ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giustizia Insieme alla prima “Michele Taruffo Girona Evidence Week”. Una visione d’insieme (ma non solo)
di Angelo Costanzo e Carlo Vittorio Giabardo
Dal 23 al 27 maggio 2022 si è tenuta, presso l’Università di Girona, in Spagna, la prima edizione della “Michele Taruffo Girona Evidence Week”, evento pensato con cadenza triennale, e organizzato dalla Fondazione dell’Università e dalla Càtedra de Cultura Jurídica, diretta e animata dal filosofo del diritto Jordi Ferrer Beltrán. Di questo congresso, la Rivista Giustizia Insieme è stata formalmente e ufficialmente istituzione associata[1], e ha visto la presenza di due membri del comitato di redazione, Angelo Costanzo e Carlo Vittorio Giabardo.
I numeri del Congresso sono stati davvero notevoli: hanno preso parte più di 500 persone, provenienti da più di 20 Paesi, e 180 studiosi hanno partecipato in qualità di speakers nei molteplici workshops offerti in modalità parallela. Vi era presente una parte considerevole dell’intera scienza processualistica internazionale, e in particolare quella di molte giurisdizioni della tradizione di common law, di molti Paesi dell’Europa, dell’America Latina (assai consistenti le delegazioni provenienti da Perù, Argentina, Colombia, Brasile, tra gli altri) e – naturalmente – della Spagna e dell’Italia (senza pretesa di esaustività, dalle Università di Bologna, Brescia, Cassino, Genova, dell’Insubria, Milano “Bocconi”, Napoli, Roma “La Sapienza”, “Roma Tre”, della Tuscia, Urbino, tra le altre).
L’evento – come il nome evoca – si è tenuto in omaggio al grande giurista e processualcivilista Michele Taruffo, tristemente scomparso nel dicembre 2020 (che Giustizia Insieme aveva commemorato[2]), il quale all’Università di Girona era stato, per vari anni, professore visitante e professore – nonché uno dei fondatori - del fortunato Master in ragionamento probatorio. Il vincolo di Michele Taruffo con l’Università di Girona, e in particolare con Jordi Ferrer, è stato fortissimo e risalente. Va detto, infatti, che Jordi Ferrer fu il traduttore, in spagnolo, nel 2002, della monumentale e pionieristica opera di Michele Taruffo “La prova dei fatti giuridici” (uscita, in Italia, nel 1992, per Trattato “Cicu-Messineo”), grazie all’incontro avvenuto tra i due al Congresso italo-spagnolo di teoria del diritto, nel 1998 (su presentazione di Paolo Comanducci, dell’Università di Genova, e, con riguardo alla traduzione, grazie alla mediazione di Perfecto Andrés Ibáñez, giudice del Tribunal Supremo spagnolo)[3]. Da allora la relazione, personale prima ancora che accademica, tra Jordi Ferrer e Michele Taruffo, e tra questi e l’Università di Girona, non si sarebbe interrotta più. Il giurista pavese è stato infatti parte centrale della vita accademica e dei molti progetti – editoriali, di ricerca, di insegnamento – portati a termine all’Università di Girona fino alla fine. Per questo, dopo la scomparsa, la sala seminari della Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo spagnolo è stata formalmente intitolata a Michele Taruffo, nel 2021. L’Università di Girona già aveva reso omaggio al processualcivilista pavese nel 2015, con un grande congresso a Lui dedicato, riunendo studiosi, colleghi e amici a discutere sui temi di e con Michele Taruffo (quel Convegno e gli Atti che ne furono ricavati presero l’indicativo titolo di Debatiendo con Taruffo[4]). Là si era dibattuta l’opera di Taruffo, con Lui presente. Qui, l’intento era differente: ricordarne sì la grande eredità, ma con ampiezza di prospettive e nuove frontiere, anche oltre, e al di là, dei temi da Lui trattati in vita.
Particolarmente sentita è risultata la conferenza (“Michele Taruffo y la evolución de los estudios sobre la prueba”) che ha inaugurato la settimana, tenuta dal professor Luca Passanante, dell’Università di Brescia, il quale ha ripercorso le tappe di studioso di Michele Taruffo, dagli esordi della tesi di laurea, redatta sotto la guida di Vittorio Denti – dedicata alle massime di esperienza nel diritto processuale – agli incontri più formativi avvenuti in tante decadi di ricerca, con filosofi e teorici del diritto, ai plurimi interessi, fino alle ultime ricerche. Peraltro, la preziosa tesi di laurea, stampata e rilegata, fino ad ora inedita, è oggi parte del generoso legato di Michele Taruffo all’Università di Girona (del quale accenneremo immediatamente); la tesi è stata quindi interamente scannerizzata e resa liberamente, e permanentemente, consultabile online, da qualunque parte del mondo. Un autentico dono alla comunità dei processualcivilisti e a tutti gli studiosi di diritto probatorio.
L’evento è stato inoltre l’occasione per la presentazione ufficiale della donazione – per cortese concessione della moglie di Michele Taruffo, la amabilissima professoressa Cristina de Maglie, e della figlia, l’avv. Anna Taruffo, e grazie alla gestione di Luca Passanante – del c.d. “Fondo Taruffo” all’Università di Girona. Il ricchissimo fondo, ora messo a disposizione di studenti, studiosi e ricercatori, comprende parte della biblioteca personale di Michele Taruffo, con un patrimonio librario di più di dodicimila tra libri e riviste giuridiche, nonché opere d’arte, quadri, sculture e altri oggetti di grande valore personale, che Egli aveva raccolto, o che gli erano stati donati, nel corso della sua vita – soprattutto nei frequentissimi (e avventurosissimi!) viaggi all’estero e in America Latina. Molte di queste opere, quadri e sculture sono in questo momento disseminate nei corridoi e nelle aule della Facoltà di Giurisprudenza di Girona, impreziosendo l’ambiente. Tra l’immenso lavoro fatto da tutti coloro che si sono dedicati a questo progetto, spicca anche la catalogazione e indicizzazione di tutte le opere scritte da Michele Taruffo. Qui di seguito il link: https://fonsespecials.udg.edu/michele-taruffo/, contenente la lista delle opere donate e il catalogo della sua intera produzione (divisa per decadi), e la tesi di laurea, della quale si può prendere visione qui: https://dugifonsespecials.udg.edu/handle/10256.2/18152
Filo conduttore dell’intera settimana è stato l’universo – complessissimo – del diritto delle prove, viste, queste, nei loro infiniti risvolti epistemici, filosofici, sociali, scientifici, giuridici, economici. È noto che, in molti Paesi del common law, “Evidence Law” è un corso a parte, distinto dal diritto processuale (civile o penale) proprio perché richiede conoscenze assai tecniche e la padronanza di una letteratura – filosofica, epistemologica, e relativa al metodo scientifico – non sempre accessibile ai cultori delle discipline positive. E così, parimenti, l’epistemologia giuridica (legal epistemology) è divenuta, da tempo, un campo che, forse, appartiene più dell’epistemologia che al diritto (molti tra i più autorevoli studiosi di questa disciplina provengono dal settore della filosofia della scienza; su tutti, basti ricordare Susan Haack e Larry Laudan).
Una telegrafica panoramica dei temi e dei problemi trattati.
Oltre al professor Luca Passanante – che, come detto, ha aperto l’evento - hanno preso parte, il primo giorno, in qualità di speakers nelle conferenze plenarie (quindi al di fuori delle molteplici presentazioni nei workshops), la professoressa Marina Gascón Abellan (dell’Università Castilla La Mancha), con una conferenza su intelligenza artificiale e diritto, i professori Daniel Epps (Università di Washington), Giulia Lasagni (Università di Bologna), Luca Luparia Donati (Università degli Studi Roma Tre) e di Samuel Gross (Università del Michigan), coordinati da Carmen Vazquez, (Università di Girona), in un panel avente ad oggetto il problema dell’errore giudiziario (cioè, le false assoluzioni e/o le false condanne) e le possibili strategie per la sua riduzione.
Il secondo giorno hanno tenuto conferenze i professori Ronald Allen (Northwestern University, Chicago), sul tema dell’epistemologia giuridica, Jennifer Mnooking (Università della California), sul discusso ruolo delle scienze forensi nel processo, Magne Strandberg (Università di Bergen), sulle regole probatorie del modello unico di Codice di procedura civile europeo redatto dall’ELI/UNIDROIT. Hanno chiuso, poi , la giornata gli interventi dei professori Keil Geert (Università “Humboldt” di Berlino), Matthew Dyson (Oxford University), Ralf Poscher (Università “Albert-Ludwigs” di Friburgo) e Maximo Langer (Università della California), coordinati dalla catedrática di diritto processuale all’Università Complutense di Madrid, Lorena Bachmaier Winter, sul tema del diritto probatorio nel panorama comparato.
Nella giornata seguente hanno tenuto una serie di “corsi brevi”, aperti agli iscritti, le professoresse Daniela Accatino (sui concetti chiave e le sfide del c.d. “modello razionale” di valutazione della prova), e Giuliana Mazzoni, riconosciuta esperta di psicologia della testimonianza (sulla valutazione del testimone), e i professori Ho Hock-Lai (sulle presunzioni e sul ragionamento inferenziale nel processo) e Jordi Ferrer Beltrán (sugli standard di prova e la loro importanza per un giusto processo). Le ultime due giornate, infine, sono state dedicate, dal mattino al tardo pomeriggio, alla presentazione dei lavori e delle ricerche dei partecipanti, nei moltissimi workshops offerti parallelamente tra loro (alcuni ufficiali, altri selezionati mediante call for papers)[5].
Lasceremo – eventualmente – un approfondimento più analitico di una, o più, di queste tematiche, così come trattate in questo Congresso, ad altri interventi, sulle pagine di questa Rivista[6]. In questa sede ci preme piuttosto mettere in luce come uno dei grandi temi trattati lungo l’arco dell’intera settimana era rappresentato dall’esigenza – ben presente nell’opera di Michele Taruffo, e poi ripresa e sviluppata nel lavoro di molti rappresentanti della scuola di Girona – di rendere razionale il procedimento di valutazione delle prove, e quindi la decisione nel merito, nel senso forte di eliminare (o quanto meno ridurre il più possibile), nella giustificazione, ogni richiamo alla soggettività del giudicante, e specialmente al suo “convincimento”; parola, questa, che ha – e non può non avere – una dimensione psicologica, personale, un collegamento con l’interiorità del magistrato, cioè con la sua credenza, che è nulla più di uno stato mentale, e quindi, sostanzialmente, irrilevante, almeno ai fini giustificativi (a questo proposito, lanciamo qui, in forma semplificata, la “terribile domanda”; ma il giudice, quando decide, “crede (believes), sa (knows) o accetta (accepts)” che Tizio ha commesso un certo fatto?[7]).
Di qui la critica alla celeberrima espressione – considerata imprecisa – dello standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio (cosa significa ragionevole? Chi ci dice quando un dubbio è ragionevole? Ci sono “criteri obiettivi” in grado di valutare, dall’esterno, questa ragionevolezza?) o a formulazioni legislative – se ne trovano molte, se allarghiamo lo sguardo al diritto comparato – che, nel fissare i livelli di esigenza probatoria necessari per la pronuncia, facciano riferimento a elementi psicologici o a stati mentali del giudice (come per es., la “intima convicción”, cioè la “convinzione intima”, o il raggiungimento di una “certeza subjetiva”, la “certezza soggettiva”, etc.).
L’ultima opera di Jordi Ferrer – la quale nel corso della settimana è emersa più volte e più volte è stata discussa ─ va proprio in questa direzione, come il titolo evocativamente indica: Prueba sin convicción. Estándares de prueba y debido proceso, cioè prova senza (nel senso di: a prescindere dal) convincimento, dalla convinzione (in questo caso: del giudice)[8]. Lo standard di prova, o meglio, gli standards di prova, al plurale (giacché non esisterebbe soltanto un livello di sufficienza probatoria valido per tutti i casi, ma molteplici, da fissarsi secondo scelte politiche) – secondo la ricostruzione dell’A. – andrebbero formulati in modo da essere oggettivamente (rectius, intersoggettivamente) controllabili, se si vuol parlare di stato di diritto (rule of law), nel senso pieno del termine. Un progetto senza dubbio ambizioso e dotato di un apparato teorico molto solido, che merita di essere conosciuto e discusso.
Sono questioni che, soprattutto con riferimento al processo civile, non sempre sono state trattate con la dovuta consapevolezza e padronanza (forse perché si ritiene che i valori in gioco siano diversi, in quanto a importanza; ma è poi sempre così?); eppure sono di cruciale importanza non solo per lo studioso e per il ricercatore, ma anche, pragmaticamente, per il giudice e il magistrato, coloro che sono chiamati a decidere su fatti e a giustificare la loro decisione, a dare le ragioni, per consentire il controllo intersoggettivo sulla quaestio facti. La filosofia del diritto della quale si è discusso a Girona, nella settimana del Congresso, è pertanto filosofia applicata (o – come è stato efficacemente detto – filosofia del diritto processuale). Anzi, non sbaglieremmo se dicessimo che i temi discussi in questo Convegno si rivolgono principalmente ai giudici, in un dialogo fruttuoso – che certamente è nel DNA di Giustizia Insieme – tra ricerca teorica e applicazione pratica.
