Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile*
di Franco De Stefano
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[sul ruolo della Corte di Cassazione v.su questa Rivista, A. Scarpa, Nomofilachia codificata e supremazia dei precedenti, 23 febbraio 2021 e R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista, 4 marzo 2021]
Sommario: 1. Prologo – 2. Giurisprudenza e sistema delle fonti – 3. Il ruolo del precedente e la certezza del diritto – 4. La certezza del diritto in tensione dialettica con le esigenze del cambiamento – 5. Il ruolo del precedente nella disciplina processuale – 6. La forza indiretta del precedente – 7. Una nomofilachia consapevole e responsabile – 8. I progetti tematici – 9. La rilevanza interna del principio di diritto – 10. Epilogo.
1. Prologo.
In un dibattito complessivo sul ruolo della Corte di cassazione nel sistema giudiziario civile italiano è indispensabile prendere le mosse dalle chiare coordinate costituzionali, che disegnano un giudice soggetto soltanto alla legge ed impongono l’ammissibilità sempre e comunque, contro le “sentenze”, del ricorso per cassazione per violazione di legge; ma anche dall’evidente involuzione del sistema nel senso di un incremento esponenziale del contenzioso, segnale preoccupante dell’insoddisfatta domanda di giustizia in un contesto di eccezionale crescente complessità anche nei rapporti tra fonti ed ordinamenti anche su più livelli concorrenti.
La nomofilachia, dall’antico ellenico (i sostantivi nomos - legge - e phylakìa - guardia - quale sinonimo di phylaké[1]), è appunto la custodia (del retto significato) della legge, in ultima analisi dell’ortodossia (anche in questo caso dall’antico ellenico orthos - giusto o corretto - e doxa – opinione - da cui già in quella lingua orthodoxìa) del diritto. Ci si chiede allora se la nomofilachia, che resta un valore già soltanto per positiva definizione di legge e quindi per scelta del legislatore, possa essere adeguata alle attese della moderna società in tumultuosa evoluzione: come, in sostanza, essa possa dirsi sostenibile in questo ambiente sociale e culturale, caratterizzato, nel campo giuridico, da un rapporto interattivo tra il giudice ed il precedente giurisprudenziale.
L’esigenza di conciliare la “qualità” e la “quantità” del prodotto giurisdizionale della Corte di cassazione – di come, quindi, questa Corte possa dirsi sostenibile nel sistema anche nel senso di svolgere una funzione utile e coerente – deve farsi carico allora di esaminare senza ipocrisie la situazione attuale[2], al fine di offrire una risposta che possa dirsi la più in linea possibile col dato normativo vigente e quindi de iure condito, senza rinunciare però ad una riflessione anche de iure condendo. E sempre in un equilibrio dinamico tra lo ius litigatoris e lo ius constitutionis, che connotano da sempre il giudizio di legittimità nazionale.
Ma l’analisi non può mancare di un momento progettuale, dinanzi alla constatazione della insostenibilità della situazione attuale, anacronistica in un contesto globalizzato dove si esige affidabilità e prontezza, spesso misurata in nanosecondi, di ogni decisione; ed occorre chiedersi se non sia il caso di tentare una selezione degli obiettivi ragionevolmente raggiungibili nel contesto dato in base ad un ordine assiologico chiaro.
È auspicabile che ogni tentativo di reinterpretazione della struttura processuale vigente e, al suo interno, della nomofilachia sia orientato a considerarla quale suo valore fondante, in costante tensione dialettica tra il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge e quello della certezza del diritto quale precondizione del quotidiano percorso verso l’uguaglianza sostanziale e l’effettiva tutela della dignità della persona.
2. Giurisprudenza e sistema delle fonti.
Le brevi osservazioni che qui si svolgono si riferiscono al diritto ed al processo civile.
Può definirsi una conclusione pacifica che l’ordinamento giuridico italiano non annovera la giurisprudenza dei giudici comuni - al di là quindi di quella costituzionale - nel sistema delle fonti del diritto, poiché anche i provvedimenti giudiziari che enunciano “principi di diritto” hanno il solo ruolo di comprimari nell’interpretazione delle norme giuridiche: la giurisprudenza comune, pertanto, mantiene una funzione essenzialmente dichiarativa e non altera, né integra la norma interpretata.
Soltanto in via mediata, peraltro, è accettata l’idea della dottrina e della giurisprudenza come fonti integrate di diritto[3]: ed in tanto può accettarsi tale conclusione, in quanto l’una e l’altra sono obiettivamente in grado di influire, talvolta in modo determinante anche negli ordinamenti che non vi riconoscono un ruolo formale, sulla conformazione concreta delle regole di diritto e sul sistema delle loro interazioni.
È certo tuttavia che la giurisprudenza, neppure quando si presenta in quella sua species peculiare che è il precedente in senso stretto[4] (e che, in via descrittiva, può indicarsi nella pronuncia riferita ad un caso plausibilmente suscettibile di generalizzazione o di apprezzabile reiterazione e quindi idonea a regolare una serie potenzialmente indefinita di fattispecie analoghe o simili), non implica, neppure quando è articolata sull’enunciazione esplicita di un principio di diritto, la codificazione di una norma di dettaglio a corredo di quella interpretata, ma si mantiene invece, formalmente e sostanzialmente, entro la struttura e la funzione di un’enunciazione della regola di giudizio applicata, benché suscettibile di applicazione in fattispecie uguali o analoghe[5].
L’ordinamento italiano, come tutti quelli tradizionalmente ricondotti alla struttura di civil law, non riconosce formalmente al precedente giurisprudenziale, quand’anche proveniente dagli organi di vertice delle rispettive giurisdizioni, un carattere vincolante in senso stretto, nel senso di imporsi quale regola di giudizio a sé stante al decidente di casi diversi: e pure la Corte costituzionale riconosce alla giurisprudenza una funzione essenzialmente dichiarativa[6].
D’altra parte, non è nuovo il rilievo che il riferimento al precedente non è più, da tempo, una caratteristica peculiare degli ordinamenti di common law, essendo ormai diffuso anche in quelli di civil law, allo stesso modo in cui nei primi è sempre più diffuso il ricorso alla legge scritta e ad una vera e propria codificazione di sempre maggiori settori del diritto[7].
Eppure, sebbene nel sistema non operi il canone di stare decisis[8] tipico degli ordinamenti di common law, la circostanza che un principio di diritto risulti nel tempo fissato in una massima di diritto non è senza effetti: un indirizzo costante e ripetuto negli anni comporta la formazione di una situazione qualificata come di “diritto vivente”, che esprime la norma di legge contestualizzata dai principi di diritto che ad essa afferiscono; situazione questa che crea affidamento nella tendenziale stabilità del quadro normativo e nella certezza dei rapporti giuridici.
Nel nostro ordinamento giuridico, caratterizzato dalla complessità dell’insieme delle norme che lo compongono, l’attività interpretativa della giurisprudenza svolge una funzione di completamento delle norme stesse che, pur nella dialettica delle possibili diverse soluzioni interpretative, confluisce infine a realizzare la “uniforme interpretazione della legge” e la stessa “unità del diritto oggettivo nazionale”, di cui è menzione nel richiamato art. 65 ord. giud. (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12).
Tale è il diritto vivente, categoria da tempo ben nota sul piano del giudizio di costituzionalità, tanto che la Consulta, cui si deve la teorizzazione della relativa dottrina[9], tende a dichiarare inammissibili o manifestamente inammissibili le questioni sollevate dal giudice rimettente su un presupposto interpretativo contrastante con il diritto vivente.
In primo luogo, solo in tempi relativamente recenti si è rafforzata normativamente in Italia l’obbligatorietà dell’enunciazione del principio di diritto in caso di cassazione ed il relativo istituto è stato rivitalizzato con le riforme del giudizio di legittimità, nonostante le perplessità di parte della Dottrina.
Ai limitati fini di queste riflessioni, può proporsi operativamente e descrittivamente il principio di diritto come una species del genus del precedente giurisprudenziale, in cui l’enunciazione della regola di diritto applicata in concreto dal giudicante è esplicita e formale, anche a fini di immediata identificazione ad opera vuoi del giudice del rinvio, vuoi della generalità dei consociati cui essa è diretta.
È vero che soprattutto l’enunciazione del principio di diritto in termini generali ed astratti si presta ad una generalizzazione tale da offrirne una funzione integratrice del comando contenuto nella norma, non soltanto esplicativa del suo contenuto, ma appunto di produzione della norma da applicare alla fattispecie concreta e, di conseguenza, ad una serie potenzialmente indefinita di fattispecie analoghe future o diverse: con caratteri, così, di per sé assimilabili a quelli della norma stessa.
Ed è altrettanto vero che il principio di diritto, anche al di là della sua formale enunciazione, può comunque ricavarsi dalla ragione posta a base della singola decisione del giudice: anzi, normalmente integrando la motivazione appunto la stessa esposizione dei passaggi argomentativi che, dal giudizio di fatto, hanno condotto il giudicante a quello conclusivo di diritto e, quindi, alla regolazione della fattispecie.
Tuttavia, nell’ordinamento italiano il principio di diritto, come il (più o meno autorevole) precedente giurisprudenziale pure non articolato nell’enunciazione esplicita di una regola generale ed astratta e che si limiti ad applicarla rimettendo all’attività dell’interprete la sua enucleazione, non è tecnicamente vincolante e non ha il rango di fonte del diritto. E suole dirsi che la sua valenza sta nella sua persuasività, cioè nella sua idoneità, per la coerenza del processo decisionale e motivazionale espresso, a convincere la platea potenzialmente indefinita di operatori del diritto in generale e dei futuri decisori in particolare[10].
3. Il ruolo del precedente e la certezza del diritto.
L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sul ruolo del precedente nell’ordinamento è vastissima[11].
La stabilità della giurisprudenza è solitamente ricondotta alle esigenze imposte dai principi generali di uguaglianza e della certezza del diritto: e. quanto al primo, è intuitivo che uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge significa anche uguaglianza dinanzi alle interpretazioni della legge, uguaglianza di trattamento in sede giurisdizionale[12].
