in sede di legittimità (pag. 409 ss.) e così da parte di un “vertice” che sembra alla ricerca perenne di una sua precisa identità (pag. 417 ss.) anche e soprattutto nella cultura del precedente e della nomofilachia (pag. 433 ss.).
Se il percorso è chiaramente tracciato, possiamo dire che la strada davanti a noi verso la decisione “giusta” è ancora molto lunga.
I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura*
di Giacomo d’Amico
Sommario: 1. L’illusoria idea della capacità taumaturgica dei sistemi elettorali e la natura delle correnti come veto player collettivi - 2. La “scelta” del sistema elettorale del CSM quale riflesso della sua composizione e del suo ruolo nell’ordinamento costituzionale - 3. I possibili correttivi al vigente sistema elettorale - 4. Le proposte del rinnovo parziale e del sorteggio - 5. Conclusioni: chi abusa dell’autonomia…non deve mai rischiare di perderla!
1. L’illusoria idea della capacità taumaturgica dei sistemi elettorali e la natura delle correnti come veto player collettivi
L’idea, inespressa ma implicita, che sta alla base di tutte le discussioni sul sistema elettorale del CSM è quella della sua capacità taumaturgica [1] rispetto ai guasti e alle degenerazioni di talune condotte di singoli magistrati e/o di gruppi di essi, come se la scelta dell’uno o dell’altro meccanismo potesse, tutto d’un colpo, risolvere o prevenire i guasti del consociativismo giudiziario.
Questa idea deve ritenersi oggi del tutto superata per almeno due ragioni. Innanzitutto, perché in generale, cioè per qualsiasi tipo di elezioni, «non esiste […] un sistema ottimale esente da inconvenienti» ([2]). L’esperienza dei sistemi elettorali per i due rami del Parlamento, che negli ultimi ventisette anni si sono succeduti tra interventi del legislatore e pronunzie della Corte costituzionale ([3]), ha dimostrato non solo che la degenerazione dei comportamenti degli attori politici non è direttamente imputabile al meccanismo con cui sono eletti, ma che, spesso, l’obiettivo perseguito con la scelta di talune regole elettorali rispetto ad altre risulta essere clamorosamente fallito. Occorre dunque prendere atto che, non di rado, si chiede ai sistemi elettorali ben più di quanto essi possano offrire ([4]).
La seconda ragione per la quale non si può confidare nella capacità taumaturgica dei sistemi elettorali del CSM sta nel fatto che «[n]essun sistema elettorale, almeno a partire dagli anni Settanta, ha mai retto all’accusa di favorire la politicizzazione del Consiglio superiore» ([5]) o, per dirla con parole diverse, «nessun sistema elettorale sino ad oggi sperimentato è riuscito a contenere il peso delle correnti» ([6]). Ciclicamente si verifica, quindi, un fenomeno singolare, per cui l’emersione di prassi degenerative fa riaprire, in dottrina e tra le forze politiche, il dibattito sulle regole elettorali del CSM per poi scoprire che la modifica di queste ultime non ha sortito alcun effetto utile ai fini della risoluzione dei problemi in relazione ai quali era stata promossa la riforma elettorale.
In generale, la sostanziale inefficacia dei sistemi elettorali è anche il frutto di un (naturale) fenomeno di adattamento degli attori politici, i quali “variano” le loro scelte in merito alle modalità di aggregazione in base al sistema elettorale con il quale avrà luogo la competizione. Si rivela pertanto illusorio pretendere che gli stessi, in presenza di una variazione delle regole del gioco, continuino a comportarsi nello stesso modo in cui avevano agito sotto la vigenza di regole diverse. Come pure è illusorio ritenere che la loro azione non sia condizionata dalle condotte dei competitor. è dunque fondamentale prendere atto che i comportamenti degli attori politici (quali sono le correnti ([7]) nelle dinamiche elettorali del CSM) sono caratterizzati da una razionalità rispetto al fine da essi perseguito ([8]).
Può essere utile, a tal proposito, la riflessione che la scienza della politica ha svolto sul ruolo dei c.d. veto player individuali e collettivi ([9), intendendosi, con questa formula, «gli attori individuali o collettivi il cui consenso è necessario per modificare lo status quo» ([10]). Da questo punto di vista, le elezioni dei membri togati del CSM, come pure l’assunzione, in seno a quest’ultimo, di talune decisioni (specialmente quelle concernenti il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi e i procedimenti disciplinari), costituiscono il contesto in cui l’azione delle correnti può ricondursi a quella di veri e propri veto player collettivi. è infatti in queste occasioni che maggiore rilevanza assumono il peso delle singole correnti e la loro capacità di puntare sulla soluzione in grado di ottenere il sostegno della maggioranza del plenum. Se è vero che questo ruolo può costituire il valore aggiunto dell’articolazione correntizia, agevolando l’individuazione della soluzione intorno alla quale “coagulare” la maggioranza necessaria ([11]), è altrettanto vero che la rilevanza delle correnti, se non “contenuta” entro gli argini del fisiologico sviluppo delle istanze pluralistiche, può tradursi in una mera pratica spartitoria.
La scelta del sistema elettorale non è, dunque, risolutiva ai fini dell’eliminazione di tali aspetti patologici, il cui inquadramento, peraltro, dipende da opzioni di carattere culturale. Le correnti dei magistrati sono intese, infatti, da taluni, come naturali espressioni del pluralismo ideologico e, da altri, come vere e proprie consorterie o – riprendendo la definizione del Prof. Spangher – «correnti di persone», costruite intorno a centri di interesse e di potere piuttosto che a modelli culturali di riferimento.
La presa d’atto dell’incapacità dei sistemi elettorali di correggere o di prevenire pratiche spartitorie o condotte ancor più discutibili non può, però, indurre a considerare del tutto indifferente la scelta delle regole elettorali. Queste, infatti, non sono caratterizzate da una sostanziale succedaneità, né lo è il metodo elettivo rispetto ad altri modi di selezione della componente togata del CSM.
2. La “scelta” del sistema elettorale del CSM quale riflesso della sua composizione e del suo ruolo nell’ordinamento costituzionale
Occorre, dunque, ritornare alla questione di partenza e interrogarsi preliminarmente su qual è e quale debba essere il ruolo del CSM. Solo sulla base delle risposte date a queste domande si potrà avere un quadro più nitido di ciò che ci si deve attendere dal sistema che regola la sua elezione.
Nelle precedenti sessioni di questo convegno è stato spesso utilizzato il termine “rappresentanza”. Immaginare il rapporto tra il corpus dei magistrati e il CSM in termini di rappresentanza è, però, fuorviante, in quanto si rischia di assimilare la funzione del CSM a quella degli organi di rappresentanza politica. Da questo punto di vista, la dottrina costituzionalistica è concorde nel ritenere che il Consiglio superiore non è un organo rappresentativo in senso stretto della magistratura, lo è semmai della pluralità di posizioni e di idee. Al riguardo, è stato acutamente rilevato che il CSM ha «una policy, cioè un complesso di criteri orientativi, ma non [può] interferire con le politics, cioè con la politica partitica» ([12]). Analogamente può dirsi che il Consiglio superiore della magistratura non ha – né deve avere – un proprio indirizzo politico, ma è un organo dotato di «forza politica». Le incertezze sulla ricostruzione della funzione svolta dal CSM nell’ordinamento costituzionale ([13]) richiamano alla mente gli analoghi dubbi che la dottrina ha da sempre nutrito nei confronti dell’attività svolta dalla Corte costituzionale e, in misura minore, dal Presidente della Repubblica. Anche in questi casi, è risultato complicato “classificare” questi organi secondo gli schemi tradizionali; non a caso, sono state elaborate formule come quella della «forza politica» della Corte costituzionale ([14]) o dell’indirizzo politico generale o costituzionale del Capo dello Stato, nelle quali trovano un punto d’incontro le esigenze di dare atto dell’influenza politica di questi organi e della loro differenza rispetto a quelli di rappresentanza politica.
Pur con le dovute differenze, sembra che ad analoghi risultati possa giungersi anche per il CSM, che, oltre a essere presieduto dal Presidente della Repubblica, presenta, quanto alla sua composizione, significative “assonanze” con la Corte costituzionale, almeno per quel che concerne il terzo dei componenti eletto dal Parlamento in seduta comune. Per queste ragioni, può risultare utile il ricorso, anche per il Consiglio superiore della magistratura, a formule come quella dell’indirizzo politico costituzionale ([15]), non a caso elaborata dal suo Autore per tutti gli organi costituzionali e non per il solo Capo dello Stato ([16]). Resta poi il nodo, tutt’ora irrisolto della natura del CSM, «cioè se esso debba considerarsi organo costituzionale, a rilevanza costituzionale o di “alta amministrazione”» ([17]).
In definitiva, la varietà delle formule impiegate per definire il ruolo svolto dal CSM è sintomatica della sua incerta collocazione nell’ordinamento costituzionale. Da questo punto di vista, la perenne oscillazione delle ricostruzioni dottrinali rappresenta la logica conseguenza di questa incertezza. Tutto ciò non costituisce un limite dell’organo ma è, al contrario, il suo punto di forza, idoneo a porlo al confine tra la giurisdizione (soprattutto per quanto attiene alla competenza in materia di provvedimenti disciplinari) e la politica (da intendersi come politica della giurisdizione). Questa costante oscillazione è, dunque, nelle corde del CSM e deriva dalla sua natura, per molti versi, ibrida, voluta già dai Padri Costituenti.
Sempre muovendo dalla prospettiva della individuazione delle basi da cui partire, non può essere tralasciato il fatto che si tratta di un organo che ha un numero di componenti esiguo e che quello dei membri eletti è assai ridotto in termini assoluti ma risulta cospicuo in termini relativi. A tal proposito, è significativo che il peso specifico di ciascun consigliere all’interno del plenum è pari a quello di ventitré deputati e di quasi dodici senatori ([18]). In altre parole, il peso specifico di ciascun consigliere del CSM corrisponde a poco più di quello di un gruppo parlamentare alla Camera e al Senato.
I riflessi di questa considerazione sul piano delle regole elettorali sono evidenti, soprattutto se si considera l’ipotesi – giustamente scartata dalla dottrina – di un sistema prevalentemente maggioritario ([19]). Gli effetti di quest’ultimo sarebbero, infatti, pericolosamente amplificati da quanto appena detto in merito alla consistenza numerica del Consiglio e al peso specifico di ciascun consigliere.
L’esiguità in termini assoluti del numero dei componenti elettivi e la sua consistenza in termini relativi assumono una particolare rilevanza sul piano della rappresentanza delle c.d. minoranze; basti pensare che anche la previsione di un sistema proporzionale puro potrebbe non garantire la loro presenza in seno al Consiglio. Non può, infine, essere sottaciuto l’effetto selettivo svolto dalla previsione di collegi, effetto direttamente proporzionale al loro numero e inversamente proporzionale alle loro dimensioni.
Se questo è il “contesto” nel quale trovano applicazione le regole del gioco elettorale, occorre anche avere chiari gli obiettivi da perseguire con la scelta di un sistema elettorale piuttosto che di un altro. Al riguardo, la Corte costituzionale, in una recente pronuncia relativa alla previsione di soglie di sbarramento nella legge che disciplina l’elezione dei rappresentanti italiani nel Parlamento europeo ([20]), ha affermato che il superamento «della mera “registrazione proporzionale della pluralità socio-politica”» ([21]) e quindi la scelta di un sistema proporzionale possono giustificarsi «per porre in essere meccanismi idonei ad assicurare efficacia ed efficienza del procedimento decisionale».
In particolare, la Corte, riprendendo affermazioni contenute in pronunce precedenti ([22]), ha precisato che «l’esigenza di rappresentare l’“universalità” dei cittadini elettori» può essere sacrificata in nome dell’esigenza «di assicurare la governabilità e [di] quella di evitare la frammentazione politico-partitica che potrebbe rallentare o paralizzare i processi decisionali all’interno dell’assemblea parlamentare».
Pare abbastanza evidente che né l’una né l’altra delle due esigenze sussistono nel caso dell’elezione della componente togata del CSM. Rispetto a questo organo non si pone infatti né un problema di governabilità né di eliminazione della frammentazione politico-partitica ([23]). In qualche fase storica si è posto il problema (richiamato dal Cons. Santalucia nella sua relazione) di non rappresentare le minoranze (prevedendo soglie di sbarramento particolarmente elevate), ma generalmente ci si è preoccupati della questione opposta, cioè di assicurare la presenza delle stesse.
