ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio
di Giuseppe Melis
Sommario: 1. Premessa: una riforma “ordinamentale” con talune innovazioni processuali. - 2. I profili ordinamentali: un d.d.l. che aggraverà notevolmente la situazione della giustizia tributaria, in danno dei contribuenti. - 3. Problemi ordinamentali e giusto processo: il requisito dell’indipendenza ancora mancante. L’imprescindibile necessità di superare la collocazione dei giudici tributari nel MEF. - 4. Le nuove regole processuali e le rilevanti criticità del 363-bis, della prova testimoniale scritta e delle limitazioni all’appello delle sentenze del giudice monocratico. - 4.1. La prova testimoniale scritta. - 4.2. Il giudice monocratico e le limitazioni all’appello. - 5. L’Ufficio del massimario nazionale. - 6. L’ipotesi di una definizione deflativa del contenzioso pendente. - 7. Conclusioni.
1. Premessa: una riforma “ordinamentale” con talune innovazioni processuali
Dopo ampio travaglio, giunge finalmente all’attenzione del Parlamento il disegno di legge n. 2636 presentato dal Ministro dell’economia e delle finanze e dal Ministro della giustizia recante “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”.
È ben noto che tale ddl interviene in un contesto che vede numerosi disegni di legge da tempo giacenti in Parlamento sulla riforma del processo tributario, di cui ben sei presso il Senato ([1]), sicché qualsiasi riflessione sul ddl di iniziativa governativa deve necessariamente confrontarsi con questi ultimi.
Occupandosi questi disegni, alternativamente, (i) solo di questioni ordinamentali (ddl Vitali, Romeo, Fenu – cui nel frattempo si è aggiunto il ddl Misiani); (ii) solo di questioni processuali (ddl Caliendo e Marino); (iii) sia di questioni ordinamentali, che processuali (ddl Nannicini), una prima scelta politica doveva necessariamente riguardare la “latitudine” dell’intervento governativo. A tal fine, un intervento “ordinamentale” era imprescindibile e una meditata riforma dell’intero processo tributario, ordinamentale e processuale, sarebbe risultata incompatibile con i tempi di urgenza dell’intervento dettati dal PNRR, senza tuttavia precludere la possibilità di intervenire selettivamente almeno su taluni aspetti processuali ritenuti particolarmente critici dell’attuale impianto codicistico.
Ebbene, il ddl in esame si colloca esattamente in questa prospettiva, perché da un lato prevede un intervento “ordinamentale” finalizzato alla professionalizzazione del giudice di merito da assumere mediante concorso (nonché, in parte, mediante transito dalle attuali magistrature), ma dall’altro lato si occupa anche di taluni profili processuali, e in particolare: (i) introducendo il ricorso nell’interesse della legge in materia tributaria (art. 363-bis, c.p.c.); (ii) introducendo il rinvio pregiudiziale in Cassazione (nuovo art. 62-ter, d.lgs. n. 546/1992); (iii) introducendo la “testimonianza scritta”; (iv) prevedendo un giudice monocratico per le controversie di valore non superiore a tremila euro, con limitazioni alla possibilità di impugnazione in appello delle sentenze da esso pronunciate; (v) prevedendo la proposta di conciliazione della lite da parte dei giudici tributari.
Scopo dichiarato della riforma, quale risulta dalla Relazione illustrativa, è la «razionalizzazione del sistema della giustizia tributaria attraverso la professionalizzazione del giudice di merito», nonché di «contribuire alla soluzione – durevole nel tempo – della crisi della funzione nomofilattica della Suprema corte di cassazione nella materia tributaria» rendendo «più tempestivo l’intervento nomofilattico».
Il PNRR parrebbe in realtà preoccuparsi esclusivamente dei “tempi” della giustizia tributaria, identificando il compito della Commissione interministeriale originariamente nominata in quello di «elaborare proposte di interventi organizzativi e normativi per deflazionare e ridurre i tempi di definizione del contenzioso tributario».
Il disegno di legge all’esame del Senato, così come quasi tutti quelli di iniziativa parlamentare, hanno invece adottato una visione più ampia della questione che va ben oltre i “tempi” della giustizia tributaria, spingendosi in direzione di una vera e propria riforma ordinamentale; ma altrettanto è accaduto con la prima Commissione interministeriale (c.d “Commissione della Cananea”), pur senza giungere quest’ultima, come noto, ad una proposta unitaria circa gli interventi ordinamentali e processuali necessari.
2. I profili ordinamentali: un d.d.l. che aggraverà notevolmente la situazione della giustizia tributaria, in danno dei contribuenti
Il disegno “ordinamentale” del ddl in commento si articola sui seguenti punti.
2.1. In primo luogo, la possibilità di interpello per un massimo di cento magistrati ordinari, amministrativi, contabili o militari, non collocati in quiescenza, presenti alla data di entrata in vigore della legge nel ruolo unico dei giudici tributari da almeno cinque anni e non aventi età superiore a 60 anni, di cui al massimo cinquanta unità provenienti dalla magistratura ordinaria (art. 1, co. 4-7, d.d.l.).
Si tratta dunque di magistrati attualmente “in ruolo” nel loro ordinamento di appartenenza, che svolgono già funzione di giudice tributario, che potranno optare per il transito (che nel ddl viene indicato come “definitivo”) nella nuova magistratura tributaria «previa individuazione e pubblicazione dell’elenco delle sedi giudiziarie con posti vacanti, prioritariamente presso le commissioni tributarie regionali e di secondo grado».
Non è noto il numero dei magistrati di ruolo con età inferiore a 60 anni, vale a dire nati dal 1963 in poi. Secondo la Tavola n. 2 della Relazione tecnica, nel 2033 – vale a dire, l’anno dei primi “pensionamenti” per i nati dopo il 1963 – residuerebbero 877 magistrati sugli attuali 2.608, dunque circa un terzo. Se si considera che i togati sono poco più della metà dei giudici attualmente in servizio, si potrebbe stimare che i potenziali interessati da questa opzione corrispondono a circa 500 unità. La Relazione tecnica stima, invece, in 742 unità quelle che potrebbero esercitare l’opzione.
Quali che siano i numeri esatti, da un quinto ad un settimo degli attuali togati under 60, dovrebbero decidere di “cambiare vita”, rinunciando (i) alla progressione di carriera nella propria magistratura di appartenenza, in cui sono presumibilmente ben avviati; (ii) al doppio emolumento attualmente percepito (sia come giudice di ruolo nella magistratura di appartenenza, sia come giudice tributario) – mediamente pari a 20.529 euro annui (pag. 3 Relazione tecnica); (iii) alla possibilità di diventare giudice di Cassazione, che viene preclusa ai nuovi giudici tributari, salva la possibilità di futura riammissione nella giustizia ordinaria per come prevista dall’art. 211 del R.D. n. 12 del 1941 (“Legge di ordinamento giudiziario”), ancorché in apparente contrasto con l’espressione “definitivo transito” utilizzata nel ddl in commento; (iv) agli incarichi “extra” eventualmente connessi alla magistratura di appartenenza; infine, (v) dovendo essere assegnato sul territorio nazionale secondo necessità.
Tra l’altro, ai giudici ordinari, che rappresentano ca. l’86% dei giudici togati in servizio, sarebbero destinati al massimo 50 posti su 100; mentre ai restanti giudici (amministrativi, contabili, militari), che rappresentano ca. il 14% dei giudici togati in servizio, sarebbero destinati i restanti 50 posti. Questi ultimi, tuttavia, anche volendo partire dal dato della Relazione tecnica di 742 giudici togati complessivamente interessati dal possibile transito, sarebbero poco più di 100, il che significa che la metà di essi dovrebbe esercitare l’opzione, ciò che è impensabile, trattandosi in buona parte di giudici del Tar, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Sicché questi 50 posti andrebbero quasi interamente deserti.
Inoltre, questi giudici sarebbero indirizzati “prioritariamente” in CTR, mentre nell’ottica dell’obiettivo di deflazionare il giudizio in Cassazione, sarebbe auspicabile, come già rilevato da una delle due “anime” della Commissione Della Cananea, che essi venissero destinati “esclusivamente” alle CTR. È noto, infatti, agli addetti ai lavori, che tra i principali vizi delle sentenze di secondo grado vi sono le omesse pronunce su motivi di ricorso e le motivazioni omesse o apparenti, sicché una maggiore attenzione già a tali aspetti contribuirebbe indubbiamente a ridurre il contenzioso di legittimità.
Non sono infine previsti meccanismi che consentano di “reintegrare” tale “quota-100”.
In conclusione, il raggiungimento dell’obiettivo del transito di ca. 100 magistrati dalle attuali magistrature alla magistratura tributaria è tutt’altro che scontato, a meno che non si modifichino sensibilmente i parametri di età (attualmente, massimo 60 anni) e la quota di magistrati ordinari (attualmente, massimo 50 unità), i quali rappresentano, tra l’altro, una quota molto elevata dei magistrati tributari togati attualmente in servizio (oltre l’80%).
La loro “destinazione” dovrebbe inoltre avvenire esclusivamente (e non “prioritariamente”) a favore delle CTR.
Infine, dovrebbe essere prevista l’integrazione periodica di tale “quota” ove il relativo numero scenda al di sotto delle cento unità.
2.2. In secondo luogo, l’assunzione dei nuovi magistrati “tributari” da parte del Ministero dell’economia e delle finanze mediante concorso pubblico per soli esami, basato su due prove scritte teoriche (diritto tributario e diritto civile/commerciale), una prova scritta pratica (redazione di una sentenza tributaria) e una prova orale su tredici materie (considerando come un’unica materia il diritto tributario e il diritto processuale tributario) (art. 1, co. 1, lett. c), ddl, che introduce un nuovo art. art. 4, co. 4, al d.lgs. n. 545/1992).
Si osserva che, rispetto al concorso in magistratura ordinaria, mancano:
- gli elementi di diritto romano, certamente di scarsa utilità, ma la cui massima espressione tributaria rimane pur sempre il noto responso di Modestino contenuto nel Digesto secondo cui «non puto delinquere eum, qui in dubiis quaestionibus contra fiscum facile responderit» (alias, “in dubio contra Fiscum”!);
- la procedura penale, che ha rilevanza tributaria almeno quanto il diritto penale, e sicuramente la ha più del “diritto internazionale privato” previsto quale materia obbligatoria, dal momento che il giudice tributario non applica mai … il diritto tributario straniero;
- il diritto del lavoro e della previdenza sociale, assenza che pure non si giustifica facilmente, considerato il forte legame con la materia tributaria: solo ad esempio, si pensi al concetto di “alle dipendenze e sotto la direzione” di cui all’art. 49, TUIR; al “ramo di azienda” di cui all’art. 2112 c.c., fatto proprio dalla Cassazione in materia tributaria; al principio generale del (tendenziale) allineamento tra la determinazione della base imponibile tributaria e quella previdenziale di cui al d.lgs. n. 314/1997 attuativo della delega di riforma della fiscalità del lavoro dipendente; a nulla dunque rileva che la materia previdenziale, peraltro assai “vicina” al tributario (per taluni, si tratterebbe come noto di vere e proprie imposte), sia devoluta al giudice del lavoro;
- gli elementi di “ordinamento giudiziario”, eppure l’ordinamento è qui non meno importante, tant’è che gli si è dedicata la Riforma che commentiamo e che «Ai magistrati tributari (…) si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nel titolo I, capo II, dell’ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1041, n. 12» (art. 1, co. 1, lett. i), ddl, che modifica l’art. 8, co. 1, d.lgs. n. 545/1992).
Sono invece stati previsti, in aggiunta alle materie del concorso in magistratura ordinaria, gli «elementi di contabilità aziendale e bilancio», materia che tuttavia rappresenta una parte troppo importante della formazione di un giudice tributario – si pensi, sempre a titolo di esempio, al principio di derivazione rafforzata di cui all’art. 83, TUIR, che richiede una solida conoscenza dei principi contabili nazionali ed internazionali, e più in generale a tutta la materia del reddito di impresa – per essere relegata alla conoscenza di meri “elementi”.
Del tutto corretta è invece la mancata previsione di “scienza delle finanze”, che è una materia ormai di tipo squisitamente economico che nulla ha a che vedere con il diritto tributario (anzi, con il diritto in generale).
La selezione degli argomenti di esame denota dunque una conoscenza non sufficientemente approfondita della materia tributaria da parte degli estensori del provvedimento, includendo materie inutili ed escludendo materie non meno importanti di quelle invece incluse.
2.3. In terzo luogo, lo svolgimento del concorso per i nuovi magistrati tributari con cadenza annua, a partire dal 2024 e sino al 2030, con 68 posti annui, per complessive 476 unità.
Per partecipare al concorso, non sono previsti requisiti “particolari”, salvo la laurea in giurisprudenza (art. 1, co. 1, lett. d), ddl, che introduce l’art. 4-bis al d.lgs. n. 545/1992). Nel concorso in magistratura, invece, sono previsti specifici pre-requisiti per poter accedere al concorso (d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160, come modificato dalla L. 30 luglio 2007, n. 111), anche se in prospettiva ne è prevista una revisione.
È prevista una Commissione di dieci persone, nonché un supplente per ciascuno di essi (art. 1, co. 1, lett. d), ddl, che introduce l’art. 4-quater, co. 2, al d.lgs. n. 545/1992). Nell’ l’ultimo concorso in magistratura bandito con d.m. 91 del 19 novembre 2019, è stata prevista una Commissione di 28 componenti, divisa in due sottocommissioni ciascuna di due collegi. Qui, invece, sono previste due sottocommissioni, ma solo per l’esame orale, ove gli ammessi superino il numero di 300. Diversamente dal concorso in magistratura, è prevista la possibilità da parte dei professori universitari di chiedere l’aspettativa, che rappresenta tuttavia un’ipotesi alquanto remota nella pratica.
Ora, vale la pena di svolgere qualche previsione concreta circa quello che presumibilmente sarà lo svolgimento di questi concorsi, prendendo quale esempio proprio l’ultimo concorso in magistratura bandito con d.m. 91 del 19 novembre 2019, di cui si sono da poco concluse le prove scritte.
Le prove scritte hanno visto la partecipazione di 5.827 candidati, di cui 3.797 hanno consegnato. Per questa tornata concorsuale, i compiti, in via eccezionale, sono stati due anziché tre, per un totale di 7.594 compiti. Le sottocommissioni istituite sono state due, ciascuna con due collegi, ciascuno dunque assegnatario di ca. 1.900 compiti. I componenti non hanno partecipato in modo stabile a ciascuna sottocommissione, ma “a rotazione”. I compiti corretti per ciascuna seduta, mediamente quattro a settimana per ciascuna sottocommissione (3 giornate piene e due mezze giornate), sono stati tra i 20 e i 30. Ci sono voluti così ca. 10 mesi per la correzione degli scritti. Gli ammessi all’orale sono stati 220 su 3.797, a fronte di 310 posti disponibili.
Ebbene, considerato che le materie del concorso per la magistratura tributaria sono, come visto, sostanzialmente le medesime del concorso in magistratura, è da attendersi che i 5.827 candidati, cui nel frattempo si saranno aggiunti altri aspiranti in numero certamente superiore ai 220 ammessi all’orale (salve ulteriori sfrondature all’esito dell’orale), si presenteranno tutti al concorso per la magistratura tributaria. A questi (almeno) 6.000 candidati, andranno aggiunti tutti gli aspiranti al concorso in magistratura che non vi abbiano potuto partecipare in quanto privi dei relativi requisiti di ammissione, come detto non previsti per il concorso per la magistratura tributaria. E’ inoltre da attendersi una partecipazione non indifferente tra dipendenti dell’Amministrazione finanziaria, militari della Guardia di finanza e liberi professionisti che si occupano di diritto tributario.
Anche a voler essere ottimisti, immaginando che a consegnare gli scritti siano ca. 4.000 candidati, si tratterebbe di correggere 12.000 compiti. Dividendo i 12.000 compiti per 25 compiti corretti a seduta dall’unica Commissione, occorrerebbero ca. 480 sedute. Anche immaginando una Commissione votata al sacrificio degna del premio istituito in onore di Stakanov, occorrerebbero pertanto tra i tre e i quattro anni per la sola correzione degli scritti, e almeno un altro anno per gli esami orali, per un totale di almeno 5 anni per il primo concorso, che si chiuderebbe nel 2029.
Nel frattempo, cosa accadrebbe?
Ce lo spiega in modo impietoso la Tavola n. 2 della Relazione tecnica, dove in corrispondenza dell’anno 2029, i giudici in organico – con l’auspicio che nessuno di loro sia nel frattempo cessato dall’incarico per motivi diversi da quello meramente anagrafico – rimarrebbero 1.282, a fronte dei 2.608 attualmente in organico.
E ciò anche per effetto della riduzione da 75 a 70 anni dell’età massima per l’esercizio della funzione di giudice tributario (art. 1, co. 1, lett. l), ddl, che sostituisce all’art. 11, co. 2, d.lgs. n. 545/1992, la parola “settantacinquesimo” con “settantesimo”).
In altri termini, l’attuale organico di giudici tributari – salvo i cento che abbiano esercitato l’opzione per il transito alla giustizia tributaria, che vedrebbero un impegno a tempo pieno – sarebbe dimezzato entro il 2029, comunque riducendosi già dal 1.1.2024 a 1.788 unità.
In sintesi, dunque, l’attuale strutturazione delle modalità concorsuali, unitamente alla riduzione dell’età da 75 a 70 anni, determinerebbe dal 2024 una riduzione del 30% degli attuali organici e, dal 2029, il relativo dimezzamento.
Ciò con effetti dirompenti sui tempi dell’attuale giudizio di merito, che dagli attuali tre anni medi potrebbe passare nel breve periodo a cinque-sei anni medi.
Occorre pertanto ripensare completamente sia le modalità concorsuali, sia l’età di cessazione del servizio per i giudici attualmente in carica, ottenendosi altrimenti un effetto di allungamento dei tempi processuali che rappresenta l’opposto degli obiettivi di velocizzazione dei giudizi che si pone il PNRR.
2.4. In quarto luogo, l’assenza del tirocinio per i nuovi magistrati tributari.
I “nuovi” magistrati tributari entrerebbero direttamente nelle loro funzioni, senza alcun periodo di formazione adeguato e “vigilato”.
In altri termini, la funzione decisoria sarebbe immediatamente assegnata a soggetti che, per il semplice superamento dell’esame scritto ed orale con la sufficienza, si troverebbero a decidere controversie spesso di grande rilevanza.
Ciò trova conferma nella Relazione tecnica, laddove si precisa che «Rispetto alla tabella stipendiale dei magistrati ordinari, non è stato considerato l’onere di spesa relativa al giudice in tirocinio per i primi 18 mesi, dal momento che tale profilo non è stato previsto per i nuovi giudici tributari».
Deve dunque essere ripreso, opportunamente adattandolo, quanto previsto dall’art. 6, co. 6, del ddl Fenu, laddove si dispone che « 6.Il magistrato tributario onorario vincitore del concorso, prima di essere immesso nelle funzioni nella sede di assegnazione e inserito nel ruolo dei magistrati tributari onorari, deve frequentare un corso di forma zione della durata di dodici mesi, con esame finale, presso la Scuola superiore di forma zione tributaria, nel corso del quale egli svolge un semestre di tirocinio presso un tribunale tributario. Le funzioni di magistrato tributario onorario sono conferite soltanto a condizione dell’esito positivo dell’esame finale e del conseguimento di valutazione positiva del presidente del tribunale tributario nel quale il candidato ha svolto il tirocinio; in caso di mancato superamento dell’esame finale o di valutazione non positiva, la no mina è revocata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa delibera zione del Consiglio di presidenza, e si pro cede alla nomina del primo degli idonei nella graduatoria del concorso».
2.5. In quinto luogo, la permanenza dei magistrati, togati e non, attualmente presenti nel “ruolo unico” sino al raggiungimento del 70° anno di età.
Su questo aspetto, quello della sorte degli attuali giudici tributari, togati e non, i ddl di iniziativa parlamentare si dividono tra chi vorrebbe fare tabula rasa e chi invece ritiene debbano salvaguardarsi le professionalità esistenti, con modalità più o meno inclusive, sia pure inquadrandoli nella nuova “cornice”.
Per esempio, i ddl Vitali e Romeo escludono ogni partecipazione dei togati mentre per i non togati attribuiscono alla precedente partecipazione alle commissioni tributarie solo natura di titolo preferenziale in caso di parità di votazione nel concorso pubblico uguale per tutti (rispettivamente, art. 4, co. 6 e art. 5, co. 6); il ddl Nannicini prevede per i togati l’opzione per il transito alla nuova magistratura, mentre per i non togati prevede il loro inserimento nell’ambito dei magistrati onorari attivabili nel caso di mancata copertura dell’organico, purché in servizio per almeno dieci anni presso le commissioni tributarie (art. 112); il ddl Fenu prevede invece l’esatto contrario del ddl Nannicini, disponendo che in sede di prima costituzione dei ruoli dei magistrati tributari ed onorari, il Consiglio di presidenza procede al riassorbimento dei giudici in servizio presso le commissioni tributarie mediante selezione sulla base di una serie di titoli e che solo nel caso di vacanza dei posti si procede a concorso (art. 35); il ddl Misiani prevede l’opzione per i giudici togati per il transito alla magistratura tributaria, mentre per i non togati prevede da lato che in sede di prima applicazione un numero non superiore al 25 per cento dei posti a concorso sia riservato ai giudici delle commissioni tributarie provinciali e regionali in servizio da almeno venti anni e che siano iscritti negli albi dei dottori commercialisti o degli avvocati, con una selezione per soli titoli (art. 6) e, dall’altro, che tutti i non togati in servizio possano scegliere di essere inseriti nel ruolo di magistrati tributari onorari (art. 7).
Chi scrive ritiene che il mantenimento delle attuali professionalità sia imprescindibile, sicché la scelta del ddl governativo appare sotto questo profilo condivisibile. Del resto, i numeri impressionanti delle bocciature nel concorso in magistratura del 2019 rappresentano la prova più evidente dell’impossibilità di reclutare, da un giorno all’altro, un “plotone” di giudici di ruolo super-qualificato che possano garantire con certezza un esito qualitativo superiore a quello attuale.
2.6. In sesto luogo, una riserva del 15% di posti per i primi tre bandi di concorso, a favore dei giudici tributari presenti nel Ruolo unico diversi dai giudici ordinari, amministrativi, contabili o militari, purché nel ruolo unico da almeno sei anni e con laurea in giurisprudenza o in economia e commercio (art. 1, co. 3, d.d.l.).
I giudici non togati vengono dunque “ripescati” nel loro attuale ruolo, ma per essi viene prevista la possibilità di disporre di posti “riservati” nel concorso.
Ora, dalla già richiamata Tavola 2 della Relazione tecnica si evince come i giudici tributari attualmente in servizio di età inferiore a 50 anni (nati dal 1972 in avanti) siano appena 182 su 2.608. Il più giovane ha 39 anni, l’età media è di 62 anni.
Ora, si può mai ritenere verosimile che persone di questa età, di regola già con un altro lavoro – vi sono, va detto, anche giudici non togati che si dedicano esclusivamente all’attività di giudice tributario – si rimettano sui libri universitari a studiare tredici materie alla stregua di un ventenne che studia per il concorso in magistratura?
È evidente che si tratta di una ipotesi che definire “fantascientifica” è un lieve eufemismo.
Soprattutto, poi, se l’obiettivo è di avere intanto subito un “nocciolo duro” di giudici tributari “a tempo pieno”, questo obiettivo deve essere raggiunto non solo con il transito dei magistrati appartenenti ad altre giurisdizioni, bensì valorizzando quelle professionalità non togate di lungo corso che abbiano interesse a diventare giudici tributari a tempo pieno (non svolgendo, magari, già adesso altre attività professionali).
Tale scelta è condivisa da autorevole dottrina, la quale ha rilevato che «sul reclutamento, è da notare che per i giudici tributari ora in servizio, che non abbiano qualifica di magistrati civili, amministrativi e contabili, si è scelta la strada della riserva di posti (15%) anziché quella del concorso riservato o del transito su opzione (consentito invece ai magistrati). La scelta lascia perplessi, perché sottoporre al concorso previsto per i nuovi ingressi chi ha prestato per anni servizio nelle attuali commissioni suona come una paradossale ammissione di non adeguatezza da parte di quello Stato che pure si è giovato del loro servizio per anni» ([2]).
Sotto questo profilo, deve essere seriamente presa in considerazione l’ipotesi contenuta nel ddl Misiani laddove, per i giudici onorari di lungo servizio (nel ddl Misiani, ipotizzati in 20 anni di servizio), prevede una valutazione “per soli titoli”.
Poiché, infatti, nessuno dei giudici – togati e non – attualmente in servizio “nasce” come giudice tributario e tutti hanno semplicemente una esperienza della materia acquisita “sul campo”, l’esercizio di tale funzione per un tempo assai significativo costituisce un proxy estremamente significativo della loro professionalità e conoscenza della materia.
2.7. In settimo luogo, un numero di magistrati tributari “a regime” di 576 unità (100 che abbiano “optato” + 476 vincitori di concorso).
I numeri di organico non convincono, come si spiegherà di seguito.
I dati numerici si ricavano dalla pagina 5 della Relazione tecnica.
Si ipotizzano 215.000 definizioni annue, basate sulla media 2017-2018-2019.
Si ricorda che nel 2019 sono stati presentati 189.537 ricorsi tributari, di cui 142.522 in CTP e 47.015 in CTR, mentre ne sono stati decisi 228.147 (227.884 secondo quanto indicato nella Tavola 2). Nelle CTP sono stati decisi ca. 170.000 ricorsi (a fronte di ca. 190.000 pendenze), mentre nelle CTR ca. 60.000 ricorsi (a fronte di ca. 137.000 pendenze). Ciò significa che i tempi di decisione in primo grado sono nell’ordine di un anno; quanto alle CTR, i tempi medi di decisione sono di un paio di anni. In tutto, tre anni. Sussistono, tuttavia, differenze anche importanti tra i tempi effettivi delle diverse commissioni.
Ebbene, secondo le stime ministeriali, per decidere queste 215.000 controversie sarebbero sufficienti 576 giudici, di cui 450 presso le CTP e 126 presso le CTR.
Quindi, ciascun giudice deciderebbe annualmente in CTP 304 sentenze (137.000/450) e in CTR 476 sentenze (60.000/126). La relazione tecnica indica una media di 374 sentenze l’anno.
Si tratta di numeri irrealistici, e ciò anche a voler considerare il blocco all’appello delle controversie di valore a 3.000 euro – su cui ci si soffermerà oltre per evidenziarne i profili di incostituzionalità – che rappresentano in CTR (dati IV trimestre 2019), il 29% delle controversie, che farebbe scendere da 60.000 a 42.000 le controversie, con un carico medio per giudice (126) comunque pari a n. 333 sentenze.
Ma soprattutto, se si “riproporziona” la “produttività” in relazione al tempo medio attualmente dedicato da ciascun magistrato “onorario”, al tempo che dovrebbe dedicare alla funzione un magistrato a tempo pieno – utilizzando un coefficiente pari a 4,5 (pag. 5 Relazione tecnica) – si sta partendo dal presupposto che il tempo per “singola sentenza” dei nuovi giudici dovrebbe essere lo stesso dei “vecchi” giudici , in piena antitesi con l’esigenza di qualità propria della scelta del “tempo pieno”, vale a dire la possibilità di dedicare un tempo maggiore ad ogni singola sentenza.
Il numero di cause che ciascun magistrato tributario dovrebbe decidere annualmente è dunque abnorme e comunque muove dal presupposto che a ciascuna controversia dovrebbe essere dedicato lo stesso tempo che vi è attualmente dedicato dai magistrati onorari attualmente in servizio, ciò che rappresenta la negazione logica dell’incremento qualitativo che si vorrebbe perseguire.
