ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recenti sviluppi in tema di intervento e di opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo (nota a CGARS, 13 gennaio 2021, n. 27) di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Premessa: il caso di specie. – 2. La controversa ammissibilità dell’intervento nel giudizio amministrativo. – 3. La legittimazione ad agire dei controinteressati e l’esperibilità dell’opposizione di terzo. – 4. La soluzione fornita dal CGARS sul rapporto tra opposizione di terzo ed intervento nel giudizio di appello: l’orientamento in materia di ammissibilità dell’opposizione di terzo è consolidato.
1. Premessa: il caso di specie.
La sentenza che si annota nel merito è stata chiamata a pronunziarsi sull’utilizzo e sulla gestione delle concessioni demaniali.
Difatti, la Società ricorrente in primo grado era stata autorizzata con provvedimento dell’11 ottobre 2012 al subingresso nella concessione demaniale avente a oggetto un’area di mq. 100 in località Torre Conca del Comune di Pollina da adibire a servizi per la balneazione, concessione rinnovata il 27 marzo 2015 ed infine prorogata ope legis al 31 dicembre 2020.
Successivamente, la stessa società con istanza del 26 novembre 2014 aveva chiesto, ai sensi dell’art. 24 del regolamento di esecuzione del codice della navigazione, di essere autorizzata ad adeguare la concessione alle norme igienico - sanitarie e al decreto dell’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente del 4 luglio 2011, e, soprattutto, ad ampliare l’area concessa di mq 2.552,23 (successivamente ridotti a mq 1.997,00) per la sistemazione di sedie a sdraio e ombrelloni.
L’Assessorato regionale, previo preavviso di rigetto del 25 maggio 2017, con provvedimento del 18 luglio 2017 aveva però rigettato tale istanza.
La ricorrente impugnava il provvedimento regionale dinnanzi al T.A.R. Palermo dolendosi di una carenza d’istruttoria e di motivazione, nonché di una violazione delle garanzie procedimentali.
A sostegno della posizione dell’Amministrazione regionale si costituiva in giudizio il Comune di Pollina attraverso un intervento ad opponendum.
La stessa ricorrente con successivo atto di motivi aggiunti impugnava anche il provvedimento dell’Assessorato regionale, che sulla base della nota del Comune di Pollina n. 9659 del 15 febbraio 2018 l’aveva dichiarata decaduta dalla concessione demaniale n. 399/2012 ai sensi delle clausole nn. 15 e 17 della concessione n. 388/2006 e dell'art. 47 lett. a), b) e f) del codice della navigazione, con la motivazione che il titolo non era mai stato attivato, e comunque non erano mai state rilasciate le autorizzazioni necessarie per la gestione dello stabilimento balneare.
Con un secondo atto di motivi aggiunti, notificato il 12 ottobre 2018, la società ricorrente impugnava, infine, il decreto n. 538 del 14 agosto 2018 col quale l’Assessorato aveva rilasciato al medesimo Comune di Pollina, ai sensi dell’art. 36 del regolamento di esecuzione del codice della navigazione, la concessione demaniale marittima per una superficie complessiva di 3.000 mq. (dei quali mq. 1.725,00 di area scoperta e mq. 1.275,00 di area coperta con opere di facile rimozione) sulla spiaggia a ovest di capo Raisi Gerbi del Comune.
Il T.A.R. Palermo, con sentenza n. 903 dell’8 maggio 2020, accoglieva il ricorso e i motivi aggiunti e annullava gli atti impugnati sulla base delle seguenti motivazioni: la decadenza della ricorrente dalla concessione demaniale era stata arbitrariamente disposta in violazione delle garanzie procedimentali e senza adeguata istruttoria; il rigetto dell’istanza di ampliamento proposta dalla stessa società era viziato da carenza istruttoria e di motivazione: tale istanza andava intesa quale domanda nuova e autonoma, sulla quale l’Assessorato regionale avrebbe dovuto determinarsi; il Comune avrebbe potuto ottenere l’assegnazione della concessione demaniale solo per destinare l’area in questione ad altri usi pubblici e non già per disporne a favore di privati terzi, nel qual caso avrebbe dovuto indire un’apposita procedura comparativa.
La sentenza è stata appellata dinnanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia dall’Amministrazione regionale e dal Comune di Pollina e nella stessa direzione è stato spiegato anche un’opposizione di terzo mediante intervento ad adiuvandum da parte della Società partner del Comune nell’iniziativa di utilizzo sull’area demaniale sulla base di un accordo di partenariato tra loro concluso il 22 febbraio 2019.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, con ordinanza 17-22 giugno 2020, ha accolto per quanto di ragione l’istanza cautelare proposta dal Comune di Pollina e dalla Società proponente l’opposizione di terzo, per l’effetto sospendendo interinalmente l’efficacia della sentenza appellata nella parte in cui aveva annullato il titolo concessorio rilasciato al primo, motivando in questi termini: “rilevato che la complessità della controversia, che vede l’articolata sentenza in epigrafe sottoposta a contestazione da parte di tre soggetti distinti, rende chiaro come la sede naturale di trattazione dei suoi molteplici aspetti problematici –sostanziali e processuali, questi secondi soprattutto di legittimazione ad appellare- sia quella del giudizio di merito, la cui udienza pubblica conviene pertanto sin d’ora fissare…;
considerato, con riferimento all’assetto interinale della materia del contendere, che la ricorrente vittoriosa in prime cure non dispone, almeno allo stato, di un titolo amministrativo idoneo a permetterle un accesso al godimento dell’area demaniale in contesa, dovendo/potendo l’Amministrazione regionale ancora rideterminarsi sui temi oggetto del primitivo ricorso e del primo atto di motivi aggiunti, e per l’ulteriore ragione che alla stregua della sentenza di prime cure occorrerebbe, in sostanza, svolgere una procedura di valutazione comparativa tra gli aspiranti in lite;
osservato, per contro, che le ragioni a base delle domande cautelari proposte dal Comune appellante nonché dalla società proponente l’opposizione di terzo (n.d.a.), le quali appaiono sorrette da una sufficiente prospettazione di periculum in mora e fumus boni iuris (anche grazie alle convergenti censure rivolte alla sentenza in epigrafe dall’Amministrazione regionale), sono invece suscettibili di una misura cautelare autoesecutiva, la quale pertanto può essere accordata nei limiti necessari a permettere, nelle more del giudizio, la prosecuzione delle attività di godimento dell’area sulla base del titolo a suo tempo rilasciato dalla Regione al Comune”.
L’organo di appello della giustizia amministrativa siciliana, pertanto, ha ritenuto di accogliere l’istanza cautelare presentata dal Comune di Pollina, anzitutto in quanto le questioni, sia di rito che di merito, meritavano un adeguato approfondimento in sede di merito, ma specialmente poiché, con riferimento alla valutazione del periculum in moraeffettuata sulla base di una comparazione degli interessi pubblici e privati in gioco[1], ha ritenuto prevalente l’interesse dell’Amministrazione regionale a rideterminarsi in materia e ad esercitare il correlativo potere, nonché l’interesse del Comune a mantenere il godimento dell’area demaniale sulla base del titolo all’epoca rilasciato dalla Regione.
In sede di discussione del merito, e quindi con la sentenza che si annota, è stato confermato invece l’annullamento della declaratoria di decadenza della concessione pronunciata dall’Amministrazione regionale in quanto assunta in violazione delle garanzie procedimentali e senza adeguata istruttoria.
La pronunzia del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, che in fatto è stata chiamata a pronunziarsi in materia di utilizzo delle concessioni demaniali[2], è meritevole però in questa sede di attenzione anzitutto quanto alle questioni di rito, specialmente per quanto concerne l’esperibilità dell’intervento e dell’opposizione di terzo nel processo amministrativo e conseguentemente l’individuazione dei terzi controinteressati dal giudizio.
2. La controversa ammissibilità dell’intervento nel giudizio amministrativo.
Come anticipato, la sentenza che si annota obbliga a compiere alcune riflessioni sulla posizione dei terzi nel processo amministrativo, ed in particolare sulla possibilità di esperire l’intervento in giudizio o di utilizzare lo strumento dell’opposizione di terzo.
In linea generale, l’intervento in giudizio è l’ingresso di un terzo in un processo pendente e può soggiacere a diverse classificazioni teoriche.
La ragione pratica dell’istituto consiste nell’interdipendenza delle posizioni giuridiche e dei rapporti giuridici; sebbene i terzi non possano essere pregiudicati formalmente dalla sentenza pronunciata tra altri, i rapporti giuridici di cui sono titolari possono sostanzialmente subire delle conseguenze indirette dalla sentenza altrui, determinando ciò la possibilità di un loro interesse all’esito di un processo di cui non sono parti[3].
Anzitutto, l’intervento può essere qualificato come volontario o coatto[4] a seconda che l’ingresso del terzo in giudizio avvenga sulla base di una sua propria autonoma scelta o per scelta di una delle parti già costituite, qualora si ritenga la causa comune al terzo oppure si voglia essere garantiti dallo stesso, o ancora per ordine del giudice laddove sia necessario integrare il contraddittorio oppure qualora il giudice ritenga la causa comune al terzo e, dunque, opportuno lo svolgimento del simultaneus processus anche nei confronti di quest'ultimo[5].
L'intervento volontario, a sua volta, può essere classificato in tre ulteriori categorie: occorre, difatti, distinguere tra intervento principale, intervento litisconsortile ed intervento adesivo dipendente.
Si parla di intervento principale (anche detto ad excludendum) allorquando l'interventore fa valere, nei confronti di tutte le parti, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo[6], di intervento litisconsortile o adesivo autonomo allorquando il terzo interventore deduce in giudizio un rapporto connesso per l'oggetto o per il titolo nei confronti di alcune soltanto delle parti in causa[7], mentre l'intervento adesivo dipendente si ha quando il terzo, avendo un proprio interesse, interviene per sostenere le ragioni di una delle parti[8], al fine di ottenere una sentenza favorevole alla parte adiuvata[9].
Se il codice di procedura civile disciplina compiutamente le diverse tipologie di intervento[10], più complessa è la situazione nel processo amministrativo.
Diverse sono le problematiche sollevate nei confronti dell'ammissibilità dell'intervento nel processo amministrativo, causate, in primo luogo, dalla mancanza, sino al codice del 2010, di un'organica disciplina dettata dal legislatore, circostanza che ha posto il problema dell'applicabilità per analogia della disciplina prevista dal codice di rito civile[11].
La risposta formatasi era nel senso di escludere una generalizzata trasposizione delle norme processualcivilistiche nel processo amministrativo[12], atteso che queste sono state concepite e dettate con riferimento ad un modello di processo da citazione mentre il processo amministrativo è un tipico esempio di processo da ricorso, che si instaura dunque con un atto che si dirige subito al giudice, contenendo l'editio actionis ma non la vocatio in jus[13].
Ed infatti, sino al codice del 2010 la disciplina dell’intervento era contenuta in sole due disposizioni, ovvero nell’art. 22, legge 6 dicembre 1971, n. 1034 e nell’art. 37, r.d. 17 agosto 1907, n. 624, regolamento per la procedura dinnanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato[14].
Entrambe le disposizioni si limitavano a stabilire la possibilità di intervenire in giudizio per coloro che avessero un interesse nella contestazione[15] ed a disciplinare le modalità di notifica e del successivo deposito dell’atto di intervento[16].
Sulla base di questa sintetica quanto laconica disciplina, l’orientamento tradizionale, che, come anticipato, esclude una generalizzata applicabilità delle norme dettate per il processo civile, afferma che il processo amministrativo non dovrebbe conoscere l’intervento principale[17] e quindi la proposizione di una domanda autonoma da parte del terzo, avente ad oggetto una situazione soggettiva propria, diversa rispetto a quella già dedotte dalle altre parti e con esse incompatibili[18], in quanto è difficile individuare in questo tipo di giudizio soggetti che abbiano un interesse eterogeneo ed opposto rispetto a quello del ricorrente ed a quello della parte resistente[19].
Questa conclusione ha trovato conferma nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, in specie nei propri arresti antecedenti al codice del 2010[20].
In particolare, i giudici amministrativi hanno ribadito che il terzo interventore, non potendo essere titolare di un interesse diretto nella controversia, non può assumere una posizione autonoma ma solo aderire alla posizione di una delle due parti principali, escludendo, pertanto, la possibilità di esperire un intervento principale o anche solo litisconsortile[21].
Esperibilità dell'intervento principale o litisconsortile che, secondo un autorevole orientamento formatosi in dottrina, risulterebbe esclusa anche perché, trattandosi di interventi finalizzati alla tutela diretta di interessi dei terzi, sarebbe incompatibile con la regola della perentorietà dei termini per agire nel giudizio amministrativo[22].
Non sembra potersi condividere tale conclusione, non soltanto perché, a seguito della emanazione del codice, la totale preclusione all'intervento principale ed a quello litisconsortile sembra essere venuta meno, pur continuando a rimanere perentori i termini per l'esercizio dell'azione nel giudizio amministrativo, ma anche in virtù del fatto che, se è vero che nel processo civile non vi sono termini di decadenza ma solo di prescrizione per l'esercizio dei propri diritti, bisogna altresì tenere in considerazione che l'intervento volontario e quello litisconsortile non sono consentiti ad libitum ma soltanto sino a quando le parti originarie hanno la facoltà di svolgere attività assertoria, costituendo l'atto di intervento esperito in un momento successivo, e cioè sino al momento della precisazione delle conclusioni, un intervento tardivo, possibile solo in forma adesiva[23].
Il codice di procedura civile ed il codice del processo amministrativo, rispettivamente agli articoli 268 e 28, prevedono pertanto che il terzo potrà intervenire solamente accettando lo stato ed il grado in cui il giudizio si trova senza poter compiere alcun atto difensivo rispetto al quale sia già maturato un termine preclusivo nei confronti delle altre parti: la conseguenza è che nel processo civile il terzo non potrà intervenire oltre l’udienza di trattazione o nel termine eventualmente fissato dal giudice a’ sensi del sesto comma dell’art. 183, cod. proc. civ., ovvero sino a quando alle parti originarie è consentita attività assertoria, dovendosi tenere in considerazione la possibilità di emendatio[24]ma non di mutatio libelli[25], con la conseguenza che l’intervento successivo, ammesso dall’art. 268, comma 1, cod. proc. civ. sino alla precisazione delle conclusioni, deve considerarsi, secondo l’orientamento prevalente, tardivo e limitato ai casi dell’intervento adesivo dipendente o del colegittimato all’azione[26].
Nel processo amministrativo, in modo analogo e ragionando in via astratta, l’intervento principale e litisconsortile non saranno più possibili decorso il termine di decadenza, al fine di evitare che l’intervento divenga lo strumento processuale cui ricorrere allorquando si è decaduti dall’azione di annullamento, potendo così dar luogo ad un possibile abuso del processo[27], dato l'utilizzo di uno strumento processuale per finalità ad esso estranee.
La conseguenza è che, se l'interventore formula al giudice amministrativo la propria domanda entro il termine di decadenza per la proposizione dell'azione, non vi dovrebbero essere ostacoli, riferibili ai termini processuali, che impediscano di ammettere ogni forma di intervento volontario.
Occorre, tuttavia, tenere in considerazione le peculiarità del processo amministrativo; ed infatti, come anticipato, nel giudizio di impugnazione è difficile ipotizzare l'esistenza di soggetti che assumano una posizione contrapposta ad entrambe le parti del giudizio attraverso la proposizione di un atto di intervento principale[28].
D'altronde, diversi sono i connotati dell'azione proponibile in tale tipologia di giudizio rispetto a quelli propri dell'azione nel processo civile.
L'azione nel processo amministrativo, nella sua tradizionale configurazione impugnatoria, ha carattere unilaterale, nel senso che il giudice è tenuto ad accertare soltanto la fondatezza delle censure dedotte dal ricorrente in relazione al provvedimento impugnato, contrariamente al processo civile ove l'azione è bilaterale, concorrendo ad essa il convenuto, che, se pure si limita esclusivamente a concludere per il rigetto della citazione o del ricorso dell'attore, sostanzialmente propone al giudice una domanda di accertamento del rapporto dedotto in giudizio[29].
Pertanto, seguendo la ricostruzione tradizionale, l'estraneità, rispetto al processo amministrativo d'impugnazione, della figura dell'intervento volontario nelle sue varie forme e con l'ampiezza nota al processo civile, deve farsi risalire ai concetti dell'immutabilità delle posizioni soggettive, per cui chi ha titolo per proporre ricorso non può in alternativa entrare nel giudizio come interventore[30], e della disponibilità di un solo mezzo di difesa, a seconda della posizione nella quale si trova l'interesse che si vuole tutelare rispetto al provvedimento impugnato[31].
Se vi è difficoltà, data la natura peculiare del giudizio amministrativo, specialmente nel suo modello originario e tradizionale di giudizio di impugnazione, ad ammettere l’intervento di un terzo portatore di un interesse incompatibile sia con quello del ricorrente sia con quello dell’Amministrazione resistente, pacifica è sempre stata l’ammissibilità dell’intervento adesivo dipendente nel giudizio amministrativo.
L’intervento adesivo dipendente, che si ha allorquando il terzo entra nel processo sostenendo le ragioni di una delle parti, si articola, come noto, in intervento ad adiuvandum allorché l’interventore aderisca alla posizione ed alle domande proposte dal ricorrente[32] ed in intervento ad opponendum quando l’interventore aderisce alla posizione della parte resistente o del controinteressato[33], opponendosi, in tal modo, alle domande avanzate dal ricorrente[34].
L’orientamento della giurisprudenza amministrativa è oramai consolidato nel ritenere ammissibile questa tipologia di intervento nel giudizio amministrativo.
Come è stato chiarito, due debbono essere le condizioni esistenti affinché l’intervento adesivo dipendente possa essere ritenuto ammissibile: la prima, di ordine negativo, si traduce nella necessaria alterità dell'interesse vantato dall'interventore rispetto a quello che legittimerebbe la proposizione del ricorso in via principale; la seconda, invece, a carattere positivo, esige che l'interventore sia in grado di ricevere un vantaggio, anche in via mediata e indiretta, dall'accoglimento del ricorso principale[35], ovviamente qualora sia proposto un intervento ad adiuvandum.
Di conseguenza, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, risulta inammissibile l'intervento ad adiuvandum spiegato nel processo amministrativo da chi sia ex se legittimato a proporre direttamente il ricorso giurisdizionale in via principale, considerato che in tale ipotesi l'interveniente non fa valere un mero interesse di fatto, bensì un interesse personale all'impugnazione di provvedimenti immediatamente lesivi, che può farsi valere solo mediante proposizione di un ricorso principale nei prescritti termini decadenziali[36].
È invece ammesso l'intervento adesivo dipendente, volto cioè a tutelare un interesse collegato a quello fatto valere dal ricorrente principale, con la conseguenza che la posizione dell'interessato è meramente accessoria e subordinata rispetto a quella della corrispondente parte[37] principale.
Difatti, la posizione che legittima a spiegare intervento ad adiuvandum nel giudizio amministrativo consiste nella titolarità di un interesse non direttamente leso dal provvedimento da altri impugnato: ad esempio, non è stato ritenuto ammissibile l'intervento adesivo dell'amministrazione controllata nel giudizio per l'annullamento di un atto negativo di controllo, e cioè di un atto repressivo dell'esercizio di un potere, del quale è attributaria[38] mentre è, al contrario, ammesso l'intervento del successore a titolo particolare nel rapporto controverso[39].
Ciò perché, sempre secondo il Consiglio di Stato, l'intervento nel processo amministrativo, sia nella previgente disciplina sia secondo il disposto di cui all'art. 28 co. 2, c.p.a., non determina un litisconsorzio autonomo, bensì adesivo dipendente, a sostegno delle ragioni di una delle parti, consentito a condizione che il soggetto, se legittimato, non sia decaduto dal diritto di impugnare il provvedimento amministrativo[40].
Nel processo amministrativo, insomma, l'intervento adesivo può essere svolto da soggetti che, non essendo stati parti nel rapporto sostanziale dedotto in giudizio, hanno comunque un interesse da far valere in giudizio, a condizione che la situazione giuridica fatta valere risulti dipendente o secondaria rispetto all'interesse fatto valere in via principale[41].
Ne consegue, sulla scorta dell’anticipato orientamento della giurisprudenza amministrativa, che è inammissibile l'intervento di chi sia comunque legittimato a proporre direttamente ricorso in via principale avverso il medesimo atto impugnato da terzi nel procedimento in cui ritiene di intervenire, eludendosi altrimenti il rispetto dei termini decadenziali individuati dalla legge[42].
La circostanza che l'intervento adesivo dipendente, nelle forme dell’intervento ad adiuvandum o ad opponendum, possa essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale comporta, così come ribadito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel corso del 2020, che non è sufficiente a consentire l'intervento la sola circostanza che l'interventore sia parte di un diverso giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella oggetto del giudizio nel quale intende intervenire.
Peraltro, laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l'intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, scisse dall'oggetto specifico del giudizio cui l'intervento si riferisce[43].
Risulterebbe pertanto sistematicamente incongruo ammettere l'intervento volontario in ipotesi che si risolvessero nel demandare ad un giudice diverso da quello naturale (art. 25, co. 1, Cost.)[44] il compito di verificare in concreto l'effettività dell'interesse all'intervento (e, con essa, la concreta rilevanza della questione ai fini della definizione del giudizio a quo), in assenza di un adeguato quadro conoscitivo di carattere processuale, ove si pensi alla necessaria verifica che il giudice ad quem sarebbe chiamato a svolgere, ai fini del richiamato giudizio di rilevanza, circa l'effettiva sussistenza in capo all'interveniente dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del giudizio a quo[45].
Questo ovviamente per quanto concerne la giurisdizione di legittimità ove si pone il problema del rispetto dei termini decadenziali per l’impugnazione dei provvedimenti.
Diversa parrebbe la situazione relativamente alle controversie che rientrano nella giurisdizione esclusiva[46].
Difatti, si dovrebbe ritenere che nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva che vertono sulla tutela dei diritti soggettivi siano utilizzabili tutte le forme di intervento disciplinate dal codice di procedura civile, non potendosi pervenire a soluzione diversa se si vuole che il processo amministrativo, seguendo altresì i dettami del diritto e della giurisprudenza europea, sia effettiva attuazione della funzione giurisdizionale, cioè renda giustizia[47].
Ed invero, la configurazione della nuova giurisdizione amministrativa esclusiva in termini di “giurisdizione piena” non consente una limitazione delle facoltà processuali delle parti, ove esse non siano espressamente escluse dalle norme processuali amministrative o, comunque, rispetto ad esso incompatibili[48].
Così, in queste ipotesi, dovrebbe ritenersi ammissibile l'intervento non solo adesivo ma anche principale: ogni soggetto che si pretenda interessato può intervenire in giudizio rispettando le forme e i termini propri dell'atto di intervento, salva la successiva verifica all'udienza cautelare o pubblica dell'ammissibilità e della fondatezza dell'intervento stesso[49].
Se si configura il giudizio amministrativo non più necessariamente come un giudizio su un atto[50] ma come un giudizio su un rapporto[51] e sulle sottese situazioni giuridiche, che possono essere anche di diritto soggettivo, è evidente che in questi casi, avvicinando sempre di più il processo amministrativo a quello civile, quanto a facoltà e poteri processuali, non si può non consentire la possibilità di intervenire in giudizio secondo tutte le modalità di intervento volontario previste dal codice di procedura civile[52].
3. La legittimazione ad agire dei controinteressati e l’esperibilità dell’opposizione di terzo.
Gli istituti dell’intervento in giudizio e dell’opposizione di terzo sono tra di loro strettamente interconnessi e non possono essere trattati disgiuntamente.
Quanto appena descritto in tema di intervento è perciò una necessaria precondizione per comprendere al meglio la portata dell’istituto dell’opposizione di terzo.
Occorre, anzitutto, dare conto del fatto che l’opposizione di terzo non è sempre stata prevista tra i mezzi impugnatori della sentenza del giudice amministrativo[53].
La Corte costituzionale, difatti, con la sentenza di tipo addittivo n. 177 del 1995, aveva dichiarato l'illegittimità dell'art. 28 della Legge n. 1034 del 1971 nella parte in cui non prevedeva l'opposizione di terzo[54] tra i rimedi impugnatori nei confronti delle sentenze del giudice amministrativo, strumento necessario al terzo toccato dal giudicato al fine di far valere le sue ragioni dotandolo di un apposito mezzo di impugnazione equivalente a quello che, in altri processi, consente di soddisfare le medesime esigenze, atteso che l'azione amministrativa, direttamente o di riflesso, coinvolge per sua natura una pluralità di soggetti che non sempre sono ritenuti parte necessaria nelle controversie oggetto del giudizio[55].
L’interconnessione con l’intervento in giudizio è palese laddove si consideri che, se al terzo deve essere consentito l'utilizzo di questo strumento impugnatorio[56], parimenti si deve ribadire possibile, quantomeno relativamente alle ipotesi di giurisdizione esclusiva vertenti su diritti soggettivi[57], esperire tutte le tipologie di intervento volontario previste nel nostro ordinamento[58], tenendo in considerazione che l'intervento volontario costituisce, come noto, una sorta di opposizione di terzo "anticipata"[59], nel senso che permette di introdursi in quel giudizio rispetto al quale si ha un particolare interesse e che si concluderà con una sentenza rispetto alla quale si potrebbe attivare il rimedio dell'opposizione del terzo[60].
Tutto ciò evita, rispettando i principi della pienezza del contradditorio e dell’effettività della tutela giurisdizionale del singolo processo, di ricorrere ad uno strumento di eliminazione del giudicato formatosi, valorizzando la regola aurea della certezza dei rapporti giuridici così come definiti dalla sentenza che conclude il giudizio[61].
Come anticipato, però, il percorso che ha portato all’inclusione dell’opposizione di terzo tra i mezzi impugnatori nel processo amministrativo è stato lungo e tormentato[62], non solo per la mancata previsione da parte del legislatore ma anche per l’atteggiamento, che si potrebbe definire non creativo, della giurisprudenza amministrativa.
La IV Sezione del Consiglio di Stato, sin dal 1892, ha ritenuto di negare accesso ad istanze in forma di opposizione di terzo in quanto estranee al procedimento contenzioso amministrativo[63]. La spiegazione può essere rinvenuta, oltreché nel silenzio normativo, anche nella tradizionale configurazione impugnatoria del giudizio amministrativo, che pareva escludere la possibilità di consentire un tal mezzo impugnatorio ai terzi, in quanto, se il provvedimento oggetto del giudizio di annullamento ha un’efficacia erga omnes, la stessa efficacia deve essere necessariamente riconosciuta alla sentenza che conclude il giudizio[64].
Il problema principale che emerse in un processo che si stava configurando come un processo di parti riguardava la posizione dei controinteressati pretermessi dal giudizio di primo grado, rispetto ai quali autorevole parte della dottrina evidenziò la necessità di ammettere l’esperibilità dell’opposizione di terzo come necessaria garanzia del contraddittorio in favore di soggetti che altrimenti non avrebbero altro modo di tutelare le proprie posizioni soggettive[65].
Per quanto si ritenesse che la giurisprudenza amministrativa non potesse colmare la lacuna normativa o meglio non potesse estendere in via analogica la disciplina prevista per il processo civile[66], emergeva con forza il problema della tutela dei terzi, ed in particolare dei controinteressati[67], e della necessaria attuazione della garanzia del contraddittorio, con la conseguenza che specialmente il Consiglio di Stato cercò di estendere la legittimazione dell’intervento in appello in senso ampiamente esteso a “qualunque interessato che non sia anche parte necessaria del processo”, in considerazione del fatto che il giudizio, tra altre parti pendente, “possa pregiudicare in linea di fatto la posizione soggettiva” del terzo escluso dal giudizio[68].
Risolutivo è stato l’intervento, probabilmente tardivo, della Corte costituzionale con la sentenza n. 177 del 1995.
La Corte, come noto, ha ritenuto la mancanza nella disciplina del processo amministrativo dell’opposizione di terzo ordinaria[69] avverso le sentenze del Consiglio di Stato in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione.
Ciò semplicemente sulla base della ratio dell’istituto.
L'esigenza del rimedio è, in base agli orientamenti prevalenti, desunta dalla constatazione della possibilità che - nonostante la regola generale, dettata dall'art. 2909 cod. civ., dell' inefficacia della sentenza nei confronti di soggetti diversi dalle parti del processo a conclusione del quale essa sia stata pronunciata - si presentino casi in cui, per effetto della cosa giudicata, venga a determinarsi una obbiettiva incompatibilità fra la situazione giuridica definita dalla sentenza e quella di cui sia titolare un soggetto terzo rispetto ai destinatari della stessa[70].
L’opposizione di terzo ordinaria trae perciò ispirazione da tale evenienza e consente a coloro che non sono stati coinvolti nel processo di far valere le loro ragioni, infrangendo lo schermo del giudicato per rimuovere il pregiudizio che da esso possa loro derivare. Ciò sia nel caso che la situazione vantata dall'opponente ed incompatibile con quella affermata dal giudicato venga considerata dal diritto sostanziale prevalente rispetto a quest'ultima, sia nel caso che la sentenza cui ci si oppone risulti pronunciata senza il rispetto di regole processuali[71].
Evenienze del genere si manifestano certamente anche nel processo amministrativo. Anzi, a causa dell'intreccio dei rapporti naturalmente implicati dall'attività amministrativa e dai relativi procedimenti oggetto di sindacato giurisdizionale, è probabile che detta evenienza possa manifestarsi più frequentemente proprio in questo processo e non soltanto nei casi in cui un controinteressato, parte necessaria, sia stato pretermesso e non abbia potuto far valere le sue ragioni.
Non di rado, difatti, l'azione amministrativa, direttamente o di riflesso, coinvolge per sua natura una pluralità di soggetti che non sempre sono ritenuti parte necessaria nelle controversie oggetto del giudizio.
Data la peculiare natura del processo amministrativo che, come attualmente configurato, si svolge normalmente tra i soggetti interessati dall'atto impugnato, è possibile che la sentenza che lo conclude possa poi dar luogo, per la sua attuazione, ad altri procedimenti interferenti su rapporti facenti capo a soggetti che non dovevano o, in alcuni casi, addirittura non potevano partecipare al processo e dunque diversi dai destinatari in senso formale della sentenza medesima.
