ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Appunti critici sulla legittimazione della carcerazione perpetua, a margine di un recente libro contro gli ergastoli
Recensione a Stefano Anastasia, Franco Corleone, Andrea Pugiotto (a cura di), Contro gli ergastoli, Futura, Roma 2021, pp. 250
di Veronica Manca
Sommario: 1. Premessa. – 2. Giustizia, Pena e Carcere agli albori dei tempi della storia. – 3. Da Beccaria, alla teoria generale degli scopi della pena. – 4. Dal 1992 ad oggi: i modelli di ergastolo. – 4.1. Il volto costituzionale della pena: dai primi timidi spiragli di luce, all’ord. 97 del 2021 della Corte costituzionale, alle Corti sovranazionali. – 5. La sfida del Parlamento: breve analisi dei propositi di riforma. – 5.1. Quale via maestra seguire se non quella della Costituzione? Quella della nostra storia, tra riparazione e conciliazione sociale.
«Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.
una gran folla le passava dinanzi,
alzando al suo volto il volto implorante.
Nella sinistra impugnava una spada.
Brandiva questa spada,
colpendo ora un bimbo, ora un operaio,
ora una donna che tentava ritirarsi, ora un folle.
Nella destra teneva una bilancia;
nella bilancia venivano gettate monete d’oro
da coloro che schivavano i colpi di spada.
Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:
«non guarda in faccia nessuno».
Poi un giovane col berretto rosso
Balzò al suo fianco e le strappò la benda.
Ed ecco, le ciglia erano tutte corrose
Sulle palpebre marce; le pupille bruciate da un muco latteo;
la follia di un’anima morente
le era scritta sul volto.
Ma la folla vide perché portava la benda»[1].
1. Premessa
Nel 2009, gli autori licenziavano la prima edizione di “Contro l’ergastolo”, volume pioneristico che inaugurava la collana delle pubblicazioni de La Società della Ragione[2].
A distanza di oltre un decennio, il tema più che mai attuale, caldo e divisivo torna ad occupare le pagine di un preziosissimo testo, intitolato, non a caso al plurale, “Contro gli ergastoli”: un titolo molto semplice, secco, quasi lapidario, che fa capire immediatamente ai lettori l’impostazione culturale e giuridica da cui muovono i curatori[3].
Un approccio che si rivela assolutamente condivisibile, ma la cui raffinatezza implica, ad ogni modo, una condivisione preliminare di concetti e luoghi comuni alla sensibilità storica e di politica criminale.
Quando, dunque, si parla di ergastolo (rectius: ergastoli) si richiama inevitabilmente il concetto di pena e di carcere, e, più a monte, di giustizia.
Se l’insieme dei concetti è comune, allora le conclusioni non potranno che essere quelle raggiunte dagli autori: l’ergastolo, in quanto pena detentiva perpetua, è incostituzionale, nel senso che si colloca letteralmente al di fuori della Costituzione, e, più in particolare dell’art. 25, co. 2 Cost. (baluardo garantista del principio di legalità del precetto penale e della sanzione), e dell’art. 27, co. 3 Cost. (canone della responsabilità penale personale, dell’umanità della pena e del finalismo rieducativo), dove si parla di pene al plurale, mai di carcere, tanto meno di ergastolo[4].
Come ben esemplifica l’autore Pugiotto, nel saggio di apertura, “La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale”[5], l’ergastolo non è più incostituzionale quando cessa di essere tale: l’excursus degli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, che l’autore offre, consentono, quindi, di ripercorrere i passaggi, che hanno portato all’affermazione dell’illegittimità dell’ergastolo c.d. “ostativo”, con l’ordinanza n. 97 del 2021[6] della Corte costituzionale; lungo la via delle tappe battute dalla Consulta, l’autore guida inoltre il lettore alla costruzione di tasselli logici e giuridici che contribuiscono a raggiungere conclusioni obbligate, sulla abolizione della perpetuità della pena, in tutte le sue forme[7].
2. Giustizia, Pena e Carcere agli albori dei tempi della storia
Prima di passare al vaglio dei percorsi argomentativi seguiti dalla Corte costituzionale per descrivere quello che oggi può essere definito come diritto vivente, è fondamentale ricercare il senso che l’istituto del carcere e della giustizia hanno assunto nel corso della storia, dagli albori a quella contemporanea[8].
Come ricorda una storica del diritto[9], la storia del processo e della pena si dovrebbe misurare lungo la linea del tempo, intersecata da società, idee, persone e uomini, di volta in volta diversi: il sistema sanzionatorio, così come il carcere, ha rappresentato da sempre, in ogni epoca, il metro di giudizio circa il grado di civilizzazione della società, così come del relativo modello di giustizia adottato[10].
Secondo il pensiero degli storici del diritto, il passaggio da un sistema di giustizia c.d. negoziata, basata sul consenso e amministrata prevalentemente dai privati, con sanzioni di carattere civile, compensative-risarcitorie[11], a quella di tipo egemonico, a tutela di interessi marcatamente pubblicistici, calata dall’alto rispetto a strutture corporative e statualistiche[12], ha segnato definitivamente i connotati della pena pubblica, applicata, per moltissimi secoli, dal giudice “pro delicti satisfactione”[13], secondo una vera e istituzionalizzata “cultura della vendetta”[14].
Dal Medioevo, all’Età Moderna, fino ai supplizi del Seicento, si ha il consolidamento della cultura dello ius punendi, in cui il modello inquisitorio per il processo rispecchia la ricerca spasmodica finalizzata alla punizione fisica del soggetto colpevole (con il marchio a fuoco, con le mutilazioni, con le fustigazioni, secondo quella logica dantesca del contrappasso, per cui occhio per occhio, amputazione delle dita o delle mani, per il ladro, e della lingua, per il bestemmiatore, o con l’incisione a fuoco della lettera scarlatta, per la donna adultera)[15].
File rouge, in questo quadro storico, è la valenza religiosa e teleologica che impregna lo svolgimento del processo e l’esercizio della punizione: la pena è sofferenza fisica, che deve lasciare segni visibili sul corpo del colpevole, producendo dolore indicibile, anche sottoforma di menomazione permanente, per il singolo, e disapprovazione morale, per il consesso sociale: stigma ed emarginazione sociale, che non consentono un riscatto del colpevole, che sarà pertanto riconoscibile come tale a vita.
Il carcere, per i classici e le fasi storiche fedeli alla tradizione dello ius civile, non rappresenta una pena principale, consistendo esclusivamente in una modalità – non necessaria – di arresto temporaneo e preventivo, in vista del processo e della punizione, vera e propria; oppure, costituisce una forma di sanzione residuale, in caso di mancato pagamento di debiti o misure patrimoniali. Il carcere, infatti, acquisisce lo status di pena principale solo con l’espandersi e l’innestarsi del diritto canonico, nelle regole di amministrazione della vita privata dei fedeli/sudditi, a partire, ad es., con il Liber Sextus di Bonifacio VIII[16].
Questa accezione intrisa di significati extragiuridici, con reminiscenze teleologiche rappresenta il modello di punizione tramandato fino ai giorni nostri, dal Seicento, all’Ottocento, con le prime esperienze codicistiche. Il carcere è lo strumento ideale per realizzare sofferenza, tramite l’isolamento e la segregazione dell’individuo rispetto alle relazioni con se stesso e con gli altri, imponendo così per tale via la costrizione fisica e morale, superabile solo con il pentimento e l’emenda morale, e le più brutali punizioni fisiche[17].
In tale direzione, la carcerazione perpetua trova spazio per fiorire e legittimarsi, specialmente dove si propone quale alternativa alla pena di morte[18].
Tale è anche la spiegazione che offre Stefano Anastasia, nel suo saggio, intitolato “L’agonia dell’ergastolo”: l’autore restituisce al lettore un’interpretazione interessante ed originale della correlazione tra il termine agonia e quella dell’ergastolo: una riflessione che acquisisce un ulteriore valore aggiunto, se associata ad una più ampia digressione storica del concetto di pena e di processo. Se, infatti, come sopra si è tentato di esporre brevemente, si ritiene che il contenuto afflittivo della pena sia dovuto ad un processo storico e culturale, di innesto anche di suggestioni e principi extragiuridici, come quelli teleologici, l’accostamento del termine agonia al carcere, meglio descrive il mutamento sociale e culturale che ha subito nel corso della storia il diritto punitivo[19].
Anche il termine agonia, da termine attivo e di relazione, inteso come competizione e tensione ad un fine di elevazione (fisica o morale, come il premio), assume una accezione squisitamente passiva e negativa, sinonimo di sofferenza, e, nello specifico, di quello stato di prostrazione fisico e spirituale, che precede immediatamente la morte, e, quindi, l’esito più infausto per eccellenza[20]. Secondo l’autore, infatti: “Lo stillicidio del tempo che vediamo all’opera nell’esperienza dell’agonia è in effetti l’essenza stessa della pena detentiva: sofferenza legale finalizzata alla dissipazione del tempo vitale del condannato. più grave il reato commesso, più tempo bruciato”[21].
Se queste sono le basi, tanto più allora si giustifica l’inserimento, nella sezione Appendice, del discorso di Papa Francesco, considerato che la posizione della Chiesa nella materia del penale ha avuto un’incidenza fondamentale, sia nelle origini, sia nell’evoluzione storica e politica più recente[22].
3. Da Beccaria, alla teoria generale degli scopi della pena
Le riflessioni di Anastasia ben si prestano a rivedere, con sguardo più critico, anche l’epoca moderna e quella contemporanea, che, nonostante abbiano conosciuto un importante passaggio di civiltà giuridica con il pensiero di Cesare Beccaria, hanno tuttavia inteso mantenere fede all’impostazione precedente, preservando il carcere come pena principale, quale manifestazione di sofferenza fisica e morale[23].
La carcerazione perpetua diventa infatti il perfetto e logico surrogato della pena di morte, nelle prime esperienze codicistiche: la pena perpetua, annunciata come soluzione di un diritto penale mite e di civiltà, viene associata all’abbandono non solo della pena capitale, ma anche dei lavori forzati a vita[24]. Quella terribile prassi, per cui i detenuti vengono costretti ad indicibili sofferenze, legati ad una catena, con una sfera di acciaio ai piedi: così la dottrina descrive il modello punitivo del tempo, per cui “i condannati ai lavori forzati saranno impiegati nei lavori più faticosi; porteranno ai piedi una sfera, o saranno attaccati due a due con una catena, se lo consentirà la natura del lavoro al quale saranno addetti”[25]; “chiunque sarà stato condannato alla pena dei lavori forzati a vita sarà marchiato, sulla pubblica piazza, con un ferro rovente alla spalla destra”[26].
La “pena esemplare” è lo slogan politico criminale che fa da sfondo all’introduzione dell’ergastolo nel codice Zanardelli, del 1889, e che sarà destinato a passare nel successivo e attuale Codice Rocco, nel 1930: isolamento, obbligo del lavoro, silenzio e segregazione sono i connotati della pena detentiva, anche a tempo indeterminato (artt. 11, 12 del Codice Zanardelli; art. 17, 22 del codice penale Rocco, con elenco delle pene principali, oltre alla pena di morte, abolita, solo nel 1944)[27].
A distanza di moltissimi anni, la ricerca di un surrogato alla pena di morte rimane la principale preoccupazione che emerge anche nel dibattito politico successivo alla caduta del regime totalitario fascista: l’autore Franco Corleone riprende, nel suo contributo, “La pena dell’ergastolo in Parlamento”, il dibattito politico di quel tempo, tratteggiando un quadro complessivo delle varie posizioni; delle idee e degli ideali politici sottesi alle varie proposte di riforma, sia in direzione di abolizione della perpetuità della pena, sia in direzione di reinserimento della pena di morte[28].
L’autore risveglia così prepotentemente la coscienza storica del lettore, mostrandogli come, anche nel corso della più recente storia parlamentare del Paese, si siano avuti propositi di abolizione della perpetuità della pena, come, ad es. nel triennio dal 1971-1973[29], o, come sia accaduto negli anni ’80, con la proposizione del referendum popolare sull’abolizione dell’ergastolo[30].
Nonostante, infatti, dal punto di vista storico, gli anni ’70 abbiano rappresentato per tutti, anni terribili, di stragismo di Stato, con il terrorismo politico, fermenti di ideali e di attivismo politico hanno spinto, al contrario, per sottoporre all’attenzione del Parlamento, diversi disegni di legge, anche in ottica abolizionistica[31]: con gli anni ’90, delle stragi di sangue di mafia, tuttavia, lo scenario è mutato e il tutto si è “congelato”; l’avvento poi della seconda repubblica, con l’entrata in scena di nuovi partiti e personaggi politici di spicco, hanno fatto il resto[32].
Nel corso degli ultimi decenni, non sono mancati dei progetti di riforma del sistema sanzionatorio, con oggetto anche la pena perpetua, ma pur sempre nell’ottica della sua preservazione o di sostituzione in una forma di reclusione c.d. “speciale”, con un limite edittale massimo già prefissato dalla legge. In questa direzione, si registrano dunque i lavori della Commissione Riz (1995), Grosso (2001), Pisapia (2007), e, più di recente, della Commissione Palazzo (2014), senza tralasciare, le seppur minimali proposte di modifica espresse dalla Commissione Giostra (2017), con le suggestioni culturali e giuridiche espresse dai Tavoli degli Stati Generali dell’Esecuzione della Pena (2015)[33].
Alla luce dell’excursus storico-politico, espresso mirabilmente dall’autore, che cosa rimane al lettore? “Che la permanenza di quello che pareva un simulacro, si è trasformato in uno strumento di repressione formidabile”[34], auspicando che il dibattito parlamentare torni sulla via della Costituzione: “Non è facile ripartire dalla Costituzione, eppure da una ricostruzione delle ragioni dello stare insieme come collettività si dovrà passare. L’abolizione dell’ergastolo deve diventare un obiettivo di civiltà e di umanità, perché lo Stato democratico si dimostri radicalmente alternativo rispetto alla logica della violenza e ai comportamenti criminali. Insomma una comunità che rifiuta odio e vendetta e lancia la sfida che nessuno è perduto per sempre. Si vincerà il confronto con gli imprenditori della paura solo attraverso la strada del ritorno alla politica. E della cultura. Il tempo è oggi”[35].
4. Dalla legislazione del terrorismo politico, al 1992, ad oggi: i modelli di ergastolo
E qui veniamo ai giorni nostri. Come ha saggiamente ricordato l’autrice Susanna Marietti, la pena dell’ergastolo esiste, eccome se esiste. Il contributo proposto dall’autrice risulta di cruciale importanza, nella disamina del tema, dato che fornisce una serie di numeri e di informazioni, che consentono un’analisi non solo statistica, ma anche qualitativa[36].
I dati sono significativi e parlano da sé.
Al 31 dicembre 2020, i detenuti con una condanna a titolo di ergastolo, sono n. 1784, pari al 4% sul totale complessivo delle presenze in carcere; il campione è aumentato esponenzialmente nel corso degli ultimi venti anni, dal 1992 (con n. 408 ergastolani) al 2009 (n. 1.461), fino al numero definitivo del 2020[37].
Ancora. Dal punto di vista dell’esame dell’età dei detenuti, emerge che nel 2013 nessun detenuto aveva compiuto 25 anni, mentre nel 2020 sono ben n. 5 i giovani adulti condannati alla pena dell’ergastolo[38]. Viceversa, la tendenza generale vede i detenuti morire in carcere per numerose patologie e per l’età, che raggiunge oltre i settanta anni: così per n. 11, solo nel corso del 2020.
Andando poi ad analizzare il campione dei condannati alla pena dell’ergastolo, si scorge come le condanne alla pena perpetua afferiscono per 70,6% ad ergastoli c.d. “ostativi”, a cui si aggiunge, a vario titolo, il regime di sospensione delle regole di trattamento del 41-bis ord. penit.[39].
Dalla fotografia dell’autrice, emerge con chiarezza che, ad oggi, non si possa più parlare di ergastolo (al singolare) ma come, al contrario, lo stesso sia stato plasmato secondo gradi di intensità afflittiva diversi, in base ad interessi utilitaristici di volta in volta considerati come oggetto di tutela preminente, e in aderenza a scopi di politica criminale, chiaramente nella direzione della repressione, della deterrenza, e della esemplarità della perpetuità[40].
Come ricorda attentamente la dottrina, infatti, oggi si rinvengono nel nostro ordinamento, extracodice, diversi tipi di ergastolo:
(i) ergastolo c.d. semplice, contenuto nel codice penale, come pena principale, ai sensi degli artt. 17 e 22 c.p., al cui condannato, grazie alla giurisprudenza costituzionale[41], è consentito l’accesso al reinserimento sociale, con il riconoscimento della liberazione anticipata per buona condotta; con l’accesso ai benefici, dal permesso premio, dopo dieci anni di pena espiata, alla semilibertà, dopo venti, e infine, dopo ventisei anni, alla liberazione condizionale[42];
(ii) ergastolo c.d. “ostativo”, contenuto nell’ordinamento penitenziario, alla norma dell’art. 4-bis ord. penit., introdotto con l’ultima versione del d.l. n. 306 del 1992, unitamente al regime del 41-bis ord. penit., per il quale per i condannati dei delitti di cui al co. 1 (ovverosia, delitti c.d. “assolutamente ostativi”), non è prevista l’apertura ai benefici, né alle misure alternative, se non negli stretti margini dell’intervenuta collaborazione utile con la giustizia (o per il tramite equivalente di un accertamento di impossibilità e/o inesigibilità della mancata collaborazione); è evidente, poi, che il positivo riconoscimento della liberazione anticipata non produce alcun effetto sul fine pena, che è e rimane sempre e comunque 31.12.9999[43];
(iii) ergastolo c.d. “ostativo” del terzo tipo, di applicazione extracodice, per l’art. 58-quater ord. penit., previsto dal legislatore per i condannati di delitti di sequestro di persona a scopo estorsivo o per eversione dell’ordine democratico, con la morte della persona oggetto di sequestro (artt. 630, co. 3 e 289-bis, co. 3 c.p.); per tali tipi di autore, non è consentito l’accesso ad alcun beneficio, anche alla luce di una condotta collaborativa, fino all’espiazione di ventisei anni di pena: modello punitivo, demolito da due pronunce pietre miliari della Corte costituzionale, con sent. nn. 149 del 2018, per l’ergastolano, e 229 del 2019, per i condannati a pena detentiva temporanea[44];
(iii) ergastolo c.d. “ostativo”, di pura applicazione giurisprudenziale: contenuto, a vario titolo, sia nel codice penale, in tema di concorso di più condanne con la pena dell’ergastolo, che produce l’applicazione anche dell’isolamento diurno, sia all’art. 4-bis, co. 1 ord. penit. e nel d.l. n. 152 del 1991, con il riconoscimento, anche ad opera del giudice dell’esecuzione, della circostanza del metodo mafioso[45];
(iv) ergastolo c.d. “ostativo” c.d. bianco: contenuto nell’ordinamento penitenziario, per effetto del combinato disposto degli artt. 41-bis, 4-bis ord. penit. con le norme codicistiche in materia di misura di sicurezza, dove si finisce per applicare il 41-bis al soggetto, che, nonostante abbia terminato di espiare la pena, venga riconosciuto pericoloso, anche sine die[46];
Ad oggi, quindi, la disciplina della pena dell’ergastolo, nelle sue varie forme, non è più codicistica, ma è variamente contenuta in leggi speciali successive, come quella dell’ordinamento penitenziario: proprio la collocazione topografica delle norme è stata per molto tempo argomentazione vincente (e strumentale) per una parte della dottrina e per la giurisprudenza per sostenere l’estraneità del diritto dell’esecuzione della pena al diritto punitivo, in senso stretto[47].
Eppure già da una superficiale un’analisi del crescendo di afflittività contenuta nei vari tipi di ergastolo emerge, in tutta la sua evidenza, che la pena nel suo divenire può assumere gravità tale da superare di gran lunga l’effetto deterrente della pena come minaccia, in astratto[48]. Solo, tuttavia, con la sentenza n. 32 del 2020, la Corte costituzionale ha decretato la fine di tale interpretazione, sancendo definitivamente la natura di norma di diritto sostanziale anche a tutte quelle disposizioni che incidono sulla qualità e sull’essenza della libertà personale dell’individuo[49].
4.1. Il volto costituzionale della pena: dai primi timidi spiragli di luce, all’ord. 97 del 2021 della Corte costituzionale, alle Corti sovranazionali
Con la sentenza n. 32 del 2020, si è giunti al tempo dell’oggi; ad una rivoluzione epocale per l’esecuzione della pena, da disciplina procedurale, se non amministrativa, a banco di prova del sistema della giustizia penale. Il viaggio della Corte, come ricorda l’autore Pugiotto, ha conosciuto delle tappe fondamentali[50]. In un primo momento, infatti, la Corte costituzionale si è concentrata nella limitazione degli effetti retroattivi delle modifiche apportate con il d.l. n. 306 del 1992, all’art. 4-bis ord. penit., con una serie importante di principi: dalla progressione trattamentale, al divieto di applicazione retroattiva, alla tensione rieducativa[51]. In un secondo momento, la Consulta si è concentrata sulla teoria degli scopi della pena, valorizzando, nella concezione polifunzionale, la preminenza della rieducazione come fine ultimo, non solo in fase esecutiva, ma anche in sede di commisurazione della pena, secondo il principio supremo di colpevolezza rispetto al fatto e alla personalità della responsabilità penale[52].
Tuttavia, il salto più importante di civiltà giuridica si è avuto con la sentenza pilota Torreggiani e altri c. Italia, dell’8 gennaio 2013, dove l’Italia ha preso coscienza delle condizioni di vita dei detenuti, del sovraffollamento, della disumanità della pena, in uno scenario internazionale[53]. La pessima immagine delle carceri, restituita a livello di Consiglio d’Europa, ha obbligato il Governo e il Ministero della Giustizia, allora On. Andrea Orlando, a mettere in atto riforme in grado di rendere seriamente effettiva la tutela giurisdizionale dei diritti delle persone recluse e ha innestato un fervido dibattito sulla pena: fino a quel momento, infatti, la discussione, ormai assopitasi, si concentrava esclusivamente sul finalismo rieducativo, tralasciando, o dando per scontata la dimensione, preliminare, dell’umanità della pena[54].
I contributi di Barbara Randazzo, in “La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU”[55], e, quello di Davide Galliani, “Gli ergastoli altrove. Ovvero la pena perpetua nel mondo”[56] arricchiscono di ulteriori tasselli il confronto giuridico, che si è formato intorno al tema della perpetuità della pena, fornendo indicazioni sia sul piano sovranazionale, sia su quello internazionale, con una attenta e innata sensibilità verso il diritto di altri Stati[57].
In particolare, di grandissimo pregio, il contributo dell’autrice Randazzo, che guida il lettore, a piccoli passi, alla comprensione dell’insieme di principi, valori, e metodi utilizzati dalla giurisprudenza convenzionale, in generale, e, più nello specifico in relazione al tema del carcere[58]. Come ricorda Randazzo, la giurisprudenza della Corte EDU, in materia di carcerazione perpetua, ha conosciuto uno spartiacque con il caso Vinter c. Regno Unito, pur non mancando precedenti significativi, come quello del leading case Kafkaris c. Cipro: il punto centrale di diritto, per la Corte, rimane la compatibilità della previsione nazionale con l’art. 3 CEDU, sui trattamenti e/o pene inumane e degradanti, nella misura in cui non sia prevista per il detenuto, in via assoluta, una prospettiva di rilascio[59].
Se in un primo momento, la Corte ha deciso di salvaguardare le scelte nazionali, non ravvisando una perpetuità dell’ergastolo de jure et de facto, con il caso Vinter c. Regno Unito, invece, si è ridisegnato il “volto convenzionale” della pena perpetua, per cui, si dice, che:
(i) i condannati, anche alla pena dell’ergastolo hanno il diritto di conoscere le vie di accesso al rilascio, e di sapere quali siano gli strumenti per richiederlo;
(ii) hanno il diritto di sapere quale sia la soglia di pena minima, prevista dal legislatore, per l’accesso al meccanismo di revisione della propria posizione[60].
Con riguardo, poi, al procedimento di riesame, si ritiene che:
(iii) il meccanismo di revisione, non necessariamente di competenza di un organo giurisdizionale, deve rispettare i canoni fondamentali del fair trail; quanto meno deve trattarsi di una decisione motivata ed impugnabile, e, se positiva, eseguibile per il condannato con l’accesso effettivo alla libertà[61].
Dalla sentenza Vinter c. Regno Unito, ad oggi, nonostante delle apparenti battute di arresto, la Corte ha viaggiato spedita, nel suo cammino di piena valorizzazione della dignità umana, che passa inevitabilmente per una pena umana e per le chances di reinserimento sociale: il right to hope, è stato ripreso, come spiega Randazzo, in più occasioni, nei casi di Öcalan (n. 2) c. Turchia (2014), László Magyar c. Ungheria (2014), Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria (2014), Čačko c. Slovacchia (2014), Bodein c. Francia (2014), Murray c. Olanda (2016), Matiošaitis e altri c. Lituania (2017), Petukhov (n. 2) c. Ucraina (2019), N. T. c. Russia (2019)[62].
Il cammino della Corte ha incontrato l’Italia, nel 2019, con il caso Viola (n. 2) c. Italia, che, pur non rappresentando formalmente una sentenza pilota, contiene in sé dei messaggi inequivocabili, ribaditi anche dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa in fase di esecuzione[63].
Grazie alla costruzione di un sentire comune[64], la Corte costituzionale, in primis, con le sentenze nn. 149 del 2018, 186 del 2018, nn. 253, 263 del 2019, e n. 32 del 2020 e l’ordinanza n. 97 del 2021 e, a seguire, il Parlamento, sono stati indotti a prendere in serio esame la possibilità di modificare i meccanismi di accesso alla misura della liberazione condizionale, anche per l’ergastolano non collaborante[65].
È, n questo contesto, di diritto vivente[66], quindi, che si colloca la tanto attesa ordinanza n. 97 del 2021. Con tale decisione la Corte ha, in sostanza, anticipato il proprio giudizio finale, rimandando in “differita” sola la formale declaratoria di illegittimità costituzionale, al maggio del 2022, dando modo al Parlamento di esprimersi, in tempi stretti, con una riforma[67]. Trattasi, infatti, di un’ordinanza che vale, come vera e propria sentenza a tutti gli effetti, “congelando” la disciplina incostituzionale, che rimane in vigore, solo formalmente: una tecnica, che lascia perplessi sia i penalisti che i costituzionalisti, dato che crea un limbo di incertezza circa le conseguenze giuridiche della disciplina in medio tempore[68]. Le perplessità aumentano, nella misura in cui lo stallo temporale ricade sulla libertà personale delle persone ristrette, che, pur essendosi viste dichiarare l’illegittimità della propria posizione immutabile, non godono degli strumenti giuridici idonei per ottenere un risultato, se non con la sospensione delle relative istanze, la cui decisione, quanto meno solo sul merito, verrà rimandata all’esito del maggio 2022[69].
Quali potrebbero essere gli scenari?
Chi, in altri termini, potrebbe pronunciarsi, prima del maggio 2022, tra la Corte costituzionale ed il Parlamento?
Nel primo caso, si avrà necessariamente una sentenza additiva, sulla linea della sentenza n. 253 del 2019, dando il via così ad un fiume di ulteriori – in parte anche già pendenti[70] – questioni di legittimità costituzionale rispetto a tutte le altre ipotesi eterogenee di autori di reato, variamente classificati, all’interno del co. 1 dell’art. 4-bis ord. penit.; nel secondo caso, si avrà la necessità di una riforma inattaccabile sotto il profilo costituzionale, per non rischiare di dare il via a uno stato di incostituzionalità “derivata”, con tutta l’incertezza inquietante sul piano applicativo, con irragionevoli disparità di trattamento, per tutti coloro che ad oggi sperano concretamente in una seconda possibilità di riscatto sociale.