A chiusura, ricordiamo – oltre alla quantità immensa di food for thought, “cibo per il pensiero” – anche la perfetta organizzazione (mai facile per un evento di queste proporzioni), il clima disteso e informale, le piacevoli conversazioni avvenute nei momenti liberi, la conoscenza di colleghi e studiosi provenienti da tutto il pianeta, e l’atmosfera profondamente umana che abbiamo vissuto. Essendo state già fissate le date per il prossimo evento (20-25 maggio 2025), non resta che darci appuntamento per ritrovarci a Girona.
[1] Ne avevamo dato, a suo tempo, notizia qui: https://www.giustiziainsieme.it/en/processo-civile/2021-congresso-mondiale-in-ragionamento-probatorio-1st-michele-taruffo-girona-evidence-week-23-27-maggio-2022
[2] Cfr. B. Sassani, B. Capponi e A. Panzarola, Michele Taruffo, in Giustizia Insieme, 13 dicembre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/en/il-magistrato/1442-michele-taruffo-di-bruno-sassani-bruno-capponi-e-andrea-panzarola; A. Giussani, Michele Taruffo, Maestro, ivi, 14 dicembre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/en/il-magistrato/1446-michele-taruffo-maestro; A. Apollonio, C.V. Giabardo, La semplice verità di Michele Taruffo, ivi, 13 dicembre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/en/cultura-e-societa/1443-la-semplice-verita-di-michele-taruffo.
[3] È lo stesso Jordi Ferrer a narrare l’incontro; v. Michele Taruffo, in memoriam, in Quaestio facti. Revista Internacional sobre Razonamiento Probatorio, 2, 2021, 17 ss.
[4] J. Ferrer Beltrán, C. Vázquez (a cura di), Debatiendo con Taruffo, Madrid, 2016.
[5] Il programma completo è visionabile qui: http://www.gironaevidenceweek.com/
[6] I temi – dei quali non è possibile dar conto in maniera analitica qui – hanno spaziato dall’analisi economica del diritto probatorio alla prova nell’arbitrato, dal concetto di presunzione di innocenza all’uso della consulenza tecnica degli esperti, dalle prove tecnologiche ai bias cognitivi del giudice, dal ripensamento della tradizionale dottrina dell’onere della prova alle interferenze tra prova e neuroscienze, dalla prova nel contesto dei diritti umani alla prova nella responsabilità civile, etc.
[7] Il tema è di immensa portata; cfr., comunque, i classici lavori di L. J. Cohen, a partire da Belief and Acceptance, in Mind, 98, 1989, 367 ss.; la discussione del problema si trova in J. Ferrer, La valutazione razionale della prova, Milano, 2012, passim.
[8] J. Ferrer, Prueba sin convicción. Estándares de prueba y debido proceso, Madrid, 2021, ultimo volume della trilogia formata dal già citato La valutazione razionale della prova, cit., e dal precedente Prova e verità nel diritto, Bologna, 2004 (dalle traduzioni in italiano).
Verso un dialogo tra giustizia riparativa e penale? Bisognerà “mediare”*
di Lucia Parlato
Si sono andate moltiplicando su più livelli, di recente, le iniziative volte a sollecitare l’affermazione della giustizia riparativa in materia penale. Il connubio tra restorative justice e accertamento giudiziario implica ritocchi normativi, ma anche reciproche contaminazioni e un rinnovato approccio culturale.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il mosaico delle fonti sovranazionali e interne. – 3. Definizioni… – 4. …e ruoli. – 5. Il controverso “diritto” alla giustizia riparativa. – 6. I flussi da e verso il processo penale. – 7. Il necessario background di accoglienza, formazione e servizi. – 8. Un insieme di fattori caratterizzanti. – 9. L’impermeabilità tra i due “mondi”. – 10. Il tempo della giustizia riparativa: riflessioni conclusive.
1. Premessa
Un insieme di iniziative di varia origine e natura ultimamente converge nel valorizzare gli strumenti di giustizia riparativa in relazione a fatti criminosi. «Abbiamo bisogno di pene più serie o di qualcosa di nuovo»[1].
Sino a tempi recenti, nel cogliere una cifra complessiva nel dibattito inerente alla giustizia penale, si poteva affermare che fosse “il momento della vittima”[2]. Con un’inevitabile dose di approssimazione, tale momento si presentava come il successore di ere precedenti, in cui le scelte di politica criminale ruotavano in prevalenza attorno alla figura della persona sottoposta al procedimento penale o condannata. Quel che ora accade non è un nuovo spostamento del focus dell’attenzione, ma un suo allargamento. L’interesse attuale ricomprende i due principali poli soggettivi del rito penale in un orizzonte comune, appunto quello della giustizia riparativa. È un orizzonte che non può essere ignorato: seppure, tanto più lo si osserva da vicino, quanto più esso sfugge a ogni tentativo di includerlo entro definizioni univoche e coordinate precise.
Le indicazioni espresse da più parti – e anzitutto dalla c.d. riforma Cartabia[3], l. n. 134 del 2021 – mirano a incentivare l’interazione tra strumenti riparativi e accertamento giudiziario. L’accostamento a tali strumenti richiede al giurista lo sforzo di accogliere logiche estranee e “decodificare” nozioni dotate di valenza autonoma: si trova di fronte a un sistema diverso, per certi versi meno rigoroso rispetto a quello a lui consueto[4] e, allo stesso tempo, complementare.
Gli oneri sono tuttavia reciproci, perché le fonti – soprattutto sovranazionali – che tendono ad affermare la giustizia riparativa in materia penale implicano l’impegno anche di chi sia sinora dedito esclusivamente al contesto di detta giustizia. Tale contesto risulta ad oggi incontaminato dalle dinamiche dell’accertamento penale, se non per limitati contatti con microsistemi come quello minorile e quello dell’esecuzione penale, nonché, da pochi anni, con l’istituto della messa alla prova per adulti.
Si cercherà di seguito di mettere a fuoco gli aspetti principali che connotano questo “incontro” tra giustizia penale e giustizia riparativa. Prendendo le mosse da una rassegna delle fonti più recenti, di diversa provenienza, si affronteranno i delicati temi inerenti alle definizioni delle fattispecie coinvolte e ai ruoli dei protagonisti che vi operano. Individuare gli intrecci tra accertamento penale e programmi riparativi consentirà, poi, di esaminare questi ultimi ed evidenziarne alcuni fattori distintivi. Tutto ciò segnalando, incidentalmente, vari profili pratici che possono condizionare l’impatto applicativo dell’evoluzione prospettata.
Un punto di partenza per le riflessioni da svolgere può essere la duplice presa d’atto espressa in una delle fonti da considerare, ossia la c.d. Dichiarazione di Venezia[5], del 2021, al n. 5: «la giustizia riparativa ha riscosso un interesse crescente in un certo numero di Stati membri del Consiglio d’Europa» e «il suo ulteriore sviluppo ed uso efficiente possono essere visti sia come un'opportunità che come una sfida positiva per migliorare i sistemi di giustizia penale europei».
2. Il mosaico delle fonti sovranazionali e interne
Una tra le deleghe contenute nella c.d. riforma Cartabia – l. n. 134 del 2021 – ha contribuito a dare concretezza al dibattito in materia di giustizia riparativa rispetto al nostro ordinamento, richiedendo l’introduzione di una “disciplina organica”[6].
I principali riferimenti sono contenuti nel comma 18 dell’art. 1 della legge citata e rappresentano il fulcro delle considerazioni qui svolte. Il Governo viene sollecitato a intervenire in conformità con quanto previsto dalle lett. da a) a g) incluse in questo comma. Ben sette sono le lettere riservate alla materia, nel contesto della disposizione, ma per la complessità dell’argomento faticano ad anticiparci il profilo di ciò che sarà.
La tematica percorre l’intero procedimento penale nonché aspetti di diritto sostanziale[7]: la sua trasversalità la rende insospettabile anello di congiunzione tra norme incriminatrici e processuali, tra procedimento di cognizione e fase esecutiva, tra ambito giudiziario ed extragiudiziario.
Il carattere inevitabilmente sfumato delle direttive fornite dal Governo aggrava il compito del legislatore delegato e suggerisce una ricognizione delle fonti da cui – restando entro la cornice fissata dalla legge – è possibile attingere. Non potendo richiamare ciascuno dei numerosi testi inerenti alla materia, si intende concentrare l’attenzione essenzialmente su alcuni di essi, tra i più recenti, senza soffermarla su altri interventi pure di grande significato[8].
Le iniziative a livello sovranazionale sono molteplici e costituiscono “materia viva”. Hanno un loro respiro e sono esplicite nel lasciare il varco aperto a ulteriori rimeditazioni dell’assetto complessivo. Nei vari articolati ricorre la presenza di una clausola-polmone, volta verso implementazioni future, nella consapevolezza di un “fisiologicamente perfettibile” che in questo campo assume quote e impatto più evidenti del consueto. Un simile approccio lungimirante emerge con chiarezza da due importanti fonti, che fungono oggi da riferimenti imprescindibili per il legislatore italiano. Data la loro rilevanza, si coglie questo spunto per indicarle qui prima di altre.
In primo luogo, deve essere menzionata la Raccomandazione del 2018[9], che all’art. 67 prevede una “rivalutazione” dei propri contenuti – «alla luce di ogni sviluppo significativo nell’utilizzo della giustizia riparativa negli Stati membri» – e se necessario una loro conseguente “revisione”. La Raccomandazione rappresenta la “carta” della giustizia riparativa in relazione all’ambito penale: costituendo una sorta di “codificazione”, ad essa viene diffusamente riconosciuto il ruolo di guida privilegiata[10].
In secondo luogo, va considerata la c.d. Dichiarazione di Venezia, già citata. Contiene una parte “propositiva” che culmina nel n. 16, lett. c), in cui si esplicita il bisogno che si continui «a valutare regolarmente l'attuazione della Raccomandazione» del 2018, nonché «dei principi ad essa annessi», secondo il suo sopra richiamato art. 67.
In un panorama già variegato per la presenza di diverse altre fonti, tale Dichiarazione risulta innovativa per una pluralità di ragioni che giustificano il suo valore di filo conduttore nel corso di queste riflessioni[11].
Rileva, anzitutto, la stessa natura della fonte. Resa congiuntamente dai Ministri della Giustizia degli Stati membri del Consiglio d'Europa, la Dichiarazione esprime una singolare sinergia tra le politiche governative nazionali, riunendo gli intenti dei suddetti Ministri quanto al ruolo da assegnare alla giustizia riparativa in materia penale. La Conferenza di Venezia, propedeutica alla redazione del documento, si è dimostrata – come risulta dalla Dichiarazione stessa al n. 6 – «una piattaforma strumentale ed opportuna per lo scambio di conoscenze, informazioni e buone pratiche, e per discutere le sfide in questo settore».
I pregi ulteriori del testo derivano dai suoi contenuti e, in particolare, dal suo ruolo nel promuovere a livello europeo la diffusione di una “cultura” della giustizia riparativa, anche tramite una formazione ad ampio spettro. Significativo è, tra le altre cose, il primato della Dichiarazione nel sostenere un diritto all’accesso “autodeterminato” ai percorsi di giustizia riparativa, in capo ai soggetti legittimati. Questo aspetto, su cui ci si soffermerà più avanti, si legge tra le righe della Dichiarazione – al n. 15 i) – e risente del dibattito che l’ha preceduta[12].
Se le fonti appena indicate sono quelle che rispecchiano maggiormente l’interesse crescente per la materia, a questo quadro può aggiungersi come la giustizia riparativa – secondo quanto notato all’interno della c.d. Dichiarazione di Venezia, al n. 5 – contribuisca al perseguimento dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n. 16 dell’ONU, ossia quello di «promuovere società, giuste, pacifiche e inclusive».
Una volta posto l’accento su testi intitolati al tema di cui ci si occupa, bisogna richiamare la Direttiva 2012/29/EU. Essa non tende per vocazione a influire sul campo della giustizia riparativa, ma lo incrocia secondo la prospettiva della vittima, alla cui tutela è dedicata.
Pur non vincolando gli Stati membri all’attivazione di “servizi di giustizia riparativa”, all’art. 12, par. 2, la direttiva del 2012 invita gli Stati membri a “facilitare” «il rinvio dei casi, se opportuno, ai servizi» stessi, «anche stabilendo procedure o orientamenti relativi alle condizioni di tale rinvio». In base alla lett. a), par. 1, dell’art. 12, queste dinamiche devono essere prese in considerazione «soltanto se sono nell’interesse della vittima». Con tale precisazione, si mira a evitare che i programmi di giustizia riparativa possano trasformarsi per le persone offese in occasioni di vittimizzazione secondaria. Sempre in quest’ottica, l’accesso a tali programmi viene declinato per la vittima più come un’opportunità che come un diritto da esercitare. Scelta, questa, che favorisce le istanze di tutela dell’offeso, ma al contempo rappresenta un passo indietro rispetto alla previsione di una sua più pregnante posizione soggettiva.