L’introduzione così perentoria operata dalla Corte costituzionale ha trovato finalmente la sua definitiva consacrazione legislativa con il Codice del processo amministrativo del 2010.
L’art. 108 del Codice, riprendendo in modo pressoché analogo il dettato dell’art. 404 cod. proc. civ., al primo comma delinea l’opposizione di terzo ordinaria stabilendo che un terzo può fare opposizione contro una sentenza del tribunale amministrativo regionale o del Consiglio di Stato pronunciata tra altri soggetti, ancorché passata in giudicato, quando pregiudica i suoi diritti o interessi legittimi.
Una volta che l’istituto ha trovato espresso riconoscimento nel sistema positivo del processo amministrativo, è divenuto necessario individuare quali sono i soggetti che vi possono ricorrere, e qui la giurisprudenza ha dovuto evidentemente chiarire quali sono i terzi che possono vedere pregiudicata la propria posizione di diritto soggettivo o di interesse legittimo da una sentenza pronunziata tra altre parti processuali.
Come chiarito anzitutto dal Consiglio di Stato[72], la legittimazione a proporre opposizione di terzo nei confronti della decisione del giudice amministrativo resa tra altri soggetti deve essere riconosciuta: a) ai controinteressati pretermessi, perché è mancata la notifica nei loro confronti; b) ai controinteressati sopravvenuti; c) ai controinteressati non facilmente identificabili; d) in generale, ai terzi titolari di una situazione giuridica autonoma e incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza oggetto di opposizione[73], con esclusione, di conseguenza, dei titolari di un diritto dipendente, ovvero di soggetti interessati di riflesso, non sussistendo per questi, per definizione, il requisito dell´autonomia della loro posizione soggettiva[74].
La legittimazione a proporre opposizione di terzo nei confronti di sentenza del giudice amministrativo resa inter alios deve essere, dunque, riconosciuta ai controinteressati pretermessi, nonché a quelli occulti (perché non facilmente identificabili) o sopravvenuti, non intervenuti nel processo, allorquando tale assenza non sia dipesa da una loro decisione, ma sia conseguenza di un'omissione dovuta alla controparte, alla mancata attivazione dei poteri di integrazione del contraddittorio del giudice o a vizi del procedimento amministrativo a monte, per mancanza di una corretta individuazione o di una espressa evocazione nella formalità degli atti.
Tali soggetti, pur non avendo partecipato al relativo giudizio, sono nondimeno titolari di un interesse qualificato al mantenimento dell'atto impugnato: interesse che, di conseguenza, risulta travolto direttamente dall'annullamento dell'atto stesso; sicché l'attuazione del comando contenuto nella sentenza sarebbe ontologicamente incompatibile rispetto ad una coesistenza, sul piano sostanziale, dei due ordini di interessi propri del ricorrente e dell'opponente[75].
Pertanto, nell'attuale formulazione dell'art. 108, co. 1 del Codice, dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 195/2011[76], la legittimazione a proporre opposizione si incentra su due elementi essenziali, uno che si potrebbe definire di carattere negativo e l’altro positivo: la mancata partecipazione al giudizio conclusosi con la sentenza opposta ed il pregiudizio che reca la sentenza ad una posizione giuridica di diritto soggettivo o di interesse legittimo di cui l'opponente risulti titolare.
Solamente attraverso l'opposizione di terzo, quindi, può sanarsi la contraddizione tra "cosa giudicata" in senso sostanziale (ex art. 2909 cod. civ.), che tuttavia, come è noto, definisce e limita l'efficacia dell'accertamento contenuto in sentenza alle parti del giudizio, e posizione di colui che tale qualifica di parte non ha potuto incolpevolmente acquisire, risolvendosi così quella incompatibilità fra la situazione giuridica definita dalla sentenza e quella di cui sia titolare un soggetto terzo rispetto ai destinatari della stessa, già rilevata dalla Corte costituzionale con la nota sentenza additiva del 1995.
Deve, invece, escludersi la legittimazione ad agire in opposizione di terzo avverso la sentenza lesiva per il titolare della posizione principale di coloro che, rimasti estranei al giudizio, siano titolari di un interesse di mero fatto, non giuridicamente rilevante, alla rimozione del provvedimento impugnato, interesse che avrebbe tutt'al più legittimato un intervento ad adiuvandum in primo grado, ai sensi dell'art. 28, co. 2, cod. proc amm.[77]
E quindi, la legittimazione ad impugnare la sentenza con l'opposizione di terzo ordinaria (ex art. 108, comma 1, cod. proc. amm.) presuppone in capo all'opponente la titolarità di un diritto, o di un interesse legittimo, pregiudicato dalla situazione giuridica risultante dalla sentenza pronunciata tra altre parti, con la precisazione che l'incompatibilità della sua posizione con la statuizione giurisdizionale deve essere riferita non solo a colui il quale aspirava al medesimo bene conseguito dal ricorrente vittorioso, ma, in senso più lato, anche a colui che intenda difendere un bene della vita inciso negativamente, nella sua integrità o nel suo valore, dalla sentenza opposta[78].
Il problema principale nel valutare l’ammissibilità dell’opposizione di terzo concerne, pertanto, la figura del terzo nel processo amministrativo, ed in particolare del controinteressato, e la sua legittimazione ad intervenire, o meglio a resistere rispetto ad una sentenza ed a un giudicato che si può formare anche nei suoi confronti senza che questo abbia potuto svolgere attività difensiva a tutela dei propri interessi nel giudizio.
La questione non è di facile risoluzione, specialmente quanto all’individuazione dei terzi, e così il Consiglio di Stato ha cercato di chiarire il quadro con un’importante pronunzia del 2019.
Le leggi sul processo amministrativo hanno sempre contemplato, accanto ai controinteressati, che sono parti necessarie, una categoria indefinita di terzi che sono legittimati a intervenire, ma il modello risulta tutt'altro che conclusivo, se non altro perché considera più le forme di ingresso nel processo, che i contenuti e le prerogative di ciascuna partecipazione.
Per i controinteressati in senso stretto, la questione si pone, sotto il profilo processuale, nei termini di attuazione del principio del contraddittorio, il quale (in particolare, art. 2 cod. proc. amm. anche in relazione all'art. 24 Cost. e all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, richiamati dall'art. 1 cod. proc. amm.), si declina operativamente (artt. 27 e 41 del Codice) nel senso della sua necessaria "integralità", garantita dalla notifica del ricorso all'Amministrazione resistente e, ove esistenti, a tutti i "controinteressati", che costituiscono le parti necessarie, cioè le "parti nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata" (al riguardo, l’art. 28, co. 1, le legittima, in caso di omessa notifica, all'intervento "senza pregiudizio del diritto di difesa", cioè senza la soggezione allo stato e grado del giudizio e senza il condizionamento alla sussistenza di uno specifico interesse ed all'accertamento del mancato verificarsi di decadenze, cui il successivo comma subordina l'intervento di altri terzi che non siano contraddittori necessari).
Propriamente controinteressati sono, del resto, le "persone alle quali l'atto o provvedimento direttamente si riferisce" di cui già faceva (esatta) parola l'art. 36, co. 2, T.U sul Consiglio di Stato: titolari di un interesse qualificato opposto a quello del ricorrente, la cui posizione processuale (era ed) è qualificabile in termini di vero e proprio litisconsorzio necessario.
Peraltro, è noto che la nozione rilevante di controinteressato necessario fa leva sulla ricorrenza di un duplice requisito: 1) sostanziale, rappresentato dalla titolarità di una posizione qualificata di vantaggio, attribuita specificamente a quel soggetto dal provvedimento impugnato (in tal senso l'atto è "riferibile" ad essa); 2) formale, rappresentato dall'identificazione nominativa del soggetto nell'atto impugnato.
Oltretutto, la verifica dei requisiti per la posizione di controinteressato viene effettuata con riguardo al momento di introduzione del giudizio (come è logico, trattandosi di posizione di controinteresse rispetto all'atto impugnato). Pertanto, l'acquisto di una posizione qualificata di vantaggio successivamente alla presentazione del ricorso (come spesso si verifica nel caso di emanazione di provvedimenti consequenziali a quello impugnato) non comporta alcuna necessità di integrare il contraddittorio. Per tal via, non sono litisconsorti necessari i controinteressati successivi.
Queste considerazioni dimostrano l’eccezionalità della figura dei controinteressati in senso solo sostanziale (o controinteressati "occulti") e dei controinteressati successivi: essi sono parimenti titolari di una situazione soggettiva qualificata (opposta, con riferimento all'atto impugnato, a quella del ricorrente) e sono, perciò, assoggettati agli effetti della sentenza (quanto meno, della sentenza di annullamento), pur non essendo contraddittori necessari.
Occorre osservare - avuto riguardo alla distinzione tra effetto di annullamento[79] ed efficacia (soggettiva) del giudicato - che tali soggetti subiscono le conseguenze demolitorie della sentenza inter alios, ma non sono soggetti al relativo giudicato[80], che è condizione - necessaria prima che sufficiente - a legittimarli alla opposizione di terzo.
Più complessa è la situazione che si verifica allorché la posizione di vantaggio sia determinata da un atto impugnato che abbia consistenza normativa o portata generale: in questi casi (in sintomatica differenza di quel che è dato riscontrare nei provvedimenti c.d. plurimi), l'annullamento ha caratteristica efficacia ultra partes.
Nondimeno, a differenza dei controinteressati in senso proprio, l'attribuzione di una posizione di vantaggio è, per definizione, priva del carattere di "specificità": onde, pur essendo possibile l'intervento in giudizio, appare arduo immaginare una generalizzata legittimazione all'opposizione di terzo (verisimilmente preclusa proprio dal rilievo che si tratta di soggetti direttamente incisi dal giudicato, rispetto al quale non sono perciò propriamente terzi).
Sotto ulteriore profilo, titolare di una posizione qualificata d'interessi, opposta a quella del ricorrente, non è solo chi abbia "conseguito un vantaggio specifico" per effetto dell'atto impugnato, ma è anche chi per effetto dello stesso atto abbia "evitato un pregiudizio specifico". Si pensi al caso del proprietario rispetto all'impugnazione, da parte del vicino, di un diniego (o di un annullamento) di un permesso di costruire[81]; ovvero al concorrente, rispetto alla impugnazione di un provvedimento di esclusione[82].
La giurisprudenza afferma tradizionalmente che questi soggetti non sono controinteressati, rilevando che il provvedimento impugnato (negli esempi proposti: il diniego o l'annullamento del permesso di costruire, l'esclusione da una procedura concorsuale o ad evidenza pubblica) non assegna ad essi alcuno specifico vantaggio. Di conseguenza, anche se questi terzi sono espressamente "nominati" nell'atto, non assumono mai la veste di contraddittori necessari, pur potendo intervenire in giudizio.
Dovrebbe anche, coerentemente, escludersi per costoro la possibilità di proporre opposizione di terzo: sennonché la questione, secondo il Consiglio di Stato[83], parrebbe richiedere un complessivo ripensamento, che esula del tutto dai limiti delle considerazioni che si vanno svolgendo, alla luce della possibilità che, in conseguenza del progressivo trasformarsi del giudizio sull'atto in giudizio sul rapporto, si acceda già in sede cognitoria (e non solo nella tradizionale prospettiva conformativa) all'accertamento, in presenza di attività vincolata, della fondatezza della pretesa[84].
Parimenti opinabile è, in questa prospettiva, il superamento, per espressa e non poco problematica opzione positiva, della tradizionale opinione circa l'assenza di controinteressati nel giudizio avverso il silenzio dell'Amministrazione[85]: anche qui, se la possibilità di legittimare posizioni di controinteresse necessario emerge dalla scelta legislativa (verosimilmente giustificata proprio dalla apertura del giudizio sul silenzio all'accertamento della fondatezza sostanziale della pretesa), resta dubbio in quale misura possa strutturarsi la legittimazione a proporre opposizione di terzo avverso la sentenza che si limiti ad accertare l'obbligo di provvedere.
In ogni caso, ancora diversa è la posizione dei terzi titolari di un interesse semplicemente "dipendente" da quello di una delle parti necessarie del processo, che per vario rispetto possono essere equiparati (anche ai fini della legittimazione all'intervento) ai titolari di un interesse di mero fatto.
Costoro, per un verso non possono vantare una posizione soggettiva autonoma (stante la postulata relazione di dipendenza) e, per altro verso, non sono mai e per definizione, rispetto al giudicato inter alios, in posizione di incompatibilità giuridica, ma - semmai - di mera (e non rilevante) incompatibilità pratica (che, se vale ad abilitarli all'intervento adesivo dipendente ad adiuvandum, ne esclude la legittimazione all'opposizione impugnatoria).
I rilievi che precedono giustificano, pur nella obiettiva problematicità di qualche profilo, le conclusioni cui è giusta la giurisprudenza, alla cui stregua deve ritenersi che la legittimazione a proporre opposizione di terzo nei confronti di una sentenza del giudice amministrativo resa inter alios vada, in definitiva, riconosciuta solo ai controinteressati pretermessi, nonché a quelli occulti (perché non facilmente identificabili) e a quelli sopravvenuti, non intervenuti nel processo, allorquando tale assenza non sia dipesa da una loro decisione, ma sia conseguenza di un'omissione dovuta alla controparte, alla mancata attivazione dei poteri di integrazione del contraddittorio del giudice o a vizi del procedimento amministrativo a monte, per mancanza di una corretta individuazione o di una espressa evocazione nella formalità degli atti.
Tali soggetti, pur non avendo partecipato al relativo giudizio, sono nondimeno portatori di un interesse (giuridicamente) qualificato al mantenimento dell'atto impugnato: interesse che, di conseguenza, risulta travolto (direttamente ed immediatamente) dall'annullamento dell'atto stesso; sicché l'attuazione del comando contenuto nella sentenza sarebbe ontologicamente incompatibile rispetto ad una coesistenza, sul piano sostanziale, dei due ordini di interessi propri del ricorrente e dell'opponente[86].
Si deve, per l’opposto ordine di ragioni, escludere la legittimazione attiva all'opposizione di terzo ordinaria di coloro la cui situazione giuridica sia (semplicemente) collegata da un rapporto di dipendenza o di derivazione con quella di altri soggetti parti in causa; allo stesso modo deve essere esclusa la legittimazione ad agire dei soggetti interessati solo di riflesso: rispetto a tali categorie difetta, infatti, il requisito dell'autonomia della posizione soggettiva stessa.
Pertanto, a differenza della parte necessaria pretermessa, il titolare della posizione secondaria, accessoria e riflessa, pur potendo intervenire nel giudizio, non è legittimato ad impugnare con opposizione di terzo ordinaria la sentenza lesiva per il titolare della posizione principale[87].
4. La soluzione fornita dal CGARS sul rapporto tra opposizione di terzo ed intervento nel giudizio di appello: l’orientamento in materia di ammissibilità dell’opposizione di terzo è consolidato.
Per pacifica giurisprudenza, l'opposizione di terzo è mezzo di impugnazione a contestuale natura rescindente e rescissoria[88], perché mira anche all'accertamento di una pretesa in conflitto con quella accertata giudizialmente[89].
Il problema principale, come si è ampiamente visto nel precedente paragrafo, attiene alla legittimazione alla proposizione del rimedio impugnatorio.
Nel caso di specie, la Società che ha proposto l’opposizione di terzo ha radicato la propria legittimazione su due elementi: di aver partecipato alla procedura indetta dall’Amministrazione comunale mediante avviso pubblico, nell’anno 2017, per acquisire la disponibilità di operatori interessati all’attivazione di un partenariato pubblico/privato per la gestione delle attività connesse a una concessione demaniale marittima nella località Capo Rais Gerbi (titolo che sarebbe stato poi rilasciato al Comune mediante un decreto regionale); e di avere stipulato con lo stesso Comune il relativo accordo di partenariato il successivo 22 febbraio 2019.
Il Consiglio di Giustizia ha ritenuto inammissibile l’opposizione di terzo.
Basandosi sulla consolidata giurisprudenza esaminata nel paragrafo precedente, il Consiglio di Giustizia ha ricordato che la proposizione dell'opposizione di terzo ordinaria contro una sentenza del giudice amministrativo, ancorché non passata in giudicato, è subordinata alla sussistenza di un pregiudizio, determinato dalla pronunzia impugnata, ai diritti o agli interessi legittimi del ricorrente.
Il rimedio ha, infatti, il fine di tutelare il litisconsorte necessario pretermesso, ovvero il titolare di una situazione soggettiva autonoma e incompatibile con quella accertata nella sentenza e rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della pronunzia opposta[90].
Perché possa essere proposta l’opposizione di terzo deve perciò sussistere un elemento fondamentale: la titolarità di una posizione soggettiva autonoma giuridicamente qualificata rispetto al thema decidendum, escludendo, per converso, la legittimazione di coloro che versino in una posizione collegata da un nesso di dipendenza o derivazione (o comunque meramente secondaria e accessoria) rispetto a quella di una delle parti in causa, o che siano interessati solo di riflesso.
Nel caso di specie, la posizione della Società che ha proposto opposizione di terzo si ricollega appunto solo in via derivata e riflessa, ossia solo per il tramite del concluso accordo di partenariato, alla concessione demaniale rilasciata dalla Regione, col decreto impugnato in sede giurisdizionale, all’Amministrazione comunale di Pollina.
Il provvedimento concessorio, di per sé, non attribuisce infatti all’opponente alcun diretto vantaggio giuridico.
Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, però, si spinge oltre, non limitandosi a dichiarare la semplice inammissibilità dell’opposizione di terzo spiegata; ed infatti, in coerenza con il principio di conservazione degli atti processuali, ha ritenuto che l’intervento della Società opponente benché spiegato sotto forma di opposizione di terzo, possa comunque essere riguardato sub specie di comune intervento adesivo dipendente ad adiuvandum dell’appello comunale, in applicazione della regola generale della possibilità d’intervento nel giudizio d’impugnazione da parte di chi vi abbia interesse (art. 97 c.p.a.).
La conclusione cui giunge l’organo d’appello della giustizia amministrativa siciliana è condivisibile.
Dato che l'opposizione di terzo ordinaria può essere proposta non già da tutti coloro che rivestono la qualità di terzi rispetto al giudizio nel quale è stata emessa la sentenza ed abbiano comunque un interesse, sia pure di fatto, ad insorgere contro la pronunzia, ma soltanto da chi, oltre ad essere terzo, vanta in relazione al bene che ha formato oggetto della controversia un proprio diritto autonomo e nel contempo incompatibile con il rapporto giuridico accertato o costituito dalla sentenza[91], circostanza che nel caso di specie non era ravvisabile, la legittimazione ad introdursi in giudizio della Società che ha proposto l’opposizione di terzo giudicata inammissibile può essere qualificata più correttamente come legittimazione ad intervenire in appello poiché, ai sensi dell'art. 97, cod. proc. amm., l'intervento adesivo non autonomo può essere proposto per la prima volta anche nel processo amministrativo di appello da parte di chiunque abbia interesse alla contestazione, altresì ove titolare di un interesse di mero fatto[92].
Questo è proprio il caso di specie ove non vi è un contrasto tra i rapporti giuridici accertati in sede giurisdizionale e quelli di soggetti terzi, potendo questi vantare solo interessi in via derivata e riflessa dall’utilizzo della concessione demaniale da parte del Comune di Pollina, con la conseguenza che al limite possono intervenire in appello ex art. 97 del Codice[93] ma non certo proporre opposizione di terzo ordinaria.
[1] Si permetta il rinvio, per un approfondimento della questione, a M. Ricciardo Calderaro, La comparazione degli interessi nel giudizio cautelare amministrativo. Un nuovo modo di valutare i presupposti processuali, in Federalismi, n. 27/2020, 223 ss.; in generale si rinvia a M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Dir. proc. amm., 2010, 1130 ss.; in materia cautelare si deve dare conto della recente tendenza ad impugnare i decreti cautelari monocratici, malgrado il chiaro disposto in senso contrario del Codice del processo amministrativo: sul punto cfr. M.A Sandulli, Giurisprudenza creativa e digitalizzazione: una pericolosa interazione che accresce i rischi di incertezza sulle regole processuali, in Federalismi, 13 gennaio 2021; ma già prima del Codice cfr. C.E. Gallo, L’appellabilità del decreto cautelare presidenziale, in Foro amm. CdS, 2009, 2615 ss.
[2] Sulle reiterate proroghe delle concessioni demaniali per uso turistico e sul relativo intervento della Commissione dell’Unione europea nei confronti dell’Italia cfr. P. Quinto, Proroga delle concessioni demaniali, in LexItalia, 9 dicembre 2020; la letteratura in materia è ampia, ex multis si rinvia a F. Francario, Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità, in Aa. Vv., Scritti in onore di Eugenio Picozza, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019, vol. I, 729 ss.; F. Armenante, La non disciplina delle concessioni demaniali: dall’abrogazione dell’innaturale diritto di insistenza alle plurime e asistematiche proroghe anticomunitarie, in Riv. giur. edil., 2020, 261 ss.; A. Lucarelli, L. Longhi, Le concessioni demaniali marittime e la democratizzazione della regola della concorrenza, in Giur. cost., 2018, 1250 ss.; M. Timo, Concessioni demaniali marittime: tra tutela della concorrenza e protezione della costa, in Giur. it., 2017, 2191 ss.; L. Di Giovanni, Le concessioni demaniali marittime e il divieto di proroga ex lege, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2016, 912 ss.; A. Monica, Le concessioni demaniali marittime in fuga dalla concorrenza, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2013, 437 ss.; M. D’Orsogna, Le concessioni demaniali marittime nel prisma della concorrenza: un nodo ancora irrisolto, in Urb. e app., 2011, 599 ss.
[3] Così E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Principi, a cura di V. Colesanti, E. Merlin, E.F. Ricci, Milano, Giuffrè, 2007, 103; nello stesso senso L. Montesano, G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, Padova, Cedam, 2001, vol. I, 632, secondo cui "la ratio che accomuna le varie ipotesi di intervento, sia volontario che coatto, deve essere individuata nell'interdipendenza dei rapporti giuridici sostanziali, cioè nei collegamenti, di vario tipo e natura, che possono sussistere, sul terreno sostanziale, tra il rapporto che è oggetto dell'originario processo ed altri rapporti che coinvolgono o possono coinvolgere soggetti estranei al primo: coinvolgimento, però, che, per la natura stessa di tali collegamenti sostanziali, non richiede mai la necessaria partecipazione di altri soggetti (i quali sarebbero, in tal caso, litisconsorti necessari), ma che può determinare, sempre sul terreno sostanziale, conseguenze in senso lato pregiudizievoli (o potenzialmente tali) nei confronti di questi soggetti in relazione all'esito della lite, tali da giustificare la partecipazione degli stessi al processo inter alios".
[4] S. Costa, Intervento (dir. proc. civ.), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1972, vol. XXII, 466, evidenzia come l'intervento coatto, inteso in senso generale, comprende vari istituti che vanno dall'intervento coatto in senso stretto, alla laudatio o nominatio auctoris, ed alla litisdenuntiatio; "questi due ultimi istituti non hanno in realtà la funzione di servire per la chiamata in causa di un terzo, ma la litisdenuntiatio consiste nella denunzia al terzo che è sorta una determinata lite, mentre con la nominatio auctoris il possessore d'una cosa in nome altrui, convenuto in tale qualità, denuncia la lite al possessore mediato, onde esser estromesso".
[5] Secondo F. Locatelli, Commento all’art. 105, in L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani, R. Vaccarella (diretto da), Commentario del codice di procedura civile, Torino, Utet, 2012, vol. II, 97 ss., “le ragioni che giustificano il superamento della bilateralità dello schema classico del processo e aprono la via all’ipotesi dell’intervento in causa, concernono le connessioni sostanziali sottostanti alle azioni esperite, che possono essere di diverso tipo, ma mai tali da rendere la partecipazione del terzo al processo necessaria (ossia non si è dinnanzi a quelle stesse ragioni che legittimano e giustificano il litisconsorzio facoltativo). L’interesse ad intervenire spontaneamente in causa si comprende, in particolare, solo alla luce delle possibili conseguenze indirette e pregiudizievoli che potrebbero scaturire per il terzo che decida di rimanere estraneo al processo”.
[6] Sul punto cfr. C. Punzi, Il processo civile, Sistema e problematiche, Torino, Giappichelli, 2008, vol. I, 315 ss., secondo cui, in tale tipologia di intervento, "le caratteristiche che deve avere il diritto del terzo, perché costui possa ottenere la tutela richiesta, sono tre: autonomia-incompatibilità-prevalenza".
[7] In tema cfr. A. Chizzini, Commento all'art. 105, in C. Consolo (diretto da), Codice di procedura civile commentato, Milano, Ipsoa, 2010, 1186, a giudizio del quale, con questa tipologia di intervento, "si viene a instaurare a posteriori un litisconsorzio facoltativo dato che può mancare l'accordo per l'azione comune all'inizio del processo".
[8] Così, ex multis, S. Costa, op.cit., 462.
[9] A. Chizzini, L'intervento adesivo, Struttura e funzione, Padova, Cedam, 1992, vol. II, 901 ss., osserva come "l'affermazione di una dipendenza all'interno del processo rispetto alla volontà della parte principale deve essere un dato accolto solo alla luce della valutazione del diritto positivo - e con precisione, del diritto processuale - e non un mero corollario che si trae dalla stessa natura della situazione sostanziale che opera sul piano diverso della legittimazione. Peraltro (...) spesso non si supera l'immediato rilievo che l'intervenuto non è titolare del rapporto dedotto e in ragione di ciò si ritiene di potere risolvere persuasivamente ogni questione che attiene alla posizione dell'intervenuto nel processo. Il che appare, invece, del tutto insufficiente".
[10] Sulle tipologie e le modalità di intervento nel giudizio civile cfr. C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, Torino, Giappichelli, 2016, vol. I, 454 ss. e vol. II, 134 ss.; G. Tarzia, F. Danovi, Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano, Giuffrè, 2014, 166 ss.
[11] Con riferimento alla disciplina che era stata prevista per l’intervento nel giudizio dinnanzi al Consiglio di Stato cfr. U. Borsi, La giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 1941, 315, secondo cui “l’interveniente non può ampliare il tema della controversia sollevata col ricorso”; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, 1969, 830 ss.
[12] M. D’Orsogna, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Dir. proc. amm., 1999, 434, osserva come “volgere lo sguardo direttamente al complesso gioco degli interessi coinvolti dall’azione amministrativa, al di là dello schermo formale del provvedimento amministrativo, avrebbe richiesto, infatti, un mutamento di prospettiva assai profondo cui dottrina e giurisprudenza non erano preparate, attese le incertezze dogmatiche sulla nozione di interesse legittimo e la costruzione del processo amministrativo secondo uno schema prettamente demolitorio. E ciò trova conferma nella circostanza che alcune delle più brillanti intuizioni sull’intervento (che rappresentano forse il miglior tentativo di trasferire alla realtà amministrativa le esperienze del processo civile) provengono da quella nostra dottrina che ha consegnato alla dogmatica giuridica una compiuta elaborazione del rapporto giuridico amministrativo quale oggetto del giudizio: con tutto ciò che a questa innovativa (al di là della sua accoglibilità sul piano concettuale) elaborazione consegue in tema di ricostruzione del contraddittorio, del giudicato e dell’estensione delle forme di intervento ammesse nel giudizio amministrativo”; sull’esclusione di una generalizzata applicabilità delle norme del codice di procedura civile all’intervento nel processo amministrativo cfr. M. Pazardjiklian, Riflessioni sulla legittimazione all’appello da parte dell’interveniente “ad opponendum”, in Dir. proc. amm., 1997, 853 ss.
[13] Sul punto cfr. A. Police, Il ricorso di primo grado, la costituzione delle altre parti, l'intervento, il ricorso incidentale, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, Cedam, 2014, vol. XLII, 407 ss.; per una ricostruzione tradizionale si rinvia a F. Sciarretta, Appunti di giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2007, 196 ss., a giudizio del quale l’unico intervento ammissibile nel processo amministrativo è quello volontario adesivo, rimanendo esclusi sia l’intervento principale che quello litisconsortile, “in quanto attraverso questi tipi di intervento potrebbe essere facilmente elusa la perentorietà del termine entro il quale deve essere proposto il ricorso”; sulla possibilità del solo intervento ad adiuvandum cfr. già G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1958, vol. II, 266.
[14] Secondo L.R. Perfetti, Commento all'art. 22, in A. Romano, R. Villata (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 2009, 779, le disposizioni in questione non escludono affatto l'intervento principale - "rivenendo l'enunciato normativo in esame dall'imitazione del codice di rito previgente, nel quale le forme di intervento diverse da quello adesivo erano pacificamente ammesse - né, per le ragioni che si sono già esposte, pare si debba raggiungere la conclusione che l'ammissione di forme di intervento diverse da quello adesivo comporti la necessaria deroga al termine decadenziale di impugnazione (che semmai varrà solo per quelle parti la cui domanda giudiziale sia intesa ad ottenere l'annullamento del provvedimento)". Contraria l’opinione di R. Ferrara, Commento all’art. 22, in A. Romano (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 2001, 831, secondo cui, sulla base delle disposizioni in commento, risultava ammissibile solo l’intervento volontario ed adesivo dipendente, in quanto rimesso alla volontà dell’interventore ed a favore di una delle parti principali del processo.
[15] M. Ramajoli, Riflessioni in tema di interveniente e controinteressato nel giudizio amministrativo, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 8 maggio 1996, n. 2, in Dir. proc. amm., 1997, 118 ss., evidenzia come la configurazione che la legge di istituzione dei Tribunali Amministrazioni Regionali offriva all’istituto dell’intervento derivasse strettamente da quella del codice di procedura civile del 1865 ove, all’art. 201, si stabiliva che chiunque avesse interesse in una controversia tra altre persone poteva intervenirvi; sul punto cfr. in giurisprudenza Cons. Stato, Sez. V, 13 aprile 1989, n. 215, in Giur. it., 1989, III, 185 ss.; Cons. Stato, Sez. V, 15 giugno 1992, n. 558, in Dir. proc. amm., 1993, 491, con nota di E. Stoppini, Intervento ad opponendum e legittimazione all'appello nel processo amministrativo: brevi riflessioni, 495 ss., e in Giur. it., 1993, III, I, 800 ss.