5. La sfida del Parlamento: breve analisi dei propositi di riforma
Sembra proprio che l’auspicio dell’autore Corleone si sia realizzato: la questione è oggi nelle mani della politica, in Parlamento[71].
Ad una analisi, a caldo, delle principali proposte avanzate dai parlamentari, emerge una generale prudenza nell’approcciarsi a modifiche dell’art. 4-bis, co. 1 ord. penit., in un quadro assolutamente conservativo della norma simbolo. Tutte le proposte, infatti, si muovono nella direzione di aggiungere commi o incisi, rendendo, tuttavia, di fatto, la norma ancora più illeggibile e contraddittoria nel suo insieme[72].
Tra le numerose proposte presentate, lo schema di articolato, a firma della deputata, On. Bruno Bossio, è quello che rappresenta in modo più significativo l’adesione ai principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, e, in particolare, dalla sentenza n. 253 del 2019[73]: in sostanza, si tratterebbe di aggiungere, quale ipotesi residuale, oltre alla collaborazione con la giustizia, o alla equivalente collaborazione impossibile o inesigibile di accertamento giudiziale, la possibilità che il giudice della sorveglianza valuti tutti gli altri requisiti nel merito, superando così nel caso concreto la presunzione assoluta di pericolosità sociale[74].
Al contrario, la proposta di riforma dell’On. Ferraresi ha sollevato forti perplessità, in relazione ad un evidente contrasto con il contenuto dell’ord. n. 97 del 2021 e, con lo spirito, più generale, di una riforma che segua necessariamente i binari costituzionali[75]. Come sintetizzato dall’associazione Antigone, nel documento inviato alle Camere, una delle questioni più controverse riguarda la richiesta di accentrare la competenza a decidere nel Tribunale di sorveglianza di Roma, incrinando così definitivamente il criterio processuale per cui il giudice di sorveglianza costituisce espressione della giurisdizione di prossimità[76].
Altri aspetti critici sono connessi, ad esempio, alla rivisitazione di tutte le soglie di accesso ai benefici e alle misure alternative, per il condannato alla pena dell’ergastolo: ventisei anni, per il permesso premio e per il lavoro all’esterno; trenta, per la liberazione condizionale. L’irragionevolezza di una simile previsione è assolutamente evidente, considerato quanto già espresso dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 149 del 2018, per cui: «L’appiattimento ad un’unica e indifferenziata soglia […] per l’accesso a tutti i benefici penitenziari indicati nel primo comma dell’art. 4 bis ord. penit. si pone […] in contrasto con il principio – sotteso all’intera disciplina dell’ordinamento penitenziario in attuazione del canone costituzionale della finalità rieducativa della pena – della “progressività trattamentale e flessibilità della pena” (sentenza n. 255 del 2006; in senso conforme, sentenze n. 257 del 2006, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995), ossia del graduale reinserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale durante l’intero arco dell’esecuzione della pena»[77]. Negli stessi termini, si potrebbe argomentare per l’irragionevolezza con cui si suggerisce la previsione del divieto di accedere alla liberazione condizionale per tutti i condannati a pene temporanee[78].
Analoghe criticità sono state evidenziate dalla dottrina, con riguardo alle proposte di riforma presentate dai deputati, gli On. Delmastro Delle Vedove[79] e On. Paolini[80].
In entrambi gli schemi di riforma, emerge una tendenza generale ad attenuare, se non neutralizzare, il contenuto dell’ord. n. 97 del 2021 della Corte costituzionale[81].
Comuni, infatti, alcuni requisiti strutturali di modifica:
(i) prevedere che i nuovi criteri di valutazione si applichino indistintamente a tutti i benefici penitenziari, e, non solo, quindi, alla misura della liberazione condizionale;
(ii) invertire l’onere della prova a carico del condannato;
(iii) inserire una articolata previsione di indici di valutazione, che, in sostanza, finiscono, da una parte, per valorizzare tutte le informative sull’indagine della pericolosità sociale, espandendosi altresì al di fuori dei confini del processo e del titolo esecutivo (anche rispetto a procedimenti pendenti a carico di terzi), e, dall’altra, per relegare l’aspetto rieducativo a tema residuale, e basato sul solo esame del percorso intramurario;
(iv) prescrivere l’acquisizione delle informative dei procuratori distrettuali (del capoluogo dove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza di condanna), e del procuratore nazionale antimafia, per il 41-bis ord. penit., nonché, quanto meno nella versione dell’On. Delmastro Delle Vedove, del comitato provinciale e dell’ordine e della sicurezza del luogo in cui il detenuto intende stabilire la residenza, con la partecipazione del direttore[82];
(v) aggiungere delle prescrizioni, a discrezionalità del giudice di sorveglianza, di limitazione di libertà di movimento e/o di contatti con le persone offese o i familiari, in fase di concessione di tutti i benefici, quindi, non solo della libertà vigilata, per la liberazione condizionale[83].
Uno spazio particolare merita, infine, la proposta di riforma presentata dalla Fondazione Falcone, a firma del consigliere e presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo e dal Magistrato di sorveglianza di Venezia, Fabio Fiorentin[84].
Riprendendo gli schemi delle due proposte sopra citate, la Fondazione Falcone pone l’accento sulla giustizia riparativa e sulla condotta attiva del condannato, durante il percorso trattamentale, alla riparazione del danno, nei confronti della vittima e dei familiari[85].
Pur apprezzando la valorizzazione degli aspetti riparatori della pena, la dottrina si è mostrata critica anche nei confronti di quest’ultima proposta[86]. In particolare ciò che ha destato maggiori perplessità ha riguardato sia l’estensione dei nuovi criteri di valutazione indistintamente a tutti i benefici[87], sia la previsione di richiedere al condannato un contributo effettivo “alla realizzazione del diritto alla verità”, richiamando surrettiziamente, secondo la dottrina, l’ambito di applicazione della collaborazione con la giustizia[88].
Senza dubbio, il dibattito politico e il proficuo scambio di opinioni tra magistratura ed accademia stanno contribuendo a costruire il terreno per una possibile riforma, che, con tutta evidenza, rappresenterà un compromesso tra istanze securitarie, da un lato, anche per placare gli animi più giustizialisti dell’opinione pubblica, e rispetto dei principi costituzionali, dall’altro[89].
Se la modifica della norma simbolo dell’art. 4-bis ord. penit. rappresenta dunque un passaggio obbligato, imposto dalla stessa Corte costituzionale, con ord. n. 97 del 2021 e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Viola (n. 2) c. Italia, il passo più logico e naturale successivo potrebbe essere quello di ripensare seriamente alla pena dell’ergastolo, all’interno di una riforma organica del sistema sanzionatorio[90]. Così, infatti, l’autore Giovanni Fiandaca, nel suo contributo, più che mai attuale, “Al posto degli ergastoli” propone delle riflessioni de iure condendo: alla luce, infatti, del venir meno progressivamente dell’ergastolo ostativo, torna attuale la questione dell’abolizione della pena dell’ergastolo c.d. semplice[91].
Una prima ragionevole soluzione, prospettata da Fiandaca, consiste nell’ipotizzare la sostituzione della pena dell’ergastolo con una pena della reclusione speciale, fino alla durata massima tra i venti ed i venticinque anni[92]: secondo l’autore ciò che rileva, non è tanto il limite massimo, scelta di pura valutazione discrezionale del legislatore, quanto il contenuto che una pena di lunga durata dovrebbe avere, con preminenza una finalità rieducativa. Se l’obiettivo è rendere effettiva la rieducazione, è evidente che serve una implementazione di risorse, strumenti, percorsi di formazione, attività che consentano di offrire un programma, in cui il condannato risulti protagonista del proprio cambiamento[93].
La partecipazione ad un programma di trattamento – anche tramite azioni riparatorie, purchè concrete e non meramente simboliche[94] – potrebbe costituire uno degli elementi positivi per giustificare la revisione anticipata della posizione del detenuto in prospettiva del suo rilascio: l’autore ipotizza l’inserimento di una verifica, a cadenza biennale, dell’andamento del percorso, e una valutazione approfondita, in vista della liberazione anticipata, dopo l’espiazione di almeno dieci o quindici anni[95].
Lo studio del diritto comparato, offerto dagli autori Fiandaca e Galliani, con il confronto costante con l’analisi della giurisprudenza sovranazionale, di cui dà conto Randazzo, sono le chiavi di volta che consentirebbero di approdare ad un dibattito più equilibrato, in materia di ergastolo, in prospettiva di una più ampia riforma del sistema sanzionatorio.
5.1. Quale via maestra seguire se non quella della Costituzione? Quella della nostra storia, tra riparazione e conciliazione sociale
Seppur il Parlamento paia in fermento per la riforma dell’art. 4-bis ord. penit., è evidente che ad oggi manca la volontà politica di ricorrere a soluzioni abolizioniste: l’art. 4-bis ord. penit. non è in discussione, così come non è in gioco la legittimità del doppio binario penitenziario. Le modifiche proposte, infatti, si muovono tutte per la preservazione di una norma baluardo della prevenzione generale e della difesa sociale, come a dire che qualsiasi interpolazione anche minimale potrebbe rischiare di allarmare gli animi sociali.
Il testo “Contro gli ergastoli” riesce a mettere in luce proprio tutte le contraddizioni, che connotano anche l’attuale stallo politico: la maturità delle riflessioni giuridiche, indice di una comunità di pensiero e di cultura del diritto, condivisa anche dalle alte Corti, confligge con la volontà politica e con il pensiero comune in materia. Tuttavia, è proprio attraverso la lettura di un testo come questo che è possibile formarsi una opinione, consapevole e informata, sulla perpetuità della pena. Attraverso la lettura di tutti i saggi, dal taglio interdisciplinare, storico, filosofico, culturale e giuridico, il lettore riesce a ricostruire la storia del diritto penale, formando via via gradualmente un giudizio proprio, che non può che essere quello annunciato in principio dall’autore Pugiotto.
Il testo “Contro gli ergastoli” rappresenta un raffinato volume di aggiornamento per gli esperti, che possono così avere nella propria biblioteca un’antologia di saggi in materia, sempre puntuali e precisi; un volume di formazione per tutti coloro, specie per le nuove generazione di giuristi, che vogliono approcciarsi con coscienza e criticità al tema dell’ergastolo e della pena detentiva, più in generale. Un testo, che dovrebbe essere adottato come approfondimento in tutti i corsi di storia del diritto e di diritto penale: la conoscenza delle radici storiche può contribuire a costruire le menti del presente e del prossimo futuro; le nuove generazioni di giuristi, che alimenteranno il prossimo dibattito politico, che occuperanno le principali cariche istituzionali, che guideranno il Paese; che si cimenteranno nella professione dell’avvocatura o che verranno chiamati a svolgere la funzione giudicante. Solo una consapevole formazione sul passato, e sulla terribilità dell’azione punitiva dello Stato, può aiutare a costruire idee, società, uomini e persone in grado di essere e rappresentare l’essenza dello Stato e della Giustizia, quella Dea Bendata, ragionevole e equilibrata di cui parla Edgar Lee Master, nella Antologia di Spoon River[96].
[1] Cfr. E. Lee Master, Antologia di Spoon River, Einaudi, 1947, 255. Per un commento alla poesia, cfr., anche A. Prosperi, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Einaudi, 2008, XV-XXI.
[2] Cfr. S. Anastasia, F. Corleone, (a cura di), Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona, Ediesse, Roma, 2009.
[3] Nella Prefazione, Valerio Onida ricorda che il dibattito giuridico intorno alla perpetuità della pena detentiva si snoda intorno a due passaggi fondamentali: (i) la riconduzione della pena dell’ergastolo all’alveo di tutela degli artt. 25, co. 2 e 27, co. 3 Cost., e il riconoscimento della preminenza della finalità rieducativa, sia in fase esecutiva, sia in fase processuale (e, soprattutto, in sede di commisurazione della pena); e, (ii) l’illegittimità dell’ostatività all’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale per l’ergastolano non collaborante: in sostanza, l’erosione sostanziale della preclusione assoluta di pericolosità sociale di cui all’art. 4-bis ord. penit., con l’ord. n. 97 del 2021 della Corte costituzionale. Cfr. V. Onida, Prefazione, in Contro gli ergastoli, (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Futura, Roma, 2021, VII-XII.
[4] Cfr. A. Pugiotto, La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, in Contro gli ergastoli, cit., 37, il quale pone subito il quesito, per cui: “Il nostro tema, allora, torna a interrogare la giurisprudenza costituzionale: l’ergastolo (nelle sue varie tipologie) è una pena che sta dentro l’orizzonte tracciato in Costituzione? Il fatto che la Carta fondamentale non escluda espressamente il carcere a vita non significa, infatti, che non esistano ragioni sistematiche che obblighino a una sua radicale riconformazione, se non addirittura a ritenerlo implicitamente escluso”.
[5] Cfr. A. Pugiotto, La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, cit., 29-64.
[6] Sul punto, tra i molti, cfr. E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, in Sistema penale, 25.05.2021; nonché, in termini più approfonditi, L. Risicato, L’incostituzionalità riluttante dell'ergastolo ostativo: alcune note a margine di Corte cost., ordinanza n. 97/2021, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 2, 2021, 653 ss.
[7] Sulla perpetuità della pena, nella cospicua bibliografia, cfr. A. Pugiotto, Quando la clessidra è senza sabbia. Ovvero: perché l’ergastolo è incostituzionale, in (a cura di) F. Corleone, A. Pugiotto, Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere, Roma, 2012, 113; Id., Una quaestio sul tema dell’ergastolo, sull’incostituzionalità del carcere a vita, in F. Corleone, A. Pugiotto (a cura di) Volti e maschere della pena. Opg e carcere duro, muri della pena e giustizia riparativa, Roma, 2013, 299; nonché, E. Dolcini, L’ergastolo ostativo non tende alla rieducazione del condannato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 1500 ss.; L. Eusebi, Ostativo del fine pena, ostativo della prevenzione. Aporie dell’ergastolo senza speranza per il non collaborante, in questa Rivista, 2017, 1515 ss.; G. Forti, Dignità umana e persone soggette all’esecuzione penale, in Diritti umani e diritto internazionale, vol. VII, 2013, 237 ss.; D. Galliani, Ponti, non muri. Qualche ulteriore riflessione sull’ergastolo ostativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1158 ss.; G. L. Gatta, Superare l’ergastolo ostativo: tra nobili ragioni e sano realismo, ivi, 2017, 1495 ss.; F. Palazzo, Presente, futuro e futuribile della pena carceraria, in La pena, ancora: tra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, (a cura di) F. Basile, G. L. Gatta, C. E. Paliero, F. Viganò, I, Milano, 2018, 512 ss.
[8] Cfr. L. Garlati, Sepolti vivi. Il carcere al tempo delle Pratiche criminali: riti antichi per funzioni nuove, in Riv. Trim. Dir. Pen. Cont., 4/2017, 2017, 12-27.
[9] Cfr. L. Garlati, Sepolti vivi. Il carcere al tempo delle Pratiche criminali: riti antichi per funzioni nuove, cit., 12.
[10] Cfr. M. Sbriccoli, Giustizia criminale, in Id., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), I, Milano, 2009, 7-9. Sulla nozione di giustizia negoziata, in diritto penale: cfr. M. Caputo, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, Napoli, 2009, 15 ss.; L. Marafioti, La giustizia penale negoziata, Milano, 1992; S. Marcolini, Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata: l’accertamento della responsabilità nell’applicazione della pena su richiesta delle parti tra ricerca di efficienza ed esigenze di garanzia, Milano, 2005.
[11] Cfr. L. Garlati, Sepolti vivi., cit., 12-14.
[12] Cfr. L. Garlati, Sepolti vivi., cit., 14-15.
[13] Cfr. Azzone, Summa super Codice et instituta extraordinaria, (a cura di) D. Converso, in Corpus Glossatorum Juris Civilis, Torino, 1966, vol. II, 343.
[14] Per tutti, D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, Milano, 2018, 11-12, per cui: “Cos’è dunque che caratterizza il momento punitivo? Mi sembra che esso corrisponda a questa specifica congiuntura in cui la soluzione diventa il problema […]. Il crimine è il problema, e il castigo la sua soluzione. Con il momento punitivo, è il castigo a diventare il problema […]. Ritenuto ciò che dovrebbe proteggere la società dal crimine, il castigo appare sempre di più ciò che invece la minaccia. Il momento punitivo incarna questo paradosso”.
[15] Cfr. M. Cavina, La redenzione sul patibolo. Funzioni della pena bassomedievale, in La funzione della pena in prospettiva storica e attuale, (a cura di) A. Calore, A. Sciumè, Milano, 2013, 107.
[16] Come riporta puntualmente Loredana Garlati: “In una glossa di Giovanni d’Andrea si precisava che, sebbene il carcere fosse ordinariamente destinato alla custodia, era tuttavia possibile servirsene come pena perpetua in sostituzione della pena di morte nei confronti di chierici colpevoli di reati meritevoli dell’ultimo supplizio. Dal momento che i giudici ecclesiastici non potevano ricorrere a simile poena sanguinis, era loro consentito avvalersi del carcere con riguardo a rei confessi o convinti: costoro erano condannati o alla detenzione temporanea o a quella senza fine, quamvis inventio carceris fuerit ad custodiam (VI. 5.9.4). Il principio si trova ribadito ad esempio nei Consilia criminalia di Bartolomeo Cipolla, per il quale «de iure canonico non potest quis comdemnari ad mortem etiam pro homicidio nec ad aliquam poenam sanguinis»; per questo l’autore equiparava la pena di morte al carcere (B. Cipolla, Consilia criminalia, Venetiis, 1525, cons. LXXIII, vers. Tertio praemitto, 150)”. Cfr. L. Garlati, Sepolti vivi., cit., 23, nota n. 75.
[17] In tal senso, in chiave critica, cfr., per tutti, L. Garlati, Utilità, esemplarità, certezza della pena. Il pensiero di Beccaria tra mito e realtà, in Archivio Storico Lombardo, 19 (2014), 47-74.
[18] Cfr., per tutti, P. Rossi, Trattato di diritto penale. Nuova traduzione con note e addizioni dell’avvocato Enrico Pessina, Napoli, 1853, 271.
[19] Cfr. S. Anastasia, L’agonia dell’ergastolo, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 85-91.
[20] Cfr. S. Anastasia, L’agonia dell’ergastolo, cit., 89.
[21] Cfr. S. Anastasia, L’agonia dell’ergastolo, cit., 91, dove l’autore cristallizza delle conclusioni cruciali nella legittimazione dell’ergastolo come pena di morte nascosta, una sorta di suicidio civile: “In tal caso, però, bisognerebbe avere il coraggio di rivendicare la propria scelta per una pena capitale, sia essa argomentata dal principio retributivo dell’equivalenza o da quello utilitaristico della deterrenza, della prevenzione o della sicurezza”.
[22] Tanto più simbolico, perché il discorso è stato tenuto dinanzi alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto penale (presso la Sala dei Papi, il 23 ottobre 2014), in Appendice, “L’ergastolo non è la soluzione del problema, ma è il problema da risolvere”, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 205-228.
[23] Cfr. L. Garlati, Nemo propheta in patria. La proposta abolizionista di Beccaria nel diritto italiano di fine Settecento tra tiepidi entusiasmi e tenaci opposizioni, in Un uomo, un libro. Pena di morte e processo penale nel Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, (a cura di) L. Garlati, G. Chiodi, Milano, 2014, IX-XXXI; ID. Beccaria: filosofo acclamato del passato e giurista misconosciuto del futuro, in Dialogando con Beccaria. Le stagioni del processo penale italiano, (a cura di) G. Chiodi, L. Garlati, Torino, 2015, 1-30.
[24] Cfr. C. Beccaria, Dei delitti delle pene, in (ed. critica a cura di) G. Armani, Milano, 2003, 59 ss.; nonché M. Marinucci, La pena di morte, in Riv. it. dir. pen. proc., 2009, 3 ss.; L. GOISIS, La revisione dell’articolo 27, comma 4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, ivi, 2008, 1655 ss.; A. Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, in Quad. Cost., 2011, 573 ss.
[25] Cfr. G. Crivellari, Il codice penale per il Regno d’Italia, vol. II, Roma, 1890, 24 ss.
[26] Cfr. G. Crivellari, Il codice penale per il Regno d’Italia, cit., 24.
[27] Cfr., sul punto, E. Dolcini, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in Dir. pen. cont., 17.12.2018, 3-4.
[28] Cfr. F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 1-27.
[29] Per un approfondimento, cfr. F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 1-3.
[30] Così, cfr. F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 20.
[31] Cfr., sul punto, F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 3.
[32] Cfr., sul punto, F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 4.
[33] Sulle proposte di riforma, si consenta il rinvio a V. Manca, Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi applicative, Milano, 2020, 56-58.
[34] Cfr. F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 26.
[35] Cfr. F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 27.
[36] Cfr. S. Marietti, “L’ergastolo in Italia non esiste. I numeri di un pregiudizio”, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 98-108.
[37] Cfr. S. Marietti, “L’ergastolo in Italia non esiste. I numeri di un pregiudizio”, cit., 101-108.
[38] Cfr. S. Marietti, “L’ergastolo in Italia non esiste. I numeri di un pregiudizio”, cit., 103.
[39] Cfr. S. Marietti, “L’ergastolo in Italia non esiste. I numeri di un pregiudizio”, cit., 102. Ad un’analisi, ancor più approfondita, del campione qualitativo del regime del 41-bis, emergono ulteriori contraddizioni. Secondo i dati forniti dal Ministro della Giustizia, sono n. 759 i detenuti al regime del 41-bis, di cui n. 152 ristretti a L’Aquila, n. 100 a Milano-Opera, n. 91 a Bancali-Sassari, n. 81 a Spoleto. Di questi, solo n. 204 sono condannati definitivi (ciò vuol dire, all’incontrario, che per il 73%, i detenuti sono indagati o imputati o in posizione mista). Solo n. 304 sono stati condannati alla pena dell’ergastolo, residuando quindi un 40% di detenuti condannati a pene temporanee, per aver rivestito il ruolo di mero partecipe nell’associazione. Il Ministero della Giustizia fornisce anche indicazioni rispetto all’appartenenza ai clan mafiosi, con n. 266 affiliati alla Camorra, n. 210 per la ‘Ndrangheta, e n. 203 di Cosa Nostra. Non solo. Al 41-bis, n. 43 detenuti appartengono alla criminalità organizzata pugliese, di cui n. 19 alla Sacra Corona Unita; n. 28 sono affiliati ad altre forme di criminalità siciliane; e n. 3 lucane. Si registrano n. 3 detenuti per delitti di terrorismo e n. 3 persone ristrette, per altre forme minori di criminalità organizzata. Nel complesso, quindi, ci sono circa n. 80 soggetti, che non appartengono agli schemi della mafia “tradizionale” (oltre il 10% del totale). Emergono dati significativi anche in relazione alla durata del regime, tra i dieci ed i vent’anni, per il 26% dei ristretti, con una buona percentuale che supera anche i vent’anni; e con un 0,5% di applicazione anche al termine della pena detentiva, come misura di sicurezza. Per un approfondimento, si consenta il rinvio a V. Manca, Il carcere duro. Un “doppio binario” ostativo alla rieducazione, in XVII Rapporto di Antigone, in www.antigone.it.
[40] Cfr. E. Dolcini, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, cit., 8.
[41] Così sent. n. 264/1974; per un approfondimento, cfr. R. De Vito, La liberazione condizionale nel diritto vivente giurisprudenziale, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 143-162.
[42] Cfr., tra i tanti, E. Fassone, Riduzioni di pena ed ergastolo: un contributo all’individuazione della “pena costituzionale”, in (a cura di) E. Dolcini, E. Fassone, D. Galliani. P. De Alburquerque, A. Pugiotto, Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Torino, 2019, 49 ss.
[43] Per un recente approfondimento monografico, sia consentito il rinvio a V. Manca, Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi applicative, cit., 11-44.
[44] Per tutti, cfr. E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di
rieducazione del condannato), in Dir. pen. cont., 19.07.2018; A. Pugiotto, Il “blocco di costituzionalità” nel sindacato della pena in fase esecutiva (nota all’inequivocabile sentenza n. 149/2018), in Osservatorio costituzionale AIC.
[45] Per un approfondimento degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tal senso, cfr. V. Manca, Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi applicative, cit., 187-188.
[46] Sul punto, di recente, sent. n. 197 del 2021, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. penit. rispetto alla misura di sicurezza della casa lavoro; per un commento all’ordinanza n. 30408, sollevata dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione, cfr., per tutti, F. Gianfilippi, Al vaglio della Consulta la legittimità costituzionale dell’imposizione del regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis nei confronti del sottoposto alla misura di sicurezza detentiva, in Sistema penale, 24.11.2020.
[47] Sul punto, per tutti, cfr. M. Nobili, art. 25, co. 1, in (a cura di) G. Branca, Commentario della Costituzione. Rapporti civili. Art. 24-26, Bologna-Roma, 1981, 186; nonché F. Bricola, L’intervento del giudice nell’esecuzione delle pene detentive: profili giurisdizionali e profili amministrativi, in Ind. pen., 1969, 279.
[48] A ciò si aggiunga, che tutti gli autori dei vari tipi di ergastolo citati sono destinatari di regole di trattamento particolarmente afflittive: come, ad es., per la stessa ubicazione fisica, in regimi, o circuiti, di isolamento e segregazione, da se stessi e dalla socialità, in istituti ad hoc, in sezioni apposite; per lo svolgimento dei colloqui telefonici con l’esterno, dai familiari ai difensori; per l’accesso ai colloqui visivi, di familiari, difensori e terze persone; per l’ammissione a percorsi di studio e attività lavorative o ricreative; per la corrispondenza; ecc.; tutto è reso ulteriormente più afflittivo, fino all’apice della repressione, con il regime del 41-bis ord. penit., e la sospensione delle principali regole di trattamento.
[49] Così sent. n. 32 del 2020; per un commento, per tutti: F. Gianfilippi, Il divieto di interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in materia di concedibilità delle misure alternative: la svolta della Corte Costituzionale nella sent. 32/2020 e l'argine ad un uso simbolico dell'art. 4-bis, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 3, 2020, 1458 ss.
[50] Cfr. A. Pugiotto, La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, cit., 29.
[51] Cfr., tra le molte, sentenze nn. 306/1993; 504/1995; 357/1994; 68/1995; 137/1999. Per un approfondimento, cfr. ID., La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, cit., 30-32.
[52] Con altrettanti principi di rilievo, contenuti nelle sentenze, cfr., tra le molte, nn. 204/1974; 264/1974; 282/1989; 313/1990; 306/1993: cfr., così, in via riassuntiva, A. Pugiotto, La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, cit., 34; nonché, C. E. Paliero, L’esecuzione della pena nello specchio della Corte costituzionale: conferme e aspettative, in (a cura di) G. Vassalli, Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, 147 ss.
[53] Cfr., per tutti, P. De Alburquerque, L’ergastolo e il diritto europeo alla speranza, in (a cura di) E. Dolcini, E. Fassone, D. Galliani, P. De Alburquerque, A. Pugiotto, Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, cit., 221 ss.
[54] Cfr., tra i molti, C. Fiorio, I diritti fondamentali delle persone detenute, in (a cura di) F. Fiorentin, La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, Torino, 2019, 3-36.
[55] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 65-84.
[56] Cfr. D. Galliani, Gli ergastoli altrove. Ovvero la pena perpetua nel mondo, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 109-142.
[57] Cfr. D. Galliani, Gli ergastoli altrove. Ovvero la pena perpetua nel mondo, cit., 109-118.
[58] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 72.
[59] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 75-78.
[60] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 72-74.
[61] Cfr. D. Galliani, Gli ergastoli altrove. Ovvero la pena perpetua nel mondo, cit., 118-119.
[62] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 75-79.
[63] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 82.
[64] In materia, per tutti, in chiave monografica, cfr. F. Mazzacuva, Le pene nascoste. Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, Torino, 2017; L. Masera, La nozione costituzionale di materia penale, Torino, 2018.
