ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il formalismo in Cassazione
di Bruno Capponi
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo resa lo scorso 28 ottobre nell’affaire Succi et autres c. Italie, che riunisce tre diverse denunzie di violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione (diritto di accesso a un tribunale) una soltanto delle quali è stata giudicata fondata, è un campanello di allarme che non suona soltanto all’interno del Palazzaccio. Abbracciata da anni la logica del respingimento, il nostro legislatore ha infatti disseminato in modo un po’ casuale per i vari gradi fattispecie di inammissibilità, non rispondenti a una logica unitaria e a volte neppure troppo chiare nel lessico (il prototipo-modello negativo ci sembra debba continuare a essere l’art. 348-bis c.p.c.), la cui sola funzione è quella di scoraggiare e sanzionare l’accesso alle corti. Addirittura dinanzi al giudice di primo grado vediamo moltiplicarsi le pronunce di “inammissibilità” (che nascondono valutazioni sanzionatorie dell’accesso stesso al giudice), al punto da potersi far capo a una nuova categoria (un tempo neppure immaginabile) oggetto di analisi scientifica: v., con profitto, A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, Napoli, 2018 (e, per chi fosse interessato, la mia recensione in Rass. esec. forz., 2019, 570 ss.). Lo scoraggiamento-respingimento può assumere diverse declinazioni: ad es., nel testo del d.d.l. 1662 approvato dal Senato il 21 settembre 2021 si prevede (art. 5, lett. p), nn. 1, 2 e 3) che il giudice possa, all’esito della prima udienza, emettere una incomprensibile ordinanza provvisoria di rigetto (reclamabile e inidonea al giudicato) se i requisiti di cui ai nn. 3 e 4 dell’articolo 163 c.p.c. non siano indicati in modo certo ed esaustivo nell’atto introduttivo: ciò che sinora ha costituito una nullità sanabile (sia pure con le conseguenze descritte nel comma 5, ultimo periodo, dell’art. 164 c.p.c.) domani condurrà senz’altro al rigetto in limine della domanda: che vale appunto e solamente quale deterrente e sanzione, perché quella stessa domanda potrà essere di nuovo esercitata (con buona pace del principio di economia), non trattandosi di rigetto nel merito (cui prodest?).
Quindi il problema che abbiamo dinanzi non è certo esclusivo della Corte di Cassazione: piuttosto, va preso atto che essa è l’organo di vertice di una giurisdizione che, di questi tempi, tende a esaltare la funzione deterrente e sanzionatoria delle norme processuali e soprattutto delle loro interpretazioni. E non va trascurato che, nell’avvelenato clima “di sistema”, ogni magistratura ci mette del proprio: proponendo spesso ricostruzioni tendenti a somministrare la lezione più irragionevolmente ostruzionistica delle norme che applica (ad es., inventando decadenze dove non ci sono, strozzando la trattazione dei giudizi e così moltiplicandone il numero). La logica del respingimento è quella della cittadella assediata: un colpo tira l’altro, nella speranza che arrivi, magari casualmente, quello che possa mettere definitivamente in fuga il nemico.
La Cassazione, oggi, dinanzi alla condanna della CEDU potrebbe ripetere quel che un noto politico ebbe a dire agli inizi di tangentopoli: “è una disgrazia che è capitata a me”. Ma che, se la musica non cambia, potrebbe capitare indiscriminatamente a molti altri giudici: a iniziare dalle corti d’appello, del resto apertamente provocate, dal perverso legislatore dell’estate 2012, a tenere comportamenti ben peggiori di quelli ora sanzionati a Strasburgo e che fortunatamente le corti di merito non si sono convinte a osservare (dopo un primo periodo di comprensibili sbandamenti).
Venendo al caso di specie: non c’è dubbio che il formalismo è stata l’arma che la Cassazione ha spesso brandito per proteggere se stessa e quella giurisprudenza d’élite, cui aspira, che si definisce “nomofilattica”; e ripetiamo cose note nell’affermare che tale atteggiamento è stato indotto dalla colpevole inerzia del legislatore, il quale ha anzitutto consentito che la Corte fosse travolta dall’inefficienza della pubblica amministrazione (la sezione tributaria, la lavoro, la prima e la terza vedono frequentemente quale parte in giudizio la p.a.); al tempo stesso, nulla ha fatto per correggere l’ambiguità e scorrettezza di quei testi legislativi che la stessa Corte, organo di vertice, dovrebbe interpretare “nomofilatticamente” e che invece assai spesso creano contrasti addirittura all’interno delle sezioni.
Il formalismo, diceva Satta (Prefazione alla quinta edizione del Diritto Processuale Civile, 1956), «non è altro che una manifestazione di paura: paura del giudizio, della grande opzione tra i due interessi in contrasto. Si direbbe che nel Giudice, accanto al dovere funzionale di giudicare, vibri l’eco paralizzante del nolite judicare. Paura, dunque, sacrosanta nelle sue origini, ma che non legittima le evasioni. L’evasione e il formalismo, il risolvere il giudizio in termini di processo, il rigetto della responsabilità del giudizio sulla norma». Un giudice che non giudica, e che si pone alla ricerca degli artifizi che gli consentono di non giudicare nel merito, è un giudice che mette seriamente in crisi la sua stessa funzione.
La posizione di Satta ci sembra ormai una romanticheria consegnata alla storia.
Occorre infatti intendersi bene su cosa sia il formalismo giudiziario: perché esso può manifestarsi nell’interpretazione disfunzionale di un testo normativo, come pure nella creazione di regole disfunzionali. Non dimentichiamo che la Corte è un giudice che facilmente crea diritto, e in particolare può creare quel particolare diritto che regola le modalità stesse di accesso al giudizio di legittimità.
La Corte di Strasburgo, nel suo excursus un poco burocratico sulle nozioni di autonomia e autosufficienza, ricorda i “quesiti di diritto” introdotti nel 2006 e abrogati a furor di popolo nel 2009 (ma irragionevolmente lasciati in vita in via transitoria). In questo c’è un chiaro vizio di prospettiva. La ragione che spinse il legislatore delegato del 2006 a introdurre i “quesiti di diritto” non intendeva consentire alla Corte la selezione dei ricorsi sul riflesso del più vieto formalismo; la ragione vera, esplicitata nella bozza Brancaccio-Sgroi del 1988 (art. 7) e nella connessa Risoluzione del CSM (est. Borrè, in Foro it., 1990, V, part. c. 269-270), era da ricercarsi nell’esigenza di affinamento della tecnica di redazione dei ricorsi, in cui spesso «risultano affastellate una molteplicità di questioni sotto lo stesso mezzo di annullamento» cui corrispondeva, dal lato del giudice, «il diffondersi della formula di accoglimento del ricorso “per quanto di ragione”». Il CSM scriveva che a tale tecnica di mixing, dal lato del ricorrente come da quello del giudice, doveva sostituirsi, in un sistema di effettiva valorizzazione del precedente, «la scabra enunciazione della questione di diritto» e cioè, come la bozza Brancaccio-Sgroi appunto prevedeva, «la specificazione, per ciascun motivo, del quesito che si intende sottoporre alla corte» (all’interno del CSM taluno proponeva «la specificazione del principio di diritto di cui si chiede l’affermazione»).
Questa, e non altra, è stata la genesi dei “quesiti di diritto”, che non dovrebbero essere ricordati quando si parla della selezione dei ricorsi.
Una soluzione tecnica che avrebbe dovuto servire tanto alle parti (per scrivere ricorsi più chiari ed efficaci e, se vogliamo, meno ritagliati sugli atti dei precedenti gradi di merito) quanto alla Corte per decidere meglio, e cioè per affermare principi di diritto frutto dell’esame dei ricorsi nel merito dei singoli motivi, è stata invece utilizzata, dalla stessa Corte, come un (a volte impietoso e irragionevole) regolatore di contenzioso: il rubinetto che si poteva aprire o chiudere. In molte sentenze si è parlato di “filtro a quesiti”, esattamente come se i quesiti di diritto costituissero il dispositivo tecnico, finalmente accordato alla Corte, per operare al suo interno la selezione dei ricorsi.