3. I possibili correttivi al vigente sistema elettorale
Alla luce di queste premesse può essere esaminato il vigente sistema elettorale, introdotto dalla legge n. 44 del 2002 ([24]), il quale soffre di quel difetto di origine di cui sopra si è detto, cioè dell’errata convinzione che potesse escogitarsi un insieme di regole del gioco elettorale tale da eliminare le degenerazioni correntizie. Com’è noto, questo sistema prevede tre collegi unici nazionali, il voto non è più per liste ma è su singoli candidati e ogni elettore ha un voto per ciascuno dei tre collegi unici nazionali. Dunque, l’introduzione del collegio unico nazionale si affianca all’eliminazione delle liste e già questo è un elemento di incongruenza, poiché risulta impossibile «per i candidati […] fare a meno dell’appoggio di gruppi organizzati su tutto il territorio nazionale» ([25]).
Non decisiva appare la questione “classificatoria”, cioè capire se si tratti di un sistema elettorale maggioritario ([26]) o proporzionale (come pure si è sostenuto nelle relazioni di accompagnamento di taluni disegni di legge ([27]) e durante i dibattiti parlamentari). Al riguardo, la previsione di tre collegi unici nazionali, pur in assenza di un sistema di liste, finisce con il rendere decisivo il peso delle correnti, con la conseguenza che sarà pressoché impossibile l’elezione di un candidato molto apprezzato nel contesto territoriale in cui opera ma poco conosciuto a livello nazionale o che è privo del supporto di una corrente di riferimento.
Se così è e se si vuole ridurre il peso delle correnti nella elezione dei componenti togati del CSM (obiettivo, questo, unanimemente voluto dai più, almeno a parole), non resta che affidarsi a un sistema elettorale misto che abbia una componente proporzionale, al fine di assicurare il pluralismo di idee e di contributi, ma che dia qualche chance anche a candidati validi seppure privi del sostegno a livello nazionale derivante dalla loro fama o dal peso della corrente.
Deve dunque escludersi sia l’ipotesi di un sistema maggioritario puro sia quella di un proporzionale puro con liste concorrenti, per la ragione che la prima soluzione esalterebbe i personalismi, la seconda il correntismo. Non resta che affidarsi a sistemi misti, in cui la combinazione tra proporzionale e maggioritario può realizzarsi in vari modi. Solitamente il mix consiste nell’assegnazione di una parte o percentuale dei seggi con l’un sistema e della restante con l’altro ([28]), oppure in un meccanismo di riparto proporzionale dei seggi sul quale si innesta un premio di maggioranza ([29]). Misto è anche quel sistema che prevede un riparto su base maggioritaria al primo turno e su base proporzionale al secondo; questo è il caso del meccanismo ideato dalla c.d. Commissione Scotti, secondo cui al primo turno i seggi sarebbero stati assegnati con criterio maggioritario su base territoriale, mentre al secondo con criterio proporzionale per liste concorrenti su base nazionale. A ben vedere questo sistema finirebbe paradossalmente con il riunire gli inconvenienti derivanti sia dall’uno che dall’altro sistema elettorale, finendo con il favorire sia i personalismi (al primo turno) sia i candidati di corrente (al secondo).
Risulta evidente quindi che l’operazione cui sarebbe chiamato il legislatore che decidesse di modificare l’attuale sistema elettorale non è affatto di facile soluzione, non potendosi accogliere acriticamente qualsiasi combinazione dei criteri proporzionale e maggioritario, ma dovendosi piuttosto valutare gli specifici effetti discendenti dall’una scelta o dall’altra.
Al netto delle valutazioni critiche sopra espresse, sembrano restare sul campo due ipotesi, così riassumibili: quella del voto singolo trasferibile e quella del sistema elettorale del Senato vigente prima del 1993.
La prima ipotesi, formulata dalla c.d. Commissione Balboni ([30]) e poi ripresa da autorevole dottrina ([31]), prevede la possibilità per gli elettori di scegliere più candidati ma secondo un proprio ordine di preferenza, anche a prescindere, quindi, dall’appartenenza dei due o più candidati alla stessa lista. In questo modo sarebbe scardinato il meccanismo delle liste, in quanto l’elettore potrebbe dare un ordine alle sue preferenze. Al di là della sua complessità ([32]), questo sistema, nel tentativo di limitare il peso delle correnti, potrebbe però favorire cordate trasversali o quanto meno un sostanziale appiattimento ideologico e culturale dei candidati, che, pur di accaparrarsi il sostegno trasversale, potrebbero tendere a sfumare le differenze. Al contempo, sarebbe sicuramente esaltata la libertà degli elettori, il che si tradurrebbe nella massima rappresentatività degli eletti.
La seconda ipotesi punta a recepire il sistema elettorale vigente per il Senato prima del referendum del 1993 ([33]). Questo sistema, che ha consentito di passare dal proporzionale al maggioritario a seguito della consultazione referendaria, si caratterizzava per una singolare combinazione che consentiva l’operatività solo eventuale delle regole maggioritarie. Esso prevedeva, infatti, che il territorio di ciascuna Regione fosse diviso in tanti collegi uninominali quanti erano i senatori da eleggere; inoltre, ciascun candidato nei collegi uninominali doveva “collegarsi” ad almeno due candidati in altrettanti collegi della stessa regione. All’interno dei collegi uninominali sarebbe stato eletto il candidato che avesse ottenuto il 65% dei voti; qualora questa soglia non fosse stata raggiunta, i voti di tutti i candidati sarebbero stati raggruppati in liste di partito a livello regionale, dove i seggi sarebbero stati allocati utilizzando il metodo D’Hondt delle maggiori medie statistiche e quindi, all’interno di ciascuna lista, sarebbero stati dichiarati eletti i candidati con le migliori percentuali di preferenza. Dunque, il riparto sarebbe avvenuto con il criterio proporzionale a livello nazionale, secondo il metodo D’Hondt che non dà resti.
Nella prassi il numero dei candidati che hanno ottenuto almeno il 65% dei voti e quindi dei senatori eletti con il sistema maggioritario è sempre stato molto esiguo, sfiorando solo nelle elezioni del 1948 il 5%. Negli ultimi decenni di vigenza della legge (dal 1968 al 1992), poi, questo numero non ha superato le due unità. Quest’ultima considerazione potrebbe indurre il legislatore, che intendesse estendere all’elezione della componente togata del CSM questo meccanismo elettorale, a ridurre la percentuale necessaria per l’elezione all’interno del singolo collegio, portandola a una – anche sensibilmente – più bassa, ad esempio del 55%. In questo modo aumenterebbero le possibilità di elezione in seno ai collegi senza precludere del tutto il riparto su base proporzionale. Non mi parrebbe opportuno prevedere percentuali più basse del 55% perché altrimenti i seggi finirebbero con l’essere assegnati in gran parte con un sistema di tipo maggioritario, cioè all’interno dei collegi, e non con il riparto proporzionale su scala nazionale. In definitiva, applicando questo meccanismo elettorale al CSM, dovrebbero essere previsti tanti collegi uninominali quanti sono i seggi da assegnare, esclusi i due della Cassazione.
A queste previsioni dovrebbe, inoltre, accompagnarsi l’obbligo di apparentamento con almeno altri due candidati, in modo da mantenere il legame derivante dalla consonanza ideologica e culturale. Anche in questo caso, la determinazione del numero degli altri candidati con cui apparentarsi sarebbe decisiva per la connotazione del sistema elettorale, dovendosi ritenere che l’aumento di questo numero possa produrre l’effetto di amplificare il legame correntizio.
Al di là della combinazione di elementi propri del sistema proporzionale e di quello maggioritario, è evidente che il buon funzionamento di questo meccanismo dipende dal giusto “dosaggio” della percentuale necessaria per essere eletti nel collegio uninominale e del numero minimo di altri candidati con cui apparentarsi, non potendo, la prima, scendere oltre una certa soglia e il secondo superare un certo valore.
Non bisogna poi tralasciare il fatto che – come evidenziato in apertura di questo scritto – le correnti adegueranno le loro condotte al mutato quadro elettorale, con la conseguenza che potrebbero essere necessari alcuni ulteriori aggiustamenti per conciliare le diverse esigenze sopra esaminate.
4. Le proposte del rinnovo parziale e del sorteggio
In alternativa al mutamento del sistema elettorale nei termini descritti, non è da scartare l’ipotesi di un rinnovo parziale del CSM; in particolare, è stato proposto di eleggere ogni due anni quattro laici e otto togati, sia per evitare «la dispersione integrale ed antifunzionale delle competenze acquisite dai consiglieri», sia per «aiutare a “scomporre” certe dinamiche e certi “blocchi” di potere» ([34]). Per assicurare il rinnovo parziale del CSM sembra, però, inevitabile il ricorso a una legge costituzionale; sebbene infatti possa discutersi sull’interpretazione da dare al penultimo comma dell’art. 104 Cost., secondo cui «[i] membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili», non pare realizzabile con legge ordinaria lo “sfasamento temporale” iniziale della durata di metà dei componenti ([35]). In altre parole, per la prima elezione sarà necessario modificare la durata in carica dei membri elettivi, prevedendo, ad es., che il mandato di coloro che hanno avuto i quozienti elettorali più alti duri quattro anni, mentre quello degli altri solo due. Questa deroga alla previsione dell’art. 104 Cost. dovrebbe quindi essere prevista da una legge costituzionale.
La soluzione del rinnovo parziale non sembra risolvere, però, il problema del meccanismo di elezione, che resterebbe comunque immutato; anzi, l’elezione di un numero più ridotto di componenti potrebbe accentuare gli elementi maggioritari del meccanismo elettorale, personalizzando – anche eccessivamente – la contesa (si pensi, ad esempio, ai due magistrati con funzioni di legittimità, che sarebbero eletti uno per volta). Dunque, il rinnovo parziale potrebbe risultare una soluzione più complicata da realizzare e, al tempo stesso, non del tutto risolutiva; più complicata, perché occorrerebbe una legge costituzionale almeno per assicurare lo “sfasamento temporale” iniziale, non del tutto risolutiva, perché finirebbe con il perpetuare, se non peggiorare, i limiti della legge elettorale.
Del tutto superata ([36]) – almeno nel momento in cui si scrive – sembra poi la proposta, sostenuta dall’attuale Ministro della Giustizia Bonafede, di introdurre un sorteggio preventivo dei candidabili ([37]); in particolare, il sistema elettorale sarebbe stato articolato in due fasi: in una prima, sarebbe stato sorteggiato il venti per cento degli eleggibili tra i magistrati in possesso dei requisiti di cui all’art. 24 della legge n. 195 del 1958, nella seconda, si sarebbe proceduto all’elezione tra i magistrati sorteggiati che avessero presentato la propria candidatura ([38]).
Non vi è dubbio – almeno a mio parere – che siffatte previsioni, se fossero approvate nei termini anzidetti, si esporrebbero al rischio di essere dichiarate incostituzionali. A poco varrebbe osservare che l’art. 104 Cost. fa un generico riferimento, quanto all’elettorato passivo, agli «appartenenti alle varie categorie» e non a “tutti”, dovendosi piuttosto ritenere che questa previsione non possa non essere interpretata in senso omnicomprensivo, cioè di ritenere eleggibili tutti i magistrati e non solo una percentuale estratta a sorte.
V’è poi da aggiungere che forti sospetti di irragionevolezza si appuntano sulla percentuale, indicata nel disegno di legge, di eleggibili che dovrebbero essere sorteggiati; ritenere candidabili solo un quinto degli eleggibili (20%) produrrebbe una significativa compressione del diritto di elettorato passivo che tradisce la ratio della disposizione costituzionale di cui all’art. 104 Cost.
Non trascurabile è poi il rischio che un magistrato sorteggiato nella prima fase possa sentirsi “costretto” a candidarsi per ragioni di appartenenza correntizia, in quanto unico “rappresentante” di quell’area. Si avrebbe, in questo modo, un’ulteriore compressione della libera scelta del soggetto titolare di elettorato passivo.
Al contempo, non sembra che utili indicazioni a favore del metodo del sorteggio possano trarsi da due ipotesi in cui è previsto il ricorso a questo meccanismo decisionale; si allude a quanto affermato nella sentenza n. 35 del 2017, a proposito della scelta del collegio di elezione da parte del capolista eletto in più collegi ([39]), e al sistema di individuazione dei docenti universitari componenti delle commissioni per l’abilitazione scientifica nazionale (ASN) e per le c.d. chiamate.