Sul versante dell’ordinamento italiano, la disciplina risulta sinora esigua e frammentaria. Trova la sua sede principale nei microsistemi della giustizia minorile e del diritto penitenziario, le cui specificità sono così marcate da non permettere un’agevole formazione di paradigmi da generalizzare. L’insieme di sperimentazioni comparse in ambiti circoscritti non offre precisi riscontri statistici. Il che ostacola la possibilità di apprezzare appieno la consistenza di quelle esperienze, se non per prendere atto della presenza di servizi di giustizia riparativa in collegamento con la giustizia minorile, nella maggior parte dei distretti di Corte di appello[13].
Ai fini dell’evoluzione che è ora alle porte, ci si muove dunque senza il conforto di modelli di riferimento concretamente fruibili. Un panorama disorganico non può che indirizzare verso le risorse di una comparazione con sistemi stranieri, a condizione che si tengano in conto le peculiarità dei rispettivi ambiti di riferimento. Spunti utili sono ricavabili non solo dalle soluzioni adottate, ma anche dalle aspirazioni migliorative espresse altrove, specie se relative a contesti già di per sé avanzati. In questo senso, la comparazione può stimolare una sorta di livellamento verso l’alto, consentendo di osservare il risultato raggiunto in altri Paesi e di affinare le loro scelte legislative ed ermeneutiche. In Germania, in particolare, l’assetto normativo si compone di una matrice di diritto sostanziale, insieme a una di diritto processuale, essendo la disciplina distribuita essenzialmente tra i §§ 46 e 46a StGB e i §§ 155a e 155b StPO[14]. Su alcuni aspetti di tale disciplina ci si soffermerà in seguito.
3. Definizioni…
Le caratteristiche della fattispecie trovano una sintesi nella sua flessibilità e intolleranza rispetto a schemi rigorosi. Si proiettano significativamente sul piano definitorio e rendono sfuggenti i ruoli dei soggetti coinvolti.
La difficoltà nel fornire una definizione di giustizia riparativa risulta accentuata dalla circostanza che, dal punto di vista del giurista, ciò che si cerca di mettere a fuoco è distante ed estraneo. Le apparenti similitudini di linguaggi e dinamiche possono persino creare fraintendimenti, derivanti anche dalla presunzione che determinate espressioni o prassi siano usate secondo quanto corrisponde al contesto della giustizia penale. Certe rispettive dinamiche – dell’ambito giudiziario e di quello riparativo – sembrano assimilabili e paiono “dire quasi la stessa cosa”[15]. Una costellazione di equivoci e sovrapposizioni ricorda talvolta le insidie dei “falsi amici” che solitamente tormentano il lavoro di traduttori e interpreti. In effetti, anche qui si tratta di curare il rapporto tra due codici linguistici le cui assonanze sono ingannevoli, non solo tra due sistemi.
Un esempio di queste difficoltà riguarda l’utilizzo diffuso della parola “danno” nel definire i presupposti della giustizia riparativa. Mentre questo termine, per il giurista, evoca tutt’altro e riporta ai presupposti di pretese civilistiche di carattere risarcitorio. Ed è emblematico anche che parametri fondamentali come l’“imparzialità” richiedano, nel contesto riparativo, di essere riconsiderati attraverso lenti ad hoc.
Rispetto a una definizione sfuggente, si può provare a individuare un nucleo centrale più condiviso, muovendo dai contenuti della Direttiva 2012/29/UE. All’art. 2, par. 1, lett. d), essa indica la “giustizia riparativa” come «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale». Riecheggiando con ciò quanto espresso dai Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, adottati dalle Nazioni Unite il nel 2002[16].
Inoltre, la citata Raccomandazione del 2018 all’art. 3 – in un passaggio riproposto dalla c.d. Dichiarazione di Venezia ai nn. 2-4 – tende a definire la fattispecie come un “processo” tale da consentire, alle persone che abbiano subìto un pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di quest’ultimo, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni che dal reato stesso derivano. Requisiti immancabili sono sia che tale partecipazione sia “libera” e “attiva”, sia che il “processo” di cui si tratta si svolga tramite «l’aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale»: punti, questi, che verranno meglio affrontati in seguito.
La definizione di restorative justice non può essere ancora considerata come qualcosa di stabilmente acquisito. Ne è una conferma la circostanza che essa viene sempre ripetuta, in ciascuna delle fonti che la riguardano, ogni volta con un accento, un aggiustamento, una limatura, o un’apertura in più. Si tratta di un fenomeno di per sé cangiante e in (continuo) assestamento. Attorno agli elementi centrali della fattispecie, diffusamente riconosciuti, gravita una serie illimitata di variabili[17].
4. …e ruoli
Se l’inquadramento della fattispecie rappresenta una sfida, l’individuazione dei suoi protagonisti incontra difficoltà non minori.
Alla luce della c.d. Dichiarazione di Venezia, nn. 3 e 4, i programmi riparativi – al netto di una serie di caratteristiche mutevoli – implicano un dialogo diretto o indiretto, tra vittima e autore del reato, che presuppone il riconoscimento dei fatti da parte di quest’ultimo. Occorre l’operato di un soggetto imparziale – anzi come specificato dalla legge delega, alla lett. f) del comma 18 cit., “equiprossimo” – con la possibilità che i programmi stessi si aprano alla partecipazione di altre persone e della comunità. In altri termini, il sistema riparativo si incentra sul libero incontro tra vittima e “reo”, i quali contribuiscono attivamente alla soluzione di questioni originate da un fatto criminoso. In un confronto tra punti di vista spesso situati in una posizione di simmetria, che non comprende l’autorità pubblica, sono infinite le varianti prospettabili.
La delega governativa del 2021, al comma 18 cit., lett. b), lascia intravedere la preoccupazione del legislatore di chiarire i contorni della figura della vittima. L’intento riproduce in parte le scelte a più ampio raggio che erano emerse durante i lavori della c.d. Commissione Lattanzi[18].
Secondo la delega in discorso, anzitutto, possono intendersi come “vittime” esclusivamente le persone fisiche. L’impostazione risente di quanto stabilito dalla direttiva del 2012, sulla tutela della vittima, e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia basata sulla decisione quadro 2001/220/GAI[19]. Inoltre, la vittima – per essere considerata tale – deve aver subito un “danno”. Come già accennato, l’espressione viene utilizzata in un’accezione diversa da quella consuetamente fatta propria dal sistema processuale penale. Quest’ultimo, con quel termine, rimanda ai presupposti per la costituzione di parte civile e, perciò, a una conseguenza diretta e immediata del reato destinata ad assumere rilievo ai fini di pretese risarcitorie o restitutorie. Rispetto alla giustizia riparativa, occorre prescindere da tale accezione e considerare il “danno” come un più generico pregiudizio. La necessaria astrazione dalle categorie proprie del processo penale, secondo il contesto normativo domestico, trova un riscontro nella recente decisione della Corte europea sul “caso Petrella”[20], che ha reso più evanescente la distinzione tracciata dal nostro ordinamento tra vittima e parte civile.
I percorsi riparativi possono coinvolgere anche le vittime “indirette”, che non siano immediatamente colpite dalla condotta criminosa pur avendone patito conseguenze “dannose”, come soprattutto i “familiari” della persona offesa deceduta in conseguenza del reato. Sono soggetti che devono essere informati e resi partecipi delle vicende giudiziarie, anche alla luce di recenti arresti giurisprudenziali delle Sezioni unite e della Corte europea[21]. Questo profilo è stato oggetto di modifiche nelle ultime battute che hanno preceduto l’adozione della direttiva sulla tutela della vittima, quando si è scelto di includere nel contesto le “famiglie e relazioni di fatto”. L’ambito così delicato è stato preso in considerazione dalla legge delega all’art. 1, comma 18, lett. a), estendendo il richiamo anche alle unioni tra persone dello stesso sesso.
Tutto ciò deve conciliarsi con una valutazione individualizzata dell’offeso, caso per caso, per verificare la sua possibile “particolare vulnerabilità” e, se necessario, promuovere e garantire trattamenti adeguati a evitare o limitare il pericolo di vittimizzazioni “secondarie” o ripetute[22].
Per altro verso, può risultare difficoltoso individuare tutte le vittime e realizzare l’obiettivo di coinvolgerle e tenerle informate, spesso propedeutico rispetto all’attuazione di programmi di giustizia riparativa. Il problema emerge nel procedimento penale[23] e, a maggior ragione non può che affacciarsi in relazione a tali programmi, che sovente non possono contare su canali di comunicazione istituzionalizzati con la sede giudiziaria. Attualmente, talvolta gli uffici di mediazione riescono a contattare le persone offese dal reato solo in base a recapiti ottenuti in via informale. I problemi pratici, al riguardo, rischiano di ostacolare la realizzazione di epiloghi riparativi.
Può accadere che, per qualcuna delle persone coinvolte, il percorso riparativo sia oggetto di un desiderio non corrisposto. Da più parti si afferma che l’“indisponibilità” di taluno tra i potenzialmente interessati non debba precludere automaticamente, per altri, lo svolgimento di un cammino riparativo. Quando l’offeso non accetti di partecipare, l’iniziativa del solo autore del reato può sfociare in soluzioni in cui si fa ricorso a una vittima “aspecifica” o “surrogata”[24]. L’esperienza viene così, ad ogni modo, realizzata e può persino portare benefici di cui si giovi la vittima reale. Un problema concreto, tuttavia, si pone laddove si debba stabilire fino a che punto il programma sia da considerare come “riparativo” e possa influire su esiti processuali o aspetti esecutivi della pena. Le remore, avverte la dottrina, sono ben comprensibili, perché si tratta di altra vittima e non di “quella”[25]. Tali obiezioni trovano sostegno nell’art. 12 della direttiva, nel quale si afferma che l’accesso alla giustizia riparativa avviene “nell’interesse della vittima” e sulla base del suo consenso informato e libero. Una situazione simile, di converso, si può verificare per l’indisponibilità dell’”autore del reato”, di fronte a un’iniziativa presa dalla vittima. E, invero, sono svariati gli esempi virtuosi riportati in entrambe le prospettive[26] .
Quanto all’“autore del reato”, la sua posizione assume valore giuridico soltanto dal momento in cui venga a concretizzarsi nei suoi confronti un’“accusa”, nel senso esplicitato dalla Corte EDU che la intende come una contestazione anche iniziale dei fatti[27]. La prudenza sarà d’obbligo per il legislatore delegato nell’utilizzare l’espressione “autore del reato”, che ricorre nel testo normativo del 2021, in quanto essa si espone chiaramente ad obiezioni basate sulla presunzione di innocenza. Già nell’ambito degli artt. 90 ter e 90 quater c.p.p. spicca un uso improprio dell’espressione in discorso, sulla scorta di quanto risulta dalla direttiva 2012/29/UE (fermo restando che, all’interno di quest’ultima, una precisazione di cui al “considerando” n. 12 va a ridimensionare il problema).
Al di là delle parole utilizzate, ogni qualvolta si interviene sul sistema processuale nell’intento di irrobustire la figura della vittima e di conferirle un riconoscimento, si svela il rischio di mettere in crisi il rispetto della presunzione predetta[28]. Nel contesto della giustizia riparativa vi è di più, perché lo stesso coinvolgimento della persona cui un fatto viene addebitato ruota attorno al suo riconoscimento di responsabilità, senza il quale il programma avviato viene dichiarato non realizzabile. Naturalmente, questo profilo si presenta in maniera diversa qualora il programma trovi la sua collocazione, anziché durante il procedimento di cognizione, nell’ambito della fase esecutiva (e dunque dopo il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna).
A tutto ciò si deve aggiungere che i riferimenti soggettivi rivolti a “vittima” e “reo” si possono rivelare meno stabili di quanto appaia a prima vista. Sono varie le ipotesi in cui il piano dell’“autore” e quello della vittima si sovrappongono. Accade soprattutto per certe fattispecie criminose, come l’usura e l’estorsione, e nel contesto di reati di criminalità organizzata[29].
Una volta individuati i soggetti da considerare in primo piano rispetto alle pratiche di giustizia riparativa, non si può trascurare come ricorra – nelle varie fonti indicate – il riferimento a una dimensione “collettiva”. Pressoché costante nelle diverse fonti, tale riferimento corrisponde a un dato di fatto rispetto a una prassi che si è andata formando.
La legge delega – alla lett. d) del comma 18 cit. – è chiara nel fare richiamo all’interesse tanto della vittima, quanto dell’autore del reato, quanto ancora della comunità. Parimenti, la c.d. Dichiarazione di Venezia al n. 3 insiste sul coinvolgimento, se del caso, di altre persone colpite dal reato, della famiglia o della comunità di appartenenza. In questo modo, si prende atto della possibile esistenza di contrasti tra strati e ambienti diversi della società, agevolando opere di coesione di carattere sociale e prevenendo altri dissidi e divisioni. Il coinvolgimento di una prospettiva allargata in certe ipotesi rimanda a conflitti più estesi, rispetto ai quali il singolo atto criminoso può essere spia oppure occasione. Risultati fruttuosi sono raggiungibili, così, non solo in relazione al rapporto tra i soggetti direttamente interessati, ma pure per la comunità nel suo insieme. Un’apertura a quest’ultima può tradursi in effetti diffusi, inclusa una diminuzione di recidive e di nuovi atti offensivi all’interno di una cerchia sociale[30].