Questo però non è formalismo; è piuttosto un tradimento del testo e dell’intentio legis, perpetrato per la realizzazione di fini che in nulla corrispondevano al disegno originario del legislatore. La giurisprudenza sui quesiti di diritto è una pagina davvero buia nella vita recente della Corte Suprema, almeno quanto fu una pagina davvero luminosa quella scritta negli anni Cinquanta a proposito del ricorso straordinario. E non mi sembra che dall’interno della Corte si sia (con umiltà e responsabilità) mai preso atto della gravità e illegittimità della giurisprudenza sui quesiti, che ha mandato al macero ricorsi fondati perché non rispondevano a prescrizioni formali che la Corte andana elaborando …strada facendo (finché il legislatore glielo ha permesso), magari a distanza di anni dalla redazione del ricorso.
E non è neppure formalismo l’abrogazione di fatto dell’art. 360-bis c.p.c., norma che evoca una funzione – la giurisprudenza “nomofilattica” della Corte – che nei fatti è difficilissimo identificare, almeno quanto risulta difficile comprendere cosa significhi «offrire elementi per confermare o mutare» quella stessa giurisprudenza (sul n. 2 dello stesso articolo caliamo un pietoso velo).
La verità è che il legislatore, ancora una volta, nulla ha saputo fare per dare una mano alla Corte di Cassazione: perché non è affatto detto che la selezione dei ricorsi debba essere un problema che la Corte si risolve da sola.
Lo stesso requisito dell’autosufficienza, che con molti sforzi si riesce ad ancorare a qualche novellata norma del c.p.c., e che in ogni caso è nato da un diritto appositamente creato dalla Corte per regolare l’accesso a se stessa, ha tuttora aspetti poco chiari.
Ad esempio, sfugge la ragione per cui la Corte non distingua tra letture obbligatorie e letture indotte dai motivi di ricorso coi loro riferimenti a produzioni documentali rinvenibili nel fascicolo (che notoriamente “non si tocca”). La lettura della sentenza impugnata è da ritenersi obbligatoria, perché non si può conoscere del ricorso senza leggere la sentenza impugnata. Eppure, si sente ripetere spesso che l’autosufficienza rileva non soltanto nel rapporto tra gli atti introduttivi (ricorso e controricorso) ma anche nel rapporto tra questi e la sentenza impugnata: al punto che viene dichiarato inammissibile il ricorso se la sua narrativa non specifichi quali erano stati i motivi di appello fatti valere avverso la sentenza di primo grado. Anche qui, siamo nel dominio del formalismo? A nostro avviso no, perché anche a voler predicare la ricorrenza di certi requisiti formali del ricorso, pur severamente interpretati, l’idea di pensare tali requisiti totalmente avulsi dalle letture obbligatorie proprie del giudizio di legittimità è qualcosa che va oltre il mero formalismo, essendo piuttosto espressione della funzione deterrente e sanzionatoria di cui s’è detto (dichiaro il ricorso inammissibile non perché non abbia capito di che si tratti, bensì perché il tuo atto, avulso dal contesto processuale, non mi mette in condizioni di comprenderlo).
Altro è il formalismo, insomma, altra la concezione del processo come trappola o labirinto: un campo minato in cui non è dato sapere con quale salvifico percorso ti salvi la pelle.
C’è un ulteriore elemento di origine pretoria, a cui la sentenza non dedica soverchia attenzione, che interessa il requisito di specificità del ricorso e dei singoli motivi. Di cosa si tratta? Per comprenderlo (o tentare di farlo) occorre leggere molte sentenze di legittimità, e spesso quella stessa lettura non potrà che moltiplicare i dubbi sulla portata effettiva del requisito. Al punto da aversi, a volte, l’impressione che si tratti di una componente residuale, che si richiama quando nessun’altra risulterà richiamabile di fronte all’esigenza di non decidere il ricorso nel merito. Anche qui, si esce spesso dal dominio del formalismo, per entrare di prepotenza in quello del diritto deterrente e sanzionatorio.
Dunque possiamo chiederci: è lecito chiamare formalismo tutto questo insieme di problemi affastellati gli uni sugli altri? A nostro avviso il formalismo presuppone l’esistenza di una norma, o quantomeno una regola chiara (la sentenza della CEDU sembra mettere sullo stesso piano il c.p.c., il c.p.a. e i protocolli firmati tra Cassazione e CNF), rispetto alle quali la lettura che il giudice opera è sì legittima (perché altrimenti vi sarebbe violazione di legge) ma disfunzionale e magari contrastante con altre norme; e al tempo stesso altre letture risulteranno possibili, giustificate sempre dal testo della norma, ma che appaiono più coerenti con la mens legis o con l’impianto complessivo derivante dalla considerazione anche di altre norme.
Quando però la regola viene volta per volta creata dalla Corte – quando cioè non siamo dinanzi a una regola bensì a un orientamento – può avvenire che il ricorrente non sappia quale preciso adempimento deve realizzare perché il suo atto venga dichiarato ammissibile. Non voglio trasformare questo commento “a prima lettura” nel commentario a un repertorio di casi, ma potrei citarne parecchi (quasi a memoria) in cui la regola di specificità, scritta da nessuna parte, non era ricavabile dalla pregressa giurisprudenza della Corte. A mio avviso, in questi casi la formula utilizzata dal comma 1 dell’art. 111 Cost. – il giusto processo regolato dalla legge – trova tutta la sua giusta espansione, perché dovrebbe essere la legge ex ante a regolare anche le modalità e forme di accesso al giudice, non il giudice stesso con orientamenti che si conoscono ex post.
Ne deduco che il formalismo giuridico è uno dei problemi che possono riscontrarsi nell’accesso al giudice di legittimità, non certamente l’unico.
Ricordo che in occasione dei lavori preparatori della riforma del 1990 (legge n. 353) si accese una piccola polemica sulla supposta funzione educativa delle norme processuali, perché nella Risoluzione del CSM sul d.d.l. 1288/S/IX (in Foro it., 1988, V, c. 249 ss.) l’estensore Borré affermava che il processo «educa o diseduca» (il riferimento era al giudizio di primo grado e alle preclusioni). A distanza di molti anni, occorre riconoscere che quell’estensore (un giurista di calibro non comune) aveva perfettamente ragione: le norme processuali, come tutte le regole di comportamento, possono favorire comportamenti virtuosi o viziosi. Le norme di cui stiamo parlando – quando si tratta di norme – hanno avuto un chiaro effetto diseducativo su intere generazioni di giuristi: sui giudici, presso i quali si è favorito il radicamento dell’idea che decidere il merito equivalga a non deciderlo e che comunque la somministrazione della tutela presuppone un giudizio di meritevolezza sul come quella tutela viene richiesta e sulla “professionalità” del difensore (grave attentato al principio di eguaglianza, perché non tutti possono permettersi difensori esperti e specializzati); sugli avvocati, perché ormai non c’è difesa, nei gradi di impugnazione, che non preveda l’utilizzo di quel triste repertorio di eccezioni di inammissibilità che costituisce la snervante “sfoglia di cipolla” che nasconde il merito della causa. Ma davvero siamo disposti a credere che in tutti i ricorsi per cassazione ci siano problemi di autonomia, autosufficienza, specificità, contrasto cogli orientamenti consolidati? Davvero crediamo che i giudici dei gravami debbano, sempre, anteporre stucchevoli trattazioni sull’ammissibilità prima di passare al merito dell’impugnazione?
Discorso a parte, che abbiamo in altre sedi affrontato ma che ci sembra opportuno almeno cennare qui, è quello della “nomofilachia”. Ritengo che il legislatore delegato del 2006 abbia commesso qualche errore. Forse non è stata adeguatamente ponderata la generalizzazione del giudizio sostitutivo di merito, che la legge del 1990 aveva limitato ai casi di accoglimento del ricorso con motivo fondato sul n. 3) dell’art. 360 c.p.c.; ma l’errore più grave è stato quello di consentire alla Corte, anche senza istanza del PG, la pronuncia di principi di diritto nell’interesse della legge svincolata dalla pronuncia sul merito del ricorso. Allontanare la Corte dalle sue funzioni di giudice non è stato un bene (e infatti in taluni collegi hanno fatto capolino dei legislatori in erba, o garzoni del legislatore); così come non sarà un bene consentire alla Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale, come pure previsto nel d.d.l. di recente approvato dal Senato, non fosse altro perché una Corte, come la nostra, ingolfata di ricorsi non dovrebbe avere il tempo di – come oggi si dice – differenziare la propria offerta.