[16] Per l'interpretazione che ravvisava nell'art. 22 della c.d. Legge T.A.R. gli estremi per configurare solamente l'intervento adesivo, ad adiuvandum ed ad opponendum, nel processo amministrativo cfr., S. Tassone, Intervento "ad opponendum" nel giudizio di primo grado e legittimazione all'appello, nota a Cons. St., Sez. V, 15 giugno 1992, n. 558, in Giur.it., 1993, III, 803 ss.
[17] Si può far risalire a V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in V.E. Orlando (a cura di), Primo Trattato completo di diritto amministrativo italiano, Milano, Società editrice libraria, 1901, vol. III, 1016, la prima formulazione secondo cui l’unica forma di intervento ammissibile nel processo amministrativo è quella denominata dipendente.
[18] Così si esprimono G. Tarzia, F. Danovi, op. cit., 167.
[19] Sul punto cfr. P. Patrito, Lo svolgimento del giudizio e le decisioni emesse in camera di consiglio, in R. Caranta (diretto da), Il nuovo processo amministrativo, Bologna, Zanichelli, 2011, 449 ss.; V. Caianello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, Utet, 2003, 626, che esclude la compatibilità dell'intervento litisconsortile nel processo amministrativo da impugnazione; contra, C.E. Gallo, Giudizio amministrativo, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1991, vol. VII, 244, secondo cui dovrebbe ritenersi in astratto possibile l’intervento principale in sede di giurisdizione esclusiva, “allorché vi possa essere una terza parte, a questo punto presumibilmente un’amministrazione, che voglia far valere in giudizio la titolarità a sé spettante dei diritti su un bene dedotto in giudizio”; M. Ramajoli, La connessione nel processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2002, 143, sostiene che anche nel processo amministrativo di legittimità dovrebbe trovare ingresso l'intervento principale nelle ipotesi di connessione necessaria per incompatibilità.
[20] Con rare eccezioni: ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 17 gennaio 1978, n. 13, in Cons. St., 1978, I, 24 ss., ha affermato la possibilità di ammettere tutte e tre le tipologie di intervento previste dall’art. 105, cod. proc. civ., ovvero l’intervento principale, litisconsortile e adesivo dipendente nel processo amministrativo; in dottrina cfr. l’orientamento favorevole all’ammissibilità dell’intervento principale nella giurisdizione esclusiva, già nel vigore della Legge T.A.R., di E. Picozza, Processo amministrativo (normativa), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1987, vol. XXXVI, 484.
[21] In questi termini Cons. Stato, Sez. VI, 18 agosto 2009, n. 4958, in Foro amm. CdS, 2009, 1885, che, partendo da tale presupposto, afferma che ai fini della legittimazione all'intervento volontario di soggetti diversi dalle parti originarie è sufficiente un qualsiasi interesse, anche di puro fatto o morale.
[22] Così N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015, 158; contra, M. Nigro, L'intervento volontario nel processo amministrativo, in Jus, 1963, 372, che critica l'orientamento preclusivo dell'ammissibilità dell'intervento principale, fondato sull'ostacolo dell'elusione del termine per ricorrere, osservando che esso non può avere valore assoluto; ed infatti, tale ostacolo è privo di ragione d'essere, non solo allorquando il termine non è ancora scaduto, bensì anche nel caso di impugnativa di atti indivisibili, il cui annullamento opera nei confronti di tutti i destinatari, che restano soggetti al giudicato, con conseguente restrizione del contraddittorio alle dimensioni che non gli sono state naturali. Si consideri, inoltre, che è stata ammessa la possibilità di convertire l'atto di intervento in ricorso principale, qualora non siano scaduti i termini di decadenza, purché tale atto possegga, rispetto a quest'ultimo, i requisiti di sostanza e di forma, compresi quelli di natura fiscale, ed emerga la volontà di agire quale ricorrente: così Cons. Stato, Sez. V, 28 ottobre 1970, n. 713, in Foro amm., 1970, I, 2, 908; la conseguenza è che, attraverso la conversione, si dà ingresso ad un intervento di tipo principale: si esprimono in tali termini A. Caracciolo La Grotteria, Parti e contraddittorio nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1993, 43 e A. Albini, L'intervento del legittimato a ricorrere e conversione in ricorso principale nel processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 1955, II, 288.
[23] Cass. civ., Sez. III, 5 ottobre 2018, n. 24529, in Ilprocessocivile.it, 3 dicembre 2018, con nota di G. Amodio, Intervento del terzo e preclusioni, ha ribadito che, allorquando il terzo decida di intervenire in un processo nel quale sia stata già esaurita la fase della deduzione istruttoria, piuttosto che agire a tutela del proprio diritto in un autonomo giudizio, egli non potrà che sottostare al sistema delle preclusioni ed al divieto di regressione delle fasi processuali, potendo solo partecipare al giudizio rebus sic stantibus.
[24] Cass. civ., Sez. II, 1° marzo 2016, n. 4051, in Giur.it., 2016, 2150 ss., con nota di C. Cariglia, La Corte di Cassazione conferma il nuovo orientamento in tema di ammissibilità della domanda nuova, precisa che la modificazione della domanda, consentita dall’art. 183 cod. proc. civ., può riguardare uno o entrambi gli elementi della domanda, il petitum e la causa petendi, sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei termini processuali; questa possibilità è finalizzata a consentire che si concentrino, in unico processo e dinnanzi allo stesso giudice, delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale, piuttosto che determinare la potenziale proliferazione dei processi; in senso conforme Cass. civ., Sez. Un., 15 giugno 2015, n. 12310, in Giur.it., 2015, 2101 ss., con nota di G. Palazzetti, Ammissibilità dei nova ex art. 183, 5° comma; in Foro it., 2015, I, 3193 ss., con nota di A. Motto, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale; ivi, 2016, I, 255, con nota di C.M. Cea, Tra mutatio ed emendatio libelli: per una diversa interpretazione dell’art. 183, c.p.c.; in Corriere giur., 2015, 968 ss., con nota di C. Consolo, Le S.U. aprono alle domande “complanari”: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno.
[25] Secondo Cass. civ., Sez. III, 24 aprile 2015, n. 8394, in Guida dir., 2015, 32, 77, si deve parlare di mutatio libelli "quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatio quando si incida sulla causa petendi, in modo che risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere"; così anche Cass. civ., Sez. trib., 20 luglio 2012, n. 12621, in Giust. civ. Mass., 2012, 9, 1058. Sulla possibilità di emendatio e l'impossibilità di mutatio libelli cfr. già Cons. Stato, Sez. V, 6 novembre 1992, n. 1186, in Cons. St., 1992, I, 1580, secondo cui gli artt. 183 e 184 c.p.c. pongono il principio del divieto di modificare la domanda e di ampliare l'oggetto del giudizio: peraltro va ritenuto che una modifica consentita della domanda (emendatio libelli) si ha ogni qualvolta non si verifichi mutamento del fatto giuridico a fondamento della pretesa, non prospettandosi nuovi elementi di mutazione del fatto costitutivo del diritto né aggiungendosi o sostituendosi al diritto controverso, come specificato nella domanda introduttiva; viceversa per modificazione non ammessa della domanda (mutatio libelli), secondo il Consiglio di Stato, deve essere intesa sia quella che, mediante l'immutazione del fatto costitutivo, introduca nel processo un nuovo e diverso fatto giuridico, considerato quale presupposto oggettivo cui l'ordinamento fa conseguire determinati effetti giuridici in corrispondenza al mutare del thema decidendum originario, sia quella che rinnovi l'oggetto della domanda.
[26] Così C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, Giappichelli, Torino, 2016, vol. II, 136 ss., secondo cui l’intervento tardivo pregiudica le possibilità di difesa del terzo interveniente, specie sotto il profilo delle iniziative istruttorie a lui precluse.
[27] E quindi, compiere un atto formalmente lecito, tendente però a perseguire finalità estranee al suo scopo: così F. Cordopatri, L’abuso del processo nel diritto positivo italiano, in Riv. dir. proc., 2012, 874 ss.; sul punto cfr. altresì, tra gli studi più recenti, P.M. Vipiana, L’abuso del processo amministrativo, in G. Visintini (a cura di), L’abuso del diritto, Napoli, Esi, 2016, 247, secondo cui la valenza certa dell’abuso del processo, quale argomentazione giuridica, è quella di costituire uno schema argomentativo “in cui collocare una serie di istituti che già trovano la loro disciplina in sede normativa. A tale livello l’abuso del processo assurge a mero minimo comun denominatore di tali istituti: una sorta di fil rouge fra essi oppure, in altri termini, una scatola in cui collocarli tutti. In tale ruolo l’abuso del processo è una figura inidonea a ledere: sicuramente non indispensabile, ma forse non inutile a creare, a fini sistematici e didattici, una base unitaria ad un numero di istituti eterogenei”; M. Fornaciari, Note critiche in tema di abuso del diritto e del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, 593 ss.; M.G. Pulvirenti, Riflessioni sull’abuso del processo, in Dir. e proc. amm., 2016, 1091 ss.; A. Panzarola, Presupposti e conseguenze della creazione giurisprudenziale del c.d. abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2016, 23 ss.; G. Corso, Abuso del processo amministrativo?, in Dir. proc. amm., 2016, 1 ss.; G. Tropea, Spigolature in tema di abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2015, 1262 ss.; S. Baccarini, Abuso del processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 1203 ss., secondo cui “non si tratta di comportamenti vietati o comunque illeciti perché in diretta violazione delle norme processuali, ma di uso improprio di uno strumento processuale, in sé lecito, che produce effetti pregiudizievoli sul procedimento”; G. Verde, L’abuso del diritto e l’abuso del processo (dopo la lettura del recente libro di Tropea), in Riv. dir. proc., 2015, 1085 ss.; Id., Abuso del processo e giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2015, 1138; G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo: studio critico, Napoli, Esi, 2015; K. Peci, Difetto di giurisdizione e abuso del processo amministrativo, commento a Cons. Stato, Sez. III, 13 aprile 2015, n. 1855, in Giorn. dir. amm., 2015, 691 ss.; S. Chiarloni, Etica, formalismo processuale, abuso del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 1281 ss.; quanto all'utilità dell'introduzione del concetto di abuso del processo nel giudizio amministrativo cfr. C.E. Gallo, L'abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2008, 1022, secondo cui "si tratta di una norma di chiusura, volta a reprimere un uso distorto dello strumento processuale, che, di conseguenza, è utile per il fatto di esserci, anche se ci si augura che non debba mai essere utilizzata, risultando bastante il suo significato educativo"; N. Paolantonio, Abuso del processo (diritto processuale amministrativo), in Encicl. dir., Giuffrè, Milano, 2008, Annali, II, tomo I, 6, secondo cui, ai fini della costruzione di una definizione di abuso del processo amministrativo, occorre tenere conto della particolare posizione delle parti nel giudizio amministrativo; tale circostanza, secondo l’Autore, reca due conseguenze di non poco momento: “la prima è che gli schemi classici dell’abuso processualcivilistico non trovano sempre pedissequa applicazione nel processo amministrativo: basti pensare al regime della condanna alle spese di lite in caso di soccombenza, assai di rado utilizzata dal giudice amministrativo, sia in sede cautelare che di merito, in virtù di un’atavica quanto ingiustificata esigenza di salvaguardia del pubblico erario. La seconda è che la sostanziale disparità delle parti nel processo amministrativo è essa stessa causa, talora, d’abuso, sia delle parti (dell’amministrazione, ma anche del ricorrente), sia del giudice”; nonché cfr. già l’opinione di G. De Stefano, Note sull’abuso del processo, in Riv. dir. proc., 1964, 582 ss.
[28] Si veda, per tutti, C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2020, 192, che evidenzia come, invece, "se il termine per ricorrere è ancora aperto, nulla vieta che il secondo ricorrente, anziché avviare un giudizio autonomo, proponga una domanda di intervento litisconsortile, senza per questo derogare alla perentorietà dei termini per ricorrere. In ogni caso, l’intervento litisconsortile è possibile nel giudizio di accertamento, non essendovi ragione per impedire la presenza di più parti nello stesso giudizio".
[29] Così S. Santoro, Appunti sull'intervento nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1986, 553, secondo cui, sulla base della disciplina dettata dal r.d. n. 624 del 1907 e dalla legge istitutiva dei T.A.R., "nel processo amministrativo, anche in quello d'accertamento (ma è un'anomalia dovuta al fatto che questo è ancora costruito sul modello di quello d'impugnazione), a differenza che nel processo civile, il giudice non può pronunciarsi sulla domanda senza che il ricorrente si sia costituito, e la rinuncia al ricorso non abbisogna di accettazione delle altre parti, alle quali essa deve soltanto essere notificata (art. 46 R.D. cit.)". Per quanto concerne la disciplina della rinunzia prevista dal codice del 2010, l’art. 84 dispone che questa vada notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza e se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono il processo si estingue: sul punto cfr. T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 22 marzo 2016, n. 96, in www.giustizia-amministrativa.it e T.A.R. Lazio, Roma, III, 8 maggio 2015, n. 6576, in Foro amm., 2015, 1559, a giudizio del quale il documento con cui si dichiara di rinunciare al ricorso non può valere come rinuncia al ricorso stesso, ove non risulti notificato alle altre parti almeno 10 giorni prima dell'udienza così come prescritto dall'art. 84, co. 3, d.lgs. n. 104 del 2010, comprovando, in ogni caso, la carenza di interesse alla definizione del giudizio e giustificando la declaratoria di improcedibilità del gravame.
[30] Secondo V. D'Audino, L'intervento adesivo nel procedimento giurisdizionale davanti al Consiglio di Stato, commento a Cons. Stato, Sez. IV, 12 dicembre 1925, n. 937, in Foro amm., 1926, I, I, 31 ss., si equivoca "tutte le volte in cui si sostiene che l'intervento non è ammissibile nei casi in cui l'interessato avrebbe dovuto presentare ricorso autonomo e principale per il motivo che con l'ammissione dell'intervento si riaprirebbero dei termini scaduti. Nessun termine viene ad essere riaperto se dell'annullamento del provvedimento si giova lui come si possono giovare gli altri che non hanno preso parte al giudizio. Siamo lieti che con la decisione annotata la Sezione in difformità delle precedenti pronuncie, pur senza particolare motivazione, abbia adottata la soluzione sin qui difesa ammettendo l'intervento di chi poteva ricorrere in via principale contro la decisione ministeriale che aveva rigettato la sua domanda e si è limitato ad intervenire per chiedere l'accoglimento del ricorso principale presentato da un suo collega impiegato, al quale era stata rigettata identica domanda per identico motivo".
[31] Sul punto cfr. A. Tigano, Intervento nel processo-II) Diritto processuale amministrativo, in Encicl. giur., Roma, 1988, vol. XIX, 3.
[32] L’intervento ad adiuvandum di per sé non è innovativo: il terzo, difatti, pur proponendo una domanda propria, si limita, con essa a chiedere l'accoglimento di una domanda altrui senza agire per la tutela di una propria situazione sostanziale e senza un ampliamento del thema decidendum. Egli si limita ad interloquire nella lite tra altri già pendente, prestando la propria adesione alla domanda o all'eccezione di una delle parti: sul punto cfr., nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., Sez. II, 14 dicembre 2015, n. 25135, in Ilprocessocivile.it, 8 settembre 2016, con nota di R. Nardone, Intervento adesivo del terzo introdotto con la sottoscrizione dell’atto di citazione.
[33] Con riferimento all’intervento ad opponendum, la giurisprudenza amministrativa ha ammesso, ad esempio, l’intervento in giudizio del funzionario tecnico di un’Amministrazione comunale: così T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 25 agosto 2017, n. 1423, in Giorn. dir. amm., 2018, 103 ss., con nota di F. Ielo, L’intervento adesivo dipendente nel processo amministrativo.
[34] Sul tema cfr. M. D’Orsogna, F. Figorilli, Lo svolgimento del processo di primo grado, La fase introduttiva, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2013, 319 ss.
[35] Così T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 2 ottobre 2012, n. 2450, in Foro amm. TAR, 2012, 3045.
[36] Cons. Stato, Sez. VI, 21 giugno 2012, n. 3647, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. V, 8 marzo 2011, n. 1445, in Foro amm. CdS, 2011, 902; Cons. Stato, Sez. IV, 17 luglio 2000, n. 3928, in Foro amm., 2000, 2617; da ultimo, in questo senso, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30 giugno 2020, n. 4134, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Trento, Sez. I, 28 luglio 2020, n. 126, in Foro amm., 2020, 1497.
[37] Sul concetto di parte nel processo amministrativo cfr. F. Benvenuti, Parte nel processo (diritto amministrativo), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1981, vol. XXXI, 962 ss., ora in Scritti giuridici, Vita e pensiero, Milano, 2006, vol. IV, 3625 ss.
[38] Cons. Stato, Sez. IV, 7 ottobre 1992, n. 855, in www.giustizia-amministrativa.it.
[39] Così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 5 ottobre 2010, n. 7293, in www.giustizia-amministrativa.it.
[40] Così Cons. Stato, Sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 853, in Foro amm., 2016, 302.
[41] T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 20 aprile 2016, n. 237, in Foro amm., 2016, 1060 (s.m.).
[42] In tal senso T.A.R. Lazio, Roma, 2 dicembre 2013, n. 10329, in Foro amm. TAR, 2013, 3726; secondo M. Corradino, S. Sticchi Damiani, Il processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2014, 260, “è confermato, anche nella vigenza del Codice, l’orientamento giurisprudenziale in base al quale non è ammissibile nel processo amministrativo l’intervento adesivo autonomo, ma solo l’intervento adesivo dipendente, essendo insegnamento costante della giurisprudenza quello secondo il quale il soggetto direttamente ed immediatamente leso da un provvedimento ha l’onere di impugnarlo tempestivamente, non essendo configurabile la c.d. figura del cointeressato del ricorrente, il quale non può neppure partecipare al giudizio in veste di interveniente adesivo dipendente”.
[43] Così Cons. Stato, Ad. Plen., 2 aprile 2020, n. 10, in Foro amm., 2020, 722 ss.
[44] Per un approfondimento del principio enunciato dalla norma costituzionale si rinvia a M. D’Amico, G. Arconzo, Art. 25, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, Utet 2006, 526 ss.; M. Nobili, Art. 25 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, Zanichelli, 1981, 135 ss.; V. Andrioli, La precostituzione del giudice, in Riv. dir. proc., 1964, 325 ss.; E.T. Liebman, Giudice naturale e costituzione del giudice, in Riv. dir. proc., 1964, 331 ss.
[45] In senso analogo già Cons. Stato, Ad. Plen., 4 novembre 2016, n. 23, in Foro amm., 2016, 2628.
[46] Contra, T.A.R. Liguria, Sez. I, 1° giugno 2012, n. 754, in Foro amm. TAR, 2012, 1888 (s.m.), che conclude per l’inammissibilità nel giudizio amministrativo dell’intervento principale; in realtà, se ben si legge la motivazione del giudice ligure, la conclusione è più sfumata e sembra ammettere la possibilità di esperire l’intervento principale quanto meno nei casi di giurisdizione esclusiva ove vengano in rilievo diritti soggettivi, posto che “il silenzio della norma (gli artt. 28 e 50, n.d.a.) non consente di ammettere un intervento principale nella giurisdizione generale di legittimità o in quella esclusiva quando si faccia questione di interessi legittimi. Invero l'intervento principale in questi casi si risolve nell'impugnativa dello stesso atto già oggetto di giudizio da parte di altro soggetto per ragioni diverse e quindi con motivi diversi. Tale evenienza non è ammissibile. Infatti, a prescindere dal rispetto dei termini di impugnativa (che potrebbero essere comunque rispettati), l'azione impugnatoria può essere esercitata solo mediante la proposizione di ricorso (principale o incidentale) e con gli accessivi motivi aggiunti e non mediante l'intervento. E ciò in quanto l'oggetto della causa, che risulta non solo dal provvedimento impugnato ma anche dai motivi dedotti, non può essere ampliato se non attraverso gli strumenti a ciò presposti. Ma se l'oggetto della causa (il petitum) non può essere ampliato se non dal ricorrente stesso o dal controinteressato mediante ricorso incidentale, è evidente che l'intervento (depurato della sua valenza impugnatoria) si risolve nella mera esplicitazione di ragioni in favore del ricorrente e quindi in sostanza in un intervento ad adiuvandum. Tale intervento, tuttavia, sarà ammissibile solo quando adduca ragioni a sostegno di una delle parti e non quando le contrasti entrambe”. Tra le righe della sentenza, pertanto, si scorge la possibilità di configurare un intervento principale quando il giudizio non si configuri nella sua tradizionale veste impugnatoria, e quindi principalmente nei casi di giurisdizione esclusiva cui siano sottese questioni di diritto soggettivo: non è difatti immaginabile che si attribuisca al giudice amministrativo la stessa cognizione del giudice civile e contestualmente non si offrano alle parti gli stessi strumenti processuali a tutela dei propri diritti.
[47] In linea generale, secondo I. Pagni, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in G.D. Comporti (a cura di), La giustizia amministrativa come servizio (tra effettività ed efficienza), Firenze, Firenze University Press, 2016, 85, il concetto di effettività deve valorizzare il principio chiovendiano, “in virtù del quale il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale riconosce”; l’affermazione del principio è di G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, Giuffrè, 1930, Vol. I, 101 ss.; Id., Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, Editoriale Scientifica, 1923, ora in Principi di diritto processuale civile, Napoli, Editoriale Scientifica, 1965, 81, secondo cui "il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire". C.E. Gallo, Servizio e funzione nella giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, 73 ss., nell’affermare che la giustizia amministrativa non può essere qualificata come servizio pubblico ma come funzione, ricorda che il sindacato prestato dal plesso giurisdizionale T.A.R. – Consiglio di Stato deve essere pieno e completo sull’attività dell’amministrazione: in questo senso occorre leggere l’effettività della tutela nell’ambito del processo amministrativo; in merito cfr. altresì le osservazioni di M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 ss.
[48] S. Foà, Giustizia amministrativa, atipicità delle azioni ed effettività della tutela, Napoli, Jovene Editore, 2012, 74 ss.; così anche R. Giovagnoli, Il ricorso incidentale, in R. Giovagnoli, M. Fratini, Il ricorso incidentale e i motivi aggiunti, Milano, Giuffrè, 2008; sul punto cfr. I.M. Marino, Giurisdizione esclusiva e Costituzione, in V. Parisio, A. Perini (a cura di), Le nuove frontiere della giurisdizione esclusiva. Una riflessione a più voci, Milano, Giuffrè, 2002, 9 ss., ora in Scritti giuridici, a cura di A. Barone, Napoli, Esi, 2015, 996, secondo cui “una giurisdizione paritaria non può che essere quella dell’autorità giudiziaria ordinaria oppure una nuova giurisdizione amministrativa: quella esclusiva, che salvi il giudice amministrativo dall’essere travolto dall’evoluzione dell’ordinamento giuridico (sostanziale), che lo tiri fuori dalla giurisdizione sull’atto e lo affranchi dalla trappola delle situazioni giuridiche”; secondo A. Police, Il cumulo di domande nei “riti speciali” e l’oggetto del giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, 1197 ss., “se le previsioni del legislatore recente in tema di giurisdizione esclusiva consentono di superare anche le più serie ed autorevoli obiezioni alla teorica che ravvisa l'oggetto del processo amministrativo nel rapporto nel quale si iscrivono le situazioni a cui afferiscono gli interessi in contrasto, se ne deve concludere che anche tale ricostruzione dell'oggetto del giudizio può essere validamente impiegata nel nostro sforzo ricostruttivo della nuova giurisdizione amministrativa e dei suoi caratteri. Si può dire forse di più, sembra quasi che il legislatore abbia conformato la giurisdizione piena del giudice amministrativo proprio per dare attualità e concretezza a quel modello processuale di giustizia amministrativa paritaria ed effettiva il cui avvento era da tempo auspicato in dottrina”; sul carattere paritario del processo amministrativo cfr. V. Domenichelli, Per un processo amministrativo paritario, in Dir. proc. amm., 1996, 415 ss.
[49] Concorde è l'opinione di E. Picozza, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, Giuffrè, 2016, 213 ss., secondo cui una spinta all'applicazione di tutti i tipi di intervento è venuta, da un lato, dalla disciplina sostanziale del procedimento amministrativo che, sulla scorta della posizione dottrinale di Giannini, ha disciplinato forma e sostanza del procedimento, prescrivendo i diritti dei soggetti interventori titolari di situazioni pubbliche, private, collettive e diffuse, e, dall'altro, dal diritto internazionale e comunitario, ma anche da quello costituzionale interno, che pretendono oramai che il rapporto tra Amministrazione e cittadini sia configurato come un vero e proprio rapporto giuridico sostanziale, tendenzialmente paritario, almeno quanto a garanzie procedimentali e processuali; in senso conforme, inoltre, L. Coraggio, L’intervento nel codice del processo amministrativo, in Giurisd. amm., 2011, IV, 304, a giudizio del quale in sede di giurisdizione esclusiva ed in materia di diritti soggettivi dovrebbero ritenersi ammissibili tutti i tipi di intervento previsti dal codice di procedura civile; così anche L. Ieva, Soggetti e parti del processo amministrativo, in R. Giovagnoli, L. Ieva, G. Pesce (a cura di), Il processo amministrativo di primo grado, Milano, Giuffrè, 2005, 276.
[50] Proprio della natura del giudizio amministrativo di legittimità: così F. Satta, Giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 1997, 118 ss., secondo cui "nell'interpretazione che per un secolo se ne è data, l'idea del processo amministrativo come giudizio su atti ha condotto al paradossale risultato di frantumare il giudizio sull'atto, che esprime la definitiva volontà dell'amministrazione, in una sorta di somma di giudizi sui singoli atti del procedimento, effettivamente impugnati"; è necessario però ricordare la posizione di R. Villata, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., 2009, 897 ss., ora in Scritti di giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2015, 437 e Id., Nuove riflessioni sull’oggetto del processo amministrativo, in Aa. Vv., Studi in onore di Antonio Amorth, Milano, Giuffrè, 1982, vol. I, 707 ss., ora in Scritti di giustizia amministrativa, cit., 576 ss., che ritiene non configurabile il giudizio amministrativo come un giudizio su un rapporto, a differenza del processo civile, perché “le parti non sono in posizione di equiordinazione, avendo una di esse infatti il potere di disporre del bene; la norma non detta la disciplina per determinare la pertinenza del bene, ma regola le condizioni di esercizio del potere spettante alla parte in posizione di supremazia: al giudice, dunque, non spetta di assegnare il bene all’una o all’altra parte, ma di verificare che una di esse eserciti in modo corretto il potere, che l’ordinamento le riconosce, di disporre di quel bene”.
[51] Sul rapporto amministrativo si rinvia agli studi di G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, Giuffrè, 1980; Id., Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino, in Dir. amm., 2014, 585 ss.; M. Protto, Il rapporto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2008.
[52] Concorde è la posizione di A. Bartolini, Art. 28-Intervento, in G. Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2015, 377 ss., secondo cui l’apertura del processo amministrativo alle varie tipologie di intervento volontario è sicuramente da accogliere con favore, poiché, “oltre ad essere in linea con le novità contenute nel c.p.a., rappresentano un adeguamento ai mutamenti di ordine sostanziale e processuale verificatisi negli ultimi anni. Difatti, la considerazione secondo cui non è logicamente pensabile che nel processo amministrativo vi sia una parte che vanti una situazione in contrasto sia con l’amministrazione resistente che con il privato ricorrente, risulta essere ancorata ad una visione dei rapporti sostanziali incentrata su uno schema bilatero e ad una concezione dell’oggetto del processo amministrativo di carattere pattizio”; concorde è anche l'opinione di V. Domenichelli, Le parti del processo, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Milano, Giuffrè, 2003, Tomo V, 4340, secondo cui nelle fattispecie di giurisdizione esclusiva, "ove possono essere portate alla cognizione del giudice controversie riguardanti il rapporto prescindendo dall'impugnazione di un atto, si possono ipotizzare anche l'intervento principale, litisconsortile e adesivo".
[53] Per un’approfondita ricostruzione dell’istituto nel processo amministrativo si rinvia a W. Troise Mangoni, L’opposizione di terzo nel processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2004.
[54] G. Della Pietra, Opposizione di terzo: lo stato dell'arte, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 1093, definisce l'opposizione di terzo come il più fluido tra i mezzi di impugnazione; ed invero, "è un'impugnazione, certo, ma non è data alla parte, e di regola non presume un vizio della sentenza. Postula un pregiudizio, d'accordo, ma - giocoforza, per le ragioni appena dette - non la soccombenza. È offerta al terzo, genericamente, per cui nebuloso resta il novero degli effettivi legittimati. È straordinaria, come talora la revocazione, ma nella versione standard è svincolata da ogni termine. Ha effetto demolitivo, le più volte, ma può anche spingersi a soppiantare nel merito la sentenza impugnata. Ha capacità sostituiva, dunque, ma non è detto che non possa arrestarsi a una mera declaratoria d'inopponibilità della decisione al terzo".