Non solo il numero delle cause che ciascun magistrato tributario dovrebbe decidere è “in sé” abnorme, ma i calcoli ministeriali appaiono discutibili sotto due ulteriori profili.
Il primo profilo riguarda la circostanza che il ddl “complica” il processo tributario, perché introduce la prova testimoniale scritta, la quale implica una ulteriore attività processuale oggi non prevista, con conseguente aumento del tempo da dedicare ai processi che ne saranno interessati.
Il secondo profilo, che è quello più grave, è che le “stime” non considerano le istanze di sospensiva attualmente non discusse, come se fosse normale che nel processo “riformato” esse possano continuare a … non essere discusse!
A pagina 140 delle “Appendici statistiche e guida alla Relazione sul monitoraggio dello stato del contenzioso tributario e sull’attività delle commissioni tributarie”, emerge infatti come a fronte dei 189.000 ricorsi tributari pervenuti nel 2019, ca. 70.000 contenevano una istanza di sospensiva (di cui ca. 63.000 in CTP – 44,2% - e ca. 7.000 in CTR – 14,2%).
Sempre dai dati indicati, emerge come in CTP sia stato deciso ca. 1/3 delle sospensive, mentre in CTR sia stato deciso ca. 1/5 delle sospensive presentate.
Ora, che le sospensive debbano sempre essere discusse è fuor di dubbio, perché i poteri della riscossione “privilegiati” di cui gode il Fisco, unitamente all’ampliamento degli atti “impoesattivi” che non richiedono neanche più la formazione del ruolo e la notifica della cartella di pagamento per procedere ad esecuzione, rischiano spesso di determinare conseguenze esiziali per le imprese e per i cittadini in generale.
Pertanto, i carichi – ferma restando l’abnormità “di per sé” rilevata al punto precedente – andrebbero così rideterminati per tenere conto della discussione di tutte le sospensive presentate:
CTP 160.000 * (1 + 44,2/100*0,67) (2/3 sospensive non decise) = 207.382
CTR 55.000 * (1 + 14,2/100*0,8) (4/5 sospensive non decise) = 61.248.
Da qui la riparametrazione degli organici:
CTP: 450 unità/160.000*207.382 = 583 giudici
CTR: 126 unità/55.000*61.248 = 140 giudici
Per un totale di 723 giudici anziché i 576 previsti.
In sintesi, i numeri dell’organico previsti non tengono conto dell’aumento di complessità del processo, ma soprattutto non tengono conto della necessità di dover discutere tutte le sospensive presentate, ciò che da solo determinerebbe un incremento dell’organico da 576 a 723 giudici.
2.8. Infine, il mancato accesso dei nuovi giudici tributari alla Corte di cassazione.
Non ha trovato accoglimento la proposta di una delle due diverse “anime” della Commissione della Cananea, volta ad istituire una sezione specializzata in Cassazione cui assegnare giudici tributari provenienti dal grado di appello, previa valutazione di idoneità del CSM, essendo prevalsa la tesi secondo cui dall’art. 106 Cost. emerga come l’unica ipotesi di integrazione dei collegi di Cassazione con dei giudici che non facciano parte della giurisdizione ordinaria sia quella della nomina per “meriti insigni”.
Non si intende qui addentrarsi nei complessi e controversi profili di costituzionalità di una simile opzione ([3]).
E’ chiaro, tuttavia, che “a regime”, una volta cioè che saranno cessati dal servizio gli attuali giudici togati “ordinari” delle Commissioni tributarie, avremo una magistratura di legittimità che mai si sarà occupata, nella propria carriera professionale, della materia tributaria.
Si tratta in ogni caso di un problema che non richiede una soluzione urgente, considerati i tempi che saranno necessari per formare la nuova magistratura tributaria “per concorso” e gli anni di carriera che i nuovi magistrati tributari dovranno maturare per un futuro ipotetico accesso al giudizio di legittimità.
2.9. In conclusione, per quanto attiene alla parte “ordinamentale”, il ddl intende attuare una “sintesi” tra le due opposte posizioni emerse in seno alla Commissione della Cananea, la prima basata sul rafforzamento della giurisdizione così come è, ma con l’innesto di magistrati togati, già adesso giudici tributari, “a tempo pieno” (che si intendeva tuttavia in tale sede esclusivamente destinare alle sole CTR, per “rafforzare” le sentenze e così limitare le impugnazioni in Cassazione); la seconda basata sull’assunzione di un giudice a tempo pieno assunto per concorso pubblico.
La “sintesi”, tuttavia, nei termini proposti condurrebbe al sostanziale annientamento già nel breve periodo dell’attuale giurisdizione tributaria, con danni gravi ed irreparabili al suo funzionamento e, soprattutto, ai suoi fruitori, che sono – lo ricordiamo – in primo luogo i contribuenti, che vedrebbero raddoppiati i tempi processuali di merito.
A fronte dell’uscita di migliaia di giudici tributari, entrerebbe infatti una “manciata” di giudici professionali “di primo pelo” in un arco temporale reso lunghissimo da concorsi destinati a concludersi in tempi “biblici”, in un numero peraltro ampiamente sottostimato rispetto alle reali esigenze di un processo reso più complesso dall’introduzione della prova testimoniale scritta e che richiede di discutere tutte le istanze di sospensiva presentate.
Il giudizio sulla parte ordinamentale è pertanto fortemente negativo, soprattutto perché rischia di compromettere già nel breve termine il regolare funzionamento dei processi tributari.
3. Problemi ordinamentali e giusto processo: il requisito dell’indipendenza ancora mancante. L’imprescindibile necessità di superare la collocazione dei giudici tributari nel MEF
Tra le questioni di carattere ordinamentale di maggior importanza, merita una riflessione approfondita quella relativa al requisito dell’indipendenza, posto che tutti i disegni di legge (solo o anche) ordinamentali in discussione propongono di porre i nuovi giudici tributari sotto la Presidenza del Consiglio dei ministri.
In particolare, il ddl Vitali afferma che «la gestione e l’organizzazione non devono essere più affidate al Ministero del l’economia e delle finanze, ma alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Per attuare l’effettiva terzietà dei giudici tributari ai sensi dell’articolo 111, secondo comma, della Costituzione è urgente sottrarre al Ministero dell’economia e delle finanze la gestione e l’organizzazione delle commissioni tributarie, in quanto parte interessata del contenzioso, e affidarla a un organismo terzo, come per esempio la Presidenza del Consiglio dei ministri, perché la giustizia tributaria, oltre che «essere», deve necessariamente «apparire» neutrale»; il d.d.l. Nannicini precisa che «Il punto fondamentale (articolo 14) è costituito dall’esclusione del Ministero dell’economia e delle finanze dalle competenze in materia di organizzazione e vigilanza della giurisdizione tributaria, che vengono accentrate in capo alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Si vuole così evitare che le commissioni tributarie e i relativi uffici dipendano in qualsivoglia modo dallo stesso ramo della pubblica amministrazione che è per lo più parte nei processi tributari. Alla stessa Presidenza è trasferito il compito di redigere e presentare la relazione annuale al Parlamento»; il d.d.l. Fenu afferma che «Tale previsione completa il percorso di adeguamento della giurisdizione tributaria ai principi costituzionali del giusto processo, assicurando la terzietà e l’indipendenza dell’organo giudicante»; il ddl Romeo afferma che «È necessario, quindi, svincolare dal Ministero dell’economia e delle finanze la gestione e l’organizzazione delle commissioni tributarie, in quanto esso stesso parte interessata nel contenzioso, affidandole ad un « organismo » terzo, quale per eccellenza la Presidenza del Consiglio dei ministri, affinché la giustizia tributaria sia anche nella sostanza – e non solo nella forma – indipendente e autonoma»; il ddl Misiani precisa, infine, che «Al fine di garantire l'indipendenza del giudice tributario, non soltanto sostanziale ma anche nella sua accezione, parimenti rilevante sul piano costituzionale, della sua «apparenza», vale a dire nella percezione diffusa, si ritiene irrinunciabile distaccare l'organizzazione e la gestione dell'apparato giurisdizionale tributario dal Ministero dell'economia e delle finanze, che è organicamente legato anche all'Amministrazione finanziaria, la quale però è una delle parti in causa nei contenziosi fiscali. A tal fine si è ritenuto di trasferire le relative attribuzioni alla Presidenza del Consiglio dei ministri».
La Commissione interministeriale presieduta dal prof. della Cananea aveva ritenuto che «le argomentazioni addotte a sostegno della collocazione dei giudici tributari presso il Ministero della giustizia o la Presidenza del Consiglio dei Ministri (…) non appaiono conclusive», ma non ne ha illustrato il motivo.
Nell’ottica del “giusto processo” di fonte CEDU, la posizione dei ddl di iniziativa parlamentare trova pieno conforto nella c.d. “apparenza di indipendenza”, con la quale si ha riguardo al generale inquadramento di una giurisdizione nel contesto di un dato ordinamento.
Tale profilo, è in particolare declinabile nelle seguenti quattro sub-componenti: (i) l’inquadramento della giurisdizione tributaria all’interno di uno specifico ministero; (ii) l’inquadramento del personale di segreteria; (iii) l’autonomia della gestione finanziaria; (iv) il trattamento economico.
Ebbene, in questo contesto il ddl di iniziativa governativa non solo ignora la questione, come se non esistesse, ma persino la aggrava.
I nuovi giudici tributari diventano, infatti, direttamente dipendenti del MEF, il quale è autorizzato ad assumere i 100 magistrati “per transito” e gli altri 476 (68 x 7) giudici tributari per concorso (art. 1, co. 9, d.d.l.).
Tale e quale permarrà l’attuale inquadramento del personale di segreteria, il quale, ai sensi dell’art. 32, D. Lgs. n. 545/1992, è costituito dai dipendenti del ministero dell’Economia, anomalia assoluta se paragonata al personale della giustizia ordinaria o amministrativa.
La qual cosa, peraltro, ha un automatico impatto anche sul successivo profilo relativo all’autonomia della gestione finanziaria, in quanto è agli stessi uffici che, come detto, sono organicamente alle dipendenze del MEF, che spettano i compiti di gestione amministrativo-contabile delle attuali Commissioni Tributarie, con ciò minandosi in radice quella “apparenza di indipendenza” richiesta dalla Corte EDU.
Anche sotto tale profilo, la pressoché totalità dei progetti di legge analizzati si mostra attenta nel garantire l’esigenza dell’apparenza di indipendenza. Ed infatti, viene espressamente previsto nel ddl Romeo, così come nel ddl Vitali ([4]) e nel d.d.l. Nannicini ([5]), che il personale degli uffici delle cancellerie sia individuato fra i dipendenti appartenenti al ruolo unico del personale degli uffici delle cancellerie e del Segretariato generale posto alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri ([6]); e una previsione analoga è contenuta nel d.d.l. Fenu, laddove si prevede che presso ciascun tribunale tributario e Corte di appello tributaria vengano istituiti gli uffici di cancelleria il cui personale faccia parte del ruolo del personale della Presidenza del Consiglio dei ministri ([7]).
Per quanto concerne il profilo del trattamento economico, anche tale elemento ha destato serie perplessità con riferimento al sistema attuale nell’ottica di “apparenza dell’indipendenza”. Ed infatti, ai sensi dell’art. 13, D. Lgs. n. 545/1992: «la liquidazione dei compensi è disposta dalla direzione regionale delle entrate…» ossia dal medesimo soggetto il cui operato il giudice dovrebbe normalmente vagliare, il quale peraltro sarà adesso direttamente dipendente del MEF.
Ebbene, già attenta dottrina aveva rilevato, con riferimento alla situazione attuale, che «tale impressione di apparente dipendenza, che costituisce violazione della CEDU, esce rafforzata dalla previsione di relazioni e competenza della Direzione della Giustizia tributaria che appaiono ancora più anomale o allarmanti, quali ad esempio: (a) il fatto che tra i compiti della Direzione vi sia l’osservazione della giurisprudenza dei giudici tributari, con potere di segnalazione di essa al Consiglio di Presidenza; (b) che la Direzione curi i provvedimenti sullo status dei giudici, sia pure determinati da organi indipendenti; (c) che essa segua il contenzioso eventualmente instaurato con i giudici; (d) che essa supporti la formazione professionale dei giudici. Ciascuno di tali profili appare in evidente frizione con la necessaria apparenza di indipendenza del giudice tributario.» ([8]).
E adesso, addirittura, il ddl di iniziativa governativa prevede l’istituzione di due uffici dirigenziali di livello non generale, «aventi funzioni rispettivamente, in materia di status giuridico ed economico dei magistrati tributari e di organizzazione e gestione delle procedure concorsuali per il reclutamento dei magistrati tributari» (art. 1, co. 10, d.d.l.).
Il ddl di fonte governativa va dunque nella direzione diametralmente opposta ai progetti di riforma dell’ordinamento della giustizia tributaria di iniziativa parlamentare, tutti segnati dalla volontà di garantire l’indipendenza anche apparente di siffatta giurisdizione, ivi procedendo ad una riallocazione delle funzioni dal MEF alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, in uno con l’introduzione di una magistratura tributaria professionale, selezionata mediante concorso.
Non va dimenticato che le Agenzie sono agenzie pubbliche strumentali del MEF, rappresentandone il “braccio operativo” per lo svolgimento di attività tecnico-operative. Esse sono da esso vigilate e controllate, che inoltre ne nomina i vertici. Esse godono di piena autonomia operativa e di bilancio, ma tale autonomia si deve muovere nell’ambito degli obiettivi e degli indirizzi politici generali impartiti dal ministero attraverso specifiche convenzioni. La ragione che ha infatti portato a separare queste strutture dall’organizzazione ministeriale non è legata a una necessità di autonomia – come nel caso, ad esempio, delle autorità amministrative indipendenti – bensì alla natura strettamente tecnica delle funzioni che svolgono: al MEF spettano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e alle Agenzie il compito di curane l’attuazione tecnica e operativa.
Inutile dire che il mantenimento della giustizia del MEF prospettato dal ddl in commento ha sollevato critiche corali.
Già con riferimento agli esiti della prima Commissione interministeriale si era infatti rilevato che «(…) il Ministero dell’Economia e delle Finanze controlla e indirizza l’attività delle Agenzie fiscali, che sono parti del nostro giudizio. È indubbio che detto Ministero non eserciti alcuna forma di condizionamento dei giudici, ma il solo fatto che da esso ne dipenda la retribuzione getta un’ombra sugli organi del contenzioso tributario. Ombra che si potrebbe agevolmente dissipare prevedendo appunto che l’organizzazione delle Commissioni Tributarie e la retribuzione dei relativi membri competa alla Presidenza del Consiglio di Ministri o al Ministero della Giustizia» ([9]).
Ma anche a seguito della presentazione del ddl, due riconosciuti Maestri della materia tributaria hanno “rincarato la dose”. Così E. DE MITA ha rilevato che «occorre superare una modalità governativa, condizionata dall’impronta amministrativa che continuerà a non conoscere “cancellerie” ma segreterie e neppure recluterà i propri giudici togati del futuro in autonomia dal Mef» e che «la selezione dei giudici tributari deve essere disancorata da un controllo autoritativo del Mef sia in fase di selezione che eventualmente di ispezione dell’operato. L’autonomia del giudice togato è la vera sfida della riforma della giustizia tributaria ([10]); mentre C. GLENDI ha osservato che «la progettata ingerenza del MEF (che, nonostante l’intermediazione delle Agenzie, costituisce, pur sempre, nella sostanza, la parte processuale quasi sempre necessaria del contenzioso tributario e del relativo processo) nell’apparato organizzativo figura financo maggiore rispetto a quella che ha oggi, non solo riguardo ai concreti pagamenti retributivi (notevolmente incrementati), ma già financo per il reclutamento dei nuovi giudici attraverso i concorsi, fondamentalmente gestiti da questo solo Ministero, e addirittura nel controllo ispettivo degli stessi giudici nell’esercizio delle loro funzioni giudicatrici, oltre che del personale ausiliario, essendo stata prevista la costituzione di un ufficio ispettivo presso l’organo di autogoverno con estensioni operative assieme al competente ufficio Audit della Direzione della giustizia tributaria del dipartimento delle Finanze. L’autonomia dei nuovi magistrati tributari rispetto a quella di cui fruiscono gli attuali giudici tributari di provenienza togata risulta indubbiamente indebolita» ([11]).
Pertanto, tutta la parte “ordinamentale” è completamente da riscrivere anche nella parte in cui mantiene la collocazione della giustizia tributaria sotto il MEF, di cui i 576 giudici diventeranno persino dipendenti.
4. Le nuove regole processuali e le rilevanti criticità del 363-bis, della prova testimoniale scritta e delle limitazioni all’appello delle sentenze del giudice monocratico
Venendo alla parte processuale della Riforma, anche qui i problemi non mancano.
Non esaminerò, per motivi di spazio, né il nuovo istituto del ricorso nell’interesse della legge in materia tributaria (art. 363-bis, c.p.c.), né il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in Cassazione (nuovo art. 62-ter, d.lgs. n. 546/1992), limitandomi solo a rilevare come essi siano stati valutati in modo tendenzialmente negativo da tutta la dottrina tributaria sin qui intervenuta.
Si è rilevata, in particolare, la continua mutevolezza della legislazione (con rapida obsolescenza dei principi di diritto), la notevole rilevanza del fatto (provata dalla giurisprudenza di legittimità di segno, tante volte, contrario pur se riferibile a casi analoghi), la normale “oscurità” dei testi normativi (che potrebbe determinare un sistematico ricorso al rinvio pregiudiziale) e il fatto che, nelle more della sospensione del giudizio, la riscossione prosegue, dovendosi dunque prevedere meccanismi processuali ad hoc ([12]); che la particolarità e il tecnicismo della materia spesso impone un confronto serrato e lunghe riflessioni (e decisioni iniziali non necessariamente conformi) ([13]); che il conseguimento dell’obiettivo della preventiva unificazione della giurisprudenza tramite il meccanismo della “saisine pour avis” costituisce «profilo controverso della dottrina francese», rilevandosi altresì l’impatto affatto modesto sulla riduzione del contenzioso e sulla (sperata) nomofilachia ([14]); che la stessa “novità” della questione oggetto del rinvio costituisce profilo di non semplice appuramento e che il rinvio dovrebbe essere riservato a questioni di alto tecnicismo meno incise dalla specificità del fatto ([15]); che il 363-bis costituisce un duplicato inutile del 363 c.p.c., pacificamente applicabile in materia tributaria, introducendo anzi una differenziazione in relazione alla materia e ai presupposti che potrebbe soltanto pregiudicarne la congruità rispetto alla finalità cui è preordinato ([16]); che il 363-bis persegue il meritorio obiettivo di garantire la certezza del diritto al prezzo di una non trascurabile alterazione del ruolo proprio della Corte di cassazione, trattandosi di una funzione esercitata in modo avulso dalle peculiarità del singolo caso prossima alla funzione legislativa, tanto più riguardando una disposizione che, in quanto “nuova”, non sarebbe assistita da una casistica sufficientemente ricca, da un’elaborazione dottrinale sufficientemente matura e da argomenti non ancora adeguatamente sedimentati ([17]); che nessuno avverte la necessità di limitare la piena funzione dei giudici di merito con ricorsi ad hoc del Procuratore generale presso la Corte di cassazione volti a soccorrere o a precorrere le difficoltà interpretative delle Commissioni tributarie su questioni di diritto nuove e che, non avendo effetto diretto sui provvedimenti, il principio di diritto, come esercizio della funzione nomofilattica per saltum, si presenta come uno strumento inidoneo allo scopo ([18]); che anche l’indicazione di un rinvio pregiudiziale alla Cassazione ne aggraverebbe il carico, confessando al tempo stesso l’inadeguatezza presente della struttura delle Commissioni tributarie, ma pure la negazione della possibilità di cambiamento per il futuro ([19]); che il ricorso nell’interesse della legge lascia assai perplessi nella parte in cui appare svincolato dai contenuti di una sentenza e di uno specifico giudizio, creando peraltro una sovrapposizione di ruoli con l’attività interpretativa dell’Amministrazione finanziaria che potrebbe essere fonte di ulteriori complicazioni ([20]).
Tanto premesso su questi due istituti, come visto certamente meritevoli di una riflessione più meditata (soprattutto l’art. 363-bis, che meriterebbe direttamente l’espunzione), ci si soffermerà nel prosieguo sulle due disposizioni evidentemente più critiche del ddl governativo: la prima è la previsione della prova testimoniale scritta, la quale necessita come vedremo quanto meno di una radicale riformulazione; la seconda riguarda la limitazione all’appello delle sentenze rese dal giudice monocratico, che poiché incostituzionale deve essere direttamente espunta dal testo normativo.
4.1. La prova testimoniale scritta
Iniziando l’esame degli istituti processuali dalla prova testimoniale scritta, si tratta di un passo in avanti importante perché fa finalmente venir meno il dogma inaccettabile del divieto di prova testimoniale nel processo tributario.
È noto, infatti, come attraverso le verifiche fiscali entrino nel processo tributario una serie di dichiarazioni, soprattutto in vicende relative alla inesistenza oggettiva e/o soggettiva delle operazioni economiche, le quali possiedono una rilevante idoneità ad influenzare la decisione del giudice, e che spesso non possono essere adeguatamente contrastate attraverso prove meramente documentali, con grave nocumento del diritto di difesa.
Proprio per colmare questo deficit difensivo, la giurisprudenza di legittimità ha ormai da tempo riconosciuto la possibilità per il contribuente di opporsi alle pretese degli uffici presentando dichiarazioni di terzi raccolte nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto notorio (Cass., n. 3161/2012), anche poiché funzionale al dispiegarsi del giusto processo ex art. 6 della CEDU (Cass., n. 6616/2018).
Ciò è stato anche di recente ribadito dalla Suprema Corte con sentenza n. 24294/2020, secondo cui: «è necessario riconoscere che, al pari dell'Amministrazione finanziaria, anche il contribuente possa introdurre nel giudizio innanzi alle Commissioni Tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale per far valere le proprie ragioni. Tali dichiarazioni possono essere introdotte nel giudizio tributario avendo la stessa valenza indiziaria in proprio favore, in conformità ai principi del giusto processo ex art. 6 CEDU (vedi da ultimo Cass., Sez. 6-5, n. 6616/2018; Cass. Sez.6- 5, n.21153/2015)»; da Cass., n. 30000/2021, che ha riconosciuto valide le dichiarazioni raccolte (ovviamente) ex post dai terzi manutentori di camion al fine di dimostrare l’avvenuto sostenimento delle spese, secondo cui: «in tema di processo tributario, al contribuente, oltre che all’Amministrazione finanziaria, è riconosciuta – in attuazione del principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, a garanzia della parità delle armi e dell’attuazione del diritto di difesa – la possibilità di introdurre, nel giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale aventi, anche per il contribuente, il valore probatorio proprio degli elementi indiziari (Cass. sez. I – Sentenza n. 9903 del 27/05/2020; Cass. Sez. 6-5, Ordinanza n. 6616 del 16/03/2018, ex plurimis», e ancora da Cass., n. 30209/2021, che ha riconosciuto valide le dichiarazioni raccolte dai terzi manutentori di camion al fine di dimostrare l’avvenuto sostenimento delle spese, secondo cui: «in tema di processo tributario, al contribuente, oltre che all’Amministrazione finanziaria, è riconosciuta – in attuazione del principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, a garanzia della parità delle armi e dell’attuazione del diritto di difesa – la possibilità di introdurre, nel giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale aventi, anche per il contribuente, il valore probatorio proprio degli elementi indiziari (Cass. sez. I – Sentenza n. 9903 del 27/05/2020; Cass. Sez. 6-5, Ordinanza n. 6616 del 16/03/2018, ex plurimis».
Ora, la Commissione della Cananea aveva proposto l’introduzione della “testimonianza scritta” prevedendo il seguente nuovo comma 4 all’art. 7: «Non è ammesso il giuramento. Su istanza del ricorrente il giudice può autorizzare la prova testimoniale scritta ai sensi del codice procedura civile su circostanze oggetto di dichiarazioni di terzi contenute in atti istruttori».
Va detto che il “valore aggiunto” rispetto alla indicata possibilità già riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità, di introdurre dichiarazioni extraprocessuali dovrebbe risiedere nella circostanza che siamo qui in presenza di una “prova”, non di un “elemento indiziario”.
Le dichiarazioni raccolte dagli organi di controllo hanno infatti natura di “elementi indiziari”, che possono semmai dare luogo a presunzioni ove rivestano i caratteri della gravità, precisione e concordanza; e rispetto ad esse, le dichiarazioni di terzi che il contribuente può introdurre nel giudizio hanno la funzione di “neutralizzare” sia il valore indiziario, sia lo stesso valore probatorio presuntivo, mettendo in crisi i requisiti di gravità, precisione e concordanza degli elementi indiziari addotti dall’Amministrazione finanziaria.
Questa giurisprudenza di legittimità realizza dunque sicuramente già un discreto “equilibrio” tra le posizioni di Fisco e contribuente, traendo la sua forza e legittimazione dall’art. 6 della CEDU; tuttavia, esso comporta comunque una “valutazione”, una “ponderazione” da parte del giudice tra i vari elementi indiziari, non essendo inoltre rari i casi in cui i giudici tributari di merito attribuiscano a priori scarsa attendibilità a tali dichiarazioni.
Con riferimento alla indicata proposta della Commissione della Cananea, si era peraltro già rilevato un limite nella possibilità ivi riconosciuta di testimoniare solo sulle «circostanze oggetto di dichiarazioni di terzi» ([21]), constatandosi come possano esservi anche circostanze ulteriori utili da addurre per confutare la tesi erariale.
Sennonché, il d.d.l. di iniziativa governativa peggiora pesantemente la situazione, perché si avventura in una formulazione, risultata sin qui “oscura” a tutti i commentatori che se ne sono occupati, secondo cui «La commissione tributaria, ove lo ritenga assolutamente necessario ai fini della decisione e anche senza l’accordo tra le parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’articolo 257-bis del codice di procedura civile, quando la pretesa sia fondata su verbali o atti facenti fede sino a querela di falso. In tali casi la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale» ([22]).
Ora, è evidente che la formulazione della disposizione è a dir poco infelice.
In primo luogo, essa prevede che la testimonianza scritta possa essere disposta solo ove ciò sia “assolutamente necessario” – quasi si trattasse di un “fatto decisivo per la soluzione della controversia” – con il rischio di ricevere applicazione soltanto in casi eccezionali. Emerge, come è stato rilevato, un «rigurgito della sempre latente ostilità del “sistema” (e dell’amministrazione finanziaria) nei confronti della prova testimoniale»; ma si tratta altresì anche di una condizione alquanto singolare, non essendo “a rigori” nessun mezzo di prova in sé indispensabile, essendo il giudizio sul fatto non provato comunque risolto in base alla regola dell’onere della prova ([23]).
In secondo luogo, essa non richiede l’accordo tra le parti – come è logico che sia, posto che l’Amministrazione finanziaria avrebbe tutto l’interesse ad opporsi ad acquisizioni probatorie in ipotesi a sé sfavorevoli – ma va tenuto conto che dovrebbe prevedersi almeno un “subprocedimento” di valutazione dell’ammissibilità e del contenuto (ulteriori capitoli di prova, ulteriori testi, ecc.) della prova testimoniale onde “calibrare” al meglio il contenuto delle domande che si andranno a formulare ai testi.