La cura che serve alla Corte è il ritorno al giudizio: senza impicci, senza soverchie complicazioni. E che sia il legislatore, con norme chiare, a risolvere i problemi di accesso, togliendo alla Corte l’imbarazzo di dover essere il regolatore di se stessa.
Ufficio per il processo e magistratura onoraria. Un nuovo caso di anomalia nel panorama europeo
di Alessia Perolio*
Quando ho chiesto ai colleghi europei, membri di Enalj, di spiegarmi com’era organizzato l’Ufficio per il Processo presso i loro Tribunali, la maggior parte di essi è rimasta sconcertata. Inizialmente non capivano cosa stessi loro chiedendo, ed ho pensato che le difficoltà della traduzione dall’italiano all’inglese e da questi alla loro lingua madre non giocasse a favore. Tuttavia ho capito che non è per questo motivo che erano in difficoltà.
Il punto centrale è che nessuno dei colleghi giudici onorari e laici europei fa parte dell’ufficio per il processo o della sua omologa versione.
La collega Bettina Cain, Responsabile[1] per l’Europa dell’Associazione federale dei giudici laici della Germania, mi ha riferito che: un tale ufficio di collaborazione per i giudici non esiste nei tribunali penali tedeschi e che i giudici professionali non hanno assistenti che li coadiuvano, precisando che si è discusso in Germania se assegnare del personale ai giudici che hanno familiarità con questioni economiche o tecniche ma questa idea non è mai stata seriamente perseguita.
Presso le alte corti federali il personale accademico assiste i giudici della Corte. Si tratta di Giudici o Pubblici Ministeri che aspirano ad una carriera superiore e quindi lavorano per un periodo presso una Corte Suprema per poter dimostrare le proprie qualità ed essere promossi. In ogni caso non ci sono giudici onorari che compongono questi uffici i quanto essi partecipano solo ai procedimenti orali del loro Tribunale e non sono coinvolti nella preparazione dei casi.
Paulette Van den Eynden-Vercauteren[2], Presidente dell’associazione, EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, membro del Consiglio d’Europa, ha affermato di capire le preoccupazioni dei giudici onorari italiani e di sentirsi essa stessa preoccupata per questa nuova struttura creata in Italia, aggiungendo che questo tipo di "ufficio" sarebbe impensabile in Belgio e certamente in Francia ove, mi ha spiegato che, tranne la regione di Strasburgo, non ci sono giudici togati nei tribunali commerciali dei quali ella fa parte. La collega ha affermato che per l’ordinamento francese e belga questo nuovo sistema creerebbe una rivoluzione. Inoltre ha considerato, sposando le preoccupazioni della magistratura onoraria italiana, che tale inserimento ai suoi occhi appare un regresso professionale per i giudici onorari in Italia.
Paulette Van den Eynden-Vercauteren si è infine dimostrata preoccupata in ordine al carattere dell’"indipendenza" del giudice in questa nuova costruzione, chiedendosi se la struttura sia compatibile con questo principio. Sicuramente nell’ambito del progetto Sofia, continueremo ad inviare al Consiglio d’Europa gli aggiornamenti su questa materia, così come, da Presidente di Enalj, ho fatto negli scorsi anni.
Stefan Blomquist[3] che si trova a capo dell'Associazione svedese dei giudici laici e rappresenta tutti i giudici laici, mi ha riferito di avere un piccolo ufficio con un dipendente part-time che è pagato dai membri dell'Associazione dei giudici laici e di aver chiesto per l'anno prossimo più fondi al Governo per aumentare il loro numero di lavoratori in quanto egli ha urgente bisogno di ulteriore supporto amministrativo per poter svolgere appieno il suo compito in quanto in Svezia ci sono 10.000 giudici onorari distribuiti in più di 70 tribunali.
Circa l’ufficio del processo o di collaborazione per il Giudice, mi ha spiegato che in Svezia esiste una struttura simile ma che comprende solo i giudici professionali, e non include i giudici onorari. Il reclutamento dei membri dell’ufficio per il processo avviene tramite procedure ordinarie gestite dal Governo che provvede poi a pagare la retribuzione degli stessi.
In Svezia quindi non solo i giudici laici ed onorari non fanno parte dell’ufficio del processo, ma addirittura il Governo svedese provvede economicamente a pagare una struttura adibita ad aiuto dei giudici laici.
Durante una videochiamata relativa alla preparazione del prossimo congresso Enalj, ho altresì avuto modo di parlare con il collega austriaco Rainer Sedelmayer,[4] già Presidente di EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, nonché rappresentante dei giudici onorari e laici austriaci il quale mi ha detto di non aver mai sentito parlare i suoi colleghi di questo tipo di ufficio e che non vi sono giudici onorari e laici che ne fanno parte.
Dennis Barr[5], Segretario SJA, rappresentante dei giudici onorari Scozzesi, con il quale sono in contatto e al quale ho chiesto notizie sulla presenza di un ufficio simile al nostro ufficio per il processo, ed il quale non è stato in grado di rispondermi, non avendo mai sentito nominare questa struttura.
Alla luce di questo confronto, sebbene non si possa negare che l’ufficio per il processo, sia presente in diverse realtà europee, occorre rilevare che la struttura che il Governo italiano ha voluto creare, non ha eguali nel resto d’Europa ove tale “unità organizzativa” è costituita da uno staff di laureati ed impiegati che assistono il giudice professionale nella decisione.
Da ulteriori ricerche ho potuto appurare che in Austria[6] per quanto concerne le materie di controversie del lavoro, previdenziali e commerciali i giudici sono affiancati da esperti (laienrichter)[7]. Non solo, ogni Giudice “[…] viene coadiuvato da due assistenti laureati (per un periodo massimo di due anni), ai quali è affidato il compito di fare ricerche giurisprudenziali, di scrivere bozze di sentenze.
In Olanda[8] a ciascun Giudice vengono affidati uno o due assistenti, già laureati oppure ancora studenti, oltre ad una impiegata. Gli studenti lavorano part-time e si occupano di redigere le sentenze più semplici, di verbalizzare, di preparare la scheda del processo.
Anche in Polonia vi sono studenti laureati che affiancano il giudice.
In Francia un Secretaires greffler assiste i magistrati nello svolgimento delle proprie attività.”
Si noti che in tutti questi casi, la struttura organizzativa non coincide con quella approntata in Italia. Mentre nelle strutture europee i collaboratori del Giudice professionale sono soggetti che si affacciano alla professione giuridica in senso lato, in Italia i giudici onorari, che svolgono l’importante funzione giurisdizionale, laureati in giurisprudenza, formati con mesi di tirocinio, sottoposti all’obbligo della formazione continua, e nella maggior parte dei casi con un bagaglio di esperienza maturato in anni di lavoro, sono stati inseriti nell’ufficio per il processo.
Ancora una volta la magistratura onoraria, questa volta inserita nell’ufficio per il processo rappresenta un caso Unico nel panorama europeo, a cui la riforma elaborata dalla Commissione Castelli ha cercato di porre un rimedio. Infatti nel testo elaborato dalla Commissione è previsto che, per quanto concerne i magistrati onorari italiani attualmente in servizio, sebbene gli stessi saranno inseriti nella struttura, conserveranno la funzione giurisdizionale. Inoltre essi saranno esclusi da qualsiasi altra attività di supporto ai magistrati professionali, che invece sarà riservata ai giovani giuristi. L’auspicio è che tale impostazione possa estendersi anche ai futuri nuovi magistrati onorari al fine di armonizzare la previsione dell’ufficio del processo con le figure già esistenti nel resto d’Europa.