Nell’un caso (scelta del collegio di elezione), la Corte costituzionale, a fronte di una normativa che consentiva un’«opzione arbitraria» del capolista, idonea a condizionare l’elezione degli altri candidati, ha precisato che quello del sorteggio costituisce (rectius, costituiva, trattandosi di un sistema elettorale poi superato dalla legge n. 165 del 2017) un «criterio residuale», previsto già dal legislatore, che – nel caso di specie – assicurava una normativa elettorale di risulta all’esito dell’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957. Dunque, il ricorso al sorteggio (del collegio di elezione) si giustificava solo in quanto extrema ratio, desumibile dal contesto normativo, per evitare di rimettere alla scelta arbitraria del capolista la decisione sull’elezione di altri candidati.
Non conferente risulta anche la comparazione con il sorteggio dei componenti delle commissioni dell’ASN e delle c.d. chiamate (a livello locale). In questo caso, infatti, non si tratta di dare voce al pluralismo presente nella comunità accademica, bensì di selezionare i docenti universitari ritenuti più idonei a valutare i candidati. Da questo punto di vista, appare condivisibile la scelta del legislatore di individuare, come unico criterio valido per la selezione dei commissari, la produttività scientifica degli stessi (valutata attraverso il sistema delle c.d. mediane), in coerenza peraltro con tutto il complesso normativo che mira a valorizzare i docenti scientificamente attivi (ad es. consentendo solo a questi di fare parte dei collegi di dottorato ecc.). In questo quadro si colloca il sorteggio dei commissari, limitato, come si è detto, a coloro che hanno raggiunto le c.d. mediane.
Al riguardo, appare significativo che il meccanismo precedentemente previsto (per i concorsi locali, non essendovi all’epoca una procedura di comparazione su scala nazionale) e superato dal legislatore del 2010 era quello dell’elezione dei commissari (fatta eccezione per il c.d. membro interno designato dall’Università che aveva bandito il concorso). Il meccanismo dell’elezione aveva però dimostrato tutti i suoi limiti, non essendovi alcun nesso oggettivo tra l’elezione di uno specifico commissario e il compito a esso assegnato in relazione alla sede che aveva bandito; semmai, avrebbe avuto un senso un’elezione dei commissari su scala nazionale, volta a selezionare i docenti ritenuti più idonei a svolgere l’attività di componenti delle commissioni. Ciò ha provocato, in qualche raro caso, l’elezione del tutto casuale di un commissario piuttosto che di un altro e, nella gran parte dei casi, vere e proprie campagne elettorali al fine di eleggere commissari non invisi al membro interno e alla struttura universitaria che aveva bandito il concorso.
Il fallimento di questo metodo di individuazione dei commissari nei concorsi universitari dimostra che l’elezione ha un senso solo se funzionale ad assicurare un rapporto di consonanza (non sempre di rappresentanza) tra l’elettore e l’eletto in relazione agli specifici compiti cui è chiamato quest’ultimo, altrimenti diventa un meccanismo per selezionare non i candidati ritenuti più idonei ma quelli considerati amici.
Se così è, non appare indifferente l’individuazione di un magistrato piuttosto che di un altro come componente del CSM, né appare convincente l’elezione limitata ai magistrati sorteggiati, che potrebbe escludere dall’elettorato passivo proprio coloro che, per il loro bagaglio culturale e per la loro esperienza professionale, sono maggiormente in grado di svolgere i compiti cui è chiamato il CSM. Non del tutto persuasiva risulta pure la proposta di un «sorteggio dei migliori» ([40]), non essendo facilmente individuabile un criterio per selezionare questi ultimi. Da questo punto di vista, la «laboriosità» o l’«indice di decisioni confermate in appello» potrebbero non essere elementi sufficienti per selezionare i magistrati più adatti. Si tratta infatti di scegliere non i migliori per laboriosità, ma coloro che, senza demeriti, siano ritenuti più idonei a farsi portatori del pluralismo di idee e di culture presenti all’interno della magistratura.
In definitiva, l’ipotesi del sorteggio integrale o parziale (nei termini di cui si è detto) appare non solo in contrasto con il dato dell’art. 104 Cost. ma anche intrinsecamente irragionevole ([41]).
6. Conclusioni: chi abusa dell’autonomia…non deve mai rischiare di perderla!
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte non resta che confidare, per un verso, in una modifica delle regole elettorali che non faccia venir meno il carattere proporzionale del meccanismo di riparto dei seggi, per altro verso, in un significativo mutamento culturale che non rifiuti le correnti ([42]) ma che punti a riscoprire le ragioni di appartenenza ideologica e culturale, rifuggendo dalle famigerate «correnti di persone» ([43]) e dal «deleterio sistema dei “pacchetti” nelle nomine, specie dei titolari di uffici direttivi» ([44]).
Estremamente attuale resta ancora oggi la lezione di Vittorio Denti che quasi quaranta anni fa scriveva: «[il giudice] deve uscire dalla logica del potere burocratico che la tradizione gli ha imposto e sentire la sua funzione come legal profession che si legittima in base a due aspetti essenziali: il compito di garantire la correttezza in tutte le manifestazioni della vita associata, e il possesso di una preparazione culturale adeguata a sostenere il continuo raffronto con le realtà nelle quali è chiamato ad operare» ([45]).
Questo non è probabilmente un obiettivo facilmente raggiungibile; è però sicuramente l’orizzonte verso cui tendere, rispetto al quale l’autonomia della magistratura deve essere un presupposto fuori discussione e non un’arma da brandire sia pure per finalità dissuasive. Per questa ragione l’abuso dell’autonomia, che pure deve essere stigmatizzato e sanzionato là dove possibile, non deve mai indurre a metterla in discussione. In altre parole – riformulando il titolo di un recente scritto sul tema ([46]) – chi abusa dell’autonomia…non deve mai rischiare di perderla!
* Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17
([1]) In merito, F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM: contrastare la lottizzazione preservando il pluralismo, in Forum di Quad. cost., 16 luglio 2019, p. 1, scrive icasticamente: «L’idea del “potere salvifico” della legge elettorale non è certo nuova».
([2]) G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione Giustizia, 4/2017, p. 27. Sul punto, la dottrina politologica si è sforzata di ricostruire il problema delle regole elettorali in chiave di «ingegneria costituzionale»: cfr., per tutti, G. Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino, Bologna, 2013.
([3]) Il riferimento è, in particolare, alle sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017, ma è anche a quelle decisioni che hanno dichiarato inammissibili taluni quesiti referendari che, se ammessi e approvati dal corpo elettorale, avrebbero potuto stravolgere le leggi elettorali di Camera e Senato (fra le più recenti, ordinanze n. 10 del 2020 e n. 13 del 2012).
([4]) Si tratta di un fenomeno che non deve sorprendere in quanto riconducibile alla generale tendenza della politica a rifugiarsi nelle valutazioni e nei dati tecnici per risolvere questioni che la stessa politica preferisce non affrontare, pur avendo gli strumenti per definirle.
([5]) F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM, cit., p. 1.
([6]) N. Zanon, F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, in Forum di Quad. cost., 27 giugno 2019, p. 2.
([7]) Sulle origini e sull’evoluzione delle correnti della magistratura italiana si veda, da ultimo, G. Melis, Le correnti della magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, in questionegiustizia.it, 10 gennaio 2020.
([8]) Sulle dinamiche legate alla competizione elettorale relativa ai membri togati del CSM si vedano le interessanti riflessioni svolte da D. Piana, A. Vauchez, Il Consiglio superiore della magistratura, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 90 ss.
([9]) L’utilità dell’estensione di questo approccio alle dinamiche interne alla magistratura si coglie soprattutto in termini di comprensione di talune azioni collettive. Sul punto si rinvia a G. Tsebelis, Poteri di veto. Come funzionano le istituzioni politiche (2002), trad. di D. Giannetti, il Mulino, Bologna, 2004, spec. pp. 77 ss.
([10]) G. Tsebelis, op. cit., p. 51.
([11]) G. Tsebelis, op. cit., p. 109, rileva che «[v]eto player individuali decidono in base alla regola dell’unanimità (dato che il disaccordo di uno solo di essi può impedire una modifica dello status quo) mentre veto player collettivi per prendere decisioni ricorrono alla regola della maggioranza qualificata o della maggioranza semplice» (p. 109).
([12]) A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Einaudi, Torino, 1990, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, vol. I, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, p. 116; F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM, cit., p. 3.
([13]) Si pensi, ancora, al dibattito sull’utilizzo dell’espressione «organo di autogoverno», su cui criticamente, tra gli altri, S. Bartole, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, Cedam, Padova, 1964, pp. 3 ss., e A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., in Quad. cost., 1989, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, vol. II, cit., pp. 1065 s.
([14]) T. Martines, Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche, Giuffrè, Milano, 1957, ora in Id., Opere, I, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 206 ss.
([15]) In termini analoghi G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., pp. 22 ss., il quale precisa che «il Csm non può pretendere di esprimere un indirizzo politico fuori dal campo proprio dell’amministrazione della giustizia civile e penale […] lo stesso Consiglio può e deve invece esprimere un proprio indirizzo politico in materia giudiziaria – che vale a formare l’indirizzo politico costituzionale – nel rispetto, beninteso, delle riserve di legge contenute nella Costituzione e nell’ovvio riconoscimento della superiorità della fonte legislativa, sottoposta soltanto alle norme costituzionali» (p. 24).
([16]) Per P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, pp. 295 ss. spec. p. 308, tutti gli organi costituzionali sono compartecipi della funzione di indirizzo politico generale o costituzionale, mentre solo alcuni di essi sono contitolari di quella di indirizzo politico di maggioranza. La formula dell’«indirizzo politico generale o costituzionale» è stata elaborata da Barile per definire l’attuazione dei fini costituzionali permanenti e per distinguere quest’ultima dalla natura contingente dell’indirizzo politico di maggioranza. Questa formula, che apparentemente non ha avuto molto successo in dottrina, continua a essere ciclicamente ripresa per la sua capacità di cogliere talune sfumature che la rigida distinzione tra attività di indirizzo e attività di garanzia non riesce a giustificare. Tra coloro che hanno ripreso e sviluppato l’impostazione teorica di Barile si segnala E. Cheli, in Atto politico e funzione d’indirizzo politico, Giuffrè, Milano, 1961, pp. 137 ss. e in Il Presidente della Repubblica come organo di garanzia costituzionale, in Studi in onore di Leopoldo Elia, I, Giuffrè, Milano, 1999, pp. 301 ss.
([17]) Così testualmente T. Martines, Diritto Costituzionale, XIV ed. interamente riveduta da G. Silvestri, Giuffrè, Milano, 2017, p. 445. Sul tema si veda, dello stesso Autore, Organi costituzionali: una qualificazione controversa (o, forse, inutile), in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, III, Mucchi, Modena, 1996, pp. 1035 ss. e ora in Id., Opere, I, cit., pp. 607 ss.
([18]) A questo risultato si giunge calcolando un ventisettesimo dei componenti della Camera e del Senato.
([19]) Si allude a un sistema c.d. misto con una forte componente maggioritaria.
([20]) Sentenza n. 239 del 2018, punto 6.2 cons. dir.
([21]) L’espressione riportata dalla Corte tra virgolette è tratta da D. Fisichella, Elezioni (sistemi elettorali), in Enc. dir., XIV, Giuffrè, Milano, 1965, p. 653.
([22]) Soprattutto nelle sentenze n. 193 del 2015 e n. 35 del 2017.
([23]) Cfr. G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997, spec. pp. 179 s.
([24]) Per un quadro aggiornato dei precedenti sistemi elettorali e delle diverse proposte in campo si rinvia a C. Salazar, Questioni vecchie e nuove sul sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, in giudicedonna.it, 2-3/2019, pp. 1 ss.
([25]) F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM, cit., p. 2.
([26]) In tal senso, F. Dal Canto, op. et loc. ult. cit., e Id., Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, in Consulta Online, 30 gennaio 2020, p. 10.
([27]) Cfr. Camera dei deputati, XVIII legislatura, proposta di legge n. 226, d’iniziativa dei deputati Ceccanti e M. Di Maio.
([28]) Al riguardo si pensi al c.d. Mattarellum, cioè al sistema elettorale vigente in Italia dal 1993 al 2005, introdotto a seguito del referendum abrogativo parziale sulla legge elettorale del Senato e poi delle due leggi del 1993 (n. 276 e n. 277) che, rispettivamente, apportarono qualche aggiustamento alla legge del Senato, oggetto del referendum, e modificarono il sistema elettorale della Camera per adeguarlo a quello dell’altro ramo del Parlamento.
([29]) Il riferimento è al c.d. Porcellum, introdotto con la legge n. 270 del 2005, con il quale si è votato dal 2006 al 2013.