In terzo luogo, essa richiede che la pretesa «sia fondata su verbali o atti facenti fede sino a querela di falso» e che la prova possa riguardare soltanto «circostante di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale», così introducendo almeno tre ulteriori problemi interpretativi di non lieve momento, segnatamente:
a) cosa si debba intendere con “pretesa”, dal momento che non tutti gli atti consistono in atti di accertamento o di riscossione;
b) cosa si debba intendere con «atti facenti fede sino a querela di falso» diversi dai verbali;
c) cosa si debba intendere con «circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale».
Ora, è noto che secondo la giurisprudenza di legittimità, «l'intero processo verbale di constatazione, essendo redatto da pubblici ufficiali nell'esercizio delle loro funzioni, rientra nella categoria degli atti pubblici che, ai sensi dell'art. 2700 cod. civ. fanno piena prova sino a querela di falso delle dichiarazioni rese dalle parti e dei fatti che il pubblico ufficiale attesta da lui compiuti» (Cass., n. 2949/2006 e n. 24856/2006); ancora, che «In tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione, redatto dalla Guardia di finanza o dagli altri organi di controllo fiscale, è assistito da fede privilegiata ai sensi dell'art. 2700 cod. civ., quanto ai fatti in esso descritti: per contestare tali fatti è pertanto necessaria la proposizione della querela di falso (Cass. n. 15191 del 2014; Cass. n. 2949 del 2006)», querela che nel caso di specie non è stata proposta» (Cass., n. 11881/2017); o ancora, che «in materia di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza, o da altri organi di controllo fiscale, è assistito da fede privilegiata, ai sensi dell'art. 2700 c.c., quanto ai fatti in esso descritti. Ne discende che - contrariamente a quanto assume la ricorrente - per contestare tali fatti è necessaria la proposizione della querela di falso, non essendo sufficiente la mera allegazione di circostanze di fatto, o di generici elementi di prova, di segno contrario alle risultanze del predetto documento avente efficacia probatoria privilegiata (cfr. Cass. 7208/03, 2949/06, 15311/08)» (Cass., n. 7671/2012).
Pertanto, i “limiti” alla possibilità di provare il contrario con mezzi diversi dalla querela di falso già sono stati elaborati da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, sicché occorre eliminare improbabili formulazioni normative (quali «circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale») e semplicemente riformulare la disposizione lasciando fermi i casi in cui si rende necessario proporre querela di falso ai sensi dell’art. 2702 c.c.
Se, peraltro, il processo verbale è sempre stato considerato privo di efficacia probatoria privilegiata, quanto al merito delle contestazioni, la formulazione della norma si presenta errata e addirittura pericolosa e incostituzionale, se sottintende che i rilievi di un processo verbale abbiano valore probatorio privilegiato non solo sulle attività compiuti e sui documenti esaminati, ma anche sulle circostanze di fatto a base dei singoli rilievi contestati ([24]).
Deve inoltre essere chiarito che, proprio in considerazione della diversa natura della prova testimoniale scritta, restano ferme le dichiarazioni di terzi già ammesse dalla giurisprudenza indicata con valore meramente indiziario, pertanto liberamente producibili in giudizio, evidenziandosi il rischio che tale disposizione possa «riverberarsi in un restringimento interpretativo della libera valutazione delle informazioni dei terzi, dispositivamente fornita dalle parti (contribuenti e/o uffici), con forti ricadute verso intonazioni spiccatamente inquisitorie, in aperto contrasto con l’attuale compagine dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992» ([25]).
Così stando le cose, sarebbe pertanto meglio direttamente eliminare la disposizione così come è e “tenersi stretta” la giurisprudenza sopra richiamata, trattandosi di giurisprudenza ormai consolidata, ed essendo in ogni caso le prove non legali liberamente valutabili dal giudice.
4.2. Il giudice monocratico e le limitazioni all’appello
Nel dibattito che ha accompagnato la Riforma si è molto discusso sulla composizione delle Commissioni, insistendo tutte le proposte su una valorizzazione di quella monocratica per controversie di modesto ammontare, la quale ha trovato accoglimento nel ddl di iniziativa governativa.
Si tratta di una proposta indubbiamente condivisibile, così come il valore inferiore a € 3.000,00 che ne definisce il perimetro, dovendosi infatti tenere conto che, in materia tributaria, sanzioni ed interessi possono persino più che raddoppiare quanto richiesto a titolo di tributo.
Condivisibile è altresì l’avvenuta esclusione delle controversie catastali, che, per la funzione che esse rivestono ai fini della determinazione della base imponibile di numerosi tributi, anche periodici e dunque implicanti riflessi patrimoniali prolungati nel tempo, hanno una rilevanza economica che va ben oltre la semplice “rendita”.
Ben più problematico è il problema della limitazione all’appello delle indicate sentenze prevista dal ddl di iniziativa governativa.
Va detto che la discussione sulla riforma del processo tributario ha spesso toccato le limitazioni all’accesso, ipotizzandosi diverse soluzioni.
La prima è consistita nella diretta eliminazione di un grado di giudizio, trattandosi però di una restrizione che comprime oltre ogni tollerabile limite l’accesso alla giustizia. Il processo tributario ha ad oggetto questioni spesso molto complesse, che richiedono un doppio grado di giudizio di merito. Certo, non due gradi di giudizio sostanzialmente fungibili, come accade attualmente, ma un secondo grado che sia ontologicamente più autorevole del primo grado.
La seconda ha riguardato la possibile introduzione di filtri in appello, emergendo dai ddl di iniziativa parlamentare tesi assai diverse, ora ritenendosi che «l’appello ha un ruolo di essenziale rilievo per l’attuazione del giusto processo, consentendo, attraverso un moderato allentamento delle preclusioni processualcivilistiche, pur nel mantenuto rigore delle forme, di rimediare a lacune verificatesi nel giudizio di primo grado, molte anche attribuibili ai giudici o ai difensori» (Relazione al d.d.l. n. 714 Caliendo); ora proponendosi di inserire in un processo riformato, sia pure con talune eccezioni (abuso del diritto, ecc.), un filtro in appello sul modello dell’art. 348-bis c.p.c., in cui il giudice deve valutare se vi sia una ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello medesimo (d.d.l. n. 759 Nannicini, art. 95). Considerato, tuttavia, che le sentenze appellate costituiscono circa un quinto di quelle emanate in primo grado e l’innalzamento qualitativo strutturale che il nuovo assetto dovrebbe realizzare, un tale filtro appare al momento poco opportuno, anche se potrebbe immaginarsi in un futuro assetto ormai divenuto stabile.
Il d.d.l. di iniziativa governativa si spinge tuttavia oltre ogni immaginazione, prevedendo che le sentenze del giudice monocratico possano essere appellate «esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, nonché per violazione di norme costituzionali o di diritto dell’Unione Europea, ovvero dei principi regolatori della materia», con esclusione delle «controversie riguardanti le risorse proprie tradizionali previste dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione (UE, Euratom) 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, e l’imposta sul valore aggiunto riscossa all’importazione» (art. 2, co. 2, lett. f) d.d.l., che aggiunge tale periodo all’art. 52, co. 1, d.lgs. n. 545/1992).
Si tratta di una trasposizione completamente “fuori tema” dell’art. 339, co. 3, c.p.c., il quale riguarda come noto decisioni rese secondo “equità”, dunque estraneo alla decisione secondo “stretta legalità” che deve riguardare anche le decisioni delle controversie tributarie di valore inferiore a € 3.000,00. La Consulta ha invero rilevato l’assoluta peculiarità della “giurisdizione di equità”, osservando che la relativa funzione «in un sistema caratterizzato dal principio di legalità a sua volta ancorato al principio di costituzionalità, nel quale la legge è dunque strumento principale di attuazione dei principi costituzionali, è quella di individuare l’eventuale regola di giudizio non scritta che, con riferimento al caso concreto, consenta una soluzione della controversia più adeguata alle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta, alla stregua tuttavia dei medesimi principi cui si ispira la disciplina positiva» (Corte cost., n. 206/2004).
Sicché, non essendosi alcuna differenza qualitativa – ma solo quantitativa – tra le questioni da decidere in composizione monocratica e in composizione collegiale, rifuggendo entrambe da regole di giudizio “non scritte” e riguardando entrambe questioni non certo “ontologicamente” diverse per complessità delle questioni di fatto e di diritto da affrontare, si attua per tale via una irragionevole discriminazione in danno dei contribuenti destinatari di pretese di valore inferiore a € 3.000, in violazione degli artt. 3 e 24 Cost., venendo loro negato il doppio “pieno” grado di giudizio riconosciuto per le controversie di ammontare superiore a € 3.000,00.
Ma la stessa esclusione delle risorse proprie da questa “tagliola” è priva di un fondamento ragionevole, trattandosi di scelta arbitraria – manifestandosi l’esigenza di riduzione dei tempi in modo eguale quale che sia la “natura” del tributo – né trovandosi nella disciplina unionale alcuna indicazione di tipo processuale, essendo il contenzioso demandato alle discipline nazionali e non ricavandosi pertanto alcuna imposizione del doppio grado di giurisdizione ([26]).
Senza contare che, pur eliminando l’appello, deve comunque essere garantito il ricorso di Cassazione, perché così imposto dall’art. 111, co. 7, Cost., sicché a fronte dell’eliminazione di un grado di giudizio che, in materia tributaria, procede speditamente, si avrebbe un aggravio del contenzioso in Cassazione, mancando l’obiettivo di deflazionare il contenzioso ([27]).
5. L’Ufficio del massimario nazionale
Venendo adesso alle regole organizzative, le istanze, più volte rappresentate, circa la necessità di rilevazione sistematica degli indirizzi interpretativi mediante i Massimari e di loro accesso anche ai professionisti, ha trovato concreta attuazione nel ddl di iniziativa governativa, che istituisce l’Ufficio del massimario nazionale, cui viene assegnato un direttore e quindici magistrati o giudici tributari.
Chi scrive ha una discreta esperienza dei massimari regionali, facendo tuttora parte dell’Ufficio del Massimario della Commissione tributaria regionale del Lazio, e quel che sicuramente può rilevarsi è che impensabile che una produzione “torrenziale” di oltre 200.000 sentenze tributarie su tutto il territorio nazionale, possa essere efficacemente gestita da quindici persone che, tra l’altro, svolgono contemporaneamente la funzione di giudici tributari.
6. L’ipotesi di una definizione deflativa del contenzioso pendente
L’ultima questione da esaminare riguarda l’ipotesi di definizione del contenzioso pendente.
Di questo aspetto il ddl di iniziativa governativa non si occupa, ma la Relazione illustrativa ne è invece ben consapevole.
Viene ivi infatti rilevato che le nuove misure “deflative” non sono da sole sufficienti, risultando «evidente che i prospettati interventi normativi debbano essere accompagnati e integrati con incisive disposizioni legislative per la definizione agevolata delle controversie pendenti avanti la sezione specializzata, pur limitandole allo stretto necessario per raggiungere una «soglia critica» di deflazione immediata che consenta, de residuo, l’impostazione di un programma triennale di smaltimento dell’arretrato e di stabilizzazione operativa con ragionevole probabilità di successo».
Ora, vanno qui fatte alcune osservazioni.
La prima è che non si tratta, in senso proprio, di un “condono”, perché la Corte di giustizia con la sentenza 17 luglio 2008, C-132/06, Commissione c. Italia, ha considerato non compatibili con il diritto UE solo quelle disposizioni della L. n. 289/2002 che prevedevano, a seguito del pagamento di una somma forfetaria, la rinuncia dello Stato italiano all’accertamento delle operazioni imponibili a fini IVA effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, perché «rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento” dell’IVA».
Per le disposizioni della L. n. 289/2002 riguardanti la chiusura delle liti pendenti non si sono invece posti problemi di compatibilità con il diritto UE, perché riguardanti controversie in corso in cui perdura l’incertezza su chi abbia ragione e chi torto.
Fatta questa necessaria premessa per sgomberare il campo da pregiudizi ideologici, il passaggio successivo è cosa si può definire e a quali condizioni economiche.
Sul tema di cosa si possa definire, ho onestamente il dubbio circa la legittimità di una definizione limitata alle liti pendenti in Cassazione come proposto nel ddl di iniziativa governativa, perché discriminerebbe quei contribuenti che hanno dovuto incardinare ricorsi presso Commissioni tributarie più lente anche tenuto conto della notevole variabilità dei tempi medi tra le varie commissioni.
Ma ho anche il dubbio circa la legittimità di una definizione che coinvolga solo le liti sino ad un determinato importo in valore assoluto come il riferimento allo «stretto necessario» di cui alla citata Relazione illustrativa evidentemente presuppone, perché il giudizio circa la meritevolezza di una definizione delle liti dovrebbe essere semmai relativo: per quale motivo, ad esempio, una contestazione di 100.000 euro in capo ad un evasore totale dovrebbe essere trattata più favorevolmente di una contestazione di 1.000.000 di euro in capo ad una grande società per la quale essa rappresenti una frazione insignificante del proprio fatturato e magari coinvolga, come sovente accade, questioni meramente interpretative tutte compatibili con il testo normativo? Non è certamente un caso che dal 2002 in avanti il legislatore tributario abbia abbandonato il riferimento al valore delle liti quale criterio per la relativa definibilità sino ad allora adottato.
È certamente vero che queste considerazioni di carattere “sostanziale” devono confrontarsi con la finalità “processuale” di sfoltimento che la misura si propone, ma questo sfoltimento implica anche un’estensione quanto più ampia del provvedimento per raggiungere efficacemente questo obiettivo.
Sul tema delle “condizioni” per la chiusura delle liti, è noto che le definizioni sono state tendenzialmente piuttosto onerose per essere dovuto l’intero tributo, con l’eccezione delle controversie che avevano visto soccombere l’Agenzia delle Entrate, dovendone in tal caso essere corrisposta una “frazione” (nell’ultima edizione di chiusura delle liti, il 40% se soccombente in CTP, il 15% se soccombente in CTR e il 5% se soccombente in entrambi i giudizi di merito).
Se si considera, tuttavia, che in CTP i giudizi favorevoli al contribuente si attestano intorno al 30%, cui si aggiunge l’11% di giudizi intermedi, e che tali percentuali sono pari, in CTR, rispettivamente al 31% e all’8%, ne deriva che la platea di soggetti potenzialmente interessati da un tale sconto anche sul tributo non è molto vasta.
Una parte di questi contenziosi non è poi neanche definibile: ad esempio, nel 2019 sono stati iscritti in Cassazione 746 ricorsi in materia catastale e ca. 500 ricorsi in materia di rimborso, complessivamente pari al 13% dei ricorsi iscritti.
Sicché, se si vuole un vero sfoltimento, andrebbe prevista una riduzione del tributo anche per i ricorsi non accolti e in tal senso la riforma in sede di legittimità di circa la metà delle sentenze emesse dalla CTR offre un argomento particolarmente incisivo, coinvolgendo lo stesso presupposto logico della distinzione in base all’esito delle liti.
Si condivide dunque la proposta della Commissione interministeriale della Cananea di prevedere uno sconto sul tributo anche qualora il contribuente sia risultato soccombente nel giudizio dinanzi alla CTR, mentre di dubbia legittimità appare, come detto, la proposta ivi contenuta di limitarla alle cause non eccedenti un determinato valore considerata l’evidenziata irragionevolezza di una distinzione meramente quantitativa e, comunque, anche ragionando in un’ottica meramente “processuale”, contraria all’esigenza di perseguire efficacemente questo obiettivo.
7. Conclusioni
In conclusione, pur avviando meritoriamente l’auspicato percorso di professionalizzazione dei giudici tributari, le virtù del ddl si fermano qui.
Il ddl mette infatti in campo una serie di strumenti, ordinamentali e processuali, del tutto inadeguati a perseguire l’obiettivo sia della riduzione dei tempi di giudizio – anzi, realizzando l’opposto risultato – sia dell’incremento qualitativo delle decisioni, oltre ad aggravare la questione della c.d. “indipendenza apparente” dei giudici tributari.
Se il problema era di fare le “nozze con i fichi secchi” per mancanza di risorse – ma l’inquadramento della riforma nel PNRR, con la corrispondente enorme massa di risorse che lo accompagna, non dovrebbe in teoria sollevare problematiche di tal genere, tanto più che si parla di risorse esigue se paragonate al ruolo centrale che la giustizia tributaria riveste ai fini della competitività e dello sviluppo del Paese – esso è stato affrontato attraverso una serie di disposizioni di cui faranno le spese per primi i contribuenti, che si troveranno dinanzi a commissioni tributarie sguarnite già nel breve periodo e con un processo più confuso sui mezzi istruttori e financo con limitazioni all’impugnazione.
L’auspicio è che il Parlamento sappia più saggiamente realizzare questo percorso di professionalizzazione rispetto all’assai deludente risultato ministeriale.
([1]) A.S. n. 243, primo firmatario il sen. Vitali (“Ordinamento della giurisdizione tributaria”); A.S. n. 714, primo firmatario il sen. Caliendo (“Codice del processo tributario”); A.S. n. 759, primo firmatario il sen. Nannicini (“Codice della giurisdizione tributaria”); A.S. n. 1243, primo firmatario il sen. Romeo (“Riforma della giustizia tributaria”), con un progetto di legge di contenuto identico presso la Camera (proposta di legge n. 1526, primo firmatario On. Centemero); A.S. n. 1661, primo firmatario il sen. Fenu (“Ordinamento degli organi di giurisdizione e amministrativi della giustizia tributaria”), con un progetto di legge di contenuto identico presso la Camera (proposta di legge n. 1521, primo firmatario On. Martinciglio); A.S. n. 1687, primo firmatario il sen. Marino (“Codice del processo tributario”); A.S. 2476, primo firmatario il sen. Misiani (“Ordinamento della giurisdizione tributaria”).
([2]) M. BASILAVECCHIA, Riforma della giustizia tributaria. Una “storica” prima pietra, tra luci e ombre, in Quotidiano IPSOA, 21 maggio 2022.
([3]) Sul punto, si rinvia alle autorevolissime audizioni, sul punto non concordanti, effettuate dalla Commissione della Cananea. Da ultimo, ritiene che «nessuno ostacolo di ordine costituzionale dovrebbe porti acché della Sezione tributaria della Suprema Corte entrino a far parte i “nuovi” giudici tributari», essendo sufficiente «una legge ordinaria perché i giudici speciali tributari possano essere chiamati a far parte della Sezione tributaria specializzata della Suprema Corte», E. DELLA VALLE, La riforma della giustizia tributaria nei ddl di fonte “senatoriale”, in Riv. tel. dir. trib., 1° aprile 2022, p. 5.
([4]) Art. 30, co. 2, DDL 243/2018 ai sensi del quale «Gli uffici di cancelleria dipendono dalla Presidenza del Consiglio dei ministri».
([6]) Artt. 30; 31 e 32 DDL 1243/2019.
([7]) Art. 30, commi 1 e 2, DDL S 1661/2020.
([8]) A. MARCHESELLI, R. DOMINICI, Giustizia tributaria e diritti fondamentali. Giusto tributo, giusto procedimento, giusto processo, Torino, 2016, p. 212 ss.
([9]) F. PISTOLESI, Spunti per una riforma della giustizia tributaria nella relazione della Commissione interministeriale del 30 giugno 2021, in Giustizia Insieme, par. 6.
([10]) E. DE MITA, È il momento della vera giurisdizionalizzazione del processo tributario, in Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2022.
([11]) C. GLENDI, Riforma della giustizia tributaria. PNNR a rischio?, in Quotidiano IPSOA, 4 giugno 2022.
([12]) P. COPPOLA, La proposta della Commissione interministeriale per la Riforma della giustizia tributaria; il rinvio pregiudiziale in Cassazione ed il ricorso nell’interesse della legge, in Modulo24 Contenzioso, 13 ottobre 2021, n. 10, p. 18.
([13]) A. IORIO, Cassazione chiamata a dettare la linea sui casi più importanti, in Il Sole 24 ore, 18 maggio 2022, p. 5.
([14]) L. SALVATO, Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso del P.G. nell’interesse della legge, in Giustizia Insieme.
([15]) L. SALVATO, Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso del P.G. nell’interesse della legge, in Giustizia Insieme.
([16]) L. SALVATO, Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso del P.G. nell’interesse della legge, in Giustizia Insieme.
([17]) G. FRANSONI, Considerazioni sul d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari: A) il “Principio di diritto in materia tributaria”, in Fransoni.it.
([18]) E. DE MITA, È il momento della vera giurisdizionalizzazione del processo tributario, in Il Sole 24 Ore, cit.
([19]) E. DE MITA, È il momento della vera giurisdizionalizzazione del processo tributario, in Il Sole 24 Ore, cit.
([20]) M. BASILAVECCHIA, Riforma della giustizia tributaria. Una “storica” prima pietra, tra luci e ombre, cit.
([21]) F. PISTOLESI, Spunti per una riforma della giustizia tributaria nella relazione della Commissione interministeriale del 30 giugno 2021, cit., p. 13.
([22]) Va rilevato, peraltro, che anche i ddl di iniziativa parlamentare si dimostrano piuttosto tiepidi nei confronti della prova testimoniale. Il ddl Nannicini conferma infatti il divieto di prova testimoniale, mentre il ddl Caliendo prevede che «Il giudice tributario, se lo ritiene indispensabile per la decisione, anche d’ufficio, può richiedere informazioni scritte sui fatti di causa alle parti e ai terzi, comunicando ad essi, tramite la segreteria, apposito modulo di richiesta di informazioni, a cui il destinatario è tenuto a rispondere, restituendo, anche a mezzo posta, all’ufficio che l’ha inviato, il modulo stesso, con firma autenticata da notaio, da segretario o cancelliere di qualsiasi ufficio giudiziario o da segretario comunale. Le risultanze acquisite sono liberamente valutate dal giudice tributario».
([23]) G. FRANSONI, Considerazioni sul d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari: B) la prova testimoniale, p. 1.
([24]) M. BASILAVECCHIA, Riforma della giustizia tributaria. Una “storica” prima pietra, tra luci e ombre, cit.
([25]) C. GLENDI, Riforma della giustizia tributaria. PNNR a rischio?, cit.
([26]) Sul punto, C. CORRADO OLIVA, Limitazioni all’appellabilità delle sentenze del giudice tributario monocratico: un “innesto” mal calibrato, in corso di pubblicazione su Diritto e pratica tributaria.
([27]) C. CORRADO OLIVA, Limitazioni all’appellabilità delle sentenze del giudice tributario monocratico: un “innesto” mal calibrato, cit..
Modelli di accesso e garanzie di trasparenza (nota a Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana, 1 febbraio 2022, n. 154)
di Fabiola Cimbali
Sommario: 1. Premessa - 2.1. Trasparenza e forme di accesso - 2.2. Tipologie di accesso ed “intensità” della pretesa conoscitiva - 3. Diritto di accesso e qualificazione della funzione pubblica - 4. Tratti identificativi del modello di accesso “documentale” - 5. Diritto di accesso, funzione pubblica e giurisdizione amministrativa - 6. Brevi considerazioni conclusive.
1. Premessa
La vicenda giuridica sulla quale si innesta la pronuncia del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana trae origine dal rigetto di alcune istanze di accesso concernenti specifici documenti detenuti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia istituita presso l’Assemblea Regionale dell’Isola ad opera della l.r. Sicilia 14 gennaio 1991, n. 4.
La fattispecie oggetto di sindacato giurisdizionale ha sullo sfondo il saldo legame tra trasparenza ed accesso, profondamente rimodulato per effetto della rivisitazione concettuale di entrambi i “termini” della relazione.
Com’è noto, si deve alla legge 7 agosto 1990, n. 241 il netto superamento della “regola del segreto” cui la pubblica amministrazione, fino a quel momento, aveva conformato il suo operato, posta a baluardo delle burocrazie concepite quali titolari di specifiche competenze tecniche e, perciò, ritenute custodi in via esclusiva dell’interesse pubblico.[1]
Rivoluzionando tale rigida impostazione, l’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo ha imposto alla pubblica amministrazione il rispetto dei principi di pubblicità e di trasparenza, quali criteri generali dell’azione amministrativa, che si inverano anche nell’esercizio del diritto di accesso[2].
Tuttavia, in ragione delle trasformazioni che, specialmente a partire dall’art. 1, d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, hanno interessato il principio di trasparenza, l’inquadramento del diritto di accesso, che ne è diretta proiezione, pur rinvenendo nella disciplina del 1990 una fondamentale e solida base di riferimento, non può certamente essere sganciato dall’impianto normativo delineatosi in virtù di successivi interventi normativi[3].
L’acquisizione di una piena consapevolezza dei profili definitori delle differenti forme di accesso presenti nell’attuale scenario giuridico consente, perciò, una concreta percezione del contenuto del principio di trasparenza nel rispetto del quale la pubblica amministrazione è chiamata ad operare e ad articolare la sua struttura organizzativa.
La democratizzazione dell’attività amministrativa, permeando progressivamente il quadro ordinamentale, ha slegato l’accesso da una concezione conflittuale del rapporto fra cittadino e soggetto pubblico e ne ha consolidato una che percepisce la trasparenza in termini di “accessibilità totale” di dati e di documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni.
Il principio di trasparenza può, dunque, essere letto come fine rispetto al quale la pubblicità e il diritto di accesso acquisiscono una posizione strumentale ed, al contempo, come strumento idoneo a scoraggiare la violazione delle regole della concorrenza e la produzione di fenomeni corruttivi[4].
Ciò nondimeno, le ulteriori forme di accesso che si aggiungono a quella regolamentata dalla legge n. 241/1990 non sembrano esaurire il ventaglio di quelle possibili. Il carattere “aperto” dei modelli di accesso è il risvolto della facoltà riconosciuta alle Regioni ed agli Enti locali di “prevedere livelli ulteriori di tutela” in relazione al genus disciplinato dalla legge sul procedimento amministrativo, nonché a quello contemplato nelle discipline di settore.[5]
In questa cornice la “soluzione” adottata dal Consiglio di giustizia per la Regione Siciliana consente di apprezzare una declinazione “inedita” del rapporto tra trasparenza ed accesso per via di due distinti fattori condizionanti. Il primo fa leva sulla natura (politica o amministrativa) del potere dal cui esercizio promana il diniego opposto all’istanza di accesso; il secondo, dipende dal “rango” della fonte dalla quale trae origine la norma deputata ad individuare i limiti e le modalità di utilizzo di siffatto istituto.
La correlazione fra trasparenza ed accesso approfondita alla luce delle due proposte prospettive condiziona il radicamento della giurisdizione ed incide sulla tutela delle situazioni giuridiche sottostanti.
2.1. Trasparenza e forme di accesso
Il sostanziale mutamento che ha interessato il principio di trasparenza ha avuto inevitabili ripercussioni sul diritto di accesso che ne è emblematica proiezione, condizionandone anche le modalità di espletamento.
Il principio di trasparenza entra in modo espresso nel tessuto normativo della legge n. 241/90 – che inizialmente annoverava soltanto quello di pubblicità – andando ad aggiungersi ai principi generali dell’azione amministrativa, soltanto con la legge 11 febbraio 2005, n. 15[6].
Il riformulato impianto legislativo, però, ha reso indispensabile una riconsiderazione del fondamento giuridico e della consistenza del diritto di accesso, sino ad allora “agganciato” al principio di pubblicità e lontano dalla qualificazione in termini di strumento per attuare un controllo diffuso da parte dei cittadini sull’agere amministrativo.
Il processo volto alla ridefinizione contenutistica del principio di trasparenza è stato successivamente segnato dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale) attraverso il quale, principalmente nell’ottica di garantire «la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale», è divenuta obbligatoria per tutte le pubbliche amministrazioni la predisposizione dei propri siti informatici con l’inserimento di specifici dati ed informazioni.