A questo sentimento della collettività rimandano diverse vicende recenti, da individuare in base a spunti offerti dalla cronaca. Si può inserire in tale orizzonte, ad esempio, il seguito dei fatti delittuosi avvenuti la notte dello scorso capodanno nella piazza del Duomo di Milano, rispetto ai quali il sindaco ha sentito di esprimere le proprie scuse a nome della città e il Comune si è costituito parte civile. Guardando verso situazioni verificatesi all’estero, nello stesso ambito rientrano le vicende per le quali sono state composte delle Commissioni indipendenti, in Germania e in Francia, per sostenere le vittime degli abusi sessuali che si ritengono commessi all’interno della Chiesa. Questi casi si iscrivono nel segno di un processo di “riparazione” che va oltre il piano di un riconoscimento individuale e di carattere economico[31].
Si sente forte l’eco di precedenti significativi, su altra scala, originati nel contesto della giustizia internazionale. Per tutte, valga l’esperienza straordinaria della Commissione sudafricana Verità e Riconciliazione[32]. Si spiega meglio così l’insistenza delle fonti nel riferimento alla comunità e, altresì, si trovano le ragioni per le quali – secondo la nozione di giustizia riparativa, proposta da uno tra i “padri” della stessa – si tratta di un modello di giustizia che «coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo»[33].
La difficoltà di definire i ruoli soggettivi non risparmia neanche chi intervenga come operatore all’interno dei programmi di giustizia riparativa. Passando a considerare questa figura rilevano alcune variabili, di carattere non solo lessicale. Si colgono soprattutto ponendo a confronto la legge delega alle lett. f) e g) del comma 18 cit. sul piano nazionale e la Raccomandazione del 2018 all’art. 3 su quello sovranazionale. La prima fa riferimento alla figura del “mediatore”, mentre la seconda si esprime tramite un richiamo al “facilitatore”, come “soggetto terzo formato e imparziale” che agevola gli interessati a «partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito». La c.d. Dichiarazione di Venezia, dal canto suo, al n. 2 rimanda indifferentemente a chi è «solitamente chiamato mediatore o facilitatore».
Al legislatore delegato spetta risolvere il dilemma e stabilire l’identità e le caratteristiche dell’operatore, definendone formazione e competenze. Un problema di qualifiche, d’altra parte, si pone ogni qualvolta un intervento normativo comporti l’avvento di un “esperto” inserendolo in un contesto giuridico, a lui estraneo. Così è accaduto, ad esempio, per una serie di incertezze riguardanti la figura di chi è chiamato ad affiancare il minore nelle audizioni nel corso del rito penale, in attuazione della c.d. Convenzione di Lanzarote[34].
Dalle Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, si ricava una soluzione secondo cui la figura del “facilitatore” è più ampia e comprensiva di quella del “mediatore”, più specialistica[35]. In tal senso, l’attività di mediazione risulta richiamata nella legge delega in maniera atecnica, come “una parte per il tutto”, in una sorta di sineddoche che consente di rinviare a un contesto più ampio e variegato.
5. Il controverso “diritto” alla giustizia riparativa
Si è affacciata a più riprese l’idea di ricondurre la giustizia riparativa all’interesse di uno o più soggetti che ne sono i protagonisti. Una ricostruzione, basata sulla Direttiva del 2012, tende a considerarla come una sorta di “proprietà esclusiva” (o quasi) della vittima, ma non sono mancate le obiezioni[36]. In virtù di una visuale comprensiva delle diverse posizioni soggettive in gioco, la lett. a) della legge n. 134 del 2021 – con un’integrazione rispetto al dettato della direttiva – considera la giustizia riparativa da declinare «nell’interesse della vittima e dell’autore del reato».
Le istanze riconducibili alla vittima e al “reo” mettono in circolo nel percorso della giustizia riparativa potenti variabili. L’atteggiamento della vittima può spaziare da richieste di protezione e oblio a una propensione verso incontri riparativi, o ancora può lasciare prevalere istinti di rancore e vendetta oppure di perdono e apertura. Altrettanto ricco è il campionario di ipotesi che riguardano il versante della persona cui un fatto viene addebitato. Ed entrambe le loro predisposizioni sono mutevoli nel tempo. Sono profili, questi, strettamente legati al tema della “volontarietà” di cui si dirà in seguito.
Su queste basi è lecito domandarsi se si possa parlare di un “diritto alla giustizia riparativa”, da riconoscere ai soggetti potenzialmente coinvolti. Un simile diritto non trova riscontro nell’art. 12 della direttiva sulla tutela delle vittime. Un riferimento chiaro in questo senso era stato per un momento prospettato, ma poi estromesso[37] lasciando quantomeno controverso il configurarsi di tale posizione giuridica in capo alla persona offesa dal reato[38]. E al riguardo, in relazione alla decisione quadro 2001/220/GAI, una pronuncia della Corte di giustizia aveva già messo in luce come agli Stati membri sia “consentito” prevedere pratiche mediative, senza che siano tenuti a farlo per tutti i reati[39].
La prospettiva di un “diritto” all’accesso alle pratiche riparative, in capo alla vittima come anche al “reo”, emerge da una lettura attenta della Dichiarazione di Venezia che, al n. 15 i, nella parte propositiva – indicando la necessità di elaborare piani d’azione e politiche nazionali – si esprime nel senso di un “diritto all’accesso” a servizi adeguati. Questo approccio potrebbe indurre a rivedere le scelte di fondo adottate in Paesi che da tempo hanno provveduto a disciplinare la giustizia riparativa in materia penale. In particolare, in Germania, il § 155a StPO sottende una valutazione dell’organo dell’accusa e del giudice, potendo le pratiche riparative prendere avvio soltanto nei casi da loro ritenuti “idonei”[40].
La previsione di questa delibazione ad opera dell’autorità giudiziaria e il puntuale riferimento ai suddetti “casi idonei” riducono la sfera di “disponibilità” dell’accesso ai programmi riparativi, sottratta così in gran parte all’autodeterminazione dei soggetti coinvolti. Il problema, colto e lamentato dalla dottrina tedesca, potrebbe presentarsi anche in relazione al “nostro” modello di giustizia riparativa, quello che verrà. La legge delega alla lett. c), infatti, da un canto dispone che l’accesso ai programmi riparativi avvenga «su iniziativa dell’autorità giudiziaria competente», dall’altro canto ai fini di tale accesso richiede una «positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso» definiti dalla stessa legge delega al comma 18 cit. alla lett. a). Il testo, pur facendo richiamo anche al consenso delle “parti”, contiene un doppio rimando all’intervento giudiziario. Quest’ultimo, per non risultare eccessivamente sacrificante rispetto al valore della “disponibilità” – proposto dalla c.d. Dichiarazione di Venezia in una versione più “avanzata” – dovrà essere sapientemente dosato dal legislatore delegato.
6. I flussi da e verso il processo penale
Un ulteriore momento di riflessione riguarda gli intrecci della giustizia riparativa con quella penale. Sono molteplici i punti di incontro tra le due forme di giustizia che sembrano adesso, più che in passato, pronte a combinarsi tra loro. Una rete di scambi e reciproche contaminazioni è ancora da definire[41].
Non si tratta di due realtà separate e in concorrenza tra loro. Come specificato dalla c.d. Dichiarazione di Venezia al n. 15 iii, l’intento che muove le recenti iniziative è volto a «stimolare, in ogni Stato membro, un’ampia implementazione della giustizia riparativa», sotto il segno di una “complementarietà” o “alternatività” rispetto ai procedimenti penali.
Sotto il profilo sistematico, devono distinguersi due diversi momenti che precedono e seguono il realizzarsi di pratiche riparative. Possono essere intesi come premessa e postfatto, in quanto gli incroci tra i due diversi “modi” di “fare giustizia” – volendo semplificare – si articolano in un flusso di andata e uno di ritorno, rispetto al rito penale. All’interno di quest’ultimo possono essere riconosciute, da una parte, le precondizioni per l’innesto di programmi di giustizia riparativa e, dall’altra, degli sbocchi che consentano di raccoglierne i frutti.
L’antefatto, il primo tra i due momenti indicati, non può che trovare le sue radici nelle informative, indirizzate a predisporre e rendere consapevoli i soggetti interessati del possibile innesto di un percorso estraneo rispetto al procedimento penale. Queste premesse si nutrono dei diritti di informazione che sono stati nel tempo assicurati nel nostro sistema, soprattutto ad opera delle direttive 2012/13/UE e 2012/29/UE con riferimento alla persona sottoposta al procedimento penale e a quella offesa dal reato.
Ai fini della riuscita di questo connubio tra i due sistemi occorre che i possibili partecipi ai programmi della giustizia riparativa siano messi al corrente delle relative opportunità, tramite un’informativa compiuta e accurata, basata su un linguaggio semplice e comprensibile. Solo una piena consapevolezza di ciò cui si va incontro può rappresentare la base di quella volontarietà che, come si vedrà, è una caratteristica indefettibile di tali programmi.
Più il processo si renderà “virtuale” più mancheranno o si indeboliranno questi agganci e – per una migliore promozione e accessibilità degli espedienti di giustizia riparativa – occorreranno strumenti più moderni come app e portali dedicati[42].
Nella stessa legge delega, le lettere c) e d) del comma 18 cit. si soffermano sul consenso – libero e informato – che può essere gestito, dato e ritrattato, in ogni momento, e sulle notizie da fornire ai potenziali interessati, sui programmi di giustizia riparativa e il loro svolgimento. Similmente, la direttiva 2012/29/UE fornisce un elenco tassativo di comunicazioni cui la vittima ha diritto sin dal primo contatto con l’autorità procedente, tra le quali quelle relative all’accesso ai servizi di giustizia riparativa disponibili, all’art. 4. Fondamentale, per la riuscita di questi passaggi, è il ruolo dei difensori delle persone interessate, in grado di spianare la via al ricorso a centri di giustizia riparativa, tramite spiegazioni e incoraggiamenti[43]. Un cambiamento di fondo dovrebbe evitare che le sollecitazioni al riguardo restino appannaggio esclusivo dell’autorità giudiziaria.
Quanto al “postfatto”, la legge delega prende in considerazione il momento della valutazione dell’epilogo riparativo, se favorevole, alla lett. e) dell’art. 18. Il secondo punto di contatto con il procedimento penale interessa i modi in cui i risultati del percorso extragiudiziario possono influire sulla vicenda giudiziaria, ora meno refrattaria che in passato, e in fase esecutiva.
Questo flusso “di ritorno” si concretizza in una pluralità di istituti che, già contemplati dal sistema, si prestano a costituire il “controcanto” in chiave giudiziaria dell’esperienza estranea alle aule. Gli snodi da considerare sono svariati ed eterogenei. Ciascuno di essi richiederebbe osservazioni più ampie, ma ci si limita qui a individuare solo alcuni degli anelli di congiunzione tra l’avvenuto percorso riparativo e lo scorrere del procedimento o dell’esecuzione penale.
Non si può tralasciare l’ambito della procedibilità a querela (tra l’altro oramai di impatto più esteso che in passato)[44], anche in considerazione della possibile remissione della querela stessa. Ma rilevano pure diversi procedimenti speciali, peraltro anch’essi in parte toccati da deleghe al Governo nell’ambito della c.d. riforma Cartabia. Le maggiori potenzialità risiedono negli istituti del “patteggiamento”, già reso più esposto al tema da alcuni ritocchi introdotti in materia di reati contro la pubblica amministrazione o ambientali[45], nonché della sospensione del procedimento con messa alla prova, la cui disciplina – com’è noto – è la prima all’interno del codice di rito ad ospitare un riferimento esplicito alla “mediazione”. Naturalmente, non si possono trascurare le potenzialità dell’istituto della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. Inoltre, terreno fertile in relazione ai reati meno gravi può essere quello del procedimento davanti al giudice di pace. Persino il tema delle spese processuali può rappresentare occasione per dare spazio al “dialogo” tra i privati coinvolti nel rito penale[46].
Di fronte alle innovazioni ora promesse, ci si deve domandare se non sia ora di prevedere un approdo ben preciso e ad esse dedicato[47]. Se in seguito alla delega del 2021 si vorrà fare leva su questi istituti, sarà meglio creare anche un raccordo ad hoc che integri il sistema secondo nuovi equilibri. Una maggiore influenza degli esiti riparativi sull’accertamento e l’esecuzione penale, del resto, richiederà un controllo e uno sbocco giudiziario secondo quanto indicato dalla Raccomandazione del 2018 all’art. 7. Si sentirà il bisogno di spostare il baricentro da obiettivi già conosciuti, come quelli della giustizia “negoziata”, verso le esigenze solo in parte sovrapponibili di quella “riparata”[48].
La sede per innestare i programmi riparativi può essere individuata anche ai margini del rito penale e parallelamente ad esso, persino prima della sua instaurazione – secondo la Raccomandazione del 2018 all’art. 6 – e durante l’esecuzione della pena. Profilo, quest’ultimo, sottolineato dalla legge delega alla lett. c) del comma 18 e confermato da diverse fonti sovranazionali, tra cui la Raccomandazione del 2018 all’art. 6.