([30]) Il cui testo è consultabile in E. Balboni, La Relazione finale della Commissione di studio per la riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura (1996), in Quad. cost., 3/1997, e ora in Forum di Quad. cost., 16 giugno 2019, pp. 1 ss. In particolare, sulla proposta di un sistema elettorale basato sul c.d. voto singolo trasferibile si veda p. 10 dello scritto citato.
([31]) N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, V ed. riv. e ampl., Zanichelli, Bologna, 2019, p. 40.
([32]) Riconosciuta dai suoi stessi sostenitori: N. Zanon, F. Biondi, op. et loc. ult. cit.
([33]) In questo senso G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, cit., p. 180; Id., Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., p. 28.
([34]) N. Zanon, F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, cit., p. 3.
([35]) In questi termini la relazione della c.d. Commissione Balboni, per la quale si veda E. Balboni, La Relazione finale della Commissione di studio per la riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura (1996), cit., p. 9.
([36]) Sugli scenari che si aprono dopo l’abbandono dell’idea del sorteggio si veda V. Savio, Quale sistema elettorale per il Consiglio superiore della magistratura?, in questionegiustizia.it, 25 febbraio 2020.
([37]) La proposta di introdurre un sorteggio per selezionare i componenti del CSM è stata avanzata per la prima volta nei primi anni ’70 dal Movimento sociale italiano, sia pure con modifica della Costituzione, e poi ripresa dal Ministro Alfano in un progetto del 2009. Sul punto si veda, di recente, S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM: vecchi problemi, ma quali soluzioni?, in Osserv. cost. AIC, 1/2020, 7 gennaio 2020, p. 27 s.
([38]) Su questa proposta si rinvia ai commenti, tra gli altri, di V. Savio, Come eleggere il Csm, analisi e proposte: il sorteggio è un rimedio peggiore del male, in questionegiustizia.it, 26 giugno 2019; N. Rossi, La riforma del Csm proposta dal Ministro Bonafede, in questionegiustizia.it, 12 luglio 2019.
([39]) Sentenza n. 35 del 2017, punto 12.2 del cons. dir.
([40]) In questo senso M. Ainis, Il sorteggio dei migliori, in la Repubblica, 8 giugno 2019, p. 33.
([41]) Su ulteriori profili di irragionevolezza legati alla peculiarità delle funzioni svolte dai consiglieri si sofferma F. Troncone, La nuova legge elettorale del CSM: una diversa soluzione è possibile, in www.unicost.eu, 26 luglio 2019.
([42]) è appena il caso di rilevare che l’associazionismo dei magistrati è espressamente tutelato dall’art. 25 della Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri su giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità, consultabile in Giustizia Insieme, 1-2/2011, p. 207, secondo cui «[i] giudici devono essere liberi di formare ed aderire a organizzazioni professionali i cui obiettivi siano di garantire la loro indipendenza, tutelare i loro interessi e promuovere lo Stato di diritto». Sul punto, E. Bruti Liberati, CSM, l’esigenza di cambiare il sistema elettorale, in Corriere della sera, 25 giugno 2019, p. 26.
([43]) Secondo la definizione data da G. Spangher nella sua Relazione al presente Convegno.
([44]) G. Silvestri, Pizzorusso e l’ordinamento giudiziario, in A. Pizzorusso, L’ordinamento giudiziario, vol. I, cit., p. XIX. Negli stessi termini, M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in Osserv. cost. AIC, 1/2020, 7 gennaio 2020, p. 17.
([45]) V. Denti, La cultura del giudice, in Quad. cost., 1/1983, pp. 35 ss.
([46]) N. Zanon, F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, cit.
La politica attraverso i social
Intervista di Giuseppe Cricenti ai Prof.ri Gianpietro Mazzoleni e Alfio Mastropaolo
Introduzione
Giuseppe Cricenti
E’ opinione corrente - ma forse più una diceria - che i social media hanno cambiato la comunicazione politica, ed operano come mezzi di persuasione dell’elettorato; che anzi, è buona raccomandazione per ogni politico di farne uso.
Probabilmente si tratta di una esagerazione, o comunque di una analisi ferma a quanto l’immediata evidenza sembra offrire. Il fenomeno è invece più complesso, e forse l’influenza dei social media è minore di quanto si creda: gli elettorati sono condizionati da altri ambienti, e la loro relativa stabilità dimostra l’errore di quella prospettiva.
Tutto sommato, quella che era l’attesa emancipativa dei social media, ossia un ribaltamento del rapporto tra potere politico e popolo è rimasta delusa.
Insomma, la complessità della questione ci ha fatto rivolgere a due eminenti esperti e studiosi del fenomeno, che, sotto diversi aspetti, sociologico e politologico, offrono di seguito un contributo determinante alla comprensione del fenomeno.
Al tema proposto hanno deciso di offrire le loro riflessioni, condensate nelle risposte che ognuno ha inteso offrire alle domande loro proposte, Gianpietro Mazzoleni, già professore di sociologia presso l’Università di Milano, e Alfio Mastropaolo, Emerito di Scienze politiche presso l’Università di Torino.
1. Ci interessa capire se veramente i social hanno ridisegnato, o lo stanno facendo, il rapporto tra politici ed elettori e tra governanti e governati, o, più generalmente tra potere politico e popolo. Questo mutamento potrebbe essersi verificato in entrambi i versanti: da un lato, quello degli elettori o dei governati, che usano Internet quale forma di contestazione comune; dall’altro quella dei politici o dei governanti che invece usano Internet per la ricerca di consenso sempre maggiore ed in modo diretto. Possiamo attribuire alla comunicazione per social una simile portata?
Prof.Giampietro Mazzoleni
Internet in generale, che si è accompagnato al processo di digitalizzazione di molte attività sociali e individuali, ha rivoluzionato l’ecosistema della comunicazione, ridisegnando da un lato i luoghi dove risiede il potere, e dall’altro concentrandolo nelle mani dei pochi che detengono il controllo dei mezzi di comunicazione. Non solo di chi possiede le piattaforme ma anche di chi, dentro e soprattutto fuori le democrazie, può ancora bloccare la circolazione dell’informazione digitale. I social sono una parte rilevante di questo mutamento epocale, e negli anni, grazie alla loro diffusione globale, si sono conquistati una posizione che nessuno degli attori della politica, dell’economia e della cultura può ignorare o sottovalutare. L’accesso libero (pur con crescenti limitazioni, soprattutto recenti) ha di fatto indebolito il potere di influenza e di selezione dei gatekeeper tradizionali, e ha messo nelle mani degli individui strumenti che si sono rivelati avere ben maggiori valenze che il semplice uso per intrattenimento. L’utilizzo in campo politico è stato quasi immediato. E dunque milioni di cittadini hanno potuto far sentire la loro voce, sia in modo caotico che organizzato, e si sono mobilitati sui mille fronti della lotta politica, all’interno del proprio paese o in movimenti di opinione e di pressione a livello internazionale. Sul versante partiti e leader la possibilità di scavalcare i cancelli dei mass media tradizionali ha reso facile e poco costoso il rapporto diretto con ampi strati di cittadini ‘digitali’, aumentando in tal modo la propria capacità di penetrazione e in fondo di influenza. E’ quella che è stata chiamata “disintermediazione,” sicuramente il fenomeno che più di ogni altro caratterizza il passaggio dai rituali politici e le strategie simboliche tradizionali a quelli contemporanei.
Prof.Alfio Mastropaolo
Esistono tanti tipi di sociologia elettorale. Per semplificare: secondo una certa sociologia elettorale l’elettore è tendenzialmente mobile. In occasione delle elezioni va al mercato e sceglie secondo i propri gusti. Le tecniche di propaganda si sono aggiornate e quindi l’elettore è di continuo bersagliato dall’offerta elettorale. E quindi gli elettorati sono divenuti molto instabili. Secondo un’altra sociologia elettorale, fondata su risultati di ricerca non meno affidabili di quelli che esibisce la prima, gli orientamenti politici sono piuttosto stabili e comunque non dipendono da umori erratici degli individui. Gli elettori ereditano le loro appartenenze politiche per via familiare e, quando le modificano, ciò avviene in funzione dei loro ambienti di riferimento: scuola, lavoro, abitazione, amicizie, circoli di appartenenza, ecc. A guardare attentamente, la geografia elettorale negli ultimi anni è cambiata relativamente e comunque in maniera tutt’altro che scomposta. Senza escludere sobbalzi piuttosto bruschi.
La geografia dell’elettorato di destra in Italia è rimasta più o meno la stessa dai primi anni ’90: sono cambiati i contenitori, ma siamo lì. L’ha modificata il declino di Berlusconi e pure quello di Bossi. Nel Mezzogiorno – ovviamente semplifico – una parte dell’elettorato di destra si è provvisoriamente lasciato attrarre dai discorsi qualunquisti dei 5 Stelle. Ma il fenomeno parrebbe in via di riassorbimento. Più complesso è valutare l’andamento dell’elettorato di sinistra, che è culturalmente diverso da quello di destra. È storicamente abituato a ottenere di più e entro quell’elettorato la crisi finanziaria ha colpito duro, insieme alla crisi migratoria. Se ne sono avvantaggiati di nuovo i 5 Stelle e in parte anche l’estrema destra. Ma quanto si tratta di un sobbalzo duraturo e quanto invece di una reazione indispettita? Gli elettori considerano anche l’offerta elettorale e, non solo a mio parere, l’offerta elettorale del Pd da decenni è molto avara verso l’elettorato popolare, le periferie, il Mezzogiorno e via di seguito. L’elettore ordinario a quel punto ha poca scelta: o si astiene o, per protesta, passa al nemico. Ma per quanto tempo? Con quanta convinzione? Nessuno lo sa. I 5 Stelle hanno costituito un’opportunità intermedia. Molte cose che hanno detto erano coerenti con la sensibilità dell’elettore di sinistra: avanzavano un’offerta politica «orizzontale», opposta alla verticalità del Pd e della stessa sinistra radicale. Ancora: bisogna stare attenti. Per come sono stati fatti gli ultimi sistemi elettorali, basta anche la crescita dell’astensione a far pendere la bilancia dall’altra parte.
Infine: dobbiamo anche essere realisti. L’elettore medio è scarsamente informato delle cose politiche. In genere ha altro da fare. Deve tirare a campare. Ovviamente, i ceti meno istruiti e più disagiati sono più in difficoltà di altri. E sono anche i più inclini a comportamenti elettorali indispettiti, oltre che più vulnerabili a messaggi, come dire, regressivi. Un tempo aiutavano i partiti, che erano anche istituzioni educative. Oggi i partiti sono un’altra cosa. E quindi c’è un considerevole problema di ordine culturale, che si è aggravato in ragione dei maltrattamenti che la scuola e l’università subiscono ormai da decenni.
2. Nel primo senso, i social sono il luogo di una contro-democrazia, nel senso di una democrazia dei poteri indiretti, disseminati nei corpi sociali, la democrazia della difesa organizzata contro la democrazia della legittimità elettorale: molti movimenti di contestazione sono nati lì (vedi ad esempio quella di Hong Kong contro la volontà cinese di restringere il suffragio universale). La reazione di certi Stati alle contestazioni spontaneamente sviluppatesi su Internet forse lo dimostra.
Possiamo dunque dire che i social hanno portato una nuova forma di contestazione ma anche di partecipazione alla vita pubblica? E possiamo dire che anziché ad un qualche modalità di populismo siamo veramente davanti ad una ridefinizione del rapporto tra potere politico e popolo?
Prof.Mazzoleni
Il rapporto disintermediato – vale anche bottom up – ha rimesso lo scettro nelle mani dei cittadini, come qualcuno ha osservato. Al di là della metafora, forse anche un po’ troppo ottimistica, è vero che i social hanno permesso il sorgere di correnti di opinione e di movimenti che hanno sfidato i diversi luoghi di potere. Si citano qui le pur fallite Primavere Arabe, Occupy Wall Street, il Movimento di Grillo, MeToo, BlackLivesMatter, e, appunto il movimento di resistenza di Hong Kong, ma anche sul fronte opposto, QAnon, Proud Boys, e simili. Sono tutte forze ‘liberate’ da Internet e dai social, che in un contesto ‘analogico’ non avrebbero visto la luce, o avrebbero faticato a mobilitarsi, che raccolgono energie e forze che solo in un contesto democratico possono sorgere e diventare attori politici primari. Per questo i poteri costituiti li vedono, e li combattono, come minaccia. Al di là degli esiti che tali ‘single issue movements’ possono avere, tutta la letteratura scientifica socio-politologica li riconosce come forme nuove di partecipazione politica, e li sta studiando per comprendere meglio le implicazioni sia per i sistemi politici in generale, sia per i cambiamenti negli equilibri di potere in una società, e anche a livello globale. La presidenza populista di Trump (noto per l’uso spregiudicato dei social; fu soprannominato “Twitter-in-Chief”), è riuscita a raccogliere e compattare un largo seguito, a dare una voce a un’America profonda che non era rappresentata, ma che oggi ha molti eletti al Congresso e nei parlamenti dei vari stati. Ciò sta comportando un cambiamento nella comunicazione ma soprattutto nella lotta politica tra progressisti e conservatori. Una delle prime vittime sarà con molta probabilità il vecchio GOP, il Partito Repubblicano che sarà lacerato nel braccio di ferro tra conservatori dell’old establishment e sovranisti estremisti.