Soltanto a seguito della legge 4 marzo 2009, n. 15 e del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 il principio di trasparenza può essere letto in termini funzionali ad assicurare l’accessibilità totale dei documenti amministrativi, così da incoraggiare, in aderenza ai principi di buon andamento e di imparzialità, forme diffuse di controllo sull’attività e sui profili organizzativi della pubblica amministrazione. La trasparenza è, dunque, protesa al conseguimento dell’efficienza della pubblica amministrazione e, parimenti, agevola i cittadini nella “decriptazione” dei dati concernenti, da un lato, la performance dell’ente, dei funzionari e dei servizi pubblici, dall’altro, di quelli riguardanti i procedimenti e gli assetti organizzativi utilizzati[7].
Lungo questa scia si inserisce, altresì, la legge 6 novembre 2012, n. 190 che, in chiave di prevenzione dei fenomeni corruttivi, rinviene nella trasparenza un fondamentale metodo per scongiurare mediante l’accessibilità totale a dati e documenti detenuti dalle amministrazioni il sopraggiungere di eventi di tal guisa.
In funzione rafforzativa dell’obiettivo della c.d. legge anticorruzione può leggersi, inoltre, il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 mediante il quale il legislatore si è espresso sugli obblighi di pubblicazione attraverso un organico intervento ricognitivo e sistematico delle discipline di settore.
Nella stesura originaria del d.lgs. n. 33/2013 l’accesso civico «si presentava come un semplice corollario del numerus clausus di obblighi di pubblicazione tassativamente indicati» ed il suo perimetro di operatività coincideva con quello esattamente da questi ultimi delimitato[8].
Le critiche rivolte a siffatta formulazione normativa, supportate ed integrate da proposte di introduzione nel nostro ordinamento di istituti ispirati al modello del c.d. “Freedom Information Act” (F.O.I.A.) ed in linea con l’ordinamento comunitario[9], hanno posto le basi per la elaborazione dell’art. 7, comma1, lett. h), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (c.d. “legge Madia”) in sede di delega al Governo per la modifica del d.lgs. n. 33/2013.
In attuazione di tale criterio direttivo, l’art. 5, comma 2, d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97 ha affrancato l’accesso civico dai casi tassativi di obblighi di pubblicazione, attribuendogli una valenza generale. Rispetto a tale tratto si pone a corredo la legittimazione a poter invocare l’accesso riconosciuta in capo a chiunque, nonché la previsione secondo cui ne possano formare oggetto dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli per i quali è disposta la pubblicazione[10].
La descritta evoluzione ordinamentale delinea, dunque, distinte tipologie di accesso che operano in base a disposizioni ed a presupposti fondamentalmente diversi.
La pubblica amministrazione, nel valutare se consentire o meno l’accesso, è chiamata ad effettuare un bilanciamento fra eterogenei (e spesso contrapposti) interessi alla luce di parametri che presentano consistenti tratti differenziali nell’accesso (documentale) contemplato dalla l. n. 241 del 1990 ed in quello di tipo generalizzato. Nel primo modello «la tutela può consentire un accesso più in profondità a dati pertinenti», nel secondo le esigenze di controllo diffuso del cittadino implicano una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni idonea a consentire una “conoscenza” meno approfondita (se del caso, in relazione all’operatività dei limiti), ma più estesa[11].
La platea di soggetti legittimati a poter esercitare il diritto di accesso così come la consistenza del corredo motivazionale posto a supporto dell’istanza mutano a seconda della forma di accesso.
In quella disciplinata dalla legge n. 241/1990 l’accesso deve essere basato su una richiesta adeguatamente motivata e la legittimazione a poterlo esercitare ricade su soggetti titolari di interessi qualificati - diretti, concreti ed attuali - corrispondenti ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento che si vuole conoscere. Nell’accesso civico generalizzato, invece, l’istanza non deve essere supportata da una approfondita motivazione e può essere avanzata da chiunque, indipendentemente dalla sussistenza di una posizione giuridica specifica.
Entrambe le forme, pur rinvenendo nel principio di trasparenza la roccaforte della loro cittadinanza ordinamentale ed implicando una delicata coniugazione fra i temi legati al diritto di prendere visione degli atti - di cui è in possesso l'amministrazione – e quelli correlati alla altrui riservatezza, avallano funzioni dell’accesso non collimanti.
Ciò nondimeno, ad avviso del Consiglio di Stato l’ontologica diversità delle tipologie di accesso non ne esclude il concorso giacchè la pretesa ostensiva può essere contestualmente formulata dal privato con riferimento tanto al genusdocumentale quanto a quello civico generalizzato purchè il richiedente non abbia inteso espressamente far valere e limitare il proprio interesse “cognitorio” solo all’uno o all’altro aspetto[12].
2.2. Tipologie di accesso ed “intensità” della pretesa conoscitiva
L’attuale scenario giuridico propone figure di accesso distintamente concepite, “calibrate” in ragione dei bisogni «riconosciuti e fatti propri dal contenuto di situazioni giuridiche soggettive differenziate». Nell’accesso documentale, in particolare, l’interesse pubblico alla trasparenza trova protezione allorchè combaci con l’esigenza di tutela di un interesse individuale, risultando conseguentemente condizionato dai limiti di azionabilità della sottostante situazione soggettiva. Diversamente, in quello civico semplice ed in quello generalizzato vengono attuate forme diffuse di controllo sull’espletamento delle funzioni istituzionali e sull’impiego delle risorse pubbliche.
Ciò posto, una riflessione sui tratti distintivi dei suddetti modelli di accesso ha significative implicazioni sulle modalità e sui limiti della protezione dell’interesse alla conoscenza principalmente laddove si consideri – come è stato prospettato – il rischio di una potenziale sovrapposizione dell’oggetto della pretesa nel caso dell’accesso procedimentale ex l. 241/1990 e dell’accesso civico generalizzato[13].
Sebbene entrambe le tipologie di accesso (documentale da un lato, e civico semplice /generalizzato dall’altro) siano espressione del principio di trasparenza ed abbiano a fondamento una analoga “pretesa cognitiva”, esse si diversificano sul fronte della legittimazione, del corredo motivazionale richiesto a sostegno della richiesta, sulle finalità al cui conseguimento protendono[14].
Da altra angolazione, le due figure, tenuto conto della ratio sottesa a ciascuna di essa, soggiacciono a differenti limiti. Questi ultimi, con riferimento all’accesso civico, sono articolati secondo una logica lontana da quella propria dell’accesso documentale, che non può essere concepito quale strumento volto a promuovere meccanismi di controllo diffuso sull’operato delle pubbliche amministrazioni. L’interesse individuale alla conoscenza, quindi, può essere adeguatamente soddisfatto nella misura in cui a ciò non ostino ragioni d’interesse pubblico.
L’accesso contemplato nel d.lgs. n. 33 del 2013 è, invece, proteso alla promozione di un metodo di controllo democratico sull’attività amministrativa, così da verificare il reale perseguimento delle funzioni istituzionali e l’effettivo utilizzo delle risorse pubbliche, nonché da promuovere la partecipazione al dibattito pubblico[15].
La diversificata “intensità” delle forme di accesso è il riflesso di una disciplina che introduce specifiche tecniche di composizione del conflitto dell’interesse protetto alla conoscenza con altri di diversa natura.
Nello specifico, infatti, la potenziale divergenza fra l’interesse alla conoscenza - veicolato attraverso lo strumento dell’accesso civico - ed altri (contrapposti) interessi di tipo pubblico o privato, ne rende indispensabile una attenta ponderazione che l’art. 5 bis, d. lgs. n. 33/2013, affida alla pubblica amministrazione, demandandole, allorchè accerti un possibile “pregiudizio”, onde evitare l’effettivo verificarsene, di optare per il diniego della richiesta di accesso.[16]
Tuttavia, diversamente da quanto avviene per quello civico, l’operatività dei limiti stabiliti per l’accesso documentale può ritenersi eventuale dipendendo, più che dall’esito di una valutazione discrezionale da parte della pubblica amministrazione che ne è destinataria, dall’adozione di un regolamento che ne contempli astrattamente la possibilità.
Il bilanciamento fra opposte esigenze - che è ancora più complesso nei casi in cui l’interesse alla conoscenza si contrapponga a quello posto a presidio della riservatezza - andrebbe effettuato, dunque, con riferimento alla specifica fattispecie e soltanto nel caso dell’accesso civico generalizzato, in prima battuta dall’amministrazione ed, in seconda, dal giudice,.
Al di fuori di questa ipotesi, la composizione del conflitto graverebbe sul legislatore al quale compete l’individuazione dell’interesse prevalente, operazione quest’ultima che spetterebbe alla pubblica amministrazione soltanto in via eccezionale limitatamente ad ipotesi permeate da contrasti con interessi super sensibili[17].
3. Diritto di accesso e qualificazione della funzione pubblica
Nel caso sottoposto al sindacato giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana la Commissione parlamentare dell’Assemblea Regionale siciliana, pur accordando l’accesso relativo a taluni degli atti richiesti, si opponeva al rilascio sia della documentazione contenente la trascrizione stenografica di audizioni rese in data 11 dicembre 2013 da taluni soggetti, nonché di quelle concernenti attività del Nucleo Ecologico dei Carabinieri (NOE) svolte nella qualità di polizia giudiziaria in quanto (entrambi) coperti da segreto; sia del documento denominato Relazione per la Commissione d’inchiesta quale atto interno destinato esclusivamente a quest’ultimo “organismo”.
Contestando tale rifiuto l’istante si rivolgeva al Tar siciliano affinchè gli venisse permesso di “conoscere” il contenuto di tutti i documenti richiesti.
Il proposto ricorso giurisdizionale trovava accoglimento e per l’effetto veniva ordinato all’Assemblea Regionale siciliana l’esibizione integrale della relazione resa dall’ex Assessore per l’energia e i servizi di pubblica utilità nel corso dell’audizione pubblica del 22 ottobre 2019, nonché l’esibizione della trascrizione dell’audizione degli Ufficiali dei Carabinieri svolta nella seduta del 3 dicembre 2019 pur con esclusione di quelle parti che, vertendo su indagini in corso, erano coperte da segreto istruttorio.
L’Assemblea Regionale siciliana, soccombente in primo grado, proponeva appello eccependo il difetto assoluto di giurisdizione ed articolando una serie di motivi basati sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e 24, legge n. 241/1990, sulla carenza dell’interesse ad agire, nonché sulla violazione di specifiche disposizioni del regolamento interno della Commissione d’inchiesta.
In ordine alla prima censura l’appellante invocava l’insindacabilità dell’attività svolta dalla Commissione parlamentare sulla quale trovava giustificazione il parziale diniego contenuto nel provvedimento impugnato. Su tali premesse si fondava, ad avviso dell’Assemblea Regionale Siciliana, «l’inapplicabilità dell’istituto dell’accesso agli atti di cui alla legge n. 241 del 1990 per gli atti, i documenti e le delibere emesse dal predetto organo assembleare».
In merito al secondo rilievo l’interesse all’accesso veniva contestato in ragione di quanto previsto tanto dal regolamento interno dell’Assemblea Regionale Siciliana, quanto dalle specifiche disposizione contenute nella legge n. 241/1990 (artt. 22 e ss.).
Il terzo motivo di gravame poggiava sulla asserita qualifica di atto interno e, pertanto, riservato della Relazione per la Commissione d’inchiesta a norma di quanto disposto dall’art. 19 del regolamento del predetto “organismo”. Ed, infatti, il documento richiesto non sarebbe stato allegato ai sensi dell’art. 21, comma 2 del regolamento interno, né sarebbe stato oggetto di pubblicazione secondo quanto sancito dal comma 1 della medesima disposizione. In ogni caso, ad avviso dell’Assemblea Regionale Siciliana, sul fronte delle audizioni rese in merito all’attività del NOE, non sarebbe ricaduto sulla Commissione un obbligo di trascrizione, rimanendo il “rapporto stenografico” «funzionale ai lavori e non anche alla loro pubblicità».
Alla luce del combinato disposto degli articoli 13 e 21 del regolamento – che ne prevedono rispettivamente le modalità ed i limiti – la pubblicità, infatti, sarebbe assicurata attraverso sommari “inserirti” nel bollettino delle Commissioni.
Ciò tanto più che l’audizione degli ufficiali del NOE avrebbe riguardato circostanze riconducibili all’espletamento di funzioni giudiziarie coperte da segreto istruttorio in quanto oggetto di indagini (non concluse) condotte della Procura della Repubblica agrigentina.
L’appellato, costituitosi in giudizio, contestava le difese formulate dalla controparte, concludeva per il rigetto del proposto gravame, richiesta quest’ultima che veniva disattesa dal giudice amministrativo siciliano di secondo grado che, invece, accoglieva il ricorso ritenendo fondata l’impugnazione.
4. Tratti identificativi del modello di accesso “documentale”
L’analisi delle argomentazioni giuridiche sulle quali il giudice amministrativo di appello ha fondato la sua decisione sottolinea l’utilità di soffermarsi sulla forma di accesso in essa considerato tracciandone sinteticamente il relativo perimetro definitorio e la pertinente disciplina.
L’accesso contemplato nella legge n. 241/1990 consente ai soggetti interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi in costanza di un procedimento amministrativo (accesso c.d. endoprocedimentale o “interno” o “partecipativo”), o indipendentemente dall’esistenza di un percorso procedimentale in fieri (accesso c.d. esoprocedimentale o “esterno” o “informativo”)[18] .
Tale distinzione non influisce sulla qualificazione giuridica dell’accesso, ma sulla legittimazione attiva riconosciuta nel modello ex art. 10, legge n. 241/1990 a favore dei soggetti di cui agli art. 7 e 9 dello stesso testo normativo e con riferimento a quello di cui all’art. 22, legge n. 241/1990 in capo a «tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso», prescindendo dalla qualificazione in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo (art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990) [19].
I destinatari dell’istanza di accesso sono i soggetti i quali hanno formato il documento di cui si chiede l’ostensione o che lo detengono stabilmente, non assumendo importanza la loro natura giuridica (pubblica o privata), ma il carattere (pubblico) dell’interesse sotteso all’attività da essi svolta (art. 25, comma 2, l. n. 241/1990)[20].
Da questa posizione differisce quella dei controinteressati che, individuati o facilmente individuabili alla luce del dato documentale, riscontrano nell’altrui istanza di accesso un potenziale pregiudizio del proprio diritto alla riservatezza atto a fondarne la loro opposizione alla ostensione[21].
La “qualità” di controinteressato nei cui confronti la legge rivolge apposita tutela può evincersi testualmente dal provvedimento o può desumersi dalla titolarità di una qualificata situazione giuridica soggettiva “connessa” al contenuto dell’atto oggetto di accesso[22].
Sul fronte dei limiti, pur di fronte ad una loro espressa elencazione normativa, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di puntualizzare come l’accesso non possa trovare preclusioni legate all’indole giuridica, pubblica o privata, dell’ente che ha emanato il documento o dell’atto di cui si chiede l’ostensione. Occorre, piuttosto, attribuire rilevanza al collegamento diretto fra contenuto del documento, cui si chiede di accedere, ed esercizio di un’attività di pubblico interesse[23].
Tuttavia, accanto ad un gruppo di limiti riconducibili alla segretezza delle informazioni confluite nei documenti, vi è quello ascrivibile alla riservatezza.[24] Per quanto entrambe le categorie di limitazioni siano connesse alla qualità ed alla tipologia di informazioni presenti nel documento amministrativo, a loro volta espressione di interessi meritevoli di tutela, la segretezza è proiettata alla protezione di interessi pubblici o generali, diversamente la riservatezza è protesa alla tutela di interessi privatistici, riconducibili alla sfera personale del singolo.
5. Diritto di accesso, funzione pubblica e giurisdizione amministrativa
La fattispecie di accesso sulla quale è stato chiamato ad esprimersi il Consiglio di giustizia per la Regione Siciliana concerne il modello delineato nella legge n. 241/1990 con quanto ne consegue sul piano della operatività dei limiti che precludono l’accoglimento della relativa istanza.
La vicenda specifica, tuttavia, deve la sua singolarità alla natura giuridica dell’attività svolta dal soggetto che al documento ha dato vita ed alla possibilità che a quest’ultimo offre l’ordinamento, secondo il regolamento che ne disciplina i suoi “meccanismi di funzionamento”, di fissare le “modalità di esercizio” del diritto di accesso. Siffatta prerogativa mette in condizione il soggetto che ne è titolare di individuare i casi nei quali sussistono ragioni di segretezza che precludono a terzi di conoscere dati ed informazioni contenuti nei documenti espressione delle funzioni dal medesimo esercitate.
Sul fronte, poi, della giurisdizione, posto che la qualificazione della funzione dal cui svolgimento promanano gli atti rileva quale criterio per individuare il giudice chiamato ad esprimere la sua determinazione, il decidente non ha ritenuto meritevole di accoglimento la proposta eccezione di difetto assoluto di giurisdizione. Specificamente non ha considerato applicabile l’ultima parte del comma 1 dell’art. 7, c.p.a. secondo cui sono sottratti al sindacato giurisdizionale gli atti che, pur soggettivamente e formalmente amministrativi, hanno una inequivocabile indole politica, in quanto espressione della fondamentale funzione di direzione e di indirizzo politico del Paese[25].
Posto che nel caso di specie il diniego parzialmente opposto all’istanza di accesso agli atti non è ritenuto frutto dell’esercizio del potere politico, ma espressione di attività amministrativa, difettano le condizioni che consentono di escluderne la sottoposizione al sindacato del giudice amministrativo.
Né ad avviso del giudice siciliano di appello, i presupposti per prevenire a conclusioni opposte sarebbero «ritraibili da diverse fonti normative che in qualche modo potrebbero determinare la non assoggettabilità al vaglio giurisdizionale, per escludere la sua sindacabilità dinanzi al giudice amministrativo».
Le riferite conclusioni sono ulteriormente argomentante adducendo l’inconfigurabilità in capo all’Assemblea Regionale Siciliana di poteri di autodichia con la conseguenza che le deroghe rispetto alla giurisdizione comune avrebbero carattere eccezionale e per tale ragione non si presterebbero ad alcuna estensione analogica[26].
È, dunque, saldamente radicata la giurisdizione amministrativa nella controversia proposta avverso il diniego di accesso ai documenti opposto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia giacchè quello amministrativo, in sede di giurisdizione generale di legittimità, è il giudice naturale chiamato ad esprimersi sulla legittimità della funzione pubblica esercitata.
Propendendo per una soluzione diversa la posizione soggettiva rispetto alla quale è chiesta espressa tutela rimarrebbe, senza che sussistano valide e fondate ragioni di ordine giuridico, sprovvista di protezione giurisdizionale.
Espressosi nei suddetti termini sul fronte della giurisdizione, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana procede, poi, a verificare alla luce della normativa vigente la fondatezza del diritto dell’istante di poter accedere agli atti richiesti.
A tale proposito l’autorità giurisdizionale amministrativa di appello formula alcune preliminari considerazioni sulla sfera di autonomia riconosciuta dallo Statuto all’Assemblea Regionale Siciliana.
L’utilità di tali osservazioni si scorge agevolmente allorchè si consideri come lo Statuto della Regione Siciliana, avente peraltro rango costituzionale, attribuisca – secondo quanto disposto dal relativo art. 4 - all’Assemblea Regionale Siciliana una riserva di regolamento, rimettendo alla sua autonomia la facoltà di stabilirne il contenuto.
Tale peculiarità esclude una assimilazione dei suddetti atti normativi ai «comuni regolamenti adottati dagli organi amministrativi delle PP.AA.,» pertanto la loro collocazione rispetto alle fonti primarie li inserisce in seno ad un rapporto permeato dal principio di separazione per effetto del quale essi soggiacciono soltanto ai limiti costituzionali e statutari[27].
L’art. 2, comma 2, l.r. Sicilia 14 gennaio 1991, n. 4, in particolare, riserva al regolamento interno sulle modalità di esercizio delle funzioni della Commissione di inchiesta anche la previsione di apposite diposizioni concernenti le forme di pubblicità sia dei lavori, sia degli atti e dei documenti posseduti dalla stessa.
La posizione di prevalenza nel sistema delle fonti di tali disposizioni regolamentari - che hanno visto la luce nella seduta n. 4 del 29 maggio 2018 - rispetto a quelle confluite nella disciplina generale dipende, dunque, dalla specialità della loro indole normativa.
Principalmente per tale motivo esse costituiscono un fondamentale parametro normativo all’insegna del quale verificare la legittimità del diniego all’accesso e, conseguentemente, in base al quale il giudice amministrativo di secondo grado ha ritenuto fondato nel merito l’appello proposto dall’Assemblea Regionale Siciliana.
A norma dell’art. 21 del regolamento interno alla Commissione parlamentare compete all’Ufficio di Presidenza l’individuazione degli atti e dei documenti che possono essere pubblicati sia nel corso dei lavori della stessa, sia in allegato alle relazioni esitate a chiusura delle singole inchieste o indagini.
Ciò nella misura in cui la legge istitutiva della Commissione ed il regolamento interno di quest’ultima non prevedano limiti che ne inibiscano la pubblicazione per ragioni di segretezza.
In ogni caso, secondo quanto previsto dall’art. 13, comma 1, e fermi restando i limiti di cui all’art. 21 del richiamato regolamento, la pubblicità dell’attività e dei lavori della Commissione è garantita attraverso “l’inserimento” dei relativi sommari nell’apposito Bollettino.
Sul riferito percorso argomentativo si fonda la decisione del Consiglio di giustizia per la Regione Siciliana di accogliere appello e, pertanto, riformata l’impugnata sentenza, di concludere per «l’integrale rigetto del ricorso proposto in primo grado».
Alla luce del ragionamento sviluppato dal giudice, il parziale diniego di accesso disposto dalla Commissione in ragione di quanto prescritto dal regolamento interno della Commissione parlamentare risulta, infatti, privo di vizi che ne possono compromettere la legittimità.
6. Brevi considerazioni conclusive
La legge sul procedimento amministrativo, soprattutto ad esito delle modifiche alla stessa apportate dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, nel qualificare l’accesso alla stregua di principio generale dell’attività amministrativa, per un verso, ne consacra le due anime e, per un altro, ne esalta una sorta di sua “copertura” costituzionale.
Nella prima accezione esso si presenta nella veste di strumento idoneo sia a favorire la partecipazione dei soggetti interessati al procedimento amministrativo, sia ad assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione (art. 22, comma 2, legge n. 241/1990).
Nella seconda articolazione l’istituto afferisce ai «livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione» (art. 29, comma 2bis).
Da questa prospettiva, pertanto, la pronuncia in commento mantiene vivo l’interesse sulla questione concernente la misura entro la quale le Regioni e gli Enti locali possano prevedere deroghe alla disciplina statale che, però, non si sostanzino in preclusioni o complicazioni all’esercizio del diritto di accesso.
A riguardo l’art. 29, comma 2, legge n. 241/1990 ha chiarito che nell'ambito delle rispettive competenze è consentito alle Regioni ed agli Enti locali di regolare le materie disciplinate dalla legge n. 241/1990 nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell'azione amministrativa, così come definite dai principi stabiliti dallo stesso corpus normativo. E’ escluso, dunque, che tale prerogativa si risolva nel prevedere «garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati dalle disposizioni attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni di cui ai commi 2-bis e 2-ter», mentre per converso nessun ostacolo si riscontra nel sancire “livelli” ulteriori di tutela[28].
È evidente, dunque, l’importanza di una riflessione sulla collocazione sistematica dell’istituto in esame nell’attuale panorama giuridico, nell’ambito del quale la logica della differenziazione può avere una considerevole incidenza anche sul modo di declinare il rapporto tra trasparenza ed accesso[29].
La riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, disegnando un sistema permeato dall’apprezzamento delle realtà territoriali pare avere favorito, anche tramite l’accesso, una maggiore trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione incoraggiando la nascita di rapporti più diretti e lineari fra quest’ultima ed il cittadino.
Il diritto di accesso e la tutela della trasparenza intesa come “interesse primario” devono, invero, inevitabilmente passare attraverso una adeguata concezione e delimitazione dell’autonomia regolamentare offerta a riguardo ai soggetti pubblici.
È, pertanto, indispensabile immaginare un sistema istituzionale che sia in grado di coniugare adeguatamente logiche unitarie di garanzia della trasparenza ed esigenze di differenziazione dei modelli di accesso.
Tuttavia la ricerca di un delicato equilibrio fra contrapposte vocazioni è una impresa tanto stimolante quanto complicata soprattutto nei casi in cui le questioni riguardanti le modalità di esercizio e i limiti del diritto di accesso siano affrontate nell’ambito di un contesto ordinamentale – come quello siciliano - che si presenta “inconsueto” anche per via del rango della fonte destinata ad accogliere la disciplina di tale istituto.
L’analisi della pronuncia all’insegna del descritto quadro ordinamentale consente di metterne in risalto un ulteriore profilo di “originalità” riconducibile al “dato” secondo cui l’esclusione dell’accesso non dipende dall’esigenza di proteggere dati ed informazioni per ragioni di riservatezza. La pretesa alla conoscenza, infatti, rinviene insormontabile ostacolo in motivi di interesse pubblico che conformano i contenuti dell’accesso.
Dette peculiarità condizionano l’approccio all’insegna del quale affrontare la questione trattata nella decisione in commento, consentendo di affrancare l’interesse conoscitivo sotteso all’accesso dalla “consueta logica” del contrasto tra trasparenza e riservatezza.
Nella particolare vicenda sottoposta al suo sindacato, il TAR Siciliano, pur escludendo in linea teorica la natura politica della funzione pubblica confluita nell’atto di diniego dell’accesso, nei fatti non si esprimere sulla conformazione del diritto di accesso ad opera della fonte regolamentare regionale.
La conseguenza è che la soluzione cui perviene il giudice amministrativo palermitano sembra “sconfessare nei fatti” quanto premesso in via teorica.
Ciò dal momento che l’esclusione in sede giurisdizionale della connotazione politica del diniego non sembra trovare una inequivocabile copertura giuridica nella insindacabilità della conformazione del diritto di accesso operata per effetto della fonte regolamentare.
Tale ultima circostanza finisce, quindi, per mettere in ombra l’indole amministrativa dell’atto di diniego lasciando margini per ipotizzarne una vocazione politica
Quanto osservato, indipendentemente dalla condivisione della scelta adottata in sede giurisdizionale dal TAR Sicilia, è indicativo di come i nuovi confini della trasparenza, la corretta concezione dell’autonomia normativa dei soggetti pubblici, nonché la necessità di garantire momenti unitari nella disciplina esprimano le potenzialità del tema oggetto di riflessione nell’inquadramento della correlazione fra principio di trasparenza e diritto di accesso.
Sul piano della tutela, infine, se, da un lato, la tesi della insindacabilità degli atti espressione del potere politico ed il saldo radicamento nel tessuto processuale del binomio giurisdizione amministrativa/funzione amministrativa trovano ovviamente conferma anche nei casi di controversie in materie di accesso; dall’altro, non arretra la ricorrente esigenza di assicurare effettive forme idonee di protezione allorchè si contesti mediante l’impugnazione di illegittimi provvedimenti di diniego dell’accesso la violazione dei principi di trasparenza e di pubblicità.
L’esaltazione dei “valori giuridici” ascrivibili alla trasparenza, infatti, è un obiettivo prioritario e costante in un contesto come quello attuale in cui la chiarezza e l’intellegibilità dell’operato della pubblica amministrazione è destinato a scoraggiare il proliferare di casi di maladmistration e di corruzione.
Da questi punti di vista, dunque, l’accesso rappresenta una valida occasione per sperimentare la prospettiva della “differenziazione” adeguatamente valorizzata in sede costituzionale, purchè tale “operazione” non conduca alla elaborazione di modelli che “intacchino i “livelli essenziali” da assicurare a favore di tutti i cittadini e relativamente ai quali l’ordinamento è chiamato a prevedere ed a garantire idonei ed effettivi strumenti di tutela giurisdizionale[30] .