[65] Cfr. A. Pugiotto, La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, cit., 47-64.
[66] Per tutti, cfr. A. Bernardi, L’europeizzazione del diritto e della scienza penale, Torino, 2004, 54 ss.; M. Delmas Marty, Le flou du droit, trad. it., di A. Bernardi, e (a cura di) F. Palazzo, Dal codice penale ai diritti dell’uomo, Milano, 1992, 7 ss.; O. Di Giovene, Il principio di legalità penale tra diritto nazionale e diritto convenzionale, in Studi in onore di Mario Romano, IV, Napoli, 2011, 2249 ss.; V. Manes, Il giudice nel labirinto. profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012; C. Sotis, Il diritto senza codice. Uno studio sul sistema penale europeo vigente, Milano, 2007.
[67] Cfr., per tutti, L. Risicato, L’incostituzionalità riluttante dell'ergastolo ostativo: alcune note a margine di Corte cost., ordinanza n. 97/2021, cit., 665, l’autrice ricorda come la tecnica della declaratoria “in differita” sia stata utilizzata di recente dalla Corte costituzionale, in altri due casi: con ord. n. 2017 del 2018, nel caso Cappato-Antoniani, e, quello in relazione al trattamento sanzionatorio a mezzo stampa, con ord. n. 132 del 2020.
[68] Cfr. L. Risicato, L’incostituzionalità riluttante dell’ergastolo ostativo: alcune note a margine di Corte cost., ordinanza n. 97/2021, cit., 665-667.
[69] Cfr. L. Risicato, L’incostituzionalità riluttante dell’ergastolo ostativo: alcune note a margine di Corte cost., ordinanza n. 97/2021, cit., 667.
[70] Cfr., per una soluzione innovativa, di applicazione diretta del portato della sentenza n. 32 del 2020 della Corte costituzionale, a tutti i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 306 del 1992, e, quindi, della versione “assolutamente ostativa” dell’art. 4-bis, co. 1 ord. penit.: Trib. sorv. Firenze, ord. 29.10.2020, pres. Bortolato, est. Caretto, con nota di M. Passione, La fine è nota (A proposito di un’innovativa ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze), in (a cura di) G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi, Il fine e la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, in Forma QC – Rassegna, n. 4/2020, 206 ss. Per le questioni pendenti, cfr., di recente, Trib. sorv. Perugia, ord. 23.09.2021, pres. Restivo, est. Gianfilippi, con commento di F. Siracusano, Affidamento in prova al servizio sociale del condannato, per reati diversi da quelli di “ambito mafioso”, non collaborante con la giustizia: un’altra questione, circa la tenuta del modello preclusivo imposto dall’art. 4-bis comma 1 ord. penit., approda al sindacato della Corte costituzionale, in Sistema penale, 26.10.2021.
[71] Cfr. R. De Vito, La liberazione condizionale nel diritto vivente giurisprudenziale, cit., 143-162. Per un approfondimento, sulle possibili riforme da intraprendere e da riprendere rispetto ai passati progetti di riforma del Codice Rocco, cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 163-186.
[72] Per la visione delle ragioni e dell’articolato, cfr. Dossier Servizio Studi alla Camera: “Accesso ai benefici penitenziari per i condannati per reati c.d. ostativi AA.C. 1951, 3106 e 3184”, pubblicato il 04.07.2021, in www.camera.it.
[73] Cfr. Proposta di legge d’iniziativa della deputata On. Bruno Bossio, Modifiche agli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, presentata 12.07.2019, AC n. 1951, www.camera.it. Un altro elemento inserito dalla proposta Bossio riguarda la specificazione circa la forma e il contenuto che dovrebbero acquisire le informative di polizia: non informazioni generiche e apodittiche sulla pericolosità sociale, spesso desunta dalla stessa posizione giuridica del condannato, o dall’excursus processuale, ma “dettagliate” informazioni sull’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.
[74] In tal senso, cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, in Sistema penale, 02.11.2021.
[75] Cfr. Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Ferraresi, Bonafede e altri: “Modifiche all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di concessione dei benefìci penitenziari e di accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni gravi delitti, nonché delega al Governo in materia di accentramento della competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza per i giudizi riguardanti i detenuti o internati sottoposti al regime previsto dall'articolo 41-bis, comma 2, della medesima legge”, 11.05.2021, AC 3106, www.camera.it.
[76] Sulle riflessioni di Antigone, cfr.: “Ergastolo ostativo e pena costituzionale: una nota dell’associazione Antigone”, con il documento pubblicato il 21.10.2021 in www.antigone.it e inviato alle Camere.
[77] Cfr. Corte cost. n. 149 del 2018, con nota di E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), cit. Allo stesso modo, risulta ancor più irragionevole la preclusione assoluta di accesso alla liberazione condizionale, per i condannati a pene temporanee. Per la lettura e per una prima spiegazione dell’articolato, cfr. Dossier Servizio Studi alla Camera: “Accesso ai benefici penitenziari per i condannati per reati c.d. ostativi AA.C. 1951, 3106 e 3184”, cit.
[78] Numerosi sono gli aspetti critici dello schema di articolato proposto, tra cui: (i) la previsione del divieto di scioglimento virtuale del cumulo di condanne, in caso di reati eterogenei; (ii) l’acquisizione obbligatoria delle informative di polizia; (iii) la possibilità che la trasmissione delle informative e dei pareri sia prorogata oltre il termine di trenta giorni, in caso di complessità di analisi del caso; (iv) l’onere di motivazione rafforzato per il giudice di sorveglianza, in caso di discostamento dai pareri acquisiti; (v) la penalità dell’inefficacia del provvedimento di accoglimento dell’istanza del condannato, in caso di decisione anticipata prima della ricezione dei pareri, oppure, per carenza di motivazione espressa, in caso di discostamento dalle informative. Ancor più complessa, la formulazione del co. 1-bis.1. dell’art. 4-bis ord. penit.: l’accesso a tutti i benefici penitenziari, e, quindi, non solo la liberazione condizionale sono subordinati al superamento della prova, a carico integrale del condannato, dell’adempimento delle obbligazioni civili da risarcimento del danno da reato, oppure, all’assoluta impossibilità di adempiere, e alla dimostrazione, con elementi concreti e positivi, che non si riducano alla mera dissociazione, dell’assenza dell’attualità di collegamenti e dell’impossibilità del pericolo del relativo ripristino. Rispetto agli organi di polizia coinvolti, poi, sollevano qualche perplessità la modifica della competenza e l’aggiunta sia del comitato provinciale peer la sicurezza e l’ordine pubblico del luogo in cui è stata emessa la sentenza di primo grado, sia, se diverso, di quello competente per la residenza del condannato, con la partecipazione anche del direttore del carcere.
[79] Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Delmastro Delle Vedove, Butti e altri: “Modifiche agli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, in materia di concessione di benefìci penitenziari e di accertamento della pericolosità sociale nei confronti dei detenuti o internati”, presentata 30.06.2021, AC n. 3184, www.camera.it.
[80] Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Paolini, Turri e altri: “Modifiche all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia”, presentata il 13.10.2021, AC n. 3315, www.camera.it.
[81] Critica la dottrina, in tal senso, cfr. L. Risicato, L’incostituzionalità riluttante dell'ergastolo ostativo: alcune note a margine di Corte cost., ordinanza n. 97/2021, cit., 668; nonché E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, cit.
[82] La proposta dell’On. Paolini, invece, estende le competenze anche ad altri comitati provinciali, prevedendo la partecipazione all’istruttoria sia del comitato del luogo dove ha sede il carcere, sia di quello dove il condannato ha stabilito la residenza prima della carcerazione e nella sede in cui intende svolgere la misura extramuraria.
[83] Prescrizione, quest’ultima, suggerita dalla stessa Corte costituzionale, con ord. n. 97 del 2021, con riguardo, però, alle limitazioni di movimento della libertà vigilata per la liberazione condizionale, e, non, invece, come variamente previsto nei diversi articolati, per tutti i benefici e misure alternative alla detenzione.
[84] Per la lettura dell’articolato, e per un primo commento, in senso critico, cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, cit.
[85] In tal senso, infatti, il co. 1-sexies dell’art. 4-bis ord. penit., per cui: “[…] il giudice di sorveglianza accerti, altresì, l’effettivo ravvedimento dell’interessato, desunto dalla sua valutazione critica della sua precedente condotta, dalle sue iniziative a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa, e dal suo contributo alla realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”.
[86] Cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, cit.
[87] Cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, cit.
[88] Cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, cit.
[89] Cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, cit.
[90] Per un commento alla riforma della giustizia penale, promossa dalla Ministra della Giustizia, Prof.ssa Marta Cartabia, cfr., per tutti, G. L. Gatta, Legge 27 settembre 2021, n. 134, «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari» (G.U. n. 237 del 4 ottobre 2021), in Sistema penale, 15.10.2021.
[91] Cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, cit., 163-184.
[92] Cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, cit., 170-174.
[93] Cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, cit., 172-173.
[94] In chiave critica, rispetto a potenziali strumentalizzazione della giustizia riparativa applicata a casi di criminalità organizzata di stampo mafioso, cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, cit., 179-184.
[95] Cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, cit., 175-176.
[96] Riprendendo così la suggestione della storica del diritto, citata inizialmente, cfr. L. Garlati, Sepolti vivi. Il carcere al tempo delle Pratiche criminali: riti antichi per funzioni nuove, cit., 12.
Il principio della domanda nel giudizio di ottemperanza (nota a C.G.A.R.S., Sez. giur., 14 luglio 2021, n. 707).
di Domenico Bottega
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda - 3. Il rito per la liquidazione dei danni di cui all’art. 34, co. 4, c.p.a.: la sentenza di determinazione dei criteri per il risarcimento del danno - 4 Il giudizio di ottemperanza per “la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi inseguiti” ai sensi dell’art. 34 c.p.a. - 5. La natura del commissario ad acta: gli orientamenti tradizionali - 6. La natura del commissario ad acta alla luce dell’art. 21 c.p.a. - 7. Considerazioni critiche - 8. Conclusioni.
1. Premessa
La sentenza in commento si pone quale tassello finale di una lunga vicenda giudiziaria che ha visto contrapposti un’associazione temporanea di imprese e la Regione Sicilia: ottenuta l’esclusione delle prime due classificate e l’annullamento del provvedimento di riedizione della gara, un R.T.I. è ricorso al Consiglio di Giustizia amministrativa siciliano, dapprima per il risarcimento dei relativi danni e una seconda volta per l’ottemperanza della sentenza di condanna. Quest’ultimo giudizio, principiato da un’istanza della Regione di nomina di un commissario ad acta, si è concluso con la sentenza in commento, occasione per riflettere, oltre che sulla figura dell’ausiliario e sulle potenzialità di questo istituto[1], sulle domande che la parte privata e quella pubblica possono proporre nel giudizio di ottemperanza.
2. La vicenda
La controversia riguarda la procedura a evidenza pubblica per l’affidamento dei “lavori di bonifica ambientale dell’area e dei manufatti dell’esistente impianto di depurazione dell’Isola di Lampedusa” bandita dalla Regione Sicilia: le ricorrenti, società componenti un’a.t.i. giunta terza in graduatoria, si dolgono dell’ammissione alla competizione della prima e della seconda classificata, le quali non sarebbero state escluse, nonostante abbiano dichiarato di voler ricorrere all’istituto dell’avvalimento per comprovare il possesso dell’iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali, ricorso espressamente escluso dall’inequivocabile disposto recato dall’art. 49, co. 1 bis, d.lgs. 163/2006.
La parte ricorrente lamenta poi l’illegittimità della decisione della stazione appaltante di annullare in autotutela l’intera gara, invece di aggiudicarla in suo favore: l’Ente regionale, infatti, accortosi dell’illegittimità della previsione contenuta nella lettera d’invito che ammetteva il ricorso all’avvalimento per iscrizione all’Albo predetto, in aperta violazione dell’art. 49 cit. (che espressamente vieta ciò che la stazione appaltante ha permesso), invece di procedere con l’esclusione delle prime due classificate e con lo scorrimento della graduatoria, ha scelto di annullare l’intera competizione e di indirne una nuova.
Le società ricorrenti hanno allora domandato la sospensione della nuova procedura, istanza che dapprima è stata negata dal T.A.R. palermitano[2], ma poi concessa in sede d’appello dal Consiglio di Giustizia siciliano[3].
Nonostante ciò, il ricorso è stato rigettato. Il Giudice di primo grado, infatti, ha ritenuto che l’annullamento in autotutela della gara non sia stato “posto in essere all’esclusivo fine di porre rimedio all’erronea formulazione” della lettera d’invito, nella parte in cui ammetteva “il ricorso all’istituto dell’avvalimento per l’iscrizione all’Albo” Nazionale Gestori Ambientali, in violazione dell’art. 49, co. 1 bis, d.lgs. n. 163/2006[4]. Il T.A.R., pur riaffermando quanto già il C.G.A.R.S., in sede cautelare aveva esposto, ossia che, se fosse stata questa “la sola ragione dell’annullamento e dell’indizione di una nuova gara”, l’amministrazione avrebbe dovuto far spiegare all’autotutela i suoi effetti all’interno della procedura, escludendo le prime due classificate e aggiudicando i lavori alla terza graduata, anziché annullare l’intera gara”, individua nel decreto che ha annullato la gara un’ulteriore motivazione rispetto a quella anzidetta che fonda la scelta di indire una nuova procedura: la necessità di dover “estendere l’invito … anche a tutte le ditte aventi sede nel territorio siciliano, in possesso del requisito di iscrizione all’Albo Nazionale del Gestori Ambientali”. Donde la decisione di rigettare il ricorso e di non caducare il provvedimento di annullamento della prima gara e quello indittivo della seconda.
Di diverso avviso si è però mostrato il Consiglio di Giustizia[5], adito per la riforma dell’anzidetta sentenza, il quale non ha messo in discussione che alla base della scelta di indire una nuova competizione vi sia pure la motivazione testé esposta: contesta invece che a ciò l’amministrazione potesse provvedere attraverso il rimedio dell’autotutela, il quale ha come fine quello di “correggere l’attività amministrativa emendandola da vizi che la rendono illegittima, e … prevenire l’insorgere di liti giudiziarie che possano vedere soccombere, con aggravio di spese, l’Amministrazione”.
Siccome l’unica autotutela possibile poteva essere quella volta a neutralizzare l’avvenuta ammissione alla procedura di gara delle due imprese prive dell’iscrizione all’Albo suddetto, a ciò la Regione avrebbe potuto (anzi dovuto) provvedere, in modo semplice e agevole, escludendo le due società erroneamente ammesse: con la conseguenza che la gara si sarebbe conclusa con l’aggiudicazione dell’appellante in quella sede.
Annullare l’intera gara si palesa quindi come un mezzo “sproporzionato” rispetto al “fine correttivo”, che ha determinato il travolgimento di atti che, invece, erano meritevoli di essere conservati: il provvedimento di annullamento risulta quindi, a detta del Giudice di secondo grado, un chiaro esempio di sviamento dalla causa tipica del potere esercitato, surrettiziamente presentato come autotutela, anche se in verità volto a revocare – a seguito di una nuova valutazione di opportunità – una gara giunta alla sua fase conclusiva.
Alla riforma della sentenza e, quindi, all’annullamento del provvedimento di annullamento della gara, per il Collegio segue “l’obbligo dell’Amministrazione di concludere il procedimento di gara con la pronunzia dell’aggiudicazione in favore del soggetto che in graduatoria risulta collocato in posizione utile a conseguirla”[6].
Alla sentenza, resa pubblica il 18 aprile 2018, non è però seguito alcun comportamento di fattiva ottemperanza da parte della stazione appaltante.
Dalla sentenza n. 79/2021, pronunciata dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana in sede di ottemperanza e resa pubblica il 2 febbraio 2021, si apprende infatti che la Regione Sicilia non si è curata delle ordinanze sospensive via via emanate dagli organi giurisdizionali, le quali avrebbero dovuto arrestare la nuova gara bandita[7].
Più precisamente, nel mese e mezzo di tempo che è intercorso tra l’ordinanza cautelare del T.A.R. siciliano che ha rigettato l’inibitoria della ricorrente[8] e l’ordinanza sull’appello cautelare che l’ha riformata[9], l’Assessorato regionale ha concluso la seconda gara, bandita dopo l’annullamento della prima, aggiudicando all’operatore economico risultato primo in graduatoria l’esecuzione dei lavori. Di poi, nonostante la sospensione ordinata dal Consiglio di giustizia siciliano, la Regione ha proseguito i rapporti con l’aggiudicatario, il quale nel corso del successivo anno ha portato a termine i lavori (ultimati il 30 novembre 2016), successivamente collaudati l’11 dicembre 2017. Insomma, già nel momento in cui il T.A.R. palermitano pronunciava la sentenza di primo grado, nessuna tutela in forma specifica risultava più possibile per l’originaria ricorrente.
Apparentemente ignara di questi fatti, quest’ultima, adendo il C.G.A.R.S. per l’ottemperanza della sentenza n. 228/2018, che le attribuiva l’aggiudicazione della gara annullata, domandava il conseguimento dell’appalto o il risarcimento del danno per equivalente monetario.
Essendo possibile solo questa seconda via, e risultando oggettiva la responsabilità dell’amministrazione[10], il Collegio ha pronunciato una condanna generica al risarcimento dei danni per la mancata aggiudicazione, utilizzando, per la concreta liquidazione, lo strumento previsto dall’art. 34 c.p.a., il cui comma 4 prevede che, “in caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall’accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti”.
Alla pubblicazione della sentenza sono seguiti dei tentativi tra le parti per trovare l’accordo sulla quantificazione della somma di denaro[11], ma, stante la distanza siderale tra le avverse posizioni, l’amministrazione ha deciso di adire nuovamente il C.G.A.R.S., cui ha domandato di nominare un commissario ad acta; nell’ambito di questo quarto procedimento, l’operatore economico danneggiato ha invece chiesto la condanna della Regione al pagamento di una somma poco superiore a duecentomila euro[12].
La sentenza, resa pubblica lo scorso 14 luglio 2021 e che ci si propone di annotare in questa sede, si sostanzia in un rigetto delle domande formulate da entrambe le parti.
Quanto alla richiesta della società danneggiata, riportata in nota per completezza nei termini in cui è stata sintetizzata in sentenza[13], il Collegio ritiene che con essa non siano stati domandati, così come invece prevede l’art. 34, co. 4, c.p.a., “la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti”.
A giudizio del C.G.A.R.S., è vero che “con il ricorso introduttivo del presente giudizio di ottemperanza” (recte, con il ricorso definito dalla sentenza n. 79/2021, che ha pronunciato la condanna generica contro la Regione) parte ricorrente aveva “chiesto la condanna degli Enti resistenti al pagamento in favore della complessiva somma di € 318.341,10, ovvero nella maggiore somma da accertarsi in corso di giudizio, e la nomina di un commissario ad acta”. Tuttavia, continua il Giudice, quel “giudizio è stato definito con la sentenza n. 79/2021 che è una decisione ai sensi dell’art. 34 comma 4 c.p.a., con la quale, invece di individuarsi direttamente l’ammontare della somma dovuta, sono stati dettati i criteri di quantificazione”.
E, siccome nel presente giudizio il Collegio ritiene che non sia stata avanzata in modo rituale alcuna richiesta di “determinazione della somma dovuta”, domanda probabilmente avanzata nel corso della trattazione della causa, ma non veicolata “nelle forme rituali del ricorso per ottemperanza, ossia mediante atto notificato”, ha ritenuto che non vi fosse alcuna richiesta su cui dover provvedere.
Quanto poi alla richiesta dell’amministrazione di nomina di un commissario ad acta, la stessa è stata rigettata. Il Collegio siciliano ha affermato infatti che tale domanda può provenire unicamente “da parte del soggetto interessato all’esecuzione della decisione”, dovendosi ritenere “priva di causa” un’istanza di tal genere formulata da quell’amministrazione “che decida di non svolgere i propri compiti, in spregio ai principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa”: la nomina – continua il C.G.A.R.S. – è infatti “funzionale a rimediare all’inadempienza dell’amministrazione, che non può scientemente sottrarsi ai propri obblighi, decidendo di non adempiere ed accollando tale compito ad un soggetto che rappresenta la longa manus del giudice, organo del giudizio di ottemperanza”.
Per comprendere meglio tale decisione, vale la pena prendere le mosse dalla sentenza di cui da ultimo è stata chiesta l’ottemperanza (ossia la n. 79/2021), pronunciata ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a.
3. Il rito per la liquidazione dei danni di cui all’art. 34, co. 4, c.p.a.: la sentenza di determinazione dei criteri per il risarcimento del danno
La disposizione testé citata si rifà al procedimento delineato dall’art. 35, d.lgs. n. 80/1998, vigente fino all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, a mente del quale “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto” (così il comma 1); in questi casi – prosegue il comma secondo – “il giudice amministrativo può stabilire i criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso previsto dall’articolo 27, primo comma, numero 4), del testo unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, può essere chiesta la determinazione della somma dovuta”.
Il meccanismo di cui al quarto comma dell’art. 34 ricalca questo schema, estendendolo a tutte le condanne pecuniarie (e non limitandolo a quelle pronunciate nell’ambito della giurisdizione esclusiva[14]), ma aggiungendo che esso è utilizzabile solo in mancanza di opposizione delle parti.
La speciale pronuncia delineata dall’art. 34 mira a far fronte alla necessità per il Giudice che intenda comminare una condanna di disporre complessi accertamenti di fatto e tecnici, indispensabili per la liquidazione del danno unicamente mediante una c.t.u., la quale si rende quindi superflua laddove il Collegio, in ordine al quantum risarcitorio, indichi i criteri cui attenersi, senza procedere anche alla concreta quantificazione.
Il meccanismo è presto spiegato: il giudice amministrativo, una volta deciso sull’an, ossia sulla spettanza del risarcimento, fissa i criteri di liquidazione del danno cui l’amministrazione deve attenersi nel formulare una proposta al soggetto leso. Tale opzione è ovviamente facoltativa per il Giudice, il quale potrebbe, in alternativa, condannare la parte resistente al pagamento di una certa somma[15].
Come detto sopra, lo scopo della previsione è quello di evitare l’espletamento di una c.t.u., “venendo rimessa la quantificazione del danno al corretto e leale comportamento delle parti nonché ai principi di buona amministrazione, efficacia ed efficienza”[16]. Il giudice fissa quindi un congruo termine entro cui l’amministrazione deve formulare la sua proposta.
La possibilità per il Giudice di pronunciare una sentenza di tal genere è subordinata al fatto che le parti non si siano opposte. La giurisprudenza ritiene che non serva un accordo espresso, né sarebbe necessario che il Collegio solleciti l’espressione di una manifestazione di volontà, ben sapendo i soggetti in causa che, a fronte della proposizione di una domanda di condanna, esiste la possibilità che l’organo giurisdizionale scelga tale opzione[17].
Per dottrina e giurisprudenza, l’accordo a valle della decisione si forma secondo l’ordinaria disciplina civilistica, quando alla proposta dell’amministrazione segue l’accettazione del privato[18]: se l’intesa è raggiunta, l’accordo non preclude l’impugnazione della sentenza di condanna che si è pronunciata sull’an della pretesa, ma impedisce di adire il Giudice per conseguire somme maggiori rispetto a quelle liquidate con l’accordo sottoscritto tra le parti.
Se queste non riescono a raggiungere un’intesa, perché l’amministrazione resta inerte o perché il privato rifiuta la proposta, il Giudice può essere nuovamente adito con il ricorso di cui al Titolo I del Libro IV del c.p.a., ossia quello proposto in sede di ottemperanza[19]. A onor del vero, ci si trova davanti a una forma di ottemperanza anomala, finalizzata a “riempire” la condanna pronunciata dal Giudice, che si era limitato a individuare i soli criteri per la liquidazione del danno. Tale rito è stato scelto perché si tratta di uno strumento processuale agile e rapido, diretto a integrare il precetto contenuto nella prima decisione.
Tornando alla sentenza di cui si chiede l’ottemperanza nella pronuncia qui in commento, il C.G.A.R.S., per la determinazione del lucro cessante, ha richiamato un proprio precedente[20], nel quale si è affermato che la stazione appaltante deve basare la sua proposta, in casi come questi in cui la tutela in forma specifica mediante aggiudicazione dei lavori è impossibile, sugli elementi emergenti dall’offerta, “posto che nella stessa sono esposti i costi dai quali sono desumibili, seppur approssimativamente, i ricavi netti – e dunque l’utile (rectius: il profitto) – che la società prevedeva di trarre dall’aggiudicazione e dalla conseguente esecuzione dell’appalto”[21].
Il Consiglio ha avuto cura di precisare che, qualora la legge di gara non consenta di accertare quale sarebbe stato l’utile effettivo, allora l’amministrazione può ricorrere al criterio presuntivo, costituito dalla percentuale di utile indicata nel prezziario regionale all’epoca vigente, al netto del ribasso offerto dall’impresa in sede di offerta[22].
Nulla, invece, è stato riconosciuto a titolo di danno curricolare, non essendo stata offerta da parte delle ricorrenti la prova di non aver utilizzato (o potuto altrimenti utilizzare) maestranze e mezzi poiché tenuti a disposizione in vista della commessa, dovendosi quindi presumere, secondo il meccanismo dell’aliunde perceptum vel percipiendum, che l’impresa abbia riutilizzato (o potuto riutilizzare, usando l’ordinaria diligenza) mezzi e manodopera per altri lavori, con conseguente decurtazione, in via equitativa, di una percentuale del 25% della somma riconosciuta a titolo di lucro cessante[23].
Come anticipato, però, nonostante la perspicuità e l’alto livello di dettaglio dei criteri indicati dal Giudice, la parte ricorrente e quella resistente sono giunte a due quantificazioni molto diverse in ordine al danno risarcibile, che ha indotto la seconda ad adire per la quarta volta il Giudice amministrativo: giudizio conclusosi con la sentenza qui in commento, verso cui ora convergerà la nostra attenzione.
4. Il giudizio di ottemperanza per “la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi inseguiti” ai sensi dell’art. 34 c.p.a.
Vale la pena di concentrarci sulla sentenza n. 707/2021, con la quale il Collegio ha rigettato le richieste formulate da entrambe le parti.
L’a.t.i. ha domandato – come viene riportato in sentenza – “che venga dichiarato l’obbligo degli Enti resistenti al risarcimento per equivalente monetario per la refusione dei danni complessivamente patiti a causa dei provvedimenti impugnati, da quantificarsi nella complessiva somma di € 216.428,13, oltre accessori, e, in via istruttoria, che venga disposta consulenza tecnica d’ufficio ai fini della quantificazione del risarcimento del danno”. Aggiunge il Collegio che “la parte ricorrente non ha chiesto la nomina di un Commissario ad acta”.
La richiesta non ha però trovato accoglimento. La decisione si spiega solo leggendo il prosieguo della motivazione, nella parte in cui il Giudice, ricostruendo i fatti, scrive che “dalla documentazione prodotta in giudizio dall’amministrazione si evince che quest’ultima ha inviato all’impresa una proposta risarcitoria dell’importo di euro € 25.084,57; che le imprese interessate hanno risposto inoltrando un atto di diffida con il quale rilevano come la proposta non sia «suscettibile di accoglimento e deve necessariamente disattendersi in quanto fondamentalmente errata, incongrua ed inesatta ed in quanto tale elusiva del giudicato reso dal C.G.A.», diffidando al pagamento dell’importo di € 216.428,13; che l’amministrazione ha rinnovato «la proposta risarcitoria avanzata con prot. n° 8319 del 25/02/2021, redatta in conformità alle indicazioni contenute nella sentenza del C.G.A. n° 79/2021 pubblicata in data 02/02/2021», specificando i criteri seguiti per la quantificazione ivi esposta”.