Dal canto suo, la certezza del diritto può definirsi un bene giuridico autonomo, riconosciuto in quanto tale dalla generalità degli ordinamenti e pure da quelli sovranazionali[13], come l’Unione europea ed il sistema della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo e le libertà fondamentali, attraverso la giurisprudenza delle sue Corti: ma la ragionevole prevedibilità, intesa ormai sempre più diffusamente come autentica calcolabilità[14], del diritto è diventata obiettivo centrale degli ordinamenti, che, sia pure sotto la spinta incessante di mercati aggressivi e globalizzati, la esige quanto meno quale precondizione per la parità di trattamento in casi uguali, con la riscoperta e l’interpretazione evolutiva o adeguatrice del principio di uguaglianza in senso formale e sostanziale.
Tanto è verosimilmente dovuto alle caratteristiche che stanno via via acquistando gli scambi economici e giuridici in una dimensione globale e tecnologica del diritto, ma si correla al principio della calcolabilità e della ragionevole durata in termini di prontezza della risposta di giustizia ed alle prospettive, ancora allo stato indefinite, dell’applicazione dell’automazione anche al mondo giuridico ed alle sue articolazioni tradizionali, non ultime quelle della decisione[15].
Il medesimo principio si correla intimamente a quello della tutela dell’affidamento: se qualcuno sa che in una determinata situazione vale una certa regola adeguerà i suoi comportamenti; e, facendo affidamento sui precedenti, vengono compiuti atti e attività. Ma il mutamento di giurisprudenza colpisce, con invalidità degli atti o forme di responsabilità, chi, avendovi fatto affidamento, è ora parte soccombente nel giudizio che porta alla nuova decisione; ed il cambiamento plausibilmente colpirà anche altre persone che nel frattempo, prima delle nuove decisioni, hanno compiuto un simile atto o tenuto un determinato comportamento[16].
In generale, ogni persona ha diritto di sapere a priori quali saranno le conseguenze giuridiche delle sue scelte e dei suoi comportamenti; in proiezione giudiziale, colui che inizia un giudizio ed investe le sue risorse, impegnando al tempo stesso risorse del sistema giustizia, deve poter calcolare, o quanto meno, ragionevolmente prevedere l’esito della controversia. La ragionevole prevedibilità della soluzione di un giudizio è una componente, non secondaria, del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Essa inoltre, inducendo a rinunciare a giudizi il cui esito prevedibile è negativo, si riflette sul sistema giustizia evitando inutili appesantimenti e, di conseguenza, si riflette sugli altri giudizi che, meno numerosi potranno essere trattati con maggiore attenzione e rapidità. In ultima analisi, vi è un nesso tra ragionevole prevedibilità e i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata.
Sono, in definitiva, sempre più pressanti le esigenze di riduzione dei margini di oscillazione e quindi di imponderabilità delle decisioni giudiziali, perché si richiede al diritto, onde consentirgli di perseguire la sua funzione di regolatore dei rapporti di forza in un contesto di effettiva e sostanziale uguaglianza, un’intima coerenza non più solo in sede di elaborazione, ma soprattutto al momento della sua applicazione, la quale è infine sentita come irrinunciabile nei traffici giuridici odierni[17].
Ogni scelta giurisprudenziale, incidendo sull’assetto normativo complessivo, ha quindi un costo in senso tecnico (non solo economico e non sempre immediatamente traducibile in termini pecuniari): ed ogni consociato si attende gli elementi per computarlo, al fine di assumere consapevolmente le corrispondenti scelte della propria quotidiana condotta.
L’esponenziale incremento degli scambi, reso possibile non solo e non tanto dalla dimensione globalizzata dei mercati, ma soprattutto dall’impiego sempre più diffuso e capillare di strumenti di comunicazione di anno in anno sempre più sofisticati e comunque nuovi ed impensabili rispetto a poco tempo prima, ha moltiplicato in modo altrettanto esponenziale la domanda di giustizia.
La risposta che il sistema deve essere in grado di apprestare deve possedere connotati tali da scoraggiare i suoi agenti dal rivolgersi a strumenti o sistemi alternativi o da scongiurare che, peggio ancora, essi restino senza alcuna tutela, abbandonati ad una moderna giungla di sfrenata anomia, dove assai semplicemente viga la legge del più forte e si regredisca quindi al mondo preistorico.
Non è un caso che sempre maggiore attenzione è riservata alla decisione robotica, sia negoziale che giudiziale, nel senso di automatizzata o standardizzata, ad ulteriore netta riduzione dell’imponderabilità delle conseguenze delle umane azioni, sia nel fisiologico momento dello sviluppo delle autoregolamentazioni tra i privati, sia nella patologica evenienza del malfunzionamento degli strumenti da questi elaborati per disciplinare i loro rapporti. In sostanza, l’aspirazione ad un diritto “automatico” – è significativo che un simile lemma può bene intendersi nell’accezione di “pertinente ad automa” o di “elaborato dall’automa” – altro non è che l’estrinsecazione di una sempre maggiore esigenza di stabilità o certezza del diritto, anche nel senso della sua prevedibilità.
Del resto, nessuna norma può dirsi coerente al suo scopo di regolare un’attività umana, se non è in grado di offrire una chiara prefigurazione al soggetto a cui è diretta sia delle condotte che da quello si attendono, sia delle conseguenze della mancata ottemperanza al comando così impartito.
In questo quadro, un delicato equilibrio va ricercato tra la parità di trattamento e la soggezione del giudice soltanto alla legge, salvaguardando l’incoercibile esigenza di uguale regolamentazione di fattispecie uguali ed al contempo l’irrinunciabile libertà di coscienza di chi deve giudicare: a volere riprendere ricostruzioni ormai classiche, sia nel giudizio di fatto che in quello di diritto il giudice civile non è mai pienamente libero, nel senso di svincolato da regole di varia natura, comunque impostegli appunto dalla legge, cui solo pure egli è soggetto.
Nel giudizio di fatto (e quindi nella ricostruzione della fattispecie da sussumere nella norma e cui applicare quindi quest’ultima nel significato), egli deve comunque applicare regole di inferenza tali da assicurare una coerenza tra premesse e conseguenze che reggano al vaglio di plausibilità, ad evitare una mera apparenza di motivazione che neppure oggi, pur dopo la severa limitazione del controllo di legittimità introdotta con la riforma del 2012, sfuggirebbe al vaglio della Corte suprema: e tanto per potere pur sempre rispondere a quell’esigenza di corrispondenza del giudizio – nella specie, di rappresentazione e cioè di raffigurazione di un fatto necessariamente anteriore ed esterno al processo all’interno di questo – a quello di una generalità indistinta di consociati in un dato contesto storico per così dire obiettivizzato, nel cui nome del resto la decisione è presa.
Nel giudizio di diritto, reso ogni giorno più arduo dall’intrico di norme anche su più livelli in settori sempre più specialistici e connotati da un tecnicismo esasperato, vigono poi regole, sostanziali e procedimentali in senso lato, di singolare complessità e sempre maggiore raffinatezza, i meccanismi della cui interazione sono assai spesso di non agevole individuazione e la cui attitudine alla generalizzazione è messa a dura prova da una molteplice multiformità dell’ordinamento che nelle epoche passate non si riscontrava.
4. La certezza del diritto in tensione dialettica con le esigenze del cambiamento.
Una decisione o una serie di decisioni possono essere ripensate in adesione alle critiche della dottrina o degli stessi operatori pratici, che ne hanno sollecitato una rimeditazione; oppure era certamente indubbia la loro congruenza con la temperie culturale, sociale e giuridica del tempo della loro emanazione, ma non anche nell’evoluzione successiva di una di queste: sul rapporto tra disposizione e norma incide sensibilmente il fattore tempo[18] e, con esso, la dinamica della realtà fenomenica che si vuole regolare e che, per sua naturale predisposizione, tende ad evolversi, svilupparsi o modificarsi.
Può essere mutato il contesto normativo con la modificazione di altre e correlate norme, idonee ad interagire con quelle poste a base delle decisioni di un tempo: in tal caso, mutato il sistema, si esige un adeguamento dell’interpretazione del suo assetto, in base appunto ad una interpretazione sistematica rinnovata; può essere cambiato il contesto culturale e sociale in cui la disposizione è destinata ad applicarsi e a produrre i suoi effetti, la cui evoluzione è direttamente proporzionale all’ampiezza dei concetti e dei riferimenti adoperati, o alla loro sensibilità alla trasformazione dei costumi, dei valori o delle tecniche[19].
L’ordinamento deve lasciare spazio all’evoluzione della giurisprudenza, come la realtà che questa governa naturalmente si evolve e si modifica; ma le ragioni per il cambiamento devono essere forti, consapevoli e convincenti: devono essere in grado di prevalere sulle ragioni della stabilità, a loro volta importanti e con implicazioni di ordine costituzionale[20].
In primo luogo, non è stata mai modificata la norma fondamentale dell’ordinamento giudiziario in base alla quale la Corte di cassazione «assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge».
Con l’uso di questa duplice espressione il legislatore mostra di essere consapevole che di una disposizione a volte possono essere date ragionevolmente più interpretazioni: se fosse stato convinto che l’interpretazione esatta è necessariamente unica, avrebbe parlato solo di esattezza dell’interpretazione[21]; invece, la duplicazione delle espressioni e dei concetti – e quindi l’endiadi – indica che, anche nelle ipotesi in cui sia possibile più di una soluzione ermeneutica, deve comunque essere garantita l’uniformità dell’interpretazione, all’evidente fine di evitare che, con argomenti analogamente persuasivi, siano date risposte diverse in giudizi su casi simili.
L’ordinamento affida alla Corte di cassazione il compito di garantire questa declinazione del principio costituzionale di uguaglianza: i suoi precedenti hanno pertanto anche questa particolare valenza. Ma in generale il sistema giudiziario, in tutte le sue articolazioni, deve muoversi in questo senso[22]: un sistema per definizione deve dare risposte coerenti tra loro.
L’ordinamento giuridico deve dare alle domande di giustizia dei cittadini risposte unitarie e coerenti tra loro: stabilità e coerenza devono essere prioritariamente garantite; e mutamenti di giurisprudenza possono allora giustificarsi per ragioni gravi, così pesanti da controbilanciare e prevalere su esigenze rispondenti a principi di ordine costituzionale.