[1] A norma dell’art. 15, d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (T.U. delle disposizioni concernenti gli impiegati civili dello Stato), l’accesso agli atti amministrativi era consentito solo in ipotesi tassativamente previste dalla legge.
Sulle argomentazioni utilizzate per limitare, se non addirittura escludere, la conoscibilità degli atti e dell’operato della pubbliche amministrazioni in nome della tutela di interessi privati e di carattere generale F. Manganaro, Evoluzione ed involuzione delle discipline normative sull’accesso a dati, informazioni ed atti delle pubbliche amministrazioni, in Dir. amm., 2019, 743 ss. Sui legami tra regime autarchico e segreto, nonchè tra sistema democratico e trasparenza G. Corso, Potere politico e segreto, in F. Merloni (a cura), La trasparenza amministrativa, Milano, 2008, 268.
[2] Secondo A. Barone, R. Dagostino, La trasparenza e il diritto di accesso, in A. Barone (a cura di), Cittadini, imprese e pubbliche funzioni, Bari, 2018, 172, «L’accesso ai documenti amministrativi costituisce quindi uno degli snodi essenziali dell’evoluzione in senso (tendenzialmente) pari ordinato dei rapporti fra cittadini e pubbliche amministrazioni».
[3] Il mutamento del principio di trasparenza che ha preso avvio con l’art. 1, d.lgs. n. 150/2009, si è ulteriormente implementato attraverso il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, successivamente modificato dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97. Per una analisi dei contenuti del principio di trasparenza che consenta di apprezzarne anche la sua evoluzione concettuale R. Villata, La trasparenza dell’azione amministrativa, in Dir. proc. amm., 1987, 529; G. Arena, Trasparenza amministrativa, in Enc. giur., Agg., IV, Roma, 1995, R. Marrama, La pubblica amministrazione tra trasparenza e riservatezza nell’organizzazione e nel procedimento, in Dir. proc. amm., 1989, 416; F. Manganaro, Evoluzione del principio di trasparenza, in www.astridonline.it, anche in Studi in memoria di Roberto Marrama, Napoli, 2012; M. Occhiena, I principi di pubblicità e trasparenza, in M. Renna, F. Saitta (a cura di), I principi di diritto amministrativo, Milano, 2012; M.R. Spasiano. I principi di pubblicità, trasparenza e imparzialità, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2011, 83; F. Patroni Griffi, La trasparenza della Pubblica Amministrazione tra accessibilità totale e riservatezza, in www.federalismi.it, 2013; M. Savino, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa, in Giorn. dir. amm. 2013, 797 ss.; M.C. Cavallaro, Garanzie della trasparenza amministrativa e tutela dei privati, in Dir. amm., 2015; S. FOA’, La nuova trasparenza amministrativa, in Dir. amm., 2017, 65. Più recentemente ne coglie gli aspetti evolutivi legati al processo di informatizzazione che ha coinvolto la pubblica amministrazione A.G. Orofino, La trasparenza oltre la crisi. Accesso, informatizzazione e controllo civico, Bari, 2020.
[4] F. Merloni, La trasparenza come strumento di lotta alla corruzione tra legge n. 190 del 2012 e d.lgs. n. 33 del 2013, in B. Ponti (a cura di), La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, Rimini, 2013, 18; F. Manganaro, Evoluzione del principio di trasparenza, cit., 3; M. D’Alberti (a cura di), Combattere la corruzione. Analisi e proposte, Soveria Mannelli, 2016; G.M. Racca, Corruzione (dir. amm.), in Dig. disc. pubbl., Agg., 2017, 208.
[5] Emblematico sono i casi degli appalti pubblici, dell’ambiente, degli Enti locali.
[6] Secondo art. 22, comma 2, l. n. 241/1990, così come riformulato dalla l. n. 15/2005 «l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza, ed attiene ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art 117, secondo comma lett. m), della Costituzione».
[7] D.U. Galetta, La trasparenza, per un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione:un’analisi storico-evolutiva, in una prospettiva di diritto comparato ed europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2016, 1045.
A riguardo M.C. Cavallaro, Garanzie della trasparenza amministrativa e tutela dei privati, cit., 127, osserva come «(…) nella riforma del 2009, il legislatore collega l’accessibilità totale delle informazioni della pubblica amministrazione alle modalità di misurazione e valutazione delle performances (individuali e collettive) dei dipendenti pubblici, laddove dispone che la piena conoscibilità delle informazioni relative all’organizzazione, all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali è finalizzata a favorire forme diffuse di controllo nel rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità (art. 11 d.lgs. n. 150/2009)».
Su questi profili, R. Perez (a cura di), Il «Piano Brunetta» e la riforma della pubblica amministrazione, Rimini, 2010.
[8] Così testualmente A. Barone, R. Dagostino, La trasparenza e il diritto di accesso, cit., 200.
[9] L’accesso concepito nei termini suddetti si allinea alla normativa comunitaria (art 15 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) ed, in particolare, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (artt. 41 e 42 della c.d. Carta di Nizza), che lo considera un diritto fondamentale dei cittadini e lo ricollega al diritto a una buona amministrazione.
[10] A. Porporato, Il “nuovo” accesso civico “generalizzato” introdotto dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, attuativo della riforma Madia e i modelli di riferimento, in www.federalismi.it, 2017.
[11] Cfr. Cons. St., Ad. pl., 2 aprile 2020, n. 10.
[12] Secondo Cons. St., sez. V, 2 agosto 2019, n. 5503, «nulla infatti, nell’ordinamento, preclude il cumulo anche contestuale di differenti istanze di accesso». A tale proposito Cons. St., Ad. pl., 2 aprile 2020, n. 10, precisa che «l’art. 5, comma 11, del d. lgs. n. 33 del 2013 ammette chiaramente il concorso tra le diverse forme di accesso, allorquando specifica che restano ferme, accanto all’accesso civico c.d. semplice (comma 1) e quello c.d. generalizzato (comma 2), anche “le diverse forme di accesso degli interessati previste dal capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241”».
«(…) La coesistenza dei due regimi e la possibilità di proporre entrambe le istanze, anche uno actu, è certo uno degli aspetti più critici dell’attuale disciplina perché, come ha bene messo in rilievo l’ANAC nelle Linee guida di cui alla delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016 (par. 2.3, p. 7) – di qui in avanti, per brevità, Linee guida – l’accesso agli atti di cui alla l. n. 241 del 1990 continua certamente a sussistere, ma parallelamente all’accesso civico (generalizzato e non), operando sulla base di norme e presupposti diversi, e la proposizione contestuale di entrambi gli accessi, può comportare un «evidente aggravio per l’amministrazione (del quale l’interprete non può che limitarsi a prendere atto), dal momento che dovrà applicare e valutare regole e limiti differenti» (Cons. St., sez. V, 2 agosto 2019, n. 5503)». Osserva altresì l’Adunanza plenaria «che, in presenza di una istanza di accesso ai documenti espressamente motivata con esclusivo riferimento alla disciplina generale della l. n. 241 del 1990, o ai suoi elementi sostanziali, la pubblica amministrazione, una volta accertata la carenza del necessario presupposto legittimante della titolarità di un interesse differenziato in capo al richiedente, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), della l. n. 241 del 1990, non può esaminare la richiesta di accesso civico generalizzato, a meno che non sia accertato che l’interessato abbia inteso richiedere, al di là del mero riferimento alla l. n. 241 del 1990, anche l’accesso civico generalizzato e non abbia inteso limitare il proprio interesse ostensivo al solo accesso documentale, uti singulus».
[13] Su questi aspetti amplius F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in www.federalismi.it, n. 10/2019, il quale, partendo dall’astratta sovrapponibilità delle due tutele, osserva come tale circostanza metta «l’interprete di fronte all’alternativa di chiarire se si è di fronte soltanto ad un problema di mancato coordinamento, da parte al legislatore, della nuova figura di accesso introdotta dal d. lgs. 97 del 2016, con la preesistente forma di accesso procedimentale disciplinata dalla l. 241/1990; ovvero se si sia voluta effettivamente mantenere la distinzione tra le due figure precisandone, in tal caso, quale sia il significato».
[14] In ordine al primo profilo, come in precedenza evidenziato, l’accesso di cui alla legge n. 241/1990 presuppone la titolarità in capo all’istante di un interesse specifico, immediato e diretto, correlato ad una situazione giuridicamente tutelata dall’ordinamento, alla conoscenza degli atti e dei documenti amministrativi produttivi di effetti giuridici nella sua sfera giuridica. L’accesso contemplato nel d.lgs. n. 33 del 2013, invece, può essere promosso da “chiunque” e non richiede alcun supporto sul piano motivazionale della “pretesa conoscitiva”.
[15] Art. 5, d. lgs. n. 33/2013.
[16] A tale riguardo A.N.AC., determinazione n. 1309 del 28 dicembre 2016.
[17] A riguardo F. FRANCARIO, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., 19 ss., il quale, peraltro, evidenzia che «L’introduzione della nuova figura di accesso civico secondo il modello FOIA assorbe e soddisfa l’interesse pubblico alla realizzazione del principio di trasparenza condizionando e facendo dipendere la soddisfazione dell’interesse all’accesso dalla valutazione discrezionale dell’amministrazione.L’accesso classico esercitabile ai sensi della legge 241 rimane invece focalizzato sulla strumentalità defensionale e, in questa prospettiva, in quanto volto a consentire il soddisfacimento di bisogni di tutela riconosciuti e protetti da norme primarie, non può ritenersi più condizionato dalla discrezionalità amministrativa».
[18] A norma dell’art. 22, comma 1, lett, d), l. n. 241/1990, deve considerarsi documento amministrativo «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale» (art 22, comma 1, lett d).
Sull’accesso, senza pretesa di esaustività, ma fondamentali ai fini di un inquadramento sistematico G. Arena (a cura di), L’accesso ai documenti amministrativi, Bologna 1991; M. Clarich, Diritto d’accesso e tutela della riservatezza: regole sostanziali e tutela processuale, in Dir. proc. amm., 1996, 430; C.E. Gallo, S. Foà, Accesso agli atti amministrativi, in Dig. disc. pubbl., Agg., Torino, 2000, 1 ss.; M.A. Sandulli, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enc. dir., Agg., IV, 2000, 1 ss.; A. Sandulli, Accesso ai documenti amministrativi, in Giorn. dir. amm. 2005, 494 ss.; G. Clemente Di San Luca, Diritto di accesso ed interesse pubblico, Napoli, 2006.
[19] In Cons. Stato, Ad. pl. 18 aprile 2006, n. 6 l’accesso quale «pretesa a conoscere il contenuto di determinati documenti amministrativi ha natura strumentale dal momento che non riconosce utilità finali, ma poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritti o interessi)». Su questa pronuncia M. Occhiena, Diritto d’accesso, «sua natura camaleontica» e Adunanza Plenaria 6/06 (Nota a Cons. Stato, ad. plen., 18 aprile 2006, n. 6), in Foro it., 2006, III, 378 ss.
In dottrina sulle questioni legate alla legittimazione A. Romano Tassone, A chi serve il diritto di accesso (riflessioni su legittimazione e modalità d’esercizio del diritto di accesso nella l. n. 241 del 1990), in Dir. amm., 1995, 315.
[20] In merito Cons. Stato, Ad. pl., 5 settembre 2005, n. 5.
[21] Art. 22, comma1, lett. c), l. n. 241/1990. A riguardo M. Mazzamuto, La tutela del segreto ed i controinteressati al diritto di accesso, in Dir. proc. amm., 1995, 96.
[22] A questo proposito art. 3, d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184.
[23] Secondo quanto prescrive l’art. 22, comma 3, l. 241/1990 sono accessibili tutti i documenti amministrativi, salvo quelli indicati nell’art. 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6.
In base all’art. 24, comma 1, l. n. 241/1990 l’accesso è precluso ove riguardi a) documenti coperti dal segreto di Stato o la cui divulgazione sia vietata per legge; b) documenti relativi a procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano; c) atti prodromici all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione; d) nell’ambito dei procedimenti selettivi, documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relative a terzi (si tratta di atti esclusi per specifica indicazione di legge).
In base a quanto prescritto dall’art. 24, commi 2, 5, e 6, al di fuori delle ipotesi sopra elencate, la legge prevede che la scelta di sottrarre all’accesso altri atti possa essere rimessa alla pubblica amministrazione ovvero che la individuazione di tali atti possa avvenire mediante apposito regolamento governativo.
Viene, infatti, consentito al Governo mediante la predisposizione di apposito regolamento ex art. 17 comma 2, l. n. 400/1988, di sottrarre all’accesso ulteriori documenti amministrativi laddove sussistano ragioni legate alla necessità di tutelare di interessi pubblici prevalenti e antitetici. Ciò potrebbe verificarsi allorchè si tratti di documenti da cui possa derivare un pregiudizio a) alla difesa nazionale, all’esercizio della sovranità nazionale e alla continuità e alla correttezza delle relazioni internazionali; b) ai processi di formazione della politica monetaria e valutaria; c) alla tutela dell’ordine pubblico, della prevenzione e della repressione della criminalità, con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione, e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, all’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini; d) alla riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale; e) attività connesse alla contrattazione collettiva nazionale (art. 24, comma 6).
«Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’art 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale» (art. 24, comma 7, l. n. 241/1990).
Sul punto Cons. Stato, Adunanze plenarie nn. 4 e 5 del 22 marzo del 1999.
[24] In A. Barone, R. Dagostino, La trasparenza e il diritto di accesso cit., 195, evidenziata la connotazione essenzialmente dinamica del diritto alla riservatezza, viene sottolineato come il raccordo fra le discipline sul diritto di accesso e sulla protezione dei dati personali sia garantito dagli artt. 59 e 60 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (codice della privacy). Ciò dal momento che il d.lgs. n. 196/2003 ha distinto tre categorie di dati personali, (c.d. comuni della persona, c.d. sensibili, c.d. supersensibili) rispetto ai quali accorda una tutela differenziata connessa alla maggiore o minore sensibilità dell’informazione contenuta nel documento amministrativo oggetto di accesso.
Tenuto conto che allorquando il documento contenga dati che consentono di identificare, anche indirettamente, un soggetto non sorgono peculiari esigenze di tutela, trovano applicazione le prescrizioni riportate nella legge n. 241/1990, per cui il soggetto interessato ad esercitare il diritto di accesso dovrà limitarsi a dimostrare di essere titolare di un interesse concreto, diretto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata, collegata al documento di cui si chiede l’ostensione (art. 22 l. n. 241/1990).
Nelle ipotesi in cui, invece, il documento oggetto di istanza di accesso contenga dati «idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale», ovvero giudiziari, l’accesso potrà essere ammesso soltanto ove sia necessario per la tutela di interessi giuridici propri del richiedente, e nella misura in cui sia strettamente indispensabile .
Ove, infine, l’accesso verta su documenti contenenti dati ed informazioni sullo stato di salute e la vita sessuale della persona, esso potrà essere consentito solo ad esito di una apposita ponderazione da parte della pubblica amministrazione dalla quale emerga la parità di rango fra la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare ed i diritti dell’interessato, oppure laddove detta situazione si sostanzi in un diritto della personalità o in altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile.
Del potere valutativo da parte della pubblica amministrazione in materia di accesso difensivo si è recentemente occupato Cons. Stato, Ad. pl., 18 marzo 2021, n. 4.
[25] E’ stato chiarito in sede consultiva da Cons. Stato, sez. I, 19 settembre 2019, n. 2483, che per comprendere se un atto amministrativo è sindacabile occorre accertare la concreta conformazione della norma posta a fondamento della funzione esercitata e dalla quale esso promana. Ad avviso del Consiglio di Stato, infatti, «ciò che rileva ai fini della impugnabilità o meno dell’atto non è tanto che esso promani da un organo di vertice della pubblica amministrazione e che concerna le supreme scelte in materia di costituzione, salvaguardia e funzionamento dei pubblici poteri, ma che sussista una norma che predetermini le modalità di esercizio della discrezionalità politica o che, comunque, la circoscriva».
[26] Cfr. Cons. giust. Reg. Siciliana, 7 dicembre 2021, n. 1032.
[27] Il regolamento per l’accesso agli atti ed ai documenti amministrativi dell’Assemblea Regionale Siciliana è stato pubblicato sulla G.U.R.S. n. 28 del 20 giugno 2008.
[28] Art. 29, comma 2-quater, l. n. 241/1990.
[29] Sulle potenzialità del criterio costituzionale della “differenziazione” I.M. Marino, Sulla funzione statutaria e regolamentare degli enti locali, in I.M. Marino, Aspetti della recente evoluzione del diritto degli enti locali, Palermo, 2002.
[30] Le questioni problematiche che si pongono a proposito della tutela processuale del diritto di accesso sono molteplici, sullo specifico fronte di quella cautelare, ovviamente senza pretesa alcuna di esaustività, sia consentito il rinvio a A.G. Orofino, F. Cimbali, Sulla tutela cautelare nel rito in materia di accesso: spunti di riflessione e analisi di recenti orientamenti, in corso di pubblicazione su www.federalismi.it
Paesaggio, ambiente, territorio: il binomio tutela-fruizione dopo la riforma costituzionale*
di Giancarlo Montedoro
Sommario: 1. Un po’ di storia – 2. La Costituzione nel suo testo originario e la riforma del Titolo V - 3. L’attuazione costituzionale fra speculazione e ricomposizione - 4. La recente riforma della Costituzione in materia di ambiente: alcune domande scomode.
1. Un po’ di storia
La vita è metamorfosi.
Ogni nascita – ci dice E. Coccia il sociologo italo francese nel libro Metamorfosi – è un nuovo cheemerge (nell’oblio di ciò che è stato nel ventre materno) ma è anche un futuro che si perde in un passato senza limiti.
Ogni conservazione è giudizio sulla fruizione (incompatibile con essa).
Ogni fruizione (compatibile con la conservazione) ha dentro di sé il problema del limite dato dall’eredità materiale ed identitaria su cui agisce.
Ogni sentimento del passato è apertura al futuro. Ogni futuro – fatto in un certo modo e non in altro - è reso possibile (e condizionato) da ciò che eravamo prima della sua apparizione.
Nascere non è altro che questo l’impossibilità di essere al di fuori di un rapporto di continuità fra ilnostro io e l’io degli altri, tra la vita umana e quella non umana, tra la vita umana e la materia del cosmo.
Sono lieto di essere qui a Capri a celebrare un anniversario importante.
Il primo convegno dedicato al paesaggio in Italia si tenne a Capri il 9- 10 luglio del 1922 organizzato dal Sindaco di Capri Edwin Cerio e con il sostegno di due numi tutelari come Giovanni Rosadi, allora Sottosegretario alle belle arti e Luigi Parpagliolo (nonno della cantante GiovannaMarini), vero e proprio pioniere del diritto del paesaggio in Italia, allora vice direttore generale alle belle arti.
A Capri da sempre trionfa la bellezza. Quindi mi sento confortato.
Nel congresso del 1922 fu presentato un ordine del giorno da Filippo Cifariello, Luigi Parpagliolo e Filippo Tommaso Marinetti, intellettuale e poeta futurista.
Si voleva coniugare la bellezza (la sua tutela) con il presentismo e con futurismo attraverso lo “stile pratico” in grado di tenere insieme l’essenza del profilo insediativo nella natura con le esigenze della vita moderna.
Siamo ancora – mutatis mutandis – allo stesso punto.
Conviene riportare quell’ordine del giorno (tratto dal bel libro di Paolo Passaniti Il diritto cangiante. Il lungo Novecento giuridico del paesaggio italiano, Milano 2019 pag. 56 nota 104 ) : “ Il Convegno deplorando le continue deturpazioni commesse a danno del paesaggio italiano esprime il voto che , in relazione alla legge per la tutela delle bellezze naturali ed in ossequio ai criteri informativi della Leggecomunale e provinciale ed ai recenti responsi della giurisprudenza, i regolamenti edilizi ed i piani regolatori, riconoscendo i bisogni della vita moderna ed adoperando nuovi materiali e metodi di costruzione, debbano rispettare l’ambiente ed intonarsi al paesaggio locale.”
Conservazione e trasformazione sono declinate insieme in questa prospettiva, conciliata e conciliante.
Lo stesso paesaggio è prodotto della cultura, di una cultura agraria che ha agito per secoli sul territorio, essendo evidente che in Italia non abbiamo i grandi spazi di natura incontaminata chesono presenti nel nuovo mondo ( in Canada e negli Stati Uniti ) dando vita alla tutela dei parchi naturalicome luoghi di wilderness di ecologia profonda, integrale, di recupero di una dimensione di rapporto con la natura che – come insegna Rousseau l’uomo moderno ha del tutto perduto a favore della propriadimensione sociale – artificiale ( frutto di infelicità connotata come è dalla logica proprietaria ) .
Conviene – prima di definire gli oggetti della tutela e della fruizione – fare, sinteticamente, un po’ di storia in ciò aiutati dal citato libro di Passaniti.
L’Italia all’origine è Italia dei Comuni.
Basta guardare un centro storico medioevale per vederne l’armonia architettonica.
Si tratta di una concezione dell’urbe, ispirata ad un’idea di coralità, frutto della dominanza della concezione etica e religiosa del cristianesimo medievale.
Una piazza, una cattedrale, più chiese (se ci sono più confraternite), un’idea di comunità calda che si riflette nella concezione dell’abitare improntata ad una pianificazione spontanea e vivente nella quale ogni elemento si collega ad un altro.
Non emerge, a questa altezza della storia, alcuna esigenza di tutela del paesaggio poiché il territorio circostante è fuori dalle mura cittadine concepito come ambiente ingrato ed ostile o come ambiente asservito, mentre all’interno della cinta urbana regna l’ordine al quale si aspira (per salvarsi dalla selva oscura).
L’idea di tutelare il paesaggio nasce con il terribile diritto (Rodotà), ossia dalla tutela ottocentesca della proprietà liberale svincolata dall’insieme che la contiene, proprietà intesa (alla Locke) come frutto del lavoro dell’uomo e dell’individualismo e della divisione del lavoro o (alla Rousseau ; il Rousseau del Secondo discorso sull’origine ed i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini) come frutto di un’ambizione divorante che ha in sé una capacità distruttiva e che costituisce la radice dell’infelicità dei moderni.
Infatti è allora che si verifica un divorzio fra il diritto di trasformare (legato alla proprietà come diritto soggettivo assoluto ed incondizionato) e la natura che viene assoggettata violentemente al disordine (vitale) dell’industrialesimo.
Per lungo tempo domina la questione della fuoriuscita dal medioevo.
Si liquidano gli usi civici – interminabile partita che conosce una revisione nei tempi di oggi con idomini collettivi (legge 20 novembre 2017 n. 168) – e si approva alla fine di un lungo percorso diliberazione della proprietà individua la legge del 16 giugno 1927 n. 1766. Ordine liberale, produzione statuale del diritto, paesaggio agrario moderno, città da modernizzare, imprese manifatturiere agliesordi sono i processi che connotano la nascita dello Stato italiano nel corso dell’Ottocento e impediscono di tematizzare la questione della tutela del paesaggio che va emergendo nella sensibilità grande-borghese solo con l’emergere della coscienza dell’esistenza di una questione sociale ( v’è unastoria parallela della legislazione sociale e della legislazione paesaggistico ambientale che non vatrascurata: essa è parte della lettura critica del capitalismo, vicenda che connota tutta la storia dell’uomo occidentale ).
I primi problemi sono dati dalle bonifiche delle paludi e dalla lotta al degrado igienico sanitario delle grandi città formatesi per effetto della concentrazione delle attività industriali.
L’accrescimento delle città, delle officine, delle strade, delle ferrovie e delle innovazioni agricole cominciano a trasformare lo scenario italiano e fanno emergere una sensibilità per i modelli europei.
La natura si rivela nella sua bellezza, come spettacolo, estetico-romantico e come speranza per un domani legato ad una vita più conciliata.
Sono chiare le radici culturali della tutela del Paesaggio.
La critica del giudizio di I. Kant in primo luogo, il testo nel quale egli tenta la conciliazione di necessità elibertà (di mondo della natura e mondo morale): conciliazione che egli trova nel bello.
Dice Kant: «Sebbene vi sia un incommensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura o ilsensibile, e il dominio del concetto della libertà o il soprasensibile, in modo che nessun passaggio siapossibile dal primo al secondo (mediante l'uso teoretico della ragione) quasi fossero due mondi tantodiversi che l'uno non potesse avere alcun influsso sull'altro... tuttavia il secondo [il mondo della libertà]deve avere un influsso sul primo [il mondo della necessità], cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo [il fine] posto mediante le sue leggi e la natura deve poter essere pensata in modo che la conformità alle leggi che costituiscono la sua forma possa accordarsi con la possibilità degli scopi che in esse debbono essere effettuati secondo leggi della libertà».
Nel giudizio estetico si conciliano mondo naturale e mondo morale.
In questo senso per l’uomo occidentale la bellezza è sempre la via alla vita morale.
Il giudizio estetico che è soggettivo (occorre ricordarsene quando si pretende di sindacare con consulenze i giudizi dei Sovrintendenti) lo è poiché si basa sul sentimento del bello:
Permette di ritrovare una finalità negli oggetti belli, fa ritrovare al soggetto riflessa negli oggetti belli l’esigenza di finalismo, nel senso che gli oggetti belli sembrano essere fatti al fine di suscitare emozioni estetiche, di suscitare un senso di armonia in chi li contempla, quindi danno l’impressione di avere una finalità rivolta verso chi fruisce dell’opera d’arte, chi fruisce della bellezza, cioè verso l’osservatore, il soggetto.
Il culmine del sentimento del bello – da esso distinto – perché consistente nella sua vertigine (cara aStendhal) è il sublime (Stendhal racconta così il Grand Tour: «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da SantaCroce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.»).
Ancora Kant: «Il sentimento estetico del sublime è un piacere o senso di esaltazione che segue a un senso didepressione delle nostre energie vitali. Il piacere del sublime è diverso da quello del bello; questo infatti produce direttamente un sentimento di esaltazione della vita; quello invece è un piacere che ha solo un’origine indiretta, giacché esso sorge dal sentimento di un momentaneo arresto delle energie vitali, seguito da una più intensa loro esaltazione». Il sublime è una bellezza che fa perdere i sensi e poi li rafforza.
Anche in Hegel troviamo radici ideologiche della giurisprudenza e della legislazione a tutela del paesaggio e dei beni culturali.
Nei lineamenti della Filosofia del diritto (1821) si trova la seguente frase: “I monumenti pubblici sono proprietà nazionale, vale a dire più propriamente, come avviene delleopere d’arte quando sono utilizzate, così anche i monumenti pubblici, finché sono abitati dall’animadella memoria e dell’onore, hanno il valore di fini viventi ed autonomi. Una volta abbandonati da quest’anima essi divengono… possessi privati adespoti ed accidentali, come ad es. le opere d’arte greche in Turchia”.
Altro fondamentale passaggio ( ricordato da Settis ) per la nascita della sensibilità borghese di tutela del bello è Ruskin ( ricorda Passaniti anche il Ruskin del libro del 1862 Cominciando dagli ultimi Unto this Last, è un libro composto da quattro saggi di argomento economico precedentemente pubblicatisu una rivista ; in questo libro Ruskin critica la visione della natura umana tipica degli economisti, che riduce ogni movente all'avarizia, sostenendo che in realtà la volontà è piuttosto mossa dagli affetti ).