Si legge poi che “le ricorrenti non risultano aver dato riscontro a tale nota” e che “successivamente alla presentazione da parte dell’amministrazione dell’istanza di nomina del commissario ad acta hanno presentato una memoria formulando le richieste sopra indicate”. Sembra che l’associazione di imprese cui il Collegio si riferisce parlando di “parte ricorrente” sia invero stata intimata nel presente giudizio, nonostante in epigrafe venga riportato l’opposto[24], e che il procedimento sia stato incardinato dall’amministrazione con la presentazione dell’istanza di nomina di un commissario ad acta.
La domanda dell’aggiudicataria pretermessa pare quindi essere stata veicolata attraverso un atto meramente depositato, invece che notificato a controparte[25]: le richieste ivi contenute non possono quindi essere oggetto di scrutinio da parte del Giudice[26].
Di maggior interesse è la richiesta dell’amministrazione, la quale, come si è detto, non ha trovato accoglimento per due ordini di ragioni.
In primo luogo, perché, a detta del Consiglio siciliano, essa non sarebbe proponibile dalla P.A., che, formulando una domanda di tal fatta, dimostrerebbe di volersi scientemente sottrarre “ai propri obblighi, decidendo di non adempiere”, “accollando tale compito a un soggetto che rappresenta la longa manus del giudice”.
A detta del Collegio, infatti, il potere sostitutivo implicherebbe “la surroga ex lege dell’amministrazione inadempiente ad opera del commissario ad acta”, il quale è “organo straordinario della stessa amministrazione”.
In secondo luogo, sarebbe “priva di causa” la nomina di un commissario in assenza di una richiesta di tal tenore “da parte del soggetto interessato all’esecuzione della decisione”, bensì su istanza “dell’amministrazione che decida di non svolgere i propri compiti, in spregio ai principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa”.
Così sunteggiata la scarna motivazione di rigetto, si pongono all’attenzione dell’interprete almeno due temi meritevoli di approfondimento: quale sia la natura del commissario ad acta e se nel caso di specie si possa effettivamente affermare che manchi la richiesta di nomina dell’ausiliario da parte di un soggetto interessato.
5. La natura del commissario ad acta – gli orientamenti tradizionali
La figura del commissario ad acta vede le sue origini nel silenzio del legislatore, all’inizio degli anni Sessanta, in alcune sentenze che riconoscevano il potere del giudice di ordinare all’amministrazione la nomina di un commissario, che si sostituisse alla stessa onde far fronte al suo inadempimento, ponendo in essere gli atti e le attività necessari all’esecuzione del giudicato[27].
Prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, almeno tre erano le impostazioni elaborate per ricostruire la figura in parola.
La prima, prevalente in dottrina e giurisprudenza, tendeva a identificare il commissario ad acta in un organo del giudice dell’ottemperanza. Si deve tale ricostruzione a un’importante pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato – 14 luglio 1978, n. 23 –, la quale, escludendo che tale soggetto possa rappresentare un organo, sia pure straordinario, dell’amministrazione, ha affermato che esso debba essere considerato quale organo del giudice, sia che esso venga scelto direttamente da quest’ultimo, sia che la scelta passi attraverso l’interposizione di un organo amministrativo incaricato dal giudice di procedere alla nomina[28].
Tale posizione si fonda invero anche su una coeva pronuncia della Corte costituzionale (sentenza 12 maggio 1977 n. 75), nella quale si è affermato che “il giudice amministrativo, sia che sostituisca la propria decisione all’omesso provvedimento della pubblica amministrazione, che vi era tenuta in forza del giudicato formatosi nei suoi confronti, come più spesso suole accadere quando si tratti di atto vincolato; sia che ingiunga alla amministrazione medesima di provvedere essa stessa, entro un termine all’uopo prefissatole e con le modalità specificate in sentenza; sia infine che disponga la nomina di un commissario per l’ipotesi che il termine abbia a decorrere infruttuosamente, esplica sempre attività di carattere giurisdizionale («decide pronunciando anche in merito», come si esprime l’art. 27, comma primo, del citato testo unico del 1924, riferendosi testualmente al Consiglio di Stato «in sede giurisdizionale»). Né fa differenza, sotto questo aspetto . . . che la nomina del commissario sia operata dal giudice amministrativo direttamente, ovvero attraverso l’interposizione di un organo amministrativo. . . , poiché in tal caso a quest’ultimo viene semplicemente demandata la scelta della persona, e non già conferito il potere di agire in via sostitutiva per mezzo di un «suo» commissario, come si verifica invece quando sia l’organo di controllo, di propria iniziativa, ad inviare un commissario ad acta presso amministrazioni sottoposte alla sua vigilanza. Procedendo, pertanto, direttamente o indirettamente, alla nomina di un commissario, il giudice amministrativo non si surroga all’organo di controllo, ma pone in essere un’attività qualitativamente diversa da quella che quest’ultimo avrebbe istituzionalmente il potere-dovere di esplicare nell’ipotesi di omissione da parte degli enti locali di atti obbligatori per legge, tra i quali rientrano bensì, ma senza esaurirne la specie, quelli da adottare per conformarsi ad un giudicato: potere-dovere che, comunque, preesiste alla pronuncia emessa nel giudizio di ottemperanza ed è da questa indipendente. Ed a sua volta, l’attività del commissario, pur essendo, praticamente, la medesima che avrebbe dovuto essere prestata dall’amministrazione, o in ipotesi da un commissario ad acta inviato dall’organo di controllo, ne differisce tuttavia giuridicamente, perché si fonda sull’ordine contenuto nella decisione del giudice amministrativo, alla quale è legata da uno stretto nesso di strumentalità”[29].
In base a questa teoria, il commissario ad acta sarebbe quindi da considerarsi ausiliario del giudice: in verità, però, tale impostazione non ha avuto molto successo, mancando una disposizione di legge che attribuisse al giudice il potere di istituire organi amministrativi e preporvi funzionari di sua scelta[30].
Alla ricostruzione di cui si è appena detto, se ne contrapponeva un’altra, che qualificava il commissario ad acta come organo straordinario dell’amministrazione: tale teoria si fondava sulla considerazione per cui “deve escludersi che un’attività caratterizzata da valutazioni amministrative di tipo discrezionale possa essere riferita alla giurisdizione e quindi compiuta senza assunzione di responsabilità politiche, civili ed amministrative ed eventualmente in difformità dagli indirizzi politici dell’autorità attributaria del potere in via ordinaria”[31].
In assenza di una chiara disciplina di legge, vi era chi sosteneva – tra gli aderenti a questa seconda teoria – che gli atti del commissario, che agisce non come longa manus del giudice bensì come supplente dell’amministrazione inerte, in nulla differissero da un “ordinario” atto amministrativo, impugnabile attraverso un ricorso in sede di legittimità nei termini generali di decadenza, giammai, però, dall’amministrazione, alla quale al più residuava la facoltà di annullamento in sede di autotutela[32].
Ai due orientamenti predetti se ne aggiungeva un terzo, elaborato dal Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana, poi condiviso anche da altri organi giurisdizionali[33] e da una parte della dottrina[34]. In base a tale ulteriore impostazione, il commissario ad acta era da definirsi come soggetto misto, di natura ambivalente, avendo da un lato ricevuto un’investitura formale dal giudice finalizzata a portare ad esecuzione le prescrizioni contenute nella sentenza ottemperanda, ed essendo dall’altro lato organo straordinario della P.A., inserito forzatamente nella struttura amministrativa di quest’ultima.
A sopire, benché non del tutto, questo dibattito è stata l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo.
6. La natura del commissario ad acta alla luce dell’art. 21 c.p.a.
L’art. 21 c.p.a. prevede che il giudice possa sostituirsi alla pubblica amministrazione, quando necessario, nominando un commissario ad acta[35]; l’incarico di questi ha carattere fiduciario, con ampio margine di scelta per il giudice: la disposizione non fissa infatti vincoli analoghi a quelli previsti dall’art. 19 c.p.a. per la nomina dei consulenti tecnici, che debbono essere scelti tra gli iscritti in specifici albi o dotati di particolare competenza tecnica[36].
L’art. 21, anche in forza della sua collocazione all’interno del Capo VI del Libro I, dedicato agli “ausiliari del giudice”, è chiaro nel qualificare il commissario ad acta come tale, e non come organo della pubblica amministrazione.
Quanto alla relazione che si instaura tra la pubblica amministrazione e il commissario si sono nel tempo affermate due ricostruzioni opposte. In base a una tesi più risalente, tale rapporto avrebbe natura interorganica[37], mentre secondo un’impostazione più recente la relazione deve qualificarsi come intersoggettiva[38], per cui al commissario ad acta non spetterebbe una competenza di ordine generale sostitutiva delle prerogative in capo alla amministrazione pubblica sostituita[39]. Al contempo, comunque, non si può nemmeno affermare che il suo ruolo si riduca all’emanazione di un singolo atto, potendo invece accadere che egli debba compiere attività più complesse, affinché la sua azione sia effettiva nel consentire al privato di conseguire il bene della vita di cui è stato riconosciuto titolare[40].
La tesi della relazione di natura intersoggettiva troverebbe conferma anche nella circostanza che i poteri riconosciuti al commissario ad acta nominato nel giudizio di ottemperanza sono attribuiti e delimitati dalla stessa pronuncia giurisdizionale. Infatti, ai sensi del combinato disposto dell’art. 21 e dell’art. 114, co. 4, lett. d) c.p.a., il potere riconosciuto in capo al commissario trova fondamento diretto nella pronuncia giurisdizionale da eseguire.
Non è mancato, tuttavia, chi abbia tentato una rivisitazione delle più risalenti impostazioni: ci si riferisce qui all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che nella sentenza n. 7/2019, ha en passent scritto che il commissario ad acta avrebbe una “duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione”. Affermazione che di recente il medesimo consesso ha ritenuto opportuno precisare (rectius, correggere). Risale allo scorso 25 maggio 2021 la già citata sentenza n. 8/2021, in cui l’Adunanza Plenaria ha affermato che “non può essere riconosciuta al commissario ad acta, nemmeno in via «aggiuntiva», la natura di organo straordinario dell’amministrazione (dovendosi, in tal senso, precisare quanto – peraltro incidentalmente – affermato da Cons. Stato, Ad. Plen. 9 maggio 2019 n. 7, che riconosce invece al commissario una «duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione»)”[41].
Tale conclusione si fonda innanzitutto sul fatto che “la natura di ausiliario del giudice del commissario ad acta è l’unica normativamente riconosciuta e definita”, nonché sulla considerazione per cui, siccome “gli organi amministrativi, quanto alla loro esistenza, natura e competenza (poteri) sono istituiti dalla legge”, tale non può essere il commissario, a meno di non ritenerlo “un organo amministrativo di fonte giurisdizionale”.
Insomma, la qualifica di ausiliario del giudice appare la più adatta, anche considerando che tale soggetto non deve “esercitare poteri amministrativi funzionalizzati alla cura dell’interesse pubblico”, ma “dare attuazione alla pronuncia del giudice”; peraltro, aggiunge la Plenaria, “non è necessario ipotizzare la natura di organo straordinario dell’amministrazione per giustificare l’imputazione alla sua sfera giuridica degli effetti dell’agire del commissario, trovando questi fonte e giustificazione direttamente nel provvedimento giurisdizionale”.
In modo alquanto lapidario, e con intento evidentemente correttivo del precedente di due anni prima, il Consiglio di Stato conclude sancendo che “attualmente, ed in modo inequivocabile, la conquistata definizione normativa dell’istituto ne definisce espressamente la natura soggettiva, che è quella (esclusivamente) di ausiliario del giudice”.
Peraltro, la dottrina più recente non sembra più nutrire dubbi su tale qualificazione, forse anche per il fatto che l’importanza di tale dibattito si fondava sull’incertezza del regime di impugnazione degli atti commissariali, questione oggi risolta dall’art. 114 c.p.a., che attrae tale cognizione al giudice dell’ottemperanza[42].
7. Considerazioni critiche
Analizzati gli istituti coinvolti nella sentenza in commento, deve ora spendersi qualche parola sulla scelta del C.G.A.R.S. di riferirsi al commissario ad acta quale organo straordinario dell’amministrazione.
L’affermazione è rimasta priva di una qualche motivazione a corredo, tale da rendere intellegibile la scelta del Collegio. Dal complessivo tenore della pronuncia, tuttavia, pare potersi affermare che l’uso di tale espressione non costituisca un tentativo di riportare in auge una tesi da tempo abbandonata[43], né sia la manifestazione di una volontà “controcorrente”, in aperto contrasto con quanto affermato dall’Adunanza Plenaria poco tempo prima. L’opzione perseguita dal Consiglio siciliano sembra più che altro volta a contrastare con maggior vigore la decisone di rigettare l’istanza di nomina di un commissario formulata dall’Amministrazione.
Il Giudice, infatti, appare più che altro interessato a sottolineare l’eccentricità dell’istanza, la proposizione della quale costituirebbe evidenza dello stato in cui versa l’amministrazione, che sostanzialmente domanderebbe di essere commissariata. Ciò che poi il Collegio sembra voler evidenziare è che tale condotta sia frutto di una chiara volontà della P.A. di “sottrarsi ai propri obblighi” e di voler rimettere l’onere di liquidare i danni a un terzo.
Ciò detto, vale la pena di capire se effettivamente un’istanza di tale tenore non fosse proponibile dall’amministrazione.
I pochi elementi in punto di fatto che la sentenza riassume, nonché le erronee indicazioni presenti in epigrafe (dove il ricorrente sembra il privato, quando, già si è detto, pare che sia stato l’Ente regionale ad aver per primo adito il Giudice), impediscono di qualificare in modo preciso la domanda formulata dall’Ente.
È noto che le ipotesi nelle quali il codice del processo amministrativo prevede la nomina del commissario ad acta sono:
- l’art. 34, co. 1, lett. e), secondo il quale il giudice “dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”;
- l’art. 114, co. 4, lett. d), in base al quale il giudice dell’ottemperanza “nomina, ove occorra, un commissario ad acta”;
- l’art. 117, co. 3, secondo il quale, nell’ambito del giudizio sul silenzio dell’amministrazione, “il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente, su istanza della parte interessata”;
- l’art. 59, relativo alla “esecuzione delle misure cautelari”, che consente, laddove i provvedimenti cautelari non siano in tutto o in parte eseguiti, che il giudice, su istanza motivata dell’interessato, eserciti “i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza”, e dunque possa disporre anche la nomina di un commissario ad acta.
È altresì noto che, ai sensi del secondo periodo dell’art. 34, co. 4, “se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall’accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti”.
Le disposizioni che rilevano per risolvere la questione sono quindi gli artt. 112-114 c.p.a. relativi al giudizio di ottemperanza e l’art. 34 c.p.a.
Partendo dalla lettura di quest’ultimo nella parte testé citata, si può affermare che la norma tace sulla legittimazione attiva e, in ogni caso, non stabilisce che sia unicamente il privato creditore della somma di cui alla condanna pecuniaria ad essere titolato ad adire il Giudice con l’azione di ottemperanza.
Dall’altro lato vi sono gli artt. 112-114 c.p.a., cui rimanda l’art. 34 per la disciplina del ricorso ivi previsto. Da queste disposizioni si ricava che, mentre non v’è dubbio che la legittimazione passiva spetti alla pubblica amministrazione e ai controinteressati (ossia le parti del giudizio in cui è stata emessa la pronuncia di cui si chiede l’esecuzione), come annotato da autorevole dottrina “il c.p.a. tace sulla legittimazione attiva in relazione al ricorso per ottemperanza”[44]: non vi è quindi un dato legislativo inequivoco da cui possa desumersi che il ricorso per l’ottemperanza sia proponibile unicamente dal privato o, comunque, che l’unico ricorso per ottemperanza proponibile dal soggetto pubblico sia quello volto a ottenere chiarimenti (di cui all’art. 112, co. 5, c.p.a.).
Dall’esame delle disposizioni rilevanti non pare, quindi, che si possa affermare che la “parte interessata” alla nomina di un commissario ad acta non possa essere l’amministrazione.
Nel caso di specie, poi, vi è un altro elemento da tenere in considerazione: l’art. 34 non fissa alcuna limitazione relativa alla legittimazione attiva, anzi. Esso prevede che la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti “possono essere chiesti” con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, senza stabilire il soggetto da cui tale domanda debba provenire.
Ci si potrebbe domandare se, nel provvedere a una richiesta formulata ai sensi dell’art. 34 (di quantificazione del credito o di condanna all’adempimento), il Giudice possa avvalersi di un commissario: la risposta non può che essere positiva, atteso che tale facoltà viene riconosciuta dall’art. 114, co. 4, lett. d) (applicabile alla speciale azione di cui all’art. 34 in forza del rinvio al rito predetto), per cui il Collegio può provvedere alla “nomina, ove occorra, [di] un commissario ad acta”.
Peraltro, come si evince dal tenore della norma, anche in assenza di un’esplicita istanza il Giudice dell’ottemperanza può nominare tale proprio ausiliario.
Sembra allora che, in virtù di quanto detto, il C.G.A.R.S. sicuramente potesse, o probabilmente dovesse, nominare un commissario ad acta.
Infatti, in assenza di un divieto esplicito e, anzi, in forza di una disposizione che prevede la facoltà anche per l’amministrazione di attivare il meccanismo previsto dal secondo periodo del quarto comma dell’art. 34, il Giudice avrebbe dovuto provvedere sull’istanza presentata dalla Regione. Oltre al fatto che tale potere di nomina spetta in via generalizzata al Giudice dell’ottemperanza e, nel caso di specie, stante l’acclarata inerzia dell’amministrazione, le circostanze suggerivano l’opportunità di tale provvedimento.
8. Conclusioni
L’esecuzione del giudicato, lungi dall’essere una sorta di “appendice” alla fase di cognizione, “ne costituisce un passaggio essenziale, in quanto in esso si manifesta in concreto l’effettività della tutela giurisdizionale, … il momento in cui il comando espresso nella pronuncia del giudice deve trovare attuazione nella realtà materiale”[45].
La delicatezza di tale passaggio, dall’”essere” al “dover essere”, spiega l’attenzione che la dottrina e la giurisprudenza hanno dedicato al giudizio di ottemperanza e al giudicato[46], efficacemente definito come “l’anello di congiunzione tra la sentenza e l’ottemperanza/esecuzione … il punto di arrivo dell’esercizio della funzione giurisdizionale che deve creare certezza su un rapporto controverso tra le parti”[47].
Nel processo amministrativo, è noto, l’esecuzione del giudicato è caratterizzata da una serie di peculiarità che la distinguono nettamente da quella civilistica[48]: il nostro ordinamento, che deterrebbe il primato, tra quelli europei, della “riluttanza” delle amministrazioni pubbliche a dare piena e corretta esecuzione alle decisioni sfavorevoli dei giudici[49], conosce infatti un sistema tra i più avanzati, che fornisce al giudice dell’esecuzione una serie di penetranti strumenti coercitivi e di intervento nei confronti della p.a., in grado di assicurare una tutela piena ed effettiva al ricorrente vittorioso[50].
Ragionando unicamente alla luce del principio di effettività,, nel caso di specie il Giudice avrebbe potuto valutare percorsi interpretativi delle disposizioni in argomento che, in base a quanto si è detto sopra, consentono all’Amministrazione di presentare l’istanza di nomina di un commissario, oppure avrebbe potuto provvedere d’ufficio a tale nomina, avendo constatato che la Regione si trovava in una situazione di impasse.
Il C.G.A.R.S. è invece giunto alla soluzione opposta tracciando i limiti delle domande proponibili nel giudizio di ottemperanza, ritenendo, in particolare, che la parte pubblica non possa domandare la nomina del commissario ad acta [51].
La sentenza merita di essere inoltre segnalata come esempio di una crescente tendenza del Giudice ad auspicare che le parti trovino un accordo al di fuori del giudizio[52]. Ci si domanda allora se non sia opportuno cominciare a immaginare una estensione della casistica in cui consentire al Giudice, su istanza non solo del privato ma anche dell’amministrazione pubblica, di nominare un proprio ausiliario, che, nella veste di commissario, sia d’aiuto nel risolvere questioni che più facilmente possono trovare soluzione da un confronto collaborativo, piuttosto che in sede contenziosa. Non è questa la sede per approfondire il tema, ma la prassi insegna che, ad esempio, la fase esecutiva dei contratti d’appalto e dei project financing sia caratterizzata da un alto livello di litigiosità, il più delle volte causata dalla difficoltà per le parti di gestire un rapporto contrattuale che dura a lungo nel tempo e che involge questioni altamente tecniche, di difficile soluzione anche per il giudice amministrativo: non sarebbe improvvido, allora, che, prima che la lite venga definita da una sentenza, venga nominato dall’autorità giudiziaria un soggetto cui affidare il compito di tentare di risolvere la controversia insorta[53].
***
[1] La dottrina sul commissario ad acta e sul giudizio di ottemperanza è molto vasta; senza pretesa di esaustività, si segnalano Andreis, L’attività successiva alla sentenza di annullamento tra acquiescenza e principio di assorbimento, in Dir. proc. amm., 2003, 1198 ss.; Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969; Cacciavillani, Il Giudicato, in Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2020, 613 ss.; Id, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005; Caianiello, Esecuzione delle sentenze nei confronti della Pubblica Amministrazione, in Enc. dir., Agg. III, Milano, 1999, 603 ss.; Calabrò, Giudicato (dir. proc. amm.), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2003; Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. dir., Agg. VI, 2002; D’Alessandri, Il giudizio di ottemperanza, Roma, 2015; Francario, Osservazioni in tema di giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 1995, 277 ss.; Id., La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 1025 ss.; Tarullo, Ottemperanza (giudizio di), in Dig. disc. pubbl., Agg., Torino, 2017; Travi, L’esecuzione della sentenza, in Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, V, Milano, 2003, 4647 ss.
[2] Nella sentenza del T.A.R. Sicilia, Palermo, 9 novembre 2016, n. 2551, che ha definito il primo grado della controversia, si legge che la Sezione avrebbe accolto la domanda cautelare con ordinanza n. 482/2016, poi riformata dal giudice d’appello, con ordinanza n. 358/2016: in verità, però, il Collegio di primo grado aveva rigettato l’istanza inibitoria, decisione poi riformata in appello dalla pronuncia succitata.
[3] L’ordinanza n. 358 del 27 maggio 2016 del C.G.A.R.S. contiene in estrema sintesi, sebbene all’esito di una valutazione che si è concentrata più sul periculum in mora che sul fumus boni iuris, la decisione che poi verrà assunta dal Giudice d’appello. Rileva infatti il C.G.A.R.S. che, “nell’evidenza dell’errore pacificamente commesso dalla stazione appaltante, nell’ammettere i concorrenti Aemme s.r.l. e Pinto Vraca s.r.l. in violazione dell’art. 49, co. 1 bis, d.lgs. 163/2006, alla procedura negoziata avviata il 7.12.2015”, “l’autotutela dell’amministrazione avrebbe dovuto logicamente manifestarsi all’interno della procedura già avviata, escludendo tali imprese e aggiudicando i lavori alla terza in graduatoria, anziché annullare l’intera procedura”: scelta, peraltro, che contraddice – evidenzia il Collegio di seconde cure – “le stesse finalità di urgenza indicate nella motivazione dell’atto del 24.2.2016, legate al regolare svolgimento dell’attività turistica sull’isola”. Per quel che concerne strettamente il periculum, il C.G.A.R.S. ha ritenuto prevalente l’interesse della ricorrente all’aggiudicazione della prima procedura – della quale era automaticamente aggiudicataria, considerando che la stessa stazione appaltante aveva riconosciuto l’illegittimità della previsione di gara che aveva consentito l’ammissione delle prime due classificate –, “dal cui irragionevole annullamento è destinata a risentire un pregiudizio grave ed irreparabile, non adeguatamente bilanciabile dalla mera chance di aggiudicazione derivante dalla partecipazione alla seconda procedura”.
[4] La disposizione non lascia spazio a dubbi interpretativi: “il comma 1 non è applicabile al requisito dell’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali di cui all’articolo 212 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”; laddove il comma 1 consente al “concorrente [di] soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto”.
[5] Il C.G.A.R.S., peraltro, nelle more della trattazione del merito della causa, ha accolto l’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza appellata, giusta ordinanza del 14 aprile 2017, n. 291. Il Collegio ha reputato che, ad un primo sommario esame, ”il requisito per cui è causa non sia «prestabile» (né, dunque, correlativamente acquisibile mediante «avvalimento») e che l’annullamento d’ufficio dell’intera procedura, inizialmente indetta, non appare, in ogni caso, giustificato”: donde la decisione di sospendere “tanto i provvedimenti impugnati che la sentenza di primo grado (che li ha reputati legittimi)”, dato che gli stessi “cagionano all’appellante un pregiudizio immediato, grave ed irreparabile”.
[6] Così la sentenza del C.G.A.R.S., Sez. giur., 18 aprile 2018, n. 228.
[7] Il riferimento qui è all’ordinanza del C.G.A.R.S. n. 358/2016, del 27 maggio 2016, la quale riformava l’ord. n. 482/2016, datata 8 aprile 2016, del T.A.R. Sicilia, disponendo quindi la sospensione del provvedimento che ha annullato la prima gara e della lettera di invito alla seconda procedura; nonché all’ord. n. 291/2017 del 14 aprile 2017, con cui il Giudice d’appello sospendeva l’esecutività della sentenza di primo grado.
[8] T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, ord. 8 aprile 2016, n. 482.
[9] C.G.A.R.S., Sez. giur., ord. 27 maggio 2016, n. 358.
[10] Non ci si dilunga sulla questione, non oggetto di indagine di questo contributo: si rinvia alla copiosissima giurisprudenza per la quale la responsabilità per danni conseguenti all’illegittima aggiudicazione di appalti pubblici non richiede la prova dell’elemento soggettivo della colpa, giacché la responsabilità, negli appalti pubblici, è improntata – secondo le previsioni contenute nella normativa eurounitaria in materia – a un modello di tipo oggettivo, disancorato dall’elemento soggettivo, coerente con l’esigenza di assicurare l’effettività del rimedio risarcitorio (da ultimo si veda ex multis Cons. Stato, Sez. V, 1 febbraio 2021, n. 912).
[11] La Regione aveva proposto una somma pari a un decimo di quella quantificata dal ricorrente, ossia circa 25 mila euro.
[12] Precisamente, nella sentenza si legge quanto segue: “le ricorrenti chiedono che venga dichiarato l’obbligo degli Enti resistenti al risarcimento per equivalente monetario per la refusione dei danni complessivamente patiti a causa dei provvedimenti impugnati, da quantificarsi nella complessiva somma di € 216.428,13, oltre accessori, e, in via istruttoria, che venga disposta consulenza tecnica d’ufficio ai fini della quantificazione del risarcimento del danno”.
[13] Si veda la nota che precede.
[14] Sebbene il tenore dell’art. 35, commi 1 e 2, d.lgs. n. 80/1998 non lasciasse spazi a dubbi interpretativi (il comma 2 si apre riferendosi ai casi di cui al comma 1, ove si discorre unicamente di “controversie devolute alla … giurisdizione esclusiva” del g.a.), l’interpretazione pretoria antecedente al c.p.a. aveva affermato che l’art. 35 dovesse trovare applicazione anche se la controversia non riguardava una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: si veda Cons. Stato, Sez. V, 2 settembre 2005, n. 4461, ove si è affermato che “la condanna generica al pagamento di somme di denaro, una volta accertata la sussistenza di un diritto, non costituisce affatto una eccezione nell’ambito del sistema (articolo 278 codice di procedura civile) e che comunque la ratio dell’articolo 35, comma due, del decreto legislativo n. 80 del 1998, pur inizialmente inserito nell’ambito più circoscritto della giurisdizione esclusiva, sta proprio nell’esigenza di raccordare le norme della procedura civile alla tipicità del processo amministrativo, che si muove sempre nell’ambito di situazioni caratterizzate dalla presenza di un potere della pubblica amministrazione. In questo ambito, quindi, la cosiddetta «sentenza sui criteri» può essere utilmente impiegata anche al di là della giurisdizione esclusiva, allorché, come nel caso di specie, la quantificazione del danno necessita di una ulteriore attività collaborativa dell’amministrazione”.