Le logiche della restorative justice possono coincidere con quelle deflattive, ma sarebbe riduttivo relegarle entro finalità esclusivamente strumentali. L’anima della giustizia riparativa tende a essere più pura e a valorizzare la risoluzione del conflitto o, persino, l’incontro in sé e per sé[49].
Non si può neanche escludere tuttavia, in maniera più pragmatica, che il profilo della deflazione possa ricavarne dei benefici. Ricadute tangibili in termini di economia processuale avrebbero il pregio di basarsi non su criteri aprioristici, ma su una legittimazione apprezzabile anche agli occhi della collettività. In questo senso, l’innesto della giustizia riparativa potrebbe inserirsi tra le pieghe di tanti istituti e percorsi premiali – colmando i vuoti lasciati da un mancato coinvolgimento della persona offesa – con l’effetto di renderli meno “nemici” delle vittime e perciò meno “odiosi”. Per molte fattispecie come il giudizio abbreviato – rispetto al quale è nota l’evoluzione relativa ai reati puniti con l’ergastolo – si ridurrebbe la diffusa sensazione di “giustizia denegata”[50]. Viceversa, ampliare il ricorso a strumenti deflattivi – come spesso è accaduto – senza aprire spazi di dialogo con le vittime può creare maggiore sfiducia da parte del cittadino nella giustizia.
Nel perseguire questi obiettivi, occorre evitare la collisione con principi fondamentali e, in particolare, con l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, ex art. 112 Cost., ma anche con la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., considerata l’ammissione di responsabilità che può avere luogo nel contesto extragiudiziario.
È importante sottolineare che la legge delega si riferisce alla “possibilità” che sia valutato l’esito raggiunto in sede di giustizia riparativa e che, ad ogni modo, ciò sia realizzabile soltanto quando questo esito sia favorevole, ossia nel caso di ipotesi “riuscite” di incontro tra i soggetti interessati.
Dopo il giudicato, possono innestarsi altri sbocchi capaci di ospitare quanto esperito in sede extraprocessuale. Il dilemma che si pone è se mantenere questo collegamento correlato soltanto alle progressioni trattamentali – oggetto di controllo e di valutazione da parte dell’autorità giudiziaria (e perciò principalmente all’applicazione di misure alternative alla detenzione e alle prescrizioni inerenti all’affidamento in prova ai servizi sociali) – oppure sganciarlo da questi percorsi. Più in generale sarebbe possibile fare leva su affermazioni oramai condivise, anche in seno alla giurisprudenza costituzionale, rispetto allo scopo di favorire comunque «il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale»[51].
In gran parte il dibattito, quanto al contesto esecutivo, concerne la figura dell’ergastolo ostativo, oggetto di una nota sentenza della Corte europea. Tale sentenza – relativa al “caso Viola” – ha condannato l’Italia e ha evidenziato un “problema strutturale” insito negli automatismi di cui soffre questo istituto, refrattario a innesti rieducativi[52]. Sin qui l’unico strumento per superare i rigori dell’ergastolo ostativo è stato quello della “collaborazione”, che può però mancare per ragioni svariate, anche diverse da una presunta fedeltà al contesto criminoso: ad esempio tale collaborazione può non avere luogo perché gli interessati ne temono le conseguenze per sé o per gli affetti più vicini, oppure perché non è più “utile” all’accertamento. Le soluzioni cui perverrà il legislatore presumibilmente “riempiranno” i vuoti lasciati dalla caduta degli integrali automatismi: esse potrebbero incentrarsi sull’utilizzo di strumenti di giustizia riparativa, alla stregua di un’alternativa alla collaborazione non realizzabile[53].
7. Il necessario background di accoglienza, formazione e servizi
La realizzazione degli obiettivi in tema di giustizia riparativa perseguiti, nel nostro ordinamento, dalla c.d. legge Cartabia non può essere immaginata senza un impegno propedeutico.
Obiettivi così innovativi impongono investimenti concreti in termini organizzativi e ancor prima economici.
Anzitutto, in ordine al versante finanziario, il comma 19 dell’art. 1 della c.d. legge Cartabia – nel dare attuazione alle disposizioni di cui al citato comma 18 – prevede che sia autorizzata una consistente spesa annua, a decorrere dal 2022. In corrispondenza, è disposta una «riduzione nelle proiezioni dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto» – ai fini del bilancio triennale 2021-2023 – «nell’ambito del programma “Fondi di riserva e speciali” della missione “Fondi da ripartire” dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per il 2021, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero della giustizia». Alla raccolta di risorse economiche può concorrere un circolo virtuoso che ruota attorno alla cassa delle ammende ed è favorito in un duplice modo. Da un lato, la cassa medesima riesce oggi ad alimentarsi maggiormente rispetto al passato, per una progressiva evoluzione normativa che ha aumentato l’impatto dei casi di inammissibilità e la loro “penalizzazione” all’interno del processo penale. Dall’altro lato, quanto raccolto nella cassa delle ammende viene indirizzato, tra le altre cose, verso il sostegno di progetti di assistenza riparativa e assistenza alle vittime[54].
Il raggiungimento degli obiettivi fissati dal legislatore, inoltre, richiede una sorta di sinergia tra “cura” e giustizia e, in particolare, un sistema di accoglienza delle persone potenzialmente interessate ai programmi riparativi e soprattutto delle vittime del reato. L’affermazione di strutture che le “accolgano” corrisponde a indicazioni fornite dalla Direttiva 2012/29/UE all’art. 25 par. 4. Occorrono forme di assistenza “dedicate”, che si pongano a monte rispetto all’operato dei mediatori/facilitatori. Dovrebbero essere fornite da persone “non terze”[55], per sostenere chi ne abbia esigenza, senza la preoccupazione di mantenere un’“equiprossimità” rispetto ai soggetti coinvolti. Si tratta di un appoggio di carattere primario che prescinde da altre forme più mirate di assistenza, come quella tecnica o linguistica, pur potendo ad esse preludere se necessario.
Un ulteriore e importante aspetto riguarda la formazione di chi debba entrare in contatto con i soggetti implicati, siano essi vittime o “autori del reato”. Anche questo profilo trova riconoscimento nella direttiva 2012/29/UE, in relazione alla persona offesa: il menzionato art. 25 prevede che gli Stati membri debbano incoraggiare e sostenere iniziative volte a realizzare «un’adeguata formazione» di «coloro che forniscono servizi di assistenza alle vittime e di giustizia riparativa». Tale formazione deve essere «di livello appropriato al tipo di contatto» che i destinatari della stessa «intrattengono con le vittime», a seconda del loro ruolo.
Alla luce della Raccomandazione del 2018 una “formazione accreditata”, iniziale e continua, risulta funzionale rispetto alle elevate competenze richieste ai facilitatori in più campi: l’intero testo è attraversato da indicazioni in argomento, volte a garantire capacità e attitudini specifiche degli operatori. La legge delega del 2021, dal canto suo, alla lett. f) del comma 18 cit., sollecita la disciplina di una formazione di “mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa” e richiede che siano fissati requisiti e criteri per l’esercizio dell’attività professionale, nonché creati sistemi di accreditamento dei mediatori presso il Ministero della giustizia. Da assicurare sono soprattutto le caratteristiche di imparzialità, indipendenza ed “equiprossimità” del ruolo. E, sempre a norma della lett. f), occorre che agli operatori siano fornite delle conoscenze basilari sul sistema penale. Inoltre, bisogna che la loro formazione li ponga in condizioni di comprendere le esigenze di vittime e “autori” del reato, nonché di individuare possibili cause di vulnerabilità in modo da evitare forme di vittimizzazione secondaria.
La c.d. Dichiarazione di Venezia ritorna su questo centrale profilo ampliando ulteriormente l’angolo visuale. Innesca una promozione più estesa, di carattere culturale, facendo riferimento all’inclusione del tema della giustizia riparativa nell’ambito dei programmi di istruzione post universitaria per i giuristi.
Un'altra linea di azione concerne le strutture relative ai servizi di mediazione. Due prospettive tra loro complementari implicano l’una una visione allargata e di insieme, l’altra uno sguardo sulle realtà locali.
La prima prospettiva, promossa dalla c.d. Dichiarazione di Venezia, esprime un’esigenza di armonizzazione e di omogeneità nell’operato delle strutture dei diversi contesti nazionali. Il testo culmina nell’invito, rivolto al Consiglio d’Europa, a incoraggiare e assistere gli Stati membri nell’attuazione della Raccomandazione del 2018 in materia penale, assicurando una cooperazione interforze e riconoscimenti di carattere legislativo e finanziario. Un simile allargamento di orizzonti è sotteso all’opinione di uno studioso tedesco che auspica il “consolidarsi della giustizia riparativa” e il suo trasformarsi in uno “strumento universale a disposizione”[56]. Il che può essere ricondotto all’art. 18 della Raccomandazione del 2018, che definisce la giustizia medesima come un «servizio generalmente disponibile».
Secondo l’altra prospettiva, nel delineare modelli di giustizia riparativa non si possono trascurare le peculiarità su base nazionale o locale. Pur a fronte di quanto appena evidenziato, la c.d. Dichiarazione di Venezia sottolinea l’importanza delle specificità di ciascun contesto domestico.
All’interno dei confini domestici, un’analoga duplice prospettiva ha ispirato la legge del 2021. Il citato comma 18 mira a realizzare una continuità sul piano nazionale e, ai sensi della lett. g), stabilisce che i servizi siano forniti da strutture pubbliche convenzionate a livello ministeriale. Allo stesso tempo, tuttavia, tali strutture devono fare capo agli enti locali e la loro presenza sul territorio andrà assicurata quantomeno nella misura di una per ciascun distretto di Corte di appello. La previsione, che fa riferimento a «strutture pubbliche facenti capo agli enti locali e convenzionate con il Ministero della giustizia» non considera la possibilità che i programmi siano gestiti in convenzione con strutture terze, private, cui si riferiscono le Linee di indirizzo del 2019, per il contesto minorile[57]. Restando necessariamente su un livello di indeterminatezza, la delega al Governo persegue sia un nesso con le realtà decentrate e le loro particolarità, soprattutto in vista del reinserimento sociale del “reo” e della cura per la vittima, sia l’esigenza di evitare disomogeneità e discontinuità, specialmente nella formazione degli operatori e nella qualità dei servizi offerti.
8. Un insieme di fattori caratterizzanti
L’aspetto definitorio della fattispecie si complica anche in considerazione della varietà degli schemi attraverso i quali essa trova realizzazione. I programmi di giustizia riparativa compongono un insieme eterogeneo. Alcune modalità sono impiegate in campi diversi da quello penalistico, ad esempio nell’ambiente scolastico o in quello lavorativo, e potrebbero essere “prese a prestito”. La Direttiva del 2012/29/UE indica vari modelli, secondo una elencazione non esaustiva inclusa nel “considerando” n. 46, che comprende la mediazione vittima-autore del reato, il dialogo esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi.
La c.d. Dichiarazione di Venezia, nel rimarcare al n. 4 “i vantaggi dei processi di giustizia riparativa”, sottolinea soprattutto “la volontarietà di questi processi” e “la possibilità di interromperli o fermarli in qualsiasi momento”. Evidenzia altresì «l'eguale preoccupazione per le esigenze e gli interessi di tutte le parti coinvolte». In sintesi – per fissare gli elementi indefettibili nei programmi di giustizia riparativa – ribadisce che «il fulcro del processo risiede nella riparazione dei danni materiali e immateriali, nella volontarietà, nella partecipazione, nella riservatezza, nel reinserimento degli autori di reato, nell'imparzialità di un terzo». Elementi, questi, che concorrono nel ridurre il rischio di una stigmatizzazione dei soggetti coinvolti. Sempre mirando a indicare le caratteristiche delle pratiche di restorative justice, la Raccomandazione del 2018, all’art. 3, indica la definizione che si è qui inizialmente riportata, la quale sintetizza fattori fondamentali.
A dire il vero, sul piano strutturale i metodi della giustizia riparativa tendono a formare un ventaglio più ampio di quello risultante da ogni tentativo di tipizzazione. Una serie indefinita si alimenta di intrecci e contaminazioni tra i diversi schemi, fermo restando un nucleo centrale e indefettibile di qualità essenziali e condivise. Nell’individuarle è possibile selezionare un gruppo di fattori caratterizzanti, legati strettamente tra loro. A ciascuno di essi si potrà dedicare qualche breve cenno, senza alcuna pretesa di esaustività.
Volontarietà. Il primo tra i fattori distintivi della giustizia riparativa indica uno tra i più significativi aspetti da considerare, in relazione al ruolo della vittima e del “reo”. A questi ultimi spetta la scelta di prendere parte o meno a un percorso di giustizia riparativa. Se accettano di accedervi hanno l’ulteriore possibilità di bloccare quel percorso, in qualsiasi momento, fermandolo o interrompendolo. Elemento immancabile è, infatti, che la partecipazione sia volontaria e libera.
Imparzialità/equiprossimità. Volendo ancora proseguire per spunti, rileva l’imparzialità del soggetto chiamato a intervenire come operatore. Stante la necessità che egli non abbia precisi legami o rapporti con le persone coinvolte e non sia coinvolto nel caso, la sua “terzietà” si declina per lui in maniera diversa rispetto a quanto accade nel processo penale in relazione al giudice. Se quest’ultimo nel rito penale deve essere “lontano come la cosa più lontana”[58] rispetto alle parti, per il mediatore/facilitatore nell’ambito della giustizia riparativa vale il contrario.