Tra le frasi di Ruskin che hanno fatto la storia della tutela del paesaggio v’è quella ricordata da Robert deLa Sizeranne in Ruskin et la religion de la beauté (1867): “il paesaggio è il volto amato della Patria.”
Il ritorno alla natura e la tutela dei monumenti come memoria appaiono legati nella costruzione di un’identità nazionale.
Il ritorno alla natura è poi antidoto agli eccessi della società industriale.
Cultura, natura intrisa di bellezza, tutela della salute ed uso corretto del territorio sono le matrici da cuisi diparte il più appassionante capitolo della storia del diritto amministrativo europeo.
In Italia l’esordio è tenuto a battesimo dal Consiglio di Stato. Si tratta della storia della pineta di Ravenna.
Una storia fondativa – come quella del convegno di Capri – ma anteriore, essa va ricordata. E’ storialegata al nome di Luigi Rava, ministro dell’Agricoltura nel 1905 promotore della legge di salvataggio della pineta di Ravenna 16 luglio 1905 n. 411.
Tutelata e conservata come argine all’aria malsana delle paludi che circondavano la città (infestata ancor oggi da zanzare notevoli) la pineta fu fino al 1836 di proprietà di corporazioni religiose.
Venne poi concessa in enfiteusi perpetua alle Canoniche Lateranensi di San Pietro in Vincoli e di San Lorenzo fuori le mura di Roma.
Il 4 settembre 1906 fu venduta ad un privato. Il Governo italiano impugnò la vendita la causa fu transatta ed il bene trasferito al Comune di Ravenna.
L’amministrazione comunale non si preoccupò affatto della salute della pineta ma iniziò una serie di atti di alienazione che misero a rischio i vincoli forestali con progetti di disboscamento.
Intervenne il Consiglio di Stato con la storica sentenza 22 dicembre 1881 che mantenne il vincolo forestale e respinse le ragioni dell’amministrazione comunale.
Rava con la legge del 1905 dichiarò inalienabili i relitti marittimi posti nella Provincia di Ravenna,pervenuti al demanio dello Stato in forza dell’atto di transazione 30 giungo 1904 fra il demanio e le signore Pergami Belluzzi.
Stabilì un vincolo di destinazione finalizzato al rimboschimento. Una leggeprovvedimento diremmo oggi, ma quanto coraggiosa.
La legge contiene un riferimento ad un concreto contratto e i cognomi delle parti.
La pineta era stata tutelata dai Brevi di Papa Sisto V del 1588 e del 1590 e dall’editto del delegatoapostolico Cesare Nembrini Pironi del 1816 che tutelava la pineta “per la salubrità dell’aria che conserva nel suolo ravennate.”
La pubblica igiene come matrice della legislazione di protezione paesaggistica.
Il diritto alla salute è un grande motore di queste vicende ci dice la storia, alla fine però la pineta viene conservata anche per la sua insigne bellezza dice uno dei giuristi ambientalisti dell’epoca il Falcone.
Altra figura chiave della storia della tutela è Giovanni Rosadi al quale si deve la legge 20 giugno 1909 n. 364 riguardante le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paleontologico o artistico.
Una legge che lasciava scoperte le bellezze naturali, specie quelle che non fossero connesse con la storia della cultura.
Si trattava di un passaggio difficile per la costituzione economica dello Stato liberale. Mariano d’Ameliosostenne che la legge del 1909 fosse applicabile a ville, giardini e parchi ove di interesse culturale o anche contemplati da citazioni letterarie.
Ma erano fuori le bellezze spontanee delle contrade, pur quando davano luogo a quadri di grande – vertiginosa - bellezza.
Il vuoto di tutela venne colmato dalla legge Croce (legge 11 giugno 1922 n. 778) in tema di tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico.
Cambiava la prospettiva.
Sempre si menzionavano anche gli interessi culturali ma il paesaggio veniva fatto oggetto di una considerazione autonoma.
Alla legge lavorò una Commissione presieduta da Giovanni Rosadi di cui faceva parte Luigi Parpagliolo.
Nasce il vincolo come dichiarazione di interesse pubblico e la tutela si declinanell’autorizzazione alla trasformazione.
La legge – disse U. Ojetti – “sembra più un sospiro che una minaccia” (per l’assenza di vere sanzioni) ma fu un salto in avanti enorme nel tutelare la bellezza come eccezione alla logica proprietaria ed industriale.
Nel frattempo nasceva – all’ombra delle fanciulle in fiore - il turismo grande borghese e si individuavauna ragione economica alla tutela della bellezza naturale (occorre pensare che Benedetto Croce non fosse per nulla insensibile alle ragioni dell’industria turistica).
Poi abbiamo la legge Bottai n. 1497 del 1939 (e la gemella legge n. 1089 del 1039 di Tutela delle cose di interesse artistico e storico).
Sono complesse le ragioni di continuità –discontinuità fra i due corpi normativi.
I quadri di insieme sono il fulcro della nuova disciplina che aveva avuto il suo antecedente nella volontà del regime di bloccare la speculazione edilizia ad Ischia.
La legge Croce era giudicata provvida ma insufficiente, specie nel tutelare le bellezze di insieme (i c.d. quadri naturali). L’obiettivo – enunciato nel convegno dei soprintendenti alla presenza del Duce – era “il nostro Paese è il più bello del mondo, tale deve rimanere ad ogni costo” (Passaniti op. ult. cit. pag. 70 ).
Ancora orgoglio nazionale e tutela dei beni culturali legati insieme nella politica del regime certo anche a fini propagandistici ma con senso di innovazione istituzionale che si è rivelato non caduco.
Il diritto di proprietà è subordinato all’interesse pubblico e un grande interesse pubblico è quello di mantenere il volto dell’Italia.
Nasce il concetto di bellezza d’insieme ma esso non è disgiunto dalla considerazione delle ragioni dello sviluppo turistico (allora evidente nella disciplina delle stazioni di cura, soggiorno e turismo).
Il paesaggio si autonomizza dalla tutela dei beni culturali (pur essendo anche esso spesso il frutto dell’opera dell’uomo) ma non si separa da detta tutela.
Diritto politica ed urbanistica si legano insieme e si delineano – sul piano ideativo - sin da allora i pianipaesistici come strumento per la gestione dinamica delle bellezze di insieme. Gestione dinamica aperta alle esigenze del mondo produttivo.
I beni paesaggistici singoli oggetto di tutela conservativa, le bellezze di insieme di tutela dinamica, consegnata al piano paesistico (di competenza ministeriale).
Concezioni olistiche dell’uso del territorio, non certo casualmente nascono in un’atmosfera totalitaria, producendo tuttavia anche un effetto di modernizzazione economica ed istituzionale.
Leonardo Severi, poi Presidente del Consiglio di Stato nel 1951, “uomo di Giovanni Gentile” (così nel profilo biografico contenuto nel volume i Presidenti del Consiglio di Stato), insieme a Gustavo Giovannoni, collaborò alla redazione delle riforme di Bottai.
Basta rileggere il suo discorso di insediamento come Presidente del Consiglio di Stato per coglierne lo spirito di servizio e la indipendenza di giudizio e la concezione moderna dell’amministrazione (in vista dell’attuazione della riforma regionale).
Certamente nasce allora la premessa della scissione non ricomposta che attraverserà anche la storia della Repubblica democratica, quella fra tutela paesaggistica (alta) e disciplina urbanistica (bassa) che cercasempre strumenti di raccordo e ricomposizione senza trovarli, come due amanti separati da una guerra(quella fra mondo estetico e mondo economico).
2. La Costituzione nel suo testo originario e la riforma del Titolo V
Dopo le leggi Bottai abbiamo l’art. 9 della Costituzione.
Va ricordato, alla luce del dibattito all’Assemblea Costituente, che l’art. 9 Cost. fu introdotto come contrappeso ai pericoli di una gestione localistica del territorio.
In particolare il promotore della norma fu Concetto Marchesi, il testo finale fu il frutto di una mediazione con gli autonomisti.
In particolare con Lussu, autore dell’emendamento approvato in Assemblea il 30 aprile del 1947.
I problemi discussi furono l’oggetto della tutela, la sua estensione territoriale, i suoi effetti sulla proprietà (tema classico ottocentesco) le funzioni dello Stato rispetto alle regioni.
L’idea costituente si sviluppò passando dal riferimento ai monumenti, a quello al patrimonio storico artistico ed al paesaggio.
Si discusse se fare riferimento al territorio (a qualsiasi parte del territorio della Repubblica) ed ai privati(a chiunque appartengano) fin alla dizione che dava per implicita l’estensione territoriale e giuridica della protezione, indifferente al regime proprietario pubblico o privato sempre però mantenendo centralità al ruolo dello Stato (implicito nel riferimento alla Nazione).
Tupini e Clerici furono contrari a quella che S. Cassese ha chiamato la costituzionalizzazione della legge Bottai.
Clerici sostenne che sarebbero bastate le leggi speciali perché si trattava di una questione di diritto amministrativo e non di diritto costituzionale.
Fra le voci contrarie anche l’On. Micheli sostenne che sarebbe stata più efficiente la tutela locale, perché spesso lo Stato non ha i mezzi per assicurare la tutela.
La posizione suscitò la reazione di Marchesi preoccupato di mantenere la centralità della tutela statale contro la temuta invadenza dei poteri regionali.
Si arrivò quindi a mantenere la diretta tutela unitaria del più eccelso patrimonio della Nazione.
La riforma del Titolo V – dai contenuti che si danno per noti - è intervenuta su questo nodo, ma nonha spostato – sostanzialmente - la centralità della tutela dei beni culturali e del paesaggio in capo allo Stato (essendo tale riforma incentrata sul binomio tutela / valorizzazione mentre la fruizione è termine che connetterei alla disciplina urbanistica essendo più generalmente fruizione del territorio).
Ha indotto una interpretazione meno differenziata della tutela paesaggistica e di quella ambientale (specie in conseguenza della menzione parallela ma equiordinata di beni culturali e beni ambientali); ciò specialmente nella giurisprudenza costituzionale (che ha enucleato dal paesaggio la nozione diambiente), meno in quella amministrativa, ed ha fatto distinguere fra tutela ambientale spettante allo Stato e valorizzazione dei beni culturali ed ambientali spettante alle regioni.
La giurisprudenza costituzionale, pur negando sempre l'assimilabilità dell’interesse paesaggistico con l’interesse urbanistico (fra le molte Corte Cost. n. 56 del 1968, n. 141 del 1972, n.359 del 1985, n. 327 del 1990, n. 417 del 1995, n. 378 del 2000) ha variamente affermato che la tutela del paesaggio va intesa nel senso lato della tutela ecologica (Corte Cost. n. 430 del 1990) e della conservazione dell’ambiente (Corte Cost. n. 391 del 1989) che essa è basata primariamente sugli interessi ecologici e quindi sulla difesa dl ambiente come bene unitario, pur se composto da molteplici aspetti rilevanti per la vita naturale ed umana (Corte Cost. n. 1029 del 1988) e che l’art. 9 Cost. tutela il paesaggio –ambiente come espressione di principio fondamentale dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo e si sviluppa la persona umana (Corte Cost. sent. 85 del 1988 e 378 del 2000); per la Corte Costituzionale l’ordinamento giuridico impone una tutela del paesaggio improntata ad integrità e globalità in quanto implicante una riconsiderazione dell’intero territorio nazionale alla luce del valore estetico culturale del paesaggio, sancito dall’art. 9 Cost. ed assunto come valore primario come tale (Corte Cost. n. 417 del 1995; analogamente Corte Cost. n. 151 del 1986, n. 67 del 1992, n. 269 del 1993 e n. 46 del 1995). Il paesaggio è forma del territorio e dell’ambiente, diviene tutto in questa chiave, un tutto comprensivo di ciò che è della natura e ciò che è dell’uomo (ammesso che oggi i due piani siano distinguibili nell’Antropocene).
Sembra quasi chiedersi da parte del giudice delle leggi, una lettura della pianificazione volta, nel dinamismo che la caratterizza, a cogliere le tracce della bellezza, per conservarle quando bellezza individua e tenerne conto quando bellezza d’insieme proporzionando gli interventi alla compatibilità fra innovazione e conservazione, sviluppo e mantenimento della tradizione identitaria.
Il paesaggio è la valenza culturale del rapporto uomo- ambiente ( Merusi ) o la forma dell’ambiente, visibile ma inscindibile dal non visibile ( Predieri ).
Da questo punto di vista nel codice del paesaggio si trova l’art. 131 che recita:
1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni.
2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali.
3. Salva la potestà esclusiva dello Stato di tutela del paesaggio quale limite all'esercizio delle attribuzioni delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano sul territorio, le norme del presente Codice definiscono i principi e la disciplina di tutela dei beni paesaggistici (norma dichiarata incostituzionale con sentenza Corte Cost. n. 226 del 2009 nella parte in cui include le Provinceautonome di Trento e di Bolzano tra gli enti territoriali soggetti al limite della potesta' legislativa esclusiva statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione).
4. La tutela del paesaggio, ai fini del presente Codice, è volta a riconoscere, salvaguardare e, ovenecessario, recuperare i valori culturali che esso esprime. I soggetti indicati al comma 6, qualora intervengano sul paesaggio, assicurano la conservazione dei suoi aspetti e caratteri peculiari.
5. La valorizzazione del paesaggio concorre a promuovere lo sviluppo della cultura. A tale fine le amministrazioni pubbliche promuovono e sostengono, per quanto di rispettiva competenza, apposite attività di conoscenza, informazione e formazione, riqualificazione e fruizione del paesaggio nonché, ove possibile, la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati. La valorizzazione è attuata nel rispetto delle esigenze della tutela.
6. Lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali nonché tutti i soggetti che, nell'esercizio dipubbliche funzioni, intervengono sul territorio nazionale, informano la loro attività ai principi di uso consapevole del territorio e di salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche e di realizzazione di nuovi valori paesaggistici integrati e coerenti, rispondenti a criteri di qualità e sostenibilità.
A seguito della riforma del titolo quinto sorge la tematica dell’individuazione dei soggetti e degli oggetti di disciplina costituzionale, paesaggio, ambiente, territorio, nonché di beni culturali paesaggistici ed beni ambientali, questioni rilevanti a vari fini, ad es. di individuazione della competenza a legiferare, se statale o regionale, e delle procedure amministrative da seguire per la tutela e la valorizzazione.
Il problema è stato definito come vero e proprio rebus logico-normativo. Complicato anche dall’intervento delle fonti sovranazionali.
La Convezione europea sul paesaggio, resa esecutiva in Italia con la legge n. 14 del 2006, all’art. 1 contiene una definizione di paesaggio e delle azioni pubbliche ad esso relative.
a. "Paesaggio" designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni;
b. "Politica del paesaggio" designa la formulazione, da parte delle autorità pubbliche competenti, dei principi generali, delle strategie e degli orientamenti che consentano l'adozione di misure specifichefinalizzate a salvaguardare gestire e pianificare il paesaggio;
c. "Obiettivo di qualità paesaggistica" designa la formulazione da parte delle autorità pubbliche competenti, per un determinato paesaggio, delle aspirazioni delle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita;
d. "Salvaguardia dei paesaggi" indica le azioni di conservazione e di mantenimento degli
e. "Gestione dei paesaggi" indica le azioni volte, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, a garantire il governo del paesaggio al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici ed ambientali;
f. "Pianificazione dei paesaggi" indica le azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi.
Vediamo qui comparire lo sviluppo sostenibile come elemento qualificante le politiche paesaggistiche tanto che la politica novecentesca di tutela del paesaggio può dirsi improntata alla tutela prima statica e poi dinamica della bellezza, mentre la politica di questo secolo è già intrecciata e sempre più lo sarà con la questione ambientale e dello sviluppo sostenibile.
L’ambiente è nozione composita, plurisensa, polivalente, eterogenea, tale da comprendere differenti problematiche in relazione alle diverse matrici ambientali ed alle politiche del momento; è nozione quindi che impone una politica di tutela che non è ricavabile se non a posteriori come frutto di complesse ponderazioni date dal combinarsi di apporti tecnico scientifici ed apporti politici.
L’ambiente è una nozione giuridica aperta al contributo delle scienze ecologiche che evolvono con le tecniche di governo delle emergenze ambientali delineando sempre nuovi orizzonti e ridefinendo i modi di produrre nel tecnocapitalismo consapevole dei limiti ambientali del modo di produzione.
L’ambiente è un orizzonte del modo di produzione che incide sul paesaggio come insieme dei luoghi connotanti la nostra identità.
La giurisprudenza amministrativa consapevole di queste evoluzioni ha mantenuto rispetto alla tutela paesaggistica una posizione “originalistica”, fedele alla primazia della tutela del paesaggio, tendenzialmente contraria alla bilanciabilità del paesaggio con altri interessi pubblici, volta a salvaguardare il ruolo che i Costituenti vollero assegnare alle Soprintendenze.
Per il Consiglio di Stato la tutela del paesaggio non può essere subordinata ad altri interessi. Questo è quanto emerge per esempio dalla sentenza n.3652/2015 del Consiglio di Stato che ribadisce con forza il rispetto dell’art. 9 della Costituzione Italiana, uno degli articoli fondamentali del nostro ordinamento giuridico.
La sentenza ha interdetto la realizzazione di un elettrodotto ad altissima tensione (380 KW) di circa 39 chilometri con sostegni dell’altezza di 61 metri, previsto da Terna S.p.A, tra Udine e Redipuglia.
Nei confronti di quest’opera, che avrebbe compromesso l’area golenale del fiume Torre (Udine), nonostante il parere contrario della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli Venezia Giulia, il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, di concerto col Ministro per i Beni e le Attività Culturali, si era espresso per la compatibilità del progetto in nome del primario interesse pubblico della realizzazione.
Il Consiglio di Stato ha però riformato le sentenze del Tar ed ha accolto i ricorsi di associazioni, imprese e privati, ribadendo fortemente l’assoluta importanza della tutela del paesaggio, che essendo un bene comune fondamentale, non può sottostare a nessun altro interesse, tanto meno a quelli meramente economici.
Di notevole risalto è la reprimenda nei confronti del comportamento del Mibac (Ministro per i Beni e le Attività Culturali), che, secondo i magistrati, deve occuparsi di “curare l’interesse paesaggistico” senza operare valutazioni di “interessi pubblici di altra natura”. La sentenza ritaglia un ruolo tecnico al Mibac e non esclude, a bene vedere la bilanciabilità, ma sembra rimettere lo scioglimento di eventuali contrasti a successivi passaggi di legalità procedurale (che ad es. vedano il coinvolgimento del CDM).
Alla funzione di tutela del paesaggio è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione: tale attenuazione, nella traduzione provvedimentale, condurrebbe illegittimamente, e paradossalmente, a dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore paesaggistico del bene, quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse pubblico alla trasformazione del territorio. Il parere del MIBAC in ordine alla compatibilità paesaggistica non può che essere un atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove – similmente al parere dell’art. 146 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – l’intervento progettato va messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico: valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto.
Questa regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere tecnico e proprio del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 Cost. il quale fa eccezione a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili. La norma costituzionalizza e al massimo rango la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione – e questo richiede, a opera dell’Amministrazione appositamente preposta, che si esprimano valutazioni tecnico- professionali e non già comparative di interessi, quand’anche pubblici e da altre amministrazioni stimabili di particolare importanza.
3. L’attuazione costituzionale fra speculazione e ricomposizione.
Nell’attuazione costituzionale della tutela del paesaggio poi è emersa come problematica la questione del rapporto fra tutela paesaggistica e disciplina urbanistica.
Troppo note sono le vicende della speculazione edilizia legata allo sviluppo economico del Paese ed all’alibi della ricostruzione (ora avremo l’alibi del Green Deal?), il ritardo nell’adozione dei piani regolatori comunali, la disciplina delle zone bianche ed il ritardo nell’adozione dei piani paesistici con scempi vari denunciati da Aldo Natoli (il sacco di Roma) ed Antonio Cederna fondatore di Italia nostra (Vandali in casa).
Tutto poi precipita nella legge Galasso che blocca con vincoli ex lege – forse tardivamente ed anche eccessivamente - le modificazioni di un paesaggio italiano in dissolvenza.
Il Consiglio di Stato ha elaborato la teorica della legittimazione ad agire delle associazioni e degli enti esponenziali avverso atti amministrativi lesivi di interessi paesaggistico ambientali al fine di costruire e ricucire dal basso una tutela ex art. 9 Cost. slabbrata dal divorzio fra tutela paesaggistica e disciplina urbanistica.
Torna in questa deriva del contenzioso giuridico amministrativo ad imporsi inevitabilmente una letturadel paesaggio che, pur ricomprendo l’ambiente, ai sensi dell’art. 9 Cost. non tutela la natura in sé e per sé non essendo oggetto di tutela paesaggistica una pianta rara o la tutela della biodiversità.
La febbre del cemento denunciata da Italo Calvino (La speculazione edilizia) è il risvolto più evidentedi una avidità speculativa che non può essere fronteggiata solo dalla disciplina vincolistica, occorrendouna pianificazione più saggia e sistematica ed una più lungimirante programmazione delle attività edilizie e di sviluppo urbano.
La proposta di Fiorentino Sullo volta a legare programmazione economica e pianificazione urbanistica si accompagna alle riflessioni dottrinali è del 1963 la monografia di Predieri Pianificazione e Costituzione che legge questi temi in chiave evolutiva per evitare quella che Aldo Moro chiamerà l’irrazionalità e disumanità dello sviluppo delle nostre città.
Si arriva così alla legge ponte del 1967 (legge n. 765 del 1967) vero e proprio spartiacque delladisciplina edilizia, che recupera il divario fra l’urbanistica rimasta sulla carta e la realtà di uno sviluppo incontrollato delle città.
Il d.m. n. 1444 del 1968 è un altro pilastro volto a colmare le inattuazioni della legge urbanistica ragione delle speculazioni che hanno stravolto il volto amato del nostro Paese. L’adozione dei piani paesistici regionali avviata dalla legge Galasso colma gradatamente quel divario fra tutela paesaggistica e disciplina urbanistica che ha costituito – insieme agli interventi condonistici - la ferita storica su cui si sono innestati i cattivi usi del nostro territorio.
4. La recente riforma della Costituzione in materia di ambiente: alcune domande scomode
E siamo alla recente riforma costituzionale.
La riforma recente grava da una crescente consapevolezza del tema dei limiti allo sviluppo del capitalismo.
C’è un insieme di minacce che gravano sull’umanità e mettono in pericolo la sua sopravvivenza.
Il cambiamento climatico, l’innalzamento del livello dei mari, la distruzione della biodiversità, gli inquinamenti industriali, i processi di riduzione dei bacini idrici, la desertificazione, la deforestazione sono elementi di questo processo che, alla sua fine, potrebbe travolgere la stessa vita della nostra specie sul pianeta.
Agli intellettuali consapevoli tocca la parte di Tiresia.
Peraltro la questione dei limiti allo sviluppo era stata focalizzata già da Aurelio Peccei e dal Club di Roma a metà del secolo scorso.
Siamo di fronte a sessanta anni di inerzie.
E la guerra del gas prossima ventura (il gas essendo la fonte energetica necessaria per uscire dal mondo delle energie fossili principali imputate del climate change) dimostra che ora che si vanno creando i presupposti del cambiamento la storia – con i suoi duri conflitti – si rimette non casualmente in movimento (per frenare pacifici processi evolutivi).
Ai giuristi tocca ora la progettazione di principi, regole e procedure che consentano di adottare decisioni in grado di farci mutare la rotta.
Fra queste decisioni vi sono le riscritture delle Costituzioni novecentesche, mediante procedure di revisione costituzionale.
È quello che viene menzionato come green constitutionalism.
Le Costituzioni come Grundnormen sulle quali puntare per imporre limiti e vincoli a quelli che Luigi Ferrajoli chiama i “poteri selvaggi” degli Stati sovrani e dei mercati globali.
Ciò naturalmente è solo una risposta transitoria. Un problemaglobale richiede una risposta globale.
Uno Stato mondiale, magari improntato a principi di giustizia ecologica.
Un nuovo Leviatano che rischia di essere neo-totalitario, soffocando le diversità che sono state prodotte dai travagli del Novecento.
La prospettiva kantiana dello Stato mondiale è tuttavia lontanissima, occuparsene non ha alcun senso, mentre sono aperte le danze sul baratro.
Dobbiamo riflettere – incalzati oggi dalla guerra – sempre più a partire dal mondo come è e non dall’idea di mondo che vorremmo che fosse.
Resta acquisita, sul piano puramente filosofico, la prospettiva di una rifondazione dei rapporti mondiali fra economia, diritto e politica, come necessità storica che si manifesterà certamente (speriamo senza eccessivi travagli).
Nel frattempo disponendo solo degli Stati nazionali come comunità politiche dobbiamo, nel lavoro culturale, seguire la loro rifondazione costituzionale con spirito critico (evitando gli autoinganni del pensiero politicamente corretto vera e propria grande malattia della cultura occidentale che stende una cappa di conformismo sul mondo ed ostacola la libertà di manifestazione del pensiero aggravando le ragioni della crisi, esponendoci agli effetti non calcolati o non voluti di scelte apparentemente da tutti esaltate come manifestazioni di un nuovo spirito di giustizia e per questo motivo non costruite convenientemente).
La legge costituzionale n. 1 del 2022, approvata con la maggioranza dei due terzi dei componenti, interviene sugli articoli 9 e 41 della Costituzione per introdurre la tutela dell’ambiente nelle loro previsioni.
Il testo introduce un nuovo comma all’articolo 9 della Costituzione, al fine di riconoscere – nell’ambito dei principi fondamentali enunciati nella Costituzione – il principio di tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Accanto alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione, richiamato dal secondo comma dell’art. 9 Cost. si attribuisce alla Repubblica anche la tutela di tali aspetti.
Viene inoltre inserito un principio di tutela degli animali, attraverso la previsione di una riserva di legge statale che ne disciplini le forme e i modi.
È al contempo oggetto di modifica l’articolo 41 della Costituzione in materia di esercizio dell’iniziativa economica. In primo luogo, si interviene sul secondo comma stabilendo che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in danno alla salute e all’ambiente, premettendo questi due limiti a quelli già vigenti, ovvero la sicurezza, la libertà e la dignità umana. La seconda modifica investe, a sua volta, il terzo comma dell’articolo 41, riservando alla legge la possibilità di indirizzare e coordinare l’attività economica, pubblica e privata, a fini non solo sociali, ma anche ambientali.
Il testo reca infine una clausola di salvaguardia per l’applicazione del principio di tutela degli animali, come introdotto dal progetto di legge costituzionale, alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano.
L’introduzione della clausola ambientale in materia di principi fondamentali può essere vista come semplice recezione degli approdi della giurisprudenza costituzionale in materia di ambiente.
In Costituzione come è noto vi era già la menzione della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” prevista dall’articolo 117, secondo comma della Costituzione – introdotto con la riforma del Titolo V approvata nel 2001 – nella parte in cui enumera le materie su cui lo Stato ha competenza legislativa esclusiva.
Ci siamo già soffermati su questo.
Ora però l’ambiente – citato nell’art. 9 Cost. – e la sua tutela diviene un principio fondamentale equiordinato al paesaggio.
Si potrebbe dire nihil sub sole novi.