* Presidente di Enalj (Associazione europea giudici laici ed onorari)
Fonti:
- Bettina Cain, Responsabile per l’Europa dell’Associazione federale dei giudici laici della Germania (via mail);
- Paulette Van den Eynden-Vercauteren, Presidente dell’associazione, EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, membro del Consiglio d’Europa (via mail);
- Stefan Blomquist capo dell'Associazione svedese dei giudici laici e rappresentante di tutti i giudici laici nazionali (via mail);
- Rainer Sedelmayer, già Presidente di EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, nonché rappresentante dei giudici onorari e laici austriaci;
- Dennis Barr[9], Segretario SJA, rappresentante dei giudici onorari Scozzesi (via mail);
- Armini Kapeller: Struttura ed organizzazione giudiziaria in Austria (ristretti.it)
- European Justice (e-justice.europa.eu);
- Carmelo Barbieri e Alessio Colangelo rispettivamente magistrato addetto e funzionario amministrativo dell’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia: Analisi di impatto della Regolamentazione (www.governo.it)
[1] Bettina Cain, Responsabile per l’Europa dell’Associazione federale dei giudici laici della Germania
[2] Paulette Van den Eynden-Vercauteren, Presidente dell’associazione, EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, membro del Consiglio d’Europa;
[3] Stefan Blomquist capo dell'Associazione svedese dei giudici laici e rappresentante di tutti i giudici laici nazionali;
[4] Rainer Sedelmayer, già Presidente di EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, nonché rappresentante dei giudici onorari e laici austriaci;
[5] Dennis Barr[5], Segretario SJA, rappresentante dei giudici onorari Scozzesi;
[6] Armin Kapeller: Struttura ed organizzazione giudiziaria in Austria (ristretti.it)
[7] European Justice – Unione europea;
[8] Carmelo Barbieri e Alessio Colangel: Analisi di impatto della Regolamentazione (Relazione tecnica su ufficio per il processo);
La stizza della Corte dinanzi al giudice irrispettoso
(nota a Corte cost. n. 127/2021)[1]
di Francesco Dal Canto
1. C’è un passaggio nella sentenza in commento che lascia stupiti.
Si tratta del punto 2 del dispositivo, ove può leggersi, testualmente, che la Corte “ordina la trasmissione degli atti del presente giudizio al Procuratore generale presso la Corte di cassazione per gli eventuali provvedimenti di competenza”.
La misura è più unica che rara. Prospettando l’avvio di un possibile procedimento disciplinare, essa è chiaramente volta a stigmatizzare la singolare condotta del giudice rimettente che, dapprima, promuove la questione di costituzionalità di alcune disposizioni contenute nel codice di procedura penale e, successivamente, riassume e decide il giudizio a quo senza attendere la conclusione del processo costituzionale. Si noti che il giudice rimettente non si pone il problema di revocare l’ordinanza di rimessione, come pure eccezionalmente e altrettanto problematicamente era accaduto in passato, bensì, più semplicemente, riavvia il giudizio sospeso, sganciando il suo esito da quello del processo celebrato dinanzi alla Corte costituzionale.
Esclusivamente a tale profilo è dedicata questa breve nota.
2. È utile ripercorrere sinteticamente i fatti. Con ordinanza del 9 settembre 2020 il Tribunale di Lecce promuove le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 438, comma 6, e 458, comma 2, c.p.p., in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui essi non consentivano all’imputato, in caso di rigetto da parte del g.i.p. della richiesta di giudizio abbreviato condizionato, di riproporre la richiesta di rito alternativo al giudice del dibattimento.
Nella specie, il giudice rimettente stava procedendo nei confronti di un imputato il quale, dopo essere stato rinviato a giudizio, aveva tempestivamente proposto al g.i.p. richiesta di giudizio abbreviato condizionata all’acquisizione delle indagini difensive e all’audizione di un testimone; tale richiesta, tuttavia, era stata respinta dal giudice, che aveva ritenuto tale integrazione probatoria incompatibile con le caratteristiche del rito.
Il Tribunale, cui l’imputato si rivolge rinnovando la medesima istanza, ritiene che la stessa debba essere rigettata in quanto la possibilità di reiterare la richiesta di giudizio abbreviato condizionato non era stata contemplata nel nuovo testo dell’art. 438, comma 6, c.p.p., recentemente modificato dalla legge n. 33/2019; e ciò a differenza di quanto era invece previsto nel regime precedente, nel quale tale la possibilità era stata introdotta proprio da una pronuncia additiva della Corte costituzionale (sent. n. 169 del 2003). Sulla base di tali argomenti il collegio ritiene alfine necessario promuovere la questione di costituzionalità, atteso che la suddetta mancata previsione aveva determinato un vulnus al diritto di difesa dell’imputato.
Di lì a pochi mesi (15 febbraio 2021) avviene un fatto nuovo, piuttosto anomalo. Il giudice rimettente, infatti, cambia radicalmente idea e, con una nota del Presidente della sezione procedente, comunica alla Corte, affinché essa “assuma le determinazioni del caso, anche in punto di rilevanza della sollevata questione”, di avere disposto la prosecuzione della trattazione del processo, “attesa l’esigenza di anticipare la trattazione del giudizio a quo, anche in considerazione dello stato cautelare cui è attualmente sottoposto l’imputato e considerato che la sollevata questione di legittimità costituzionale può ritenersi superata dalla già intervenuta pronuncia sulla medesima questione della Corte cost., sent. n. 169/2003, sulla cui portata non ha inciso la novella relativa all’art. 438 c.p.p. recata dalla legge n. 33/2019”. E poco dopo (27 maggio 2021), in effetti, il Tribunale rimettente invia una seconda nota alla Corte, comunicando di avere pronunciato il 28 aprile 2021, in esito a giudizio abbreviato, sentenza di condanna dell’imputato alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione.
Dinanzi a tale tortuoso iter, la Corte osserva, innanzi tutto, che la decisione di dare prosecuzione al giudizio a quo, nonostante la pendenza dell’incidente di costituzionalità, “non elide la perdurante rilevanza delle questioni prospettate” in forza del principio di autonomia del processo costituzionale che, come tale, non risente delle vicende di fatto successive all’ordinanza di rimessione. Si tratta, com’è noto, di un consolidato indirizzo giurisprudenziale in forza del quale l’accertamento della rilevanza ha carattere istantaneo, ovvero esso fotografa il legame oggettivo tra i due giudizi nel momento genetico in cui il dubbio di costituzionalità viene sollevato.
Sulla base di tali presupposti, la Corte entra nel merito dei dubbi di costituzionalità prospettati, giungendo, peraltro, a dichiarare l’inammissibilità della questione in ragione dell’erroneità delle premesse interpretative dalle quali muoveva l’ordinanza di rimessione. In particolare, la Corte sottolinea che la questione sollevata era in realtà priva di oggetto, in quanto il giudice rimettente aveva erroneamente ipotizzato l’esistenza di una lacuna in effetti insussistente, stante la perdurante operatività dell’addizione operata dalla richiamata pronuncia n. 169 del 2003, non messa in discussione dalla novella intervenuta nel 2019, sebbene da quest’ultima non riprodotta espressamente.
3. Così ricostruita la vicenda, la prima osservazione che può essere svolta conduce a evidenziare il paradosso che la caratterizza.
In buona sostanza la Corte, riconoscendo che la disciplina introdotta con la pronuncia additiva del 2003 doveva ritenersi ancora operante nell’ordinamento, sottolinea la circostanza che il giudice non avrebbe potuto promuovere la questione di costituzionalità; egli, al contrario, avrebbe dovuto far buon uso dei suoi poteri interpretativi consentendo da subito all’imputato di reiterare la richiesta di giudizio abbreviato condizionato. Si tratta -appunto, paradossalmente - della stessa conclusione cui giunge, in seconda battuta, anche il giudice rimettente, quando, rendendosi conto dell’errore commesso, torna sui propri passi e dispone la prosecuzione del processo. Un ravvedimento tardivo, tuttavia, che fa compiere al giudice un’operazione non in armonia con le regole che governano il processo costituzionale incidentale.
Una volta che quest’ultimo è stato innescato, infatti, la parola passa alla Corte e, fin quando essa non si è pronunciata, il giudizio rimane sospeso. E’ lo stesso Giudice del leggi, nella sentenza in commento, a ricordare che tale conclusione si ricava, in particolare, dall’art. 23, comma 2, della legge n. 87 del 1953: “l’autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi della istanza con cui fu sollevata la questione, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso” (c.vi aggiunti).
Ne consegue che non rientra nella discrezionalità del giudice rimettente cambiare idea sulle decisioni assunte quando ormai il percorso che ha investito il Giudice costituzionale è stato attivato. E del resto, nello stesso senso - per quanto si tratti di argomento piuttosto formalistico e probabilmente non del tutto aderente alla prassi - depone anche la circostanza che il giudice a quo, una volta trasmessi gli atti processuali alla Corte, non ha più la materiale disponibilità degli stessi; e dunque, anche volendo, non dovrebbe poter riassumere il giudizio se non chiedendo formalmente la restituzione del fascicolo al Giudice delle leggi.