Tutto ciò è sempre stato, ma forse oggi se ne sente maggiormente la necessità; lo stesso intensificarsi del dibattito dottrinale sul tema del precedente è indice di questa particolare sensibilità. La riflessione giuridica risente naturalmente di dinamiche culturali e sociali più ampie, che oggi registrano un sentimento di perdita e spaesamento, che si tende ad affrontare guardando al passato, ricercando continuità in luogo di fratture; persino nella psicoanalisi si riscopre il valore di concetti come quello di “eredità” quale momento fondante dell’evoluzione: una declinazione, in fondo, del concetto di precedente[23].
Probabilmente vi è un rapporto tra complessità del sistema normativo ed esigenze di coerenza e affidabilità giurisprudenziale. Quanto più aumentano articolazione e disordine del quadro normativo tanto più si percepisce l’esigenza di una giurisprudenza che sia in grado di ricucire le maglie della rete, di ridurre le aporie, di dare senso e coerenza al sistema. In analoga misura, più aumenta il soggettivismo dei giudici, il loro proporsi come monadi autoreferenziali, tanto più è sentita l’esigenza di una risposta convergente e coerente alla domanda di giustizia[24].
E se questo è vero in generale, lo è ancor di più con riferimento alle regole processuali: il processo è il luogo in cui più che mai deve essere garantita l’esigenza di certezza e stabilità delle regole del gioco[25].
. Il ruolo del precedente nella disciplina processuale.
Può dirsi che il ruolo del precedente di legittimità – e quindi della nomofilachia – è oggi disegnato da una serie di dati normativi testuali: quasi una forma attenuata della regola di stare decisis[26] dopo le riforme del 2006 (d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), del 2009 (l. 18 giugno 2009, n. 69), del 2012 (art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con l. 7 agosto 2012, n. 134) e del 2016 (d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. con l. 7 agosto 2016, n. 197) soprattutto del giudizio di legittimità, ma anche della disciplina sulle motivazioni del provvedimento civile.
Il sistema si regge, in sostanza, da un lato sulle norme specificamente volte alla tendenziale unificazione della giurisprudenza, cioè gli artt. 374 e 420-bis c.p.c., nonché all’enfatizzazione della forza del precedente: da un lato e quanto a quello di legittimità, gli artt. 384, 363 e 360-bis c.p.c.; dall’altro e in generale, l’art. 118, co. 1, d.a.c.p.c.
Va però sottolineato che soltanto per il giudice del rinvio, nella specifica sede sua propria disciplinata dagli artt. 392 e seguenti c.p.c., incontra un vincolo positivamente stabilito, quanto al principio di diritto. Neppure dà luogo ad un precedente in senso tecnico l’istituto disegnato dall’art. 420-bis c.p.c. [27], assimilabile piuttosto ad una sorta di rinvio pregiudiziale o di costituzionalità, o, a voler operare un parallelo con altri ordinamenti, ad una saisine par avis del diritto processuale francese[28]: ma è limitato al campo della contrattualistica collettiva ed esita in una sentenza interpretativa in via pregiudiziale.
Incide sulle modalità di ordinaria elaborazione della giurisprudenza successiva, di merito e di legittimità, la previsione della possibilità di motivare col richiamo ai precedenti, di cui all’art. 118, co. 1, d.a.c.p.c.: questi assurgono quindi a strumento di motivazione semplificata e, al tempo stesso, a parametri di giudizio ai quali è sufficiente un rinvio, con esenzione del giudicante dalla riproduzione di evidentemente analoghi snodi argomentativi.
Si tratta di norma sistematica di grande rilievo, riferita ad una generalità potenzialmente indefinita di provvedimenti di merito, introdotta da non molto nel nostro ordinamento nel tentativo di contenere l’inarrestabile tendenza all’espansione delle motivazioni. È ora consentito di redigerle con richiamo ai precedenti conformi: e questo sia da parte dei giudici del merito con rinvio a precedenti anch’essi di merito[29], purché – beninteso – reperibili a garanzia della trasparenza della decisione e del diritto di difesa delle parti (e restando immutato l’onere di riprodurli nelle successive impugnazioni), sia nel giudizio stesso di legittimità, per il caso di adozione di forme semplificate di motivazione[30].
In questo caso, il precedente acquista una sua forza intrinseca, in quanto esonera il giudicante successivo dall’attività di specifica motivazione, ove beninteso il relativo contenuto possa essere analogo. La capacità conformativa della giurisprudenza successiva è quindi riferita sia al momento della decisione, sia a quello della concreta estrinsecazione dei passaggi argomentativi a suo sostegno; si rivolge al momento della motivazione, ma, ovviamente, offre un indiretto stimolo al decidente a verificare l’idoneità e sufficienza del richiamo a quei passaggi, auspicabilmente dissuadendolo dalla convinzione della ineluttabilità di una ripetizione, spesso pedissequa o peggio meramente di rifinitura e rielaborazione di quelli (non solo in genere più faticosa, ma anche foriera del rischio di esaltare impropriamente le conseguenze di divergenze o sfumature semantiche adottate).
Significativamente ricondotto all’oggetto del provvedimento impugnato ed al mezzo di impugnazione posto in campo contro di esso è da segnalare l’istituto dell’inammissibilità del ricorso per cassazione per suo contrasto con un orientamento di legittimità, previsto dal n. 1 dell’art. 360-bis c.p.c..
Questo elemento esige oramai, nuovamente ricondotto com’è nell’alveo della sua testuale definizione ad una ipotesi di inammissibilità in senso tecnico[31] (sia pure per ragioni di merito), che parti e giudice del merito si facciano carico di quell’orientamento o di quella giurisprudenza ove vogliano confutarla o superarla, con un onere di argomentazione rafforzato, dovendo gli uni e l’altro prendere in considerazione critica gli argomenti a sostegno di quelle conclusioni e non bastando loro i richiami a quelli contrari già disattesi. Il riferimento della norma alla giurisprudenza della Corte di cassazione, senza altre specificazioni, esclude la necessità di una particolare costanza di reiterazione, riconoscendosi l’applicabilità dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. anche ad ipotesi di un unico precedente, quand’anche remoto, purché congruo e convincente[32]: a dimostrazione che l’autorevolezza e la persuasività di quello può bene ricondursi non tanto alla frequenza statistica della sua reiterazione, quanto all’intrinseca sua congruenza ed alla sua sostanziale accettazione nella pratica successiva, che potrebbero essere state tali da non suscitare mai la necessità di ribadirlo.
Il precedente delle Sezioni Unite vincola poi la singola sezione semplice, che è obbligata – sia pure senza la previsione di una sanzione e, certamente, senza che possa configurarsi un errore revocatorio ex art. 395, n. 4, c.p.c., potendo semmai trattarsi di un error in procedendo (in quanto tale insindacabile se commesso dalla Corte di legittimità) e mai di un errore di fatto – a rimettere la questione alle stesse Sezioni Unite. Nella pratica, un tale vincolo è con una certa attenzione rispettato dalle sezioni semplici, le quali, quanto meno nei casi liminari, comunque si preoccupano generalmente di adottare una tecnica simile al distinguishing degli ordinamenti di common law, sottolineando le differenze tra le fattispecie tali da giustificare lo scostamento dall’apparente precedente rafforzato. È da escludere una qualsiasi forma di impugnazione alle Sezioni Unite delle pronunce delle sezioni semplici con esse in contrasto: ed è auspicabile comunque che, per il senso di leale ossequio alle norme dell’ordinamento che ci si attende da un giudice e a maggior ragione da quello di legittimità, una norma processuale di tale delicata portata sia spontaneamente osservata senza la necessaria deterrenza di una sanzione.
Più ampio discorso andrebbe fatto per l’enunciazione del principio di diritto: sia nella fattispecie, ormai generalizzata, per il caso di rigetto del ricorso, sia nell’altra, rivitalizzata appunto con la riforma del 2006, prevista dall’art. 363 c.p.c., nella duplice versione della pronuncia di ufficio direttamente dalla Corte in caso di inammissibilità del ricorso e di quella su richiesta del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione. Entrambi meriterebbero ben altro approfondimento, ma è da notare che la Corte di legittimità si è occupata sovente dell’istituto, a dimostrazione del recupero di una certa sua vitalità, sia pure dipendendo dalle determinazioni del Procuratore generale la maggiore o minore ampiezza della sua applicazione e nonostante le preoccupazioni e, talvolta, le vigorose critiche di parte della Dottrina.
6. La forza indiretta del precedente.
Pur in assenza di un obbligo di conformazione, vi è un’innegabile influenza del precedente “autorevole”: l’autorevolezza può derivare da una serie di elementi, estrinseci o intrinseci.
Quelli estrinseci concernono il giudice che lo ha emesso. A parte le sentenze che possono incidere direttamente sulle previsioni legislative, come quelle della Corte costituzionale o della Corte di giustizia dell’Unione europea, è indubbio che, di massima, si attende che l’autorevolezza cresca in relazione alla posizione del giudice nell’ordine giudiziario e che le decisioni della Corte di cassazione abbiano una particolare valenza come guida nell’interpretazione della legge, siccome rese dall’organo funzionalmente preposto alla nomofilachia e collocato al vertice del sistema delle impugnazioni.
Quelli intrinseci attengono alla qualità della motivazione del provvedimento che forma il precedente: il grado di persuasività degli argomenti, la sua chiarezza e linearità[33]; per persuadere occorre essere certamente chiari, ma anche adottare argomenti congruenti e che si facciano carico, se possibile, anche delle tesi contrastanti, offrendo una soluzione ragionata e meditata, quand’anche opinabile, auspicabilmente finalizzata alla risoluzione del caso concreto, sia pure facendo chiara enunciazione di principi generalizzabili.
L’aspirazione alla completezza, apprezzabile in vista dello ius constitutionis, può nuocere alla fruibilità del discorso ed alla limpidità delle conclusioni, oltre a innescare talvolta più conflitti di quanto non possa sopirne; ma questo dipende, beninteso, dalla personalità del singolo decidente e dalle sue personali doti di estensore.
Il precedente autorevole si pone poi in un rapporto di tensione dialettica tra le ragioni della stabilità e quelle del cambiamento: e, sostanzialmente, l’uno e l’altra sono espressione evidente della funzione della giurisprudenza[34].