[15] Vale la pena di precisare che tale genere di pronuncia non è annoverabile tra le condanne generiche di cui all’art. 278 c.p.c., che non sembra ammessa nel processo amministrativo: nella fattispecie, infatti, il Giudice, indicando i criteri da seguire per la quantificazione del risarcimento, non si limita a una decisione in un punto di an.
[16] Così De Nictolis, Codice del processo amministrativo commentato, IV, Milano, 2017, 1303, che richiama Cons. Stato, Sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 8074.
[17] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29 ottobre 2018, n. 6144: “La disposizione di cui all’art. 34, comma 4, c.p.a. si limita ad indicare come presupposto della procedura ivi divisata la «mancanza di opposizione delle parti», ma non reca l’espressa previsione circa la necessità della previa acquisizione dell’espresso consenso delle parti stesse. È, pertanto, più rispettoso del tenore testuale della norma concludere che sia onere dell’interessato manifestare tempestivamente la propria opposizione all’eventuale ricorso del Giudicante a tale procedura. Del resto, l’onere in questione non si palesa eccessivo o spropositato: la disposizione, infatti, trova applicazione solo ove la parte abbia sollecitato una «condanna pecuniaria», di talché colui che abbia coltivato un siffatto petitum ben può prevedere che il Giudice disponga l’accoglimento della domanda secondo le forme previste dalla cennata disposizione e, dunque, può tempestivamente e preventivamente rappresentare, oltretutto senza particolari oneri formali né vincoli temporali, la propria opposizione”.
[18] Si vedano Cons. Stato, Sez. IV, 11 ottobre 2006, n. 6063, che conferma T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 16 luglio 2004, n. 3049; cfr. altresì Rocco, Accordo, esecuzione del giudicato e giudizio di ottemperanza, in Urb. App., 2005, 97.
[19] A tale approdo la giurisprudenza era giunta già prima dell’entrata in vigore dell’art. 34: cfr. Cons. Stato, Sez. V, 4 maggio 2005, n. 2167.
[20] C.G.A.R.S., Sez. giur., 31 dicembre 2020, n. 1216.
[21] Il criterio prescelto è in linea con l’orientamento che ha superato quella giurisprudenza che riconosceva il diritto all’utile nella misura percentuale del 10% dell’importo dell’offerta, criterio forfettario e presuntivo ormai abbandonato data la prescrizione di legge secondo la quale il danno da mancata aggiudicazione deve essere “provato” (art. 124, comma 1, c.p.a.). L’oggetto di questa prova, appunto, deve avere riguardo al margine di utile effettivo, quale ricostruibile dall’esame della documentazione prodotta in gara (tra le più recenti, si veda Cons. Stato, Sez. III, 5 marzo 2020, n. 1607 e la giurisprudenza ivi richiamata).
[22] Non può, infatti, applicarsi la percentuale di utile sull’intero importo a base d’asta, senza tener conto del ribasso offerto, in quanto, in mancanza di prova contraria, che incombe sulla parte ricorrente, deve supporsi che il ribasso riguardasse, come di regola, l’intera base d’asta, utile incluso. L’entità dell’utile si presume correlata all’offerta presentata in gara, ovvero al margine positivo in essa incorporato, quale differenza tra costi e prezzo offerto. La proposta economica individua l’importo finale scaturito dal ribasso sul prezzo a base d’asta; a quest’ultimo l’Amministrazione appaltante perviene aggiungendo ai vari costi, evidenziati nel computo metrico, l’aliquota per spese generali e l’aliquota per utile d’impresa. Il calcolo dell’utile facendo ricorso al criterio presuntivo impone il cammino inverso, vale a dire scomporre dalla base d’asta l’utile applicato in sede progettuale dall’Amministrazione appaltante. Poiché il danno risarcibile è quello effettivamente patito dall’impresa, deve ovviamente aversi riguardo all’importo al netto del ribasso offerto.
[23] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 2/2017.
[24] In epigrafe si legge trattarsi del “ricorso numero di registro generale 742 del 2020, proposto da Seap s.r.l., in proprio e quale mandataria del costituendo raggruppamento temporaneo di imprese con Ecoin s.r.l., ed Ecoin s.r.l.” contro l’“Assessorato regionale dell’energia e dei servizi di pubblica utilità e Presidenza del Consiglio dei Ministri”.
[25] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3 novembre 2020, n. 6769: è “principio pacifico del processo amministrativo che con le memorie non notificate possono essere illustrati e chiariti i motivi già svolti con l’atto introduttivo del giudizio ovvero confutate le tesi avversarie; tuttavia, anche ai fini dell’effettivo rispetto del principio del contraddittorio, non possono essere dedotte nuove censure, né può essere specificato, integrato o ampliato il contenuto dei motivi originari di appello e, a maggior ragione, del ricorso di primo grado (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2019, n. 3759; sez. IV, 7 settembre 2018, n. 5277)”.
[26] Il Collegio precisa che non può essere scrutinata nemmeno la richiesta risarcitoria formulata nel primo giudizio di ottemperanza, conclusosi con la sentenza n. 79/2021, che ha fissato i criteri per la liquidazione del danno. Anche la ricostruzione di questo passaggio è assai poco chiara in sentenza. Il Giudice scrive infatti che “con il ricorso introduttivo del presente giudizio di ottemperanza le ricorrenti avevano chiesto la condanna degli Enti resistenti al pagamento in favore della complessiva somma di € 318.341,10, ovvero nella maggiore somma da accertarsi in corso di giudizio, e la nomina di un commissario ad acta”. In realtà, non si tratta del “presente giudizio di ottemperanza”, bensì del precedente. E non può che essere così, dato che la pretesa risarcitoria di cui all’atto di diffida inviato all’amministrazione in risposta alla proposta formulata è ben inferiore alla somma testé riportata. A conferma di ciò, poco dopo il giudice annota che tale “giudizio è stato definito con la sentenza n. 79/2021 che è una decisione ai sensi dell’art. 34 comma 4 c.p.a., con la quale, invece di individuarsi direttamente l’ammontare della somma dovuta, sono stati dettati i criteri di quantificazione”.
[27] Cfr. Giacchetti, Un abito nuovo per il giudizio di ottemperanza, in Foro amm., 1979, 2614, che annota che “il commissario ad acta nominato dal giudice dell’ottemperanza è una figura creata dalla giurisprudenza praeter legem per esigenze pratiche ed è del tutto sconosciuta al legislatore e finora dalla più significativa dottrina. Perché è stato creato è abbastanza semplice. È un noto dato sociologico che la pubblica amministrazione, quando tende ad autocostruirsi come potere e non come servizio – tale tratto è tipico della società contemporanea e in certa misura è sempre esistito – tende anche ad autocostruirsi come sistema autarchico ed autonomo, impermeabile alle esigenze degli altri poteri dello Stato, ed in particolare a quelle della magistratura. Con tale sistema tendenzialmente chiuso possono venire a collidere sentenze amministrative scomode, cioè sentenze che non si limitano ad annullare un provvedimento illegittimo … ma indichino – o addirittura prescrivano – di tenere un comportamento che non risponda a quello che lo staff ritenga essere il reale interesse dell’amministrazione. In tal caso quest’ultima, non potendosi ribellare esplicitamente, tende ad opporre alle sentenze scomode un muro di gomma di ostruzionismo, adottando misure dilatorie o provvedimenti elusivi o addirittura una assoluta inerzia; è questo non necessariamente per motivi dolosi … ma anche per motivi che al di fuori possono sembrare abbastanza banali, quali la modifica di un modulo o di una circolare o di una struttura di ufficio, fatti questi che infrangono il principio sacrale del precedente, possono creare vere e proprie crisi esistenziali nell’ambito di istituzioni anelastiche quali quelle del nostro ordinamento”.
[28] A tale impostazione conseguiva, sempre per l’Adunanza Plenaria, che i provvedimenti emessi dal commissario non potessero essere riconducibili al normale regime degli atti amministrativi e, pertanto, che non potessero essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo in sede di legittimità, bensì avanti a quello dell’ottemperanza. La giurisprudenza successiva si è allineata a questa impostazione: esempio ne è la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 20 maggio 1987, n. 297, annotata da Cannada Bartoli, Il ritorno del giudizio di ottemperanza, in Foro amm., 1987, 981, il quale commenta “il pregio della sentenza consistente nella riconduzione al solo giudice dell’ottemperanza dei ricorso o dei reclami avverso gli atti commissariali”. Infatti, immagina l’Autore, “si suppongano due giudizi di ottemperanza contro due comuni su materie identiche: nel primo, decorso il termine assegnato all’autorità amministrativa, opera il commissario ad acta, che emana un dato provvedimento; nel secondo giudizio, l’autorità, alla quale il giudice ha assegnato il termine per ottemperare, emana un provvedimento eguale a quello disposto nell’altro giudizio dal commissario. L’atto di quest’ultimo è sindacabile nel giudizio di ottemperanza. Identica soluzione deve valere nell’altro caso, di atto compiuto dall’autorità amministrativa per conformarsi, nel giudizio di ottemperanza, al precedente giudicato”.
[29] La dottrina dell’epoca, nell’ambito di tale ricostruzione, rinveniva alcune “varianti interpretative” tese ad identificare il commissario come semplice ausiliario del giudice dell’ottemperanza (così Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Il giudizio di ottemperanza, Atti del XXVII Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 1981, Milano, 1983, pp. 68 ss.), oppure come organo giurisdizionale delegato ovvero ancora come suo sostituto (cfr. A.M. Sandulli, Il problema dell’esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo, in Dir. e soc., 1982, 37: “si tratta di una soluzione tipicamente pragmatica e pretoria, la quale non ha base nel diritto scritto ed anzi appare difficilmente conciliabile con gli stessi principi, non essendo consentito ai pubblici poteri, ed ancor meno ai giudici, di farsi sostituire – laddove la legge non lo autorizzi – né da altri organi né da persone estranee all’organizzazione dei poteri stessi”).
[30] In questi termini A.M. Sandulli, op. cit.
[31] Così Aprea, Inottemperanza inerzia e commissario ad acta nella giustizia amministrativa, Milano, 2003, 54; v. altresì Favara, Ottemperanza al giudicato e attribuzioni amministrative regionali, in Rass. Avv. St., 1977, 492.
[32] Cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. III, 7 marzo 1992, n. 157, il quale conclude per l’esclusiva competenza del giudice dell’ottemperanza in quanto l’atto di nomina proviene da quest’ultimo e in forza del principio generale per cui in materia di esecuzione dei provvedimenti giudiziari è il giudice dell’esecuzione a controllare ogni incidente o contestazione relativi a tale fase.
[33] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 5 febbraio 1985, n. 60, e T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 14 dicembre 1987, n. 1882.
[34] Vi è stata però anche una parte della giurisprudenza, per la quale gli atti del commissario dovevano essere conosciuti unicamente dal giudice dell’ottemperanza, in considerazione dello stretto legame tra i due organi: Cfr. Mazzarolli, Il giudicato di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, 226 ss.
[35] Nella seconda parte della disposizione è affermato il principio per cui l’istituto della ricusazione su istanza di parte, previsto per il giudice, si estende anche al suo ausiliario: tale previsione si fonda sull’art. 108, co. 2, Cost., a mente del quale “la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia”.
[36] Cfr. T.A.R. Umbria, Sez. I, 16 novembre 2016, n. 705.
[37] V. T.A.R. Molise, Sez. I, 18 luglio 2007 n. 621; cfr. altresì Giardino, L’annullamento d’ufficio degli atti del commissario ad acta – il commento, in Giornale dir. amm., 2015, 869.
[38] Così Cons. St., Sez. II, 9 gennaio 2017, n. 177; cfr. Cons. St., Sez. III, 22 agosto 2016, n. 3664.
[39] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 8 ottobre 2014, n. 5158.
[40] T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 27 febbraio 2017, n. 1149; cfr. altresì T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 17 gennaio 2017, n. 31: nel caso di ottemperanza al giudicato di condanna della pubblica amministrazione al pagamento di una somma di denaro, si è ritenuto che il commissario ad acta sia legittimato a provvedere alle seguenti attività: “allocazione della somma in bilancio (ove manchi un apposito stanziamento), espletamento delle fasi di impegno, liquidazione, ordinazione e pagamento della spesa, nonché reperimento materiale della somma; con la precisazione che l’esaurimento dei fondi di bilancio o la mancanza di disponibilità di cassa non costituiscono legittima causa di impedimento all’esecuzione del giudicato, dovendo il predetto organo straordinario porre in essere tutte e iniziative necessarie per porre in essere il pagamento”.
[41] Cfr. Scognamiglio, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), in questa Rivista, la quale scrive di condividere “la scelta della Plenaria di abbandonare definitivamente la locuzione di «organo straordinario» dell’amministrazione spesso utilizzata con riferimento al commissario ad acta nominato nell’ambito del processo e di ascrivere decisamente alla sfera della giurisdizione la sua attività”.
[42] Cfr. Tarullo, Il giudizio di ottemperanza, in Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2011, 589, dove si può leggere che deve riconoscersi “al commissario ad acta non già la natura di organo straordinario dell’amministrazione (come pure da alcuni sostenuto in passato), bensì quella di organo ausiliario del giudice, in quanto è il giudice che nomina il Commissario, dal giudice questi deriva i propri poteri di sostituzione, ed è sempre il giudice, investito del compito di dirigere l’esecuzione, ad indirizzare ed orientare la sua attività”. Si veda altresì Daidone, Commento agli artt. 112-115 c.p.a., in Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, 1074, il quale annota, a conferma di tale qualificazione, che il rapporto di ausiliarietà si riflette, ad esempio, “nella possibilità che il commissario sia soggetto a ricusazione nelle ipotesi di cui all’art. 51 c.p.c., nonché nel riconoscimento di un compenso per l’opera svolta”. In termini, si veda anche De Nictolis, op cit., 1759.
[43] La stessa Plenaria, nella recente sentenza n. 8/2021, discorre di “risalente dibattito” per riferirsi ai contrapposti orientamenti “sulla natura soggettiva del commissario ad acta”, figura che “nel tempo” ha “oscillato tra le distinte nature di organo straordinario dell’amministrazione, ausiliario del giudice, soggetto con duplice natura (ausiliario del giudice e organo straordinario)”; dibattito che è “storicamente comprensibile”, in ragione della “progressiva definizione dell’istituto”, “di origine giurisprudenziale”, che però oggi è giunto alla “sua piena affermazione sia sul piano della previsione normativa (ora art. 21 c.p.a.), sia sul piano dell’ambito di intervento, oggi praticamente esteso ad ogni necessità di ottemperanza e/o esecuzione del provvedimento giurisdizionale dotato di forza esecutiva, secondo quanto prescritto dall’art. 112 c.p.a.”.
[44] Così De Nictolis, op. cit., 1741.
[45] Così Greco, L’effettività della tutela nel giudizio di ottemperanza, in www.giustizia-amministrativa.it.
[46] Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. Dir., vol XVIII, Milano, 1969; Cacciavillani, Il Giudicato, in Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2020, 613 ss.; Id, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005; Calabrò, Giudicato (dir. proc. amm.), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2003; D’Alessandri, Il giudizio di ottemperanza, Roma, 2015; Francario, Osservazioni in tema di giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 1995, 277 ss.; Travi, L’esecuzione della sentenza, in Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, V, Milano, 2003, 4647 ss.
[47] Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 4, 1025 ss.
[48] Una delle motivazioni sta nella natura della parte soccombente, titolare di attribuzioni e poteri che la pongono a un livello diverso rispetto a quello della parte vincitrice. Si spiega così perché si discorra di “giudizio di ottemperanza” e non di processo esecutivo, avendo il primo una portata più ampia e variegata rispetto alla mera “esecuzione”, ricomprendendo tutte le attività necessarie e idonee a garantire la “attuazione” (come recita l’art. 112 c.p.a.) del comando giudiziale.
[49] Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. dir., agg. VI, 2002, 285 ss.
[50] Caputi Jambrenghi, op cit., che ha comparato la normativa italiana in materia con quella di altri ordinamenti europei e occidentali; cfr. altresì Greco, op. cit.
[51] Non si indugia oltre sui confini delle richieste proponibili in tale rito, tema che certamente merita di essere ulteriormente indagato. Rimane il fatto che il dato codicistico che lascia aperte varie strade, e sarebbe stato forse preferibile che il Collegio avesse optato per quella soluzione in grado di evitare ai litiganti di adire per la terza volta il giudice dell’ottemperanza. Come efficacemente è stato scritto, “il processo d’esecuzione … è, e deve essere, sempre rapido: il combattimento fra le parti è finito, la bilancia è messa da parte e si tratta d’applicare una buona volta la sentenza, anche se il suo senso possa rivelarsi non chiaro. Del resto, non occorre di regola istruttoria, ed il giudice saprà bene cosa ha inteso dire. … Poco conta che sopravvengano pronunzie cognitorie, se quelle d’accoglimento non siano poi eseguite. E lo stesso vale per pronunzie cautelari. Per ciò, la rapidità del giudizio d’esecuzione è il primo presidio del buon funzionamento della giustizia amministrativa”. Aggiunge l’autore che “un modo per far eseguire le pronunzie favorevoli al ricorrente contro la volontà dell’Amministrazione è quello della nomina del commissario ad acta. Tale figura è incontroversa nella giurisprudenza. Sarebbe tempo che la legge la recepisca e la disciplini, per le parti in cui l’inventiva del giudice può apparire arbitraria” Paleologo, La giustizia amministrativa cautelare e d’urgenza, in Giornale Dir. Amm., 1995, 745 ss. Tali osservazioni risalgono a un momento in cui il codice del processo amministrativo ancora non esisteva, ma già allora il commissario ad acta veniva indicato come quel soggetto che può aiutare il giudice nel suo compito di concretizzare la decisione passata in giudicato. Non vi è allora motivo per tardare nell’avvalersi di tale ausiliario, la cui nomina dovrebbe intervenire in via automatica quando l’amministrazione abbia dimostrato una certa inerzia nell’intraprendere l’esecuzione della sentenza.
[52] Cfr. ex multis Cons. Stato, 30 agosto 2021, n. 6111, ulteriore esempio di condanna ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in cui si rimanda a un accordo stragiudiziale la quantificazione del credito del ricorrente; v. altresì T.A.R. Veneto, ord. 25 marzo 2021, n. 146, in cui il Tribunale ha invitato le parti di due giudizi connessi, in cui erano coinvolte diverse amministrazioni, “ad un confronto collaborativo sui profili tecnici della vicenda”.
[53] In questa direzione pare vada inteso anche il recente intervento normativo di cui all’art. 6, D.L. n. 76/2020, che ha introdotto il “collegio consultivo tecnico” con funzioni di “assistenza per la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso”. Sul tema si segnala un interessante contributo relativo all’istituto e, in particolare, alla qualificazione delle “decisioni” assunte dal collegio predetto: Francario, La natura giuridica delle determinazioni del collegio consultivo tecnico, 23 marzo 2021, in lamministrativista.it.
Il Covid, la distribuzione delle risorse e la cura degli anziani
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Una strage non casuale - 2. Il problema dell’equità nell’allocazione delle risorse - 3. L’ineludibile responsabilità morale - 4. Alternative drammatiche - 5. La vita degli anziani è “degna di essere vissuta”?- 6. Ciò che è utile e ciò che è importante - 7. Il rischio dell’interpretazione - 8. Due indicazioni.
1. Una strage non casuale
Tra le questioni sollevate dal Covid, ha sicuramente un posto di rilievo quella del suo impatto sugli anziani e delle responsabilità che la società ha nel tutelarne la salute. È noto che, soprattutto nella prima fase della pandemia, la mortalità è stata frequente soprattutto tra le persone di età avanzata. In questo ha avuto certamente un peso decisivo la loro maggiore fragilità. Ma non è questa l’unica spiegazione. Ve n’è almeno un’altra, legata al tema che qui affrontiamo.
Da uno studio recente, di cui ha dato notizia il «Corriere della Sera» del 21 ottobre scorso, apprendiamo che in Italia - nel periodo più drammatico della pandemia, tra il 14 marzo e il 25 aprile del 2020, e nella regione dove essa è esplosa con maggiore virulenza, la Lombardia - gli over 70 erano circa la metà dei ricoverati. Questa percentuale però si abbassa drasticamente al 22% (poco più di uno su cinque!) quando si vanno a vedere i numeri di coloro si trovavano in terapia intensiva e fruivano, perciò, di cure più efficaci. E ciò, malgrado in poche settimane si fosse riusciti ad aumentare il numero di posti-letto in questi reparti da 720 a 1761.
La strage degli anziani che ha così fortemente colpito l’opinione pubblica non è stata dunque un caso. Essa è stata anche il frutto di una tendenza a selezionare i casi clinici in base ai dati anagafici, privilegiando nelle cure i più giovani rispetto ai vecchi.
La ricerca riguarda solo la regione lombarda. Ma è probabile che i risultati non sarebbero molto diversi se analoghi studi venissero condotti su altre regioni. In un momento in cui il dilagare del virus ha creato ai sanitari drammatici problemi di scelta, l’età ha sicuramente costituito – un po’ dovunque - un criterio importante per decidere a chi dare la precedenza nelle cure. Ma è legittimo questo, da un punto di vista sia morale che giuridico? Con quali parametri si deve decidere l’ammissibilità di un paziente a trattamenti sanitari salva-vita?
2. Il problema dell’equità nell’allocazione delle risorse
Il problema, in realtà, non è nuovo. Ben prima del Covid, io stesso avevo già avuto modo di occuparmene, come membro (dal 1999 al 2002) del Comitato Nazionale di Bioetica. Anche perché, in quella occasione, ho fatto parte - con Giovanni Berlinguer (che era allora il presidente del Comitato) ed Eugenio Lecaldano (noto docente di filosofia morale) - di un piccolo sottogruppo di lavoro dedicato all’equità nell’allocazione delle risorse.
È questo l’ambito in cui la società può e deve assumersi le proprie responsabilità in materia di salute e in cui, di conseguenza, entra in gioco il problema dell’equità. Infatti, non ogni disuguaglianza, in questo ambito, è riconducibile ad una iniquità. Non lo sono quelle dovute a scelte personali (per esempio, al fumo). Non lo sono quelle legate a malattie o fragilità congenite. Non lo sono quelle legate alla particolare identità di genere, maschile e femminile. E non lo sono neppure quelle dipendenti dall’età.
Il problema dell’equità nell’allocazione delle risorse entra in gioco là dove si tratta di disuguaglianze evitabili con un intervento da parte del sistema sanitario. Ad esso spetta garantire a tutti - se lo vogliono, e tenuto conto dei fattori sopra indicati - la possibilità di godere di quel grado di salute che è alla loro portata.
Le difficoltà nascono dal fatto che le risorse non sono illimitate e dunque, spesso, non bastano per rispondere ai bisogni. Negli studi dedicati a questo tema si suol dire che esse sono “scarse”. In realtà la presunta scarsità è in molti casi un effetto degli sprechi a cui esse sono soggette, nei singoli paesi e a livello internazionale. Si aggiungano a ciò le disfunzioni, dovute ad incompetenza o a disonestà, che a volte si riscontrano nel servizio sanitario, a tutti i livelli. Infine, vi sono le conseguenze di una distribuzione iniqua, a monte, della ricchezza, che mette un certo numero di persone e alcuni paesi in condizione di avere assai più di quanto sarebbe loro strettamente necessario e impedisce ad altri di raggiungere gli standard minimi.
Quali che ne siano la cause, resta vero, però, che, di fatto, i mezzi a disposizione per curare la salute delle persone non bastano, spesso per tutte. È qui che si pone la domanda sui criteri da seguire nella loro utilizzazione.
Qui ci occuperemo del problema solo in riferimento all’Italia e al trattamento sanitario degli anziani. Ma è bene non dimenticare che il Covid lo ha posto anche a livello internazionale e per altre categorie di persone.
3. L’ineludibile responsabilità morale
Chiamando in causa l’equità, si riconosce che i criteri di cu si parlava non scaturiscono automaticamente e asetticamente dalle competenze scientifiche e tecniche del medico. Una ipotesi, quest’ultima, che scaricherebbe le persone, sia nell’ambito sanitario che in quello politico, da ogni responsabilità morale nel fare delle scelte e permetterebbe loro di invocare, per giustificarle, dei puri e semplici dati di fatto.
In realtà non è così. Certamente i dati di ordine sanitario sono la base indispensabile per ogni decisione, ma è l’interpretazione che noi ne diamo a risultare, in ultima istanza, decisiva. Da qui l’ineludibilità della questione etica e del ricorso a una valutazione di equità di cui il singolo dottore, ma anche l’intero sistema sanitario, deve farsi carico, a volte drammaticamente.
Dove per equità non si può intendere una astratta uguaglianza di trattamento. È vero che, secondo l’art. 3 della nostra Costituzione, «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Ma questa uguaglianza non può comportare una omologazione. L’equità, nell’ambito sanitario come in qualunque altro, suppone la considerazione delle diverse situazioni esistenti nella realtà.
Prima si diceva che non ogni differenza nel godimento della salute è una ingiustizia, perché molte di esse non dipendono dalle strutture sanitarie. È il momento di richiamare questa formula anche a proposito delle cure che queste sono tenute a prestare ai singoli pazienti. Basti pensare alle particolari esigenze poste, per le donne, dall’assistenza alla maternità. Opportunamente è stato osservato da qualcuno che la massima ingiustizia consisterebbe proprio nel trattare in modo uguale situazioni diverse.
Peraltro, il criterio di una uguaglianza materiale, nel caso dell’utilizzazione di risorse limitate, è reso inapplicabile già per il semplice fatto che è impossibile metterle a disposizione di tutti i richiedenti.
4. Alternative drammatiche
È chiaro, a questo punto, che delle scelte sono inevitabili. Mai come in questo caso sarebbe immensamente più comodo eluderle, rimettendosi a criteri tecnici (in questo caso medici) puramente oggettivi, o a una soluzione etica (la pura e semplice uguaglianza) che non comporti decisioni inevitabilmente dolorose. Ma i tentativi in questa direzione che abbiamo preso in esame sono risultati fallimentari. Dobbiamo dunque chiederci quali criteri morali di scelta nell’utilizzazione delle risorse sanitarie sono ipotizzabili. Sarà nell’ambito di questo quadro che metteremo a fuoco il problema della cura degli anziani.
Alla questione così posta si possono dare diverse soluzioni, ma tutte sono discutibili. Lo si vede proprio in riferimento al ricovero in terapia intensiva, nell’ipotesi - purtroppo non remota - che i posti siano insufficienti per tutti i malati.
Se ad essere malato di Covid è il direttore sanitario della struttura, o uno dei medici che contribuiscono a farla funzionare, sarebbe equo – anche per il bene degli altri pazienti – garantire prima di tutto la loro guarigione? O ricadremmo in fondo in una logica corporativa per cui i medici si preoccupano innanzi tutto della salute dei propri colleghi?
Più in generale, bisogna tener conto del ruolo sociale, politico, culturale dei pazienti che hanno bisogno delle cure? Bisogna preferire chi, in base ad esso, appare più necessario alla comunità? O magari chi lo è stato e, in base a meriti passati, avrebbe diritto alla riconoscenza della società?
Oppure bisognerà prescindere dal fatto che si tratti del presidente della Repubblica, di un premio Nobel, di un famoso regista, e dare la precedenza al comune cittadino, in base ad altre plausibili motivazioni?
E la madre di quattro bambini piccoli deve essere ammessa alla terapia intensiva a preferenza di una single senza figli? Oppure siamo davanti a una logica ormai superata, che valorizza la donna in funzione della maternità ignorandone altri aspetti egualmente importanti?
E ancora, sarebbe ragionevole privilegiare un ricco industriale che prometta di fare all’ospedale una generosa donazione, con cui sarà possibile approntare nuovi padiglioni e nuovi posti letto per la lotta contro la pandemia, oppure questo configurerebbe un cedimento a logiche economiciste?