Si tratta di capire, peraltro, se la conclusione appena riferita vada accolta come un principio inderogabile, come sembra ritenere la Corte, o possa ammettere eccezioni. A tale proposito può in effetti essere richiamato l’orientamento non monolitico della dottrina: se la stessa, infatti, si è mostrata generalmente contraria all’ipotesi che possa essere revocata l’ordinanza di rimessione, al fine di non compromettere l’interesse generale alla legalità costituzionale, essa ha invece mostrato delle posizioni meno perentorie con riguardo all’ipotesi di revoca della sola sospensione del giudizio a quo, evidenziandosi da parte di alcuni l’opportunità, appunto come eccezione alla regola, ovvero di fronte a taluni specifici fatti sopravvenuti, di distinguere tra situazione e situazione, al fine di contemperare interessi di volta in volta eventualmente concorrenti (cfr., tra gli altri, A. Cerri e R. Romboli).
Ciò detto, dalla pronuncia in esame traspare chiaramente la stizza del Giudice delle leggi, che stigmatizza con inusuale durezza la decisione del giudice a quo, qualificandola espressamente come “ipotesi patologica” e, come anticipato, disponendo la trasmissione degli atti alla Procura generale presso la Corte di cassazione.
4. La Corte costituzionale, dunque, ravvede nel comportamento del giudice rimettente gli estremi di un illecito disciplinare.
Non mi pare vi siano precedenti in termini. Per un caso simile, quanto meno con riguardo ai rapporti tra Corte e giudici rimettenti, può richiamarsi un episodio di cui fu protagonista il Presidente della Corte costituzionale Francesco Saja alla fine degli anni Ottanta, il quale, infastidito dai gravi ritardi con cui numerosi giudici a quibus trasmettevano alla cancelleria gli atti del processo principale, effettuò una segnalazione di censura al C.S.M. Quest’ultimo, nell’emanare a stretto giro una circolare per sollecitare i giudici rimettenti a una maggiore attenzione, inoltrò a propria volta la segnalazione ai vertici della Corte di cassazione.
Ma il caso in commento è decisamente più grave, in quanto è la stessa Corte costituzionale, con sentenza, impegnando dunque al massimo livello la sua autorevolezza, che sollecita un intervento della Procura generale.
Tale durezza è comprensibile soprattutto come reazione a un comportamento percepito come un atto di lesa maestà dal Giudice costituzionale, prima interpellato e poi completamente ignorato, con l’abbandono della questione di costituzionalità al proprio destino. La stessa, invece, appare eccessiva se intesa quale misura volta a garantire la coerenza complessiva del carattere incidentale del processo costituzionale: da questo secondo punto di vista, infatti, come detto, la questione avrebbe probabilmente meritato una risposta più articolata; e ciò anche tenendo conto della forza di precedente che, a prescindere dal caso specifico, essa rivestirà in futuro.
Ciò segnalato, ci possiamo da ultimo domandare, a fronte della tipizzazione degli illeciti disciplinari intervenuta all’indomani della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007, a quale fattispecie disciplinare possa essere ricondotto il comportamento del giudice a quo, tra quelle elencate dal legislatore.
La risposta sembra obbligata, stante la rigidità dell’attuale sistema sanzionatorio. Può venire in gioco, tra gli illeciti disciplinari “nell’esercizio delle funzioni”, esclusivamente la “grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile” (cfr. art. 2, lett. g), d.lgs. n. 109 del 2006).
Ma non è scontato che il singolare comportamento del giudice rimettente, certamente poco rispettoso nei confronti della Corte costituzionale, possa integrare il presupposto della gravità. E ciò, anche a prescindere dalle osservazioni più generali poc’anzi svolte, a fronte soprattutto della circostanza che il dovere di non proseguire il processo prima della pronuncia della Corte, pur rintracciabile nella natura del giudizio incidentale, non è espressamente sancito in alcuna disposizione di legge. Lo stesso art. 23 della legge n. 87/1953, opportunamente richiamato nella pronuncia in commento, se impone certamente la sospensione del processo principale, non stabilisce in senso stretto un divieto, formale e assoluto, di revocare la stessa in un secondo momento.
Si tratta, dunque, di attendere come si muoverà la Procura generale della Cassazione, investita di una responsabilità inconsueta e particolarmente pesante.
[1] La presente nota, comprensiva di note a piè di pagina, è in corso di pubblicazione anche sulla rivista Giurisprudenza costituzionale.
La lenta erosione del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Prime note ai “criteri di priorità” indicati dal Parlamento
di Stefano Civardi
Come noto, la L. 134/2021 (c.d. “Riforma Cartabia”) si compone di due articoli: il primo, articolato in commi e sottocommi, contenente “delega al Governo per la modifica del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale nonché delle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, per la revisione del regime sanzionatorio dei reati e per l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e di una disciplina organica dell’ufficio per il processo penale”; il secondo, recante novelle al codice penale e di rito, immediatamente precettive (la legge è stata pubblicata sulla gazzetta ufficiale n. 237 del 4.10.2021).
In questi essenziali appunti ci si occupa del contenuto dell’art. 1, comma 9, lett. i). La legge delega recita: “gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti” .
Non è questa la sede per positivamente commentare la “svolta legislativa” conseguente all’ “allineamento” della procedura di approvazione dei progetti organizzativi degli uffici requirenti a quella relativa alle tabelle degli uffici giudicanti. Se alla legge delega sul punto seguiranno tempestivi decreti delegati di attuazione nel termine annuale previsto, si realizzerà la prima robusta inversione di rotta rispetto all’indiscutibile assetto gerarchico delle Procure della Repubblica consegnatoci dal decreto l.vo 106/2006.
Ciò che vorrebbe, invece, essere messo a fuoco da queste embrionali note è la prima parte della disposizione.
Apparentemente la norma non sembrerebbe così innovativa in quanto, ricalcando il noto “mantra” del fine di garantire l’ ”efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”, prevede semplicemente che gli uffici del Pubblico Ministero indichino nei progetti organizzativi i criteri di priorità nella “selezione” delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre. La qual cosa è già espressamente prevista nella circolare del Consiglio Superiore della Magistratura del 16.11.2017, sull’organizzazione degli uffici requirenti: l’art. 3, comma 2 già contempla infatti che il procuratore della Repubblica possa “elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti”. Si badi bene che l’organo di governo autonomo facoltizzava l’indicazione di trasparenti criteri di priorità nei progetti organizzativi, ma non ne rende in alcun modo obbligatoria l’elaborazione. Del resto, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 2017 si era già spinto fino all’estremo limite consentito in sede di normazione secondaria, non essendo previsto in alcun modo dalla normazione primaria una “cernita” nella trattazione prioritaria delle notizie di reato per gli uffici requirenti, essendo per contro previsti, dall’art. 132 bis disp. att. c.p.p., criteri per l’organizzazione dei ruoli dei soli uffici giudicanti (per una puntuale ricostruzione degli interventi del CSM si legga il secondo pare del Consiglio sulla “riforma Cartabia” – ddl AC n.2435 - licenziato con delibera del 29.7.2021, da p. 13).
L’assoluta novità è invece nella “duplice copertura legislativa” ai criteri di priorità inseriti nei progetti organizzativi. Da un lato, infatti, il legislatore delegante prevede espressamente, non più come semplice facoltà, l’individuazione, secondo canoni di trasparenza e predeterminazione, delle notizie di reato da trattare con priorità negli uffici di Procura; dall’altro, prescrive che tale selezione avvenga nell’ambito dei “criteri generali” indicati dal Parlamento con legge.
Proprio su quest’ultimo punto si sono accentrate le critiche più preoccupate. Infatti, mentre la selezione operata dal procuratore della Repubblica nei progetti organizzativi sarebbe frutto di un concreto lavoro sui flussi delle notizie di reato in entrata, sulla definizione dei procedimenti e sullo studio dei mezzi per meglio fronteggiare le emergenze criminali in un determinato territorio, le indicazioni di priorità del Legislatore inevitabilmente decamperebbero dall’ambito meramente organizzativo degli uffici requirenti, per invadere quello dell’orientamento della funzione giudiziaria a secondo degli indirizzi politici delle variabili maggioranze parlamentari.
La comprensibile critica, tuttavia, non coglie pienamente quanto sia naturale ricondurre alla volontà del Parlamento una scelta di criteri generali per determinare le priorità nella trattazione di diverse tipologie di reati. Ciò che è penalmente rilevante, lo è, secondo la nostra Costituzione, per espressa previsione di legge. Sarebbe curioso che fattispecie di reato degradassero a fatti di rilevanza penale “non prioritaria”, a prescindere dal Parlamento.