Un ruolo importante può riconoscersi al precedente nel momento in cui la sua considerazione esplicita nella motivazione da parte del decidente è imposta da norme che non incidono in maniera diretta sul procedimento decisionale in senso stretto e sul contenuto e gli eventuali vizi del provvedimento che ne costituisce l’esito, ma solo in via indiretta, nel connotare l’attività intellettuale del giudice che sta determinandosi in un senso o nell’altro.
In questo modo, il precedente è rivestito di un’indubbia sua forza o efficacia cogente, nel senso di essere in grado di orientare in concreto la decisione, sia pure senza potersi prospettare come un vincolo formale; e si tratta allora di una forza evidentemente indiretta, sebbene verosimilmente molto più significativa, in ragione degli effetti sulla persona del singolo decidente, attraverso la definizione dei suoi obblighi professionali in senso stretto, le cui violazioni siano tali da esporlo a responsabilità civile o disciplinare e quindi connotino di giuridicità l’ossequio che, entro certi limiti, l’ordinamento comunque richiede al giudicante o almeno si attende da lui.
Un’indubbia forza del precedente è, benché solo indirettamente, riconosciuta da un duplice elemento di matrice giurisprudenziale, elaborato dalla stessa Corte di legittimità nell’individuazione, da un lato, dei contorni della responsabilità dello Stato per grave violazione di legge da parte dei giudici nell’interpretazione di questa ai sensi della legge n. 117 del 1988 e, dall’altro, delle fattispecie di illecito disciplinare del magistrato per violazione di legge.
Il primo regola la delicata materia della discrezionalità del giudice nell’interpretazione delle norme e nel suo obbligo di motivazione: premesso che – come avviene anche a livello sovranazionale – non è mai richiesta una risposta puntuale del singolo giudice ad ogni singolo argomento sottopostogli dalla parte, una motivazione qualunque non è mai sufficiente ad escludere l’illegittimità della condotta del giudicante e la responsabilità dello Stato ai sensi della legge 13 aprile 1988, n. 117 (già nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18); infatti, a fondare una responsabilità dello Stato (prima e del singolo giudice poi), occorre che la decisione non appaia frutto di un consapevole processo interpretativo, oppure che contenga affermazioni ad esso non riconducibili perché sconfinanti nel provvedimento abnorme o nel diritto libero e pertanto caratterizzate da una negligenza inesplicabile, prima ancora che inescusabile, in vari momenti dell'attività prodromica alla decisione, in cui la violazione non si sostanzia negli esiti del processo interpretativo, ma ne rimane concettualmente e logicamente distinta, ossia quando l’errore del giudice cada sulla individuazione, ovvero sulla applicazione o, infine, sul significato della disposizione, intesa quest’ultima come fatto, come elaborato linguistico preso in considerazione dal giudice che non ne comprende la portata semantica. La “ribellione” ai precedenti giurisprudenziali non determina, cioè, di per sé responsabilità, perché il precedente giurisprudenziale, pur se proveniente dalla Corte di legittimità e finanche dalle Sezioni Unite, e quindi anche se è diretta espressione di nomofilachia, non rientra tra le fonti del diritto e, pertanto, non è di norma vincolante per il giudice; tuttavia, in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, l’adozione di una soluzione difforme dai precedenti non può essere né gratuita, né immotivata, né immeditata, ma deve essere frutto di una scelta interpretativa consapevole e riconoscibile come tale, ossia comprensibile, ciò che avviene più facilmente se sia esplicitata a mezzo della motivazione[35].
Costituisce poi illecito disciplinare una grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, che si risolva nella mancata applicazione di norme anche solo processuali: l’attività interpretativa non attinge l’illecito disciplinare solo se resa evidente da chiara condotta di motivazione, idonea a rendere le ragioni della decisione verificabili a posteriori, anche mediante l’adesione ad una scelta ermeneutica riconducibile ad un orientamento minoritario, purché reso evidente da un percorso argomentativo valutabile ed impugnabile così come previsto dalla legge; in sostanza, esclude l’illecito la circostanza che l’adottata scelta ermeneutica non sia implausibile e che cioè non sia tale da qualificare abnorme il risultato dell’interpretazione, solo in tali casi si può intendere superato il limite dell’insindacabilità sancita dall’ultimo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006[36].
7. Una nomofilachia consapevole e responsabile.
In questo contesto, il ruolo di una Corte suprema in grado di elaborare una nomofilachia sostenibile dovrebbe allora quello di una Corte suprema consapevole e responsabile, nel duplice senso di attenta ad evitare contrasti involontari e pronta a rendere conto dinanzi alla collettività delle proprie scelte, ad un tempo prudente custode dell’uniformità e sensibile interprete delle esigenze del cambiamento, concentrata nel rendere un prodotto fruibile anche in termini di qualità e tentando di influire sulla quantità deprimendo, con la chiarezza e talvolta la secchezza dei propri arresti, la domanda di giustizia di legittimità.
L’effettiva applicazione delle norme sull’enunciazione del principio di diritto è essa stessa complessivamente molto prudente.
In via di fatto, nella sua forma pienamente ufficiosa quell’enunciazione è in linea di tendenza evitata oramai, dopo una prima caustica reazione negativa da parte della Dottrina nei primi anni di applicazione, quando il principio che dovrebbe essere enunciato andrebbe a favore del ricorrente nei cui confronti pure è pronunciata l’inammissibilità.
È stata sancita espressamente l’incompatibilità dell’enunciazione del principio di diritto di ufficio col rito camerale di sezione ordinaria, ma nulla vieta alla sezione semplice (compresa la sesta, cui è istituzionalmente devoluta ogni questione su inammissibilità o improcedibilità o manifesta infondatezza o fondatezza) di farvi luogo, o, in alternativa ed ove ritenga sussistere una questione di massima di particolare importanza, di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite[37]: alle quali è stato, almeno in via di prassi, finora devoluto l’esame delle non moltissime richieste del Procuratore generale ai sensi dei primi due commi dell’art. 363 c.p.c.
Del resto, un altro ed apprezzabile self restraint un vincolo al mutamento di giurisprudenza, quanto meno in materia processuale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione si sono imposte riconoscendolo opportuno solo quando l’interpretazione fornita dal precedente risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o ingiusti, poiché l’affidabilità, prevedibilità ed uniformità dell’interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia del processo[38].
Certo, il revirement non è mai di per sé solo precluso, nemmeno nella giurisprudenza sovranazionale, purché appunto siano apprestati strumenti per i giustiziabili atti a tutelarne l’affidamento quanto meno in materia processuale. Ma l’approfondimento della tematica condurrebbe davvero lontano, involgendo il tema della prospective overruling o comunque degli effetti immediati dei mutamenti di giurisprudenza radicali: i quali non attengono, se non altro in senso stretto, al principio della stabilità del precedente.
È certo che sulla motivazione semplice o semplificata gli sforzi della Prima Presidenza della Corte suprema di cassazione si sono appuntati da almeno dieci anni: basti pensare alle note del Primo Presidente di questa Corte del 22/03/2011 e del 14/09/2016, la prima delle quali a seguito di un interessante esperimento di autoformazione in forma di laboratorio per una riflessione sulla struttura della motivazione della sentenza civile di Cassazione, culminato in un “dodecalogo” per la sua redazione, voluto dall’allora Primo Presidente Ernesto Lupo[39].
Certamente, motivazione semplice o semplificata è funzionale ad una facilitazione nella redazione dei provvedimenti.
Ma è altrettanto certo che non si esaurisce in questo la nomofilachia, tanto meno una nomofilachia sostenibile: redigere provvedimenti agili non deve significare solamente poterne scrivere un numero infinitamente o indefinitamente maggiore, ma deve servire a liberare risorse per concentrarsi sulle questioni nuove e ad attivare motivazioni davvero sommarie nei casi agevolmente riconducibili ai precedenti. Del resto, la concentrazione degli sforzi motivazionali nei casi pilota non è una novità nemmeno nel panorama sovranazionale: già la Corte europea dei diritti dell’Uomo assicura la priorità ai ricorsi in materie caratterizzate dal well-established-case-law, in cui cioè sussiste una giurisprudenza già consolidata, che consente una definizione perfino con una composizione ridotta del Collegio decidente.
Il metodo delle cause pilota deve tendere non ad aumentare o rendere più produttiva la risposta di Giustizia di legittimità, ma a deflazionare, rendendola per quanto possibile priva di necessità (se non di ragione), la domanda di Giustizia di legittimità.
Una giurisprudenza stabile e rapida almeno sulle questioni principali, semmai accompagnata da un uso non più troppo timido, sebbene pur sempre prudente, di strumenti quali le condanne ai sensi dell’art. 96 co. 3 c.p.c., dovrebbe poter servire senz’altro a ridurre il contenzioso e a riservare le limitate risorse umane a disposizione alle fattispecie serie e degne di attenzione, evitando che le oscillazioni ed il tempo necessario per la definizione inducano, in una perversa spirale, sempre più qualunque giustiziabile ad azzardare la via del ricorso per cassazione, nella sia pur tenue possibilità di una pronuncia favorevole nel mare magnum di provvedimenti. E si potrà evitare di demotivare anche i giudici del merito, i quali, dinanzi all’instabilità intrinseca di cui può dare impressione la Corte di legittimità, potrebbero restare privi di qualunque riferimento affidabile e, al contempo, ritenersi svincolati da ogni precedente, prefigurandosene una permanente instabilità.
8. I progetti tematici.
Analogo meccanismo è tentato ormai da quasi tre anni almeno in una delle Sezioni della Corte di cassazione, ad iniziare dalla materia dell’esecuzione civile e poi via via in quella delle locazioni e della responsabilità sanitaria: un tale meccanismo è inteso a recuperare al giudice di legittimità un suo istituzionale ruolo nomofilattico e definito dalla stampa “un esempio di best practice nel settore giustizia, per coniugare le ragioni del diritto con quelle dell’economia, rafforzando la funzione della Cassazione nell’assicurare un’uniforme interpretazione della legge”[40].