E se già in passato questo ricco industriale ha finanziato con le sue offerte l’ampliamento del reparto di terapia intensiva in cui ora chiede di essere ricoverato? Ancora una volta, in questo caso specifico, ritorna la domanda: può avere un peso, in situazioni come queste, la gratitudine?
Infine – ed è forse questa l’alternativa più drammatica –, bisogna privilegiare chi ha migliori possibilità di guarigione, oppure, al contrario, chi, per la maggiore gravità delle sue condizioni, corre maggior pericolo di morte?
Come si vede, è molto difficile dare una risposta univoca e indiscutibile a questi interrogativi. La coscienza, anche dopo aver optato per una soluzione, ne resterà comunque inquietata. Molti medici e operatori sanitari ne hanno fatto l’esperienza.
5. La vita degli anziani è “degna di essere vissuta”?
Si situa in questo contesto problematico la questione delle cure da dedicare agli anziani, a fronte di pazienti più giovani e dunque, presumibilmente, con maggiori aspettative sia in termini di durata che di qualità di vita.
Per quanto riguarda il primo punto - la durata, solitamente espressa nella formula «maggior speranza di vita» - esso è spesso considerato decisivo. Ma veramente questo concetto puramente quantitativo è adeguato a decidere di dare la precedenza nelle cure a qualcuno rispetto ad un altro? Se fosse così, la discriminazione degli anziani sarebbe inevitabile. Ma è sicuro che – per riprendere un esempio fatto prima - la salute del nostro presidente della Repubblica, ormai ottantenne e dunque con minore «speranza di vita», vada considerata per ciò stesso meno importante di quella di una persona più giovane?
Una seconda osservazione, più di fondo, verte sulla formula “qualità della vita”, spesso tirata in ballo, nel dibattito bio-medico, per sostenere che alcuni esseri umani – non solo anziani: anche disabili, malati di mente, menomati ogni genere – non sarebbero in grado di condurre un’esistenza pienamente umana.
In realtà, non è possibile misurare il valore della vita delle persone. Dunque, non si possono imporre modelli universali per stabilire quali sono le condizioni che rendono una vita “degna di essere vissuta”. Nessuno può decidere se la qualità della vita di un altro sia tale da renderla priva di dignità e di senso.
Oggi spesso, nella nostra società freneticamente attivista e produttivista (esasperazioni patologiche della umana esigenza di agire e di produrre), gli anziani sono spesso messi ai margini, perché “in pensione” dal punto di vista lavorativo e “inutili” da quello produttivo. Si aggiunga a questo il fatto che, nella attuale situazione delle famiglie, è diventato sempre più difficile prendersi cura di loro. Da qui il proliferare della “case di riposo”, anticamera del cimitero, dove il massimo che l’ospite possa sperare è qualche rara visita dei figli.
È sufficiente questo quadro per sostenere che la vita di queste persone “non è degna di essere vissuta”? O non bisognerebbe, al contrario, chiedersi se davvero il valore di una esistenza dipenda da ciò che una persona “fa”, piuttosto che da ciò che “è”? Certo, sotto il primo profilo si può calcolare la sua utilità. Ma è sicuro che “utile” coincida – come spesso oggi si tende a credere – con “importante”?
6. Ciò che è utile e ciò che è importante
A insinuare il dubbio dovrebbe bastare la considerazione che ciò che è utile non può mai valere per se stesso, perché “serve” a raggingere qualcos’altro, mentre ciò che è importante vale in sé e per sé. La bellezza di un’opera d’arte non “serve” a niente. Lo stesso vale per l’essere umano, che non può mai venire ridotto al suo essere “utile”, perché ha in se stesso, a di là del suo status, una misteriosa grandezza, che prescinde dal suo ruolo economico, sociale o politico.
È nella logica dei totalitarismi, da una parte, e di un capitalismo estremo, dall’altra, che le persone siano solo strumenti di cui il potere o l’economia si serve. E c’è da chiedersi se il fatto che oggi si sia persa la differenza tra “utilee” e “importante” – per esempio a proposito della vita degli anziani – non sia l’indizio inquietante di un totalitarismo culturale, funzionale al neo-capitalismo, che non ha bisogno di lager e di polizia segreta, perché agisce direttamente sulle menti e le induce a vedere la realtà e gli altri in un’ottica strumentale che ne distorce radicalmente il significato.
Una simile logica, peraltro, non trova alcun appiglio nella nostra Costituzione. Abbiamo già avuto modo di ricordare l’art. 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». E l’art. 32 dice chiaramente che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», senza fare alcuna distinzione in base ad altro criterio che la dignità inviolabile di ogni essere umano.
Questo significa che non è possibile stabilire parametri generali che implichino una selezione automatica dei pazienti in base a un unico criterio, sia quello dell’età, sia qualsiasi altro. Gli esseri umani non sono semplicemente “parti” del mondo, fungibili tra loro e sacrificabili al bene del tutto. Ogni persona è in se stessa un mondo – già Aristotele diceva che l’anima è in qualche modo tutto – e perciò il suo valore è incommensurabile.
Perciò, se non vogliamo rassegnarci alla riduzione della nostra società a una succursale di Squid Game, dove la lotta per la sopravvivenza privilegia spietatamente i più forti, dobbiamo respingere la discriminazione aprioristica degli anziani, sia, in generale, nella gestione della nostra vita sociale, sia, in particolare, nella distribuzione delle risorse del sistema sanitario.
Qualcuno potrà insinuare che sono condizionato dalla mia personale esperienza. Sono io stesso un anziano, e sono stato gravemente malato di Covid, con conseguente ricovero in ospedale. Per quindici giorni sono stato anche in terapia intensiva. Devo dire però, per la verità, che la mia esperienza non è stata quella di chi deve lottare contro la discriminazione né, tanto meno, ho avuto mai il timore di rubare il posto a qualcuno più giovane o più meritevole. Il letto di fronte al mio è stato occupato solo al tredicesimo giorno, quando già stavo per essere riportato tra i pazienti “non in pericolo di vita”. Una condizione felice di cui, purtroppo, altri miei coetanei non hanno goduto in altre situazioni e in altri momenti.
7. Il rischio dell’interpretazione
Queste riflessioni sono decisive, ai miei occhi, per escludere la legittimità etica e giuridica di un ricorso aprioristico, nell’utilizzazione delle risorse sanitarie, al parametro fondato sull’età anagrafica. Troppo poco, forse, per chi vorrebbe precisi criteri positivi a cui affidarsi, ma abbastanza per chi, come il sottoscritto in questo articolo, aveva l’obiettivo, più modesto, di delineare la problematica relativa al trattamento degli anziani nel tempo della pandemia.
Pure, da quanto detto, forse è possibile trarre anche delle indicazioni generali per quanto riguarda la gestione dei mezzi di cura in una situazione di emergenza. In realtà ogni criterio univoco sull’ordine di priorità appare inadeguato. Di fronte alla alternative drammatiche sopra indicate, si tratta di affrontare il caso concreto utilizzando una combinazione di elementi di valutazione diversi e in grado di suggerire, con la loro combinazione, la soluzione più accettabile – o la meno inaccettabile – per la coscienza. L’età anagrafica potrà essere allora tenuta in considerazione, ma dovranno esserlo anche il ruolo sociale e politico, la condizione familiare, i debiti della società verso una persona, la gravità delle condizioni del malato e, per altro verso, le possibilità di successo dei mezzi da usare.
Certo, questo approccio al problema è un duro colpo per chi cerca regole sicure e rassicuranti. Qui si prospetta una interpretazione responsabile e sempre nuova delle singole situazioni, e interpretare è sempre un rischio. Ma non è forse la vita stessa a costituire un rischio?
8. Due indicazioni
Esclusa ogni “ricetta”, non voglio per questo rinunziare a offrire delle indicazioni in chiave propositiva. Una riguarda specificamente la cura degli anziani, l’altra il problema generale delle risorse da destinare alle cure mediche.
Si è parlato molto della solitudine che ha reso più triste l’agonia e la morte di tanti vecchietti colpiti dal Covid. Ma la pandemia ha solo messo in luce l’emarginazione a cui, in una società efficientista, sono condannate le persone che si trovano al di fuori dei circuiti lavorativi e produttivi. Nelle culture arcaiche i vecchi erano considerati depositari di una saggezza preziosa per la vita di tutta la comunità e soprattutto per i più giovani. Oggi spesso vengono confinati in istituti specializzati, come un fardello di cui sopportare il peso e, nella maggior parte dei casi, non hanno più alcun ruolo nella vita dei figli e dei nipoti.
Non è un caso, allora, che la nostra società soffra di una cronica difficoltà nel capire e valorizzare la tradizione. Che non è il culto del passato come tale, ma la capacità di ricordarlo e di rapportarsi ad esso per leggere più profondamente il proprio presente e progettare il futuro. Alla liquidazione degli anziani corrisponde non solo una perdita di memoria, ma la difficoltà, dei singoli e delle comunità, di cogliere il senso della propria storia e di esserne i continuatori.
Il Covid, evidenziando la triste situazione di tanti anziani, può essere allora un’occasione per prendere coscienza di una deriva che è molto anteriore e che forse vale la pena di contrastare, a livello personale e sociale.
Una seconda indicazione si ricollega alla considerazione da cui siamo partiti parlando del problema della presunta “scarsità” delle risorse. Dicevamo prima che in realtà siamo noi, o almeno i governanti che ci siamo scelti democraticamente, a determinarla. Le scelte drammatiche fatte in questi mesi sono state il frutto di un sistema che spesso ha sacrificato la priorità della sanità pubblica a favore di spese oggettivamente meno urgenti, dal punto di vista delle persone, come per esempio quelle militari.
È chiaro che qui il discorso si allarga ben oltre i confini nazionali, perché è anche vero che non si può pensare di rinunziare unilateralmente ad armamenti che potrebbero essere necessari alla difesa del Paese, senza tener conto dei propri impegni internazionali e senza un analogo sforzo di disarmo a livello planetario.
Ma proprio perché la pandemia ha coinvolto tutti i continenti, senza eccezione, essa può essere l’occasione per una riflessione di analoghe proporzioni, che porti a rivedere alcune logiche perverse della politica in funzione di esigenze umane primarie, come quelle della salute e della salvaguardia della vita. Se non vogliamo che la prossima pandemia ci costringa di nuovo a sacrificare i nostri nonni.
Il Covid, oltre a metterci a dura prova – anzi forse proprio per questo – può rimetterci in discussione e insegnarci qualcosa – e non solo sul nostro rapporto con gli anziani. Abbiamo visto che non ci sono ricette. Solo spunti di riflessione. Anche riflettere è un rischio. Ma forse ne vale la pena.
Principi e regole dell’istruttoria in appello e intellegibilità della decisione giudiziaria. A proposito di una sentenza “oscurata” (nota a Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2021 n. 5560)
di Raffaella Dagostino
Sommario: 1. Il caso. – 2. Gli “omissis” in sentenza a tutela della privacy. – 3. La ricostruzione del fatto nel processo: del principio dispositivo con metodo acquisitivo. – 4. Il divieto dei nova probatori in appello e le sue deroghe. – 5. Della paventata illegittimità costituzionale del combinato disposto di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a. e art. 104, commi 1 e 2, c.p.a.: l’incomprensibilità delle ragioni giuridiche dedotte dall’appellato a sostegno della propria tesi. – 6. Ricostruzione del thema probandum e trasparenza decisoria. Ovvero: della valenza epistemologica della motivazione a sentenza.
1. Il caso.
Il Sig. Tizio, militare della Guardia di Finanza, agiva in giudizio dinanzi al T.A.R. Friuli Venezia Giulia chiedendo l’annullamento del provvedimento con cui era stata respinta la propria domanda di trasferimento in altra sede, adducendo l’illegittimità del provvedimento: i) per difetto di motivazione, in violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990, eccesso di potere, difetto di istruttoria, illogicità, irragionevolezza, ingiustizia manifestata, essendo state utilizzate – a suo dire – mere formule di stile incapaci di comprovare le effettive ragioni poste alla base del diniego; ii) nonché per violazione dell’art. 24 della Costituzione e difetto di motivazione, per avere, l’Amministrazione, stilato la graduatoria finale di merito e, di conseguenza, motivato il rigetto della istanza, facendo esclusivo riferimento – si ipotizza, essendo questa parte della sentenza omessa, per ragioni di privacy – a pregresse vicende penali che avevano visto coinvolto il ricorrente.
L’amministrazione intimata non si costituiva nel giudizio di primo grado e il T.A.R. Friuli Venezia Giulia accoglieva i motivi del gravame, intimando l’Amministrazione a rideterminarsi in merito alla domanda di trasferimento presentata dal ricorrente.
Proponeva, dunque, appello, con contestuale domanda cautelare di sospensione della sentenza di primo grado, il Ministero dell’Economia e delle Finanze – Comando Generale della Guardia di Finanza, articolando un solo complesso motivo di gravame, proteso a dimostrare l’erronea valutazione degli atti di causa e l’avvenuta invasione della sfera discrezionale dell’Amministrazione, da parte del Giudice di prime cure.
Nel ricorso in appello, pertanto, l’Amministrazione forniva precisazioni sui fatti controversi, meglio argomentando le ragioni del diniego, sostenendo che le medesime sarebbero state intellegibili per relationem, alla luce di analoghi pareri espressi dai Comandanti di corpo, bensì anche mediante la proposizione d’istanza di accesso agli atti.
Si difendeva in giudizio l’appellato, chiedendo il rigetto dell’appello, eccependo l’inammissibilità delle nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio, sollevate dall’Amministrazione in appello, ai sensi dell’art. 104, comma 1, c.p.a., nonché l’inammissibilità della produzione documentale, depositata per la prima volta nel giudizio d’appello, ai sensi dell’art. 104, comma 2, c.p.a.
In subordine, poi, si sollevava questione di legittimità costituzionale degli art. 46, comma 2, c.p.a. e art. 104, commi 1 e 2, c.p.a. per contrasto con gli art. 3, 24 e 111, commi 1 e 2 della Costituzione.
2. Gli “omissis” in sentenza a tutela della privacy.
La controversia verte essenzialmente sulla definizione dei limiti dei nova probatori in appello[1] e porta, indirettamente, il Consiglio di Stato a ripercorre le regole e i principi che governano l’istruttoria in sede processuale, ricostruendo poteri e limiti delle parti processuali e, pertanto, dello stesso organo giudicante.
Tuttavia, prima di addentrarsi nel merito della querelle, l’interprete non può evitare di imbattersi in un’altra problematica, direttamente afferente all’oggetto del contendere, sebbene non al thema decidendum, meritevole di attenzione per via delle ricadute pratiche che essa comporta sulla “qualità della giustizia”, intesa non semplicemente in termini di effettività della tutela giurisdizionale, piuttosto di accessibilità, anche da parte di soggetti terzi, alla decisione giurisdizionale, quale presidio minimo a tutela della democraticità della giustizia, ex art. 101, comma 1, Cost.[2], correndo un sottile filo rosso fra motivazione della sentenza e certezza del diritto[3].
Si allude alla delicata questione dell’oscuramento di dati e informazioni sensibili presenti in sentenza, a tutela della privacy di quella parte processuale, direttamente interessata, che ne faccia espressa richiesta e, di conseguenza, del delicato equilibrio che deve necessariamente assicurarsi fra tutela del diritto alla riservatezza[4] ed esigenze di trasparenza e pubblicità del processo.
Come noto, la problematica gemma dalla corretta applicazione degli art. 51 e 52 del d.lgs. n. 196/2003 vigente, che disciplinano, specificatamente, le modalità di trattamento dei dati personali in ambito giudiziario, con particolare riferimento alla possibilità di divulgazione all’esterno delle pronunce giurisdizionali che tali dati riportano, per finalità di informazione e di informatica giudiziaria[5].
Le disposizioni in esame, per la verità, pongono il diritto all’informazione e, dunque, alla trasparenza decisoria, e il contrapposto diritto all’oblio, all’anonimato, alla riservatezza, in un rapporto di regola – eccezione, potendo la segretazione dei dati prevalere sulla diffusione dell’informazione giuridica, solo nel caso in cui sussistano “motivi legittimi” che rendano opportuno il diritto all’anonimato[6], oppure esigenze di tutela dei diritti e della dignità del soggetto[7].
In questi casi generalmente grava sul soggetto interessato l’onere di specificare i motivi che legittimerebbero l’oscuramento dei dati e, di conseguenza, sull’organo giudicante il potere-dovere di vagliarne la legittimità, da intendersi come meritevolezza delle ragioni e non semplicemente come conformità ad una facoltà prevista dalla legge (art. 52, commi 1 e 2, prima parte del Codice della privacy).
La disposizione, tuttavia, prevede altresì che nel caso in cui ricorrano esigenze di tutela dei diritti e della dignità del soggetto, il giudice, pur in assenza d’istanza, possa procede anche d’ufficio all’oscuramento dei dati (art. 52, comma 2, ultima parte del Codice della privacy).
Le richiamate disposizioni, dunque, distinguono, per il profilo procedimentale, due sub-ipotesi di “oscuramento” facoltativo dei dati: uno ad istanza di parte, ossia a richiesta del soggetto interessato, l’altro disposto d’ufficio dall’organo giudicante.
In entrambi i casi, dunque, è rimesso all’organo giurisdizionale il vaglio della meritevolezza delle ragioni poste a fondamento dell’istanza o dell’esigenza di tutela della riservatezza, essendo stata formulata, la disposizione normativa, in maniera indeterminata, avendo previsto nel primo caso, una clausola generale (“motivi legittimi”) e, nel secondo, una fattispecie aperta, visto il generico riferimento ai diritti oltre che alla dignità della persona.
Pertanto, si lascia all’organo giudicante il delicato compito di effettuare la valutazione in concreto, dovendo Egli operare un bilanciamento fra esigenze di riservatezza del singolo e di tutela della generale conoscibilità dei provvedimenti giurisdizionali e del contenuto integrale delle sentenze, quale strumento di democrazia e informazione giuridica.
Valutazione che, ad ogni modo, comporta un giudizio di proporzionalità fra i due parametri in comparazione, rimesso all’organo giudicante, per nulla scontato, per via della discrezionalità che lo connota.
Il problema che si pone, in realtà, come noto, è duplice: sia “di merito”, legato alla sostanziale definizione dell’ambito oggettivo di applicazione delle disposizioni normative, dovendosi concretamente individuare i dati e le informazioni passibili di oscuramento[8]; sia operativo, ponendosi, spesso, la non secondaria questione dei limiti e delle modalità di anonimizzazione dei dati e delle informazioni dei soggetti interessati.
Profilo, quest’ultimo, non trascurabile, perché spesso foriero di applicazioni improprie, se non del tutto arbitrarie e fuori luogo della disciplina normativa[9], che piuttosto che garantire un adeguato livello di tutela della riservatezza del singolo, hanno come diretta conseguenza quella di minare l’intellegibilità intrinseca della pronuncia.
Accade – come nel caso in esame – che, contrariamente a quanto disposto dalla normativa di legge, ad essere oscurate non sono solo le generalità o i dati sensibili del singolo, piuttosto i riferimenti normativi, i principi espressi in altre pronunce richiamate in sentenza, i dati identificativi delle pronunce stesse e, addirittura, le ragioni giuridiche esplicate dalle parte a sostegno della propria domanda, oggetto di giudizio.
L’indiscriminato e irrazionale oscuramento di parti della sentenza, dunque, non solo è illegittimo, perché non giustificato dalla legge, essendo un oscuramento di questo tipo ammissibile solo nei casi di cui all’art. 52, comma 5, del Codice della privacy, ma è altresì illecito nei limiti in cui non semplicemente renda difficoltosa la lettura della sentenza, piuttosto criptico e inaccessibile l’iter logico e argomentativo che sorregge la decisione giudiziaria, a maggior ragione quando vengano oscurate le ragioni giuridiche poste a fondamento della domanda, prima, e di conseguenza, della decisione.
Infatti, l’impressione che immediatamente si ha, è quella di una decostruzione del ruolo decisorio della sentenza che scissa dalla ricostruzione dei fatti di cui è causa e privata inopinatamente della completezza e logicità della sua argomentazione diviene, agli occhi di chi la legge, mera erudizione giuridica, esercizio di scienza nella riproposizione di principi giuridici sparsi – perché a tratti oscurati – non puntualmente agganciati al thema probandum, nonché baluardo di arcana imperii allorché la tecnica dell’oscuramento celi la verità della motivazione, o per meglio dire, le “vere” ragioni della decisione[10].
A essere compromessa, dunque, è la funzione extraprocessuale della (motivazione a) sentenza, che permette ai più di comprendere come la fonte normativa sia stata attuata[11].
3. La ricostruzione del fatto nel processo: del principio dispositivo con metodo acquisitivo.
Entrando nel merito della vicenda processuale, un primo profilo meritevole di attenzione è quello della puntuale definizione del ruolo delle parti e del giudice nella fase istruttoria, avendo la sentenza in commento ricostruito, per linee generali, i principi che governano l’istruttoria[12] nel processo amministrativo e, in particolare, gli oneri probatori gravanti sulle parti, in ragione della «loro disponibilità» probatoria.
Partendo dall’esame degli art. 63, 64 e 65 c.p.a. il Consiglio di Stato ripercorre, in maniera apparentemente piana, i principi e le regole che governano l’istruttoria nel processo amministrativo, soffermando subito l’attenzione sul modello processuale delineato nelle disposizioni codicistiche che, come noto, hanno recepito il tradizionale orientamento giurisprudenziale con cui si era definito il modello istruttorio nel processo amministrativo come modello intermedio, tra quello dispositivo puro e quello inquisitorio puro, ossia c.d. dispositivo con metodo acquisitivo.
L’apparente linearità dell’argomentare, tuttavia, è, sin dalle prime righe della parte motiva della sentenza, incrinata dal sospetto che nel ripercorrere le regole che governano l’istruttoria nel processo amministrativo, l’organo giudicante sia piuttosto interessato a una ricostruzione dell’interpretazione normativa ex parte iudicis, non essendo celato l’intento di definire, in positivo, quali poteri istruttori siano esercitabili dal giudice amministrativo, restando quasi sullo sfondo gli oneri probatori gravanti sulle parti processuali.
E invero, partendo proprio dall’analisi del dato normativo (art. 64, comma 3 e 65, commi 1 e 3 c.p.a.) il Consiglio di Stato si sofferma sulle peculiarità del modello istruttorio nel processo amministrativo puntualizzando come, generalmente, l’onere della prova si attenui nel più sfumato onere del principio di prova.
L’attenuazione del rigore probatorio, chiaramente giustificata dalla sussistenza di incolmabili asimmetrie già presenti sul piano sostanziale fra le parti[13], poi coinvolte nella controversia, legittima un potere di soccorso istruttorio da parte del giudice, a sostegno di quella parte che, senza sua colpa, non sia stata in grado di fornire la prova dei fatti dedotti.
L’esercizio di poteri istruttori da parte del Giudice, quindi, si giustifica per la necessità di riequilibrare la sostanziale disparità fra le parti, nel giudizio.
È, infatti, principio consolidato che vi sia una sostanziale differenza fra la regola probatoria posta dall’art. 2697 c.c. e quella di cui all’art 64, comma 1, c.p.a. in quanto, nel processo amministrativo deve riconoscersi una certa flessibilità nella definizione dei criteri di riparto dell’onere della prova, non essendo quelli cristallizzati in uno schema precostituito e astratto, piuttosto calibrati sul principio della vicinanza, o disponibilità, se si preferisce, della prova[14].
Pertanto, grava sulle parti l’onere di allegare i fatti da provare, in maniera sufficientemente circostanziata e precisa, così da definire puntualmente non solo il thema decidendum, bensì anche il thema probandum, essendo consentito al giudice, nel rispetto dei suddetti limiti, di disporre d’ufficio l’acquisizione di prove che, secondo il suo prudente apprezzamento, ritenga necessarie o utili per la definizione della controversia. Senza che questo legittimi un’attività istruttoria suppletiva o surrogatoria dell’organo giudicante rispetto a quella incombente sulle parti, bensì un’attività complementare e meramente integrativa.
Tali regole, prosegue il Consiglio di Stato, sono formalmente valide sia nei contenziosi vertenti sugli interessi legittimi, sia su diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, in cui sussiste una stretta interconnessione fra rapporto paritario e rapporto autoritativo, dunque fra potere e situazione giuridiche soggettive, restando identiche le regole processuali in materia di poteri istruttori del giudice amministrativo per i vari tipi di giurisdizione.
Tuttavia, non si manca di precisare che, per questa seconda ipotesi, l’onere del principio di prova vada valutato con particolare rigore, in relazione ai fatti che rientrino nell’effettiva disponibilità della parte attrice, sia essa pubblica o privata. Sicché l’esercizio, da parte del giudice, di poteri istruttori d’ufficio, in relazione a diritti soggettivi, anche se possibile, deve costituire extrema ratio.
Di conseguenza, il principio dispositivo puro può trovare applicazione nel processo amministrativo nei limiti in cui non ricorra una situazione di disuguaglianza sostanziale fra le parti, tale per cui il soggetto su cui grava l’onere probatorio, non sia in grado, senza sua colpa, di fornire la prova dei fatti, pur dedotti e allegati, non essendo quelli nella sua disponibilità.
Così riproposti tali principi, nella loro astrattezza, sono formalmente incontestabili, tuttavia ciò che traspare è il criterio-guida adottato nell’interpretazione normativa, proteso piuttosto a definire i poteri probatori del giudice e non già quelli gravanti sulle parti, che sembrano invece rimanere quasi sullo sfondo, soprattutto nella simmetria quasi piana che si tende a creare fra posizioni giuridiche distinte.
La lettura delle disposizioni normative così operata, sebbene non sia contra legem, perché i principi espressi non manipolano, di fatto, il dato normativo, porta però a una sostanziale inversione logica nella ricostruzione delle regole e dei principi espressi nelle richiamate disposizioni normative, a maggior ragione se letti in controluce rispetto alle regole del giusto processo, di cui all’art. 111 Cost.: è il metodo acquisitivo che costituisce un temperamento al principio dispositivo dell’onere della prova, non viceversa.
Diversamente, si tornerebbe indietro, alla considerazione del Giudice amministrativo come «Signore della prova»[15].
4. Il divieto dei nova probatori in appello e le sue deroghe.
Che quello paventato sia il criterio guida adottato nella conduzione dell’ermeneutica giuridica è impressione che sembra corroborarsi via via che si prosegue la lettura della sentenza. Più in particolare, l’enucleazione dei richiamati principi giuridici non sembra ispirata semplicemente a una logica di semplificazione, piuttosto a spianare la strada e a giustificare l’esercizio di poteri istruttori officiosi lì dove il dato normativo lascia maggiori margini d’incertezza, per via della indeterminatezza dei presupposti che lo consentirebbero.
Si allude alla complessa e per vero delicata questione dei nova probatori in appello, con particolare riferimento alla definizione del concetto d’indispensabilità della prova, di cui all’art. 104, comma 2, c.p.a., da coordinarsi – secondo la diversa logica del processo amministrativo in cui il principio dispositivo è temperato dal metodo acquisitivo, con evidenti ricadute anche in appello – anche al disposto di cui all’art 46, comma 2, c.p.a. che trova applicazione anche in sede d’impugnazione, per via del richiamo interno operato dall’art. 38 c.p.a.
Innanzitutto, non ci si può esimere dal notare come, proprio questa seconda parte della motivazione a sentenza, che risulta particolarmente complessa e articolata nell’argomentare giuridico, a sostegno della non lineare e non semplice ricostruzione della portata normativa delle disposizioni in esame, risulti pesantemente compromessa nella sua comprensibilità da un oscuramento per molti versi ingiustificato, invasivo, illegittimo, prima, oltre che irrazionale. Infatti, a essere oscurate sono intere parti motive della sentenza, sebbene formulate in termini di richiami a principi espressi in altri precedenti giurisprudenziali, tuttavia individuati come essenziali per la ricostruzione della logica decisoria, nonché specifici richiami al testo normativo esaminato (non è mai riportata la parola «indispensabili», «indispensabilità» dei nuovi mezzi di prova).