La terzietà, infatti, si esprime qui in termini non di “equidistanza”, ma di “equiprossimità”, per cui in relazione agli interessati l’operatore deve essere non egualmente distaccato, bensì parimenti vicino. Questa qualità si traduce in una prassi che si avvale non di uno solo ma di una pluralità di operatori: il loro numero, più ridotto negli incontri preliminari (di solito con due mediatori/facilitatori), aumenta in seguito per arrivare a coincidere con il numero delle “parti” più uno. Tale prassi si spiega - a detta degli operatori stessi - in quanto difficilmente un solo soggetto riuscirebbe ad assicurare la necessaria “equiprossimità”.
Indipendenza. Un'altra caratteristica della giustizia riparativa, quella dell’“indipendenza”, trova riscontro in varie fonti e, in particolare, negli artt. 20 e 66 della Raccomandazione del 2018. Resta da chiarire cosa debba intendersi quando si fa riferimento a tale connotazione che, di certo, deve entrare in gioco in relazione ai rapporti con il processo penale. Rispetto a quest’ultimo, infatti, occorre che si assicuri un’autonomia sia sul piano organizzativo dei programmi, sia in ordine ai contenuti e agli esiti dell’incontro in sede riparativa.
Il profilo si intreccia con altri già menzionati: in particolare, l’indipendenza può declinarsi nel garantire la libertà e l’autodeterminazione degli interessati rispetto alla loro partecipazione[59], che non può essere indotta o filtrata dall’autorità giudiziaria. In senso critico, si osserva come in molti Paesi la giustizia riparativa risulti di fatto ammantata di logiche proprie del processo penale. Le obiezioni vengono rivolte verso il modello tedesco in cui, come si è osservato in precedenza, è l’organo inquirente o giudicante a verificare la praticabilità di percorsi riparativi selezionando di fatto, a monte, i “casi idonei” ai sensi del § 155a StPO. In quest’ottica, si pone l’accento sulla necessità di creare vie di accesso alla giustizia riparativa semplici e dirette, che siano a disposizione dei soggetti potenzialmente interessati senza passare per valutazioni da parte dell’autorità giudiziaria. Solo in questi termini si potrebbe dire riconosciuto un “genuino” diritto di accedere ai programmi di giustizia riparativa[60]. Un riferimento, al riguardo, può essere individuato nell’art. 19 della Raccomandazione, che allude a un ricorso “autonomo” degli interessati ai servizi di giustizia riparativa, a prescindere da iniziative pubbliche.
Disponibilità. Strettamente connessa all’indipendenza, la disponibilità comporta che sia possibile accedere ai programmi riparativi in maniera indistinta e generalizzata, libera da categorie e da divisioni aprioristiche. Il sistema deve rinunciare ad automatiche inclusioni o esclusioni legate ad esempio all’età delle “parti” – e perciò alla valorizzazione della condizione di minori o comunque giovani – come pure alla contestazione di recidiva, oppure alla gravità o tipologia del reato, o ancora allo stato e al grado del procedimento penale. Ogni limitazione rischia di porsi in contraddizione con gli obiettivi di eguaglianza perseguiti tramite l’approccio “all-crimes” adottato dal Consiglio d’Europa[61].
I modelli della giustizia riparativa sono destinati potenzialmente a valere per ogni tipologia di conflitto, in un panorama che in astratto non conosce confini e preclusioni. Al riguardo, tra le altre cose, rileva come la c.d. Convenzione di Istanbul, all’art. 48, preveda una norma che è stata talvolta letta come un divieto di ricorrere a metodi alternativi di risoluzione dei conflitti per i reati di violenza di genere e domestica[62]. Ciò per evitare il verificarsi di condotte abusanti e di forme di vittimizzazione anche in occasione di pratiche riparative. Il tema riguarda la protezione della vittima, anche da una sua cedevolezza, e ricorre in diverse pronunce interne e sovranazionali[63].
Gli interrogativi sull’opportunità di limitare il ricorso a strumenti di giustizia riparativa nascono, come è naturale, soprattutto con riferimento ai reati più gravi. Rispetto a delitti di gravità media ed elevata si presentano le sfide più ardue, oltre alle resistenze maggiori dal punto di vista dell’opinione pubblica. Al contempo, di contro, si rivelano le potenzialità più spiccate. A fronte delle obiezioni più ferme, infatti, ricerche empiriche e opinioni di studiosi concordano sul fatto che proprio in questo contesto – in cui “la posta” del conflitto è elevata – tali strumenti possono riservare risultati più apprezzabili[64].
Il valore in discorso, inerente alla “disponibilità”, per altro verso si coniuga con gli aspetti relativi alla concreta “accessibilità” e alla “gratuità” dei programmi di giustizia riparativa, su tutto il territorio nazionale. Secondo quanto sottolineato da diverse fonti e, con particolare chiarezza, dalle Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, occorre assicurare la possibilità di accedere ai percorsi e ai servizi della giustizia riparativa senza alcun onere economico a carico dei soggetti coinvolti[65]. Questo spiega la cura del legislatore nell’affrontare il problema finanziario al comma 19 dell’art. 1 cit., secondo quanto si dirà più avanti.
Rieducazione. Una pluralità di fonti in materia evidenzia che la giustizia riparativa debba tendere alla rieducazione. La modalità per raggiungere questo obiettivo può essere diversa e la sua scelta non può essere operata in astratto, perché ogni caso (e soprattutto ogni incontro) rappresenta un mondo a sé stante. Il “facilitatore” ha il delicatissimo compito di saper individuare e toccare le corde giuste, secondo scelte uniche e non replicabili in altri contesti. Ciò che è più adeguato a ogni contesto presumibilmente non potrà più servire altrove. Al riguardo può essere significativo sottolineare nuovamente quanto evidenziato dalla Consulta valorizzando l’obiettivo di favorire comunque «il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale»[66].
Riparazione. È un profilo centrale e può declinarsi in vario modo. A fronte dei limiti intrinseci di quella materiale, la riparazione di natura simbolica può rivestire importanza in sé e per sé e può presentarsi sotto forme diverse. La riparazione materiale è inidonea a coprire le svariate conseguenze che si dipartono dalla commissione di un fatto criminoso e compongono un insieme del tutto irripetibile[67]. Una riparazione simbolica, invece, può rivelarsi talmente duttile da prestarsi meglio alle specificità di ogni contesto. Basti pensare alle “scuse”, che riescono a dimostrare la capacità di un soggetto di rivolgere un gesto di rispetto. Questa tipologia di riparazione costituisce un indice irrinunciabile della riuscita di una mediazione, esprimendo l’attivazione (o la riattivazione) di una relazione di comunicazione e ascolto tra le “parti”[68].
Incontro. È l’incontro a poter veicolare una soluzione alle principali implicazioni derivanti dal fatto criminoso[69]. Ed è proprio il “faccia a faccia” a essere potenzialmente risolutivo: può “ridestare” il “reo”, anche quando si sia macchiato di gravi reati, e può pure agevolare la vittima a sentirsi riconosciuta e compresa[70]. Che ogni programma di giustizia riparativa sia a base dialogica, d’altra parte, lo riconosce espressamente la Raccomandazione del 2018[71]. L’incontro si verifica nella “stanza della mediazione”. Il contesto è talmente “protetto” che, per avere un’idea di ciò che vi accade, l’unica possibilità (al di là dell’ipotesi in cui si sia parte coinvolta) è assistere a una simulazione.
Riconoscimento. Implica una forma di recupero, un “nuovo inizio” ed eventualmente una risocializzazione non soltanto del “reo”, ma anche della vittima. Per quest’ultima, il fattore in discorso può avere una pluralità di valenze: può rilevare tramite l’accoglienza all’interno del procedimento penale, oppure in ambiti non istituzionali e persino antecedentemente a una denuncia. Non di sola commisurazione della pena e non di soli risarcimento o riparazione si nutre, infatti, l’appagamento di vittima e “reo”[72]. Persino la stessa qualificazione di “vittima” è capace, a seconda dei casi e dei soggetti cui è rivolta, di avere una funzione di riconoscimento, o al contrario di alimentare sentimenti negativi e diseguaglianze[73]. Le chiavi di lettura di un fatto e dei valori coinvolti, del resto, possono essere anche del tutto capovolte e simmetriche all’interno di una comunità, rispetto a quanto accade in altre cerchie sociali.
Narrazione. Il riconoscimento è spesso legato alla narrazione, che normalmente viene svolta dall’operatore, al principio dell’incontro riparativo, riportando in breve i fatti prima che abbia luogo il racconto delle “parti” coinvolte. Quest’ultimo può poi proseguire nel realizzare l’obiettivo del riconoscimento, anche grazie all’apporto dell’operatore stesso. Il risultato in termini di riconoscimento dipende in larga misura dalla scelta delle parole che ad esempio, a seconda dei reati, possono arrivare a sottendere o persino a esplicitare un “contributo” della persona offesa rispetto al fatto di reato: una cura nel lessico, di converso, può portare risultati apprezzabili anche sotto il profilo sociale e culturale[74]. Coglie nel segno un rimando, abilmente svolto nel trattare l’argomento, all’VIII canto dell’Odissea[75]. Solo ascoltando la narrazione delle sue gesta Ulisse si accorge di ciò che ha passato, dei rischi che ha corso e di chi è diventato. In quel contesto, il suo pianto colpisce Alcinoo, che quindi gli chiede chi sia. Ed è quello il momento in cui inizia il racconto di Ulisse.
Racconto/ascolto. Già valorizzato all’interno della Direttiva 2012/29/UE, all’art. 10, e nella giurisprudenza formatasi con riferimento alla Decisione quadro 2001/220/GAI, l’ascolto delle “parti” dell’incontro rappresenta un passaggio irrinunciabile e cruciale. Occorre però segnare le dovute differenze rispetto alle sue connotazioni all’interno del rito penale, dove l’ascolto è scandito dalle domande. In dibattimento, di regola, ha luogo secondo il sistema dell’esame incrociato ed è finalizzato agli obiettivi dell’accertamento processuale. L’ascolto in sé può rappresentare un’importante occasione di “promozione psicologica”, agevolando un “riordino” dei fatti accaduti può aiutare a fare chiarezza e ad intraprendere un percorso di ripresa[76].
Vergogna. Anche in relazione a quanto si è detto rispetto al coinvolgimento della collettività, si afferma che l’esito della giustizia riparativa risente anche del fattore della vergogna. Si tratta di una vergogna “positiva”, uno shaming rivolto a una comunità sociale. Al riguardo si discute autorevolmente di una “vergogna reintegrativa” capace di agevolare, specie in alcuni percorsi di giustizia riparativa, il superamento di stigmatizzazioni sia per la vittima che per il “reo”[77].
Fiducia. Molto ruota attorno a questa parola, che ricorre spesso all’interno della Direttiva 2012/29/UE. Il concetto sotteso è in grado di rappresentare il centro di una pluralità di situazioni, specialmente qualora una relazione affettiva o familiare leghi vittima e “reo” (“considerando” n. 18). Ma la “fiducia” rileva anche con riferimento ai rapporti tra individuo e “autorità” o “sistemi di giustizia penale” (“considerando” nn. 53 e 63). A differenza di quanto si verifica per il diritto penale – che tende a dare risposte attraverso lo strumento sanzionatorio – in effetti, la giustizia riparativa mira proprio a ripristinare la fiducia tra i soggetti coinvolti, con la consapevolezza che per farlo occorrono percorsi complessi e accurati che si articolano nel tempo[78].
Rimangono sicuramente diversi concetti da focalizzare. Due tra questi – riservatezza/confidenzialità e tempo – saranno considerati in seguito, rispettivamente in relazione ai rapporti tra ambito giudiziario e non, nonché nel corso di alcune riflessioni conclusive.
9. L’impermeabilità tra i due “mondi”
Riservatezza/confidenzialità. Un aspetto che merita di essere considerato in maniera autonoma è quello che riguarda l’esigenza di mantenere il processo penale “impermeabile” ai contenuti dei programmi di giustizia riparativa. La caratteristica in questione risulta dagli artt. 17 e 53 della Raccomandazione del 2018, oltre che dal n. 3 della c.d. Dichiarazione di Venezia, i quali fanno richiamo alla necessità che le pratiche riparative si svolgano in modo riservato. Lo stesso profilo è oggetto di specifica preoccupazione all’interno della l. n. 134 del 2021 che, alla lett. d) del comma 18 cit., prescrive la “confidenzialità” delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa.
La stessa legge, tuttavia, indulge in eccezioni quando ricorra il consenso delle “parti”, qualora la divulgazione sia “indispensabile” per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e, ancora, laddove le dichiarazioni integrino di per sé un reato. Al netto di queste possibili deroghe – che riecheggiano in parte quanto indicato dalla Raccomandazione del 1999 n. 19[79] all’art. 30 e da quella del 2018 all’art. 17 – la “confidenzialità” risulta protetta dall’inutilizzabilità delle dichiarazioni nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena, ai sensi della lett. d) del comma 18 cit.