[55] Corte cost., 17 maggio 1995, n. 177, in Foro it., 1996, I, 3318; in Giorn. dir. amm., 1995, 889, con nota di A. Baldanza, L’opposizione di terzo nel processo amministrativo; in Giur. it, 1995, I, 504 ss., con note di C. Cecchella, L’opposizione del terzo nella giustizia amministrativa, e di A. Police, L’opposizione di terzo nel processo amministrativo; in Giur. cost., 1995, 1429 ss., con nota di N. Seminara, L’istituto dell’opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo; in Giur. cost, 1995, 3769, con nota di D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo; in Dir. proc. amm., 1996, 294 ss., con nota di F. Lorenzotti, La Corte costituzionale introduce l'opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo; sull’apertura del giudizio amministrativo all’opposizione di terzo e, di conseguenza, alle varie tipologie di intervento previste nel nostro ordinamento cfr. M. Occhiena, Controinteressato, intervento ad opponendum e opposizione di terzo: il processo amministrativo tra declamazione e applicazione, commento a Cons. Stato, Sez. V, 22 febbraio 1993, n. 275, in Giur. it., 1993, 12 ss., che evidenzia come ciò sia derivato dal progressivo abbandono delle posizioni che delineavano il processo amministrativo come mero processo su un atto, nella sua tipica configurazione impugnatoria, dovendosi dare il giusto spazio ai rapporti ed alle situazioni di interesse sottese all’atto medesimo; sul punto già M.S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. Dir. Proc, 1966, 40 ss., affermava che oggetto dell'accertamento giudiziale è il rapporto amministrativo e non tanto l'atto impugnato, dal momento che l'azione davanti al giudice è esercizio di un potere strumentale compreso nell'interesse legittimo; sulla tutela dei terzi e sul ruolo dell’opposizione di terzo cfr. W. Troise Mangoni, Controinteressato e opposizione di terzo nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1998, 656 ss., commento a T.A.R. Veneto, Sez. I, 11 aprile 1996, n. 629: secondo l’Autore, un’eventuale prospettiva che qualificasse l’opposizione di terzo come strumento ordinario di tutela dei terzi non solo non garantirebbe in modo pieno il rispetto del principio del contraddittorio, “ma determinerebbe effetti decisamente non desiderabili sull’intero sistema della giustizia amministrativa”, in quanto la proposizione di tale strumento di impugnazione diverrebbe la regola (e non l’eccezione come nel processo civile), con effetti dirompenti sul fondamentale valore della certezza dei rapporti giuridici così come definiti da una sentenza definitiva; ne consegue che all’opposizione di terzo deve essere assegnata “una funzione di chiusura del sistema, che garantisca la tutela dei terzi ove non siano intervenuti gli strumenti ordinari relativi alla corretta instaurazione del contraddittorio”.
[56] La presenza nell'ordinamento dell'opposizione di terzo comporta la necessità di ripensare la teoria dell'intervento nel processo: così F. Pugliese, L'opposizione di terzo. Riflessi sul processo e sulla funzione amministrativa, in Dir. e proc. amm., 2007, 539, che qualifica tale rimedio come "necessario (perché indefettibile), residuale (perché non su di esso si scaricano le ragioni di tutela delle parti, ma perché ad esso si perviene solo in funzione di chiusura dell'ordinamento processuale e perché a causa di esso si rilegge diversamente il processo), eventuale (perché evitabile con soluzioni satisfattorie alternative, in sede di esecuzione: e solo in questo senso facoltativo), ordinario (non potendosi considerare un rimedio extra ordinem, per la sua stessa natura e per il fatto che non può non essere - dotato com'è di asseitas".
[57] Per un’ampia trattazione della questione si permetta il rinvio a M. Ricciardo Calderaro, L’intervento nel processo amministrativo: antichi problemi e nuove prospettive dopo il Codice del 2010, in Dir. proc. amm., 2018, 336 ss.
[58] R. Dickmann, M. Iannaccone, Osservazioni sull’intervento nel processo amministrativo, in Riv. Corte conti, 1992, 6, 293 ss., concordano sull’ammissibilità di tutte le tipologie di intervento volontario in sede di giurisdizione esclusiva; “verrebbe infatti meno la pregiudiziale affermazione della regola della decadenza nei rigorosi termini cui essa è soggetta per la giurisdizione di annullamento, e in un certo senso verrebbe anche meno la severa considerazione delle parti del processo amministrativo come ruoli formalmente precostituiti dalla legge e come tali non modificabili (…) Questa osservazione sarebbe infatti dettata dall’esigenza di assicurare che la tutela giurisdizionale dei diritti davanti al giudice amministrativo sia dotata della medesima effettività, peraltro costituzionalmente garantita, che deriverebbe dall’applicazione degli strumenti processuali azionabili davanti al giudice civile”.
[59] Ed infatti, “incentivare l’intervento in giudizio dei soggetti che possano essere in qualche modo interessati serve a ridurre, per quanto possibile, il rischio di postume contestazioni del decisum attraverso la proposizione dell’opposizione di terzo”: così G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, Rimini, Maggioli Editore, 2016, 152; sulla tutela dei terzi cfr. inoltre L. De Lucia, Provvedimento amministrativo e diritti dei terzi, Torino, Giappichelli, 2005, 1 ss.; in giurisprudenza Cons. Stato, Sez. VI, 8 aprile 2015, n. 1778, in Foro amm., 2015, 1097 ss., ha affermato che l'intervento in appello può costituire, anche nel sistema del processo amministrativo, una sorta di opposizione di terzo anticipata.
[60] Così C. Mandrioli, A. Carratta, op. cit., vol. I, 458; con riferimento al processo amministrativo cfr. F. Lorenzotti, L'opposizione di terzo nel processo amministrativo davanti alla Corte Costituzionale, commento a Cons. Stato, Sez. VI, 29 aprile 1994, n. 615 (che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del T.U. 26 giugno 1924, n. 1054 nella parte in cui non prevedeva l'applicabilità anche nel processo amministrativo dell'opposizione di terzo ex art. 404, co. 1, cod. proc. civ.), in Dir. proc. amm., 1995, 131 ss., che evidenzia come sia il principio del contradditorio di cui all'art. 24 Cost. sia il principio di economia processuale "esigono che l'oppositore di terzo abbia avuto in precedenza la possibilità di intervenire volontariamente o di essere chiamato nel processo".; aggiunge, peraltro, che "la pura e semplice importazione dell'opposizione ordinaria di terzo introdurrebbe una notevole contraddizione nel sistema, mancando un rapporto di identità tra la situazione di chi può limitare o travolgere gli effetti del giudicato con l'opposizione ordinaria e chi è ammesso ad intervenire o è chiamato ad integrare necessariamente il contradditorio nei precedenti gradi del processo".
[61] Concorde con quanto sostenuto nel testo è l'opinione di F.M. Tropiano, Le parti e i difensori, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, cit., 310, secondo cui nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo deve ritenersi ammissibile "qualsiasi tipo di intervento (autonomo, litisconsortile, adesivo dipendente), atteso che trattasi di un giudizio su un rapporto nel quale si tende ad ottenere l'accertamento dello stesso ovvero la condanna della P.A., anche in considerazione del fatto che non esistono termini decadenziali"; in tal senso, in giurisprudenza, cfr. anche T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 12 febbraio 2009, n. 1253, in Foro amm. TAR, 2009, 325 ss., con nota di N. Bassi, Difetto assoluto di attribuzione e nullità degli accordi amministrativi: alla ricerca di un difficile equilibrio; secondo il T.A.R. di Milano, l'intervento litisconsortile deve essere ammesso nel processo amministrativo di giurisdizione esclusiva, in quanto "tale processo vertendo in tema di diritti soggettivi (tanto più nella fattispecie qui in esame dove la cognizione del giudice ha espressamente ad oggetto la formazione, la conclusione e l'esecuzione dell'accordo) si svolge infatti (...) secondo un modello del tutto analogo a quello proprio del processo civile e nel quale possono essere fatte valere azioni di accertamento, costitutive e di condanna, il che rende perfettamente applicabile l'art. 105 c.p.c. in tutte le sue specificazioni".
[62] Per una ricostruzione si rinvia a D. Corletto, Opposizione nel diritto processuale amministrativo, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1999, vol. XIV, 563 ss.
[63] Cons. Stato, IV Sez., 9 giugno 1892, n. 172, in GA, 1892, I, 313, ha ritenuto che l'opposizione di terzo sia “rimedio che la legge, ispirandosi più agli interessi pubblici che ai meri privati, non ha creduto di ammettere dinanzi la IV sezione”; nello stesso senso Cons. Stato, Sez. IV, 7 gennaio 1895, n. 12, in GA, 1895, I, 24.
[64] Cfr., per una ricostruzione, C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2020, 367.
[65] Posizione autorevolmente sostenuta da E. Cannada Bartoli, In tema di controinteressato pretermesso, in Giur. it., 1990, III, 1, 186 ss.; cfr. inoltre Id., la voce Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss. Dig. It., Torino, Utet, Vol. XIII, 1966, 1083 ss.
[66] M. Nigro, Linee di una riforma necessaria e possibile del processo amministrativo, in Riv. Dir. Proc., 1978, 249 ss.
[67] Per una ricostruzione dell'evoluzione giurisprudenziale verso una nozione sostanziale di controinteressato si veda F. Pugliese, Nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo, Napoli, Esi, 1989, 161 ss.; più di recente cfr. lo studio di P. Lombardi, Le parti del procedimento amministrativo: tra procedimento e processo, Torino, Giappichelli, 2018.
[68] Cons. Stato, Sez. VI, 20 ottobre 1981, n. 502, in Foro amm., 1981, 1982 ss., in cui si afferma che nel giudizio amministrativo “... manca la figura del terzo legittimato a proporre opposizione ai sensi dell'art. 404 c.p.c, sicchè qualunque «interessato», che non sia anche parte necessaria del processo, deve essere messo in grado di far valere le sue ragioni mediante intervento nel giudizio, tra altre parti pendente, che possa pregiudicare in linea di fatto la sua posizione soggettiva. Né vi è ragione, se l'intervento avviene allo stato della causa, e cioè senza pregiudizio del diritto di difesa delle altre parti, di escludere l'intervento medesimo in grado di appello”.
[69] Che si distingue da quella revocatoria di cui all’art. 404, co. 2, cod. proc. civ., secondo cui “gli aventi causa e i creditori di una delle parti possono fare opposizione alla sentenza, quando è l'effetto di dolo o collusione a loro danno”: sul punto cfr. G. Olivieri, Opposizione di terzo, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, Utet, 1995, vol. XIII, 116 ss. Sull’opposizione di terzo ordinaria si rimanda al tradizionale studio di A. Proto Pisani, Opposizione di terzo ordinaria, Napoli, Jovene, 1965.
[70] Esigenza già avvertita da E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, Giuffrè, 1935, 1 ss.
[71] In tema cfr. A. Travi, L'opposizione di terzo e la tutela del terzo nel processo amministrativo, in Foro it., 1997, III, 21 ss.
[72] Ad esempio, Cons. Stato, Sez. III, 16 maggio 2018, n. 2895, in www.giustizia-amministrativa.it.
[73] Così già evidenziava prima del Codice Cons. Stato, Ad. Plen., 11 gennaio 2007, n. 2, in Foro amm. CdS, 2007, 464 e 834 ss., con note di A. Bertoldini, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, l’intervento in appello ex art. 344, c.p.c. e la legittimazione all’opposizione di terzo e di A.L. Tarasco, Il contraddittorio degli interessi dei consumatori nel giudizio amministrativo: profili problematici dell’impugnazione dei controinteressati sostanziali. L’Adunanza Plenaria, in questo caso, ha giudicato inammissibile l’opposizione di terzo avverso la sentenza del Tar che annulli una delibera dell'Autorità per l'energia elettrica ed il gas, avanzata da un soggetto privato nella sua qualità di utente consumatore di gas, qualora l'opponente non abbia fornito alcun elemento particolare o titolo di differenziazione che lo legittimi ad una specifica contestazione in sede giudiziale della sentenza di primo grado, specie laddove questa abbia riguardato determinazioni dell'autorità in ordine alle attività svolte dalle imprese del settore, da cui il singolo utente possa trarne un eventuale vantaggio soltanto in via riflessa ed indiretta.
[74] Cons. Stato, Sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5451, in Foro amm. CdS, 2013, 3012 ss.
[75] Cons. Stato, Sez. V, 27 novembre 2017, n. 5550, in www.giustizia-amministrativa.it.
[76] Che ha eliminato il problematico inciso “titolare di una posizione autonoma e incompatibile”.
[77] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. V, 2 maggio 2013, n. 2390, in Foro amm. CdS, 2013, 1330 ss.
[78] Cons. Stato, Sez. III, 16 dicembre 2013, n. 6014, in Foro amm. CdS, 2013, 3363 ss.
[79] In tema cfr. C.E. Gallo, I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, in Dir. proc. amm., 2012, 280 ss.
[80] Sul giudicato amministrativo la letteratura è ampia: tra gli studi monografici si segnalano, ex multis, S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, Giuffrè, 2016; C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, Cedam, 2005; P.M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo: profili ricognitivi ed individuazione della natura giuridica, Milano, Giuffrè, 1990; M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, Cedam, 1989. Cfr., inoltre, F. Francario, Osservazioni in tema di giudicato amministrativo e leggi interpretative, in Dir. proc. amm., 1995, 277 ss.
[81] Da ultimo si rinvia a Cons. Stato, Sez. II, 20 ottobre 2020, n. 6318; Cons. Stato, Sez. II, 18 settembre 2020, n. 5472, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it, che hanno osservato che, “con riferimento poi ai provvedimenti in materia edilizia, è stata esclusa la sussistenza di controinteressati nel caso di impugnazione di un diniego di permesso di costruire, anche in sanatoria, atteso che la qualifica di controinteressato va riconosciuta non già a chi abbia un interesse anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a che ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto ed immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica”.
[82] Ed infatti, secondo Cons. Stato, Sez. V, 21 agosto 2020, n. 5164, in www.giustizia-amministrativa.it, rispetto al provvedimento di esclusione di un concorrente da una procedura di gara, adottato prima che sia intervenuta l'aggiudicazione dell'appalto, non sussistono controinteressati ai quali il ricorso debba essere notificato a pena di inammissibilità, anche in ragione del fatto che l'unico interesse tutelabile degli operatori concorrenti è quello all'aggiudicazione dell'appalto sul quale l'eventuale riammissione di uno di essi non ha incidenza determinante.
[83] Cons. Stato, Sez. V, 23 agosto 2019, n. 5817, in www.giustizia-amministrativa.it.
[84] C.E. Gallo, Linee per una riforma non necessaria ma utile del processo amministrativo, in Il processo, 2020, 347 ss., osserva come “nella realtà la mancanza di un'azione di accertamento come azione autonoma non si avverte perché il giudice amministrativo è riuscito ad articolare in modo compiuto l'azione di condanna, anche quale azione di condanna pubblicistica, giungendo così sostanzialmente a coprire anche quello spazio che poteva essere coperto da un'azione di accertamento”.
[85] Per questo tipo di giudizio si rinvia a A. Scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti della sentenza di condanna, in Dir. proc. amm., 2017, 450 ss.; M. Ramajoli, Forma e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 2014, 709 ss.; E. Sticchi Damiani, Il giudizio del silenzio come giudice del provvedimento virtuale, in Dir. proc. amm., 2010, 1 ss.; per la disciplina antecedente al Codice si rinvia a F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, in Dir. proc. amm., 2002, 239 ss.; A. Travi, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro it., 2002, III, 227 ss.
[86] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. III, 16 dicembre 2013, n. 6014, cit.; Cons. Stato, Sez. V, 2 maggio 2013, n. 2390
[87] Cfr. per questa posizione, già prima del Codice, Cons. Stato, Sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 230, in Foro amm. CdS, 2008, 162 ss.
[88] Si v. in dottrina, in termini generali, F.P. Luiso, Opposizione di terzo, in Encicl. giur., Roma, 1990, vol. XXI, 1 ss.; C.A. Nicoletti, Opposizione di terzo, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1980, vol. XXX, 481 ss.
[89] Da ultimo, Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, sez. giurisd., 3 agosto 2020, n. 699, in Dir. & Giust., 5 agosto.
[90] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 31 maggio 2010, n. 1833, in Foro amm. CdS, 2010, 580;
[91] Cons. Stato, Sez. VI, 30 luglio 2008, n. 3812, in Foro amm. CdS, 2008, 2153.
[92] Così Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6702, in Foro amm. CdS, 2011, 3708; ma già in questo senso Cons. Stato, Ad. Plen., 10 maggio 2011, n. 7, in www.giustizia-amministrativa.it, con riferimento alla legittimazione ad intervenire nel giudizio di appello di un’associazione iscritta nel registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati, in quanto titolare di un interesse di fatto ad una pronuncia giurisdizionalmente favorevole alla categoria dei propri soci.
[93] Per un’esaustiva trattazione dell’intervento in grado di appello si rimanda a S. Perongini, Le impugnazioni in generale, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, cit., 818 ss., che sottolinea come, in astratto, "nel processo amministrativo possono esperirsi tutte le forme di intervento volontario, indipendentemente dal fatto che si sia in presenza di casi appartenenti alla giurisdizione di legittimità, a quella di merito o a quella esclusiva. In concreto, tuttavia, le forme di intervento esperibili sono condizionate dalla sussistenza di connessione fra la posizione giuridica soggettiva posta a fondamento dell'intervento e quelle che appartengono già al processo"; cfr., inoltre, S. Oggianu, Intervento nel giudizio di impugnazione, in E. Picozza (a cura di), Codice del processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2010, 165 ss.; nonché N. Paolantonio, Commento all’art. 97, in G. Leone, L. Maruotti, C. Saltelli (a cura di), Codice del processo amministrativo, Padova, Cedam, 2010, 705 ss.; in giurisprudenza si cfr. l’interessante orientamento di Cons. Stato, Sez. IV, 29 agosto 2019, n. 5985, in Foro amm., 2019, 1244, secondo cui l'intervento ad opponendum nel secondo grado di giudizio, rispetto all'appello dell'amministrazione o del controinteressato, è esattamente speculare ad un non consentito intervento ad adiuvandum in primo grado per il soggetto titolare di posizione autonoma.
Giustizia Insieme, aggiunge la voce “Ambiente e sicurezza” .
Si tratta di due materie che presentano diversi punti di contatto.
Basti pensare alle problematiche comuni della individuazione delle posizioni di garanzia e della rilevanza della delega di funzioni (la Cassazione, a partire da Sez. III, n. 27862/2015, ha affermato che i principi relativi all’applicazione dell’art. 16 T.U.S. nella materia prevenzionistica esplicano i loro effetti anche nella contigua materia ambientale, considerando gli inevitabili e naturali punti di contatto tra l'esercizio delle funzioni e gli adempimenti delegati nei due settori).
Allo stesso modo punti comuni di riflessione si rinvengono sul versante della colpa, sia nella prospettiva individuale, che in quella della colpa di organizzazione prevista dal D.lgs. 231/2001 (l’affermazione secondo cui la responsabilità amministrativa dell'ente derivante dai reati di natura colposa si configura qualora sia stata sistematicamente violata la normativa cautelare con conseguente oggettivo interesse o vantaggio per l'ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso, acquisita da tempo in materia di sicurezza sul lavoro, è stata mutuata ormai pacificamente anche per la responsabilità per i reati presupposto nella materia ambientale previsti dall’art. 25-undecies del Decreto 231).
Sugella, poi, la stretta connessione tra i due ambiti l’inclusione, per molti versi non ancora pienamente esplorata, all’interno del concetto di prevenzione nei luoghi di lavoro, del rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno (art. 2, lett. n, T.U.S.), con la conseguenza che rientra tra gli obblighi del datore di lavoro e del dirigente, quello di “prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno verificando periodicamente la perdurante assenza di rischio” (art. 18, lett. q).
Il concetto di sicurezza, poi, abbraccia ambiti aventi una propria autonoma disciplina, ma con ricadute su entrambi i settori (si pensi ad esempio al D.lgs. 105/2015, recante l’attuazione della direttiva 2012/18/UE – c.d. Seveso III - relativa al controllo del pericolo di incidenti rilevanti connessi con sostanze pericolose).
Va infine considerato che le due materie sono entrambe caratterizzate da un approccio interdisciplinare, venendo in evidenza non solo aspetti penalisti, ma anche di carattere amministrativo e civilistico (risarcitorio e negoziale), nella triplice prospettiva costituzionale, eurounitaria e convenzionale.
L’apertura di uno spazio di riflessione dedicato a queste tematiche intende quindi favorire il confronto tra magistrati, avvocati, studiosi del diritto e società civile in un macroambito complesso ed articolato, ma che nel suo insieme interferisce con il diritto fondamentale e primario della salute, individuale e collettiva.
Una scelta, del resto, coerente con la forte attenzione a livello europeo ai temi dell’economia circolare e della transizione verde, confermata dal fatto che le linee guida pubblicate dalla Commissione europea per usare al meglio il Recovery fund dedicano all’ambiente la metà dei sette obiettivi -dall’efficienza energetica alle energie rinnovabili, dalle stazioni di ricarica per veicoli elettrici all’incremento dei trasporti pubblici – per rendere i Paesi più efficienti, più verdi e digitali.
Cogliamo l’occasione per ricordare che è uscito il n. 4 /2020 della rivista on line lexambiente.it /rivista html
L’amministrazione agisce contro il privato di fronte al giudice amministrativo (nota a Cons. st., sez. II, n. 8546/2020)?
di Marco Mazzamuto
Sommario: 1. Premessa. – 2. I limiti tradizionali nelle classiche controversie di diritto pubblico. – 3. Le zone di intreccio col diritto privato. – 4. Il ritorno delle azioni dell’amministrazione contro il privato: la giurisdizione esclusiva e la responsabilità. – 5. Concorso di strumenti pubblicistici e privatistici. Rilievi critici. – 6. La subdola parità di fronte al giudice amministrativo. Rilievi critici. 7. Il caso della pronuncia in commento. 8. Conclusioni.
1. Premessa.
Una recente pronuncia (Cons. st., sez. II, n. 8546/2020) costituisce l’occasione per fronteggiare un tema tradizionalmente poco approfondito, ma che è andato emergendo in modo significativo in questi ultimi venti anni: la ricorrenza di azioni della pubblica amministrazione contro un privato innanzi al giudice amministrativo.
Nulla impedisce in linea di principio che l’amministrazione possa promuovere un giudizio contro un privato, così come nulla impedisce in linea di principio che l’amministrazione possa presentare un ricorso al giudice amministrativo. E’ sufficiente ricordare, nel primo caso, l’instaurazione di un giudizio civile[1], e, nel secondo caso, l’impugnazione, in via principale o in via incidentale, di un atto di altra amministrazione[2].
Ciò che si presenta oggi è tuttavia quella che sembrerebbe un’inusuale combinazione, ovvero sia che l’amministrazione agisca contro un privato, questa volta, non di fronte al giudice ordinario, bensì di fronte al giudice amministrativo, mentre il ricorso a quest’ultimo tradizionalmente ha sempre sembrato presupporre che la parte resistente fosse una pubblica amministrazione, tanto è vero che, ancora alla fine del secolo scorso, si ricordava che “la dottrina … la ritiene un'affermazione scontata e ciò, sia se si controverta in sede di giurisdizione generale di legittimità, sia in sede di giurisdizione esclusiva”, riconoscendo che in effetti “tutto il processo è organizzato intorno alla figura dell'amministrazione, parte resistente”[3]. Anche negli odierni manuali di questo ordine di problemi si continua ad avere ben poca traccia.
Non sarebbe però corretto affermare che siffatta inusuale combinazione costituisca un’assoluta novità. Nella storia del contenzioso amministrativo, come vedremo, se ne possono trovare riscontri, sia con riferimento alla tradizione francese, sia con riferimento alle vicende del nostro ordinamento.
2. I limiti tradizionali nelle classiche controversie di diritto pubblico.
Se si guarda alle classiche controversie pubblicistiche, che involgono cioè l’impugnazione di atti amministrativi, non è difficile comprendere perché non si trovino azioni dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice amministrativo.
In primo luogo, a parte di recente l’organo indiretto, a mente di una famosa pronuncia (Cass. s.u. n. 12221/1990), o più ampiamente i soggetti “equiparati” alla p.a.[4], dove il privato viene comunque rivestito di una coloritura pubblica, e a parte il controinteressato che non può in effetti considerarsi in senso stretto un resistente[5], il privato vero e proprio, che mantiene cioè integra tale sua qualità, non adotta atti amministrativi, sicché manca l’oggetto contro il quale rivolgere il ricorso. Per tale ragione non si può dunque dare il caso di un ente pubblico che impugni un atto amministrativo del privato, così come invece sarebbe possibile nei confronti di un atto amministrativo adottato da un’altra amministrazione.
In secondo luogo, l’amministrazione, per far valere una pretesa pubblicistica nei confronti del privato, non deve agire contro quest’ultimo passando per l’intermediazione del giudice amministrativo, ma esercita direttamene i poteri che le conferisce l’ordinamento.
Così, se intende adottare un provvedimento sfavorevole al privato, a seguito di un procedimento d’ufficio o ad istanza di parte, l’amministrazione non deve prima chiedere al giudice amministrativo di accertare la sussistenza dei relativi presupposti, bensì adotta motu proprio il provvedimento.
Anzi nella logica del sistema, l’amministrazione non solo non deve, ma anche non può adire il giudice amministrativo, poiché è ad essa che l’ordinamento attribuisce, quantomeno in prima battuta, la responsabilità di provvedere. Così non meno nella tradizione francese, ove “le autorità amministrative hanno l’obbligo di esercitare i poteri di cui sono investite”, sicché un loro ricorso al giudice amministrativo sarebbe irricevibile[6].
Sul piano processuale ciò è ben rappresentato dal principio, sempre di origine francese, della cd. décision préalable, che si atteggia appunto a condizione di ricevibilità del ricorso, e che, tra i cugini d’oltralpe, continua a mantenere tutto il suo vigore, coinvolgendo anche le azioni di responsabilità o volte comunque ad ottenere il pagamento di una somma di danaro[7]. Anche nel nostro ordinamento, ciò trova da ultimo conferma, se mai ve ne fosse stato bisogno, nell’art. 34, comma 2, c.p.a. “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”[8]. Un analogo modello possiamo tutt’oggi ritrovare nella giustizia tributaria, pur sempre figlia della tradizione del contenzioso amministrativo[9].
Il principio della décision préalable è normalmente evocato con riguardo al ricorso del privato, ma, a ben vedere, esso deve non meno riferirsi all’amministrazione, costituendo il naturale corollario della suddetta responsabilità: non solo il privato, ma neanche l’amministrazione può presentare previamente un ricorso al giudice amministrativo in ordine all’esercizio dei poteri che le competono.
E’ vero che può ravvisarsi una deroga nel caso del silenzio, almeno da quando nel nostro ordinamento quest’ultimo è stato inteso, sviando dalla tradizione francese sin lì seguita, come silenzio-inadempimento e non più come diniego tacito, nonché da ultimo, ma a certe condizioni, nella sopravvenuta possibilità di accertare la “fondatezza della pretesa” (art. 31, comma 3, c.p.a.). Deve tuttavia ritenersi che siffatte deroghe, che comunque confermano il principio, possano valere soltanto in caso di ricorso del privato, mentre il principio dovrebbe mantenere del tutto integra la sua portata interdittiva riguardo ad un’azione dell’amministrazione.
L’amministrazione non può dunque chiedere un accertamento su un potere non ancora esercitato né in via di azione, né in via di reazione ad un ricorso presentato dal privato.
I poteri pubblicistici non si fermano al primo provvedere e ciò refluisce nuovamente nella prospettiva processuale.
Se intende annullare d’ufficio un proprio provvedimento, l’amministrazione non deve, ma anche non può chiedere previamente al giudice amministrativo di accertare la sussistenza dei relativi presupposti, bensì adotta motu proprio il provvedimento di autotutela.
Ciò vale, anche qui, sia in via di azione, sia in via di reazione, e similarmente al sistema francese[10]: se, ad es., un concorrente impugna la graduatoria lamentando una clausola del bando, l’amministrazione, a differenza di un controinteressato, non potrebbe, con ricorso incidentale e al fine di rimuovere il parametro evocato dal ricorrente principale, impugnare siffatta clausola, bensì, trattandosi di un proprio atto (il discorso sarebbe diverso se si trattasse di atto di altra amministrazione), avrebbe dovuto provvedere con i poteri di autotutela[11].
I poteri pubblicistici non si fermano neanche al provvedere, di primo o di secondo grado, ma investono altresì l’esecuzione del provvedere.
Come è noto, grazie al principio di esecutorietà, unitamente al potere pubblicistico di emanare propri titoli esecutivi, l’amministrazione non deve[12], ma di regola, parimenti alla tradizione francese del privilège du préalable[13], anche non può a tal fine rivolgersi previamente al giudice amministrativo, ma porta direttamente ad esecuzione i propri provvedimenti.
La proiezione sulle vicende dell’esecuzione costituisce in qualche misura un’inevitabile conseguenza della logica del sistema. Ciò fa comprendere perché negli ordinamenti giuspubblicistici, anche in prospettiva comparata, non abbia mai avuto risultati apprezzabili l’idea di riportare l’esecutorietà ad un principio di tipicità normativa. Non diversa sorte ha avuto, nel nostro ordinamento, l’art. 21-ter della legge n. 241/1990[14], la cui previsione, non a caso, è stata sostanzialmente tralasciata dalla giurisprudenza[15].
Ma allora, se non quelle pubblicistiche, quali dovrebbero essere mai le controversie nelle quali l’amministrazione agisce contro il privato di fronte al giudice amministrativo?
Qui il discorso si complica e la linearità dello schema appena rappresentato viene investito dalle ambiguità che caratterizzano quelle zone di confine nelle quali le fattispecie pubblicistiche rimesse alla giurisdizione del giudice amministrativo vengono esposte ad un ritorno di odori privatistici.
3. Le zone di intreccio col diritto privato.
Sono proprio queste zone di confine il luogo elettivo di eventuale emersione delle azioni delle amministrazioni contro il privato, come se, qua e là, possano attivarsi meccanismi che riconducono in qualche misura alla dinamica, anche processuale, dei rapporti privatistici.
Da lungo tempo nella tradizione francese questo fenomeno è emerso nell’ambito del ricorso di piena giurisdizione, dove entravano in campo vicende contrattuali o attinenti alla responsabilità. Ovviamente ciò presupponeva la competenza del contenzioso amministrativo in quel percorso che conduceva alla enucleazione della categoria dei contrats administratif, distinti dai meri contratti di diritto privato, nel contesto dunque di una pubblicizzazione, che però lasciava evidentemente aperto qualche spazio a logiche processuali privatistiche.