Il “Progetto” (che, nella stessa giurisprudenza di legittimità, è definito la «metodologia organizzativa ... volta alla rilevazione e concentrazione delle questioni nuove o che presentano specifiche “criticità” in apposite udienze dedicate»[41]) mira a correggere gli effetti della tradizionale impostazione del giudizio di cassazione come “occasionale”, nel senso che la controversia tra privati (incentrata sullo ius litigatoris) costituisce per la Corte soltanto un’occasione per svolgere la sua funzione nomofilattica (finalizzata invece allo ius constitutionis) e dipende quindi dal caso la concreta articolazione del ruolo delle singole udienze. Con la prassi applicativa del Progetto, invece, si attribuisce centralità alla programmazione, sia pure – beninteso – in relazione al concreto carico di lavoro pendente ed alle questioni comunque portate alla cognizione della Corte dalla mutevole e imponderabile iniziativa dei singoli litiganti, poiché è lo stesso giudice di legittimità che, selezionate le questioni attualmente più rilevanti o dibattute, individua una controversia idonea a fornire l’opportunità di pronunciare una decisione idonea ad orientare le future determinazioni dei giudici di merito (e non solo a correggere le pronunce già emesse) e, così, di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto nazionale e per di più di farlo tempestivamente.
La prassi tende a una razionale e mirata gestione delle pendenze in una determinata materia mediante l’individuazione, il più possibile compartecipata da tutti gli operatori del diritto (attraverso l’interazione con forum specializzati, convegni e riviste giuridiche), delle questioni di maggior rilievo o più controverse negli uffici di merito.
La ricerca – condotta dal gruppo di lavoro istituito in seno alla Sezione (composto dai magistrati dell’Ufficio del Massimario destinati alla collaborazione nell’attività di spoglio e classificazione dei processi, da alcuni Consiglieri e Presidenti di Sezione esperti del settore) – individua le questioni che assumono rilievo nomofilattico in quanto:
- riguardano tematiche di sicura attualità e rilevanza, ma non ancora approfondite;
- patiscono divergenti interpretazioni dei giudici di merito oppure incertezze e dubbi indotti da giurisprudenza di legittimità oscillante o eccessivamente remota o la cui tenuta deve essere rimeditata in ragione di mutati contesti ordinamentali;
- hanno impatto sistematico e di ricaduta immediata sulle procedure pendenti, a causa delle conseguenze applicative nel quotidiano lavoro dei giudici dell’esecuzione forzata e dei loro ausiliari.
All’individuazione delle questioni seguono:
1) il reperimento, preferibilmente con mezzo informatico, tra le cause pendenti in Sezione (in precedenza oggetto di attenta schedatura da parte dei magistrati destinati allo spoglio e alla classificazione), di quelle che siano portatrici di una o più di quelle stesse questioni;
2) l’accorpamento di quelle controversie in più udienze dedicate;
3) la divulgazione agli operatori del settore di un calendario di udienze che faccia esplicita menzione dei temi trattati, così che i giudici di merito possano, a loro volta, razionalmente gestire il proprio ruolo;
4) l’applicazione dei principi elaborati in seno al Progetto in successive ordinanze con motivazione davvero sommaria[42].
Parallelamente, il P.G. presso la Corte di Cassazione, dopo avere promosso una consultazione degli uffici di merito con invito a formulare segnalazioni, propone alla Corte i ricorsi nell’interesse della legge, ai sensi dei primi due commi dell’art. 363 cod. proc. civ.
9. La rilevanza interna del principio di diritto.
Per concludere, solo pochi cenni alla rilevanza interna del principio di diritto, intesa come vincolo specifico al giudice del rinvio nella sede sua propria del giudizio disciplinato dagli artt. 392 a 394 c.p.c.: riguardo alla quale è indispensabile un rinvio alle trattazioni istituzionali e specialistiche e sulla quale qui ci si sofferma solo per rimarcare le differenze con la rilevanza esterna del principio di diritto fin qui esaminata, vale a dire quella che quest’ultimo ha in relazione a processi diversi da quello in cui è stato enunciato e tra soggetti diversi dalle parti o dai loro aventi causa a qualsiasi titolo.
È, tale vincolo, un istituto tipico dell’ordinamento nazionale, visto che quello da cui è stato importato, cioè quello francese, non prevede un obbligo immediato del giudice del rinvio di conformarsi al principio di diritto affermato dalla Cassazione, ma soltanto in un secondo momento, qualora, a seguito della sua “ribellione” o non condivisione, la stessa Corte di legittimità pronunci in Assemblée Plénière (si tratta quindi di un procedimento particolarmente rafforzato: che se, da un lato, esalta l’indipendenza del giudice del merito, dall’altra si inserisce in un sistema in cui le ribellioni alle pronunce di legittimità, sebbene tecnicamente ammissibili, sono praticamente rarissime).
Nell’elaborazione nazionale, esso integra una fattispecie di vero e proprio vincolo interpretativo per il giudice: è imposto al giudice di rinvio dopo la pronuncia di cassazione (secondo il disposto dell’art. 384, secondo comma, c.p.c., analogo a quello, in materia penale, posto dall’art. 627, terzo comma, c.p.p.).
È un vincolo interpretativo che ha superato il vaglio di costituzionalità fin da epoca ormai risalente[43]; ma è un vincolo interno al processo e consegue ad un suo sviluppo particolare: la regola di giudizio è fissata prima della sua applicazione alla fattispecie concreta. Questo scarto diacronico[44] crea una preclusione processuale: la regola di giudizio, pervenuta nella dialettica processuale, attraverso i vari gradi del giudizio, all’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di cassazione non può più essere posta in discussione non già in ragione di un’applicazione fuori sistema del principio di stare decisis, ma perché le parti ne hanno già discusso nel processo fino a quando e nei limiti in cui le regole del processo lo consentono. Pertanto, la violazione del principio di diritto da parte del giudice del rinvio determina una nullità della sentenza e la espone al successivo ricorso per cassazione sotto questo specifico profilo.
È poi consolidata la giurisprudenza di legittimità nel ritenere comprese nella preclusione derivante dall’enunciazione del principio di diritto tutte le questioni – di fatto e di diritto – logicamente sottese ed il cui esame deve aversi per necessariamente svolto in senso congruente col principio stesso[45].
Di recente, poi, quanto alla prosecuzione in sede civile del giudizio di danni già iniziato in sede penale, la giurisprudenza civilistica ha rivendicato, non senza critiche della Dottrina, la totale autonomia dei principi applicabili in sede di rinvio disposto ex art. 622 c.p.p.
Si noti che della conformità del principio di diritto a Costituzione il giudice del rinvio può dubitare, rimettendo gli atti alla Consulta e conseguendo se del caso pronuncia di accoglimento, anche quando in ipotesi il diritto vivente abbia condotto al suo superamento: in altri termini, il principio di diritto fissato al giudice del rinvio sopravvive ai mutamenti di giurisprudenza successivi[46], ma non a quelli assimilabili ad un autentico ius superveniens, quali le pronunce della Corte di Giustizia di Lussemburgo.
Tuttavia, tali ipotesi di rilevanza interna del principio di diritto, proprio perché in ultima analisi riconducibili al sistema di preclusioni, non dissimilmente del resto da quelle che si verificano in caso di sentenza non definitiva all’interno dello stesso grado, interessano in modo relativo l’interprete che si interroga sulla valenza del principio di diritto.
10. Epilogo.
In esito a queste brevi e disorganiche considerazioni dovrebbe risultare chiaro come sia preliminare ad ogni altra riflessione quella sull’utilità effettiva di una rincorsa fordista all’esaurimento della domanda di giustizia di legittimità con un parallelo o perfino pari incremento della sua risposta: in sostanza, occorre interrogarsi senza infingimenti sull’utilità effettiva degli sforzi per adeguare la produttività della Corte suprema di cassazione, che già di per sé è – con il suo carico spaventoso – un unicum nel panorama degli ordinamenti giudiziari occidentali, ad una domanda ormai fuori controllo, alimentata non solo da una conflittualità esasperata e propria della temperie culturale nazionale, ma anche, in un quadro di scarsa chiarezza di idee ed obiettivi forse tra gli stessi operatori del diritto, da scelte legislative miopi od incongrue – non ultima, di recente, quella di devolvere direttamente alla Corte di legittimità il solo controllo di impugnazione in materia di protezione internazionale in un contenzioso già di per sé dalle dimensioni epocali – e dall’evidente natura viziosa del circolo che si viene ad instaurare.
L’uniformità del diritto nazionale deve restare un presidio irrinunciabile di uguaglianza sostanziale tra i consociati; se l’approccio dinamico ed evolutivo della multiforme esperienza giurisprudenziale è assolutamente essenziale alla vitalità stessa della giurisdizione ed alla sua libertà ed indipendenza, nondimeno essenziali sono la stabilità delle risposte dei giudici e l’affidamento che vi devono riporre tutti.
Una stabilità come garanzia di uguaglianza, non come paralisi o fossilizzazione; ma al tempo stesso stabilità attraverso una tendenziale coerenza, che postula ed esige evoluzioni, ma auspicabilmente ponderate ed attente: vanno scongiurate continue oscillazioni o esercizi di rifinitura ed esasperata ricerca degli affinamenti dei precedenti. Va evitato il rischio di ridurre, col pretesto della pienezza della sua libertà, la determinazione del decidente ad un accidentale episodio di personale elaborazione di una norma astratta e, quindi, alla fortuita o casuale espressione di una discrezionalità così incontrollabile da rasentare l’arbitrio od un estenuato e narcisistico esercizio accademico.
La possibilità di assicurare l’uniformità del diritto nazionale passa, in un sistema come quello italiano, allora per una funzione nomofilattica incentrata sulla chiarezza e sulla saldezza degli interventi giurisprudenziali e sul ruolo che quelli della Corte suprema possono svolgere sull’esercizio della giurisdizione da parte dei giudici di ogni ordine e grado; ma con questi numeri richiesti alla Corte la sua giurisprudenza va incontro ad una instabilità ed inaffidabilità intrinseca, dovuta all’impossibilità materiale di garantire una coerenza anche solo sincronica – ed a maggior ragione diacronica – tra le sue pronunce.