Queste eccezioni, se non determinate e applicate in maniera ponderata[80], rischiano di rendere più “indifesa” la sede dell’incontro riparativo, facendo sentire meno liberi di esprimersi coloro che ad esso partecipano. Le maggiori preoccupazioni riguardano le dichiarazioni indizianti, chiaramente rese in questa sede senza l’assistenza del difensore. Rispetto ad esse, nel corso del procedimento penale com’è noto opera una disciplina di tutela ai sensi dell’art. 63 c.p.p., per la quale il flusso delle dichiarazioni si interrompe con un avvertimento da parte dell’autorità procedente. In sede extragiudiziaria, invece, può accadere che l’ascolto continui a scorrere anche una volta transitato nel delicato ambito di aspetti potenzialmente sfavorevoli per il soggetto interessato. Il connubio tra l’assenza di un meccanismo di interruzione dell’ascolto (stante la fisiologica mancanza della difesa tecnica), da un lato, e la possibile divulgazione delle dichiarazioni, dall’altro lato, è ciò che più suscita timori. Problemi analoghi sorgono quando sia la vittima a rivelare nel corso del suo racconto eventuali fatti criminosi a lei addebitabili.
Al di là di queste specificità, l’area dell’incontro riparativo dovrebbe mantenersi schermata e libera dall’eventualità che i suoi contenuti divengano ostensibili, in generale e soprattutto nel rito penale. Analoghe esigenze di “impermeabilità” possono valere rispetto alla fase esecutiva. La posizione del condannato, infatti, richiede che siano comunque adottate delle cautele nel tenere riservato l’andamento del percorso riparativo. In questo senso militano ragioni simili rispetto a quelle che, in sede di “testimonianza assistita”, hanno ispirato una diversificazione normativa tra i regimi spettanti al dichiarante assolto e a quello condannato[81]. Si prospetta, infatti, la comune esigenza di non precludere a quest’ultimo un eventuale accesso allo strumento della revisione del giudicato. Al di là di considerazioni inerenti a un’auspicata progressione nel trattamento rieducativo.
Il problema si crea a maggior ragione quando le pratiche svolte abbiano avuto esiti negativi, i quali a norma della lett. e) del comma 18 cit., non sono soggetti a valutazione nel procedimento penale o nell’esecuzione della pena. La stessa disposizione, d’altra parte, precisa che l’impossibilità di attuare un programma di giustizia riparativa, o il suo fallimento, non debbano produrre effetti negativi a carico della vittima o dell’”autore del reato” nelle menzionate sedi giudiziarie.
In relazione al risultato negativo non deve essere svelato nulla in sede giudiziaria, neppure qualora – nonostante tale risultato – il percorso riparativo abbia incluso qualche singolo snodo positivo: dunque, ad esempio, neanche quando vi siano state delle importanti manifestazioni da parte dell’autore del reato, di possibile rilievo per la commisurazione della pena ex art. 133 c.p., oppure qualora sia mancato davvero poco rispetto alla “riuscita” di una mediazione. Tutto questo rappresenta certamente una perdita, ma essa trova giustificazione nella esigenza superiore di proteggere dal contesto esterno i contenuti di un incontro riparativo.
Viceversa, quando è positivo l’esito trova riscontro in un repertorio di possibili espressioni utilizzate dalle “parti” nel corso dell’incontro. Tale esito, raccolto dall’operatore e siglato con una firma dai partecipanti, può essere trasmesso in modo “secco”, oppure “vestito”. Il secondo caso ricorre quando i partecipanti, apponendo una sottoscrizione ad hoc, manifestino la volontà che qualche contenuto dell’esperienza trapeli nel contesto giudiziario.
Nella Raccomandazione del 2018 all’art. 53, tuttavia, per il caso in cui la giustizia riparativa abbia incidenza sulle decisioni giudiziarie, si prevede un riscontro dell’operatore all’autorità procedente in merito al percorso svolto. Fermo restando che non vanno rivelati i contenuti discussi né espressi giudizi sul comportamento delle “parti” durante il percorso stesso.
In effetti, rispetto alle attuali e limitate interazioni della giustizia riparativa con quella penale, in concreto l’impermeabilità funziona in maniera reciproca. Questo aspetto, che può sembrare sorprendente, dipende dal fatto che il mediatore/facilitatore oggi non è solito volgere lo sguardo verso lo sbocco processuale. L’operatore in linea di massima non si occupa di conoscere (e neppure di immaginare) quali riflessi possano derivare da un esito positivo, nel contesto giudiziario. Raccogliendo le impressioni di diversi mediatori, si ricava questa netta e spontanea presa di distanze. “Non è un difetto”, si premurano di specificare, ma tutto ciò corrisponde a una “purezza” del ruolo della quale si va orgogliosi, la quale si pone a presidio dell’habitat della mediazione e lo protegge dalla strumentalità rispetto all’accertamento penale. Gli operatori interpellati rispondono che potrebbero anche acquisire informalmente notizie sugli sviluppi in sede giudiziaria realizzatisi in continuità con il proprio lavoro, ma “non si è mai fatto”: in linea di principio, perciò, non vengono seguite le sorti di ogni vicenda. Ora forse, di fronte all’attuale desiderio istituzionale che punta sulla giustizia riparativa, le dinamiche tra ambiente giudiziale ed extragiudiziale potrebbero mutare. Pur rimanendo intatto l’amore per la purezza della mediazione, da parte degli operatori è prospettabile una maggiore consapevolezza in ordine agli “investimenti” compiuti in sede riparativa e alla tesaurizzazione del percorso svolto.
In vista di un’evoluzione del nostro ordinamento, vari istituti dovrebbero essere modificati in modo da irrobustire i confini che tutelano l’esperienza riparativa. Ad esempio, occorre introdurre forme di incompatibilità dell’operatore a testimoniare. Senza contare che i contenuti di incontri mediativi potrebbero transitare nel procedimento penale attraverso le deposizioni della persona offesa, come pure tramite le dichiarazioni spontanee o l’esame dell’accusato.
Un autonomo aspetto concernente l’impermeabilità è quello che risulta dalla necessità che i dati raccolti ai fini dei programmi di giustizia riparativa restino riservati e vengano distrutti successivamente, secondo una regolamentazione. Nel sistema tedesco di questo aspetto si occupa il § 155b StPO. Nella sua versione entrata in vigore nel 2019 – in seguito all’attuazione della Direttiva (UE) 2016/680/UE e del Regolamento 2016/679/UE – la norma prevede l’utilizzo dei dati delle persone coinvolte entro i limiti di quanto occorre per le pratiche riparative, con specificazioni inerenti al trattamento di tali dati da parte di centri che non siano pubblici. Il paragrafo citato dispone, inoltre, la distruzione dei dati medesimi dopo un anno dalla chiusura del procedimento penale[82].
10. Il tempo della giustizia riparativa: riflessioni conclusive
Tempo. Per concludere, non si può mancare di fare richiamo a un fattore che costituisce un riferimento costante in ogni ragionamento sul tema della giustizia riparativa. Combinando l’orizzonte di quest’ultima con quello della giustizia penale, il tempo diviene oggetto di “investimenti” non preventivabili né rispetto al sacrificio iniziale, né rispetto ai vantaggi finali. Bisogna astrarsi da logiche prioritarie “di risultato”, strumentali in termini di economia processuale, oltre che di “riscatto” del “reo”, o persino di pacificazione tra i soggetti interessati. Il semplice “incontro” può di per sé rappresentare un obiettivo da perseguire, sia pure – ad esempio – per dare sfogo ai sentimenti dell’offeso o per porre le basi di nuove regole di convivenza sociale. Quest’ottica, che valorizza anche esiti non strettamente “processualizzabili”, implica una tolleranza della giustizia penale rispetto a tempistiche più elastiche e non calcolabili ex ante.
Da una “questione di tempi” dipende spesso la riuscita dei percorsi riparativi. In chiave deflattiva, si auspica che un esito positivo si collochi in corrispondenza con le prime battute del procedimento penale. Ma il “momento giusto” risponde a logiche e ragioni in gran parte non gestibili e prevedibili[83], anche perché la vicenda giudiziaria può essere vissuta dai suoi protagonisti come un’“attesa”, con stati d’animo via via differenti[84].
É noto come il tempo, per i protagonisti del processo, non possa avere una valenza univoca. Dal punto di vista della vittima, lo svolgimento di indagini deve essere pronto e tempestivo. Tuttavia, in certe circostanze, solo dei ritmi più lenti e gestibili le consentono scelte consapevoli: così è, ad esempio, per la denuncia, per la querela, o per l’opposizione alla richiesta di archiviazione. Nell’ottica delle persone sottoposte al procedimento penale, il tempo processuale può rappresentare un peso, se non una “pena”[85], ma in senso inverso non è raro che si imputino loro strategie dilatorie.
Il tempo, peraltro, entra in gioco pure perché le dinamiche riparative inducono a volgere lo sguardo sia all’indietro che in avanti. Esse tengono conto del fatto di reato e muovono dall’intento di attenuarne, se non eliminarne, le conseguenze dannose o pericolose. Ma si proiettano verso il futuro, per cercare di prevenire ed evitare altri fatti a loro volta di carattere pericoloso o dannoso. E, in effetti, il riferimento al “futuro” non manca in molte fonti in materia[86].
«Il tempo è ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa», ha evidenziato la Ministra Cartabia[87]. Da tanto, a livello normativo e giurisprudenziale, si ragiona sulla vittima e sulla sua partecipazione da un lato, sulla rieducazione del “reo” dall’altro lato, e sul recupero di entrambi. È come se – alla stregua di quanto riferisce l’Autrice di “Il libro dell’incontro”, su un percorso riparativo inerente a reati molto gravi[88] – spontaneamente e gradualmente un incontro si sia già realizzato, tra giustizia riparativa e penale. Non è fuor di luogo allora riconoscere che il legislatore abbia saputo scorgere qualcosa che in fondo è già in fieri, il che ci rimanda a quella felice intuizione secondo cui l’occhio vede ciò che la mente già conosce[89].
* Il presente contributo riprende in parte i contenuti della relazione La giustizia riparativa: un’alternativa che attende l’attenzione del legislatore delegato, tenuta nell’ambito del Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, intitolato Alla ricerca di un processo penale efficiente, 21 gennaio 2022, Università di Pisa.
[1] Così, M. Cartabia, Relazione svolta in occasione del Convegno su Giustizia riparativa e formazione della magistratura, presso l’Università Cattolica di Milano, 14 marzo 2022.
[2] S. Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, in Dir. pen. proc., 2013, p. 881 ss.; volendo, L. Parlato, Il contributo della vittima tra azione e prova, Palermo, 2012, p. 14 ss. anche per i riferimenti.
[3] L. 27 settembre 2021, n. 134, Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonche' in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, art. 1, commi 18 e 19. In proposito, tra i molti, M. Bouchard, Una nuova definizione di giustizia riparativa, in www.retedafne.it; M. Bouchard, F. Fiorentin, Sulla giustizia riparativa, in Quest. giust., 23 novembre 2021; G. Mannozzi, Nuovi scenari per la giustizia riparativa. Riflessioni a partire dalla legge delega 134/2021, in Arch. pen., 2022, n. 1; parla di “svolta storica” M. Gialuz, La “riforma Cartabia” nel sistema penale, in Aa.Vv., M. Gialuz, J. Della Torre, Giustizia per nessuno, Torino, 2022, pp. 369 ss., 377 ss.
[4] Sulla giustizia riparativa intesa come un’arte, C. Mazzucato, The state of the ‘art’, in The International Journal of Restorative Justice, 2021 p. 195 ss.
[5] Dichiarazione dei Ministri della giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa sul ruolo della giustizia riparativa in materia penale, in occasione della Conferenza dei Ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa “Criminalità e Giustizia penale – Il ruolo della giustizia riparativa in Europa”, 13 e 14 dicembre 2021, Venezia.
[6] Sui punti di forza e di debolezza della manovra, G. Mannozzi, Nuovi scenari, cit., p. 2 ss.
[7] M. Cartabia, Relazione annuale al Parlamento, 19 gennaio 2022, in www.sistemapenale.it, p. 33 ss.
[8] Per un quadro esauriente, si rinvia ad A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Torino, 2010, p. 175 ss.
[9] Consiglio d’Europa, Raccomandazione Rec(2018)8 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale, 3 ottobre 2018.
[10] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive für das Justizsystem, in Aa.Vv., Alternative Strafvollzugsmodelle: 10 Jahre Strafvollzug in freien Formen in Sachsen: Rückblick und Ausblick, Köln, 2022, p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, in TOA-Magazin, 2019, n. 2, p. 4 ss.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive per la restorative justice in seguito alla Direttiva sulla vittima: verso un “diritto alla mediazione”? Germania e Italia a confronto, in Cass. pen., 2015, p. 4188 ss.
[11] Sull’importanza del documento si è soffermata M. Cartabia, Relazione annuale al Parlamento, cit., p. 32.
[12] M. Kilchling, Towards a widespread use of Restorative Justice as a complement of the criminal justice system, relazione tenuta in occasione dell’Incontro preparatorio rispetto alla “Conferenza di Venezia” (Conferenza dei Ministri della Giustizia dei Paesi del Consiglio d’Europa), Università dell’Insubria, Como, 12-13 ottobre 2021.