3.- Nel secondo senso apparentemente può sembrare che la politica abbandona uno schema di comunicazione verticale per uno orizzontale, in cui l’interazione sostituisce la comunicazione unilaterale . Ma forse è un’apparenza: Trump ha più volte eliminato dal suo account Twitter i seguaci che lo criticavano più aspramente dagli altri, e comunque raramente si trova un politico che si rivolge, di fatto, agli elettori, piuttosto che agli altri politici o ad una elite di giornalisti.
Si può spiegare in questa ottica la decisione di Biden di azzerare i milioni di seguaci dell’account presidenziale che aveva accumulato Trump?
Prof. Mazzoleni
In effetti il flusso tipico nell’ecosistema attuale della comunicazione politica è quello orizzontale. Tutti i leader, piccoli o grandi, preferiscono ‘parlare’ con i propri supporter via social, anche se spesso è una comunicazione one-way, nel senso che il politico non spende il suo tempo in lunghe e complesse chat con la gente, salvo nei periodi elettorali. Ma di sicuro sente il polso del suo seguito attraverso le reazioni alle sue dichiarazioni o prese di posizione. Anche se Trump ha eliminato le moltitudini di critici su Twitter, il suo staff sicuramente ha continuato a registrare l’andamento della risposta pubblica alle sue dichiarazioni. All’ultimo è stato bannato pure lui, per i motivi che conosciamo. Biden non ha cancellato i follower di Trump dell’account @POTUS per motivi polemici. Molti di essi non erano necessariamente trumpiani. E’ stato un azzeramento per segnare l’inizio di un nuovo proprietario dell’account, e non risulta che siano stati eliminati nuovi follower.
4. Legata alla questione precedente è quella del modello argomentativo ideale. E’ nota l’influenza, sul piano prescrittivo, e dunque dei modelli teorici, dell’ideale argomentativo habermasiano. E’ un ideale modello di argomentazione politica anche oggi, o i social hanno ridefinito lo schema argomentativo della politica?
Prof.Mazzoleni
L’idea di una “sfera pubblica digitale” come sviluppo di quella classica habermasiana ha un suo fascino. Se nell’era dei mass media il dibattito pubblico era tutt’altro che scambio di idee e di posizioni tra tutti gli attori della sfera pubblica, relegato com’era all’interazione tra élite, cioè leadership politiche e mezzi di informazione, con la nascita dei social network, finalmente il terzo attore, il cittadino, viene visto aggiungersi al confronto politico. Questa visione neo-romantica non è condivisa da tutti gli studiosi e i pensatori. Internet è sì una grande piattaforma che permette il funzionamento di una rinnovata sfera pubblica, ma offre anche spazio e risorse ai nemici dell’argomentazione democratica, della negoziazione tra posizioni e soluzioni alternative ai problemi dibattuti nella polity. E c’è anche un lato oscuro di Internet che sconfina nella sovversione e nella distruzione della democrazia. L’esempio di Trump è ancora calzante in questo senso, laddove ha favorito la diffusione della disinformazione, e della denigrazione sistematica del sistema dell’informazione il famoso “Quarto potere”. Quindi Internet è un fenomeno ambivalente, per cui è necessario monitorare con attenzione gli sviluppi delle piattaforme dei social network. Senza demonizzazioni aprioristiche. E senza atteggiamento censorio. Ogni limitazione nella sfera pubblica digitale, anche se ampiamente giustificata da eventi controversi, è sempre un vulnus alla libera circolazione delle idee, che anche nella visione habermasiana è il fondamento della democrazia.
Prof.Mastropaolo
L’altra grande questione mi pare sia quella del linguaggio. Il linguaggio informale dei media commerciali, la dicotomizzazione della contesa politica, la horse race, la personalizzazione, sono dilagati anche nei social. E, anziché migliorare, il linguaggio si è appesantito e involgarito. Sui social non si ragiona granché. Prevalgono le battute. E i toni si surriscaldano agevolmente. Non è necessario insistere, perché la questione è ben nota. Il mezzo condiziona il messaggio. E la competizione politica ha adottato toni insopportabili e rischiosissimi. Perché la polarizzazione dei discorsi politici si riflette sulla società, nel costume, nelle relazioni sociali. Ora, la straordinaria invenzione della politica moderna è stata la pacificazione della contesa politica: invece di fare a botte, si discuteva nei parlamenti. La discussione poteva essere aspra. Ma esisteva un codice della “civiltà parlamentare”. In Italia questo codice è stato messo sotto i piedi, quando sono apparsi i cappi e le mortadelle. È una responsabilità gravissima anche degli allora presidenti delle assemblee elettive, che hanno allora tollerato le prime intemperanze, e dei loro successori. I regolamenti parlamentari davano loro i mezzi per mettere a tacere i facinorosi e per escluderli. Purtroppo, simili intemperanze hanno fatto scuola e sono tracimate sui social, nelle trasmissioni televisive, nel costume, nella vita civile. Sarebbe ora di ristabilire dei limiti da rispettare. Non vedo perché nella vita civile la calunnia, il vilipendio, la diffamazione siano perseguibile e nelle pubbliche discussioni, in televisione e sui social sono ammessi. La mia opinione è che serva anche stavolta un codice, adottato su scala sovranazionale, insieme a qualche istituzione giudicante. È difficile immaginarlo, ma a volte servono le cose difficili, non quelle facili. Non tanto in ragione delle manipolazioni elettorali. Ma in ragione della civile convivenza, che è ad alto rischio di brutalizzazione. Come troverei ragionevole riformare la galassia delle piattaforme. Un processo in atto da tempo è la concentrazione mediatica nelle mani di pochi imprenditori privati. Vale per i giornali e per le catene radiotelevisive. Per i giornali si vanno delineando specie all’estero interessanti iniziative di giornalismo on line, che sono alimentate dagli stessi lettori. Per le catene radiotelevisive sarebbe auspicabile una dispersione della proprietà e il rafforzamento delle catene pubbliche, liberandole dalla concorrenza pubblicitaria. Bene, qualcosa va fatto e in fretta anche per le piattaforme dei social. Non so cosa, ma prima è, meglio è.
5. Inoltre, quanto incide sulla effettiva capacità di interazione tra politica e società il fenomeno della polarizzazione dei gruppi, ossia la tendenza degli utenti che coltivano una idea a schierarsi comunque dalla parte di chi la propugna?
Prof.Mastropaolo
Quanto ai social. Il rapporto tra i cittadini e la politica si è complicato. Molto autorevolmente Mazzoleni apprezza le potenzialità dei new social media e, prima ancora, della politica mediatizzata. Sono in linea di massima d’accordo. Bisognerebbe investigare molto approfonditamente su questo tema. Servirebbero indagini qualitative, che in Italia non sono granché di moda. Sappiamo poco come i cittadini fruiscano delle suddette potenzialità. Non sono uno specialista e quindi mi azzardo su un terreno per me più infido di altri. I media vecchi e nuovi spostano poco gli orientamenti degli elettori. I fruitori dei social sono confinati entro bolle piuttosto ristrette. Interagiscono, più o meno, con chi la pensa come loro. Lo stesso, del resto, vale per le trasmissioni televisive e per i giornali. Il pubblico della trasmissione di Vespa non è lo stesso di quella di Fazio o di Giletti. Fino a prova contraria, i social non funzionano troppo diversamente. In America queste cose le hanno un po’ studiate. Alle elezioni del 2016 l’uso dei social da parte di Trump non ha convertito gli increduli. Ha mobilitato l’elettorato già propenso a votare repubblicano, anche con l’aiuto dei media più convenzionali, che hanno fatto dei tweet e dei post trumpiani un evento mediatico: vi sarebbe stato perciò un effetto di rinforzo reciproco.
Non sovrastimerei nemmeno il fenomeno delle fake. Mi pare che il problema stia nell’avallo che ricevono dalla politica ufficiale e dai media convenzionali. Un po’ il chiacchiericcio dei social alimenta notizie false. Inevitabile. Un amico che la sa lunga mi ha invitato a rileggere le pagine dedicate da Marc Bloch alle false notizie in guerra. Un po’, effettivamente, ci sono notizie false messe in circolazione ad arte. Sono un problema, di nuovo perché entrano in circuiti più vasti, ma non perché persuadano chi non è persuaso. Le fake sui vaccini diffuse dai social rafforzano la propaganda anti-vax che circola tramite altri percorsi, dove sfrutta il basso livello culturale di una parte del pubblico. Sarebbe auspicabile che le piattaforme disciplinino questa circolazione. Ci stanno a quanto pare ragionando. Come stanno discutendo di come contenere i rischi di intromissioni dall’esterno o di manipolazione delle informazioni e degli algoritmi. E poi, anche per questo, servirebbe molta scuola. Non buona. Di ottima qualità.
Il fine vita e il legislatore pensante
Editoriale
All’indomani delle due pronunzie della Corte costituzionale che hanno inciso profondamente sul nostro ordinamento, da ultimo escludendo, seppur nel rispetto di determinate condizioni, la punibilità dell’aiuto al suicidio reso nei confronti di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da patologia irreversibile (Corte cost. n.207/2018-ord.- e Corte cost. n.242/2019), sembra crescere la consapevolezza che l’intervento del legislatore in materia sia necessario per determinare almeno una cornice di principi capaci di fare chiarezza non solo sulla reale portata delle ricordate pronunzie, ma anche di disciplinare ambiti non presi direttamente in considerazione dalla Consulta e/o dal giudice comune che, prima della sentenza sul caso Cappato, aveva tracciato un percorso nel quale sembra essersi incanalato il giudice costituzionale.
Da qui il desiderio di Giustizia insieme di raccogliere il pensiero “plurale” di studiosi di varia estrazione culturale e professionale, in modo da offrire al Parlamento elementi qualificati che possano rendere migliore la produzione legislativa che dovrebbe seguirne.
Il tema, è noto, ha visto fin qui l’impegno e la riflessione di diversi settori accademici del diritto - costituzionalisti, civilisti, penalisti, bioeticisti, filosofi del diritto, comparatisti – che la rivista vuole, appunto, mettere insieme, muovendo dall’idea che il mondo giudiziario abbia già offerto delle indicazioni di massima estremamente importanti sulle quali saranno appunto l’Accademia e il legislatore a dover riflettere.
Il format dei singoli interventi, che vedrà dunque la pubblicazione in sequenza di piccoli forum che affrontano il tema nei cinque ambiti selezionati – penale, privato-comparato, filosofia del diritto, civile e costituzionale – ha come matrice comune la formulazione di alcune brevi domande che i cinque coordinatori dei gruppi, insieme alla Direzione scientifica, hanno pensato di formulare.
A rispondere saranno accademici che nella materia hanno già offerto contributi di rilievo.
Una scelta di campo - quella di non coinvolgere nelle risposte i giuristi pratici - sicuramente dolorosa ma, rispetto alla tematica da affrontare, necessaria per ristabilire un’armonia di sistema fra legislatore e giurisdizione immaginando che, all’indomani della legge - ove mai essa verrà alla luce - sarà per l’appunto la giurisdizione, che ha già offerto i punti di partenza essenziali in materia, a doversi misurare con il testo normativo, a verificarne la tenuta secondo i canoni costituzionali e sovranazionali, a ponderare la sufficienza o meno dell’intervento rispetto alla pluralità e disomogeneità dei casi della “vita” e del “fine vita”.
Da qui la necessità di formulare alla scientia iuris alcune provocazioni che vorrebbero, in definitiva, comporre un mosaico quanto più articolato sul tema da offrire al legislatore in atto pensante, in modo da favorire quanto più possibile una conoscenza “laica” e plurale delle questioni principali sul tappeto.