Significativo al riguardo è anche il rapporto col principio della décision préalable. La coloritura pubblicistica del modello processuale è sempre stata invero prevalente, tanto che, come ricorda già Laferrière, il suddetto principio vale anche per gli actes de gestion, oggetto di piena giurisdizione, e non solo per gli atti actes de puissance publique, ma vi erano delle eccezioni, come nel caso delle domande d’indennità per danni causati nei travaux publics o dell’estrazione dei materiali[16]. Possono anche ricordarsi le azioni dell’amministrazione relative alle cd. contraventions de grande voierie per danni cagionati dal privato al demanio, risalenti alla legge 29 floréal anno X e ancora contemplate nel diritto vigente (L774-1 ss CJA)[17].
Non si può qui approfondire una materia alquanto complessa, anche dal punto di vista storico, bastando confermare che nella giustizia amministrativa francese ben possono ravvisarsi svariate azioni dell’amministrazione contro il privato, e anche in via riconvenzionale. Per qualche esempio: azioni di responsabilità dell’amministrazione per i danni causati al Comune dall’impresa incaricata di lavori pubblici (CE 30/10/1964, Cne Ussel), azioni di condanna del privato ad evacuare il demanio pubblico (CE 4/2/1976, Elissonde), azioni di condanna ad un facere che l’amministrazione non ha il potere di imporre al contraente o concessionario (CE 13/7/1956 Office HLMde la Seine, 30/10/1963, Sonetra), azioni riconvenzionali dell’amministrazione contro le pretese di un contraente privato (CAA Paris, VII, 29/12/2017, 16PA01978) o chiamate in garanzia da parte dell’amministrazione per il risarcimento dei danni (CAA Lyon, VI, 26/11/2009, 06LY02008) o ancora azioni di rivalsa nei confronti dei funzionari amministrativi (action récursoire), come nel caso di una faute personnelle (CE 12/12/2008, n. 296982; già CE 28/07/1951 Laruelle et Delville). Anzi, sembra che, nei tempi recenti, persino l’ordinamento francese non sia rimasto del tutto immune alle sirene della “civilizzazione”. Se significativa era già l’esistenza di una eccezione risalente per i crediti di origine contrattuale[18], è andata emergendo una tendenza ad espandere questa eccezione, sino a farvi rientrare un’azione di risarcimento per responsabilità precontrattuale in ragione dell’attitudine dolosa dell’impresa[19].
A ben vedere, anche il nostro ordinamento, nel corso del XIX sec., si stava muovendo nel solco della medesima tradizione d’oltralpe e non a caso non manca una casistica di azioni dell’amministrazione contro il privato, già prima dell’unificazione, nelle “materie” del contenzioso amministrativo in senso stretto, ove i relativi organi esercitavano una funzione giurisdizionale (Real Patenti 31 dicembre 1842 e Real Editto 29 ottobre 1847): così, ad es., può ravvisarsi una causa promossa dalla Comunità di Monticelli contro dei privati in ordine al fatto che una strada rientri tra quelle comunali (Consiglio d’Intendenza Generale di Salluzzo, sentenza 30 giugno 1846, in Rivista amministrativa del Regno, 1850, 115); della Comunità di Giaveno contro degli imprenditori privati in ordine ad un'opera pubblica, se siano tenuti pei danni dipendenti dalla rovina dell'opera medesima (Consiglio d'Intendenza di Torino, sentenza 10 novembre 1849, ivi, 1851, 652). Tale possibilità non aveva dunque ostacoli di principio, per quanto ritenuta meno ricorrente rispetto all’azione del privato, rimanendo semmai ferma la necessaria presenza nella lite di una parte pubblica: “non si può neppure concepire contenzioso amministrativo, dove fra le parti contendenti non si trovi l’Amministrazione, e la questione non verta intorno a materia amministrativa, qual è, come il più spesso avviene, il riclamo di un privato che da un atto amministrativo pretendasi leso nei suoi diritti” (R. Camera dei conti, 2 aprile 1859, ivi, 1859, 405)[20].
Perché oggi si ha allora la sensazione di una novità, bisognosa di un’apposita disamina?
Quelle zone grigie iniziano a dissolversi a seguito della legge abolitiva del contenzioso del 1865. E’ questo il vero scrimen che potrebbe giustificare storicamente la progressiva disparizione nel nostro ordinamento delle azioni dell’amministrazione contro i privati di fronte alla giustizia amministrativa. Se non ottenne alcun apprezzabile risultato sul versante del sindacato sui provvedimenti amministrativi –i quali, prima con la distinzione tra atti di impero e di gestione e poi mutatis mutandis con la degradazione dei diritti soggettivi, rimasero sostanzialmente fuori dalla porta dei tribunali-, il modello della giurisdizione unica determinò pur sempre un irrigidimento nella contrapposizione tra diritto pubblico e diritto privato, soprattutto nel tentativo di riportare nel proprio alveo fattispecie che, dai tempi della Rivoluzione francese, si riteneva fossero state strappate ai tribunali da parte del contenzioso amministrativo[21].
Non a caso nella nostra tradizione si acuirà la distinzione tra atti unilaterali e bilaterali ai fini qualificatori. Si abbandonerà così la possibile via francese dei contrats administratif, in quanto il contratto è soltanto quello di diritto privato, e specularmente la qualificazione pubblicistica dovrà sempre comportare la presenza di un atto unilaterale, il provvedimento amministrativo. Ed infatti quando, a cavallo tra XIX e XX sec., ritornerà il vento della pubblicizzazione, non sarà sufficiente affermare che un contratto di locazione di un bene pubblico è un contratto di diritto pubblico, ma, più radicalmente, dovrà trasformarsi il titolo del rapporto in un provvedimento concessorio.
Ma proprio questo irrigidimento può far comprendere un ulteriore passaggio. Le zone grigie avrebbero potuto ricostituirsi con l’avvento nel 1923 delle materie di giurisdizione esclusiva, se non fosse che, a ben vedere, attraverso tali norme processuali sulla giurisdizione, non solo, come era inevitabile (similarmente ai contrats administratif rimessi al contenzioso amministrativo francese), si finì per avallare una pubblicizzazione sostanziale del rapporto[22], ma non si lasciò alcuno spazio per significative contaminazioni privatistiche. L’unica eccezione furono i “diritti patrimoniali conseguenziali”, che, appunto per questo, rimanevano però fuori dalla giurisdizione del giudice amministrativo.
Si prenda il caso emblematico del pubblico impiego, sulla cui natura giuridica (pubblicistica, privatistica o mista) da decenni si disquisiva: non solo il titolo, ma anche gli atti di gestione del rapporto di lavoro divengono atti “amministrativi”. Il punto di equilibrio con l’origine privatistica, al fine di evitare che il mutamento della qualificazione potesse importare una diminuzione della tutela, ha soltanto bisogno di un piccolo accorgimento, ossìa l’invenzione degli atti amministrativi “paritetici”, la cui impugnazione è sottratta al breve termine decadenziale. Niente di più.
In tal modo, la “materia” ha finito per essere attratta nello schema generale dell’esercizio dei poteri pubblicistici, anche se si parli di atti paritetici e diritti soggettivi, e soprattutto, nella prospettiva processuale, in una sostanziale riproduzione del principio della décision préalable. Anche per quegli aspetti del rapporto dove poteva risuonare l’origine privatistica, ad es. quelli di natura puramente patrimoniale, l’amministrazione non ha bisogno di rivolgersi ad un giudice, ma adotta una decisione, che verrà eventualmente impugnata dal privato, pur, nel caso di atto paritetico, con quella diversa modulazione del termine. Ancor oggi possiamo trovarne le tracce: l’amministrazione nega taluni emolumenti economici e l’interessato chiede l’annullamento degli atti paritetici, benché si osservi che si tratta di una sostanziale azione di accertamento (Tar Lazio Roma II quater n. 12821/2020).
In altre parole, la giurisdizione esclusiva, per lunghi decenni, non sembra aver dato occasione di fare emergere azioni dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice amministrativo, in quanto il modello delle controversie pubblicistiche, pur con delle modulazioni, ha costituito la cornice nella quale rigorosamente ambientare, anche in tali zone grigie, i rapporti tra privato, azione amministrativa e processo amministrativo.
Tutto questo fa comprendere come le vicende recenti possano in qualche modo apparire come una novità.
4. Il ritorno delle azioni dell’amministrazione contro il privato: la giurisdizione esclusiva e la responsabilità.
Le premesse per il ritorno delle azioni dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice amministrativo possono, grosso modo, collocarsi a partire dagli anni novanta del secolo scorso.
Invero, già in precedenza, si era mosso qualcosa di significativo, ma dettato da esigenze pratiche specifiche e non tale ancora da determinare un mutamento di paradigma sul piano sistematico, anche perché non frutto di condivisione tra le giurisdizioni. Si trattò, non a caso, di un’iniziativa della Cassazione in materia di pubblico impiego, che, da un lato, affermò che l’ente pubblico datore di lavoro, per la ripetizione di somme, o non potendo o non volendo avvalersi degli strumenti di attuazione coattivi conferiti dall'ordinamento, è facultato ad esperire i rimedi giurisdizionali ordinari, d’altro lato, che, sussistendo la giurisdizione esclusiva, tali rimedi vanno presentati al giudice amministrativo, ivi compreso il procedimento ingiuntivo (Cass. S.U. n. 1580/1970, n. 6442/1979, n. 8207/1987, n.14215/2002). Posizione invece non condivisa dal Consiglio di Stato, che dichiarerà il proprio difetto di giurisdizione, statuendo altresì che l’amministrazione non può proporre azioni dinanzi al giudice amministrativo (Cons. st. VI n. 991/1987)[23].
La ragione fondamentale per un più deciso ritorno delle azioni dell’amministrazione è, a nostro avviso, da ravvisare nella forte pressione, specie al livello dottrinario, esercitata in vista di una qualche “civilizzazione”, più o meno intensa, del diritto amministrativo e della giustizia amministrativa, cui ha anche concorso il sopravvenire di tematiche nuove, come quella della responsabilità, nel nostro ordinamento tradizionalmente ricondotta all’ambito degli istituti privatistici e alla giurisdizione del giudice ordinario. Tutto questo a partire dall’indimostrato ed errato presupposto che la civilizzazione comporterebbe un rafforzamento della tutela del cittadino[24], mentre vi sarebbe semmai da temere esattamente il contrario.
Si determina così un evidente salto di qualità sia rispetto a quell’irrigidimento determinato dalla legge del 1865, sia rispetto ad una assorbente colonizzazione pubblicistica delle materie di giurisdizione esclusiva. Non si tratta più e soltanto di utilizzare, qua e là, frammenti di origine privatistica, opportunamente assorbiti, con eventuali modulazioni, nel “sistema” giuspubblicistico. In quella che oggi viene indicata come una “osmosi” tra diritto pubblico e diritto privato (ad es. di recente Cons. st II n. 7237/2020), l’interferenza dei riferimenti privatistici inizia ad assumere, quantomeno rispetto al passato, una maggiore densità e autonomia: non si ha così remore, per fare un esempio, ad affermare che, nonostante una convenzione di lottizzazione abbia natura pubblicistica, siano applicabili gli istituti privatistici della risoluzione contrattuale (Tar Lazio Roma IIbis n. 13229/2020). Ben inteso: tutto ciò va misurato e circoscritto nella sua effettiva portata, non potendosi in alcun modo accedere a certe vulgate dottrinarie che molto superficialmente ritengono con un tratto di penna di poter cancellare o ridurre al lumicino la contrapposizione tra sistema pubblicistico e sistema privatistico.
Un punto di partenza potrebbe essere ravvisato nella previsione degli “accordi” della legge sul procedimento (artt. 11 e 15 L. n. 241/90), rimessi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Tali accordi, da un lato, spezzano la rigida contrapposizione tra atti unilaterali (pubblicisici) e atti bilaterali (privatistici), riaprendo la porta ai contratti di diritto pubblico, d’altro lato, contengono un espresso rinvio al codice civile (“si applicano, ove non diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili”).
Sul finire degli anni novanta si allunga l’elenco delle materie di giurisdizione esclusiva e si attribuisce al giudice amministrativo il risarcimento dei danni, ampliando così le potenziali zone di confine. La legge n. 205/2000 diviene anche occasione per rivedere più ampiamente la disciplina del processo amministrativo con primi momenti di apparentamento col processo civile.
E’ il caso della previsione che introduce il decreto ingiuntivo: “Nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, aventi ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale, si applica il capo I del titolo I del libro IV del codice di procedura civile” (art. 8 L. n. 205/2000). In applicazione della legge, si conferma da subito che possa essere anche l’amministrazione ad agire, come si evince ad es. nel caso di un Comune che chiede il decreto ingiuntivo nei confronti di un concessionario (ad es. Tar Lazio Roma II n. 6525/2002), con ciò riprendendo l’orientamento già emerso in Cassazione. Specularmente emerge altresì la possibilità che l’amministrazione non solo si opponga al decreto ingiuntivo chiesto dal privato, e sin qui, come è noto, nella veste, in quanto opponente, di convenuto sostanziale, ma possa altresì, e questa volta nella veste di attore anche sostanziale, unire all’opposizione una domanda riconvenzionale (ad es. Tar Lazio Roma II n. 8581/2001; Tar Toscana II n. 613/2002).
Si incomincia così a respirare una nuova aria, come testimonia l’avvento di scritti più decisamente aperti all’ingresso di azioni dell’amministrazione. E’, ad esempio, il caso della dottrina già citata[25] che, alla luce del D.lgs. 80/98 (poi dichiarato incostituzionale), guarda all’intero versante delle materie di giurisdizione esclusiva e pone, a al tal fine, l'esigenza di una rivisitazione strutturale della disciplina processuale. Emblematico è anche lo scritto di un giudice amministrativo[26] che si interroga espressamente sulla possibilità di applicare nell’ambito della giurisdizione esclusiva e dei giudizi risarcitori istituti processualcivilistici, ed in particolare la domanda (ed eccezione) riconvenzionale e la chiamata in giudizio del terzo. Non si nega il dubbio sulla “ammissibilità di una domanda che venga proposta dinanzi al giudice amministrativo da una amministrazione contro un privato; e ciò con specifico riferimento alla tradizionale nozione della giustizia amministrativa quale strumento di «tutela nei confronti della pubblica amministrazione» (art. 103 cost.)”, ma, significativamente, si afferma che “l'attuale stato di evoluzione della giustizia amministrativa, con attribuzione di giurisdizione esclusiva su «tutte le controversie» relative a materie amplissime (ad es., servizi pubblici ex art. 33, d. lg. n. 80 del 1998) e la trasformazione della nozione di giurisdizione esclusiva quale «giurisdizione piena» sui rapporti, consente, a mio avviso, di superare tale rilievo preliminare”.
Non sorprende così che da quel momento prenderanno corpo svariati riscontri giurisprudenziali nel segno di riconoscere in linea generale la possibilità di un’azione dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice amministrativo. Ma non meno deve sorprendere che vi siano stati anche momenti iniziali di difficoltà o di rigetto di una siffatta prospettiva, come nel caso in cui si è recisamente affermato che la legge n. 205/2000 “non ha modificato affatto la struttura generale del processo amministrativo, che resta - come da tradizione inveterata - un processo ad azione unilaterale” (Tar Lazio Roma I n. 10442/2004).
Limitiamoci a qualche significativa esemplificazione, sino al coinvolgimento dello stesso giudice delle leggi.
In una lite definita nel 2007 (Cons. st. IV n. 6358/2007), un comune chiedeva la risoluzione per inadempimento di una convenzione e il risarcimento dei danni contro una cooperativa nell’ambito di interventi per l’edilizia economica e popolare. Ricondotta la fattispecie alla giurisdizione esclusiva in materia di concessioni (art. 5 legge Tar) o anche di accordi di diritto pubblico (art. 11 l. n. 241/1990), il giudice accoglieva l’azione di risoluzione per inadempimento, qualificata ai sensi dell’art. 1454 c.c. e rigettava, nel merito, quella di risarcimento per mancata prova del danno.
In un caso definito nel 2010 (Cons. st. VI n. 20/2010), in materia di appalti, l’azione di risarcimento per responsabilità precontrattuale dell’impresa veniva fronteggiata da una speculare domanda riconvenzionale, tramite ricorso incidentale, dell’amministrazione. La pronuncia affronta direttamente la questione, e dando per scontato, secondo l’unanime giurisprudenza di allora (Cass., sez. un., n. 5084/2008), che la giurisdizione esclusiva in materia di procedimenti di affidamento dei contratti pubblici comprendesse anche la lesione di diritti soggettivi derivanti da atti o comportamenti amministrativi, si chiede se “se la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle procedure di affidamento abbracci pure le azioni a titolo di responsabilità precontrattuale proposte dalle amministrazioni pubbliche nei confronti delle controparti private, per condotte scorrette nella fase delle trattative contrattuali”. Sulla scorta del precedente del 2007 si statuisce che “se la giurisdizione esclusiva abbraccia il rapporto tra p.a. e privato, essa non può essere unidirezionale e perciò riferita esclusivamente alle azioni del privato nei confronti della p.a., ma deve necessariamente essere bidirezionale ed estesa anche alle azioni della p.a. nei confronti del privato, che siano, come nella specie, conseguenza immediata e diretta delle prime”. In tale direzione si metteva in campo anche “il principio di concentrazione delle tutele”, atteso che “diversamente ragionando, una vicenda unitaria, come quella per cui è processo, che postula una cognizione unitaria, verrebbe in modo irrazionale e antieconomico portata alla cognizione di due diversi ordini giurisdizionali, con il rischio di contrastanti giudicati” e si evocava una non nuova giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale, ad eccezione del principio della inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione, “se in una data materia sono proposte due azioni connesse, una rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, l’altra in astratto rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario, la prima azione attrae anche la seconda alla giurisdizione del giudice amministrativo (Cass., sez. un., n. 14805/2009).
Il codice del processo amministrativo del 2010 conferma l’ammissibilità dell’azione riconvenzionale, dedicandovi un’espressa disciplina e risolvendo definitivamente il problema della forma di tale azione, che viene ricondotta allo schema del ricorso incidentale (art. 42 c.p.a.).
Di lì a poco sarà il turno dell’Adunanza plenaria (n. 28/2012), che, oltre ad asseverare la giurisdizione esclusiva su una controversia promossa dall’ente pubblico “concernente l’osservanza degli obblighi assunti dal privato nei confronti dell’ente locale, in connessione con l’assegnazione di aree comprese in un piano di zona, volti alla realizzazione di opere di urbanizzazione ed alla cessione gratuita all’ente delle aree stradali e dei servizi”, avrà modo significativamente di affermare:
-che, in sede di giurisdizione esclusiva, il g.a. “là dove vengano in discussione questioni su diritti, come è per l’appunto nel caso in esame, non può che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque, le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice ordinario”, ritenendo così ammissibile l’azione della stessa amministrazione ai sensi dell’art. 2932 c.c., al fine di garantire il passaggio alla proprietà pubblica delle aree promesse dal privato;
-che non è accoglibile “la tesi secondo cui l’effetto dell’acquisizione delle aree in questione avrebbe potuto essere conseguito dall’amministrazione pubblica utilizzando i propri poteri autoritativi, quale l’acquisizione d’ufficio: a tacer d’altro, è sufficiente al riguardo rilevare che l’eventuale possibilità di esperire poteri amministrativi non rende di per sé inammissibile la proposizione di una domanda giudiziale”.
Questo orientamento non poteva non porre dubbi di costituzionalità, stante, almeno prima facie, il tenore letterale dell’art. 103 c. 1 cost.: “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione”. Ovviamente il punto non riguardava più l’ammissibilità di tale tutela nei confronti di soggetti “equiparati” all’amministrazione, sulla quale vi era stato già l’avallo del giudice delle leggi (C. cost. n. 204/2004), bensì una tutela esperita dall’amministrazione nei confronti di un privato vero e proprio.
Anche in tal caso, tuttavia, il giudice delle leggi ha concesso il suo beneplacito:
-“sebbene gli artt. 103 e 113 Cost. siano formulati con riferimento alla tutela riconosciuta al privato nelle diverse giurisdizioni – da ciò non deriva affatto che tali giurisdizioni siano esclusivamente attivabili dallo stesso privato, né che la giustizia amministrativa non possa essere attivata dalla pubblica amministrazione; tanto più ove si consideri che essa storicamente e istituzionalmente è finalizzata non solo alla tutela degli interessi legittimi (ed in caso di giurisdizione esclusiva degli stessi diritti), ma anche alla tutela dell’interesse pubblico, così come definito dalla legge”;
-“l’ordinamento non conosce materie ‘a giurisdizione frazionata’, in funzione della differente soggettività dei contendenti. Elementari ragioni di coerenza e di parità di trattamento esigono, infatti, che l’amministrazione possa avvalersi della concentrazione delle tutele che è propria della giurisdizione esclusiva e che quindi le sia riconosciuta la legittimazione attiva per convenire la parte privata avanti il giudice amministrativo” (C. cost. n. 179/2016).
L’assist del giudice delle leggi viene subito colto dal Consiglio di Stato (III n. 3755/2016), che, a conferma della propria precedente giurisprudenza, ammette l’esperimento da parte dell’amministrazione o, come nel caso di specie, da parte di un organismo di diritto pubblico di un’azione di responsabilità precontrattuale contro il privato per la mancata stipula del contratto.
Significativa è altresì una successiva statuizione dell’Adunanza plenaria (n. 2/2017). Di contro a taluni precedenti, che ammettevano ex art. 2055 c.c. un’azione risarcitoria del privato non solo contro la p.a. ma, in solido, anche nei riguardi del controinteressato (Cons. st. VI n. 115/2012 e n. 529/2012), si pone un limite all’espansione, sotto il profilo soggettivo, della giurisdizione amministrativa, nel senso che essa non può comprendere liti tra privati, pur connesse a vicende pubblicistiche. La disciplina costituzionale non impedisce dunque azioni della p.a. contro il privato, ma esige pur sempre che nella controversia sia parte una pubblica amministrazione, evocando in tal senso anche la giurisprudenza della Cassazione che aveva poco prima affermato la giurisdizione del giudice ordinario in ordine ad un’azione risarcitoria avverso il funzionario, sul presupposto appunto che “l'art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati” (Cass., sez. un., n. 19677/2016).
Se non liti tra privati, come del resto già affermavano gli antichi organi del contenzioso amministrativo, ancora un volta si assevera, sul piano dei limiti costituzionali, la possibilità di un’azione dell’amministrazione contro un privato. Rimane impregiudicato, in mancanza di una domanda in tal senso, se la p.a. non potesse, di fronte allo stesso giudice amministrativo, esercitare un’azione di regresso nei confronti del controinteressato in ragione del risarcimento dovuto al ricorrente, ma sembrando lasciare intendere che una siffatta azione sarebbe stata ammissibile.
Tale pronuncia è non meno rilevante perché valorizza il giudizio di ottemperanza anche nei confronti del privato ai sensi dell’art. 112, c.1, c.p.a. (“I provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altre parti”):
“La norma è coerente con la constatazione che in moltissimi casi l’esecuzione in forma specifica del giudicato richiede, in particolare se si tratta di attuarne gli effetti restitutori e ripristinatori, oltre all’azione dell’amministrazione, l’ingerenza nella sfera giudica e materiale di soggetti privati, specie nel caso in cui sono stati destinatari di provvedimento favorevoli poi annullati e devono, per effetto del giudicato, adempiere ad obblighi –a ben guardare meramente conseguenziali o riflessi – restitutori e ripristinatori.
Escludere in tali casi la giurisdizione amministrativa solo perché vi è il coinvolgimento indiretto (e inevitabile) di soggetti privati vanificherebbe la funzione del giudizio di ottemperanza e, con essa, il valore fondamentale dell’effettività del giudicato (corollario del principio, di rango costituzionale ed europeo, del diritto di azione in giudizio)”.
E’ vero che l’Adunanza sembra qui fare riferimento a ricorsi dei privati, ma è evidente che, una volta ricondotti gli stessi privati nel novero dei soggetti passivi dell’ottemperanza, si presti il fianco alla possibilità dell’esecuzione di una pronuncia frutto di un’azione dell’amministrazione.
Il cerchio potrebbe così chiudersi: l’amministrazione può agire contro il privato di fronte al giudice amministrativo sia in sede di cognizione, sia in sede di esecuzione, rectius di ottemperanza.
Va evidenziato al riguardo che anche nell’ordinamento francese è emersa di recente la possibilità che il giudice amministrativo emetta delle astreintes a carico del soggetto privato[27].
Da ultimo, con la pronuncia in commento, il Consiglio di Stato, muovendosi sulla scorta della citata giurisprudenza, sviluppa con tutta ampiezza l’idea della “bilateralità direzionale delle tutele” (Cons. st., sez. II, n. 8546/2020). Se l’Adunanza plenaria (n. 5/2018) ha esteso la latitudine della responsabilità precontrattuale da comportamento dell’amministrazione, vorrà dire che la stessa azione di fronte al giudice amministrativo potrà essere esperita con la medesima latitudine dall’amministrazione contro il privato. Non solo: alla bilateralità si accompagna l’idea di una qualche specularità del regime giuridico, usata, nel caso di specie, a favore del privato sotto il profilo del requisito soggettivo della responsabilità. Si giunge così più generalmente ad affermare che “merita condivisione” e anzi “in un’accezione ancora più estesa” l’assunto del giudice di prime cure per il quale “al fine di dirimere una controversia che veda quale parte attrice l’Amministrazione, anziché il privato, debbano comunque essere utilizzate le categorie concettuali elaborate dalla giurisprudenza a parti rovesciate”.
Ovviamente questo orientamento, nell’anfratto della responsabilità, dovrà fronteggiare le diverse propensioni emerse in materia di riparto di giurisdizione nella recente giurisprudenza del giudice della giurisdizione. Qui non si tratta tanto della possibilità che la Cassazione si mostri avversa alla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo nei riguardi di un’azione dell’amministrazione contro il privato, sia perché è stata proprio la Cassazione che, come abbiamo visto, ha aperto questa breccia, sia perché il punto è stato affrontato e superato dal giudice delle leggi. La questione attiene ad altro angolo di visuale: stabilire cioè a chi spetti la giurisdizione sulla responsabilità precontrattuale. E se, a parte la responsabilità da provvedimento illegittimo, la Cassazione, di contro al giudice amministrativo, ritiene che la responsabilità da comportamento della p.a. spetti al giudice ordinario, lo stesso, nella logica del giudice della giurisdizione, non potrà a fortiori che affermare per il caso inverso, cioè della responsabilità da comportamento del privato nei confronti della p.a.. In altre parole, l’azione della p.a. per far valere la responsabilità precontrattuale nei confronti del privato dinanzi al giudice amministrativo sarebbe da escludere non in quanto tale, sulla base cioè di presunti limiti generali che segnerebbero i presupposti soggettivi del processo amministrativo, bensì in quanto, in tale specifico ambito, quello appunto della responsabilità precontrattuale, ci sarebbe la giurisdizione del giudice ordinario[28].
5. Concorso di strumenti pubblicistici e privatistici. Rilievi critici.
Costituisce una questione risalente lo stabilire se, in presenza di strumenti pubblicistici, l’amministrazione possa o meno ricorrere in alternativa a strumenti privatistici. Non si può dire che, in termini di diritto positivo, si sia mai formata al riguardo una regola uniforme, né ci appare che possa considerarsi dirimente la propensione di questi ultimi decenni ad asseverare in termini generali una siffatta alternatività, se non come ulteriore segno, tutto da misurare nei suoi effetti di diritto positivo, degli orientamenti (in sé discutibili) volti a valorizzare il diritto privato.
Ancor oggi ad es. l’amministrazione non potrebbe stipulare un contratto di diritto privato nelle categorie di dipendenti rimaste nell’alveo pubblicistico o non potrebbe dare in uso un bene demaniale tramite un contratto di locazione in luogo di un provvedimento concessorio[29]. Allo stesso tempo, invece, ai fini ad es. dell’acquisizione della proprietà di un immobile, l’amministrazione ancor oggi potrebbe esperire un procedimento pubblicistico di espropriazione, ma potrebbe anche, appunto in alternativa, stipulare un normale contratto di compravendita.
La risposta diviene ancor più complicata non appena si entri nei meandri del rapporto costituito, sia in ordine a momenti modificativi, sia in ordine a momenti esecutivi.
Così, in presenza di titoli privatistici, le vicende del rapporto possono vedere la presenza di poteri pubblicistici che si accompagnano all’ordinario strumentario privatistico (si pensi, ad es., ai poteri di autotutela in materia di contratti pubblici che concorrono con le cause privatistiche di risoluzione) o possono vedere, anche se l’origine dell’obbligo è privatistica, il ricorso a strumenti di esecuzione alternativi a quelli di diritto comune (ad es. le procedure amministrative di riscossione coattiva dei crediti erariali).
Allo stesso tempo, in presenza questa volta di titoli pubblicistici, le vicende del rapporto, anche in sede esecutiva, possono vedere la presenza di rimedi privatistici che si accompagnano all’ordinario strumentario pubblicistico. Addirittura, nel caso della responsabilità, stante la sua qualificazione tradizionale, il rimedio è solo privatistico.
E’ proprio in quest’ultimo ambito che può entrare in campo il giudice amministrativo, sempre che abbia giurisdizione, poiché, ogni qual volta la presenza di momenti privatistici conduce alla giurisdizione ordinaria, usciamo fuori dal nostro tema, essendo d’altra parte tradizionalmente scontato che l’amministrazione possa agire contro il privato di fronte al giudice civile.
Due sono dunque i presupposti, a fini del nostro discorso, per l’entrata in campo il giudice amministrativo: l’emersione di istituti privatistici in rapporti di diritto pubblico e la giurisdizione del giudice amministrativo. Nel momento in cui ricorrono tali presupposti, potrebbe farsi avanti la logica processuale privatistica ed aprire così la porta, in via principale o riconvenzionale, alle azioni dell’amministrazione contro il privato.
Il primo presupposto esige che, nell’ambito di fattispecie pubblicistiche, si ritenga possibile l’applicazione di istituti privatistici in quanto tali.
Torniamo, per capirci, alle materie di giurisdizione esclusiva. Sin quando i rapporti concernenti tali materie, dove possono prospettarsi zone di confine, sono stati in toto assorbiti nel paradigma pubblicistico, non vi è stata ragione alcuna per prospettare azioni dell’amministrazione, ma, nel momento in cui quella tendenza alla “civilizzazione”, cui si accennava, ha determinato in qualche misura una riesumazione tout court, non più cioè assorbita nel sistema pubblicistico, di istituti privatistici, le cose suonano diversamente.