Con spunto più radicale e provocatorio, in realtà, occorrerebbe riflettere su che cosa significhi “selezionare” le priorità, soprattutto con riferimento ai fascicoli ritenuti non prioritari, con particolare riferimento all’evento, non del tutto episodico, di estinzione dei reati per decorso del termine di prescrizione. Nell’eufemismo dei termini la norma è volta a garantire quel “corretto, puntuale, uniforme esercizio dell’azione penale”, tanto agognato dal legislatore del 2006. Nella pratica degli Uffici, tuttavia, è noto come l’azione penale non possa essere tempestivamente, efficacemente e uniformemente garantita, istruendo convenientemente tutte le notizie di reato che approdano negli uffici requirenti di primo grado. Conscio di questo assunto, tanto sperimentato quanto indicibile, da qualche decennio il legislatore cerca l’impossibile quadratura del cerchio. Se, da un lato, mantiene l’ossequio al sacrosanto principio di obbligatorietà dell’azione penale, presidio tanto di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, quanto di indipendenza dell’azione dell’Autorità Giudiziaria, dall’altro, si accinge a formalizzare una “obbligatorietà per priorità”, laddove la vera domanda rimane il destino di ciò che sarà indicato, de residuo, come secondario.
Il silenzioso ribaltamento “etico” nel processo di riforma della fiscalità internazionale: spunti a margine dell’accordo OCSE dell’8 ottobre 2021
di Francesco Pepe*
Sommario: 1. Premessa: l’inaspettata accelerazione nello sviluppo del progetto BEPS: l’accordo politico sui “due pilastri” dell’8 ottobre 2021. – 2. Le esigenze alla base dell’accordo: garantire alle market-jurisdictions il diritto di tassare imprese multinazionali ivi operanti indipendentemente da una presenza “fisica” nel territorio (Pillar One) ed assicurare una loro tassazione minima “globale” (Pillar Two). – 3. (segue): limiti e criticità dell’attuale accordo. – 4. Le cause “storiche” dell’accordo: la necessità “strategica” di reperire ingente gettito nella post-pandemia. – 5. Il ribaltamento “etico” sotteso ai nuovi moduli impositivi: il diritto internazionale tributario da argine al potere impositivo statale a “strumento di potenza” delle nazioni.
1. Premessa: l’inaspettata accelerazione nello sviluppo del progetto BEPS: l’accordo politico sui “due pilastri” dell’8 ottobre 2021
Se osservassimo la “cronologia” del processo di riforma della fiscalità internazionale che, da quasi 15 anni, si sta svolgendo sotto l’egida dell’OCSE (cd. progetto BEPS: Base Erosion and Profit Shifting), noteremmo subito una sua incredibile accelerazione a partire dalla fine del 2020 e, soprattutto, nel corso del 2021[1]. Incredibile perché – nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi dieci anni da parte dell’OCSE– fino a poco tempo fa i più ritenevano pressoché impossibile giungere ad un accordo su larga scala[2], salvo mutare radicalmente approccio al problema[3]. Troppe infatti le differenze tra sistemi, troppe le divergenze tra interessi nazionali, troppi gli aspetti tecnici apparentemente “di dettaglio”, ma che in realtà sottendevano un enorme impatto geopolitico, dunque fortemente conflittuali.
Eppure, tra luglio ed ottobre 2021, complice una inaspettata apertura degli Stati Uniti[4], ben 136 Paesi (compresi gli Stati membri dell’UE) hanno prestato adesione (per ora solo in termini politici) alla proposta di modifica delle regole della fiscalità “a due pilastri” (Two-Pillars); proposta avanzata ad inizio 2019, affinata nel corso del 2020 e resa più nitida nel recentissimo accordo dell’8 ottobre 2021[5]. È interessante osservare in cosa consista tale proposta e, soprattutto, perché proprio ora essa ha trovato un tale inaspettato riscontro internazionale.
2. Le esigenze alla base dell’accordo: garantire alle market-jurisdictions il diritto di tassare imprese multinazionali ivi operanti indipendentemente da una presenza “fisica” nel territorio (Pillar One) ed assicurare una loro tassazione minima “globale” (Pillar Two)
Le esigenze che essa intende soddisfare sono note. In primo luogo, superare il tradizionale criterio dell’ancoraggio “fisico” dell’impresa al territorio di uno Stato (attraverso la residenza fiscale o la “stabile organizzazione”) per la tassazione dei profitti ivi prodotti, criterio da decenni consacrato in pressoché tutti i sistemi nazionali e nei trattati bilaterali contro le doppie imposizioni, ma non più adeguato in un’economia “digitalizzata”[6]. La “de-materializzazione” di molti beni e servizi consente infatti alle imprese di “de-territorializzarsi”, di operare cioè su più mercati, acquisendo da essi ampie quote di fatturato, senza alcuna necessità di collocare in loco proprie strutture; ciò che – de iure condito – impedisce agli “Stati-mercato” (market jurisdictions) di operare una qualche imposizione sui profitti ivi realizzati[7]. La proposta OCSE (oggi accolta) intende assicurare proprio a questi Paesi il diritto di tassare (in tutto o in parte) tali flussi di ricchezza, slegando il prelievo da una presenza “reale” dell’impresa nel proprio territorio. È questo l’oggetto specifico del cd. Pillar One, che ha trovato traduzione tecnica in una ideale suddivisione del “profitto globale” annuo dei gruppi multinazionali interessati[8] in varie quote, alcune delle quali sottoposte – ex se o a determinate condizioni – a tassazione nelle market-jurisdictions. Più esattamente, espunto l’ordinario margine di redditività (presuntivamente fissato al 10% del fatturato), il profitto residuale (residual profit) è poi ulteriormente suddiviso in due quote (del 25% e del 75%), la prima delle quali (Amount A) ripartita tra le diverse market-jurisdictions in proporzione al fatturato conseguito in ciascuna di esse; la seconda (Amount B) assegnata alla residence-jurisdiction o alla market-jurisdiction in base ai consueti criteri di territorialità (residenza fiscale, stabile organizzazione)[9].
La proposta e l’accordo dell’ottobre 2021 non si limitano però solo a questo. Accanto a tale aspetto – che attiene al “come” tassare le imprese multinazionali (soprattutto, ma non solo) “digitali” – essa stabilisce “quanto” tassare tali soggetti. In sede internazionale ed europea, infatti, altra spinosa questione (invero, più politica che tecnica) riguarda la cd. “concorrenza fiscale internazionale”: quella “corsa al ribasso” del prelievo domestico teso ad accaparrare investimenti e residenti (o, se si preferisce, capitali e capitalisti…)[10]. Contro tale fenomeno – esacerbato oltremodo dalla digitalizzazione dell’economia, dagli effetti perversi sul piano dell’equità fiscale, della sostenibilità del welfare state, quindi della “giustizia sociale”[11] – l’OCSE propone – in sostituzione delle eventuali digital taxes esistenti (che verrebbero infatti abrogate) – una “tassazione minima globale” (Global Minimum Tax: GMT) dei profitti conseguiti dalle multinazionali, sui quali si vuole far gravare comunque un prelievo (minimo) del 15%[12].
È questo l’oggetto del cd. Pillar Two, che assegnerebbe ad ogni Stato il diritto (dovere?) di applicare sui flussi reddituali “trans-nazionali” un sorta di sovra-tassazione interna a carattere “reattivo-compensativo”, solo cioè ove sul medesimo flusso lo Stato estero applicasse un’imposizione interna inferiore al 15%, e nella misura strettamente necessaria a compensare tale deficit. È evidente come, in tal modo, da un lato, verrebbero di fatto vanificate tutte quelle politiche nazionali di “captazione” fiscale attuate mediante prelievi inferiori alla soglia del 15%; dall’altro, ed in conseguenza di ciò, gli Stati sarebbero indotti ad allineare (quanto meno) a tale livello minimo l’imposizione domestica, ridimensionando di molto il fenomeno della “concorrenza fiscale internazionale”.