Non resta a questo punto che presentare i partecipanti ai singoli forum.
Vincenzo Militello, professore ordinario di diritto penale all’Università di Palermo, ha coordinato gli interventi di Maria Beatrice Magro, professore ordinario di Diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università Guglielmo Marconi e di Stefano Canestrari, professore ordinario di Diritto penale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Bologna e componente del Comitato Nazionale per la Bioetica.
Il forum di diritto privato comparato coordinato da Mario Serio, professore ordinario di diritto privato-comparato presso la Facoltà di Giurisprudenza di Palermo ha visto il coinvolgimento di Giuseppe Giaimo, professore ordinario di Diritto privato comparato, Rosario Petruso, ricercatore in Diritto privato comparato, Rosalba Potenzano, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci, dottorandi di ricerca in Dinamica dei Sistemi, tutti in forza al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo, con la supervisione delle Professoresse Marina Timoteo e Rossella Cerchia, rispettivamente professori ordinari di Diritto privato comparato nelle Università di Bologna e della Università Statale di Milano.
Il gruppo di filosofi del diritto coordinato da Angelo Costanzo, consigliere della Corte di Cassazione, è stato animato da Salvatore Amato, professore ordinario di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Catania e componente del Comitato Nazionale per la Bioetica, Lorenzo d’Avack, professore emerito di Filosofia del diritto, in atto Presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica e Carla Faralli, già professore ordinario presso l’Alma Mater-Università di Bologna, dove insegna Bioetica e Women and Law.
Mirzia Bianca, professore ordinario di diritto civile presso La Sapienza Università di Roma, ha coordinato per il civile gli interventi di Gilda Ferrando, già professore ordinario di Diritto privato presso l’Università degli studi di Genova, Teresa Pasquino, professore ordinario di Diritto privato presso l’Università degli Studi di Trento e Stefano Troiano, professore ordinario di Diritto privato e direttore del dipartimento di scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Verona.
Il forum costituzionale, coordinato da Corrado Caruso, professore associato di diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Bologna e Oreste Pollicino, professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università Bocconi di Milano è stato animato da Carlo Casonato, professore ordinario di Diritto pubblico comparato presso l’Università di Trento, Giacomo D'amico e Stefano Agosta, entrambi professori ordinari di Diritto costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Messina, Chiara Tripodina, professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università del Piemonte orientale e Lucia Busatta, dottoressa di ricerca di diritto costituzionale presso l’Università di Trento.
I singoli approfondimenti saranno pubblicati a partire da domani con cadenza settimanale.
L’impatto della pandemia sul sistema giudiziario inglese: spunti di riflessione per la riforma della giustizia civile in Italia
Nota a Financial Conduct Authority (Appellant) v Arch Insurance (UK) Ltd and others (Respondents), Judgement by UK Supreme Court on 15 January 2021
di Antonio Grumetto
Based on a recent ruling by the UK Supreme Court, the article analyses how the loss of profit policy market works while elaborates some proposals for developments of Italian civil proceedings before courts that could simplify and speed up decision-making processes in commercial sectors affecting interests of tens of thousands of people thus promoting economic recovery after the COVID-19 pandemic.
Sommario: 1. L’equilibrio fra contenimento della pandemia e ripresa economica - 2. La decisione della Suprema Corte inglese del 15 gennaio 2021 - 2.1. Le clausole LOP (Loss of profit) - 2.2. Le caratteristiche del procedimento dinanzi alla Suprema Corte. La legittimazione straordinaria per la risoluzione di questioni giuridiche. - 2.2.1. (segue) La procedura accelerata - 2.3 Le questioni controverse - 2.3.1. Clausole sul rischio assicurato. - 2.3.2. Impossibilità di accedere ai locali dell’azienda nelle clausole ibride. - 2.3.3. Nesso di causalità - 2.3.4. Trend clauses - 3. Conclusione
1. L’equilibrio fra contenimento della pandemia e ripresa economica
Non vi sono dubbi sul fatto che l’attuale emergenza sanitaria causata dalla pandemia da COVID-19 rappresenti la causa non solo di una grave crisi sanitaria, con i suoi risvolti drammatici in termini di perdita di vite umane causata dal contagio, ma anche la ragione di una altrettanto drammatica crisi economica i cui effetti non tarderanno a manifestarsi in tutta la loro ampiezza tanto sul mercato del lavoro quanto sul tessuto produttivo del nostro Paese.
La necessità di contemperare l’esigenza, da un lato, di contenere il diffondersi della pandemia e, dall’altro, di limitare al massimo i danni per l’economia nazionale, già così duramente provata da anni di recessione economica alle spalle, è non a caso alla base delle misure economiche prese dal Governo in favore, in particolare, delle imprese in occasione dei vari provvedimenti assunti dall’Esecutivo per limitare la circolazione delle persone sul territorio nazionale e di conseguenza la diffusione del virus[1].
Se, però, la crisi sanitaria sembra vedere una luce in fondo al tunnel grazie alla approvazione dei primi vaccini contro il contagio da COVID-19 e alla loro somministrazione alle categorie di persone più vulnerabili o più esposte al contagio, la crisi economica non solo è appena iniziata, ma è destinata a vedere i suoi effetti protrarsi per diversi anni a venire. La speranza di un miglioramento dell’economia italiana per le prossime generazioni di cittadini è rappresentata non solo e non tanto dal programma di finanziamento messo in atto dall’Unione europea attraverso il Recovery Plan, ma soprattutto dalla adozione delle necessarie riforme strutturali del nostro Paese di cui tanto si è parlato negli anni scorsi e che ancora tardano a venire.
Uno dei settori per i quali è maggiormente sentita l’esigenza di uno rinnovamento è senza dubbio quello della giustizia ed in particolare quello della giustizia civile[2]. La durata dei giudizi, in particolare di quelli civili, e la variabilità degli orientamenti giurisprudenziali rappresentano un costo troppo alto per l’economia italiana e scoraggiano gli operatori stranieri dall’investire in Italia.
Basti pensare alla disciplina processuale di recente introdotta per le controversie civili originate dagli effetti della pandemia da COVID-19. Mentre in Italia, al fine di alleggerire il peso che la conflittualità originata dalla pandemia inevitabilmente riverserà sul sistema giudiziario, è stato introdotto un nuovo caso di mediazione obbligatoria per alcune controversie in materia contrattuale[3], altri paesi sembrano avere una marcia in più per affrontare quella che potrebbe rivelarsi una nuova causa dell’emergenza giudiziaria nel nostro Paese.
2. La decisione della Suprema Corte inglese del 15 gennaio 2021
La decisione di recente pubblicata dalla Suprema Corte del Regno Unito ne è un esempio.
In poco più di 9 mesi dai primi provvedimenti assunti dal Governo inglese a seguito dello scoppio della pandemia da COVID-19, gli operatori economici inglesi hanno avuto a disposizione una decisione della massima Autorità giudiziaria del Regno Unito su una questione di enorme impatto per l’economia dei paesi che lo compongono e con effetti vincolanti per tutti i giudici che compongono il sistema giudiziario.
L’importanza della decisione è dichiarata nelle stesse premesse della sentenza della Suprema Corte, in cui si evidenziano le differenze tra il sistema giudiziario italiano e quello anglosassone in termini di rapidità ed efficienza.
La controversia è stata promossa dalla FCA (Financial Conduct Autority) nei confronti di otto tra le maggiori compagnie inglesi di assicurazioni, operanti in particolare nel ramo dell’assicurazione contro le perdite da interruzione dell’attività di impresa.
La decisione ha riguardato le principali questioni di interpretazione delle clausole contenute nelle polizze relative agli effetti indiretti causati dalla pandemia sulle imprese .
2.1. Le clausole LOP (Loss of profit)
Per comprendere il significato di questo tipo di garanzia, occorre dire che quando un’azienda viene colpita da un evento che ne danneggia il patrimonio, oltre ai danni diretti (la perdita totale o parziale di uno dei beni dell’azienda, per esempio a causa di un incendio) si possono riscontrare anche grosse perdite economiche, derivanti dall’impossibilità di svolgere la normale attività produttiva. L’interruzione o riduzione dell’esercizio comporta effetti devastanti per l’azienda.
Il fermo dell’attività può comportare effetti di varia natura: quelli di tipo “transitorio”, che riguardano la riduzione del volume d’affari e del relativo profitto lordo, l’aumento dei costi di esercizio, ovvero di lavorazione dei beni prodotti e di acquisizione dei beni da trasformare o commercializzare; quelli “permanenti”, che comportano la perdita di quote di mercato; quelli “contingenti”, che si verificano in occasione di esborsi per multe o penali contrattuali. Si tratta di una tipologia di danno che colpisce non solo i singoli beni ma l’azienda nel suo complesso, e le conseguenze economiche che ne derivano possono assumere, rispetto al danno diretto, dimensioni molto più rilevanti e talvolta anche drammatiche per la vita dell’azienda.
Da tempo, pertanto, il mercato delle assicurazioni ha pensato ad un’adeguata copertura assicurativa in grado di ripristinare la situazione finanziaria antecedente al sinistro.
La prima tipologia di copertura, attualmente in uso, è chiamata clausola di Indennità aggiuntiva, risale alla fine del ‘700 e vede l’assicuratore impegnato a riconoscere una determinata percentuale aggiuntiva fissa rispetto al danno materiale.
Tale forma è caratterizzata da semplicità di calcolo e velocità nel processo di indennizzo, ma la percentuale fissa, qualora dovessero sopraggiungere sinistri gravi, potrebbe rivelarsi un fattore di penalizzazione per l’assicurato.
La Garanzia diaria è una tipologia di copertura che venne introdotta successivamente, e prevede il rimborso di un determinato indennizzo per ogni giorno di inattività aziendale, calcolato in base alla durata del fermo.
La clausola Selling price, al posto di far pagare l’equivalente del prezzo di costo, obbliga a pagare quello di vendita dei prodotti finiti, ed è vantaggiosa per il fatto che il prezzo di vendita include la quota di tutti i costi aziendali e l’utile. Può essere applicata solo nel caso vengano danneggiati dei prodotti già venduti, quindi in caso di fermo dovuto a danni a fabbricati o macchinari non ha alcuna utilità.
Ma la forma di copertura oggi più utilizzata è quella a Margine di Contribuzione, MdC, nata nel 1994 per rimediare ai limiti della garanzia LOP (Loss Of Profit).
La formula Loss of Profit, detta LOP, ovvero di perdita di profitto lordo, venne introdotta in Inghilterra nel 1899. Essa copre la perdita di profitto lordo, oltre alle spese supplementari ( al netto del risparmi di spesa). La MdC, invece, assicura contro la perdita del “margine di contribuzione” (vale a dire la somma fra utili e costi fissi, che si ottiene sottraendo dal fatturato i costi variabili che sono appunto quei costi che non si sostengono con il fermo della azienda) e le spese supplementari sostenute dall’assicurato per limitare tale perdita. I vantaggi di questa ultima formula risiedono nella velocità di indennizzo e semplicità.
Al di là dei tecnicismi contabili delle varie formule, la loro diffusione in Europa è molto variegata.
In Italia, tuttavia, tale formula assicurativa non è molto diffusa perché, oltre ad essere ancora poco conosciuta, viene probabilmente etichettata come troppo costosa e complessa. Probabilmente la durata dei giudizi civili e la variabilità degli esiti giudiziari hanno un peso non secondario nell’ostacolare l’espansione di questo tipo di polizza tra gli imprenditori italiani: l’idea di dover attendere anni prima di poter ottenere l’indennizzo per le perdite subite, magari dopo costose e defatiganti battaglie giudiziarie, può scoraggiare i potenziali acquirenti dal ricorrere a questa copertura.
Proprio applicando tali istituti e in conformità allo spirito degli stessi, invece, il sistema giudiziario inglese ha risposto allo sconvolgimento causato dalla pandemia da COVID-19 con una decisione rapida, vincolante e di facile implementazione.
2.2. Le caratteristiche del procedimento dinanzi alla Suprema Corte. La legittimazione straordinaria per la risoluzione di questioni giuridiche
Con la sentenza del 15 gennaio scorso la Suprema Corte ha esaminato un significativo campione di polizze proposte dalle compagnie di assicurazioni che hanno partecipato al giudizio e l’esito del giudizio, reso in tempi record, è suscettibile di influenzare l’applicazione tra le parti contraenti di qualcosa come 700 tipi di polizza in aggiunta a quelle espressamente considerate, offerti sul mercato da più di 60 compagnie di assicurazioni e di riguardare circa 370.000 soggetti assicurati.