Si prenda il caso citato del 2007. Siamo certamente nell’ambito di una fattispecie pubblicistica, e pur tuttavia si ritiene di poter applicare la risoluzione per inadempimento della convenzione ai sensi dell’art. 1454 c.c., sicché non si ha remore ad ammettere che la relativa azione possa essere esercitata anche dall’amministrazione.
E ancora, la nuova arrivata, la responsabilità, per come discutibilmente intesa ancor oggi, ha natura privatistica. Così, nel caso citato del 2010, non si ha remore ad ammettere, nel caso di specie in via riconvenzionale, che la relativa azione possa essere esercitata anche dall’amministrazione. Ovviamente la reciprocità tra privato e amministrazione potrà darsi riguardo alla responsabilità da comportamento, non anche per quella da provvedimento, poiché, come si è detto, il privato non adotta atti amministrativi.
Il secondo presupposto esige che, anche per tali aspetti, si ritenga sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo. Ove invece si neghi tale giurisdizione, come potrebbe essere riguardo all’attuale querelle in materia di responsabilità da comportamento, il nostro problema, come dicevamo, cade in radice, rientrandosi nel solco tradizionale di un’azione dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice ordinario.
Resta da chiedersi se, di fronte al giudice amministrativo, l’apertura ai rimedi privatistici nei rapporti di diritto pubblico, o, più esattamente, a rimedi privatistici che rimangono tali, e che proprio per questo inducono alla reciprocità delle azioni, sia la soluzione preferibile. A nostro avviso, deve darsi una risposta negativa sia per l’interesse pubblico, sia per i rapporti tra amministrazione e giustizia amministrativa, sia soprattutto per lo stesso interesse del cittadino, cui deve darsi primaria attenzione.
L’intermediazione giurisdizionale costituisce un sicuro fattore di rallentamento dell’azione amministrativa e potrebbe comportare un’alterazione dei tradizionali e delicati equilibri tra giustizia e amministrazione dagli esiti imprevedibili.
Ma andiamo, per quel che più importa, al cittadino. Potrebbe sembrare più vantaggioso che le pretese dell’amministrazione si colorino di venature privatistiche e passino per l’intermediazione giurisdizionale. A ben vedere vi è proprio da pensare il contrario.
Anzitutto, non ci stancheremo mai di ricordare che la qualificazione privatistica e la tanto vantata condizione di paritarietà determinano una caduta della tutela, poiché il regime privatistico non consente di sottoporre l’atto dell’amministrazione agli stringenti canoni della legalità pubblicistica. L’aggettivo “paritario” è tanto suggestivo quanto traviante, poiché ciò che conta è appunto il regime giuridico: vero è invece che la propensione a qualificare un atto come autoritativo (di per sé pura fantasia ontologica dei giuristi) o più semplicemente come atto di diritto pubblico non è segno di autoritarismo, bensì è l’astuzia che consente di sottoporre l’amministrazione al (di gran lunga) più garantista regime di diritto pubblico. Il sistema giuspubblicistico costituisce invero un gigantesco diritto diseguale, sostanziale e processuale, volto a compensare la diseguaglianza di fatto che intercorre tra l’amministrazione e il cittadino.
Si potrebbe ancora opporre l’argomento della intermediazione giurisdizionale. Qui soccorrono già i motivi della dottrina francese a favore del principio della décision préalable: il cittadino potrebbe ottenere un risultato dall’amministrazione, evitando il processo; la vicenda che porta alla previa decisione amministrativa delimita i contenuti della lite, non solo facilitando il compito del giudice[30], ma anche, a nostro avviso, evitando che il cittadino si ritrovi un reazione processuale soverchiante dell’amministrazione a tutto campo. Non dissimile è del resto la ratio garantista che ha condotto tradizionalmente ad affermare il divieto di integrazione processuale della motivazione.
Nell’insieme il punto è questo: è molto più facile per un cittadino contrastare, e con la stringente legalità pubblicistica, una decisione dell’amministrazione che incorpori l’affaire, quale che ne sia il suo contenuto, e senza pericolo di un allargamento del contenzioso, che difendersi direttamente in un giudizio dove amministrazione e cittadino lottano ad armi pari, con la logica sostanziale e processuale del diritto privato.
In questo, ci piace evocare una pregevole pronuncia del giudice amministrativo, le cui massime andrebbero valorizzate e che merita dunque di essere ampiamente rievocata:
“la pubblica amministrazione ha la possibilità di valersi, da un lato, di strumenti specifici attribuiti in virtù della potestà pubblica, e dall’altro, degli stessi sistemi di tutela del privato, che transitano necessariamente attraverso la verifica giurisdizionale della pretesa. E’ necessario quindi procedere ad una valutazione del rapporto esistente tra le due opzioni operative, verificando quali siano i limiti di fungibilità tra le diverse procedure e se le eventuali diversità riverberino sul potere cognitivo del giudice adito.
Rileva la Sezione che non possa sostenersi una generale alternatività dei mezzi a disposizione della pubblica amministrazione.
In primo luogo, occorre evidenziare in generale la maggiore incisività dello scrutinio del giudice amministrativo nei casi di esercizio del potere, rispetto ai rapporti connotati da profili di pariteticità, quanto meno sotto il profilo della valutazione dell’effettiva funzionalizzazione dell’attività, che implica, tra l’altro, anche la considerazione dei motivi che spingono l’azione della Pubblica amministrazione. Il che permette di ritenere che l’eventuale preferenza per il modulo di tutela contro l’attività autoritativa risponda anche ad esigenze di tutela di maggiore incisività. La funzionalizzazione dell’attività pubblica permette la valorizzazione dei motivi del comportamento della Pubblica amministrazione ed il sindacato esterno sulla globalità dell’intervento, con uno schema di maggiore penetrazione nelle dinamiche decisionali dell’ente pubblico, venendo quindi a svolgere un compito che non necessariamente importa una diminuzione di tutela del privato. L’eventuale attribuzione di un doppio ordine di garanzie in favore della pubblica amministrazione, la quale potrebbe avvalersi dell’uno o dell’altro sistema in base ad una propria arbitraria decisione, non aumenterebbe quindi le garanzie del soggetto amministrato ma le diminuirebbe, permettendo alla parte pubblica di scegliere il modulo in relazione alla propria convenienza ed evitando eventualmente profili di illegittimità o, come potrebbero emergere nel caso, di decadenza connessi al canale pubblicistico.
In secondo luogo, va considerato il valore cogente della normativa. In particolare, va sottolineato come, ove il legislatore abbia esplicitamente previsto l’utilizzo di un determinato procedimento, evidenziandone le garanzie connaturate, l’impiego di strumenti alternativi determini la messa in ombra della scelta medesima... L’attribuzione di un determinato potere alla parte pubblica e la contemporanea attribuzione di correlative posizioni soggettive ai privati non è senza esito, ma ne impone l’utilizzo in quanto, opinando diversamente, si renderebbe vana la predisposizione del modulo procedimentale da parte del legislatore.
Dalla serie di motivi sopra tratteggiati, emerge come non possa essere consentito alla pubblica amministrazione, in presenza di un potere pubblicistico, di agire anche ed indifferentemente alla stregua dell’operatore di diritto privato, quando ciò possa portare all’elisione di ulteriori garanzie procedimentali e pubblicistiche. In questo senso, la presenza di una potestà per il raggiungimento di un determinato risultato impone alla parte pubblica l’utilizzo del modulo autoritativo attribuitole e renda impossibile il ricorso alle ordinarie facoltà riservate ai privati”. (Cons. st. IV n. 2618/2011)[31].
Ben vengano dunque a tutto campo, de iure condito o de iure condendo, le qualificazioni pubblicistiche, la non alternatività degli strumenti privatistici, il principio della décision préalable e l’estromissione, nella giustizia amministrativa, dell’uso di istituti privatistici in quanto tali.
6. La subdola parità di fronte al giudice amministrativo. Rilievi critici.
Se l’ingresso di una logica privatistica determina un caduta della tutela del cittadino, cui viene così sottratto il ben più potente armamentario pubblicistico, non va sottovalutato un altro, e per certi versi, più sottile pericolo, e cioè che quel potente armamentario venga rivolto contro il cittadino.
In altre parole, nel primo caso, il cittadino si ritrova gli spuntati rimedi privatistici, nel secondo caso, si ritrova, con autentico capovolgimento, a subire i penetranti rimedi pubblicistici.
L’argomento non può essere qui approfondito poiché significherebbe parlare di tutto il processo, ma è sufficiente qualche domanda esemplificativa.
Possiamo pensare che il metodo acquisitivo dell’istruttoria processuale, nato per compensare la posizione di debolezza del privato, possa pienamente spiegarsi a tutto campo nei confronti di quest’ultimo, parimenti a come trova tradizionale applicazione nei confronti dell’amministrazione?
Possiamo pensare che il primato della tutela in forma specifica, che informa la giustizia amministrativa, e l’effetto conformativo, che di quel primato è espressione, possano altresì rivolgersi contro il privato?
Possiamo pensare che il penetrante strumento dell’ottemperanza, che ancora di quel primato costituisce corollario in sede di esecuzione, possa essere utilizzato contro il privato, magari con la nomina di un commissario ad acta che al privato si sostituisca?
Questi interrogativi dovrebbero già far comprendere come ci vorrebbe un’estrema prudenza nell’avallare generici proclami di “parità” tra le parti nel processo amministrativo, se non si vuole far diventare questo straordinario sistema di giustizia sorto a tutela del cittadino un autentico Giano bifronte al servizio della pubblica amministrazione.
7. Il caso della pronuncia in commento.
Il caso oggetto della pronuncia in commento si ricollega a quanto appena osservato, sebbene in un’ambientazione privatistica, dato che è in questa l’ambientazione che la giurisprudenza continua (discutibilmente) a collocare il tema della responsabilità nei rapporti di diritto pubblico.
Nella tradizione la responsabilità dell’amministrazione è sempre stata oggetto di un regime più rigoroso, risolvendosi l’illegittimità in una culpa in re ipsa: anzi è proprio questa la ragione che la risalente dottrina, da Vacchelli a Romano o a Cammeo, accampava per giustificare la necessità di addivenire ad una responsabilità di diritto pubblico, affrancata dal paradigma privatistico. Come è noto, oggi, a parte i vincoli del diritto UE, a correzione della infausta riesumazione della colpa da parte della Cassazione (n. 500/1999), la giurisprudenza amministrativa è attestata attorno all’idea di una presunzione relativa.
Il giudice ci dice, come si è visto, che “merita condivisione” e anzi “in un’accezione ancora più estesa” l’assunto del giudice di prime cure per il quale “al fine di dirimere una controversia che veda quale parte attrice l’Amministrazione, anziché il privato, debbano comunque essere utilizzate le categorie concettuali elaborate dalla giurisprudenza a parti rovesciate”. E con ciò si giustifica che anche la responsabilità precontrattuale del privato esiga l’accertamento del profilo soggettivo.
Pur salvifico, negli esiti, per il privato, è l’approccio che tuttavia non convince.
Verrebbe subito da dire che è del tutto normale che occorra il profilo soggettivo per la responsabilità del privato, e secondo i criteri ordinari, mentre è del tutto normale che invece tale profilo sia sottoposto ad un regime più rigoroso riguardo all’amministrazione. Ci appare dunque alquanto incongruo che, a “parti rovesciate”, il modello utilizzato per l’amministrazione venga utilizzato come parametro di quello utilizzato per il privato.
Si vuole forse che il modello più rigoroso utilizzato per l’amministrazione valga anche per il privato, ossìa una parificazione in peius per quest’ultimo?
Né affatto ci tranquilizza questa facilità con la quale si prospetta potenzialmente un ricorso in termini di generalità a siffatto schema delle “parti invertite” (“in un’accezione ancora più estesa”).
8. Conclusioni.
Anche questa nuova tematica delle azioni dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice amministrazione costituisce l’ennesima dimostrazione dei danni che possono arrecare al sistema della giustizia amministrativa e soprattutto alla tutela del cittadino le ventate “civilizzanti” di questi ultimi decenni.
E’ bene invece che la “logica” del diritto privato rimanga fuori dal processo amministrativo e che non si vada mai al di là, secondo tradizione, dell’utilizzo occasionale di questo o quell’altro istituto o frammento normativo, ben inteso, non in quanto tale e con la logica segnata dal sistema di provenienza, ma sempre attraverso una rimodulazione interna all’ordito giuspubblicistico.
Forse a tal fine sarebbe alquanto opportuno rivalorizzare l’origine amministrativa del reclutamento dei consiglieri di Stato, mentre quello attuale sembra invece pendere oltre misura a favore di soggetti provenienti dalla giurisdizione ordinaria, con una qualche inevitabile propensione ad un inquinamento privatistico della giustizia amministrativa.
[1] Più latamente, può anche evocarsi il giudizio di responsabilità amministrativa. Per quanto rimesso all’azione della procura contabile, è comunque significativo che la giurisprudenza contabile ammetta un qualche spazio d’iniziativa processuale dell’amministrazione: "l'Ente che si presume danneggiato (può) partecipare alla definizione della vertenza, che lo vede indubbiamente interessato, nella forma dell'intervento adesivo dipendente ad adiuvandum, col quale l'Ente stesso non fa valere un diverso autonomo diritto e nemmeno uno dipendente da quello oggetto del giudizio in corso, ma si limita a sostenere le ragioni del requirente contabile, avendone un evidente interesse” (C. conti, Sezioni Riunite n. 1/2003; da ult. C.conti d’appello, sez. III, n. 86/2020).
[2] M. Mazzamuto, Liti tra pubbliche amministrazioni e vicende della giustizia amministrativa nel secolo decimonono, in Dir. proc. amm., 2019, 344 ss.
[3] E. Follieri, Il privato parte resistente nel processo amministrativo nelle materie i cui agli artt. 33 e 34 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80, in Dir. proc. amm., 1999, 635-6.
[4] Ma già nella giurisprudenza francese, oltre al caso in cui il concessionario eserciti un potere autoritativo, T.C 8 juillet 1963 Société entreprise Peyrot, dove un contratto tra un concessionario privato e un’impresa privata è considerato un contratto amministrativo, in quanto concluso dal concessionario per conto dello Stato (cd. eccezione dell’azione pour le compte de), vedi CE, 10 mars 1971, Maurin, n. 76482; CE, 3 juin 2009, Sté Aéroports de Paris, n. 323594. Più di recente è emersa tuttavia una tendenza a restringere la portata di tale eccezione, facendo salva una qualificazione privatistica del rapporto contrattuale: TC, 9 juill. 2012, Cie générale des eaux, n. 3834, TC, 16 juin 2014, Sté d’exploitation de la Tour Eiffel n. 3944.
[5] E. Follieri, op. cit., 638, riguardo al controinteressato, e 644: l’organo indiretto “è resistente in quanto, nell'espletamento dell'attività diretta a scegliere il contraente, è parte «pubblica». Si tratta, dunque, di una apparente eccezione al principio che parte resistente debba essere un soggetto pubblico”.
[6] R. Chapus, Droit du contentieux administratif, Parigi, 2011, 351; già CE 30 maggio 1913 Préfet de l’Eure.
[7] “La giurisdizione non può essere adita che per via di ricorso formato contro una decisione, e questo, nei due mesi a partire dalla notificazione o dalla pubblicazione della decisione attaccata.
Allorché la domanda tende al pagamento di una somma di danaro, essa non è ricevibile se non a seguito dell’intervento della decisione presa dall’amministrazione su una domanda preventivamente presentatale” (R421-1 CJA). Persino la tradizionale eccezione dei lavori pubblici è stata di recente rimossa dal legislatore.
[8] M. Mazzamuto, Il principio del divieto di pronuncia con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati, Dir. proc. amm., 2018, 67 ss.
[9] Si tratta infatti di un processo che non può riguardare liti tra privati, ma che ha per oggetto l’impugnazione di un atto amministrativo, sicché non sono ammesse azioni dell’amministrazioni né in via diretta, né in via riconvenzionale: vedi, con i relativi riferimenti giurisprudenziali, F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2017, 58 ss..
[10] Nel sistema francese già CE, Ass., 1er juin 1956, ville de Nîmes c/ Pabion: l’amministrazione “non può formare un ricorso contro sé stessa” in via riconvenzionale.
[11] Da ultimo, invero, R. Caponigro, Il potere amministrativo di autotutela, in www.federalismi.it, 2017, ha sostenuto che, in conseguenza della riforma Madia, “la previsione di un termine perentorio per illegittimo esercizio di un potere di annullamento d’ufficio potrebbe produrre l’effetto di ampliare il perimetro di esperibilità del ricorso incidentale da parte delle amministrazioni resistenti in giudizio”. Una siffatta e innovativa prospettazione non sembra però avere riscontri giurisprudenziali e il cui avvento, a nostro avviso, non è nemmeno augurabile, sulla scorta delle perplessità già evidenziate da M. Del Signore, L' amministrazione ricorrente. Considerazioni in tema di legittimazione nel giudizio amministrativo, Torino, 2020, 38: “Si tratta di comprendere se così ricostruito il ricorso incidentale non finisca per rappresentare un’ipotesi di abuso di diritto. La scelta del legislatore di precludere all’amministrazione di intervenire su atti ampliativi oltre un certo limite temporale, e la conseguente valutazione in favore della necessità di una tutela privilegiata dell’affidamento del cittadino, verrebbe infatti stravolta attraverso l’espediente del ricorso incidentale”.
[12] E. Follieri, op. cit., 638: “del tutto non necessario ed inutile è il ricorso al giudice da parte della pubblica amministrazione che, attraverso l'esercizio dei poteri autoritativi, si impone ai destinatari della sua azione, con atti esecutivi ed esecutori, regolando il rapporto”.
[13] Da ult., CE 24 février 2016, n° 395194, département de L’Eure: “è irricevibile la domanda di una collettività pubblica al giudice amministrativo perché pronunci una misura ch’essa ha il potere di prendere. In particolare, le collettività territoriali, che possono emettere titres exécutoires nei confronti dei loro debitori, non possono adire direttamente il giudice amministrativo con una domanda tendente al recupero del loro credito”.
[14] F. Saitta, Articolo 21 ter, in N. Paolantonio, A. Police e A. Zito (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2005, 445
[15] Vedi al riguardo l’approfondita panoramica di G. Grüner, Il principio di esecutorietà del provvedimento amministrativo, Napoli, 2012, il quale peraltro ben evidenzia come il tentativo di scimmiottare l’ordinamento inglese fosse anacronistico, poiché anche in quell’ordinamento con l’avanzare del diritto amministrativo l’esecutorietà si era da tempo incardinata.
La giurisprudenza continua tutt’oggi a parlare di un “principio” di esecutorietà, trovando anche argomento nel combinato disposto degli artt. 2, comma1, e 21-quater della stessa legge: “al dovere di concludere il procedimento, previsto dall’art.2, comma 1, l. n.241/1990, si accompagna l’art. 21-quater della legge medesima, il quale dispone che ‘i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente’, sicché l’applicazione congiunta delle due disposizioni configura, in esplicazione del principio di esecutorietà dei provvedimenti amministrativi – ossia, della loro idoneità ad essere eseguiti, direttamente e coattivamente, dall’amministrazione senza necessità di precostituire un titolo esecutivo giudiziale – un potere-dovere dell’amministrazione di portare ad effettiva attuazione i propri provvedimenti emessi al termine del procedimento.” (Cons. st., sez. VI, n. 2565/2013). V. di recente ex multis Tar Calabria Catanzaro, sez. II, n. 1500/2020; Tar Campania Napoli, sez. VIII, n. 4515/2019; Tar Puglia Lecce, sez. I, n. 1837/2019; Tar Sicilia Palermo, sez. II, n. 1029/2019.
[16] Già E. Lafferière, Traité de la juridiction administrative et des recours contentieux, Paris, 1887, I, 414 : “Bisogna guardarsi da una assimilazione troppo stretta tra il diritto privato e il diritto amministrativo. In diritto privato, una parte può sempre citare direttamente il suo avversario davanti ad un giudice al quale espone la propria pretesa… In diritto amministrativo, al contrario, la parte non può, in generale, citare direttamente in giudizio un’amministrazione pubblica dinanzi la giurisdizione amministrativa per fare giudicare de plano le sue pretese; egli non può che deferire gli atti, le decisioni dell’amministrazione che pretende contrari ai suoi diritti. Questi atti o decisioni sono in qualche sorta la materia prima del dibattito contenzioso, se non esistono, bisogna che la parte li provochi al fine di poterli denunciare al giudice .. il Conseil d'État è il giudice degli actes de gestion e degli actes de puissance publique emanati da l’amministrazione tutte le volte che un altro giudice non ha ricevuto la missione di conoscerne”.
In nota precisa: “Questa regola soffre eccezione in certe contestazioni sottoposte ai consigli di prefettura, che possono farsene carico de plano senza che una décision administrative préalable sia necessaria per la ricevibilità dell’azione (per esempio, le domande d’indennità per danni causati dai lavori pubblici; per l’estrazione dei materiali, etc.). Ma queste sono delle eccezioni che confermano la regola”.
In sede di ricostruzione storica del ricorso di piena giurisdizione di fronte al Conseil d’Etat, lo ricorda anche S. Cassese, Il diritto amministrativo: storia e prospettive, Milano, 2010, 129: “almeno nella materia contrattuale, la giurisdizione amministrativa opera nei due sensi, sia per un privato che proponga azione contro l’amministrazione, sia per l’amministrazione che proponga azione contro un privato”.
[17] Di recente, sembra riportare più ad una ragione “tecnica” che processuale l’origine di queste eccezioni, ovvero sia alla necessità, stabilita dalla legge, di rivolgersi ad un organo consultivo composto da ingegneri e capace di determinare il danno, J. Ziller, Verwaltungsgerichtsbarkeit: Frankreich, in A. von Bogdangy, P. Cruz Villalón and PM Huber (eds), Ius Publicum Europaeum, Band VIII. Grundlagen und Grundzüge staatlichen Verfassungsrechts, 2nd edn (Heidelberg, CF Müller), p. 205: “Con la legge del 28 Pluviôse dell'anno VIII (17 febbraio 1800), che ha portato alla riforma territoriale e amministrativa napoleonica (loi concernant la division du territoire de la République et l'administration), sono stati anche istituiti i Conseils de préfecture. In linea di principio, i ministri rimanevano giudici ordinari di primo grado (juges de droit commun de premier ressort) ma solo in modo residuale, perché gran parte delle controversie amministrative era in realtà assegnata a questi organi collegiali consultivi separati dalla cosiddetta amministrazione attiva, ossìa dagli organi con poteri decisionali.
Questa legge del 28 Pluviôse dell'anno VIII conferiva ai Conseils de préfecture, composti da ingegneri e amministratori, giurisdizione in materia di edilizia pubblica e ingegneria civile (travaux publics), imposte dirette e vendita di proprietà demaniale, e una legge del 29 Floréal dell'anno X (19 maggio 1802) le cosiddette contraventions de voirie (sanzioni amministrative per danni al demanio). Il CE era l'organo di appello sia per le decisioni dei ministri che per quelle dei Conseils de préfecture. Va notato che questo riparto della giurisdizione ha portato allo sviluppo di competenze legali e tecniche in materia di responsabilità nei Conseils de préfecture e nel CE, poiché essi dovevano risarcire i danni arrecati da privati al demanio, così come soprattutto i danni subiti da privati a causa di opere di ingegneria civile o a causa dello stato di strade, ponti ed edifici demaniali. Questo spiega perché fu facile per il Tribunal des Conflits nel caso Blanco nel 1873 affidare alla magistratura amministrativa la giurisdizione in materia di responsabilità pubblica”.
[18] Già CE 30 mai 1913 Préfet de l’Eure. Vedi le conclusioni di Luc Derepas nel caso Cne de Lattes del 2007 (2 juillet 2007, n° 294393): “la volontà di limitare il carattere unilaterale dell’azione amministrativa e la preoccupazione di lasciare ai meccanismi contrattuali tutto il loro spazio, compreso ciò che concerne il ruolo del giudice del contratto, vi ha portato a riconoscere la possibilità per l’amministrazione, parallelamente alla procédure de l’état exécutoire, di domandare a questo giudice di condannare il cocontrattante a pagare le somme che deve in applicazione della clausole contrattuali” .
[19] CE 24 février 2016, n° 395194, département de L’Eure, cit… Vedi anche le conclusioni di M. Gilles Pellissier che dà conto della progressiva espansione della evocata eccezione.
Non vanno inoltre dimenticate le espresse previsioni codicistiche che consentono di adire il juge des référés (R. 541-1 e R532-1 CJA).
[20] Già Consiglio d’Intendenza Generale di Alessandria, sentenza 6 marzo 1845, ivi, 1850, 127, riguardante opere praticate da un privato col mezzo di alzamento di diga in un fiume regale a danno di un terzo : “la contestazione si ridurrebbe tra privato e privato per interesse meramente privato, senza che siavi interessato quello del pubblico, per cui ne verrebbe che il tribunale amministrativo non potrebbe giudicare la controversia in così fatto modo stabilita, perché eccederebbe la sfera della sua competenza”. Tuttavia, non era un limite assoluto, come mostra l’articolo 22, n. 8 delle regie patenti 31 di cembre 1840, giusta il quale furono attribuite alla cognizione dei Consigli d'intendenza le controversie relative ai danni cagionati a terzi dal fatto degli imprenditori nell'eseguimento dei lavori pubblici dalle amministrazioni ordinanti, pur precisando Consiglio d’Intendenza Generale di Casale, sentenza 16 aprile 1845, ivi, 1850, 279, che doveva trattarsi di controversia insorta per danni provenienti da lavori “in attuale esecuzione”, e non quelli già “condotti a fine e collaudati”.
[21] Basti ricordare quanto affermato da Silvio Spaventa nel famoso discorso di Bergamo del 7 maggio 1880, in ciò che Egli riteneva di positivo nella legge abolitiva del contenzioso amministrativo: “abolire quell'istituto, nei termini in cui si trovava costituito poiché l'usurpazione mostruosa, che gli era stata permessa, di giudicare anche sopra controversie di puro privato diritto, - inter privator et fircum - non era più tollerabile, anche se ai suoi giudici fosse stata data l'indipendenza e le garentie di procedimento concesse e prescritte ai giudici ordinari”.
Non a caso, nelle riforme della seconda metà del XIX, si è visto recidere quel nesso tra obbligazioni e atti amministrativi presente sin dalle origini del contenzioso amministrativo: F. Merusi, Dal 1865 ... e ritorno ... al 1864. Una devoluzione al giudice ordinario della giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione a rischio di estinzione, in Dir. proc. amm., 2016, 671.
[22] Puntualmente E. Follieri, op. cit., 648, “È … accaduto che l'attribuzione delle materie in via esclusiva al giudice amministrativo, ha determinato una «pubblicizzazione» dei rapporti attraverso l'applicazione dei principi relativi all'azione autoritativa anche nel caso dei diritti soggettivi obblighi”. Vedi su questi sviluppi della giurisdizione esclusiva, M. Mazzamuto, Il riparto di giurisdizione. Apologia del diritto amministrativo e del suo giudice, Napoli, 2008, 88ss..
[23] La vicenda è ben riportata da E. Follieri, op. cit., 649.
[24] E’ all’insegna di una siffatta discutibile vulgata che si basa, non a caso, tutto un impegno monografico per valorizzare la domanda riconvenzionale, A. Di Giovanni, La domanda riconvenzionale nel processo amministrativo, Padova, 2004.
[25] E. Follieri, op. cit., 650 ss..
[26] S. Veneziano, Ampliamento dell’oggetto del giudizio “amministrativo” risarcitorio: domanda riconvenzionale e chiamata in giudizio del terzo, in Foro amm. TAR, 2002, 3081 ss..
Di lì a poco verrà pubblicata una prima monografia sulla domanda riconvenzionale: A. Di Giovanni, La domanda riconvenzionale nel processo amministrativo, Padova, 2004.
[27] Vedi G. Eveillard, Le juge administratif et les astreintes prononcées contre les personnes privées, comm. CE, 5 févr. 2014, n° 364561, in Droit Administratif, 2015, 36 ss..
[28] Per una critica alla tendenza della Cassazione ad intromettersi in materia di responsabilità derivante da rapporti di diritto pubblico, M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell'affidamento, in Dir. proc. amm., 2011. Da ult., su queste tematiche, G. Tropea, A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (Nota a Cass., Sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236), e M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136), entrambi in questa Rivista, 2020.
[29] Ex multis Cass. s.u. n. 6019/2016: «costituisce principio pacifico e risalente nella giurisprudenza di legittimità che l'attribuzione a privati dell'utilizzazione di beni del demanio o del patrimonio indisponibile … può essere legittimamente attribuito ad un soggetto diverso dall'ente titolare del bene solo mediante concessione amministrativa».
[30] R. Chapus, op. cit., 478.
[31] In senso contrario, Cons. st. IV, n. 2833/2015; Ad. pl. n. 28/2012 cit.. Anche M. L. Guida, L’esecuzione coattiva delle pretese amministrative, in Federalismi, 2017, 6, ritiene che “il criterio dell’alternatività degli strumenti di tutela (e quindi dell’inesistenza di un obbligo di agire in autotutela e della facoltà di avvalersi anche degli strumenti di tutela giurisdizionale ordinari) appare tuttavia il più affidabile”.
Ma già E. Cannada Bartoli, L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, 123: “In virtù del principio dell’esecutorietà, l’autorità amministrativa di solito non promuove giudizi, ma si avvale del potere di autotutela. Pure può accadere che preferisca rendersi attrice, sia perché voglia realizzare l’effetto pratico ripromessosi assistita dalla particolare autorità della cosa giudicata, sia perché l’effetto non sia conseguibile con l’esecutorietà, sia ancora perché questa nella specie manchi”.