Le questioni su cui il giudice è chiamato a esprimersi sono due e si ricavano, paradossalmente, in maniera più nitida dalle conclusioni a sentenza che non dalla sua motivazione, proprio per via delle modalità poco ortodosse con cui l’oscuramento è stato attuato: la prima, relativa alla valutazione di ammissibilità, in appello, di nuova produzione documentale da parte dell’amministrazione appellante, non costituita nel giudizio di primo grado; la seconda, relativa alla produzione in appello di nuova documentazione da parte del ricorrente - appellato.
Con particolare riferimento alla prima questione problematica, il Consiglio di Stato, con abile destrezza, ha cura di stralciare subito la fattispecie in esame dall’ambito di applicazione normativa dell’art. 104, comma 2, c.p.a. precisando che, trattandosi di atti relativi al procedimento e al provvedimento di cui è causa, l’amministrazione appellante, non costituita nel giudizio di primo grado, non può dirsi decaduta dal potere-dovere di depositare in appello tali atti, gravando sulla medesima un onere di collaborazione probatoria che non viene meno anche in appello[16].
Tale onere, secondo un orientamento giurisprudenziale sufficientemente consolidato[17], è generalmente fatto discendere dalla considerazione dell’amministrazione quale pubblica autorità prima ancora che come parte processuale, per cui si deduce a carico della medesima un onere di collaborazione nello svolgimento dell’attività istruttoria al fine di favorire la ricerca della verità[18], pur riconoscendole il potere di scegliere se costituirsi o meno, secondo la strategia difensiva reputata opportuna.
Da qui, il richiamo agli art. 46, comma 2, c.p.a. e 65, comma 3, c.p.a., applicabili anche in grado di appello, qualora si verta in un giudizio impugnatorio, con possibilità per il giudice di stimolare (recte: ordinare) l’esibizione documentale ove l’amministrazione non vi abbia provveduto.
È noto che tali regole siano chiaramente ispirate al metodo acquisitivo e che, specie se applicate in grado di appello, connotano particolarmente l’istruttoria nel processo amministrativo, differenziando notevolmente quest’ultimo dal processo civile.
Infatti, l’applicazione di tali regole processuali anche in appello, sostanzialmente consente di introitare in giudizio il provvedimento impugnato, nonché gli atti e documenti afferenti al procedimento di cui è causa, che l’amministrazione non abbia prodotto in giudizio, ove reputati «utili» per la definizione del contenzioso.
La pervasività di tali poteri officiosi, riconosciuti al Giudice, dunque, è tale da legittimare finanche una sanatoria, in appello, al mancato esercizio, da parte del giudice di prime cure, di poteri officiosi a questi attribuiti. Pertanto, di fatto, la valorizzazione del metodo acquisitivo consentirebbe al giudice di appello un’integrazione istruttoria, quando essa abbia ad oggetto il provvedimento impugnato nonché gli atti e documenti afferenti al procedimento di cui è causa, anche nell’ipotesi in cui tale lacuna sia imputabile a un’omissione del Giudice di primo grado.
Di conseguenza, l’ammissibilità di tali prove documentali, pur se introdotte per la prima volta in appello, non si porrebbe in contrasto con il divieto dei nova di cui all’art. 104, comma 2, c.p.a., trattandosi in definitiva, di atti per definizione indispensabili al giudizio, inverandosi una ipotesi di indispensabilità in re ipsa del materiale probatorio.
È evidente che tali regole trovano ancora oggi giustificazione – nonostante l’ormai pacifica implementazione del principio dispositivo nel processo amministrativo, sempre più considerato un processo di parti, dunque a connotazione soggettiva[19] –, per via delle peculiarità che connotano il giudizio amministrativo, stante l’esigenza di riequilibrare nel processo quella sperequazione sostanziale che sussiste fra le parti; peculiarità che legittimano l’esercizio di poteri officiosi da parte del giudice amministrativo che, tuttavia, debbono essere intesi come «risorsa fondamentale per assicurare l’effettività della tutela nei confronti dell’amministrazione e la giustizia nell’amministrazione»[20], senza per questo travalicare o plasmare la portata della disposizione normativa a esigenze occasionali.
È pur vero, però, che sebbene il riconoscimento in capo al Giudice amministrativo di poteri officiosi così pervasivi sia mosso dalle “giuste” intenzioni di riequilibrare un rapporto impari fra le parti processuali, così come ricostruito, tale potere, avvicina di gran lunga il processo amministrativo al modello inquisitorio piuttosto che dispositivo, legittimando, anche in nome di un principio astrattamente giusto (la garanzia della parità fra le parti), derive dirigistiche[21] che non sempre, poi, in concreto, rispondono alla finalità in principio dichiarata.
E invero, proprio il caso in esame ne è esempio, in quanto, l’effetto che l’esercizio di tali poteri produce è diametralmente opposto all’intenzione dichiarata.
E dunque, se il problema di fondo è quello di stabilire se, anche nel processo amministrativo, come in quello civile, debba prevalere la logica della verosimiglianza, o della verità processuale che dir si voglia, o piuttosto la “verità vera” dei fatti di cui è causa, sarebbe opportuno che la scelta del criterio sia predeterminata e risponda a logica coerenza, o piuttosto riequilibrata da doverosi correttivi, ritenendosi rischiosa una rimessione della valutazione alla indeterminata discrezionalità del giudice che, in non rare ipotesi, potrebbe sfociare in esiti contrastanti con quelli individuati nella finalità normativa.
Infatti, a seconda del criterio interpretativo adottato, il giudice amministrativo sarebbe in grado di allargare o restringere le maglie dell’istruttoria, consentendo o vietando l’introduzione di nuovi fatti nel processo[22].
Orbene, con riferimento al caso di specie, innanzi tutto si deve osservare che il Giudice ricorra al combinato disposto di cui agli art. 46, comma 2, c.p.a. e 65, comma 3, c.p.a. per legittimane l’introduzione, per la prima volta in appello, di documenti connessi al procedimento di cui è causa, da parte dell’amministrazione, liberamente rimasta contumace in primo grado.
È evidente che l’intentio sia quella di sottrarre tali documenti a un giudizio di indispensabilità, ai sensi dell’art. 104, comma 2, c.p.a., tanto che per essi si parla di indispensabilità in re ipsa, convogliandoli piuttosto verso il più lieve parametro dell’utilità, di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a.
E dunque, sebbene quello richiamato non sia un orientamento isolato, si ritiene dover evidenziare che, se ci si attiene alla littera legis, l’esercizio di tali poteri, rispondendo a una logica “perequativa”, sarebbe legittimato in caso di omessa collaborazione da parte dell’amministrazione, ossia ogniqualvolta l’amministrazione non abbia provveduto al deposito del provvedimento impugnato o degli atti e documenti inerenti al procedimento, ai sensi dell’art. 46, comma, 2 c.p.a.
Tali poteri, dunque, sarebbero attivabili o su istanza della parte debole, oppure d’ufficio dal medesimo giudice, alla luce dei fatti allegati e circostanziati.
Leggermente diverso, invece, pare il caso del diritto alla prova in appello, sebbene nei limiti dell’oggetto di cui agli artt. 46, comma 2 e 65, comma 3, c.p.a., da parte dell’amministrazione contumace.
Ebbene, se certamente si conviene sull’intrinseca bonarietà dell’applicazione del metodo acquisitivo, al fine di garantire, per quanto possibile, l’aderenza della decisione di gravame alla verità sostanziale dei fatti di cui è causa, riconoscendo i) in capo al giudice, l’esercizio di tali poteri officiosi anche in appello, nei limiti dell’omessa collaborazione (recte: mancata allegazione nei termini di costituzione di documenti utili) da parte dell’amministrazione e nel rispetto, oltre che della completezza dell’istruttoria, del contraddittorio fra le parti; ii) nonché, al contempo, attraverso l’applicazione di tali norme anche in appello, ammettendo la possibilità per l’amministrazione resistente di assolvere ai propri doveri di collaborazione istruttoria per la prima volta in appello, così evitando, d’incorrere in preclusioni che potrebbero rivelarsi fuorvianti al fine del decidere, impedendo una completa ricostruzione dei fatti di cui è causa attraverso la mancata esibizione di documenti utili, purtuttavia, non si può dimenticare che la ratio cui risponde il metodo acquisitivo è quella di soccorrere la parte debole, non di supplire a eventuali inerzie di parte.
Tanto che il criterio d’interpretazione del concetto di indispensabilità di cui all’art. 104, comma 2, c.p.a. si fa particolarmente rigoroso quando abbia ad oggetto documenti già nella disponibilità della parte ricorrente, che non siano stati però allegati in primo grado.
Infatti, al di fuori della discussa ipotesi di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a., è principio consolidato quello per cui non sia giustificabile una produzione documentale operata per la prima volta in appello dalla parte contumace in primo grado, perché si realizzerebbe in tal modo una supplenza giudiziaria che sanerebbe l’inerzia della parte, violando il principio di parità delle parti processuali.
Ma ancora, secondo orientamento sufficientemente consolidato dinanzi al Giudice amministrativo, fatto proprio anche nel caso di specie e, si evidenzia, contrario a quello espresso dalle sezioni unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 10790/2017), del concetto di indispensabilità si dà un’interpretazione rigorosa, tale per cui prova indispensabile non è «quella di per sé idonea a eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio, oppure provando quello che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa[23] nelle preclusioni istruttorie del primo grado»[24], bensì esclusivamente, la prova prodotta per la prima volta in appello, funzionale alla dimostrazione di un fatto concernente un’eccezione in rito rilevabile d’ufficio dal giudice, dunque sempre ammessa, nonché quelle prove per cui si dimostri l’impossibilità, per la parte, di acquisire la conoscenza dei fatti dedotti in giudizio con altri mezzi che ella aveva l’onere di fornire, nelle forme e nei tempi stabiliti[25]. Dunque, indispensabili sono da ritenersi esclusivamente quelle prove che non potevano oggettivamente essere prodotte in primo grado o perché la parte non ne aveva la disponibilità o perché l’esigenza probatoria è sorta ex novo in grado di appello.
Orbene, si intuisce come l’indeterminatezza del parametro normativo consenta una certa flessibilità interpretativa, chiaramente allargando o restringendo le maglie istruttorie a seconda del criterio prediletto.
Tuttavia, se il criterio interpretativo prescelto, singolarmente considerato, risponde a una sua intima coerenza, non essendo né praeter legem né contra legem, è nel momento in cui le disposizioni normative vengono messe a sistema che i canoni interpretativi adottati sembrano in qualche modo stridere perché se in un caso il giudice è disposto ad ammantare inerzie della p.a. – fra l’altro biasimevoli – con il velo dell’esercizio di poteri officiosi, in nome di una paventata esigenza di soccorso istruttorio (invece si è visto che le due ipotesi non dovrebbero ripiegarsi l’una sull’altra posto che, se è la p.a. contumace che allega direttamente in appello gli atti e i documenti del procedimento, reputati utili, l’officiosità dei poteri del giudice poco centra, piuttosto si tratterebbe di una diretta applicazione dell’art. 46, comma 2, in appello per via del richiamo operato dall’art. 38 c.p.a.), al di fuori di queste ipotesi tende a mantenere un atteggiamento particolarmente rigoroso che, se certamente non illegittimo, per lo meno appare irragionevole a fronte del corrispettivo.
E allora, se il criterio di maggiore flessibilità interpretativa di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a. lo si vuole giustificare in ragione della “ricerca della verità” o, forse, prima ancora, per esigenze di economia processuale che molto spesso spingono il giudice amministrativo “in avanti” per la fretta di decidere[26], per via dell’immanenza dell’interesse pubblico sotteso alla controversia, sarebbe opportuno operare una scelta: o si valorizza l’onere di collaborazione gravante sull’amministrazione in qualità di autorità pubblica prima ancora che in veste di parte processuale, indirizzando la contumacia della medesima «verso una rilettura in chiave «non neutra» dell’istituto»[27], scelta chiaramente rimessa al legislatore – anche se non priva di logicità, almeno ai fini di un eventuale riparto delle spese processuali gravanti sulle parti, al fine di evitare che la parte debole, subisca un doppio danno, ove senza sua colpa, non abbia potuto avere contezza di documentazione utile al fine della risoluzione della controversia – oppure, se l’applicazione dell’art. 46, comma 2, c.p.a. non vuole essere una sostanziale elusione del divieto dei nova in appello, costituendo, per l’ampiezza con cui la disposizione è interpretata, un’ulteriore deroga, implicita o inespressa, che dir si voglia, ai divieti di cui all’art. 104, comma 2 c.p.a., per una fetta di documenti afferenti al procedimento di cui è causa, fra cui, come nel caso di specie, spesso si fanno rientrare anche atti o documenti che al provvedimento potrebbero inferire anche solo incidentalmente o per relationem (l’art. 46, comma 2, c.p.a. infatti, non parla espressamente di atti del procedimento ma di atti e documenti in base ai quali l’atto è stato emanato, dunque, eventualmente afferenti anche a procedimenti analoghi – come nel caso di specie – o connessi) sarebbe opportuno calare le regole espresse nella disposizione normativa con specifico riferimento al primo grado di giudizio, nella diversa logica del giudizio d’appello.
Sebbene, ai sensi dell’art. 38 c.p.a. la disposizione in esame non trovi una deroga espressa in sede d’impugnazione, si ritiene che la stessa debba comunque essere applicata e interpretata nel rispetto delle regole e dei principi che governano l’appello.
E allora, forse, la questione di fondo è se si debba ancora una volta meditare sulla funzione che si vuole attribuire al giudizio di appello se novum iudicium o piuttosto di revisio prioris instantiae[28].
Se l’idea è quella dell’appello volto alla ricerca della verità materiale dei fatti, allora dovremmo abbandonare la prevalente logica del gravame.
Diversamente se, come oggi con sempre più decisione si sostiene, l’appello ha natura devolutiva, quale strumento di gravame a critica libera, si dovrà dare maggior peso alle regole processuali e dunque o riconoscere che la verità processuale non sempre coincida con quella storica o, piuttosto, per lo meno considerare un’interpretazione più rigorosa delle disposizioni in esame, evitando di legittimare, sotto il manto della ricerca della verità materiale, atteggiamenti defatiganti assunti dalla p.a.
La lettura in combinato disposto degl’art. 46 e 104 cp.a., con particolare riferimento al diritto alla prova in appello dell’amministrazione contumace, dovrebbe forse portare a riconoscere che vi sia una differenza fra giudizio di ammissibilità della prova utile, ai sensi dell’art. 46, comma 2, c.p.a. e la valutazione dell’indispensabilità probatoria dei medesimi, ex art. 104, comma 2, c.p.a.
I due momenti di giudizio (ammissibilità per utilità – una sostanziale rimessione in termini ex lege, giustificata dalle peculiarità del giudizio amministrativo che lo distinguono e non permettono, per sua natura, di assimilarlo al processo civile – e indispensabilità della documentazione allegata) dovrebbero rimanere distinti.
Si ritiene, stando alla littera legis, che nel caso di gravame esperito dall’amministrazione, volutamente contumace in primo grado, l’applicabilità dell’art. 46, comma 2, c.p.a. dovrebbe avere come unico effetto quello di evitare la decadenza della parte – effetto di per sé già particolarmente pervasivo, legato alla natura del giudizio amministrativo, rispondente a quelle ragioni di completezza istruttoria e riequilibrio delle posizioni fra le parti – dovendo poi operarsi un distinguo fra ammissibilità dei documenti utili ai sensi dell’art. 46, comma 2, c.p.a. e valutazione dell’indispensabilità dei medesimi ai fini del decidere.
Sebbene tale ragionamento può sembrare all’apparenza artificioso, facendo “rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta”, in concreto potrebbe rivelarsi non sterile, poiché questa metodologia costringerebbe il giudice a una valutazione più rigorosa del materiale probatorio, complessivamente considerato e, al contempo, più equilibrata.
Questa impostazione, in definitiva, la si ritiene più in linea con le regole del giusto processo e del giusto processo amministrativo, in cui si ricorda, è il principio dispositivo a essere temperato dal metodo acquisitivo, per le sue giuste cause, non viceversa.
Pertanto, dovrebbe dismettersi quella visione olistica che vuole «indispensabile in re ipsa» qualsiasi atto o documento inerente al procedimento, anche se solo incidentalmente o per relationem.
Non si può dimenticare, infatti, che le presunzioni iuris et de iure – come parrebbe essere quella cui la descritta interpretazione degli art. 46, comma 2 e 65, comma 3, c.p.a. ha condotto – incidono pesantemente sulla ricostruzione del caso, sul riparto dell’onere probatorio e, in definitiva, sulla parità processuale delle parti.
Nel caso di specie, pertanto, sembra si sia di fronte a una nuova ipotesi di presunzione giurisprudenziale[29], essendo stata creata una regola di giudizio che ben lungi dal realizzare un riequilibrio fra le parti ne ha, di fatto, accentuato la sperequazione.
E se qualcuno eccepisse che, in fondo, la logica sottesa alla criticata interpretazione sarebbe quella di realizzare economie processuali, forse bisognerebbe considerare che tale logica risponde a esigenze di accelerazione e semplificazione processuale che probabilmente molto poco hanno a che fare con la voluttà del Giudice di farsi amministratore del caso concreto, non fosse altro perché l’incipit del ragionamento seguito dall’organo giudicante e qui criticato, gemma proprio da una vistosa deroga alle regole di economia processuale, consentendo una ampia rimessione in termini in favore della p.a.
Il prezzo da pagare, forse, seguendo il ragionamento più rigoroso, potrebbe eventualmente essere quello di rimettere la questione dinanzi all’amministrazione, chiamata a provvedere nuovamente, ma forse è un giusto prezzo, visto che l’essenza è, al contempo, quella dell’inesauribilità del potere amministrativo e dell’esigenza del rispetto, da parte dell’amministrazione stessa, del dovere di provvedere, adeguatamente motivando.
5. Della paventata illegittimità costituzionale del combinato disposto di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a. e art. 104, commi 1 e 2, c.p.a.: l’incomprensibilità delle ragioni giuridiche dedotte dall’appellato a sostegno della propria tesi.
Dalla lettura della sentenza si evince, poi, che parte ricorrente, appellata nel giudizio di cui è causa, ha paventato questione di legittimità costituzionale in relazione combinato disposto di cui all’art. 46, comma 2 c.p.a. e art. 104, commi 1 e 2, c.p.a. per violazione degli art. 3, 24 e 11 Costituzione.
Le motivazioni addotte non sono riportate, perché oscurate. Purtuttavia, nella conclusione della sentenza vengono licenziate come «censure meramente generiche» ed è sbrigativamente allontanata l’ipotesi di incostituzionalità facendo leva sulla discrezionalità politica del legislatore.
Orbene, si presume che le censure sollevate, erano volte a contestare una sostanziale interpretatio abrogans dell’art. 104, comma 2, c.p.a. allorché l’interpretazione del combinato disposto di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a. e 65, comma 3, c.p.a. porti in ogni caso a ritenere indispensabili le prove documentali introdotte per la prima volta in appello, dall’amministrazione contumace.
Ebbene, seppur si ritiene di condividere che non sussistano motivi per censurare per incostituzionalità le predette disposizioni, non fosse altro perché, come si è cercato di dimostrare nel testo, se correttamente interpretate, esse rispondono a quelle peculiarità del giudizio amministrativo che debbono essere mantenute perché costituenti una risorsa, un valore aggiunto per il processo amministrativo, tuttavia, qualche dubbio si è sollevato sul modo in cui tali norme vengono interpretate e applicate, dovendo forse pretendersi un maggiore rigore interpretativo a garanzia del corretto svolgimento dell’attività processuale, non potendo giustificarsi interpretazioni “abusive”, o meglio strumentali e fuorvianti delle disposizioni normative, che di fatto assegnino una posizione di privilegio a una parte a discapito dell’altra.
Di conseguenza, è tale interpretazione normativa (e non la norma in sé) a porsi in contrasto con il principio del contraddittorio paritario fra le parti sancito dall’art. 3 e art. 24 della Costituzione, a maggior ragione se, a fronte dell’interpretazione lata o “bonaria” data alle suddette norme si contrapponga, invece, un’interpretazione particolarmente rigorosa e rigida dell’art. 104, comma 2, c.p.a. che rende, di fatto, solo per il ricorrente/appellato effettivamente cogente il divieto dei nova in appello, in particolare e, paradossalmente, proprio quando l’amministrazione, appellante, sia rimasta volutamente contumace in primo grado, mantenendo “segretato” il materiale probatorio idoneo a meglio definire il thema decidendum.
Pertanto, essendo possibile anche un’interpretazione differente del concetto di indispensabilità, come la Cassazione stessa ha dimostrato, che meglio sarebbe in grado di coniugare, nel rispetto della legge, esigenze di economia processuale con quelle di effettività della tutela, che nel caso di specie sembrano stridere piuttosto che conciliarsi – nonostante quanto asserito dall’organo giudicante – non resta che ritenere che, ancora una volta, il giudice amministrativo, nel perseguimento della “ricerca della verità” non sia interessato al fatto, ma solo alla realtà fattuale per come filtrata dal provvedimento amministrativo.
Certamente, questo non vuol dire che Egli debba decidere nel merito la controversia, bensì che debba assicurare la completezza dell’istruttoria in condizioni di parità fra le parti, nel rispetto delle regole processuali.
In tal modo, la conclusione del giudizio potrebbe, eventualmente, giungere a un esito differente, sancendosi l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ad esempio, per eccesso di potere per mancato accertamento di presupposti in fatto rilevanti, per contraddittorietà o illogicità manifesta, così annullando l’atto e ordinando alla p.a. di provvedere nuovamente.
6. Ricostruzione del thema probandum e trasparenza decisoria. Ovvero: della valenza epistemologica della motivazione a sentenza.
La controversa questione ha offerto occasione per interrogarsi sulla rilevanza del fatto nel processo, sull’importanza della corretta applicazione delle regole istruttorie in esso definite al fine di assicurare un equilibrato riparto degli oneri probatori fra le parti e, soprattutto, per ricostruire i poteri di soccorso istruttorio spettanti al giudice amministrativo, attraverso la valorizzazione del principio del contraddittorio paritario fra le parti, sancito dagli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.
Le suddette riflessioni, tuttavia, sono gemmate muovendo proprio da considerazioni sulla forma con cui la sentenza è stata ostentata al lettore, a dimostrazione della valenza epistemologica della motivazione, quale “forma della sostanza”.
Il bisogno di disvelamento delle ragioni poste a sostegno della decisione giudiziaria, in parte illegittimamente oscurate da pervasivi “omissis”, ha permesso di scavare più a fondo nel ragionamento logico e giuridico condotto dall’organo giudicante, per cercare di comprendere il parametro decisionale assunto a sostegno del sillogismo giudiziario, inteso come procedimento interno di formazione della decisione giudiziaria.
Il bisogno di assicurare la trasparenza decisoria ha portato, dunque, a riflettere sul concetto di verità processuale e finanche sulla qualità della risposta di giustizia, con particolare riferimento al giudizio di appello.
Muovendo dall’incontestata natura devolutiva del giudizio di appello, tracciando la stretta correlazione che sussiste fra ricostruzione del fatto (del thema probandum) e trasparenza decisoria ai fini della qualità della tutela giurisdizionale, si è cercato di evidenziare come la “tensione veritativa”[30] del processo sia assolta nei limiti in cui la sentenza si riveli “giusta”[31], ossia la decisione sia frutto di una verità acquisita in maniera corretta, ossia nel rispetto della legge, dunque, secondo la dimensione epistemica propria del processo, e sia, pertanto, l’esito di un procedimento logico razionale comprensibile e controllabile, non solo dalle parti, bensì anche dal semplice operatore giuridico, estraneo al processo, che per curiosità conoscitiva, s’imbatta nella lettura della medesima sentenza.
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[1] F. Saitta, I nova nell’appello amministrativo, Milano, 2010; Id., Processo amministrativo ed appello incidentale: “vetera et nova”, in Dir. proc. amm., 4/2020, 862-892; Id., La «correzione del tiro» nel processo amministrativo: oscillazioni giurisprudenziali in tema di “emendatio” e “mutatio libelli”, in Dir. e proc. amm., 3/2020, 663-710 , R. Vaccarella, Il divieto dei “nova” nell’appello del giudizio amministrativo, V. Domenichelli, Le sopravvenienze in appello: introduzione al tema, M. Lipari, Le sopravvenienze nel giudizio di appello, tutti in F. Francario - M.A. Sandulli, La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, Castello di Modanella (Siena), 19-20 maggio 2017, Napoli, 2018.
2 G. Silvestri, Sovranità popolare e magistratura, 9 luglio 2003, consultabile al sito www.costituzionalismo.it; M. Cartabia - L. Violante, Giustizia e mito, Bologna, 2018
3 E. Ferrari, Decisione giurisdizionale amministrativa, in Dig. Disc. pubbl., Torino, UTET, 1989, 534 ss; M. Luciani, Il “giusto” processo amministrativo e la sentenza amministrativa giusta, in Dir. proc. amm., 1/2018, 36 ss. Nonché sui temi, più in generale, si veda: F. Francario - M.A. Sandulli, La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, Castello di Modanella (Siena), 19-20 maggio 2017, Napoli, 2018. Ma si veda anche: M. Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975; G. Monteleone, Riflessioni sull’obbligo di motivare le sentenze (motivazione e certezza del diritto), in Il giusto proc. civ., 1/2013, 1- 20; B. Capponi, La motivazione della sentenza civile, in Questione giustizia, marzo 2015; G. Severini, La trasparenza delle decisioni e il linguaggio del giudice. La prevedibilità e la sicurezza giuridica, Relazione al Congresso nazionale dei Magistrati amministrativi, Roma, 6 - 7 giugno 2019, in Giust. civ., 3/2019, 651 – 669.
4 Il tema è sempre più sentito, anche per via della notevole amplificazione della capacità conoscitiva nella società dell’informazione e nell’era della digitalizzazione. Senza pretesa di completezza, sui temi, in generale, si veda: P. Perlingeri, L’informazione come bene giuridico, in Rass. Dir. civ., 1990, 326, ss.; Id., La pubblica amministrazione e la tutela della privacy. Gestione e riservatezza dell’informazione nell’attività amministrativa, in Annali Fac. econ. Benevento, 8, Napoli, 2003, 211 ss.; L. Nivarra - V. Ricciuto, Internet e il diritto dei privati. Persona e proprietà intellettuale nelle reti telematiche, Torino, 2002; S. Rodotà, Tecnopolitica. La tecnologia e le nuove tecnologie della comunicazione, II° Ed., Roma – Bari, 2004; O. Pollicino, EU Digital right to privacy preso (troppo) sul serio dai giudici di Lussemburgo? Il ruolo degli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza nel reasoning di Google Spain, in Dir. inf., 4-5/2014, 569 ss.; O. Pollicino - M. Bassini, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel reasoning dei Giudici, in Dir. inf., 4-5/2015, 741 ss.; F. Melis, Il diritto all’oblio e i motori di ricerca nel diritto europeo, in Giorn. dir. amm., 2/2015, 171 ss; F. Barra Caracciolo, La tutela della personalità in internet, in Dir. inf., 2/2018; M. Pacini, Diritto di informazione e diritto alla riservatezza nell’era di internet, in Giorn. dir. amm., 1/2020, 59 ss.