Non c’è bisogno di ulteriori commenti per capire l’importanza di tale decisione per il mercato anglosassone delle imprese, specie in un momento così delicato come quello della conclusione dei negoziati sulla Brexit. Gli operatori del settore, da un lato imprenditori assicurati e dall’altro imprese di assicurazione, hanno ora un chiaro e definitivo indirizzo giurisprudenziale da applicare per quantificare le perdite subite dalle attività imprenditoriali a causa delle misure adottate dai Governi inglese e di altri Stati per i quali la decisione della Suprema Corte inglese è vincolante. Si tratterà ora solo di applicare i paletti fissati dalla decisione ai vari casi di perdite subite per l’interruzione dell’attività economica, attraverso un giudizio di fatto di cui pure la decisione fornisce i parametri. E c’è da aspettarsi che nessuno, né gli assicurati né gli assicuratori, penserà di ridiscutere i termini della questione dinanzi ad un giudice, affrontando i notevoli costi imposti dal sistema giudiziario anglosassone e andando incontro all’effetto vincolante delle decisioni della Suprema Corte proprie dei sistemi di common law. In questa situazione, le imprese possono contare su un sistema di regole chiaro e vincolante per avanzare le loro richieste di indennizzo alle assicurazioni, recuperando così, almeno in parte, la liquidità persa a causa delle forzate interruzioni dell’attività economica imposte dai provvedimenti restrittivi adottati dal Governo.
Certo, alcune delle caratteristiche del sistema anglosassone non sono esportabili nei paesi di civil law come il nostro.
A cominciare dall’effetto vincolante delle decisioni della Suprema Corte, la cui applicazione in Italia trova un ostacolo nel principio della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) e nella c.d. primazia del diritto euro-unitario con il connesso obbligo di sottoporre alla Corte di giustizia le questioni di interpretazione della relativa disciplina (art. 267 TFUE).
Ma altre sembrano mutuabili senza particolare sforzo ed in parte già operanti nel nostro ordinamento processuale.
Ad esempio, ciò che ha reso possibile concentrare le questioni interpretative delle clausole assicurative LOP in un unico giudizio è stata la legittimazione della FCA a sottoporre ai giudici inglesi un test case senza bisogno dell’esistenza di una specifica disputa tra le parti e quando si tratta di questioni di particolare importanza per le quali è richiesto con urgenza un indirizzo autorevole e rilevante.
Per quanto sia una Autorità di regolazione e non un organismo rappresentativo degli operatori del settore, la FCA è legittimata a promuovere tali giudizi nell’interesse dei consumatori. Si tratta di giudizi per i quali le parti devono accordarsi sulle questioni da proporre al giudice attraverso quello che si chiama Accordo quadro e deve trattarsi di questioni di generale importanza per le quali il modo di sottoporle ai giudici deve essere previamente concordato tra le parti. I fatti controversi devono poi essere pacifici: nel caso di specie l’Accordo quadro conclusosi tra le parti è intervenuto sia sull’ambito delle misure adottate dai vari Governi del Regno Unito per fronteggiare la crisi sanitaria sia sui testi delle polizze da sottoporre al giudizio. Inoltre, è previsto che il giudizio, di regola, non dia luogo a condanna alle spese.
Perché, dunque, non attribuire una tale legittimazione anche all’ Autorità italiana per la concorrenza ed il mercato? [4] Si tratterebbe perciò di introdurre un procedimento finalizzato ad ottenere rapidamente dalla Corte di cassazione una advisory opinion su questioni di particolare rilevanza per l’economia nazionale e con l’efficacia data dalla autorevolezza della pronuncia. Sarebbe di certo una modalità di risoluzione anticipata di questioni giuridiche di particolare importanza, potenzialmente rilevanti per interi settori economici e limitata alle questioni di diritto e quindi non appesantita dalla necessità di risolvere aspetti di fatto o inerenti al quantum tipici delle controversie promosse dal titolare del diritto.
Già ci sono casi di Autorità di regolazione legittimate ad agire in giudizio nell’interesse dell’applicazione obiettiva del diritto e come espressione del potere di vigilanza e/o regolazione del settore. Basti pensare che nell’ambito delle attuali prerogative attribuite dalla legge all’AGCM vi è anche la legittimazione ad agire ex art 21-bis L. n. 287/90, con particolare riferimento all’impugnazione di regolamenti, atti amministrativi generali e provvedimenti emanati da qualsiasi amministrazione (comprese altre autorità indipendenti), laddove questi risultino contrari alle disposizioni della normativa antitrust. O alla possibilità per l’ANAC di impugnare i bandi, gli altri atti generali e i provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (art. 211 del Codice appalti)[5]. Ma mentre per le controversie dinanzi al giudice amministrativo la legittimazione di soggetti metaindividuali a tutela di un interesse collettivo è un fenomeno frequente in quanto legato alla natura spesso indivisibile e generale del ben giuridico oggetto del provvedimento amministrativo, nel campo della giurisdizione ordinaria la tutela degli interessi collettivi si presenta spesso come una somma della tutela degli interessi individuali lesi da comportamenti altrui[6].
Perché possa ammettersi una legittimazione a proporre azioni finalizzate, non a prevenire o riparare una lesione, ma ad acquisire una interpretazione di atti giuridici, è, perciò, necessaria una previsione normativa che riconosca ad un soggetto giuridico il potere di agire in giudizio nell’interesse del diritto obiettivo e non a tutela di una situazione soggettiva, ancorché collettiva, o di una somma di interessi individuali. E questo soggetto non può che essere un soggetto pubblico perché non si tratta di proteggere interessi collettivi, omogenei o addirittura diffusi, quanto quello di assicurare la corretta applicazione del diritto in ipotesi astratte.
E’ ovvio che la decisione della Corte di cassazione non potrebbe vincolare gli altri giudici e ciò in virtù dell’art. 101 della Costituzione e della soggezione del giudice soltanto alla legge. Tuttavia, il sistema già prevede ipotesi di efficacia rafforzata di decisioni assunte da organi di ultima istanza della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa.
L’art. 64 del T.U. n. 165 del 2001 prevede che quando il giudice non intenda conformarsi ad una decisione della Corte di cassazione già intervenuta su una questione rilevante per il giudizio, è tenuto ad attivare il meccanismo previsto dalla medesima disposizione per giungere, eventualmente, ad una nuova decisione della Corte di cassazione. L’art. 99 del codice del processo amministrativo prevede che la sezione del Consiglio di Stato cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall'Adunanza plenaria, rimette a quest'ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso. Ovviamente, tale meccanismo non può pregiudicare il funzionamento del sistema del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 del TFUE[7] e tuttavia, quando si sia fuori da questioni di interpretazione ed applicazione del diritto eurounitario, un sistema di efficacia rafforzata del precedente, che non precluda una rimeditazione della questione purché motivata da valide ragioni, mi sembrerebbe compatibile con l’art. 101 della Costituzione.
2.2.1. (segue) La procedura accelerata
La decisione del 15.1.2021 della Suprema Corte ha, inoltre, concluso un giudizio durato appena 7 mesi (l’Accordo quadro tra le parti è del 1 giugno 2020 e il processo è iniziato il 9 giugno 2020) ed è stata emessa a seguito di un ricorso per saltum (in inglese leapfrog): dopo una prima decisione della corte di primo grado (in composizione non monocratica) formata da due giudici inseriti nell’elenco dei giudici specializzati in materia di servizi finanziari (Financial list), di cui uno della Court of Appeal e uno della High Court, la causa è approdata subito presso la Suprema Corte. Quest’ultima ha tenuto 4 udienze (tra il 16 novembre ed il 20 novembre 2020) e ha depositato la sentenza in data 15.1.2021.
Sia la sentenza di primo grado che quella della Suprema Corte affrontano in maniera approfondita e con costante riferimento ai precedenti giurisprudenziali le varie questioni sottoposte dalle parti. E’ sufficiente menzionare che la sentenza di primo grado consta di 580 paragrafi mentre quella della Suprema Corte di 326 paragrafi.
2.3. Le questioni controverse
Le questioni trattate erano poi di estrema importanza e delicatezza.
Ne accenniamo qualcuna, lasciando ai più curiosi il piacere (e, in qualche caso, la difficoltà connessa alla astrattezza delle problematiche interpretative) di leggere la decisione della Suprema Corte.
2.3.1. Clausole sul rischio assicurato.
La Corte Suprema ha preso in considerazione la formulazione della clausola in una polizza RSA ("RSA 3") come esemplare. Questa clausola (come molte altre formulazioni) copre le perdite da interruzione dell'attività derivanti da qualsiasi evento di una “malattia notificabile” [8] entro un raggio geografico specificato (tipicamente 25 miglia) dai locali assicurati.
Il Collegio di primo grado ha interpretato la clausola nel senso che essa assicura copertura per le perdite per interruzione dell'attività derivanti da COVID-19 (che è stata resa una malattia soggetta a obbligo di denuncia il 5 marzo 2020) a condizione che l’assicurato dimostri l’esistenza di un caso della malattia entro il raggio geografico (di regola 25 miglia).
La Suprema Corte ha dato, invece, ragione agli assicuratori che:
(i) ogni caso di malattia subita da una persona a causa di COVID-19 è un "evento" separato ai fini della polizza;
(ii) la clausola copre solo le perdite per interruzione dell'attività derivanti da casi di malattia che si verificano nel raggio.
2.3.2. Impossibilità di accedere ai locali dell’azienda nelle clausole ibride
Le clausole di impossibilità all'accesso e le clausole ibride[9] specificano una serie di requisiti che devono essere tutti soddisfatti prima che l'assicuratore sia tenuto a pagare.
Alcune clausole si applicano solo quando ci sono "restrizioni imposte" da un'autorità pubblica in seguito al verificarsi di una malattia notificabile.
Il primo collegio aveva ritenuto che questo requisito è rappresentato solo da una misura espressa in termini obbligatori che abbia forza di legge.
La Corte Suprema ha respinto questa interpretazione come troppo ristretta e ha ritenuto che un'istruzione data da un'autorità pubblica (come il famoso “stay at home”) può equivalere a una "restrizione imposta" se, in base al modo e ai termini con cui è formulata, è da ritenere o è ragionevole ritenere (tenuto conto delle conoscenze di una persona media) che la sua osservanza sia obbligatoria indipendentemente dall’esercizio di poteri espressamente previsti.
La Corte Suprema non si pronuncia sul se singole misure soddisfino questo test, ma indica che l'argomento è più forte in relazione ad alcune misure generali, come certe istruzioni in termini obbligatori del Primo Ministro relative alla chiusura dei locali commerciali del 21 e del 26 marzo 2020, e meno in relazione ad esortazioni o consigli relativi al distanziamento sociale e allo “stay at home”.
In qualche caso, poi, le clausole prevedevano la copertura solo quando la perdita di interruzione dell'attività fosse causata dall' “impossibilità di utilizzare" i locali assicurati da parte dell'assicurato. Il primo collegio aveva sostenuto che questo significasse incapacità completa e non solo parziale di utilizzare i locali. La Corte Suprema ritiene, invece, che questo requisito possa essere soddisfatto sia quando un assicurato non è in grado di utilizzare i locali per una parte soltanto della sua attività commerciale[10] sia quando la sua intera attività commerciale è impedita dalla chiusura o dalle restrizioni imposte soltanto su alcuni locali della sua azienda perché gli altri locali dell’azienda, ancorché agibili, non sono idonei a svolgere l’attività commerciale in modo autonomo. In altri termini ciò che conta è l’incidenza sulla attività commerciale e non l’incidenza sui locali in sé.
2.3.3. Nesso di causalità
La questione del nesso di causalità è una delle più interessanti della decisione per le sue somiglianze con le discussioni dottrinali che si registrano sul tema della causalità in Italia.