La Corte ha fatto riferimento (nella sentenza n. 179 del 2019) ad un “processo evolutivo diretto a riconoscere una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda, all’interno della quale si è consolidata la consapevolezza del suolo [di questo si trattava, in quel giudizio, ndr.] quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale”. “In questa prospettiva la cura del paesaggio riguarda l’intero territorio, anche quando degradato o apparentemente privo di pregio”, aggiunge la sentenza n. 71 del 2020 – la quale sottolinea altresì che “la tutela paesistico-ambientale non è più una disciplina confinata nell’ambito nazionale”, soprattutto in considerazione della Convenzione europea del paesaggio (adottata a Strasburgo dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 19 luglio 2000 e ratificata con legge n. 14 del 2006), secondo la quale “il concetto di tutela collega indissolubilmente la gestione del territorio all’apporto delle popolazioni” (donde “il passaggio da una tutela meramente conservativa alla necessità di valorizzare gli interessi pubblici e delle collettività locali con interventi articolati”, tra i quali, in quel caso, l’acquisizione e il recupero delle terre degradate).
Su questa evoluzione interpretativa della tutela, da paesaggistica (dunque morfologica, visiva, culturale) ad ambientale (costitutiva, valoriale, comunitaria), era intervenuta altresì la riforma del Titolo V,modificativa dell’articolo 117, secondo comma della Costituzione. In tale ambito è stata introdotta laprevisione della “tutela” dell’ambiente e dell’ecosistema, tra le materie riservate alla potestà legislativaesclusiva dello Stato (con attribuzione invece della “valorizzazione” dei beni ambientali alla potestà concorrente delle Regioni).
La Corte ha avuto modo di ribadire in proposito (con la sentenza n. 407 del 2002) come “l’evoluzionelegislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una ‘materia’ in senso tecnico, qualificabile come ‘tutela dell’ambiente’, dal momento che non sembra configurabilecome sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze”. Donde “una configurazionedell’ambiente come ‘valore’ costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta dimateria ‘trasversale’, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale”.
L’ambiente come valore costituzionalmente protetto (e come entità organica complessa: sentenza n. 378 del 2007) fuoriesce da una visuale esclusivamente ‘antropocentrica’. Nella formulazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera s), ambiente ed ecosistema non si risolvono in un’endiadi, in quanto, “col primo termine si vuole, soprattutto, fare riferimento a ciò che riguarda l’habitat degli esseri umani, mentre con il secondo a ciò che riguarda la conservazione della natura come valore in sé” (sentenza n. 12 del 2009).
Ma gli approdi della giurisprudenza costituzionale sono volti a guardare alla nozione di paesaggio in termini evolutivi e dinamici estendendone le valenze agli ecosistemi alla natura, alle matrici ambientali suscettibili di degrado, a sottolineare la trasversalità della tutela ambientale (come quella della concorrenza), a enucleare un concetto di ambiente come valore, a superare visioni meramente antropocentriche del bene ambiente.
Tutti gli interventi della Corte, riguardano in verità dei casi nei quali non si ponevano conflitti – nemmeno potenziali – fra valori paesaggistici e valori ambientali.
Si inquadrano in un’ottica di conciliata convergenza di ambiente e paesaggio.
Tuttavia la recezione costituzionale dell’ambiente fra i principi fondamentali non è solo meramente ricognitiva degli approdi della giurisprudenza costituzionale formatasi in materia di Titolo V ma sottende una scelta di carattere valoriale e sostanziale ( volta dire che la natura – ma cosa si intende per natura sarà tutto da stabilire nella legislazione ambientale che ha carattere sempre più tecnico – è valore da tutelare, anche quando riguardi beni privi di bellezza, al pari di ciò che è il prodotto umano della cura della natura che chiamiamo paesaggio concetto formatosi durante il romanticismo e che può farsi risalire all’estetica Kantiana del sublime ).
In realtà proprio la transizione ecologica sul piano energetico (questione drammatica all’origine di conflitti internazionali che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi) è incentrata sullo sviluppo delle energie rinnovabili mediante progetti di impianti – volti a invertire le tendenze di evoluzione del clima connesse all’uso dei fossili – ben suscettibili di incidere su zone di interesse culturale e paesaggistico.
In questa chiave ambiente e paesaggio sono valori tutt’altro che conciliati. E tale mancata conciliazione emerge sempre nei giudizi amministrativi.
Spetterà alla giurisprudenza – dei Tar e del Consiglio di Stato – conciliare i valori paesaggistici e quelli ambientali, dopo le previste valutazioni ambientali dell’Amministrazione su impianti di produzione energetica a tecnologia eolica o fotovoltaica.
La tecnica sarà il bilanciamento dei valori.
L’equiordinazione costituzionale di ambiente e paesaggio consente –nelle attività di bilanciamento fra valori – un indubbio favor per le attività industriali green, eliminando ogni prospettiva di sovraordinazione sul piano valoriale delle tutele paesaggistiche su quelle ambientali (la fine della prospettiva di Dostoevskij per cui “solo la bellezza ci può salvare”).
Si spera che questo non conduca a nuove ondate speculative ed a scempi del territorio magari consumati in nome dell’ambiente in conseguenza della regressione – ben possibile in concreto – degli alti livelli di tutela paesaggistica raggiunti storicamente dall’Italia in conseguenza di una tradizione storica ben nota (sempre al centro delle riflessioni di Salvatore Settis).
L’ambiente può essere anche solo un’etichetta (il fenomeno del c.d. greenwashing) di cui ci si fregia talvolta nel promuovere iniziative industriali all’insegna del politicamente corretto.
Ma con questa avvertenza non resterà che operare in concreto, esaminando i bilanciamenti amministrativi operati progetto per progetto.
Al giudice amministrativo viene consegnata così una grande responsabilità da condursi alla luce del principio di proporzionalità e individuando un nucleo duro – dipendente dalle caratteristiche del singolo caso – di inviolabilità dell’interesse paesaggistico (da tempo l’amico Enrico Scoditti riflette sull’indegradabilità all’interno della figura giuridica dell’interesse legittimo ove siano in giuoco valori costituzionali primari).
Viene poi in questione anche la vicenda dei diritti delle generazioni future.
Si tratta di quella che viene chiamata “posterity provision” intendendosi per essa la previsione, nel testo costituzionale, di un vincolo al Legislatore di tipo sostanziale o procedurale, che imponga in ogni decisione, di tener conto dei diritti delle generazioni future.
Il Legislatore, nel caso di vincolo sostanziale, dovrà evitare danni alle risorse naturali decisive per provvedere sul piano fisico e biologico ai bisogni delle future generazioni.
Le leggi di incentivazione economica sono potenzialmente scrutinabili alla luce dei diritti delle nuove generazioni conquistando una nuova centralità al potere giudiziario (peraltro in una fase in cui la politica diffida di esso e spinge per riforme che ne riducano gli spazi di autonomia talvolta mal utilizzata) e preconizzando nuove inedite rimessioni al giudice delle leggi (che diverrà anche il giudice della giustizia intergenerazionale).
Un vincolo procedurale, del tipo necessità di referendum consultivi o di un controllo
preventivo di costituzionalità o di particolati quorum nei procedimenti approvativi delle leggi incidenti sui diritti delle nuove generazioni, non è stata la via prescelta dalla riforma costituzionale di cui alla legge cost. n. 1 del 2022 .
Ne potrebbe risultare un mutamento degli equilibri della divisione dei poteri nel Paese.
Il punto critico è segnalato in letteratura (ex plurimis Green Constitutionalism: The Constitutional Protection of Future Generations di Kristian Skagen Ekeli in Ratio Juris. Vol. 20 No. 3 September 2007 (378–401)) con considerazioni ben argomentate e valide anche per riflettere sulle scelte appenafatte in Italia con la riforma costituzionale in esame Le Corti costituzionali ed amministrative stanno per trasformarsi in guardiani delle generazioni future.
La cosa ha implicazioni sistematiche di notevole spessore. I giudici divengono guardiani della posterità?
È desiderabile questo?
Ciò implica che ogni decisione pubblica suscettibile di incidere sulle risorse naturali non rinnovabili con effetti sulle generazioni future dovrà essere accompagnata da studi tecnologici ed ambientali.
Ciò può senz’altro indurre decisioni più attente e lungimiranti.
Ma può anche innescare contenziosi inediti in un Paese già diviso e conflittuale.
In sostanza le minoranze d’ora in poi avranno un potere di veto ambientale sulle politiche economiche delle maggioranze basato sulla clausola costituzionale ambientale e sulla supremazia della Costituzione sulle leggi ordinarie.
Non potrebbe questo essere un limite non ben calcolato o un eventuale futuro ostacolo alle politiche economiche dirette alla ripresa del Paese?
Lo scopo della norma costituzionale è ben chiaro e del tutto condivisibile: avere acqua aria suolo più puliti, contrastare il cambiamento climatico con strumenti tecnologici adeguati di riconversione del capitalismo, introdurre un ciclo virtuoso del riciclo dei rifiuti chiamato economia circolare.
Ma attenzione le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni: speriamo che le future magnifiche sorti e progressive del legislatore della revisione costituzionale non si arenino tristemente nell’esplosione dei conflitti giudiziari (mentre già si profilano conflitti bellici).
Il pensiero irenico produce danni come ogni politica puramente simbolica.
Una terza implicazione riguarda l’art. 41 Cost. che introduce ambiente e salute come limiti dell’attività di impresa e finalità atte ad orientare le future leggi di conformazione delle attività di impresa.
Anche qui si consegnano alla giurisdizione poteri conformativi in via diretta (ove vi sia da interpretare un assetto di regole già date) e si consegna al Legislatore il compito di enucleare l’impresa del futuro che o sarà impresa ambientalmente compatibile o non sarà. Se il legislatore saprà indirizzare il sistema economico in modo opportuno e condiviso avremo fatto un salto effettivo di qualità ma altrimenti anche per questo verso dovremo attenderci un incremento del contenzioso amministrativo e civilistico in forme inedite sul grado di rispetto – da parte delle singole imprese – delle disposizioni ambientali.
In attesa della sfera pubblica sovranazionale ambientale prossima ventura (quella che Ferrajoli chiama Costituzione della Terra) ci tocca gestire saggiamente a livello nazionale la transizione ecologica, se lo faremo, avremo prefigurato il futuro.
*L’articolo riproduce il testo dell’intervento al convegno di Capri 30-31 maggio 2022 “Il paesaggio: nozioni, trasformazioni, tutele”.
A proposito della bozza Alito: l’aborto è «una grave questione morale» e non un diritto costituzionale*
di Giovanna Razzano, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università La Sapienza di Roma
[Per l’introduzione al tema si rinvia all’Editoriale]
*Nel pomeriggio del 24 giugno (ora europea) è stata pubblicata la sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, il cui testo corrisponde puntualmente alla bozza Alito, fatta salva la presenza, in calce, della concurring opinion di Thomas e di quella di Kavanaugh; della concurring opinion in the judgment di Roberts e della dissenting opinion di Breyer, Sotomayor e Kagan. Nel testo della sentenza, inoltre, sono state inserite le risposte alle argomentazioni addotte, nelle rispettive opinions, dai giudici dissenzienti e da Roberts (pagg. 35-39 e pagg. 69-77).
Sommario: 1. Il trafugamento della bozza Alito e il suo contenuto - 2. Il Quattordicesimo Emendamento non conferisce rango costituzionale a qualsiasi diritto non espresso - 3. La privacy, la differenza fra l’aborto e le altre libertà e la fedeltà al testo - 4. Lo stare decisis, le donne e il paternalismo - 5. La bozza Alito raffigura per certi versi un avvicinamento al modello italiano.
1. Il trafugamento della bozza Alito e il suo contenuto
Il trafugamento e la pubblicazione di una bozza riservata concernente un giudizio pendente dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti, lo scorso 2 maggio 2022, è un fatto senza precedenti ed è tanto più grave quanto più si consideri la questione sottesa. In gioco c’è, infatti, la questione di costituzionalità di una legge statale in materia di aborto (Mississippi’s Gestational Age Act), la quale, anziché conformarsi alla precedente decisione costituzionale Roe v. Wade del 1973 - la quale ha sancito il diritto costituzionale di abortire fino al sesto mese di gravidanza, vietando ai legislatori statali di limitare questa possibilità[1] - proibisce l’aborto oltre la quindicesima settimana di gestazione, salvo casi di emergenza medica o di grave anomalia fetale.
Il Presidente della Corte John G. Roberts ha qualificato la fuoriuscita del documento riservato - la draft opinion del Justice Samuel Alito - come un affronto alla Corte stessa, assicurando che non ne pregiudicherà in nessun modo il lavoro; ha ordinato un’inchiesta e ha confermato, inoltre, che l’opinione del giudice costituzionale è autentica, pur se si tratta appunto di una bozza, ossia di un testo che non esprime né una decisione della Corte, né la posizione finale di nessuno dei suoi componenti[2].
Naturalmente l’episodio è bastato a riaccendere la già focosa discussione sull’aborto[3], che la bozza Alito qualifica sia in apertura, sia conclusivamente, come «una grave questione morale» (a profound moral issue). Una questione - si legge fin dalle prime righe della draft opinion - che divide gli americani fra quanti ritengono che la persona umana abbia inizio con il concepimento, per cui l’aborto pone termine ad una vita innocente; fra quanti ritengono che, invece, una regolazione dell’aborto limiti il diritto delle donne sul proprio corpo e impedisca loro di raggiungere la piena uguaglianza; e fra quanti ritengono che l’aborto debba essere permesso in alcune circostanze e con alcuni limiti, rispetto ai quali si distinguono ulteriori posizioni. Esiste insomma un quadro variegato di opinioni, che si rispecchia, peraltro, negli orientamenti dei rappresentanti politici, come dimostra l’esito della votazione avvenuta al Senato lo scorso 12 maggio 2022, laddove più della metà dei senatori ha rigettato la proposta di legge federale (Women’s Health Protection Act) volta a statuire un ampio diritto di aborto[4].
Al riguardo, prima di interrogarsi sugli elementi di novità che tutto ciò potrebbe portare al dibattito, anche nel nostro Paese, sembra doveroso considerare i contenuti della draft opinion, che per verità in pochi sembrano aver letto. Il lungo documento (98 pagine, che includono due appendici storiche), infatti, non entra nel merito della «grave questione morale» - ossia non preferisce le posizioni pro life a quelle pro choice, né dichiara incostituzionali le leggi permissive dell’aborto - ma consiste, piuttosto, in un’articolata dissertazione di carattere giuridico nella quale si confuta il fondamento costituzionale del diritto di aborto, affermato dalla sentenza Roe, e si dichiara che, in base alla Costituzione americana, compete piuttosto agli Stati e non alla Corte Suprema disciplinare la materia, trattandosi di scelte politiche che attengono al bilanciamento di interessi, che spettano ai legislatori sulla base del mandato elettorale e delle valutazioni dei cittadini e delle cittadine.
Le conclusioni che se ne traggono sono fondamentalmente quattro: l’aborto non è un diritto costituzionale fondamentale[5]; la sentenza Roe - come la successiva sentenza Casey - è clamorosamente errata (egregiously wrong) e rappresenta un abuso di potere giudiziale (abuse of judicial authority)[6]; tale precedente giurisprudenziale, pur tenendo conto dei principi dello stare decisis, può e deve essere annullato (overruled)[7]; la competenza, in tema di aborto, torna agli elettori e ai loro rappresentanti (the authority to regulate abortion must be returned to the people and their elected representatives)[8].
Quanto alla valutazione costituzionale delle norme che i legislatori potranno adottare in materia - in concreto, con riguardo alla legge del Mississippi, oggetto del giudizio - la Supreme Court afferma di non poter sostituire le proprie valutazioni a quelle delle assemblee rappresentative, ma solo di poter accertare, sul piano razionale (rational basis review), se vi siano interessi statali legittimi per legiferare[9], che nel caso risultano essere: il rispetto per la vita prenatale ad ogni livello di sviluppo, la protezione della salute e della sicurezza della madre, l’eliminazione di procedure mediche orribili o barbare, la preservazione dell’integrità della professione medica, la mitigazione del dolore fetale, la prevenzione di discriminazioni sulla base della razza, del sesso o della disabilità. Per la Corte si tratta di interessi che legittimano l’intervento del legislatore statale, per cui la Mississippi’s Gestational Age Act supera il vaglio di costituzionalità[10].
La draft opinion presenta quindi profili di interesse sia con riguardo alla questione dell’aborto, su cui va registrato un approccio sicuramente diverso dal passato, sia con riguardo al principio democratico e agli stessi principi del costituzionalismo, poiché coinvolge i temi della sovranità popolare, della rappresentanza, della competenza a ponderare interessi confliggenti, dei limiti del potere giudiziale, e di quello dei giudici costituzionali in particolare, in un quadro costituzionale di equilibrio fra diversi poteri. Ove la bozza si traducesse in sentenza, peraltro, si tratterebbe della decisione di una Corte costituzionale di un ordinamento di common law - tra l’altro la Supreme Court of the United States - che, rispetto ad «una grave questione morale», qualifica così erroneo un suo precedente giurisprudenziale, da dover superare lo stare decisis.
Sembra importante, quindi, esaminare ulteriormente i contenuti della bozza.
2. Il Quattordicesimo Emendamento non conferisce rango costituzionale a qualsiasi diritto non espresso
Il percorso argomentativo della draft opinion muove dalla constatazione per cui l’aborto, per i primi 185 anni dall’adozione della Costituzione americana, è stato disciplinato dagli Stati americani e dalle rispettive assemblee elettive. Un «processo democratico» che viene troncato nel 1973, quando la sentenza Roe v. Wade della Corte Suprema afferma l’esistenza di un diritto costituzionale di aborto, pone fine alla possibilità degli Stati di legiferare in materia[11] e introduce una dettagliata disciplina basata sui trimestri di gestazione[12]; criterio poi integrato da quello della successiva sentenza Casey, secondo cui nessuna norma deve comportare un ingiusto peso (undue burden) per la donna che intende abortire[13].
Occorre notare, per inciso, che sul piano processuale le controparti dello Stato del Mississippi - ossia i respondents (Jackson Women Organizations et al.) e il Solicitor General - hanno chiesto alla Corte Suprema di confermare o di annullare Roe e Casey, senza mezze misure[14], poiché non dichiarare incostituzionale la legge del Mississippi che vieta l’aborto oltre la quindicesima settimana di gestazione equivarrebbe comunque ad annullare Roe e Casey[15].
La bozza Alito sceglie di annullare le due sentenze, demolendo l’impalcatura interpretativa creata dai giudici della sentenza Roe, ossia l’assunto secondo cui il diritto alla privacy includerebbe il diritto di aborto in ragione di alcuni Emendamenti, in particolare del Quattordicesimo[16]. Per la bozza Alito si tratta di un’operazione ermeneutica illegittima. Infatti, né il diritto di aborto, né quello alla privacy sono esplicitamente garantiti dalla Costituzione americana, mentre il Quattordicesimo Emendamento non conferisce un rango costituzionale a qualsiasi diritto non espresso. Tale qualità, infatti, può essere riconosciuta, in base agli standard della stessa giurisprudenza della Corte[17], solo a quei diritti profondamente radicati nella storia e nella tradizione della Nazione, nonché racchiusi nel concetto di libertà ordinata (any such right must be “deeply rooted in this Nation’s history and tradition” and “implicit in the concept of ordered liberty).
La bozza mostra quindi come, fino alla seconda metà del XX secolo, un diritto costituzionale di aborto fosse del tutto sconosciuto al diritto americano e come, al momento dell’adozione del Quattordicesimo Emendamento, nel 1868, l’aborto fosse, all’opposto, un reato per i tre quarti degli Stati americani[18]. Dall’analisi del common law, emerge poi come l’aborto fosse espressamente punito come crimine da quando fosse percepibile il movimento del bambino nel grembo materno (c.d. quickening), ossia dalla sedicesima/diciottesima settimana[19], mentre, con riguardo alle settimane gestazionali precedenti, fonti dottrinali e giurisprudenziali attestano come fosse comunque considerato una pratica illegittima e non come un diritto. A partire dal XIX secolo, fra l’altro, ogni riferimento al quickening divenne irrilevante, perché il Parlamento britannico, nel 1803, qualificò l’aborto come un crimine in ogni stadio della gravidanza, seguito dalla maggioranza degli Stati americani[20]. Anche in seguito, fra il 1850 e il 1919, quando altri Stati si unirono alla Federazione, l’orientamento prevalente continuò ad essere quello di considerare l’aborto un crimine[21], cosicché, quando fu pronunciata la sentenza Roe, due terzi degli Stati americani punivano chiunque procurasse un aborto, qualsiasi fosse lo stadio di gravidanza, salvo in caso di pericolo di vita per la madre, mentre un terzo lo regolava comunque in maniera più restrittiva della disciplina dettata dalla sentenza stessa[22].
La conclusione è che l’aborto non è un diritto radicato nella storia americana, come invece affermarono Roe e Casey e vorrebbe, in questa occasione, il Solicitor General[23]. Né è accoglibile, secondo Alito, l’obiezione, pure avanzata da alcuni amici curie (brief for Amici Curiae American Historical Association and Organization of American Historians), secondo cui il divieto di aborto, sancito dalle leggi statali precedenti alla Roe, troverebbe la sua spiegazione non già nella consapevolezza che con esso si uccide la vita di un essere umano, ma in una ragione di politica demografica: il timore che le donne immigrate cattoliche, contrarie a questa pratica, avrebbero avuto più figli delle protestanti, ove a queste ultime fosse stato liberamente permesso l’aborto. Secondo questa teoria, insomma, gli Stati americani avrebbero vietato l’aborto solo per ragioni di opportunità, considerandolo in realtà legittimo, potendosi così avvalorare la tesi che l’aborto sarebbe un diritto radicato nella storia americana[24].
La draft opinion esclude infine che l’aborto possa dirsi protetto dal XIV Emendamento non solo inteso quale Due Process Clause, ma anche quale Equal Protection Clause, con riguardo, dunque, al tema delle discriminazioni in ragione del sesso. Osserva infatti la bozza che il fatto che la disciplina dell’aborto e le norme volte a prevenirlo riguardino una procedura di cui solo le donne possono avvalersi, non implica un’odiosa discriminazione basata sul sesso, tale da richiedere uno scrutinio specifico sotto questo profilo[25].
Prima di concludere, la draft opinion chiarisce che l’annullamento delle sentenze Roe e Casey non significa che il Quattordicesimo Emendamento non tuteli in assoluto diritti non menzionati in Costituzione, poiché la decisione attiene solo all’aborto e non ad altri diritti[26]. Si afferma, infine, che la Corte Suprema non ha il potere di decretare che, a causa dei principi dello stare decisis, un precedente errato debba rimanere per sempre esente da una revisione[27]. Tanto più che 26 Stati hanno chiesto alla Supreme Court di annullare Roe e Casey e di restituire la parola ai rappresentanti eletti[28].
3. La privacy, la differenza fra l’aborto e le altre libertà e la fedeltà al testo
Nella lunga motivazione possono individuarsi tre filoni argomentativi, tanto più interessanti, quanto più di carattere logico-giuridico.
Si tratta, in primo luogo, dei punti in cui la bozza Alito si sofferma sul diritto alla privacy o, con le parole della sentenza Casey, sul concetto di libertà come “diritto di individuare il proprio concetto di esistenza, di senso, di universo e di mistero della vita umana” (un’accezione del right to privacy - precisa la bozza Alito - che va distinta da quella consistente nel diritto alla riservatezza dei dati e nel diritto di adottare decisioni personali senza l’interferenza dei pubblici poteri[29]). Al riguardo si osserva che se è vero che c’è la più ampia libertà di pensare e di dire - in merito all’universo, alla vita, etc. - quello che si vuole, tale ampia libertà non si estende anche al piano del fare, perché il concetto giuridico di “libertà ordinata” prevede un bilanciamento fra interessi contrapposti (boundary between competing interests) [30]. L’osservazione è poi utile a concludere che questi interessi possono essere differentemente valutati e che pertanto spetta agli elettori ponderarli[31].
Si assiste, in tal modo, ad una razionalizzazione e ad una de-ideologizzazione del concetto di privacy; al suo sgonfiamento, in altri termini, che viene compiuto con una punta di spillo, ossia con un ragionamento logico elementare: in un ordinamento giuridico non c’è l’assoluta libertà di fare secondo le proprie opinioni sul mondo e sulla vita, come la prospettiva del diritto del lavoro evidenzia in modo palese[32]. Ove confermato dalla sentenza definitiva, questo passaggio relativo alla privacy, che riconduce le libertà sul campo reale degli interessi di tutti i soggetti coinvolti, nel quadro di un ordinamento giuridico costituzionale, non potrà verosimilmente non avere le sue ricadute in Europa, dove la privacy ha parimenti rappresentato - e rappresenta - il riferimento per l’edificazione di ogni “nuovo diritto”, come mostra la pletora di ricorsi alla Corte di Strasburgo basati sull’art. 8 CEDU, considerato una specie di Grundnorm per tutte le istanze iper-liberali e anti-paternaliste, refrattarie ad ogni “ingerenza” dei pubblici poteri.
In secondo luogo, la bozza Alito osserva come un conto sono i diritti di libertà che si risolvono in una sfera tutta individuale o consensuale (come sposarsi con chi si vuole, incluso persone dello stesso sesso, ottenere contraccettivi, educare come si crede i propri figli, etc. - tutte libertà citate da Roe e Casey), altro conto è l’aborto. Questa procedura, infatti, a differenza delle altre libertà, implica, a seconda dei punti di vista, la distruzione di una “vita potenziale” o di “un essere umano ancora non nato”, ossia coinvolge un altro essere[33]. Ѐ questo l’elemento che caratterizza la questione morale posta dall’aborto, a prescindere dal fatto che si consideri il feto “vita potenziale” o “essere umano ancora non nato”[34]. Un’osservazione non priva di fondamento razionale, al pari della conseguente qualificazione dell’aborto come «grave questione morale».
Quanto al terzo filone argomentativo, si tratta di quella che potrebbe definirsi la questione metodologica ed ermeneutica. Afferma la bozza Alito, non senza una punta di ironia, che nel valutare quali libertà rientrino sotto la protezione del Quattordicesimo Emendamento, i giudici costituzionali debbono guardarsi dalla naturale tendenza umana a confondere quello che l’Emendamento effettivamente garantisce con ciò che è invece l’ardente desiderio di ognuno circa la libertà di cui gli americani dovrebbero godere[35]. Traspare qui un chiaro approccio “originalista”, peraltro affine all’ermeneutica elaborata, in ambito europeo, da Emilio Betti, basata su di un metodo scientifico aderente all’oggettività del testo, che esige dall’interprete un’analisi storica e tecnica, senza l’influenza di prevenzioni dottrinarie, nella convinzione che il testo ha una sua verità storica, un significato che l’interprete è tenuto a ricavare e non ad attribuire[36], come pure Hans-Georg Gadamer ebbe a dire[37]. La bozza Alito richiama, sul punto, una dissenting opinion di Justice White, per cui le sentenze che trovano nella Costituzione principi o valori che non possono ragionevolmente essere letti nel testo, usurpano la competenza del popolo[38]. Sullo sfondo si intravede, soprattutto, l’originalismo di Justice Scalia, per il quale la concretizzazione dei valori non spetta al giudice ma al legislatore; compito del giudice, piuttosto, è ricercare il significato della disposizione così come inteso al momento in cui fu adottata dai costituenti o dai legislatori, mentre è precluso al giudice, in base al principio democratico, riscrivere la Carta fondamentale sulla base delle sue opinioni individuali sul giusto e sul vero[39]. Tutte questioni che sono di grande interesse anche dalle nostre parti[40]. Al riguardo occorrerebbe domandarsi, fra l’altro, se quanto sostenuto dalla bozza Alito sulla scorta di importanti precedenti (un diritto non espressamente menzionato dalla Costituzione può riconoscersi come fondamentale ove risulti profondamente radicato nella storia e nella tradizione della Nazione, nonché implicito nel concetto di libertà ordinata) possa assimilarsi alla tesi, autorevolmente sostenuta nell’ambito della dottrina italiana, per cui il carattere fondamentale di un diritto non scritto è attribuibile a quelle consuetudini culturali di riconoscimento che attengono a bisogni elementari dell’uomo, il cui appagamento è condizione di una esistenza libera e dignitosa[41]. Una questione di spessore, che ci si limita qui a delineare, e che merita approfondite riflessioni.