3. (segue): limiti e criticità dell’attuale accordo
Su tali proposte occorre però essere chiari: siamo ancora in una fase embrionale di sviluppo. Certamente, sapere che su tali linee di fondo vi sia un consenso diffuso è un enorme passo in avanti, specie se si ha a mente il perdurante “stallo” del decennio precedente. Tuttavia – come si suol dire e come specialmente avviene nel mondo del diritto – “è nei dettagli che il diavolo nasconde la propria coda”. C’è infatti una larga serie di punti ancora irrisolti, vari aspetti di carattere “tecnico” ancora da definire, ma sui quali si gioca la capacità della proposta non solo di superare lo stadio dell’accordo politico (soft law) e divenire atto giuridico vincolante (hard law), ma anche – ove approvata – di realizzare davvero i propri ambiziosi obiettivi[13].
Ad esempio, il riferimento alla sola “aliquota” nella configurazione del “minimo” imposto dalla GMT è – intuitivamente – in sé non significativo ed anzi ingannevole in presenza di meccanismi nazionali di calcolo delle basi imponibili tra loro divergenti. Per funzionare, una simile riforma imporrebbe cioè la fissazione di una qualche regola che renda omogenei tali basi a livello internazionale, o – in alternativa – che fornisca un criterio adeguato a raffrontare i livelli effettivi dei vari (e pur diversi) sistemi di tassazione domestica. Anche l’ipotesi di aggancio al consolidato civilistico (determinato secondo i principi contabili internazionali IAS/IFRS) non priva il tema di complessità, attesa l’ineliminabile presenza in ogni sistema impositivo di norme fiscali volte a stabilire (per ragioni di semplificazione, di cautela, di agevolazione, finanche di mero gettito) “variazioni” dell’imponibile rispetto al risultato contabile (cd. timing/permanent differences)[14]; o di norme finalizzare a definire i termini di “trasmissione” delle perdite tra periodi di imposta ai soli fini tributari (losscarry forward o carry back). Senza contare i rischi di doppia imposizione che verrebbero a crearsi dal combinato operare dei due “Pillars”, ben evidenziati in sede di analisi economico-finanziaria[15].
Si tratta, in tutta evidenza, di questioni – sì – “tecniche”, ma che incidono in “aree” regolative a forte conflittualità politica e che, quando le si dovrà affrontare concretamente, potrebbero paralizzare il processo di riforma[16], o innescare – in sede di negoziazione – “rappresaglie” di vario genere, come già avvenuto in passato, specie nelle relazioni tra USA e UE[17].
4. Le cause “storiche” dell’accordo: la necessità “strategica” di reperire ingente gettito nella post-pandemia
Ciò su cui – con un po’ meno incertezza – può invece farsi una riflessione riguarda le cause “storiche” del mutamento di approccio di buona parte della comunità internazionale e che ha trovato “epifania” nel recente accordo di ottobre 2021. Sebbene siano vari i fattori che hanno concorso a ciò, tuttavia è dato ravvisare in essi un “minimo comune denominatore”: la necessità degli Stati nazionali di reperire ingente gettito (potrebbe dirsi) “a qualunque costo”!
Una necessità sorta con la crisi finanziaria ed economica di inizio XXI secolo (prima quella statunitense dei sub-prime del 2009-2011, poi quella europea del debito sovrano del 2010-2011), ma amplificatasi oltremodo con la crisi da Covid-19, la quale ha assegnato a questa esigenza un rilievo non più solo “interno” (per la sostenibilità del welfare nazionale), ma anche “esterno” o – come forse più correttamente si dovrebbe dire – “strategico”. Come altrove osservato[18], in tale contesto l’acquisizione di risorse finanziarie finisce infatti per assumere la fattezza di “bisogno geo-politico fondamentale”, di priorità che ogni Stato deve soddisfare per “restare in piedi”, economicamente e politicamente, all’interno della comunità internazionale. Mostrarsi pagatori solvibili agli occhi dei mercati finanziari, nonché – per gli Stati membri dell’UE, coinvolti nel più grande piano di prestiti ed investimenti dalla fine del secondo dopoguerra (Next GenerationEU) – delle stesse istituzioni europee, rappresenterà nei prossimi anni un fattore determinante nella definizione del proprio “ruolo” e del proprio “potere negoziale” su scala europea e mondiale. E qui sta il punto.
Apparendo impensabile e contraddittoria l’idea di ottenere più gettito mediante un incremento della tassazione domestica su imprese, lavoratori e famiglie (l’immane sforzo finanziario serve a garantire la “ripresa” proprio di tali soggetti!), l’unica via politicamente praticabile è subito apparsa quella di una tassazione dei gruppi multinazionali, specie “digitali” (MNEs). La coscienza di come queste imprese non solo abbiano retto meglio la crisi Covid-19, ma a volte ne abbiano anche tratto ulteriore profitto, non poteva che far ravvisare proprio in esse il target fiscale (domestico ed internazionale) preferito.
Ed è esattamente in questa prospettiva che, dall’altro lato dell’Atlantico, si è posta anche la nuova amministrazione statunitense a guida Biden[19], la quale (contrariamente a quanto avvenuto sotto la presidenza Trump) ha infatti deciso non solo di modificare radicalmente ed in tal senso il proprio ordinamento fiscale interno, ma anche di sposare la proposta OCSE di riforma della tassazione internazionale a “due pilastri”, sbloccandone di fatto l’approvazione a livello internazionale[20]. Al di là dei dettagli “tecnici” della prefigurata riforma statunitense (che qui non possono essere trattati)[21], gli aspetti interessanti di questa inversione di rotta “globale”, a sommesso avviso di chi scrive, sono soprattutto due.
5. Il ribaltamento “etico” sotteso ai nuovi moduli impositivi: il diritto internazionale tributario da argine al potere impositivo statale a “strumento di potenza” delle nazioni
In primo luogo, potrebbe sostenersi che un simile approdo “politico” – oltre ad essere “nell’aria” da tempo (come confermato dal progetto BEPS e dai vari recenti tentativi nazionali di introdurre digital taxes) – rappresenta in qualche modo il (prevedibile?) frutto dell’ultimo stadio evolutivo del capitalismo di fine ‘900. Così come quest’ultimo, cullato per anni nel chiuso dello Stato, è via via cresciuto, si è emancipato dallo Stato e, globalizzandosi, ne ha eroso grandemente il potere[22]; analogamente, le MNEs (che di tale processo sono la plastica rappresentazione), una volta cresciute a dismisura nel mercato “globale” per ricchezza e potere (anche politico)[23], non potevano che divenire – prima o poi, agli occhi degli Stati – le “prede più ambite”, da cui trarre risorse finanziarie[24].
In secondo luogo, nel tentativo di “cacciare” tali prede, si adottano (e si accettano!) moduli impositivi sempre più spesso slegati dai tradizionali indici di capacità economica (patrimonio, reddito, consumo): ci si affida ad indici “lordi” di ricchezza (fatturato), ad elementi in sé “non economici” (come nelle digital taxes: dati trasmessi o scaricati, interazioni con un sito web, numero di utenti “attivi”, ecc…), a formule di quantificazione/imputazione di quote di profitto del tutto arbitrarie e probabilmente definite in funzione della sola bruta “fattibilità politica” (come gli Amount A ed Amount B sopra menzionati)[25]. Il che – si osservi – potrebbe interpretarsi come il sintomo (esteriore e superficiale) di un (silenzioso e sommerso, ma) radicale e progressivo ribaltamento della struttura “etica” dell’imposizione.
Il diritto internazionale tributario ha sempre funzionato prioritariamente come criterio di limitazione (e coordinamento) del (naturale ed originario) potere impositivo statale[26], in un certo senso ribadendo – seppur a livello sovra-statale e per finalità connesse allo sviluppo del commercio internazionale – la funzione “propria” del diritto in quanto tale e del diritto tributario in particolare: di strumento a tutela della libertà dei “governati” rispetto alla volontà ed al potere dei “governanti”. In tal senso, le costituzioni fiscali, evocando principi e concetti come “consenso all’imposta”, “capacità contributiva”, “ragionevolezza” e “congruità” dei presupposti, esprimevano essenzialmente degli argini al potere impositivo, tesi ad evitare che i governanti, nell’esercizio di quest’ultimo, potessero esercitare pretese vessatorie o “inumane” nei confronti dei governati[27]. Ciò tuttavia è avvenuto perché – fino ad oggi, in genere – il contribuente è sempre stato (implicitamente) apprezzato come parte debole del rapporto tributario, come quel soggetto che – in quanto “passivo”, esposto alla soggezione dell’autorità fiscale – appariva bisognoso di “tutela” e di “protezione”.