Il vero e proprio esercito di giudici – in continua espansione, visti i cospicui incrementi della pianta organica pure necessitati dall’incalzare del soverchiante carico delle pendenze – chiamato ad affrontare l’arretrato e l’affannosa rincorsa ad un incremento della produttività marginale che resta obiettivamente inesigibile (e poco dignitoso di per sé solo per una Corte suprema) potranno forse anche conseguire un ulteriore aumento del già mirabolante carico di provvedimenti prodotti per anno, visto che pure nell’annus horribilis della pandemia si sono superati i trentamila provvedimenti civili pubblicati.
Ma, a parte ogni considerazione sui tempi biblici necessari per ridurre sensibilmente, se non anche per azzerare, l’arretrato in condizioni di aumento in progressione geometrica delle sopravvenienze annue, è forse il momento di valorizzare per quanto possibile i pochi strumenti a disposizione per tentare di reggere il passo con l’emergenza costituita dall’esplosione della domanda di Giustizia di legittimità e dalla circostanza che questa è ormai fuori controllo.
E tanto anche a costo di privilegiare non già l’aumento vertiginoso della produzione dei provvedimenti, ma la loro qualità, nell’auspicio che una nuova condivisione di obiettivi tra gli operatori del diritto possa condurre ad una giurisprudenza in grado di fornire alla collettività dei consociati risposte credibili, superando la sgradevole sensazione che essa possa costituire un azzardo che vale sempre la pena tentare, un’alea da correre, per ogni tipo di diritti o di pretese, senza farsi carico della drammatica limitatezza delle risorse.
Occorrerà, quindi, chiedersi se e fino a che punto una Giustizia – di legittimità, ma non solo – come sta diventando la nostra sia un lusso che possiamo permetterci, ma pure quale sia l’obiettivo che si vuole perseguire.
Semplificazione anche nell’interazione, con il prezioso strumento dei Protocolli, utili momenti di riflessione comune nel solco dell’esperienza degli Osservatori; e perfino nella individuazione di contenuti minimi, anche se standardizzati, per ritrarre quanto di positivo c’è nell’esperienza della procedura civile eurounitaria, fondata su formulari preziosi per l’individuazione condivisa di quanto effettivamente serve alla parte per esporre le sue ragioni ed al giudicante per valutarle.
Occorrerà tentare di superare l’evidente incapacità di intesa già solo sull’individuazione degli elementi indispensabili alla comprensione della fattispecie in esame, sia per i giudici che per gli avvocati; occorrerà, almeno per i giudici, tentare di resistere ad atteggiamenti culturali, che giustificano un’incessante rivisitazione di conclusioni già raggiunte, anche faticosamente ed in via di approssimazione sostanzialmente condivisa: tendenza alla rivisitazione sorretta dalla presunzione di essere in grado di fornire la propria risposta nuova e sola corretta, ma tale in concreto da produrre, con una vera e propria eterogenesi dei fini, l’incremento ad un tempo, con un’autentica babele, dell’ingovernabilità della realtà fenomenica e dello sconcerto degli operatori pratici e soprattutto dei cittadini, nel cui nome questa Giustizia pur sempre viene amministrata.
Ma non bisogna, con franchezza, tralasciare che questo atteggiamento è al contempo concausa ed effetto di una mancanza di orizzonti ed obiettivi chiari, quasi un ripiegamento intimistico su se stessi dinanzi all’impressione dell’inanità dei propri sforzi ed al conforto che parrebbe dare l’idea di apportare, non potendo modificare un andamento generalizzato, un minimo contributo con la rifinitura e la sterile rimeditazione o riedizione dell’esistente, sola ad essere considerata attingibile: ciò che imprime un’ulteriore impronta al carattere vizioso del circolo, per cui il giurista, che già di suo indulge all’esasperazione analitica della singola fattispecie e non sempre è capace di cogliere le esigenze del sistema, ancora di più si rifugia in questi esiti nella più o meno cosciente consapevolezza di non riuscire ad attingere una visione dinamica e soprattutto di respiro ordinamentale.
Solo una condivisione quanto più ampia possibile del ruolo della giurisprudenza e di una Corte che ha tra le sue funzioni istituzionali la nomofilachia, con attenzione costante alle ricadute concrete nel mondo reale e non soltanto nell’iperuranio della perfezione formale di un sistema astratto, potrà inverare nei fatti l’indispensabilità dell’uno e dell’altra per l’uguaglianza effettiva e sostanziale di tutti davanti alla legge e quindi per l’ordinato vivere quotidiano, compito primario del Diritto anche nel moderno mondo, articolato su mercati sempre più aggressivi e violenti, ipertecnologico e globalizzato.
Perché «il giudice, il quale sa che scopo della sua funzione non è di risolvere eleganti problemi teorici per amor della scienza, ma di portare certezza giuridica nei conflitti di interessi che insorgono nella vita pratica, comprende che, specialmente in certe vexatae quaestiones di diritto processuale […] una giurisprudenza costante è preferibile, nell’interesse dei privati, a una giurisprudenza giusta»[47].
La nomofilachia sostenibile dovrebbe quindi orientarsi all’individuazione dei principi generali mediante motivazioni secche e, in presenza di precedenti complessivamente accettabili, anche soltanto meramente assertive; e non dovrebbe essere orientata ad un incremento progressivamente costante della produzione dei provvedimenti, visto che già adesso questa ha raggiunto dimensioni ingestibili e spesso mortificanti, ma alla ristrutturazione ed al riordino della domanda di Giustizia di legittimità e quindi delle sopravvenienze, fino al suo ridimensionamento in termini esigibili: una prudente ed accorta selezione dei propri interventi nomofilattici ed una maggiore confidenza nella valenza e nell’intrinseco valore dei propri stessi precedenti, riservando le elaborazioni ai mutamenti o agli adeguamenti indispensabili imposti dalla sostanziale differenza della fattispecie concreta.
La Corte di cassazione non deve chiedere di potere scrivere o produrre di più, ma di scrivere o produrre meglio, in modo che sia poi sufficiente scrivere o produrre meno; e deve tentare di persuadere e mettere in luce la superfluità di continue o sterili rimeditazioni: probabilmente solo in tal modo la nomofilachia può in concreto continuare ad essere sostenibile, in quanto funzionale a fondare l’affidamento dei consociati sull’impegno dei loro giudici nel garantire il maggiore possibile livello di garanzia dei diritti, a partire da quelli fondamentali e, tra questi, da quelli che la Costituzione definisce inviolabili.
*Relazione tenuta all’incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura in data 11 e 12 febbraio 2021 su “Il giudizio civile di cassazione e la necessità di conciliare quantità e qualità”, sul tema: “Nomofilachia e giurisdizione. La costruzione del diritto vivente. La forza del precedente tra persuasività e vincolatività. La rilevanza esterna e interna del principio di diritto”
[1] Rocci, Vocabolario greco-italiano, Roma, 1939 (prima edizione, costantemente aggiornata; l’ultima è del 2011, con la collaborazione di Argan e altri).
[2] Innumerevoli i contributi in Dottrina. Tra i recenti interventi diversi dalle trattazioni istituzionali si segnalano: Scoditti, La nomofilachia naturale della Corte di cassazione. A proposito di un recente scritto sulla «deriva della Cassazione», in Foro it., 2019, V, 415 ss.; Miccolis, Nomofilachia, Sezioni Unite e questione di "particolare importanza", in Questione Giustizia on line, https://www.questionegiustizia.it/articolo/nomofilachia-sezioni-unite-e-questione-di-particolare-importanza; Costantino, Appunti sulla nomofilachia e sulle «nomofilachie di settore», in Riv. dir. proc., 2018, 1443; Id., Per la salvaguardia delle prerogative costituzionali della Corte di cassazione, in Foro it., 2018, 71; Id., Il giudizio di cassazione tra disciplina positiva e soft law, in Giur. It., 2018,777-784. In senso francamente critico, Sassani, La deriva della cassazione e il silenzio dei chierici, in Riv. dir. proc., 2019, 43 ss. e in www.judicium.it, 03/06/2019; Capponi, La Corte di cassazione e la «nomofilachia» (a proposito dell’art. 363 c.p.c.), ivi, 06/04/2020; Auletta, Sulla dubbia «opportunità» e i limiti certi della pronuncia d’ufficio ai sensi dell'art. 363, 3° comma, c.p.c. etc., in www.judicium.it, 08/07/2019, in nota a Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967.
[3] Per tutti e per utili approfondimenti e richiami anche bibliografici e storici, v.: Lipari, Dottrina e giurisprudenza quali fonti integrate del diritto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, 1153-1167; Gorla, voce: “Giurisprudenza”, in Enc. Dir., vol. XIX, Milano, 1970, 489.
[4] Nella sconfinata letteratura sul tema si può segnalare, per un primo approccio e guida ad ulteriori approfondimenti, Carleo (a cura di), Il vincolo giudiziale del passato – i precedenti, Bologna, 2018; tra i molti classici, una menzione può farsi a Gorla, voce: “Precedente giudiziale”, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXIII, Roma, 1990.
[5] Amoroso, Morelli, La “funzione nomofilattica” e la “forza” del precedente, in Acierno, Curzio, Giusti (a cura di), La Cassazione civile – lezioni dei Magistrati della Corte suprema italiana, III ed., Bari, 2020, 466.
[6] Per tutte, v. Corte cost. 12 ottobre 2012, n. 230, in Giur. cost., 2012, 3440, la quale parla di “efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente ‘persuasivo’” delle pronunce delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
[7] Taruffo, Precedente e giurisprudenza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2007, 03, 709.
Non manca però chi ammonisce come, benché quello della convergenza sia il modo di vedere più sofisticato al giorno d’oggi, sarebbe bene che non lo fosse troppo, poiché nello stile, nel tono, negli atteggiamenti e persino, in buona misura, nella struttura formale, i sistemi di common law differiscono in maniera significativa da quelli di civil law (Schauer, Thinking Like a Lawyer. A New Introduction to Legal Reasoning, Harvard College, 2009, trad. it. Il ragionamento giuridico. Una nuova introduzione, Roma, 2016, 156).