4. Lo stare decisis, le donne e il paternalismo
Vanno poi segnalati due aspetti di rilievo, che attengono al processo costituzionale e alla ricaduta della decisione sulla condizione femminile.
Il primo attiene alla dottrina dello stare decisis[42], cui la bozza Alito riconosce un ruolo considerevole ma non assoluto. Si nota come alcune delle decisioni storicamente più significative della Supreme Court abbiano comportato proprio l’overruling di un consolidato indirizzo giurisprudenziale opposto, come nel caso della segregazione razziale[43] e della riduzione di talune libertà economiche a vantaggio di misure di welfare[44]. Annullare Roe e Casey, per la bozza Alito, è quindi ammissibile in base a cinque ragioni: la grave erroneità; la qualità della loro motivazione (eccezionalmente debole e carente[45]); la difficile applicazione uniforme delle regole imposte (specialmente l’«undue burden» della Casey); il loro effetto dirompente su altre aree del diritto[46]; l’assenza di un concreto affidamento[47].
Quanto a quest’ultimo aspetto, la bozza Alito, richiamando quanto affermato proprio dalla sentenza Casey, ribadisce che non può esserci un legittimo affidamento per l’aborto, che è un fatto imprevisto (unplanned activity)[48], non pianificato. Con riguardo poi all’affidamento sociale, ossia alle ricadute che una modifica della disciplina dell’aborto potrebbe avere sulla condizione femminile, la relativa ponderazione è un giudizio di natura politica, che spetta come tale agli elettori, alle elettrici e ai loro rappresentanti, ma non ai giudici costituzionali. Le donne americane - osserva la draft opinion - non sono prive di potere politico ed elettorale e potranno contribuire ad influenzare la legislazione. Proprio nello Stato di Mississippi - si osserva - le donne sono la maggioranza dei votanti[49].
Questo passaggio merita attenzione. Non pare irrilevante, infatti, che la Mississippi’s Gestational Age Act sia stata proposta e sostenuta da parlamentari donne, come rimarca il parere denominato Brief for Women Legislators and the Susan B. Anthony List as Amici Curiae supporting Petitioners[50]. Né è trascurabile il dato per cui le donne americane siano tutt’altro che uniformemente schierate per la libertà di aborto, come emerge da un altro parere amici curiae, il Brief of 240 Women Scholars and Professionals, and Prolife Feminist Organizations in Support of Petitioners. Al contrario, è proprio la presenza delle donne nelle istituzioni rappresentative, mai così alta come negli ultimi anni, che avrebbe influenzato i processi democratici portando in diversi Stati ad una riconsiderazione della disciplina in tema di aborto; anche per questo la Supreme Court dovrebbe rimettere la questione alla competenza delle assemblee elettive, dove le donne sono rappresentate[51]. Inoltre, la sentenza Roe, che si è auto-assegnata la competenza sull’aborto («self-awarded sovereignty over abortion»)[52], sarebbe caratterizzata da un atteggiamento paternalista nei confronti degli Stati della Federazione («driven by that very kind of paternalism»), non consentito dalla Costituzione[53].
Le donne, insomma, non hanno bisogno della Corte Suprema per difendere diritti e interessi, ma di poter valutare e decidere direttamente nelle sedi appropriate. Notevole è altresì che l’accusa di paternalismo provenga, questa volta, non già da prospettive iper-liberali, ma da donne elette nelle assemblee legislative statali che ritengono abusivo il sigillo posto dalla Corte Suprema, nel 1973, ad una delle possibili regolazioni dell’aborto. Il mondo femminile americano si presenta, quindi, plurale. Emerge che sono state le stesse donne ad aver proposto e supportato, in molti Stati, legislazioni limitative dell’aborto; che esistono movimenti femministi pro-life; che esistono donne che accusano di paternalismo e interventismo creativo Roe e Casey. Interessa, soprattutto, che di queste ultime sentenze venga contestato l’assunto centrale: quello secondo cui alle donne sarebbe necessaria la libertà di aborto per poter competere con gli uomini in ambito lavorativo e in tutti i settori[54]. Tale paradigma, al contrario, non avrebbe giovato alla condizione femminile, perché avrebbe relegato la maternità e l’impegno che richiede in un ambito tutto individuale, in cui portare o meno a termine una gravidanza è un problema della donna; con la conseguenza paradossale di aver favorito una mentalità maschilista, secondo cui il lavoratore ideale è il single, senza figli; prototipo che non richiede da parte degli attori, pubblici o privati, dispendiosi assetti lavorativi adatti alle donne con i figli; le quali - si rileva - continuano tuttora ad esser discriminate se madri[55].
Si tratta, a mio avviso, di osservazioni di estremo interesse e meritevoli di attenzione, su cui è possibile discutere e confrontarsi, specie nel differente contesto costituzionale italiano. Qui esiste, infatti, un espresso dovere dei pubblici poteri di proteggere la maternità favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, secondo comma), sottolineato dalla Corte costituzionale proprio nella prima sentenza in tema di aborto (n. 27/1975). Né va dimenticato che la stessa l. n. 194/1978, all’art. 1, esordisce affermando che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio»[56], mentre esclude che l’aborto possa essere mezzo per il controllo delle nascite. Il tema, pertanto, è il seguente: lo Stato italiano protegge effettivamente la maternità? Le donne sono realmente libere di essere madri? Come interpretare, nella prospettiva femminile, i dati Istat, per cui, a fronte di una fecondità reale in costante calo dal 2010, il numero di figli desiderato resta sempre fermo a due, evidenziando «un significativo scarto tra quanto si desidera e quanto si riesce a realizzare?»[57]
5. La bozza Alito raffigura per certi versi un avvicinamento al modello italiano
Nel tirare le fila, va innanzitutto considerato quanto estremo sia il modello americano di aborto fissato da Roe e Casey, del tutto sbilanciato sulla volontà della donna, che può abortire non solo fino al sesto mese di gravidanza, ma anche oltre; all’opposto dell’uniformità che sarebbe dovuta discendere dalle pronunce costituzionali, il vago criterio dell’undue burden della sentenza Casey ha consentito infatti agli Stati di liberalizzare ulteriormente l’accesso, cosicché alcuni, come quello di New York, permettono l’aborto per tutta la gravidanza, sulla base di condizioni alquanto indefinite[58]. Né va dimenticato che la stessa contestata legge del Mississippi, oggetto del giudizio, permette comunque l’aborto fino alla quindicesima settimana di gestazione, ossia oltre le dodici settimane, ossia i 90 giorni indicati dalla legge italiana[59]; la quale, oltretutto, richiede la sussistenza di determinate condizioni e circostanze[60].
La bozza Alito rappresenta pertanto un avvicinamento della Supreme Court al modello italiano almeno sotto tre profili.
Il primo attiene alla qualificazione dell’aborto, che per la bozza non è (più) un diritto costituzionale. Infatti, non lo è neppure per l’ordinamento italiano, dove né la legge che lo ha legalizzato, né la Corte costituzionale[61] hanno mai qualificato l’aborto come diritto tout court[62]. La mera liceità di un comportamento, d’altronde, non implica la sua assunzione nel novero dei diritti di libertà costituzionalmente tutelati[63]. Il giudice delle leggi, fin dalla sent. n. 27/1975, ha affermato, piuttosto, l’«obbligo del legislatore di predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire la gestazione»[64]. E la l. n. 194/1978, da parte sua, prevede misure per prevenire ed evitare l’aborto, indicando che i consultori familiari assistano la donna in stato di gravidanza «contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza» (art. 2, lett. d) e trovino «le possibili soluzioni dei problemi proposti», aiutandola a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza e promuovendo ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna (art. 5, comma 1). Un assetto, questo, che pare coerente con la definizione di aborto come «grave questione morale», piuttosto che come «diritto», la cui nozione non è compatibile con l’impegno dell’ordinamento per prevenirlo, evitarlo e rimuovere le cause che portano a richiederlo. I diritti non si prevengono. Va aggiunto che il medico, ai sensi della legge, può rilasciare il certificato di cui all’art. 5 della legge «sulla base delle circostanze di cui all’art. 4», cosicché non può dirsi che nel nostro ordinamento, a differenza di altri (dove il certificato è rilasciato su semplice richiesta da un impiegato amministrativo)[65], vi sia l’aborto on demand per i primi 90 giorni[66]. Il diritto di abortire si configura, quindi, solo in un secondo momento, una volta ottenuto il certificato, a fronte del quale vi è il dovere da parte delle strutture regionali, pubbliche o convenzionate, di eseguirlo, con il conseguente obbligo del personale sanitario di realizzarlo, salva l’obiezione di coscienza. Quanto a quest’ultima, pare importante sottolineare che, da un lato, trova la sua giustificazione in un diritto costituzionale fondamentale - quello alla vita - e non già in una mera ragione di coscienza individuale o privata[67]; dall’altro, non ha rappresentato[68] né rappresenta[69] un ostacolo all’accesso all’aborto, come si vuole far credere.
In secondo luogo, la bozza Alito ritiene che sia interesse legittimo degli Stati intervenire, in materia, per ponderare e disciplinare una pluralità di interessi. Di fronte alla volontà della donna, infatti, non c’è più, solo, una “vita potenziale” (la potential life della sentenza Roe), ma anche la protezione della vita prenatale ad ogni livello di sviluppo, l’eliminazione di procedure mediche orribili o barbare[70], la mitigazione del dolore fetale, la preservazione dell’integrità della professione medica. Analogamente la Corte costituzionale italiana, fin dalla sent. n. 27/1975, ha posto in luce una serie di “interessi”: oltre alla vita e alla salute della donna (la sua privacy e la sua libertà di scelta non sono menzionate), vi è infatti la protezione della maternità, nonché «la tutela del concepito», che ha «fondamento costituzionale» ed è da annoverare fra i diritti inviolabili dell’uomo, «sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie»[71]. Inoltre, non è possibile l’abrogazione di quelle parti della l. n. 194/1978 che rappresentano «il livello minimo di tutela necessaria dei diritti costituzionali inviolabili alla vita, alla salute, nonché di tutela necessaria della maternità, dell’infanzia e della gioventù» (sent. 35/1997)[72]. Quanto alla tutela della vita «fin dal suo inizio», tale sentenza ha precisato che si tratta di un diritto da iscriversi tra quelli inviolabili, cioè «tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata in quanto appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».
In terzo luogo, infine, la bozza Alito rimette la questione dell’aborto alla competenza del legislatore, allineandosi, anche sotto questo profilo, all’Italia e alla maggior parte dei Paesi nel mondo, dove l’aborto è disciplinato da leggi e non da sentenze[73].
Della disciplina italiana, a conclusione di queste note, sembra di dover mettere in luce, in una prospettiva costituzionale, quel nucleo che la Corte, nella sent. n. 35/1997, ha appunto qualificato «a contenuto normativo costituzionalmente vincolato». Interessa, in particolare, quanto previsto dall’art. 5 della l. n. 194/1078, le cui disposizioni si incentrano sul concetto di aiuto alla donna da offrirsi nel momento in cui accede al colloquio di cui ai commi 1 e 2. Si tratta dell’approccio sociale e giuridico al problema dell’aborto, «la cui attuazione - secondo un giudizio ampiamente condiviso - è rimasta insufficiente», come affermava il Comitato Nazionale di Bioetica quasi vent’anni or sono[74]; così come la percettibilità, nel nostro Paese, di un clima positivo, di simpatia e disponibilità solidaristica, verso la gravidanza in atto[75]. Si suggeriva, fra l’altro, «una seria progettazione» delle modalità con cui venga svolto il colloquio con la donna per ciò che attiene all’aiuto sociale, psicologico ed economico, ricercando in concreto, come la legge richiederebbe, «le possibili soluzioni dei problemi e (…) offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto»[76].
Si tratta di indicazioni tuttora valide, specie a fronte del sempre maggiore ricorso all’aborto farmacologico, sia perché riferibili a quel nucleo costituzionalmente necessario, sia perché le donne rischiano di essere lasciate sempre più sole con i loro problemi e le loro scelte. Del resto, occorre domandarsi, quali diritti e quali libertà verrebbero lesi, ove una donna, a motivo dell’aiuto efficace e concreto delle istituzioni e della società, decidesse, anziché di abortire, di tenere il suo bambino?
Penso che sia questa la domanda cruciale da cui ripartire per una proficua discussione pubblica sulla «grave questione morale» che l’aborto pone.
[1] La sentenza Roe, dopo aver distinto la gestazione in tre trimestri, ha statuito che, nel primo, gli Stati USA non sono abilitati a disciplinare l’aborto, che rimane nella completa disponibilità del medico e della gestante; nel secondo trimestre, gli Stati possono intervenire con una disciplina funzionale alla salute della donna che abortisce, ma non tutelare il nascituro; nel terzo trimestre, poiché vi sarebbe la vitalità (viability) del feto, ossia la sua possibilità di vita autonoma fuori dall’utero materno, gli Stati possono legittimamente avere interesse anche a tutelare la vita del nascituro. In seguito, la c.d. sentenza Casey (1992) ha poi diffidato gli Stati dall’adottare norme che rappresentino un ingiusto peso (“undue burden”) per una donna che intende esercitare il suo diritto ad ottenere all’aborto.
[2] Cfr. https://www.supremecourt.gov/publicinfo/press/pressreleases/pr_05-03-22 Singolare appare quindi la risoluzione adottata il 9 giugno scorso dal Parlamento europeo, il quale, dicendosi preoccupato per le conseguenze che una futura sentenza della Supreme Court USA potrebbe avere per i diritti delle donne, incoraggia fortemente il governo degli Stati Uniti a rimuovere tutti gli ostacoli ai servizi di aborto. La risoluzione, infatti, - priva di valore giuridico - non solo si riferisce ad una bozza illegalmente trafugata, riferibile ad una sentenza non pubblicata del tribunale costituzionale di uno Stato esterno alla UE, ma entra nel merito di un ambito - l’aborto - che non è neppure di competenza delle istituzioni comunitarie.
[3] Al momento la sede della Supreme Court è stata recintata e le autorità pubbliche sono dovute intervenire per proteggere l’incolumità dei giudici costituzionali.
[4] Per l’approvazione della legge - caldeggiata dai democratici, nonché dal Presidente Biden - occorrevano i voti di 60 senatori, ma il provvedimento ne ha ricevuti solo 49, mentre 51 sono stati i voti contrari (tutti i repubblicani oltre al senatore Dem Joe Manchin).
[5] Cfr. bozza Alito, p. 65.
[6] Ivi, pp. 6, 40.
[7] Ivi, pp. 5, 35, 42, 52, 62, 63, 64, 65.
[8] Ivi, pp. 2, 6, 34, 40-41, 64, 65, 67.
[9] Ivi, p. 66: «It must be sustained if there is a rational basis on which the legislature could have thought that it would serve legitimate state interests». La sent. Roe aveva infatti negato l’esistenza di interessi statali legittimi per legiferare (primo trimestre) o li aveva fortemente limitati (nessuna tutela per il nascituro se non dal terzo trimestre di gravidanza).
[10] Ibidem.
[11] Al momento della sentenza Roe, 30 Stati vietavano l’aborto in ogni stadio di gravidanza, salvo che in caso di pericolo per la vita della madre (bozza Alito, p. 24).
[12] Cfr. nota 1.
[13] Bozza Alito, p. 4.
[14] Brief for Respondents, p. 43 e 50.
[15] Bozza Alito, p. 5.
[16] Ivi, p. 9.
[17] Ivi, p. 13, dove si citano Washington v. Glucksberg, 521 U. S. 702, 721 (1997) e, in seguito (p. 12 ss.), Timbs v. Indiana, 586 U.S. (2019); McDonald, 561 U. S., at 764; Collins v. Harker Heights, 503 U. S. 115,125 (1992).
[18] Ivi, p. 5.
[19] Ivi, p. 16 ss.
[20] La relativa documentazione nell’Appendice A.
[21] Ulteriori riferimenti nell’Appendice B.
[22] Bozza Alito, p. 24.
[23] Ivi, p. 27, on ulteriori riferimenti.
[24] Ivi, pp. 28-29.
[25] Ivi, pp. 10-11. Sarebbe del resto come sostenere che i protocolli di prevenzione del tumore al seno, poiché riguardano le donne, esigono uno stretto scrutinio sotto il profilo della discriminazione in base al sesso.
[26] Ivi, p. 62.
[27] Ivi, p. 64.
[28] Ivi, p. 61.
[29] Ivi, p. 45.
[30] Ivi, pp. 30, 45.
[31] Ivi, pp. 33-34.
[32] Nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, un ragionamento analogo si rinviene nella sent. n. 141/2019.
[33] Ѐ interessante ricordare che il Tribunale costituzionale tedesco, nella sentenza del 27 febbraio 1975, considerò il concepito il soggetto debole da tutelare e ritenne impossibile un compromesso fra la sua vita, da un lato, e la libertà della gestante di interrompere la gravidanza, dall’altro, dal momento che l’aborto implica un annientamento della vita del nascituro.
[34] Ivi, p. 32.
[35] Ivi, p. 13.
[36] E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, II, Milano, 1955, 795-798; ID., L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, con saggio introduttivo di G. Mura, Roma, 1987, p. 64. Sul canone dell’autonomia dell’oggetto nell’ermeneutica bettiana, G. CRIFÒ, Emilio Betti, In memoriam, Milano, 1968, 298 (estratto da BIDR, 3° serie, vol. IX).
[37] Cfr. H.G. GADAMER, Verità e metodo (1960), Milano, 1983, 316.
[38] Bozza Alito, p. 41.
[39] Cfr., fra i numerosi scritti, A. SCALIA- B.A. GARNER, Reading Law: The Interpretation of Legal Texts, St. Paul, MN, Thomson/West, 2012; interessante pure ID., La mia concezione dei diritti, Intervista di Diletta Tega ad Antonin Scalia, in Quaderni cost., 3/2016, p. 671.
[40] Ci si limita a segnalare AA.VV, Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. ROMBOLI, Torino 2017 e A. RUGGERI, Il futuro dei diritti fondamentali, sei paradossi emergenti in occasione della loro tutela e la ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, in Consulta online, 1° febbraio 2019, p. 43.
[41] Fra i numerosi scritti dell’A., cfr. A. RUGGERI, Cosa sono i diritti fondamentali e da chi e come se ne può avere il riconoscimento e la tutela, in Cos’è un diritto fondamentale, a cura di V. BALDINI, Atti del Convegno Annuale del Gruppo di Pisa svoltosi a Cassino il 10-11 giugno 2016, Napoli, 2017, p. 337 ss.
[42] Bozza Alito, p. 35.
[43] Brown v. Board of Education.
[44] West Coast Hotel Co. v. Parrish.
[45] Bozza Alito, p. 41.
[46] Ivi, p. 59, dove si afferma, fra l’altro, che le precedenti sentenze della Corte in materia di aborto hanno annacquato il rigore dello standard delle questioni di costituzionalità, i principi della res iudicata, il principio per cui gli Statuti devono essere interpretati in modo da evitare di dichiararne l’incostituzionalità.
[47] Ivi, p. 39 ss., dove si qualifica gravemente carente la motivazione offerta da Roe e Casey, prive di aggancio al testo, alla storia, ai precedenti e alle fonti sulle quali sono solitamente basate le decisioni costituzionali. Del tutto erronea è poi la ricostruzione del common law in tema di aborto, basata su di una fonte dottrinale screditata. Vengono anche ricordati i quattro argomenti della sentenza Roe: 1) il peso degli interessi coinvolti, 2) la lezione e gli esempi della storia della medicina e del diritto, 3) l’orientamento permissivo del common law, e 4) la domanda proveniente dai problemi della società contemporanea. Destituiti di fondamento il secondo e il terzo argomento, altro non resta che una valutazione di opportunità politica, che non può, come tale, che spettare al legislatore. Si osserva, poi, come il criterio della viability, cruciale nella disciplina trimestrale di Roe, è discutibile non solo perché varia a seconda dei progressi della medicina, del luogo, della salute, sia della madre, sia del feto, anche perché arbitrario (così infatti Corte cost. italiana, sent. n. 35/1997, per la quale tutti i nascituri meritano protezione, non solo quelli capaci di sopravvivere fuori dall’utero). Sono poi molti i giuristi - ricorda poi la bozza Alito - anche pro aborto, che hanno criticato la Roe in quanto priva di fondamento.
[48] Bozza Alito, p. 59 ss.
[49] Ivi, p. 61.
[50] Brief for Women Legislators, p. 18. Per i testi dei vari briefs degli amici curiae (più di 140): https://www.scotusblog.com/2021/11/we-read-all-the-amicus-briefs-in-dobbs-so-you-dont-have-to/
[51] Brief for Women legislators, cit., p. 13 ss.
[52] Ivi, p. 21.
[53] Ivi, p. 17.
[54] Brief of 240 women scholars and professional, p. 17 ss.
[55] Ivi, p. 39 ss.
[56] Corsivo mio.
[57] ISTAT, Rapporto annuale 2020 sulla situazione del Paese, p. 262.
[58] Cfr. il Reproductive Health Act, 2019, section 2, art. 25-A, che permette l’aborto oltre il sesto mese non più solo per salvare la vita della madre, ma anche quando il feto non sopravviverebbe fuori dall’utero e l’aborto è necessario per proteggere la vita e la salute della donna («there is an absence of fetal viability, or the abortion is necessary to protect the patient’s life or health»).
[59] Anche la maggioranza degli Stati europei che ha legalizzato l’aborto restringe notevolmente le condizioni di accesso oltre il primo trimestre di gravidanza.
[60] Cfr. art. 4 della l. n. 194/1978.
[61] Cfr. in particolare le sentt. n. 27/1975; 26/1981; 196/1987; 108/1981; 35/1997.
[62] Lo stesso vale sul piano del diritto internazionale. Come conferma la recente Dichiarazione di Ginevra, del 2020, non vi sono trattati internazionali che sanciscano il diritto di aborto, né il dovere da parte degli Stati di promuoverlo o finanziarlo (tali non sono la Convention on the Elimination of Discrimination against Women, 1979; il Rome Statute of the International Criminal Court, 1998; i c.d. documenti del Cairo e di Beijing). La Corte di Strasburgo, da parte sua, nella sentenza A, B & C v. Ireland del 2010, mai smentita dalle pronunce successive, ha affermato che l’art. 8 CEDU, sul diritto alla privacy (o, meglio, all’autonomia), non può essere interpretato in modo da includere il diritto di aborto. Numerosi sono poi i trattati internazionali che impegnano espressamente gli Stati a proteggere la vita del nascituro (ad es. U.N. Convention on the Rights of the Child, 1989, basata sulla Declaration of the Rights of the Child, 1959; The International Covenant on Civil and Political Rights, 1966; The American Convention on Human Rights, 1969).
[63] A. BARBERA, La Costituzione della Repubblica italiana, Milano, 2016, p. 157.
[64] Corsivi miei.
[65] Cfr. ad es. la legge svedese, l’Abortlag del 1974, secondo cui fino alla diciottesima settimana di gravidanza l’aborto è a semplice richiesta e non occorre verificare la presenza di determinate circostanze.
[66] Anche se è vero che l’interpretazione della legge (in particolare il modo di intendere il pericolo per la salute psichica) ha portato verso questa configurazione. Sul punto M. OLIVETTI, Diritti fondamentali, II ed., Torino, 2020, p. 494.
[67] Ne è conferma l’art. 9, comma 5, della stessa l. n. 194/1978, per il quale l’obiezione di medici e ausiliari non è invocabile «quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo».
[68] Il riferimento è ai ricorsi contro l’Italia intrapresi dalla International Planned Parenthood Federation (nel 2012) e dalla CGIL (nel 2013) dinanzi al Comitato europeo per i diritti sociali (organo del Consiglio d’Europa competente a garantire l’effettività della Carta sociale europea da parte degli Stati aderenti), in quanto l’alto numero di medici obiettori non avrebbe assicurato l’accesso all’aborto. La questione si è conclusa con una risoluzione del Comitato dei ministri, il quale - a fronte delle informazioni fornite dal Ministero della salute, che hanno evidenziato che il numero di non obiettori risulta congruo, anche a livello sub-regionale, rispetto alle Ivg effettuate - ha accolto «gli sviluppi positivi» prendendo dunque atto che l’obiezione non provoca una disfunzione nell’applicazione della legge n. 194 e del 1978 (sul punto si veda la Relaz. al Parlamento del Min. della salute sull’attuazione della l. n. 194/1978, 7 dicembre 2016, p. 57).
[69] La conferma proviene dalle relazioni al Parlamento presentate dal Ministero, basate su dati e parametri regionali accuratamente individuati e raccolti, che mostrano che «non sembra essere il numero di obiettori di per sé a determinare eventuali criticità nell’accesso alle Ivg ma probabilmente il modo in cui le Strutture Sanitarie si organizzano nell’applicazione della legge 194/78» (relaz. Min. Speranza del giugno 2020). Quanto agli anni precedenti (dati 2018), risulta che il 15% dei ginecologi non obiettori non è assegnato al servizio Ivg; un dato che conferma che la situazione non è critica.
[70] La Mississippi’s Gestational Age Act osserva infatti come, dopo le 15 settimane di gestazione, le modalità per effettuare l’aborto consistano inevitabilmente in procedure per distruggere il feto che sono “barbare” nonché pericolose per la salute della madre. Peraltro è dal 2003 che gli Stati Uniti hanno bandito l’atroce pratica del partial-birth abortion, rispetto alla quale viene in mente, rispetto all’ordinamento italiano, la l. n. 413/1993, sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale, che tutela quanti «si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi» (art. 1).
[71] Com’è noto, la medesima sentenza ha altresì ritenuto che non ci sia equivalenza fra il diritto alla vita dell’embrione, «che persona deve ancora diventare», e il diritto «non solo alla vita, ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre».
[72] Su cui C. CASINI e M.G. GIAMMARINARO, in Bioetica, 5/1997, p. 425.
[73] Cfr. Center for Reproductive Rights, 2021, https://reproductiverights.org/maps/worlds-abortion-laws/
[74] Così il CNB, Aiuto alle donne in gravidanza e depressione post-partum, 16 dicembre 2005, p. 9.
[75] Ibidem.
[76] Ibidem.
Giustizia Insieme pubblica la relazione annuale dell’Autorità Garante delle Persone Private della Libertà Personale, presentata il 20 giugno 2022 al Senato alla presenza del Presidente della Repubblica.
La relazione, ricchissima di dati e di informazioni, ha come sempre il merito di richiamare gli interlocutori istituzionali - il Parlamento, il Governo nelle sue articolazioni centrali e periferiche e la Magistratura - ai loro compiti di tutela e promozione dei diritti di chi, in una fase più o meno lunga della propria vita e per diversi motivi, subisce una limitazione coattiva o, comunque, non scelta, della propria libertà. Tanti i temi toccati, con rigore e attenzione, da quelli più "classici" dell'esecuzione penale detentiva e delle misure di sicurezza, con il richiamo alle istituzioni perché il percorso delle REMS venga portato a compimento, all'attenzione alle detenute madri ed ai loro figli, passando per la gestione strutturale, e non più emergenziale, della prima accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo, fino alle relativamente nuove questioni poste dalle RSA in epoca pandemica. Un lavoro che, anno dopo anno, disegna un quadro di quanto è stato fatto e quanto è da fare, ed è scritto per accompagnare il lettore nell'anno in corso, sollecitando un impegno duraturo.
https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/pages/it/homepage/pub_rel_par/
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.