Il fatto è che questo presupposto “etico” oggi ha perduto la sua solidità, quanto meno in relazione ad una peculiare cerchia di contribuenti, ossia quelli operanti in una dimensione trans-nazionale. Che le MNEs non possano più apprezzarsi come “parti deboli” del proprio rapporto fiscale con i singoli Stati è evidente; anzi, che esse – per capacità di definire artificialmente il proprio prelievo (tax arbitrage) ovvero di evitarne sostanzialmente il peso (tax avoidance)[28] – oggi ne siano la “parte forte” è sotto gli occhi di tutti. La debolezza è cioè dello Stato e, di riflesso, dei suoi cittadini, privati di rilevanti quote di gettito, dunque di servizi pubblici (più) efficienti e di welfare (più) adeguato. Da qui si comprende l’intento non di arginare, ma di rafforzare verso tali soggetti il potere impositivo statale, andando (pragmaticamente) anche ben oltre gli schemi di tassazione consueti.
L’accordo dell’8 ottobre scorso sembra muoversi questa linea, la quale – ove dovesse trovare in futuro consacrazione in accordi formali, giuridicamente vincolanti – potrebbe creare un nuovo terreno “culturale” su cui implementare, anche nell’ambito della tassazione domestica, nuove tecniche di imposizione, eventualmente rispondenti a criteri maggiormente “pragmatici”, più di efficienza che di equità. Questa circostanza – nella misura in cui dovesse portare il legislatore nazionale ad allontanarsi troppo dai consueti canoni della politica fiscale – potrebbe tuttavia generare nuove spinose questioni di carattere sociale, politico e giuridico, di rilievo anche costituzionale, sul cui esito e sui cui rischi – come la Storia insegna[29] – nessuno può fare previsioni di sorta.
*Associato di Diritto tributario – Università degli Studi di Sassari
[1] Per una sintesi delle finalità e delle tappe di sviluppo di tale progetto, cfr. https://www.oecd.org/tax/beps/.
[2] Tra i tanti, T. Di Tanno, La difficile arte di tassare le imprese digitali, in lavoce.info, 3 novembre 2020, https://www.lavoce.info/archives/70345/la-difficile-arte-di-tassare-le-imprese-digitali/.
[3] In tal senso, sia consentito il rinvio a F. Pepe, Dal diritto tributario alla diplomazia fiscale. Prospettive di regolazione giuridica delle relazioni fiscali internazionali, Milano, 2020, spec. 159 ss.
[4] T. Di Tanno, S. Giannini, Tasse sulle multinazionali: uno spiraglio dall’America, in lavoce.info, 13 aprile 2021, https://www.lavoce.info/archives/73561/tassazione-delle-multinazionali-uno-spiraglio-dallamerica/.
[5] OECD-G/20 BEPS Project, Statement on a Two-Pillar Solution to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy, 8 october 2021, https://www.oecd.org/tax/beps/statement-on-a-two-pillar-solution-to-address-the-tax-challenges-arising-from-the-digitalisation-of-the-economy-october-2021.htm.
[6] T. Di Tanno, 2023, cambia la tassazione delle multinazionali, in lavoce.info, 12 ottobre 2021, https://www.lavoce.info/archives/90194/2023-cambia-la-tassazione-delle-multinazionali/.
[7] Sul punto, ex multis, S. Cipollina, I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, I, 27 ss.; L. Carpentieri, La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali, in Riv. dir. trib., 2018, I, 383.
[8] Quelli con volume di affari superiore a 20 miliardi di euro e con profitti superiori al 10% del fatturato, indipendentemente dal settore di attività, salve alcune esclusioni.
[9] Su queste criticità irrisolte, T. Di Tanno, S. Giannini, Tasse sulle multinazionali: uno spiraglio dall’America, cit.; T. Di Tanno, 2023, cambia la tassazione delle multinazionali, cit.
[10] Sul tema, si veda, specialmente, T. Dagan, International Tax policy. Between Competition and Cooperation, Cambridge, 2018.
[11] Su cui, specialmente, F. Gallo, Potestà normativa di imposizione, mercato e giustizia sociale, in Giur. comm., 2018, I, 371; G. Melis, Evasione ed elusione fiscale internazionale e finanziamento dei diritti sociali: recenti trends e prospettive, in Rass. Trib., 2014, 1283; A. Perrone, Tax competition e giustizia sociale nell’Unione europea, Milano, 2019.
[12] Sul tema, cfr. J. Becker, J. Englisch, Implementing an international effective minimum tax in the EU (June 23, 2021), https://ssrn.com/abstract=3892160.
[13] In tal senso, sebbene in relazione al precedente accordo del G-/ di giugno 2021, F. Gastaldi, M.G. Pazienza, A. Zanardi, Tassazione delle multinazionali: il sentiero stretto dell’OCSE, in lavoce.info, 6 luglio 2021, https://www.lavoce.info/archives/88357/tassazione-delle-multinazionali-il-sentiero-stretto-dellocse/.
[14] Su cui T. Di Tanno, S. Giannini, op. cit.
[15] Su cui F. Gastaldi, M.G. Pazienza, A. Zanardi, op. cit.
[16] Su questo rischio, seppur in relazione all’accordo del G-7 di giugno 2021, cfr. Y. Brauner, The Return of the Phoenix? The G-7 Countries’ Agreement on a 15% Minimum Tax, in Intertax, vol. 49, issue 10, 2021, 750 ss., spec. 752.
[17] M. Greggi, Usa-Ue: partita a scacchi sulle tasse sulle imprese, in lavoce.info, 2 settembre 2016, https://www.lavoce.info/archives/42637/usa-ue-partita-a-scacchi-sul-fisco/.
[18] Sia consentito il rinvio a F. Pepe, L’emergenza Covid-19 nell’Unione europea: verso una solidarietà tributaria “strategica”?, in Riv. dir. trib. suppl. online, 30 aprile 2020, https://www.rivistadirittotributario.it/2020/04/30/lemergenza-covid-19-nellunione-europea-verso-solidarieta-tributaria-strategica/.
[19] U.S. Department of the Treasury, The Made In America Tax Plan, April 2021, https://home.treasury.gov/system/files/136/MadeInAmericaTaxPlan_Report.pdf.
[20] Sul punto, L. Carpentieri, La proposta fiscale dell’Amministrazione Biden e l’ambizione di cambiare le regole del gioco: sarà davvero il tramonto del profit shifting delle multinazionali?, in Riv. dir. trib. suppl. online, 14 maggio 2021, https://www.rivistadirittotributario.it/2021/05/14/la-proposta-fiscale-dellamministrazione-biden-e-lambizione-di-cambiare-le-regole-del-gioco-sara-davvero-il-tramonto-del-profit-shifting-delle-multinazionali/.
[21] Sui quali si rinvia a R. Succio, Note minime di sintesi su alcuni aspetti tributari dell’American Jobs Plan, in Riv. dir. trib. suppl. online, 4 ottobre 2021, https://www.rivistadirittotributario.it/2021/10/04/note-minime-di-sintesi-su-alcuni-aspetti-tributari-dellamerican-jobs-plan/.
[22] C. Galli, Sovranità, Bologna, 2019, 109.
[23] Sul punto, anche per riferimenti, C. Focarelli, Economia globale e diritto internazionale, Bologna, 2016, 243-245.
[24] Su questi aspetti, per più approfondite osservazioni, sia consentito rinviare a F. Pepe, Dal diritto tributario alla diplomazia fiscale, cit., 157.
[25] F. Pepe, op. ult. cit., 151 ss.
[26] A. Fantozzi, K. Vogel, Doppia imposizione internazionale, in Dig. IV, disc. civ., sez. comm., vol. V, Torino, 1990, 190.
[27] W. Schön, Taxation and Democracy, in Tax Law Review, Vol. 72, 2018, https://ssrn.com/abstract=3267279.
[28] Su queste pratiche, ex multis P. Pistone, La pianificazione fiscale aggressiva e le categorie concettuali del diritto tributario globale, in F. Amatucci, R. Cordeiro Guerra (a cura di), L’evasione e l’elusione fiscale in ambito nazionale e internazionale, Canterano, 2016, 275 ss.
[29] C. Adams, For Good and Evil. L’influsso della tassazione nella storia dell’umanità, trad. it. a cura di C. Ruffini, Macerata, 2016 (ed. orig. 2001).
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.