[8] Al riguardo, Curzio, Il giudice e il precedente, in Questione giustizia on line, in https://www.questionegiustizia.it/ rivista/articolo/il-giudice-ed-il-precedente_578.php, § 1, ove ulteriori ampi richiami:
- a Merryman (voce: Common law (paesi di), III, Diritto degli Stati Uniti d’America, in Enc. Giur. Treccani, vol. VII, Roma, 1990), il quale sottolinea che «Lo stare decisis può essere inteso sia come una regola giuridica vera e propria in virtù della quale i giudici sono tenuti a seguire i precedenti giudiziali, sia come un principio di policy (dettato, cioè, da ragioni di giustizia e di convenienza, epperò privo di uno specifico rilievo normativo), per cui casi simili dovrebbero essere decisi nello stesso modo»; ma pure che «nell’esperienza statunitense i giudici considerano lo stare decisis più come un principio di policy che come una regola di diritto; riconoscono i vantaggi derivanti dall’affidamento fatto sui precedenti a fini di stabilità e prevedibilità del diritto, nonché di efficienza dell’amministrazione della giustizia; ma, là dove si presentano ragioni sostanziali che giustificano una soluzione diversa, il precedente può essere distinto, modificato o, meno frequentemente, eliminato (overulled), sicché per i giuristi nord-americani, rappresenta un’esagerazione parlare di «precedente strettamente vincolante (binding precedent)».
- a Stein, Common law (paesi di), I) Diritto inglese, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, vol. VII, ove si afferma che la regola ha una declinazione particolarmente rigorosa nell’esperienza inglese, ma si ricorda che nel 1966 la House of Lords annunciò che in casi eccezionali si sarebbe discostata dalle proprie precedenti decisioni, ove avesse ritenuto giusto farlo; più ampia la possibilità di deroga nel diritto statunitense.
[9] Per tutti, Morelli, Il “diritto vivente” nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giust. civ., 1995, II, 169.
[10] Amoroso, Morelli, op. cit., 467, ove si riconosce al principio di diritto “un ruolo specifico e autonomo nel processo decisionale e motivazionale del giudice, affiancandosi alla tecnica argomentativa di concatenazioni logiche discendenti (secondo un modello sillogistico-deduttivo) o ascendenti (secondo un modello dogmatico-sistematico)”; e ciò in quanto “il riferimento al precedente consente un percorso argomentativo orizzontale che non è né deduttivo, né sistematico, ma di mero rinvio” (con richiamo a Taruffo, op. cit., 710, dove si parla di “struttura topica” dell’argomentazione: i precedenti rappresentano i tòpoi che orientano l’interpretazione nella complessa fase della ricerca della norma da applicare e che sostengono l’interpretazione adottata come valida nell’ambito dell’argomentazione giustificativa). In definitiva, “il giudice indica il luogo – il precedente – in cui sono sviluppate le argomentazioni a sostegno del ‘principio di diritto’ assunto come regola di giudizio della fattispecie”.
[11] Sulla tematica del precedente giurisprudenziale la letteratura può dirsi sterminata; basti qui un richiamo, tra innumerevoli, a: Taruffo, Precedente e giurisprudenza, Napoli, 2007; R. Rordorf, Magistratura giustizia società, Bari, 2020, pp. 321 ss.; Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Dir. pubbl. 2017, 1, 21.
[12] Gorla, voce: “Precedente giudiziale”, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXIII, Roma, 1990, cit., 6, parla di «principio di uguaglianza qui inteso come uguaglianza di trattamento (giurisdizionale) di casi simili, cioè delle persone che agiscono in questi casi».
[13] Basti qui un richiamo – per la sterminata dottrina, a Lorenzi, La certezza del diritto, in Foro it. 1956, IV, 73 ss., nonché, in giurisprudenza – a Cass., S.U., 17 dicembre 2018, n. 32622, che sottolinea, con altri riferimenti alla giurisprudenza nazionale, come quel principio sia un cardine dell'ordinamento giuridico anche eurounitario, siccome teso a garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia (CGUE 3 settembre 2009, in causa C-2/08, Olimpiclub; CGUE 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Kobler; CGUE 16 marzo 2006, in causa C-234/04, Kapferer). Nella giurisprudenza della Corte EDU, tra moltissime, v., per limitarsi ad una delle più recenti, Corte EDU, IV sez., 12 gennaio 2021, Albuquerque Fernades c/ Portogallo (ric. n. 50160/13; al suo punto 70 si legge, in particolare che il diritto di accesso al giudice è vulnerato nella sua sostanza quando non persegue la certezza del diritto e la buona amministrazione della giustizia), oppure la tradizionale Corte EDU, G.C., 20 ottobre 2011, Nejdet e Perihan Sahin c. Turchia, § 55.
[14] Curzio, op. loc. ult. cit., con richiami a Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, nonché a Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, cit..
[15] Per un primo approccio, ci si permette un richiamo a De Stefano, L’intelligenza artificiale nel processo?, in www.giustiziainsieme.it, dal 06/03/2020, all’URL
https://www.giustiziainsieme.it/it/scienza-logica-diritto/892-l-intelligenza-artificiale-nel-processo (ultimo accesso 03/02/2021). Tra gli altri, v., per tutti: Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, Bologna 2017, passim; Carleo (a cura di), Decisione robotica, Bologna, 2019, soprattutto pp. 111 ss.; Battelli, Giustizia predittiva, decisione robotica e ruolo del giudice, in Giust. civ., 2020, 2, 280; Castelli, Piana, Giustizia predittiva. La qualità della giustizia in due tempi, in www.questionegiustizia.it dal 15/05/2018, all’URL https://www.questionegiustizia.it/articolo/giustizia-predittiva-la-qualita-della-giustizia-in-due-tempi_15-05-2018.php (ultimo accesso 03/02/2021).
[16] Curzio, Il giudice e il precedente, cit., § 6.
[17] Sull’effettività della tutela del diritto, anche nel suo momento esecutivo, v. per tutti Cass., S.U., 14 dicembre 2020, n. 28387, nonché, se si vuole, De Stefano, Il giudice dell’esecuzione e la governance del processo esecutivo, in Riv. esecuzione forzata, 2020, 1, 1.
[18] Come, con la Sua autorevolezza, sottolinea Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, 2003, 111 ss., riflettendo su Cass., S.U., 2 agosto 1994 n. 7194; v. ora Id., L’invenzione del diritto, Roma-Bari, 2017.
[19] Come ricorda Curzio, op. ult. cit., § 5, questa evoluzione dei significati diviene ancora più accentuata in periodi come quello attuale in cui – come ha scritto Ulrich Beck nel suo libro rimasto incompiuto – il mondo non sta semplicemente cambiando, ma è nel mezzo di una “metamorfosi”, cioè di una trasformazione radicale in cui vecchie certezze della società moderna vengono meno e nasce qualcosa di radicalmente nuovo, che è necessario indagare puntando lo sguardo su ciò che sta emergendo dal vecchio, cercando d’intravedere, nel tumulto del presente, le strutture e le norme future (Beck, La metamorfosi del mondo, Bari-Roma, 2016).
[20] Curzio, op. loc. ult. cit., il quale sottolinea come, del resto, l’interpretazione sia sempre stata un’attività complessa, ma soggiunge che essa, oggi, lo è più che mai, per la iperproduzione normativa, per la pluralità delle fonti del diritto da coordinare e per la molteplicità dei giudici, nazionali, europei e internazionali, che vi partecipano, in un processo a più voci, a volte non collimanti, in interazione tra loro:
[21] Come si esprimeva – sottolinea Curzio, op. ult. cit., § 6 – l’art. 122 del primo ordinamento giudiziario dello Stato italiano (r.d. 6 dicembre 1865, n. 2626).
[22] Per Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Contratto e impresa, n. 2, 2017, p. 368, «la nomofilachia moderna non può essere che “orizzontale”, “circolare” e “cetuale”. Essa trova il naturale punto di sintesi nella Corte di cassazione, ma è promossa dai giudici di merito, i primi a confrontarsi con la fluidità sociale; e torna ai giudici di merito, che misurano gli effetti pratici della giurisprudenza di legittimità. Non le magistrature soltanto, bensì tutto il ‘ceto dei giuristi’ fa nomofilachia. Fondamentale è il ruolo critico della dottrina, alla quale compete l’analisi delle soluzioni e l’elaborazione delle alternative».
[23] Come nota Curzio, op. ult. cit., § 7, citando, rispettivamente: Bauman, Retropia, Bari-Roma, 2017, ovvero Boym, The Future of Nostalgia, New York, 2001; Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Milano, 2013.
[24] Ancora una volta, Curzio, op. loc. ult. cit.
[25] Costantino, Tutela dei diritti e regole del processo. Introduzione al XXXI Congresso della A.I.S.P.C., in Riv. dir. proc. 2017, 1418.
[26] Amoroso, Morelli, op. cit., pp. 472 ss.
[27] Per un inquadramento complessivo, v. diffusamente P. Curzio, Nomofilachia e autonomia collettiva, in Acierno, Curzio, Giusti (a cura di), op. cit., pp. 313 ss., oppure in Amoroso, Morelli, op. cit., pp. 476 ss.; per approfondimenti, v. Ianniruberto, L’accertamento pregiudiziale sull’interpretazione, validità ed efficacia dei contratti collettivi, in Ianniruberto, Morcavallo (a cura di), Il nuovo giudizio di cassazione, II ed., Milano, 2010, 111 ss., nonché Curzio, Il giudizio di cassazione, in Aa.Vv., Processo del lavoro, in Curzio, Di Paola e Romei (diretta da), Pratica professionale. Lavoro, Vol. VI, Milano, 2017, 270 ss., anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
[28] Artt. 1031-1 a 1031-7 n.c.p.c. francese; artt. L. 441-1 a L. 441-4 e R. 441-1 codice dell’organizzazione giudiziaria francese. Fonte:
Tra gli interpreti è corrente l’identificazione degli scopi dell’istituto in:
- permettere l’unificazione più rapida dell’interpretazione della regola – o delle regole – di diritto di nuova introduzione;
- prevenire il contenzioso, soprattutto delle impugnazioni, per l’immediata definizione della portata della legge da parte della giurisdizione di ultima istanza.