Il caso Schwazer. Tra metodo scientifico, prova logica e libero convincimento
di Maurizio Ascione
L’Autore descrive le caratteristiche della legge speciale in materia di doping ed affronta poi il percorso motivazionale seguito dal Gip di Bolzano, in particolare l’approccio rigorosamente scientifico, che il giudice ha mostrato, nella disamina della vicenda a carico dello sportivo altoatesino. Emerge dal testo chiaramente come il giudice abbia inteso scrupolosamente analizzare tutte le possibili cause della positività del materiale biologico riferibile all’atleta, tenuto conto, al tempo stesso, della anomalia derivante dalla forte concentrazione di DNA nei valori delle urine di Schwazer. Il gip, nell’iter argomentativo, stigmatizza la gestione a dir poco pressapochista del materiale biologico, per palese violazione delle fondamentali regole sottese alla c.d. catena di custodia del campione destinato all’esame, essendone derivata la completa inaffidabilità del risultato oggetto della contesa, con grave pregiudizio all’immagine dell’atleta e alla credibilità di tutto il movimento olimpico, nello sport regina quale è la atletica leggera.
Le conclusioni si apprezzano per essere espressione di analisi scientifica e specialistica della materia, dato che la soluzione della indagine penale richiedeva la precondizione della acquisizione consapevole, e poi della elaborazione responsabile, di dati e informazioni di portata metagiuridica e di particolare rilevanza. Inoltre, le conclusioni del gip sono il segno del rinnovato riconoscimento di piena dignità alla prova logica, ovvero alla ricostruzione indiretta e problematica degli avvenimenti storici, nel difetto o nella inutilità di evidenze che non scontano eccezioni.
Il metodo scientifico contiene in sé leggi matematiche, ma poi anche leggi suscettibili di interpretazione e discussione, il che impone al giudice uno sforzo ulteriore e maggiormente responsabile, ai fini del decidere, e proprio qui è possibile meglio saggiare il profilo del libero convincimento. Il contrasto e la opinabilità delle regole cautelari di settore non dovrebbero, di per sé, costituire motivo di denegata giustizia, in materie peraltro di rilevanza assoluta, come lo sono quelle della tutela penale del diritto alla salute e alla integrità della persona, che il Costituente richiede vengano affermate senza condizioni, senza arretramenti.
Sommario: 1. L’archiviazione della indagine - 2. La catena di custodia – 3. Il metodo scientifico – 4. La prova logica – 5. Il libero convincimento del giudice.
1. La archiviazione della indagine
L’ordinanza di archiviazione del Gip presso il Tribunale di Bolzano, datata 18.2.21, interviene sulla nota vicenda, risalente al gennaio 2016, di sospetta assunzione sostanze dopanti da parte del campione di atletica leggera Alex SCHWAZER, indagato in relazione all’art. 9, co. 1, legge n. 376 del 14.12.2000 (attualmente art. 586-bis c.p.), perché questi avrebbe fatto uso di testosterone al fine di migliorare le prestazioni sportive.
Va ricordato che la tutela penale del doping, con la legge del 2000, ha trovato una propria collocazione sistematica, mediante la introduzione di una fattispecie che tende ad anticipare l’intervento giudiziario, dinanzi ad interessi di rango costituzionale, quali la salute pubblica e la integrità psico-fisica di atleti, professionisti o dilettanti, per il ricorrere inoltre della esigenza del regolare e trasparente svolgimento delle competizioni agonistiche.
E, infatti, il legislatore persegue ogni attività prodromica alla concreta assunzione della sostanza, introducendo un reato di pericolo che previene già solo il rischio della messa in circolazione dei relativi farmaci, senza attendere la l'individuazione di specifici acquirenti – assuntori[1]; il reato di assunzione di sostanze dopanti non si consuma, cioè, al momento dell'assunzione della sostanza vietata, in ragione del fatto che, per la natura di reato di pura condotta e di pericolo presunto, il dato della alterazione delle prestazioni agonistiche permane fino a quando la sostanza dopante è idonea a modificare le condizioni psicofisiche e biologiche dell'atleta che l'ha assunta[2].
Ed è in tale contesto che il Gip di Bolzano interviene, individuando in particolare una serie di standard cautelari per la conservazione e la analisi dei campioni biologici, da cui ricavare la eventuale presenza di sostanze dopanti; ciò, evidentemente, da un lato, nell’obiettivo di assicurare la bontà e la attendibilità del risultato tecnico di esame (ai fini poi del buon esito dell’accertamento delle responsabilità penali e civili per le condotte illecite commesse), dall’altro lato, allo scopo di garantire per primo l’atleta dal rischio di risultati falsati e pregiudizievoli della propria carriera di sportivo.
Da qui muove, dunque, quella parte della ordinanza giudiziale di Bolzano che elenca e sviscera le condizioni tecnico – prevenzionali dirette a garantire la seria ed effettiva “catena di custodia” del materiale biologico da esaminare.
Il Gip realizza un tale sforzo ricostruttivo attraverso la censura, forte, delle tante e gravi carenze nella conservazione e nella gestione del campione di urine di Schwazer, necessario per stabilire la presenza o meno nell’organismo dell’atleta della sostanza dopante testosterone.
Il campione era stato custodito presso il Centro tedesco per la ricerca preventiva sul doping della Deutsche Sporthochschule di Colonia, primo Osservatorio europeo per l’individuazione precoce dei metodi e dei farmaci potenzialmente dopanti.
Il Centro di Colonia si occupa di tenere contatti e cooperare con l'industria farmaceutica, ricercare in letteratura scientifica le sostanze con effetti di miglioramento delle prestazioni (anche mediante esperimenti sugli animali), valutare le domande di brevetto e gli annunci in borsa dell'industria farmaceutica, cooperare con le autorità nazionali ed europee dei farmaci, monitorare il mercato nero e i suoi sviluppi attraverso una stretta collaborazione con la polizia e le dogane.
I relativi risultati vengono trasmessi all'Agenzia Mondiale Antidoping (WADA), che decide se aggiungere una nuova sostanza alla lista delle sostanze proibite.
Tuttavia, la vicenda Schwazer del gennaio 2016 si era mostrata fin da subito dubbia, il Gip aveva riscontrato, cioè, che proprio quelle Autorità internazionali, chiamate ad elaborare tecniche e protocolli di monitoraggio e contrasto alla produzione e circolazione di sostanze dopanti, come World Anti-Doping Agency (WADA), nella specie, avevano mostrato una certa riluttanza alla collaborazione e alla implementazione del materiale istruttorio processuale, necessario ad accertare il reale svolgersi dei fatti, nell’ambito del procedimento penale a carico dello sportivo altoatesino.
Il giudice di Bolzano, all’esito del procedimento, quindi non ha potuto risparmiare pesanti critiche alla condotta processuale di WADA, a quella anche della Associazione Internazionale delle Federazioni di atletica leggera (IAAF), oltre che dello stesso laboratorio antidoping di Colonia, siccome ritenuti di aver fornito un cattivo contributo al lavoro della magistratura italiana e di quella tedesca, ai fini dell’accertamento della responsabilità nel caso Schwazer del 2016; in una vicenda, tra l’altro, di sicuro interesse internazionale, non soltanto sportivo, in ragione della prossimità degli eventi in disamina alle Olimpiadi di Rio, e ovviamente per gli enormi interessi commerciali e pubblicitari legati al settore dello sport, e dell’atletica leggera in particolare, a livello olimpionico, laddove si assiste al concorso di atleti in grado di rendere prestazioni di portata mondiale.
2. La catena di custodia
Proprio stigmatizzando la condotta della Organizzazione internazionale anti – doping, il Gip ricava, a contrario, quelle regole cautelari, specifiche del settore, che occorre necessariamente adottare, al fine di garantire un affidabile, genuino, risultato sulla possibile presenza di sostanze dopanti all’interno di campioni biologici di persona dedita professionalmente (piuttosto che come dilettante) ad una certa disciplina sportiva.
La disamina del giudice di Bolzano è dunque chiara manifestazione di un approccio “scientifico” all’istruttoria processuale[3], in una materia, come quella del doping, dove non è possibile sottrarsi alla interpretazione e alla applicazione di protocolli e di procedure tecniche di analisi, che la comunità scientifica, di livello internazionale, mette a disposizione dell’operatore giuridico, per la soluzione del caso concreto.
Nella vicenda Schwazer in particolare, il metodo scientifico viene dal giudice impiegato al fine di saggiare la serietà e il rigore nel trattamento, nella conservazione, nella elaborazione e nella gestione dei campioni biologici dell’atleta, da cui eventualmente riscontrare la presenza di sostanze dopanti.
Ebbene, il Gip di Bolzano intravede qui una serie di carenze e lacune di una gravità tale da indurre l’organo giudicante medesimo a considerare, non soltanto completamente inattendibile il risultato tecnico che si attendeva, ma addirittura l’atleta altoatesino come vittima di una preordinata alterazione delle prove biologiche, allo scopo di pregiudicarne, mediante condotte che il Gip stesso non esita in conclusione a definire di rilevanza penale, i successivi sviluppi di carriera sportiva.
Le provette contenenti i campioni biologici di Schwazer, infatti, sarebbero state non anonime, non sarebbero state sigillate e sarebbero state scongelate anzitempo; peraltro, quand’anche le medesime provette fossero state sigillate, esse risultavano suscettibili di manomissione a piacimento, senza che di ciò rimanesse traccia; non era poi custodito, presso un laboratorio terzo, un ulteriore campione biologico dello sportivo, con conseguente definitivo pregiudizio della possibilità di incrociare i risultati ed evitare errori nelle conclusioni.
Sono queste emergenze fattuali ad indurre il Gip a denunciare la presenza quanto meno di lacune nella c.d. catena di custodia dei campioni biologici dell’indagato.
3. Il metodo scientifico
L’approccio scientifico al caso caratterizza tutto l’iter motivazionale del provvedimento, perché poi il giudice cerca di scandagliare tutti i possibili fattori eziologici concorrenti, esclusivi o compatibili che siano, servendosi in questo del contributo tecnico fornito dai consulenti e dalle investigazioni di PM e difesa, calando nella vicenda di interesse tutta la miglior scienza ed esperienza di settore, disponibile nel momento storico[4].
Il Gip segue cioè un rigoroso percorso di analisi delle possibili cause di presenza della sostanza dopante, e soprattutto della anomala concentrazione di DNA, all’interno del campione biologico dell’atleta, studiando le diverse ipotesi e scartandole soltanto dopo averle guardate in tutte le prospettive, e dopo averle poste a confronto con gli ulteriori eventuali fattori concorrenti.
Il Gip di Bolzano ha dovuto affrontare il problema della presenza, sì, di testosterone nelle urine dello sportivo, ma unitamente alla anomala concentrazione di DNA nel campione biologico; ed è stato proprio quest’ultimo dato ad indurre il giudice a dubitare della “naturalità”, della genuinità, del campione prelevato e, mediante una istruttoria processuale di portata appunto scientifica, farlo concludere nel senso della avvenuta manipolazione del materiale biologico, a danno in primo luogo dell’atleta interessato dalla vicenda penale in quanto indagato.
Viene evidenziato nell’ordinanza di archiviazione che tutti i campioni di comparazione hanno mostrato decadimento di oltre il 90 %, dunque quantità minimale di DNA, ad eccezione dell’urina prelevata ad Alex Schwazer, che nello stesso termine di paragone variava ancora tra 1000 e 2500 pg/μl, era perciò tra le venti e le cinquanta volte superiore a quella normalmente presente nell’urina appena prelevata, e centinaia di volte superiore a quella congelata.
Dato ancor più eclatante, prosegue il gip, se si considera che i campioni dell’atleta erano stati già più volte scongelati e ricongelati presso il laboratorio di Colonia (in sede di analisi, controanalisi e consegna al perito), subendo così un maggior stress termico, rispetto a tutti gli altri campioni acquisiti in corso di perizia, scongelati e ricongelati un numero minore di volte (considerando che lo stress termico costituisce per tutti i campioni ulteriore causa di decadimento del DNA ivi presente).
Il giudice rileva poi come l’anomala concentrazione di DNA non possa essere stata determinata da una patologia sofferta dall’indagato al tempo del prelievo, per essere del tutto impensabile che uno sportivo, abituato ad allenamenti quotidiani estremi, possa trascurare, per giunta a pochi mesi dalle Olimpiadi, di sottoporsi ai dovuti accertamenti sanitari, nel caso abbia avuto qualche sintomatologia, fosse anche solo un po’ di generica debolezza.
Il giorno del prelievo urinario (risalente all’1.1.16), evidenzia il gip, Schwazer marciava per quaranta chilometri, in preparazione della gara per vincere una medaglia olimpica e, nonostante un intenso allenamento quotidiano, egli non accusava alcun sintomo; a tutto concedere, prosegue il giudice, occorrerebbe pensare ad una patologia, non soltanto completamente asintomatica, ma anche non particolarmente incidente sulla condizione atletica, visto l’impegno di marcia quotidiano e svolto per percorsi lunghi; ma Schwazer poi si sottoponeva a continui e accurati accertamenti sanitari, impostigli dall’allenatore, presso una struttura ospedaliera.
Analogamente, viene dal Gip escluso che la forte concentrazione di DNA sia piuttosto ricollegabile alla presenza di doping nelle urine: infatti, si legge in ordinanza, essere estremamente inverosimile che l’assunzione di una dose o, ipoteticamente, di alcune dosi dal dicembre 2015, possa produrre effetto dopante (i controlli del periodo avevano, del resto, fornito esito negativo sulla presenza di doping).
Ma qui è la stessa assunzione della dose ad apparire inverosimile, in quanto, per determinare lo sperato incremento delle prestazioni sportive, l’assunzione del doping deve protrarsi per un tempo molto più lungo, e sino in prossimità dell’evento sportivo, sicché un’ipotetica assunzione del genere, avvenuta molti mesi prima delle Olimpiadi di Rio, sarebbe stata del tutto insensata; non vi è comunque alcuna evidenza scientifica del fatto che anche una massiccia assunzione di testosterone possa produrre un aumento della concentrazione del DNA.
Una tale serie di equivoci avvenimenti spinge, quindi, il Gip a giustificare diversamente, e in termini inquietanti, la anomala concentrazione di DNA nel campione in esame: ossia come conseguenza di una preordinata, criminale, manipolazione del campione biologico, a danno dell’immagine e delle prospettive agonistiche dell’indagato, ma in fondo a danno della fiducia riposta in tutta la comunità internazionale impegnata nella promozione e nella organizzazione delle gare olimpiche.
Dice il Gip: addizionando all’urina di Schwazer altra urina dopata, eventualmente depurata del DNA, ove proveniente da altro soggetto, mediante semplice esposizione ai raggi UVA, e poi, riequilibrando la diluizione così creata mediante concentrazione dell’urina, per esempio tramite riscaldamento ed evaporazione dell’acqua onde riconcentrare il testosterone ed i suoi metaboliti, si sarebbe ottenuta la positività del campione, ma finendo però per concentrare anche tutto il resto, incluso il DNA.
Il perito ha, infatti, chiarito come sia sufficiente esporre un campione d’urina ai raggi ultravioletti, apparecchiatura presente, per ragioni di disinfezione, in qualunque laboratorio, per distruggere totalmente il DNA in esso contenuto. Il risultato sarà, comunque, quello di un’urina che presenta solo il DNA della provetta non esposta al predetto trattamento, cioè quella che si vuole manipolare.
La circostanza che nell’urina dell’1.01.2016 non sia stato trovato DNA diverso da quello di Alex Schwazer non consente, dunque, affatto di escludere che la stessa sia stata manipolata con l’aggiunta di altra di un soggetto dopato, previamente reso agevolmente del tutto irrintracciabile nel modo, rapido e non invasivo, appena citato.
L’effetto di tale procedura finalizzata a concentrare la sostanza dopante, per esempio tramite il riscaldamento dell’urina e l’evaporazione di parte dell’acqua in essa contenuta, è una progressiva concentrazione di tutte le sostanze in essa contenute che sfuggono all’evaporazione.
Ciò comporta, non solo la concentrazione del testosterone esogeno, voluta dal manipolatore, ma anche di tutto il resto, incluso il DNA e ciò che la perizia ha definitivamente accertato è proprio una concentrazione del tutto anomala, innaturale, del DNA.
Del resto, la manipolazione, oltre a costituire l’unica spiegazione verosimile della concentrazione di DNA riscontrata (a differenza di pregressa patologia o altra causa), non poteva che essere del tutto agevolata dalla non anonimità dei campioni e dal sostanziale aggiramento della catena di custodia (provette non sigillate all’interno del laboratorio di Colonia o liberamente alterabili).
E tali conclusioni, precisa il giudice, non possono essere demolite dalla alternativa di una più semplice aggiunta di testosterone all’urina di Schwazer: perché, in tal senso, si evidenzia, per simulare in maniera credibile l’assunzione di doping, occorrerebbe aggiungerne la giusta dose.
Se ne viene aggiunto un quantitativo eccessivo, il valore potrebbe apparire del tutto inverosimile e diverso da tutti gli altri casi di positività riscontrati alla stessa sostanza; viceversa, se ne viene aggiunto troppo poco, si rischia di non raggiungere la soglia di rilevazione della positività.
Ma si potrebbe prediligere anche un altro metodo: quello di aggiungere altra urina già dopata, anche se naturalmente l’effetto di diluizione creato dall’aggiunta deve essere controbilanciato, concentrando l’urina mediante riscaldamento ed evaporazione: l’effetto di nuovo è di concentrare tutto il contenuto, il DNA compreso.
Del resto, dal punto di vista tossicologico la “semplice” aggiunta di testosterone sarebbe stata facilmente smascherata da una analisi tossicologica, perché quello che si rileva nell’urina non è una singola molecola esogena (il testosterone appunto), ma una “famiglia” di molecole, che costituisce un pattern che con la molecola “madre” raggruppa diverse molecole “figlie” (metaboliti e cataboliti). E questa situazione è molto difficile da simulare.
4. La prova logica
Dunque, la analisi approfondita del caso, mediante un opportuno e pregevole approccio scientifico, induce il gip a ritenere che l’unica spiegazione della concentrazione di DNA sia quella che l’urina abbia subito un trattamento artificiale, attraverso il riscaldamento che ha provocato, per evaporazione, una progressiva concentrazione di tutte le sostanze contenute.
Il passaggio motivazionale del Gip, quindi, costituisce espressione proprio dell’esercizio “logico” di ponderazione e di valutazione delle evidenze fattuali a disposizione del processo; un esercizio non necessariamente agganciato a soli dati oggettivi, documentali e diretti.
Verosimilmente la conclusione per la archiviazione del caso (dunque un atto favorevole all’indagato) ha consentito al gip di poter più agevolmente poggiare sulla prova indiretta, maggiormente esercitando un certo potere discrezionale di apprezzamento, nell’esercizio del principio del libero convincimento; mentre magari una alternativa processuale meno favorevole al reo avrebbe fatto incontrare al decidente maggiori ostacoli per una scelta, per così dire, meno vincolata e più espressione di confronto e dialettica di giudizio.
Questo sembra del resto trasparire da quel passaggio della ordinanza di archiviazione in cui si legge: noi non abbiamo una prova diretta della manipolazione, ma abbiamo un dato, quello appunto relativo alla concentrazione del DNA, che trova, allo stato, adeguata ed unica spiegazione proprio nell’ipotesi della manipolazione. L’assenza di una prova diretta, della “pistola fumante”, è indubbia, ma certo tale circostanza non consente di considerare irrilevante o addirittura insussistente il quadro di contesto che ha prodotto numerosi, gravi e convergenti elementi indiziari che tale ipotesi sostengono in modo coerente e notevolmente significativo.
Nel lungo e articolato contraddittorio non sono emerse ipotesi alternative, pur ampiamente esplorate, che, anche solo parzialmente, fornissero coerenza e logicità.
In altre parole non solo l’ipotesi manipolazione consente di spiegare come e perché sia avvenuta quella anomala concentrazione del DNA, ma questa costituisce, allo stato, anche l’unica spiegazione convincente.
La possibilità che essa possa essere connessa al super allenamento cui gli atleti si sottopongono è stata, infatti, sperimentalmente esclusa.
La possibilità che essa sia dovuta ad una qualche patologia transeunte e asintomatica si è rilevata sfornita di qualsiasi appiglio concreto ed è smentita dai continui accertamenti medici cui l’indagato si sottoponeva.
L’ipotesi che tale così elevata concentrazione derivi proprio dal doping è del tutto inverosimile, e tale è ritenuta anche dal consulente della stessa WADA (che riferisce: “non si capisce per quale meccanismo i dopati dovrebbero urinare più cellule” e ciò vale a più forte ragione per chi abbia assunto testosterone per breve tempo).
Rimane quindi la manipolazione, che è di gran lunga l’ipotesi più concreta, convincente e coerente con le evidenze, tra esse non ultime le enormi lacune della catena di custodia, come: a) il fatto che l’atleta, al quale il campione d’urina si riferisce, è immediatamente riconoscibile; b) vi sono aliquote d’urina non sigillate e perciò stesso liberamente utilizzabili da quanti vi abbiano accesso; c) anche i campioni sigillati possono essere agevolmente manomessi lasciando tracce che solo una perizia potrebbe accertare ; d) non vi è alcuna reale garanzia per l’atleta, visto che tutte le aliquote sono custodite nel medesimo laboratorio e nessuna è preservata in luogo terzo).
Si tratta, certo, di una prova logica, ma proprio in quanto fondata su un dato concreto, altrimenti non spiegabile, corredato, peraltro, da una serie impressionante di indizi gravi, precisi e concordanti, essa è non meno solida di una prova documentale.
5. Il libero convincimento del giudice
Il dato di fondo che si ricava dalla pronuncia in commento è quello della possibile convivenza tra l’istruttoria basata sul metodo e sul sapere scientifico (istruttoria resa necessaria e indifferibile dall’emergere di regole di condotta specialistiche, a cui bisogna rapportare la vicenda del caso concreto) ed una decisione che sia reale espressione del principio libero convincimento del giudice (mediante il giusto peso probatorio da attribuire anche alle evidenze probatorie logiche o indirette; e non soltanto ai dati fattuali di indiscussa ed immediata percezione, ed anche quando l’esito processuale non si prospetti del tutto favorevole all’indagato).
La vicenda Schwazer andrebbe, cioè, messa a confronto con tante per certi versi analoghe vicende giudiziali, in cui, di nuovo, la componente tecnico - scientifica gioca un ruolo fondamentale per il giudice, ai fini della analisi e della valutazione del caso concreto; il quale (caso), a stretto rigore, andrebbe sempre guardato nella esclusività dei suoi contorni e delle sue peculiarità, e non andrebbe perciò mai confuso con altro caso, seppur (apparentemente) ad esso quasi o del tutto sovrapponibile.
Nell’ambito dei c.d. reati professionali o di impresa, sia quelli puniti a titolo di dolo, sia soprattutto quelli che richiedono la prova della colpa speciale e specialistica, occorre certamente fare riferimento al metodo scientifico e all’approccio competente e responsabile alla singola vicenda; ma non tutte le regole cautelari e non tutto il sapere scientifico poggiano inevitabilmente su criteri matematici e di automatismo risolutivo.
Molte discipline, infatti, pur pacificamente assurgendo al rango di scienza, non possono, per proprie caratteristiche strutturali, garantire risultati in termini di certezza e di riscontro matematico[5]; ciononostante esse conservano una propria dignità ai fini della ricostruzione dei processi causali ed, anzi, sempre maggiore nella pratica e nelle relazioni sociali ed economiche si presenta il numero di discipline, non universali, a cui occorre comunque guardare ai fini del giudizio.
Si afferma che le leggi scientifiche sono non soltanto quelle della certezza (c.d. leggi universali), che esprimono come tali una regolarità di successioni dei fenomeni non smentita da eccezioni, perché scientifiche sono anche le leggi statistiche (o probabilistiche), che ugualmente possono rientrare nel bagaglio istruttorio, specialistico, a disposizione del giudice ai fini della decisione del caso.
In quest’ultima ipotesi, evidentemente, spetterà al giudice un onere motivazionale particolarmente puntuale e rigoroso, per dar conto di una scelta che si caratterizzerà per l’esercizio di una certa discrezionalità; la quale, tuttavia, non dovrebbe rappresentare attentato alcuno alle garanzie difensive di portata costituzionale dell’imputato, quando ovviamente (la discrezionalità) venga esercitata attraverso approccio consapevole e responsabile dell’organo decidente, il quale guardi e riguardi a ciascun possibile fattore causale concorrente, in tutte le sue sfaccettature, lo ponga poi in relazione con gli altri fattori, saggiandone la compatibilità piuttosto che il conflitto e, in definitiva, ne fornisca il giudizio di valore ed il peso specifico nella vicenda concreta, alla luce dei dettami di cui agli artt. 40 e 41 codice penale.
Del resto, la inadeguatezza delle leggi universali per spiegare il succedersi di tutti i fenomeni, connessa al loro ristretto numero, in rapporto alla infinità e alla esclusività della casistica processuale, unitamente al dato obiettivo secondo il quale non sono sempre conosciute tutte le condizioni necessarie o l’intero meccanismo di produzione di un evento di danno, non dovrebbe avere come conseguenza la resa e la sostanziale abdicazione nella tutela, anche in sede penale, di beni giuridici assoluti e di rango costituzionale, come la salute del singolo e la salute pubblica, la tutela del patrimonio ambientale e la vita umana (artt. 2, 9, 32 Cost.).
Una soluzione alternativa può e deve essere quella della risposta giudiziale alla domanda di giustizia, attraverso lo sforzo massimo, rigoroso e severo, da parte del giudice, chiamato ad affrontare la singola vicenda, anche la più critica, anche quella più contrastata.
Ai fini dell'accertamento sull'esistenza di una legge scientifica di copertura il giudice, infatti, tramite documentata analisi della letteratura scientifica in materia, con l'ausilio di esperti qualificati ed indipendenti, è tenuto a valutare l'attendibilità di una determinata teoria attraverso la rigorosa verifica di una serie di parametri oggettivi, tra cui la validità degli studi che la sorreggono, le basi fattuali su cui gli stessi sono stati condotti, l'ampiezza e la serietà della ricerca, le sue finalità, il grado di consenso che raccoglie nella comunità scientifica e l'autorevolezza e l'indipendenza di chi ha elaborato detta tesi; ed il contrasto di opinioni scientifiche non è di per sé sufficiente ad escludere l'esistenza di una legge di copertura, ove non si verifichi il grado di indipendenza degli esperti e la validità delle argomentazioni sottese alle opinioni antagoniste [6].
Una soluzione che, invece, esiga automatismi e regole valide per tutte le stagioni[7], dove al giudice venga sottratto ogni potere di conformazione della regola cautelare al caso concreto, e venga in definitiva impedito il passaggio dalla fase della norma generale e astratta alla fase della individualizzazione e del riscontro pratico, potrebbe costituire un indietreggiamento nella difesa di valori di portata costituzionale (come salute e ambiente), che il legislatore pretende che avvenga anche in sede penale, nonostante lo stretto perimetro delle garanzie sostanziali e procedurali ivi presente, grazie ad un impegno interpretativo e di reale adattamento del sapere scientifico alla molteplicità della casistica processuale.
[1] Cass. Sez. 3^ , Sentenza n. 26289 del 14/05/2019 Ud. (dep. 14/06/2019 ) Rv. 276083 – 01; Cass. Sez. 2^, Sentenza n. 2640 del 10/11/2016 Ud. (dep. 19/01/2017 ) Rv. 269315; Cass. Sez. 2^, Sentenza n. 43328 del 15/11/2011 Ud. (dep. 24/11/2011 ) Rv. 251377 – 01
[2] Cass. Sez. 3^, Sentenza n. 27279 del 21/06/2007 Ud. (dep. 12/07/2007) Rv. 237143 – 01
[3] Cass. Sez. 4^, Sentenza n. 49884 del 16/10/2018 Ud. (dep. 02/11/2018) Rv. 274045 – 01; Cass. Sez. 4^, Sentenza n. 54795 del 13/07/2017 Ud. (dep. 06/12/2017 ) Rv. 271668 - 01
[4] F. MANTOVANI, Diritto Penale, CEDAM, 1992, pagg. 179 e ss.
[5] F. MANTOVANI, cit., pag. 181
[6] Cass. Sez. 3^, Sentenza n. 11451 del 06/11/2018 Ud. (dep. 14/03/2019 ) Rv. 275174 – 01.
[7] Cass. Sez. 4 - , Sentenza n. 25532 del 16/01/2019 Ud. (dep. 10/06/2019 ) Rv. 276339 – 02; Cass. Sez. 4 - , Sentenza n. 48541 del 19/06/2018 Ud. (dep. 24/10/2018 ) Rv. 274358 – 01.
Sulla rilevanza dei piani regolatori dei porti (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 28 dicembre 2020 n. 8356)
di Marco Ragusa
1. La fattispecie
La pronuncia qui annotata ha annullato il provvedimento del Provveditorato Interregionale per le Opere Pubbliche per la Campania, il Molise, la Puglia e la Basilicata con il quale era stata respinta una domanda di accertamento di conformità urbanistica presentata nel novembre del 2015, ai sensi dell’art. 2 del d.p.R. 18 aprile 1994, n. 383, dall’Autorità portuale di Brindisi, avente a oggetto alcuni interventi di infrastrutturazione (già realizzati), strumentali a esigenze di security e ricadenti nell’area in cui è situata la stazione marittima del porto pugliese.
In estrema sintesi, la controversia oggetto del giudizio può essere così descritta.
Al tempo di presentazione dell’istanza, l’Autorità portuale di Brindisi – alla stregua delle altre Autorità portuali istituite dall’art. 6, c. 1, della legge 28 gennaio 1994, n. 84 («legge Porti») – era l’ente titolare, fra l’altro, delle funzioni relative all’infrastrutturazione del porto: funzioni che essa svolgeva in lineare continuità con quelle (di progettazione, programmazione ed esecuzione di opere e impianti) già proprie del Consorzio del porto di Brindisi, di cui la legge Porti aveva disposto la soppressione (artt. 2, c. 1, lett. i, e 20) [1].
Ai sensi dell’art. 5, c. 1, l. n. 84 del 1994 (nel testo vigente all’avvio del procedimento di accertamento di conformità), nei porti di categoria II[2], «l’ambito e l’assetto complessivo del porto, ivi comprese le aree destinate alla produzione industriale, all’attività cantieristica e alle infrastrutture stradali e ferroviarie, sono rispettivamente delimitati e disegnati dal piano regolatore portuale [«PRP»] che individua altresì le caratteristiche e la destinazione funzionale delle aree interessate».