5 R. De Nictolis - V. Poli, Il diritto all’anonimato nel processo (art. 52 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), in Giust. civ., 2003, 495 ss.; F. D’Alessandri, La privacy delle decisioni giudiziarie pubblicate sul sito internet istituzionale della Giustizia Amministrativa (relazione al convegno di Convegno Capri sull’informatica giuridica del 12.10.2019), consultabile al sito www.giustizia-amministrativa.it; P. Patatini - F. Troncone, L’oscuramento dei dati personali nei provvedimenti della Corte Costituzionale, dicembre 2020; F. Francario, Una giusta revocazione “oscurata” dalla privacy. A proposito dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo, in www.giustiziainsieme.it; ibidem: A. Centonze, Il diritto alla riservatezza e la tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di Cassazione; nonché E. Concilio, Atti giudiziari e tutela dei dati personali (nota a T.A.R. Lazio, sez. III, 1 febbraio 2021, n. 579); M. D’Ambrosio, Il c.d. principio dell’openness nelle procedure giudiziarie tra oblio e anonimato, in Rass. dir. civ., 1/2017, 37 ss.
6 Cfr. fra le più recenti: Cass. Civ., sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 11959; Cass. Civ. 16807/2020; Cass. Civ. (ord.), sez. V, 10 agosto 2021, n. 22561.
7 Si tralascia la distinta ipotesi in cui è la legge a rendere obbligatorio l’oscuramento di dati sensibili, ossia quella ricadente nell’art. 52, comma 5, del Codice della privacy in cui il rapporto regola-eccezione è chiaramente invertito e, per la quale, non si pongono rilevanti problemi di applicazione normativa, se non nella forma patologica dell’omissione.
8 Il tema è delicato e complesso e non si può pretendere possa esser esaurientemente affrontato nella presente sede. Ci si limita a segnalare che ulteriori puntualizzazioni alla normativa in esame si rinvengono nelle Linee Guida dettate dal Garante dei dati personali del dicembre 2010, sebbene per nulla dirimenti, nonché in un più recente decreto adottato dal Primo Presidente della Corte di Cassazione (decreto n. 178 del 14 dicembre 2016), che risponde alla finalità d’indirizzare il giudicante nel suo delicato compito. Sul tema, da ultimo: A. Centonze, Il diritto alla riservatezza e la tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di Cassazione, cit.;
9 F. Francario, Una giusta revocazione “oscurata” dalla privacy, cit.
10 Sui rapporti fra verità, motivazione e sentenza: M. Taruffo, Motivazione (Motivazione della sentenza – dir. proc. civ.), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990; Id., Motivazione della sentenza (controllo della), in Enc. Dir., III° aggiornamento, Milano, 1999; Id. La motivazione della sentenza, in Il processo civile riformato, Bologna, 2010; Id., La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009; L. Passanante, Motivazione della sentenza e accertamento della verità nel pensiero di Michele Taruffo, in Revista Italo-Espanola de Derecho Procesal, 1/2021, 75 – 88; G. Barbagallo, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, in G. Grasso - G. Barbagallo - V. Ferrari - E. Scoditti - S.I. Gentile, Il linguaggio della giurisprudenza, in Foro it., 2016, 357 - 377; G. Severini, La trasparenza delle decisioni e il linguaggio del giudice. La prevedibilità e la sicurezza giuridica, cit.; M.A. Sandulli, Il Consiglio di Stato è giudice in unico grado sulle domande declinate o pretermesse dal TAR. La Plenaria definisce i confini del rinvio al primo giudice e stigmatizza la motivazione apparente delle sentenze, in www.federalismi.it , 2018. Con specifico riferimento alla motivazione delle sentenze del Giudice amministrativo, cfr.: F. Patroni Griffi, Forma e contenuto delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 17 ss; G.P. Cirillo, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, consultabile al sito www.giustizia-amministrativa.it, 2012; Ibidem: C. Volpe, Dovere di motivazione della sentenza e sinteticità degli atti delle parti processuali, 2014; R. De Nictolis, Le sentenze del Giudice amministrativo in forma semplificata tra mito e realtà, 2017.
11 G. Barbagallo, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, cit.
12 Sul tema: F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Enc. Dir., vol. XXIII, Milano, 1973, 204 -211; F.G. Scoca, Mezzi di prova e attività istruttoria, in Il processo amministrativo, Commentario a cura di A. Quaranta - V. Lopilato, Milano, 2011, 539 ss.; L.R. Perfetti, Prova (diritto processuale amministrativo), in Enciclopedia del diritto, annali 2008, Milano, 917-946; Id., L’istruzione nel processo amministrativo e il principio dispositivo, in Dir. proc., 2015, 1, 72-103; A. Police, I mezzi di prova e l’attività istruttoria, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, G.P. Cirillo (a cura di), cap. 17, Padova, 2014; C.E. Gallo, Istruzione nel processo amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., vol. IX, Torino 1994, 8-15; Id., I poteri istruttori del giudice amministrativo, in Ius publicum, 2011; F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l’esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 3/2017, 911 ss.; L. Bertonazzi, L’istruttoria nel processo amministrativo di legittimità: norme e principi, Milano, Giuffrè, 2005; A. Chizzini, I poteri istruttori del giudice amministrativo in generale e nella giurisdizione esclusiva, in AA.VV., Il processo davanti al giudice amministrativo. Commento sistematico alla legge n. 205/2000, B. Sassani - R. Villata (a cura di); A. Chizzini - L. Bertonazzi, L’istruttoria, in Aa.Vv., Codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo B. Sassani - R. Villata (a cura di), Torino, Giappichelli, 2012; M.A. Sandulli, Riflessioni sull'istruttoria tra procedimento e processo, in Dir. e soc., 2/2020, 195-221.
13 F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Cedam, Padova, 1953, 148 ss.
14 F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo, cit.
15 M. Nigro, Il giudice amministrativo “signore della prova”, in Foro it., 1967, V, 6 ss., ora in Scritti giuridici, I, Giuffrè, Milano, 1996, 699 ss.
16 Ex multis: Cons. Stato, sez. IV, n. 3844/2020; Cons. Stato, sez. III, n. 866/2019; Cons. Stato, sez. VI n. 3042/2018.
17 Cons. Stato, n. 903/2019; T.A.R. Lazio, Roma, n. 2864/2019; T.A.R. Umbria n. 558/2017.
18 Sui temi, si veda: L. Migliorini, Il contraddittorio nel processo amministrativo, Napoli, 1996; Id., L’istruzione nel processo amministrativo di legittimità, Cedam, Padova, 1977.
19 A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2018; F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, Torino, 2020. Ma si v. anche oltre, nota 21.
20 M.A. Sandulli, La giurisdizione plurale: Giudice e potere amministrativo. La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione Giustizia, 1/2021.
21 Aa.Vv., Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2017; M.A. Sandulli, Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa: il confronto, in www.federalismi.it, febbraio 2017; G.D. Comporti, Il giudice amministrativo tra storia e cultura: la lezione di Peir Giorgio Ponticelli, in Dir. proc. amm., 2014, 3, 743-826; V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, 2, 341-390; A. Travi, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel processo amministrativo, in Foro it., 5, 2015, III, 286 ss; E. Follieri, Due passi avanti e uno indietro nell’affermazione della giurisdizione soggettiva (nota a Cons. Stato, Ad. Plen. 27 aprile 2015, n. 5), in Giur. it., 2015, 10, 2192-2203, B. Marchetti, Il giudice amministrativo tra tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, in Dir. proc. amm., 2014, 1, 74-106.
22 Sia sufficiente pensare alle tante sfumature con cui si qualificano gli atti e i documenti prodotti per la prima volta in appello (meramente integrativo, connesso) al fine della qualificazione, o meno, dei medesimi come nuovi documenti. Sul tema: F. Saitta, Absens haeres non erit. Brevi riflessioni sul diritto alla prova dell’appellato non costituitosi in primo grado, in Dir. e proc. amm., 1/2016, 157 ss.
23 Corsivo aggiunto.
24 Cass. civ., Sez. Un., n. 10790/2017. Cfr. F. Saitta, Prove indispensabili e ricerca della verità materiale: dalla Cassazione indicazioni per un equilibrato dosaggio delle preclusioni in appello (a margine di Sez. un., 4 maggio 2017, n. 10790), in Giustamm.it, 5/2017, 12 ss.
25 Cons. Stato, n. 3329/2019; Cons. Stato, n. 4345/2018; Cons. Stato, n. 6574/2018.
26 F. Saitta, Nova in appello e sentenze della 'terza via': quando il giudice amministrativo ha troppa fretta di decidere. (Nota a sentenza: Cons. Giust. Amm. Siciliana, 16 giugno 2021), n. 534, in GiustAmm.it, 2021, fasc. 6, 2 ss.
27 Fondamentale appare ancora oggi lo scritto di E. Follieri, Il contraddittorio in condizioni di parità nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2/2006, 495 ss. Si vedano, altresì: C. Gamba, Le ipotesi di riforma contenute nella relazione Vaccarella in tema di contumacia e non contestazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 831; Ibidem: M.G. Canella, Nuove proposte per la fase introduttiva del giudizio di cognizione, 847 ss, richiamati da F. Saitta, Absens haeres non erit. Brevi riflessioni sul diritto alla prova dell’appellato non costituitosi in primo grado, op.cit., in particolare 161 ss.
28 A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, cit.; F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, cit.; R. Villata, Considerazioni sull’effetto devolutivo dell’appello nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1985, 131 ss.
29 F. Patroni Griffi, Il metodo di decisione del giudice amministrativo, in La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, cit., 43 ss.
30 M. Taruffo, Giustizia, procedure e processo, in Ragion pratica, 9/1997; B. Pastore, Giusto processo e verità giudiziale, Filosofia del diritto, unife.it.
31 F. Francario - M.A. Sandulli, La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, cit.
Le disposizioni della riforma Cartabia in materia di indagini: tempi e “stasi” delle indagini, discovery degli atti e controllo giurisdizionale delle iscrizioni
di Claudio Gittardi
Sommario: 1. Le disposizioni sui termini e la stasi delle indagini – La discovery degli atti - 2. Le disposizioni sull’accertamento da parte del Giudice della tempestività dell’iscrizione – La retrodatazione dell’iscrizione in caso di ritardo.
1. Le disposizioni sui termini e la stasi delle indagini – La discovery degli atti
La Legge 27.9.2021 n° 134 di “delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari” pubblicata sulla G.U del 4.10.2021 è intervenuta quanto alla fase delle indagini preliminari in primo luogo all’ art 1 comma 9 lettere d) e) f) dettando alcuni principi a cui dovrà attenersi il legislatore delegato per modificare il codice di rito in materia di proroga del termine delle indagini preliminari, dei tempi dei successivi provvedimenti definitori nonché di discovery degli atti di indagine preliminare.
La legge delega ha innanzitutto rimodulato i termini di durata delle indagini preliminari prevedendo un termine per le stesse di sei mesi per le contravvenzioni, di un anno per i delitti in genere e di uno anno e sei mesi per i più gravi delitti previsti dall'articolo 407 comma 2 CPP.
Ha inserito inoltre la previsione della possibilità per il PM di chiedere una sola proroga del termine delle indagini preliminari per un tempo non superiore a sei mesi nel solo caso in cui la proroga risulti giustificata dalla complessità delle indagini ed eliminando quindi il riferimento generico nell’attuale stesura ad una giusta causa o alla oggettiva impossibilità di concludere le indagini: tale proroga viene determinata, come detto, in sei mesi per qualsiasi tipologia di reato e quindi anche per i delitti più gravi previsti dall'articolo 407 comma 2 CPP per cui il termine iniziale di indagine risulta fissato come visto in un anno e sei mesi.
Pur non incidendo dunque tali disposizioni sul termine massimo di durata delle indagini preliminari fissato ex art 407 comma 1 e 2 cpp almeno per quanto riguarda i delitti ( termine massimo che rimane di un anno e sei mesi per quanto riguarda i delitti in genere, due anni per quanto riguarda i più gravi delitti previsti dall'articolo 407 comma 2 CPP) la legge delega modula diversamente il meccanismo delle proroga prevedendo, a fronte della doppia proroga di sei mesi ciascuna attualmente in vigore, una sola proroga di sei mesi indifferenziata per tutti i reati limitandone le ragioni giustificatrici alla complessità delle indagini. Ragioni giustificatrici della proroga che per inciso appaiono difficilmente invocabili per le contravvenzioni se non per particolari tipologie contravvenzionali quali alcune fattispecie previste nella legislazione speciale.
A fronte del riconoscimento quindi di una serie di più gravi delitti indicati all’art. 407 comma 2 cpp per i quali i tempi iniziali di indagine vengono determinati in una misura tripla rispetto alle contravvenzioni riconoscendo l’oggettiva complessità di indagine che si riflette sui relativi tempi, la previsione di una sola proroga normativamente fissata in sei mesi anche per i più gravi delitti ex art 407 cpp appare scarsamente compatibile con i tempi necessari per lo svolgimento delle indagini preliminari per procedimenti di maggiore complessità.
La legge delega è poi intervenuta dopo aver richiamato l'obbligo per il Pubblico Ministero di esercizio dell'azione penale o di richiesta di archiviazione una volta esaurita la durata delle indagini preliminari prevedendo che tale attività debba essere esercitata entro un termine da fissarsi dal legislatore delegato in misura diversa in base alla gravità del reato e alla complessità delle indagini preliminari.
La disposizione risulta certamente opportuna nel fissare il principio di una “graduazione” dei termini fissati in relazione alla gravità del reato ed alla complessità dell'indagine poiché la valutazione del materiale raccolto nella fase delle indagini presenta parametri di complessità differenziati e la valutazione dello stesso impone al Pubblico Ministero di dover ripercorrere in alcuni casi nei procedimenti di maggiore impegno un materiale articolato e complesso con conseguente ripercussione sui tempi concreti di definizione una volta concluse le indagini.
Si tratta di una disposizione maggiormente condivisibile rispetto a quella attualmente in vigore ex art.407 comma 3 bis cpp che prevede, salvo la possibilità di proroga da richiedersi al Procuratore Generale, un termine standard di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini per le determinazioni del Pubblico Ministero.
Da notare che la legge delega introduce tale disposizione fissando come riferimento iniziale per il computo del termine di definizione dell’azione penale il termine di durata delle indagini preliminari senza alcun richiamo, come nell'attuale regime, alla scadenza dei termini di cui all'articolo 415 bis cpp. In questo caso i “termini di definizione” in caso di esercizio dell'azione penale per il Pubblico Ministero risulterebbero in realtà ulteriormente ridotti in modo significativo per il tempo tecnico necessario per la notifica degli avvisi di conclusione indagini e per le attività susseguenti , attività che in determinati casi non si esaurisce, come noto, in tempi brevi.
Si deve rilevare per inciso che nell’ iniziale impianto del disegno di delega legislativa A.C. 2435 (c.d. riforma BONAFEDE),fuori del caso di richiesta di archiviazione, il contenuto dell’obbligo di attivazione per il Pubblico Ministero una volta scadute le indagini preliminari era quello della notifica dell'avviso di conclusione indagini preliminari ex articolo 415 bis cpp (previsione peraltro monca rispetto all’ipotesi ad esempio di giudizio immediato).
Sempre nella stesura iniziale del DDL Bonafede, con una scelta di maggiore dettaglio nell’esercizio della delega, tali termini erano inoltre già espressamente fissati in 3 mesi nei casi ordinari e in 6 mesi e 12 mesi rispettivamente nei casi di cui all'articolo 407 comma 2 lettera b) (notizie di reato che rendono particolarmente complesse le investigazioni per molteplicità di fatti o numero di indagati) e comma 2 lettera a) numeri 1, 3 e 4 ( delitti di criminalità mafiosa, eversiva, terroristica e contro la personalità dello Stato, e alcuni ipotesi di contrabbando di TLE).
L'obbligo di esercizio dell'azione penale o di presentazione della richiesta di archiviazione entro un termine prefissato dal legislatore delegato, una volta decorsi i termini di durata delle indagini preliminari eventualmente prorogati, presupporrà in ogni caso una attenta valutazione in sede di attuazione della delega che tenga conto non solo della specifica gravità del reato ma anche della peculiare complessità delle indagini, elemento quest’ultimo non necessariamente collegato al primo.
Sarà pertanto necessaria una puntuale determinazione e graduazione di tali termini da parte del legislatore delegato conteggiando anche i tempi necessari per lo svolgimento delle complesse attività collegate alla notifica dell'avviso di conclusione indagini preliminari (nel caso che non venga determinato il termine a partire dalla conclusione di tali procedure) al fine di evitare la fissazione di tempi che, nella sostanza, compromettano o limitino la valutazione esaustiva del materiale di indagine da parte del Pubblico Ministero.
Quanto sopra richiamato in ordine all'esigenza di una corretta determinazione dei tempi entro i quali il Pubblico Ministero deve necessariamente assumere le determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale appare ancora più rilevante se si tiene conto di due collegate previsioni contenute nella legge delega 134/2021:
- La previsione del tutto innovativa rispetto al disegno di legge originario di un intervento del Giudice per le indagini preliminari per “rimediare” alla stasi del procedimento nel caso in cui il Pubblico Ministero non assuma tempestivamente le determinazioni in ordine all'azione penale, una volta decorso il termine fissato dal legislatore a partire dalla scadenza della durata massima delle indagini preliminari.
Tali rimedi devono essere "analogamente" previsti in base alla legge delega, e quindi si deve ritenere individuando il titolare del controllo sempre nel GIP, nell'ipotesi in cui dopo la notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, si determini allo stesso modo una stasi nell'attività del PM.
Appare evidente come qui il legislatore delegante abbia introdotto tale previsione ritenendo sostanzialmente inefficace il meccanismo di controllo attualmente previsto dalla normativa introdotta dalla Legge 23 giugno 2017 n°103 in materia di intervento delle Procure Generali a fronte di mancate definizioni di procedimenti per cui sono scadute le indagini.
Si introduce un controllo giurisdizionale in capo Giudice delle Indagini Preliminari non sul contenuto di alcune specifiche richieste del Pubblico Ministero ma sulle stesse modalità e tempi di esercizio dell'azione penale da parte di quest’ultimo con un sostanziale e significativo ampliamento dei poteri procedimentali del GIP.
Il legislatore non ha peraltro indicato neppure in termini sommari come debbano essere articolati tali rimedi.
Si deve rilevare che tale controllo giurisdizionale presupporrà in concreto gravosi obblighi di monitoraggio in capo all’Ufficio GIP delle scadenze delle indagini e/o di comunicazione da parte degli uffici del PM dei procedimenti per i quali siano decorsi termini dell'indagine o si sia conclusa la fase ex art 415 bis CPP e per cui non sia in fase di emanazione alcun provvedimento di definizione delle stesse da parte del PM.
Obblighi di monitoraggio/comunicazione reciproci ed analoghi a quanto previsto in alcuni protocolli definiti a livello distrettuale tra Procure del distretto e Procure generali a seguito della novella legislativa in materia di avocazione introdotta dalla sopra citata Legge 23 giugno 2017 n°103.
- La previsione di un meccanismo procedurale, anche in questo caso non dettato nella delega ma da definirsi in sede di normativa delegata, volto a consentire alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa che ne faccia richiesta di prendere cognizione degli atti di indagine allorquando, scaduto il termine di cui si è detto dopo l'esaurimento della fase delle indagini preliminari, il Pubblico Ministero non assuma le proprie determinazioni in ordine all'azione penale.
In sede di delega si dispone peraltro che tale procedura venga assunta "tenuto conto delle esigenze di tutela del segreto investigativo nelle indagini relative ai reati di cui all'articolo 407 del codice di procedura penale e di eventuali ulteriori esigenze di cui all'articolo 7, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2012".
È evidente infatti come un obbligo di discovery indifferenziata da parte del PM in tale fase possa determinare in alcuni casi ripercussioni gravemente negative su specifiche esigenze di indagine, o in relazione procedimenti o posizioni collegati o sugli interessi della persona offesa o per gli stessi esiti della formazione della prova nel successivo giudizio specie se non correlato ad una corretta determinazione dei termini di definizione in sede di legislazione delegata.
La previsione di una meccanismo di discovery completa delle indagini viene in prospettiva temperato in sede di legge delega con riferimento solo ai più gravi delitti di cui all'articolo 407 del codice di procedura penale e alle esigenze ulteriori indicate nella Direttiva europea citata.
La Direttiva 2012/13/UE prevede la possibilità per l'autorità di rifiutare l'accesso alla documentazione relativa all'indagine ove tale accesso comporti una grave minaccia per la vita o per i diritti fondamentali di un'altra persona o se la limitazione sia funzionale alla salvaguardia di interessi pubblici importanti, ivi comprese quelli relativi alla tutela indagini in corso, o qualora possa minacciare gravemente la sicurezza interna dello Stato membro in cui si svolge il procedimento penale.
In sede di legislazione delegata pertanto tali esigenze dovranno essere attentamente trasfuse con la previsione della potestà di rifiutare o ritardare per un congruo termine da parte del PM con provvedimento motivato l'accesso alla documentazione da parte dell'indagato o della persona offesa ogniqualvolta la conoscenza di tali atti possa pregiudicare le esigenze investigative ovvero gli ulteriori interessi indicati in sede di Direttiva europea.
Si deve rilevare per inciso che nella stesura della c.d riforma BONAFEDE il meccanismo procedurale di discovery veniva invece puntualmente regolato dal legislatore delegante e prevedeva l'obbligo del PM in caso di inerzia al termine delle indagini - individuata nell'omessa notifica dell'avviso della conclusione delle indagini o nell' omessa presentazione della richiesta di archiviazione - di notificare direttamente all'indagato o alla persona offesa un avviso di deposito della documentazione relativa all'indagini espletate presso la segreteria del PM con facoltà della persona sottoposta alle indagini del suo difensore nonché della persona offesa dal reato di prendere visione ed estrarre copia di tale documentazione.
Si prevedeva inoltre una possibilità di “ritardato deposito” da parte del PM degli atti di indagine per un limitato periodo di tempo e con provvedimento motivato solo nei procedimenti previsti per reati di criminalità mafiosa, terroristica o eversiva ex art 407 cpp.
Quale la sia modulazione che verrà introdotta dalla normazione delegata risulta evidente che si porrà inevitabilmente a carico degli uffici del Pubblico Ministero, in termini da ritenere sostanzialmente analoghi a quanto previsto dal DDL Bonafede, una ulteriore attività di notifica o comunque di avviso nei confronti dell'indagato e della persona offesa circa il deposito del materiale di indagine una volta inutilmente decorsi i termini per lo svolgimento delle stesse.
2. Le disposizioni sull’accertamento da parte del Giudice della tempestività dell’iscrizione - La retrodatazione dell’iscrizione in caso di ritardo
Di rilevante se non maggiore impatto processuale sono le disposizioni dettate dalla Legge 134/2021 all’ articolo 1 comma 9 lettera q) in materia di accertamento da parte del Giudice sulla tempestività dell'iscrizione della notizia di reato e del nome della persona alla quale lo stesso attribuito e di conseguente retrodatazione nel caso di ingiustificato e inequivocabile ritardo.
Si prevede che il Giudice su richiesta motivata dell'interessato accerti la tempestività dell'iscrizione nel registro di cui all'articolo 335 del codice di procedura penale della notizia di reato e del nome della persona alla quale lo stesso attribuito e la retrodatati nel caso di ingiustificato e inequivocabile ritardo.
Tale previsione , per inciso in sostanziale continuità con il disegno di legge Bonafede, “azzera” per cosi dire sul piano normativo la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte sull’esclusività della valutazione discrezionale in capo al PM della tempestività dell’iscrizione e sulla sottrazione contestuale di tale sindacato al Giudice.
Si deve precisare che alle stesse disposizioni risulta correlata l’opportuno principio, in vista di una condivisibile esigenza di garanzia ed uniformità delle attività di iscrizione da parte delle Procure, della precisazione in sede legislativa dei presupposti per l'iscrizione nel registro delle notizie di reato della notizia di reato e del nome della persona a cui lo stesso è attribuito.
Si dispone ulteriormente che debba essere previsto un termine per la presentazione di tale richiesta a pena di inammissibilità, termine che decorre “dalla data in cui l'interessato ha facoltà di prendere visione degli atti che imporrebbero l'anticipazione dell'iscrizione della notizia di reato a suo carico” e quindi nella prevalenza dei casi al momento del deposito degli atti in sede di 415 bis cpp o in sede di esercizio dell’azione penale o eventualmente nella fase incidentale cautelare.
Viene ulteriormente precisato che a pena di inammissibilità dell'istanza l'interessato che chieda la retrodatazione dell'iscrizione delle notizie di reato abbia l'onere di indicare le ragioni che sorreggono la richiesta.
Va osservato che nulla viene detto in sede di delega sulla natura del vizio degli atti di indagine conseguente alla retrodatazione dell'iscrizione di reato ma è evidente che lo stesso debba essere configurato nella forma della inutilizzabilità ex art.191 cpp delle risultanze di indagine acquisite oltre il termine di indagine così come successivamente retrodatato, in quanto acquisite ad indagine scaduta e pertanto in violazione di un divieto stabilito dalla legge.
La delega non indica neppure eventuali specifici rimedi di reclamo/impugnazione in capo al PM a fronte di un provvedimento del Giudice di retrodatazione dell'iscrizione né se tale questione possa essere riproposta dall'interessato nelle fasi successive e in sede di giudizio: tema di estrema rilevanza posto che l’inutilizzabilità delle prove è rilevabile anche di ufficio in ogni grado e stato del procedimento.
Si deve osservare che nella stesura del DDL BONAFEDE il meccanismo procedurale veniva invece regolato con maggiore analiticità dal legislatore delegante e al contempo veniva espressamente indicata nella inutilizzabilità delle risultanze di indagine “tardive” la sanzione conseguente alla retrodatazione dell’iscrizione.
Si prevedeva infatti che l'istanza potesse essere presentata dall'interessato al Giudice fino a che le parti non avessero formulato le conclusioni nell'udienza preliminare o in mancanza della stessa subito dopo il compimento per la prima volta delle formalità di accertamento della costituzione delle parti in giudizio, oltre a prevedere che l'istanza dell'interessato dovesse contenere a pena di inammissibilità specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto alla base della richiesta.
In conclusione, a fronte dell’ inevitabile margine di discrezionalità da parte del Giudice nella valutazione della natura non giustificata e inequivocabile del ritardo per l'iscrizione da parte del PM, tale disposizione, se non correttamente modulata in fase di normativa delegata sul piano sia della non reiterabilità dell’istanza sia della eventuale impugnabilità della decisione del Giudice da parte del Pubblico Ministero, è idonea a produrre effetti potenzialmente gravi e non rimediabili - anche a lungo termine - sull’utilizzabilità del materiale di indagine in sede di richieste cautelari e definitorie nella fase delle indagini preliminari oltre che nelle successive fasi processuali ove la questione dell’utilizzabilità probatoria di alcuni atti di indagine, basti pensare alle intercettazioni, potrebbe essere riproposta in sede difensiva o rilevata di ufficio anche sulla base di fatti processuali emersi in un secondo momento.
In ogni caso i complessivi interventi normativi in materia di retrodatazione dell’iscrizione imporranno di esercitare da parte del PM, come del resto doveroso e previsto in base all’art 335 comma 1 cpp, il massimo controllo sulla puntualità, tempestività e completezza dell'iscrizione della notizia di reato anche sul piano soggettivo nel relativo registro , eventualmente disponendo da parte del PM una decorrenza anticipata dell'iscrizione in relazione alla fonte informativa della stessa.
Sarà inoltre necessaria in tale prospettiva anche da parte della PG una corretta e completa indicazione nelle comunicazioni/annotazioni di reato degli elementi emersi sul piano del fatto e della riferibilità soggettiva nella fase di accertamento preliminare.
Tale attività di puntuale controllo dell’attività di iscrizione in capo alla Procura deve investire non soltanto la fase di iscrizione genetica al momento della ricezione della comunicazione delle notizie di reato da parte del Procuratore o del Procuratore aggiunto o del Pm designato secondo le rispettive disposizioni del Progetto organizzativo, ma anche nel momento delle iscrizioni successive in corso di indagine da parte del PM titolare del procedimento, specie nel caso di procedimenti complessi e con pluralità di soggetti e i fatti di reato oggetto di iscrizione.
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