In sintesi, si può dire che la Suprema Corte ritiene:
(i)come causa delle perdite finanziarie dell’assicurato ogni episodio di COVID-19 verificatosi all’interno dell’area geografica indicata dalla clausola della polizza (di regola 25 miglia dai locali aziendali);
(ii) nell’interpretare la nozione di pericolo assicurato e le clausole che escludono alcuni rischi, non rilevano cause sopravvenute rispetto a tale causa “prossima” che non siano anomali o abnormi[11];
(iii)ogni caso di COVID-19 verificatosi nell’area geografica indicata dalla polizza come pericolo assicurato anche se le misure del Governo che hanno determinato la chiusura dei locali aziendali sono state prese in considerazione del fenomeno della pandemia nel suo complesso; in altri termini, cause concorrenti (vale a dire, altri casi di COVID-19 verificatisi all’esterno dell’area geografica indicata dalla polizza) pur avendo concorso a determinare le chiusure dei locali aziendali, costituendo un rischio non escluso dalla polizza, nemmeno escludono la garanzia;
(iv)non applicabile il giudizio controfattuale basato sulla dottrina del “but for” test; le compagnie di assicurazione avevano cercato di sostenere che il nesso di causalità era escluso dal ragionamento controfattuale, dato che le misure restrittive sarebbero state prese ugualmente anche a prescindere (but for) dal caso di COVID-19 che fa scattare la garanzia. La Suprema Corte ha respinto la tesi delle assicurazioni ricordando che un limite del giudizio controfattuale è dato dalla ipotesi delle cause indipendenti tra di loro che sono ciascuna in grado di determinare l’evento: in questi casi l’applicazione del giudizio controfattuale porterebbe a negare l’efficacia causale di ognuna delle cause[12];
(v)non applicabile il criterio, suggerito dalle assicurazioni, secondo cui il rapporto causale sarebbe escluso qualora i rischi non assicurati (precisamente i casi di COVID-19 verificatisi fuori dell’area geografica richiamata nella polizza) avessero avuto una incidenza maggiore rispetto a quelli verificatisi nell’area geografica (weighing approach)[13].
2.3.4. Trend clauses
Solo le clausole inserite nelle polizze che stabiliscono i criteri per l’indennizzo. Il metodo standard utilizzato nell'assicurazione contro l'interruzione dell'attività per quantificare la somma pagabile ai sensi della polizza prende un periodo commerciale precedente a fini comparativi. Nella maggior parte delle formulazioni questo è l'anno civile che precede l'operazione del danno assicurato. Dal fatturato dell'azienda in questo periodo si ricavano "fatturato standard" o "entrate standard". Questa cifra viene poi confrontata con il fatturato o le entrate effettive durante il periodo d'indennizzo. I risultati dell'attività nel periodo di confronto sono anche utilizzati per ricavare una percentuale del fatturato che rappresenta l'utile lordo. Il tasso di profitto lordo viene poi applicato alla riduzione del fatturato per calcolare la perdita recuperabile. L’indennizzo compre anche l'aumento del costo del lavoro durante il periodo di indennizzo.
Secondo la Suprema Corte questo meccanismo di indennizzo deve essere applicato tenendo conto soltanto delle circostanze, diverse da quelle legate alla pandemia da COVID-19, che avrebbero riguardato l’attività imprenditoriale assicurata se la pandemia non si fosse verificata. Ciò al fine di evitare che il meccanismo applicato per calcolare l’indennizzo finisca per vanificare l’interpretazione data dalla Suprema Corte alla definizione del rischio assicurato, in relazione al quale, come si è visto, sono state giudicate irrilevanti le cause legate alla pandemia concorrenti rispetto al rischio assicurato (i casi di COVID-19 verificatisi fuori dall’area geografica indicata nella polizza).
3. Conclusioni
Come si può vedere dal panorama delle questioni affrontate dalla Suprema Corte inglese, si è trattato di affrontare anche temi generali da tempo conosciuti anche nel nostro ordinamento, quali il nesso di causalità, la rilevanza delle sopravvenienze e l’ambito delle conseguenze dannose indennizzabili. Si tratta di temi sui quali la giurisprudenza e la dottrina italiana si sono da tempo esercitate con risultati altamente pregevoli e che non hanno nulla da invidiare a quelli raggiunti dalle Corti supreme e dagli studiosi di altri paesi. E se la necessità di una pronuncia della Corte di cassazione italiana sulle clausole delle polizze LOP non si rende necessaria per la scarsa diffusione di tale forma assicurativa, non è difficile immaginare che l’esigenza di certezza giuridica possa sorgere in relazione ad altri settori colpiti dal carattere diffusivo degli effetti della pandemia. Si pensi ad esempio alla problematica della riconduzione del contratto ad equità attraverso la rinegoziazione delle clausole quando la sua esecuzione, così come programmata dalle parti, sia stata impedita dal sopravvenire di misure restrittive legate al confinamento imposto dal Governo. Non richiederebbero i concetti di forza maggiore, di impossibilità sopravvenuta, di factum principis e della loro incidenza sul regolamento negoziale che venisse introdotta una forma di azione come quella esistente nell’ordinamento inglese? Un autorevole e rapido pronunciamento della Corte di cassazione[14] su questioni interpretative astratte non contribuirebbe ad orientare le decisioni delle corti inferiori nella risoluzione delle controversie proposte dinanzi ad esse o addirittura a prevenirne la proposizione?
[1] In particolare, si vedano l’art. 25 del DL 19/05/2020, n. 34, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 17 luglio 2020, n. 77; nonché gli artt. 1, 1bis, 1 ter del DL 28.10.2020 n. 137 conv. in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 18 dicembre 2020, n. 176 in cui sono confluite le misure di sostegno alle imprese di cui al Decreto Ristori 1, bis ter e quater. Uno studio ragionato di tali misure di sostegno alle imprese è contenuto nel Focus n. 3 del 23 dicembre 2020 dell’Ufficio parlamentare di Bilancio reperibile all’indirizzo https://www.upbilancio.it/focus-tematico-n-3-23-dicembre-2020/
[2] Già la Raccomandazione n. 2 del Consiglio europeo per il 2019 - riprendendo sostanzialmente quanto già previsto nelle omologhe Raccomandazioni per il 2017 e 2018 - invitava l'Italia a “ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio, facendo rispettare le norme di disciplina procedurale, incluse quelle già prese in considerazione dal legislatore”. In tal senso si sono anche espresse, nella relazione approvata, le Commissioni 5a e 14a del Senato in occasione dell'esame delle Linee guida sul PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), laddove sottolineano che secondo alcuni studi un efficiente sistema giudiziario consentirebbe di recuperare dall’1,3% al 2,5% (da 22 miliardi a 40 miliardi) del PIL, stimolando gli imprenditori, anche esteri, ad investire nel nostro Paese in quanto la tempestività delle decisioni giudiziarie è elemento essenziale per le imprese, per gli investitori e per i consumatori.
[3] Si tratta del comma 6-ter dell’art. 3 del D.L. 23/02/2020, n. 6 (convertito dalla legge 5 marzo 2020, n. 13) come inserito dall’art. 3 comma 1 quater del D.L 30 aprile 2020 n. 38 (convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70), il quale recita “Nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l'emergenza epidemiologica da COVID-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai sensi del comma 6-bis, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell'articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituisce condizione di procedibilità della domanda». A sua volta l’art. 6-bis del medesimo art. 3 del già menzionato DL n. 6 del 2020 stabilisce che “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
[4] Il Governo italiano ha presentato il disegno di legge delega sulla riforma della giustizia (Atto Senato N. 1662 http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01141527.pdf), attualmente fermo presso la seconda Commissione (Giustizia) per l’esame in sede referente. Il disegno di legge comprende disposizioni sulla mediazione, sul giudizio di primo grado e di appello nonché sul giudizio di esecuzione, ma non prevede casi di legittimazione straordinaria di Autorità indipendenti a proporre test cause su questioni di diritto.
[5] Anche le associazioni di categoria sono titolari di una legittimazione ad agire in giudizio per ottenere l’annullamento di atti amministrativi illegittimi: le associazioni individuate in base all'articolo 13 della legge n. 349 del 1986 in materia di ambiente possono, non solo intervenire nei giudizi per danno ambientale ma anche ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi. L'art. 4, co. 2, L. 11 novembre 2011, n. 180 riconosce alle associazioni di imprenditori maggiormente rappresentative nei diversi livelli territoriali la legittimazione a impugnare gli atti amministrativi lesivi degli interessi diffusi. Ma in questi casi si tratta di legittimazione ad agire a tutela di un interesse collettivo che è proprio della associazione e non di un interesse generale all’applicazione del diritto obiettivo (Cons. Stato Ad. Plen., 20-02-2020, n. 6).
[6] Come è noto la legge 12 aprile 2019 n. 31 ha modificato la disciplina della azione di classe contenuta negli artt. 140 e 140 bis del codice del consumo, introducendo nel Codice civile un intero Titolo VII bis del libro IV interamente dedicato ad una azione di classe prevista non più solo a tutela dei consumatori ma di qualsiasi “diritto individuale omogenei”. Si tratta, tuttavia, sempre di una azione generale, a carattere inibitorio o risarcitorio, a tutela di interessi individuali omogenei e non di una azione finalizzata ad ottenere la risoluzione di questioni giuridiche astratte.
[7] Corte giustizia Unione Europea Grande Sez., 05/04/2016, n. 689/13: “L'art. 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest'ultima sia interpretata nel senso che, relativamente a una questione vertente sull'interpretazione o sulla validità del diritto dell'Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l'orientamento definito da una decisione dell'adunanza plenaria di tale organo, è tenuta a rinviare la questione all'adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale”.
[8] In Inghilterra, Il 5 marzo 2020 tramite una modifica al regolamento sulla protezione della salute (notifica) del 2010 (SI 2010/659) ("il regolamento del 2010") il COVID-19 è stato reso una "malattia soggetta a obbligo di notifica" e la SARS-CoV-2 un "agente causale". Ai sensi dei regolamenti del 2010, un medico generico abilitato ha il dovere di comunicare all'autorità locale se ha ragionevoli motivi per sospettare che un paziente abbia una "malattia soggetta a notifica", definita come una malattia elencata nell'Allegato 1, o un'infezione che presenta o potrebbe presentare un danno significativo alla salute umana. L'autorità locale deve riferire qualsiasi notifica di questo tipo che riceve, tra gli altri, al PHE (Public Healt England) che è una agenzia del Dipartimento della Salute e della Assistenza sociale. L'Allegato 1 ai Regolamenti del 2010 conteneva un elenco di 31 malattie comunicabili prima dell'aggiunta di COVID-19. Il 6 marzo 2020, modifiche simili sono state apportate ai regolamenti sulla protezione della salute in Galles Regolamento 2010 (SI 2010/1546). Il COVID-19 era stato reso una malattia soggetta a notifica in Scozia il 22 febbraio 2020 e in Irlanda del Nord il 29 febbraio 2020. L'11 marzo 2020, l'OMS ha dichiarato la infezione da COVID-19 una pandemia.
[9] Esempi di queste clausole sono riportati al §96 della decisione (ad es: “loss … resulting from … Prevention of access to the Premises due to the actions or advice of a government or local authority due to an emergency which is likely to endanger life or property” oppure “loss as a result of closure or restrictions placed on the Premises as a result of a notifiable human disease manifesting itself at the Premises or within a radius of 25 miles of the Premises”)
[10] Si pensi alla attività di ristorazione, che può essere impedita dalle restrizioni imposte al servizio al tavolo mentre po’ essere svolta con il servizio da asporto
[11] Viene richiamata la controversia Leyland Shipping Ltd contro Norwich Union Fire Insurance Society Ltd [1918] AC 350. Una nave silurata da un sottomarino tedesco fu rimorchiata fino al porto più vicino, ma dovette ancorare nel porto esterno esposto al vento e alle onde. Dopo tre giorni la nave affondò. La nave era assicurata contro i pericoli del mare, ma c'era un'eccezione nella polizza per "tutte le conseguenze delle ostilità o delle operazioni belliche". La House of Lords ha confermato la decisione dei tribunali dei gradi precedenti secondo cui la perdita era stata causata dal siluro, che era una conseguenza delle ostilità, e quindi non era coperta dall'assicurazione.
[12] Viene citato il caso dei due fuochi appiccati separatamente, ciascuno dei quali in grado di bruciare la casa o delle due pallottole sparate separatamente che colpiscono entrambe mortalmente l’escursionista: in entrambi i casi il giudizio controfattuale porterebbe ad escludere il nesso causale con riferimento ad ognuna delle cause, dato che l’evento si sarebbe verificato lo stesso a prescindere da ciascuna di esse considerata isolatamente.
[13] La Suprema Corte osserva al riguardo che un tale approccio sarebbe praticabile solo se fosse possibile stabilire la percentuale di efficacia causale dei casi di COVID-19 suddividendola fra quelli verificatisi all’interno e quelli verificatisi all’esterno dell’area geografica considerata da ciascuna polizza.
[14] Un inquadramento generale delle questioni, assai autorevole ma privo di efficacia vincolante, si può trovare nel contributo di recente fornito dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione con la Relazione n. 56 dedicata alle “Novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale” reperibile all’indirizzo https://www.portaledelmassimario.ipzs.it/frontoffice/studiPubblicazioni.do
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