L’Autorità portuale di Brindisi, soppressa nel 2016[3], non si è mai dotata, nel corso della propria (non brevissima) esistenza, di tale strumento pianificatorio: a fare da cornice dell’ambito dello scalo è rimasto così un piano regolatore portuale adottato dal Consorzio del porto nel 1975.
Gli interventi realizzati dall’Autorità portuale sull’area della stazione marittima non erano contemplati da tale piano e, anche sulla scorta di questo rilievo, il Provveditorato ne aveva accertato la non conformità urbanistica. Tale difformità aveva peraltro condotto all’indizione di una conferenza di servizi, ai sensi dell’art. 3 del citato d.p.R. n. 383/1994, la quale non era però riuscita a rimediare al rilevato contrasto tra le opere realizzate dall’Autorità portuale e il quadro pianificatorio di riferimento. Da qui il rigetto dell’istanza, oggetto dell’impugnativa dell’Autorità del Sistema portuale («AdSP») del Mare Adriatico meridionale (succeduta alla originaria istante a far data dal 2016).
Punto centrale della decisione in commento, sul quale si concentrano le brevi osservazioni che seguono, è la (parziale) adesione del Consiglio di Stato alla tesi sostenuta già in primo grado dall’AdSP e integralmente disattesa, invece, dal TAR[4]: tesi secondo cui la conformità urbanistica degli interventi de quibus non avrebbe potuto essere valutata (come aveva fatto l’organo ministeriale) sul metro di un piano regolatore portuale adottato in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge 28 gennaio 1994, n. 84 e all’introduzione del modello di pianificazione portuale disegnato dal suo art. 5.
La pronuncia suscita, sotto tale profilo, almeno un dubbio relativo alla correttezza della soluzione offerta alla specifica res litigiosa e alcune riflessioni concernenti la prospettiva implicitamente adottata nell’inquadramento del più ampio (e da tempo dibattuto) tema del rapporto tra pianificazione portuale e pianificazione urbanistica.
2. Il fondamento della decisione: quale l’errore del TAR Lecce, secondo il Consiglio di Stato?
Per questa breve analisi, occorre prendere le mosse dai profili di sintonia riscontrabili tra il decisum di primo grado e quello di appello: entrambe le sentenze, infatti, rifiutano la tesi più radicale sostenuta dall’Autorità ricorrente, secondo la quale in nessun caso la pianificazione portuale potrebbe affiancarsi alla (o tenere luogo della) pianificazione comunale, fungendo da paradigma nella valutazione di conformità urbanistica per gli interventi di modificazione del territorio del porto «da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale» e per le «opere pubbliche di interesse statale, da realizzarsi dagli enti istituzionalmente competenti» (art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994).
Per il Tar Puglia, come per il Consiglio di Stato, è infatti indubbio che la funzione pianificatoria affidata, con l’entrata in vigore della l. n. 84 del 1994, al PRP disciplinato dall’art. 5 sia una funzione urbanistica in senso stretto: per tale ragione la legge prevede che il piano non possa contrastare con gli «strumenti urbanistici vigenti»[5] e, per la sua adozione, impone il raggiungimento di una previa intesa tra l’Autorità portuale e i comuni nel cui territorio ricade lo scalo marittimo[6].
Se, dunque, la non conformità urbanistica fosse stata accertata con riferimento a un piano regolatore portuale adottato successivamente all’entrata in vigore della legge n. 84 del 1994, anche il Consiglio di Stato avrebbe ritenuto legittimo l’operato del Provveditorato, confermando la decisione di primo grado. Il punto di divergenza tra l’approccio del Tar e quello dei Giudici di appello è, insomma, integralmente relativo alla circostanza che la pianificazione del porto di Brindisi non fosse regolata da un PRP ‘di nuova generazione’, ma da un piano portuale adottato prima dell’entrata in vigore della legge Porti.
Secondo la sentenza di primo grado, tale circostanza non muta i termini della questione.
Ai sensi dell’art. 27, c. 3, della legge n. 84/1994, infatti, i piani regolatori portuali eventualmente adottati in epoca anteriore mantengono efficacia fino al proprio aggiornamento, da effettuarsi ai sensi dell’art. 5: di modo che le prescrizioni dei ‘vecchi’ piani costituiscono a pieno titolo uno dei parametri impiegabili nel giudizio di conformità di cui all’art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994, essendo a esse riferibile, in virtù del citato art. 27 l. n. 84/1994, la stessa valenza urbanistica propria di quelle contenute in un ‘nuovo’ PRP.
Il Consiglio di Stato afferma, al contrario, che «i Piani Regolatori Portuali approvati antecedentemente alla legge n. 84 del 1994, non hanno effetti di conformazione del territorio» e, pertanto, anche «il Piano regolatore portuale di Brindisi, risalente al 1975, non poteva essere considerato come parametro giuridico ai fini della valutazione di conformità urbanistica degli interventi in contestazione»[7].
La previsione dell’art. 27, c. 3, cit. non consentirebbe, in altri termini, di riferire ai ‘vecchi’ piani una funzione urbanistica a essi originariamente estranea: i piani delle dismesse organizzazioni portuali, a differenza del nuovo PRP, «costituivano soltanto strumenti di programmazione delle infrastrutture strumentali allo svolgimento delle attività del porto, erano cioè piani di “opere”»[8]: la realizzazione di interventi non contemplati da tali piani o in contrasto con essi non porrebbe, insomma, una questione di «conformità urbanistica».
La motivazione della decisione, mediante una sintetica ricostruzione storica della legislazione italiana relativa ai rapporti tra pianificazione urbanistica e pianificazione portuale, illustra le ragioni di questa conclusione, evidenziando come l’art. 5 della legge Porti abbia introdotto per la prima volta uno strumento di raccordo tra la potestà pianificatoria degli enti locali (già a far data dal 1967 estesa all’intero territorio comunale, ivi incluso il demanio marittimo[9]) e le funzioni degli enti portuali relative all’infrastrutturazione dello scalo.
Il citato art. 5, infatti, da un lato ha imposto univocamente agli interventi di trasformazione del territorio portuale il rispetto di un quadro pianificatorio urbanistico, introducendo, in tal modo, un vincolo non espressamente contemplato dalla legislazione previgente; d’altro canto, la definizione di questo quadro non è stata tout court rimessa alla generale potestà comunale di governo del territorio, ma a uno strumento specificamente riferito (e limitato) all’ambito portuale, la cui emanazione è di competenza dell’ente che gestisce lo scalo.
È da tale premessa, appunto, che la sentenza in commento trae le proprie conclusioni: fino a che uno scalo di categoria II non venga assoggettato a un PRP approvato ex art. 5 l. n. 84 del 1994, eventuali prescrizioni dettate da un piano portuale ancora efficace in virtù dell’art. 27 cit. non possono assumere rilievo urbanistico ed essere impiegate al fine dell’accertamento di conformità di cui all’art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994.
3. I punti critici delle premesse e delle conclusioni della decisione
Tra i dubbi suscitati dalla pronuncia in commento, il primo concerne la ricostruzione storica effettuata dal Consiglio di Stato.
Se è vero, infatti, come sottolineato in motivazione, che la legislazione anteriore al 1994 non aveva disciplinato in modo compiuto l’istituto della pianificazione portuale e che le uniche previsioni normative relative ai piani portuali (al plurale) erano essenzialmente finalizzate alla realizzazione delle opere in essi inserite, è anche vero che in molti casi, sotto il profilo strutturale, l’oggetto di tali piani non differiva molto dal modello disegnato dall’art. 5 della legge Porti; così come è vero che la loro adozione (talora avvenuta con legge, talaltra mediante decreti ministeriali, sulla base dei provvedimenti istitutivi degli enti portuali) aveva visto spesso il previo coinvolgimento dei comuni interessati e, a volte, perfino l’assunzione, da parte degli stessi enti locali, della veste di promotori dell’iniziativa pianificatoria[10].
L’impossibilità di riferire ai vecchi piani portuali la valenza urbanistica propria del nuovo PRP, pertanto, non sembra possa essere ancorata all’intrinseca inadeguatezza di tali strumenti a svolgere una siffatta funzione, ma esclusivamente alla interpretazione della portata precettiva dell’art. 27, c. 3, della legge Porti, che di quei piani dispone l’ultravigenza.
Così stando le cose, per verificare se la posizione espressa dal Consiglio di Stato sia condivisibile (o almeno più condivisibile di quella accolta dal Giudice di primo grado) sembra necessario interrogarsi su quale sia la ratio del citato art. 27 c. 3 e dunque, più a monte, su quale sia la ratio dell’art. 5 della legge, rispetto alla cui applicazione la norma assume la natura e la funzione di disposizione transitoria.
Introducendo una forma di pianificazione speciale per tutti i porti di categoria II, l’art. 5 ha mirato a raggiungere due principali obiettivi.
Il primo è la razionalizzazione dell’attività di infrastrutturazione di ciascuno scalo marittimo, che il legislatore ha inteso sottrarre a iniziative episodiche e non supportate da una chiara e armonica prospettiva di sviluppo del porto: è sul piano portuale, non solo sul progetto di singole opere, che il Consiglio superiore dei lavori pubblici è chiamato a esprimere il proprio parere ai sensi dell’art. 5, c. 3 (ora c. 2 quater, lett. b) l. n. 84/1994. Ed è del piano, non solo (e, anzi, non tanto) del singolo intervento infrastrutturale che può ben valutarsi la coerenza con gli obiettivi della pianificazione generale dei trasporti: aspetto imprescindibile per ogni lettura che intendesse prendere (anche soltanto un po’) sul serio il vincolo teleologico posto all’interprete dall’art. 1 della legge Porti[11].
Il secondo obiettivo è, di primo acchito, più direttamente attinente all’oggetto della controversia risolta dalla pronuncia qui annotata. Si tratta, appunto, di creare le condizioni di co-esistenza tra la pianificazione del territorio portuale e quella dell’ambiente urbano che gravita intorno a esso: un obiettivo che può essere perseguito, in astratto, tracciando una netta linea di confine tra la potestà pianificatoria comunale e quella dell’ente portuale, oppure stabilendo una gerarchia tra strumenti pianificatori, o ancora istituendo forme di raccordo tra le potestà pianificatorie facenti capo agli enti coinvolti, affidando la pianificazione portuale alla co-decisione dell’ente locale e dell’Autorità portuale. Quest’ultima è, appunto, la scelta ambiziosa adottata dalla legge n. 84 del 1994: l’art. 5, da un lato, nega al PRP l’idoneità derogatoria tendenzialmente propria di ogni strumento pianificatorio di settore rispetto agli strumenti urbanistici, dall’altro impone che per l’adozione del piano debba essere raggiunta un’intesa tra l’Autorità portuale e i comuni interessati[12].
In entrambe le prospettive teleologiche, il piano portuale rappresenta uno strumento di sintesi tra interessi differenti e potenzialmente confliggenti. Il primo obiettivo, infatti, inerisce alla dialettica tra l’interesse all’incremento dei traffici di un singolo scalo, perseguito da ciascuna Autorità portuale, e l’interesse generale a un’armonica ed efficiente pianificazione dell’intero sistema portuale – e, più in generale, trasportistico – nazionale. Il secondo obiettivo si inquadra, invece, nel conflitto tra gli interessi della città e gli interessi dello scalo marittimo: un conflitto che lo sviluppo di un porto moderno, tendenzialmente, determina in misura molto maggiore rispetto al recente passato[13].
Così ricostruita la ratio dell’art. 5 della legge Porti, è facile comprendere quale sia quella dell’art. 27, c. 3.
La norma, nel disporre l’ultravigenza dei piani portuali anteriormente adottati, ha fatto sì salva la possibilità di realizzare le opere in essi contemplate, ove ancora non eseguite, ma ha anche inteso limitare a tali opere le trasformazioni apportabili al territorio portuale nelle more dell’aggiornamento dei vecchi piani (o dell’adozione ex novo di un PRP). E ciò, a dire il vero, indicherebbe come non percorribile la stessa via intrapresa, nella fattispecie oggetto di giudizio, dal Provveditorato per le Opere pubbliche, una volta accertata la non conformità urbanistica delle opere realizzate dall’Autorità portuale di Brindisi ex art. 2 d.p.R. n. 383/1994. In difetto dell’adozione di un nuovo PRP, infatti, non pare che una conferenza di servizi indetta ai sensi del successivo art. 3 potesse rimediare a tale difformità (a meno che, al suo interno, non si fosse provveduto all’aggiornamento del piano portuale del 1975, ex art. 27, c. 3, l. n. 84/1994, nel rispetto delle modalità procedimentali dettate dall’art. 5 e senza possibilità di superare l’eventuale dissenso dell’amministrazione comunale ai sensi dell’art. 3, c. 4, del d.p.R. n. 383/1994[14]).
L’impossibilità di tenere in considerazione un vecchio piano portuale nella valutazione di conformità urbanistica ex art. 2 d.p.R. n. 383/1994 appare così una tesi decisamente distonica rispetto al quadro normativo vigente: per non essere soggetta ai vincoli nascenti dal nuovo modello di pianificazione portuale, infatti, sarebbe sufficiente all’Autorità portuale non dotarsi affatto di un nuovo PRP. A meno che, accogliendo questa tesi, il Consiglio di Stato non abbia inteso ritenere legittima la realizzazione delle sole opere che, sebbene non contemplate da un piano portuale di nuova generazione, siano comunque previste dagli strumenti di pianificazione urbanistica comunale.
Sotto questo aspetto, la motivazione della sentenza è tutt’altro che chiara. Non si comprende bene, infatti, quale dei motivi oggetto del ricorso di primo grado (e riproposti in appello) il Consiglio di Stato abbia inteso accogliere: a rendere illegittimi i provvedimenti impugnati è un mero vizio di motivazione (il riferimento operato dall’amministrazione al vecchio piano portuale) ovvero è il contenuto dispositivo degli stessi? Accogliere l’una o l’altra interpretazione determina, all’evidenza, il riconoscimento alla decisione di un ben diverso effetto conformativo sul procedimento ex art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994 che il Provveditorato dovrà rinnovare.
Dalla lettura della sentenza di primo grado, si evince che la conformità delle opere alla pianificazione comunale generale e agli strumenti attuativi non fosse affatto pacifica tra le parti in causa: il Tar, tuttavia, aveva omesso di approfondire tale questione, poiché, una volta accertata la non conformità già alla luce del vecchio piano regolatore portuale, aveva ritenuto di potere respingere, sulla base di tale principale rilievo, il ricorso dell’AdSP.
E anche la sentenza di appello, che al contrario di quella riformata nega al vecchio piano portuale ogni valenza urbanistica, non si sofferma affatto sulla questione della difformità delle opere realizzate dall’Autorità portuale rispetto al quadro pianificatorio descritto dalla pianificazione del Comune di Brindisi (anch’essa rilevata nel corso del procedimento di accertamento condotto dal Provveditorato): se, come afferma la pronuncia del Tar, gli interventi dell’Autorità portuale consistono, oltre che nella recinzione della stazione marittima, anche in edifici ai varchi, in impiantistica di supporto al sistema di security, in una strada a quattro corsie, in un ponte e una tettoia in cemento armato, non dovrà il Provveditorato accertarne, comunque, la non conformità, sulla base del vigente piano regolatore generale e degli strumenti di attuazione, che di tali opere non fanno menzione?
La risposta affermativa – che sembrerebbe imposta anche dalla ricostruzione delle rationes degli artt. 5 e 27 della legge Porti a cui poc’anzi si è accennato – potrebbe essere messa in discussione valorizzando il passo della sentenza in commento nel quale, al fine di escludere la rilevanza giuridica del piano portuale del 1975, il Consiglio di Stato si preoccupa di precisare che non risulta che le prescrizioni di tale strumento siano state “recepite” dal piano regolatore generale[15]. La pronuncia, insomma, potrebbe essere letta nel senso di ritenere sufficiente, al fine di accertare la conformità urbanistica degli interventi, il fatto che questi ultimi non contrastino con la pianificazione comunale (che non siano, cioè, incompatibili con specifiche previsioni del PRG o degli strumenti attuativi).
Così interpretata, tuttavia, la decisione del Consiglio di Stato sarebbe senz’altro non condivisibile: essa determinerebbe la arbitraria sostituzione del paradigma di cui all’art. 2 d.p.R. n. 383/1994 (la conformità urbanistica) con il più labile limite che l’art. 5 della legge Porti fissa non per la realizzazione di singoli interventi infrastrutturali, ma per il Piano regolatore portuale in cui gli stessi dovrebbero essere contemplati (il non contrasto). Si determinerebbe, in tal modo, una tanto netta quanto abnorme pretermissione dell’interesse urbanistico alle esigenze di infrastrutturazione dello scalo marittimo.
4. Il valore della decisione alla luce della disciplina vigente in materia di rapporti tra pianificazione portuale e pianificazione urbanistica
La questione affrontata da Cons. Stato n. 8356/2020 ha una rilevanza ben più ampia del contesto locale brindisino, teatro della controversia. La conclusione per essa raggiunta dal Consiglio di Stato – che per l’ampiezza del principio di diritto espresso sembra estensibile a ipotesi in cui le opere da localizzare ‘fuori piano’ siano più imponenti rispetto agli adeguamenti della security di una stazione marittima – potrebbe costituire, peraltro, un precedente impiegabile nella soluzione di controversie soggette al nuovo testo dell’art. 5 della legge Porti.
Sotto il primo aspetto, è noto che la difficoltà di dare alla luce un PRP ha contraddistinto, a far data dal 1994, l’esperienza della gran parte delle Autorità portuali istituite dall’art. 6 della legge Porti. Lo scoglio principale su cui si sono infranti i tentativi di adottare un nuovo piano portuale (o di aggiornare un piano preesistente) è rappresentato proprio da quell’intesa con i comuni interessati che il previgente comma 3 dell’art. 5 rendeva indefettibile e che, nella pratica, si è spesso rivelata pressoché impossibile da raggiungere. Altrettanto noto è che la legge Porti, nell’impianto anteriore al 2016, non contemplava meccanismi di superamento del dissenso dell’ente locale: l’intesa prevista dall’art. 5, c. 3, rappresentava, infatti, un modulo consensuale «endoprovvedimentale»[16], sostanzialmente assimilabile a un accordo contrattuale e pertanto contraddistinto dall’incoercibilità del consenso delle parti trattanti.
Se l’inedito indirizzo espresso dalla sentenza in commento avesse preso piede già qualche anno fa, probabilmente, le amministrazioni portuali italiane avrebbero avuto una ben maggiore forza negoziale; e maggiori possibilità di raggiungere un esito concreto avrebbero così avuto i procedimenti di adozione dei PRP (al costo, naturalmente, di una forzatura della lettera di legge e dell’equilibrio tra gli interessi della città e gli interessi del porto a essa sotteso).
A far data dal 2016, il legislatore ha posto mano al procedimento de quo, anche al fine della sua semplificazione.
Il d.lgs. n. 169 del 2016 – il quale, come anticipato, ha sostituito le Autorità portuali istituite nel 1994 con le Autorità di sistema portuale, ciascuna delle quali provvede oggi alla gestione di una pluralità di scali marittimi – ha modificato anche l’art. 5 della legge Porti, al fine di adeguare la pianificazione portuale alla rilevante modifica organizzativa introdotta. La norma è stata peraltro oggetto, da quella data, di ulteriori integrazioni e riformulazioni.
Il vigente art. 5, c. 1, della legge n. 84 del 1994 prevede l’adozione di un Piano regolatore di sistema portuale (PRSP), «strumento di pianificazione del sistema dei porti ricompresi nelle circoscrizioni territoriali delle Autorità di sistema portuale», il quale si compone di un Documento di pianificazione strategica di sistema (DPSS) e di tanti piani regolatori portuali (PRP) quanti sono i porti rientranti nella circoscrizione dell’AdSP.
Quel che può essere qui rilevante evidenziare è che, tra le funzioni rimesse alla nuova pianificazione di sistema, rientra la delimitazione tra le aree destinate a funzioni strettamente portuali e retro-portuali, i collegamenti infrastrutturali di ultimo miglio con i singoli porti del sistema, gli attraversamenti del centro urbano e infine le «aree di interazione porto-città»[17](art. 5, c. 1 bis, lett. b).
La pianificazione (ma non la delimitazione) di queste ultime aree è affidata, in sede di adozione del PRSP, ai comuni interessati, previo parere della competente AdSP; «con riferimento esclusivo» alla pianificazione delle stesse aree «di interazione» è ora richiesto alle Autorità di sistema, in sede di adozione di ciascun PRP, di raggiungere un’intesa con i comuni interessati (art. 5, c. 1 ter); in caso di dissenso, trova applicazione il procedimento di opposizione di cui all'art. 14 quinquies l. n. 241 del 1990.
I fautori dell’esigenza di liberare la forza di sviluppo dei porti italiani dall’ostacolo rappresentato dalle resistenze localistiche possono quindi confidare che, per il futuro, l’evenienza di uno stallo decisionale in sede pianificatoria sarà più remota, risultando compressi, rispetto al passato, non solo l’oggetto (le aree di interazione città-porto), ma la stessa intensità del ruolo partecipativo del comune: da «endoprovvedimentale», l’intesa è infatti divenuta «endoprocedimentale».
Tuttavia, il ridimensionamento di quello che abbiamo definito il secondo obiettivo perseguito dal testo originario dell’art. 5 cit. (la ricerca di integrazione tra pianificazione urbanistica e portuale), si accompagna, nella norma novellata, a una ben più marcata esigenza di perseguimento del primo obiettivo, vale a dire l’armonico inserimento dell’infrastrutturazione programmata a livello di ciascun porto (e di ciascun sistema portuale) all’interno della pianificazione nazionale dei trasporti.
Il nuovo Piano generale dei trasporti e della logistica (PGTL), fulcro della disciplina dettata dal nuovo Codice dei contratti pubblici in materia di infrastrutture e insediamenti prioritari[18], è infatti assunto dall’art. 5 della l. n. 84 del 1994 come strumento di indirizzo e limite del PRSP (art. 5, c. 1 bis) e, conseguentemente, di ogni PRP.
Tuttavia, il nuovo PGTL (a distanza di più di quattro anni dalla sua istituzione) non è ancora stato approvato e questa circostanza infonde nell’osservatore il fondato timore che l’adozione degli atti di pianificazione portuali di ‘ultimissima generazione’ possa subire ulteriori ritardi: se il timore si rivelasse fondato, l’indirizzo coniato dalla sentenza in commento potrebbe acquisire una rilevanza pratica di indubbio peso anche nel contesto del rinnovato quadro normativo.
[1] Il Consorzio del porto e dell’area di sviluppo industriale di Brindisi, costituito con d.p.R. 20 dicembre 1949, n. 1607, e regolato da uno statuto approvato con d.p.R. 28 giugno 1960, n. 805, rientrava, in particolare, tra le organizzazioni portuali nate o sviluppatesi su impulso della legislazione speciale per il Mezzogiorno: a questi enti era affidata la gestione di porti posti a servizio di aree e nuclei di sviluppo industriale, a cui era destinata una consistente parte dei finanziamenti erogati nell’ambito dell’intervento straordinario della Cassa (art. 9 della legge 29 settembre 1962, n. 1462): cfr. M. Casanova, Gli enti portuali, Milano, 1971, 115 s.; G. Sirianni, L’ordinamento portuale, Milano, 1981, 123 ss.; da ultimo M. Ragusa, Porto e poteri pubblici. Una ipotesi sul valore attuale del demanio portuale, Napoli, 2017, 62 s.
[2] Ai sensi dell’art. 4, c. 1, l. n. 84 del 1994, appartengono alla categoria II tutti i porti e le aree portuali diversi da quelli finalizzati alla difesa militare e alla sicurezza dello Stato, qualunque ne sia la rilevanza economica (classi I, II e III) e la concreta vocazione funzionale (art. 4, c. 3).
[3] Il Decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 169 (Riorganizzazione, razionalizzazione e semplificazione della disciplina concernente le Autorità portuali di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84), attuativo della delega di cui articolo 8, comma 1, lettera f), della legge 7 agosto 2015, n. 124, ha infatti sostituito le Autorità portuali istituite dall’originario art. 6 della legge n. 84 del 1994 con le Autorità di sistema portuale, enti di gestione portuale la cui circoscrizione comprende, oltre al porto-sede dell’Autorità, altri scali marittimi che, insieme, costituiscono appunto il «sistema portuale». Ai sensi dell’art. 6 e del nuovo allegato A della l. n. 84 del 1994, in particolare, il porto di Brindisi è stato inserito, insieme a quelli di Manfredonia, Barletta e Monopoli, nel sistema portuale del Mare Adriatico meridionale, il cui porto centrale è quello di Bari, sede dell’Autorità del sistema.
[4] Tar Puglia, Lecce, I, 15 luglio 2019, n. 1225
[5] Così il comma 2 dell’art. 5, legge Porti nel testo applicabile ratione temporis; lo steso divieto di contrasto è oggi disposto dall’art. 5, c. 2 sexies.
[6] La funzione dell’intesa originariamente imposta dall’art. 5, c. 3, l. n. 84 del 1994 è radicalmente mutata a seguito delle modifiche apportate alla legge a far data dal 2016: v. infra, § 4.
[7] Così la sentenza, al par. 1.2.
[8] Ibid.
[9] La legge 6 agosto 1967, n. 765 («legge ponte») ha modificato la legge urbanistica (17 agosto 1942, n. 1150) , inserendo all’art. 31, c. II, la previsione secondo cui, per le «opere da eseguire su terreni demaniali, compreso il demanio marittimo, ad eccezione delle opere destinate alla difesa nazionale, compete all'Amministrazione dei lavori pubblici, d'intesa con le Amministrazioni interessate e sentito il comune, accertare che le opere stesse non siano in contrasto con le prescrizioni del piano regolatore generale o del regolamento edilizio vigente nel territorio comunale in cui esse ricadono». Sull’evoluzione dei rapporti tra pianificazione urbanistica e demanio marittimo cfr. A. D’Amico Cervetti, Demanio marittimo e assetto del territorio, Milano, 1983; M. Casanova, Demanio marittimo e poteri locali, Milano, 1986; Id., Il demanio marittimo, in A. Antonini (a cura di), Trattato breve di diritto marittimo, I, Milano, 2007, 209 ss.; M.L. Corbino, Il demanio marittimo. Nuovi profili funzionali, Milano, 1990; per ulteriori indicazioni bibliografiche v. M. Ragusa, op. cit., 120 ss. e 386 ss. e Id., La costa, la città e il porto. Il coordinamento tra pianificazione urbanistica e portuale nei porti di interesse nazionale e internazionale, in M.R. Spasiano (a cura di), Il sistema portuale italiano tra funzione pubblica, liberalizzazione ed esigenze di sviluppo, Napoli, 2013 393 ss.. Da ultimo F. Francario,
Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità, in www.sipotra.it
[10] G. Pericu, Porto (Navigazione marittima), in Enciclopedia del diritto, 1985, 430 ss.; sulle singole esperienze dei principali porti italiani, comunque fra loro molto differenti, v. i contributi citati alle precedenti note 1 e 9.
[11] Ai sensi del suo art. 1, la l. n. 84 del 1994 «disciplina l'ordinamento e le attività portuali per adeguarli agli obiettivi del piano generale dei trasporti, dettando contestualmente princìpi direttivi in ordine all'aggiornamento e alla definizione degli strumenti attuativi del piano stesso». In argomento v. M. Ragusa, Porto e poteri pubblici, cit., segn. 135 ss. e 172 ss.
[12] Cfr. G. Acquarone, Il piano regolatore delle autorità portuali, Milano, 2009, 285 ss.; M. Ragusa, La costa, la città e il porto, cit.
[13] H. Ghiara (ed.), The New Economic Port Landscape. Economic Performance and Social Progress, Milano, 2012; M. Ragusa, op. ult. cit., 403 ss.
[14] Ai sensi dell’art. 3, c. 4, d.p.R. n. 383/1994 applicabile ratione temporis «L’approvazione dei progetti, nei casi in cui la decisione sia adottata dalla conferenza di servizi, sostituisce ad ogni effetto gli atti di intesa, i pareri, le concessioni, anche edilizie, le autorizzazioni, le approvazioni, i nullaosta, previsti da leggi statali e regionali. Se una o più amministrazioni hanno espresso il proprio dissenso nell'ambito della conferenza di servizi, l’amministrazione statale procedente, d’intesa con la regione interessata, valutate le specifiche risultanze della conferenza di servizi e tenuto conto delle posizioni prevalenti espresse in detta sede, assume comunque la determinazione di conclusione del procedimento di localizzazione dell’opera. Nel caso in cui la determinazione di conclusione del procedimento di localizzazione dell'opera non si realizzi a causa del dissenso espresso da un’amministrazione dello Stato preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità ovvero dalla regione interessata, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 81, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616».
[15] Così la sentenza in chiusura del par. 1.3.
[16] La distinzione tra il paradigma dell’intesa «endoprocedimentale» (che rileva come mera «variante organizzativa», poiché il consenso dell’amministrazione assolve essenzialmente al ruolo, appunto, di un apporto procedimentale) e quello dell’intesa «endoprovvedimentale» (che non è raggiunta all’esito di un vero procedimento amministrativo, ma di una fase preparatoria in cui gli interessi si confrontano «mediante l’esercizio di un’autonomia che sembra essere, in larga misura, di tipo negoziale») è quella proposta da R. Ferrara, Gli accordi di programma. Potere, poteri pubblici e modelli dell’amministrazione concertata, 1993, segn. 55 ss., 62 ss. e 145 ss.
[17] Nel senso di una limitazione al sotto-ambito di interazione città-porto le competenze della pianificazione urbanistica, cfr. già G. Acquarone, Il piano regolatore cit., 273 ss.; la distinzione tra l’ambito del porto operativo e quello di interazione città-porto è stata in passato accolta dal Consiglio superiore dei lavori pubblici: cfr. la Circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti n. 17778 del 15 ottobre 2004, «Linee guida per la redazione dei piani regolatori portuali».
[18] D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 200 ss.. In argomento M. Ragusa, Porto e poteri pubblici, cit. 189 ss.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.