[29] Cass. 31 gennaio 2019, n. 2861 (Ord.); in senso analogo, v. Cass. 6 settembre 2016, n. 17460. È sottolineata la funzionalizzazione di tale modalità redazionale allo scopo di massimizzare, in una prospettiva di riduzione dei tempi di definizione delle controversie, l'utilizzazione di riflessioni e di schemi decisionali già compiuti per casi identici o caratterizzati dalla decisione di identiche questioni.
[30] Specificamente per i precedenti di legittimità Cass. 4 luglio 2012, n. 11199, sancisce che, nel giudizio di cassazione, l'adozione del modello della motivazione semplificata nella decisione dei ricorsi - sorto per esigenze organizzative di smaltimento dell'arretrato e di contenimento dei tempi di trattazione dei procedimenti civili entro termini di durata ragionevole, nel rispetto del principio di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. - si giustifica ove l'impugnazione proposta non solleciti l'esercizio della funzione nomofilattica, ponendo questioni la cui soluzione comporti l'applicazione di principi già affermati in precedenza dalla Corte e dai quali questa non intenda discostarsi; né l'utilizzazione della motivazione semplificata è preclusa dalla particolare ampiezza degli atti di parte, ove detta ampiezza - che, pur non trasgredendo alcuna prescrizione formale di ammissibilità, già collide con l'esigenza di chiarezza e sinteticità dettata dall'obiettivo di un processo celere - neppure sia proporzionale alla complessità giuridica o all'importanza economica delle fattispecie affrontate, e si risolva in un'inutile sovrabbondanza, connotata da assemblaggi e trascrizioni di atti e provvedimenti dei precedenti gradi del giudizio.
[31] Il riferimento è a Cass., S.U., 21 marzo 2017, n. 7155 in Giur. it., 2017, p. 1583 ss., con nota di Castagno, Le Sezioni unite (re)interpretano l'art. 360 bis, n. 1, c.p.c.; in Foro it., 2017, I, c. 1181 ss., con nota di Costantino, Note sulla ‘inammissibilità sopravvenuta di merito’: dal ricorso ‘antipatico’ al ricorso ‘sarchiapone’”. Tra gli interventi in materia si segnala anche Capasso, Il ricorso per cassazione avverso... la giurisprudenza. Contro uno stare decisis ‘all'italiana’”, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2019, 2, 627.
[32] Cass. 22 febbraio 2018, n. 4366 (ord.). Peraltro, Cass. 2 agosto 2017, n. 19190, esige un onere di confutazione solo degli orientamenti consolidati nella materia oggetto di controversia.
[33] Sull’autorevolezza del precedente incide anche il rapporto tra concisione e qualità della decisione. «La concisione della esposizione dei fatti rilevanti, delle norme e dei principi giuridici applicati, rende in modo più sicuro percepibili le ragioni di fondo della decisione. Non è solo questione di stile, è segno di un modo non esoterico ma democratico di esercizio della funzione»: così Vittoria, La motivazione della sentenza tra esigenze di celerità e giusto processo, in Acierno, Curzio, Giusti (a cura di), La Cassazione civile – lezioni dei Magistrati della Corte suprema italiana, II ed., Bari, 2015, 466). Più di recente, Cavallaro, Forma e contenuto della decisione, in Acierno, Curzio, Giusti (a cura di), La Cassazione civile – lezioni dei Magistrati della Corte suprema italiana, III ed., Bari, 2020, 452 ss.
[34] Molto interessante ed utile per riferimenti e spunti, quale primo approccio alla vasta letteratura, istituzionale e non, può rivelarsi il contributo di Condorelli, Pressacco, Overruling e prevedibilità della decisione, in Questione Giustizia on line, all'URL https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/overruling-e-prevedibilita-della-decisione_584.php (ultimo accesso 03/02/2021).
[35] Cass., Sez. U., 3 maggio 2019, n. 11747, in Giur. it., 2019, 11, 2420, con nota di Tedoldi, Responsabilità civile del giudice, clausola di salvaguardia e “patafisica” del diritto; oppure anche in Nuova giur. comm. 2019, 6, 1310, con nota di Amato, Quando l'errore condanna il giudice alla responsabilità per illecito civile. Nello stesso senso, Cass. 5 giugno 2020, n. 10832.
Prima dell’introduzione del vincolo “relativo” del precedente, la giurisprudenza affermava già che il giudice che intendesse discostarsi dagli orientamenti del giudice della nomofilachia dovesse motivare specificamente la propria scelta: cfr., in questo senso, Cass., sez. III pen., 23 febbraio 1994, n. 1999, in Foro it., Rep. 1995, voce Cassazione penale, n. 6; Cass. civ., sez. lav., 13 maggio 2003, n. 7355, in Foro it., 2004, I, 1237, e giurisprudenza ivi richiamata, cui adde Cass. civ., 3 dicembre 1983, n. 7248, in Foro it., Rep. 1983, voce Legge, n. 25.
La mancata motivazione della scelta di discostarsi da un orientamento consolidato è stata configurata come un’ipotesi di responsabilità civile del giudice: cfr., in questo senso, Cass., sez. I civ, 30 luglio 1999, n. 8260, in Foro it., 2000, I, 2671, con nota di Barone e Cass., sez. I civ., 20 settembre 2001, n. 11859, id., 2001, I, 3556, con nota di richiami. In argomento, cfr. anche Angeloni, Ancora sul precedente di Cassazione: questa volta sotto il profilo della responsabilità civile del magistrato che lo disattende senza indicare le ragioni della propria decisione, in Contratto e impresa, n. 1/2001, pp. 30 ss.
[36] Sulla prima parte: Cass., S.U., 18 giugno 2020, n. 11868. Sulla seconda, in motivazione, Cass., S.U., 9 aprile 2010, n. 8428.
[37] Cass. 10 febbraio 2020, n. 3096 (ord.), sul punto specifico avallata da Cass., S.U., 14 dicembre 2020, n. 28387; in questa, ribadita la piena discrezionalità della Corte nella loro valutazione, si ricordano i requisiti della richiesta del P.G. (Cass., S.U. 18 novembre 2016, n. 23469; Cass. S.U., 23 luglio 2019, n. 19889):
- l’avvenuta pronuncia di almeno uno specifico provvedimento giurisdizionale non impugnato o non ulteriormente impugnabile, tanto meno per Cassazione;
- un interesse della legge, quale interesse pubblico o trascendente quello delle parti della specifica controversia, all’affermazione di un principio di diritto per l’importanza di una sua enunciazione espressa;
- la reputata illegittimità del provvedimento stesso (o, in caso di pluralità di provvedimenti divergenti, di almeno uno di essi), quale indefettibile momento di collegamento ad una controversia concreta.
[38] Cass., S.U., 6 novembre 2014, n. 23675 (ord.), in Foro it., Rep. 2014, voce Procedimento civile, n. 146: nella specie, applicando l’enunciato principio, le Sezioni Unite hanno confermato l’indirizzo di cui alla propria sentenza n. 9535 del 2013, circa l’individuazione del momento di litispendenza nei procedimenti introdotti con citazione, malgrado la richiesta di chiarimenti avanzata da una Sezione semplice pochi mesi dopo quella pronuncia.
[39] Ricordato, da ultimo, in Lupo, La Cassazione civile vista dai suoi giudici, intervista di De Stefano, in www.giustiziainsieme.it dal 01/10/2020, all’URL https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1318-la-cassazione-civile-vista-dai-suoi-giudici-recensione-di-ernesto-lupo-a-la-cassazione-civile-lezioni-dei-magistrati-della-corte-suprema-italiana-terza-edizione-bari-2020-a-cura-di-acierno-curzio-e-giusti (ultimo accesso 03/02/2021).
[40] Negri, Con il «Progetto esecuzioni» priorità alle cause più rilevanti, in IlSole24Ore, 22 novembre 2018, 34. Ci si permette un richiamo a De Stefano, I primi due anni del “progetto esecuzioni” della terza sezione civile della Cassazione, in www.inexecutivis.it all'URL
https://www.inexecutivis.it/approfondimenti/2020/luglio/i-primi-due-anni-del-progetto-esecuzioni-della-terza-sezione-civile-della-cassazione/ (ultimo accesso 03/02/2021).
[41] Così già Cass. 17 ottobre 2018, n. 26049 (ord.), oppure Cass. 28 dicembre 2018, n. 33647 (ord.).
[42] Uno dei molti esempi di rinvio al precedente è dato da Cass. 28 agosto 2020, n. 18006 (ord.), in cui la motivazione si riduce a: “la tesi della ricorrente è infondata, alla stregua dei principi elaborati da Cass. 10/06/2020, n. 11116, alla cui motivazione va qui fatto integrale richiamo: …; nemmeno in base ai contrari argomenti sviluppati in ricorso può dirsi inficiata la validità delle conclusioni raggiunte dalla richiamata recentissima pronuncia e dell’esaustiva disamina della fattispecie sotto ogni suo aspetto condottavi, a cui basta allora in questa sede un integrale richiamo;”.
[43] Corte cost. 2 aprile 1970 n. 50; in tempi più recenti, quanto al vincolo previsto dal codice di rito penale, v. Corte cost. 17 novembre 2000, n. 501, in Giur. cost., 2000, 3870. Si segnala, sull’art. 384 c.p.c., anche Corte cost. 20 giugno 2013, n. 149 (ord.).
[44] In tali sensi: Amoroso, Morelli, op. cit., p. 468.
[45] In sostanza, in caso di ricorso per cassazione avverso la pronuncia del giudice di rinvio per violazione della precedente statuizione di annullamento, il sindacato della S.C. si risolve nel controllo dei poteri propri del suddetto giudice, poteri che, nell'ipotesi di rinvio per vizio di motivazione, si estendono non solo alla libera valutazione dei fatti già accertati, ma anche alla indagine su altri fatti, con il solo limite del divieto di fondare la decisione sugli stessi elementi già censurati del provvedimento impugnato e con la preclusione rispetto ai fatti che il principio di diritto eventualmente enunciato presuppone come pacifici o accertati definitivamente (tra le ultime, Cass., S.U., 3 settembre 2020, n. 18303).
[46] Corte cost. 16 marzo 2007, n. 78, in Foro it., 2009, I, 1000.
[47] Calamandrei, La Cassazione civile – vol. II, in Cappelletti (a cura di), Opere giuridiche, vol. VII, Napoli, 1976, 67.