[13] Al riguardo si rinvia alle ampie riflessioni di M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 2.
[14] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.; E. Mancuso, La giustizia riparativa in Austria e in Germania, tra Legalitätsprinzip e vie di fuga dal processo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 1958 ss.
[15] L’espressione, come noto, è di U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, 2013.
[16] Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, adottati dalle Nazioni Unite il 24 luglio 2002, § 1 n. 2; cfr. G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 470.
[17] C. B. N. Gade, Is restorative justice punishment?, in Conflict Resolution Quarterly, 2021, p. 127 ss.
[18] Relazione finale e proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435, 24 maggio 2021, p. 5, sul prospettato “nuovo” art. 1-bis del testo.
[19] Cfr. soprattutto Corte giust., 28 giugno 2007, Dell’Orto, causa C-467/05.
[20] Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia.
[21] Cfr., in particolare, Cass., sez. un., 30 settembre 2021, n. 17156, in www.penaledp.it, 6 maggio 2022: sulla pronuncia, G. Colaiacovo, Le Sezioni unite sulla notifica alla persona offesa dell’istanza di modifica o revoca della cautela, ivi; sulla giurisprudenza della Corte europea, A. Marandola, Reati violenti e Corte europea dei diritti dell’uomo: sancito il diritto alla vita e il “diritto alle indagini”, in www.sistemapenale.it, 22 settembre 2020; volendo, cfr. L. Parlato, Vulnerabilità e processo penale, in G. Spangher, A. Marandola, La fragilità della persona nel processo penale, Torino, 2021, p. 451 ss.
[22] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, in Enc. Dir. Annali, Milano, 2017, p. 472.
[23] Su questi temi, G. Di Chiara, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 390; C. Valentini Reuter, Le forme di controllo dell’esercizio dell’azione penale, Padova, 1994, p. 191.
[24] In tema, diffusamente, M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 5 s.; cfr. Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità in materia di giustizia riparativa e tutela delle vittime di reato, maggio 2019, in www.giustizia.it.
[25] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 6.
[26] Si rimanda ad A. Menghini, Giustizia riparativa ed esecuzione della pena. Per una giustizia
riparativa in fase esecutiva, in Aa.Vv., Giustizia riparativa, responsabilità, partecipazione, riparazione, a cura di G. Formasari, E. Mattevi, in Discrimen, 2019, p. 217 s., con riguardo alla fase esecutiva.
[27] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 4.
[28] Considerano la presunzione di non colpevolezza alla stregua di una “presunzione di non vittimizzazione” W. Hassemer, K. Matussek, Das Opfer als Verfolger, Frankfurt am Main, 1996, p. 17. Su questi profili, K. Seelmann, Dogmatik und Politik der “Wiederentdeckung des Opfers”, in Aa.Vv., Rechtsdogmatik und Rechtspolitik, a cura di K. Schmidt, Berlin, 1990, p. 167 ss.
[29] Volendo, L. Parlato, Vulnerabilità, cit., p. 427 ss.
[30] Cfr. Dichiarazione dei Ministri della giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa, cit., n. 11; G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 473.
[31] Per alcuni riferimenti: Violenze di Capodanno, il sindaco Sala: "Chiedo scusa alle ragazze, il Comune di Milano si costituirà parte civile nel processo", in La Repubblica, Milano, 11 gennaio 2022; F. Giansoldati, Germania, una donna guida la commissione sui risarcimenti alle vittime della pedofilia, 25 gennaio 2021; Riparte in Germania la commissione sugli abusi nella Chiesa evangelica, in www.riforma.it, 9 maggio 2022; M. Politi, Francia, nasce la Commissione per le vittime di abusi nella Chiesa. In Italia i vescovi hanno ancora paura, in www.ilfattoquotidiano.it, 30 novembre 2021.
[32] Al riguardo, G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 470; tra gli altri, Aa.Vv., Crimini internazionali tra diritto e giustizia: dai Tribunali internazionali alle Commissioni verità e riconciliazione, a cura di L. Illuminati, L. Stortoni, M. Virgilio, Torino, 2000; E. Jaudel, Giustizia senza punizione. Le Commissioni Verità e Riconciliazione, Milano, 2010.
[33] Ampiamente, G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 469, citando H. Zehr, Changing Lenses. A New Focus on Crime and Justice, Scottsdale, 1990, p. 181.
[34] In tema, tra gli altri, S. Recchione, Le dichiarazioni del minore dopo la ratifica della Convenzione di Lanzarote, in Dir. pen. contemp., 2013, p. 4 ss.
[35] Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, cit.; v. M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 9.
[36] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[37] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.
[38] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 471; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[39] Corte giust., 15 settembre 2011, cause riunite C 483/09 Magatte Gueye e C 1/10 Valentín Salmerón Sànchez.
[40] M. Kilchling, Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.
[41] C. B. N. Gade, Is restorative justice punishment?, cit., p. 127 ss.
[42] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[43] A. Demetz, La giustizia riparativa nella prospettiva del giudice di pace, in Aa.Vv., Giustizia riparativa, cit., p. 209.
[44] Cfr. M. Gialuz, La “riforma Cartabia” nel sistema penale, cit., p. 322; volendo, L. Parlato, La rifusione delle spese legali sostenute dall’assolto, Milano, 2018, p. 113 ss.
[45] Per tutti, A. Sanna, Sub art. 444, in Aa.Vv., Commentario breve al Codice di procedura penale, a cura di G. Illuminati, L. Giuliani, Milano, 2020, p. 2197 ss.
[46] M. Del Tufo, Proposte ministeriali sulla giustizia penale: una discussione costruttiva, in www.retedafne.it, 1° luglio 2021.
[47] Sull’“archiviazione meritata”, come possibile soluzione, M. Gialuz, La “riforma Cartabia”, cit., p. 322.
[48] Cfr. M. Caputo, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, Napoli, 2009, p. 632; B. Romanelli, Ruolo della persona offesa e giustizia riparativa nei procedimenti speciali premiali, in jus.vitaepensiero.it, 24 febbraio 2022.
[49] M. P. Giuffrida, Giustizia penale e mediazione. Un percorso sperimentale fra trattamento e responsabilizzazione del condannato, in Aut. loc. serv. soc., 2013, p. 491 ss.
[50] V. l. 12 aprile 2019, n. 33; in tema, v. le riflessioni di R. Orlandi, Sicurezza e diritto penale. Dialogo di un processualista italiano con la scuola di Francoforte, in Aa.Vv., Sicurezza e diritto penale, a cura di M. Donini, M. Pavarini, Bologna, 2011, p. 91 ss., spec. p. 98 ss.; cfr. W. Hassemer, Sicherheit durch Strafrecht, in StV, 2006, p. 322 ss.
[51] Ci si riferisce a Corte cost., 23 gennaio 2019, n. 40; in tema, M. P. Giuffrida, Giustizia penale e mediazione, cit., p. 491 ss.
[52] Sul noto excursus che ha preso le mosse da Corte EDU, 13 giugno 2019, Viola c. Italia, e comporta tuttora l’attesa di una pronuncia della Corte costituzionale nonché di un intervento legislativo, si rinvia a Ergastolo ostativo: alla luce dell’avanzamento dell’iter parlamentare di riforma del regime ex 4-bis, in www.sistemapenale.it, 10 maggio 2022.
[53] Al riguardo, v. Approvato dalla Camera il testo unificato del d.d.l. di riforma della disciplina in materia di reati ostativi ex art. 4-bis ord. penit., in www.sistemapenale.it, 12 aprile 2022.
[54] Su questi aspetti, anche in seguito alla c.d. riforma Orlando, l. 23 giugno 2017, n. 103, volendo v. L. Parlato, La rifusione, cit., p. 60 ss.
[55] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 9.
[56] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.
[57] V. invece Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, cit.; cfr. M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 11 s.
[58] G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità, in Riv. dir. proc., 1950, p. 1, p. 57.
[59] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[60] M. Kilchling, Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.
[61] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.
[62] Questo approccio era stato seguito nell’ambito della l. n. 77 del 2013 – nel ratificare la c.d. Convenzione di Istanbul – per essere poi sconfessato nella G. U. del 28 novembre 2017, p. 34, tramite una rettifica: intervenendo sulla traduzione dell’articolo in questione, si è precisato che il divieto mira più precisamente a proibire ipotesi di ricorso obbligatorio a tali strumenti.
[63] V. Corte giust., 15 settembre 2011, cit.
[64] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 471; cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; C. Mazzucato, Relazione svolta in occasione della Presentazione del "Libro dell'incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto" di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato, Roma, 19 gennaio 2017.
[65] Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, cit.
[66] Ci si riferisce a Corte cost., 23 gennaio 2019, n. 40; in tema, M. P. Giuffrida, Giustizia penale e mediazione, cit., p. 491 ss.
[67] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 474 ss.
[68] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 475.
[69] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[70] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 477.
[71] Sul punto, G. Mannozzi, Nuovi scenari, cit., p. 4.
[72] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 475; volendo, L. Parlato, Il contributo della vittima tra azione e prova, Palermo, 2012, p. 96 ss.
[73] M. Murgia, Incontro intitolato A me “vittima” non lo dici: la violenza sulle donne, Teatro Auditorium Manzoni, Bologna, 24 maggio 2013.
[74] Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il tema è posto in evidenza in relazione alla vittima e all’accusato: in particolare, Corte EDU, 27 maggio 2021, J. L. c. Italia; 19 novembre 2021, Marinoni c. Italia.
[75] G. Di Chiara, Relazione tenuta al Convegno intitolato Spazi di diffusione della mediazione penale e della giustizia riparativa a Palermo, Tribunale per i minorenni di Palermo, 22 gennaio 2020.
[76] Cfr. A. Garapon, Crimini che non si possono né punire, né perdonare, Bologna, 2004, p. 159 s.
[77] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 7 s.; G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 478, anche per i richiami bibliografici.
[78] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 479.
[79] Raccomandazione n. (99) 19 sulla mediazione in materia penale, adottata dal Consiglio d’Europa il 15 settembre 1999.
[80] Facendo riferimento al Memorandum esplicativo della Raccomandazione del 1999 n. 19, cit., A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Torino, 2010, p. 270.
[81] E. Amodio, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputato sul fatto altrui, in Cass. pen., 2001, p. 3592; E. M. Catalano, I confini della testimonianza assistita nel prisma del sindacato di ragionevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 314.
[82] Gesetzes zur Umsetzung der Richtlinie (EU) 2016/680 im Strafverfahren sowie zur Anpassung datenschutzrechtlicher Bestimmungen an die Verordnung (EU) 2016/679, 20 novembre 2019, BGBl. I S. 1724.
[83] Al riguardo, G. Di Chiara, La premura e la clessidra: i tempi della mediazione penale, in Dir. pen. proc., 2015, p. 377 ss.
[84] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, 1977, p. 43 s.
[85] Su questo profilo, il riferimento va alle pagine di F. Carnelutti, Lezioni sul processo penale, I, II, Roma, 1969, p. 48.
[86] In particolare, v. Dichiarazione dei Ministri della giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa, cit., n. 13.
[87] M. Cartabia, Linee programmatiche sulla giustizia, 14 marzo 2021, in www.ilsole24ore.com, 15 marzo 2021.
[88] C. Mazzucato, Relazione, cit.
[89] «Man erblicht nur, was schon weiss und versteht», letteralmente «si vede solo ciò che si sa e che si comprende»: J. W. Goethe, Gespräche. Gesellschaft bei Goethe, a cura di G. Woldemar Freiherr von Biedermann, vol. 4, Lipsia, 1889-1896.
Derrida, il giudice, il fare giustizia
di Giancarlo Montedoro
Leggendo Justices si scopre la solitudine del giudice, la solitudine che comporta il fare giustizia.
Si tratta di un libretto di Jacques Derrida.
Esemplare piccolo saggio per un’analisi Law and Literature.
È la traduzione del testo di una conferenza pronunciata presso l’Università della California, Irvine, il 18 aprile 2003 al colloquio “J” Around the work of J. Hillis Miller.
Un omaggio al filosofo ed amico J. Hillis Miller fatto con tono di sincera ammirazione ed empatia che caratterizza l’opera di Derrida sempre connotata da espressioni affettive e scavi filologici che muovono alla scoperta del lato emotivo dell’uomo.
Miller è stato collega di Derrida nell’insegnamento universitario, era un critico letterario, famoso negli States, della scuola degli Yale critics di cui è stato esponente anche Harold Bloom.
Derrida – amico di Miller - si interroga sull’Io di Miller e così attraverso l’amicizia scopre l’essenza della giustizia.
Quasi a volersene appropriare come di un altro se stesso, Derrida si chiede quale gusto avesse Miller per se stesso.
Cosa si prova ad essere Miller?
Cosa pensava Miller del suo Io?
Un interrogativo sull’Io, simile a quello di Rimbaud, per cui Io è un altro. Io is another one.
Derrida cerca Miller, e, nel cercarlo diviene Miller per non tradirlo e non sentirsi tradito dall’amico.
Miller sempre sfugge. Miller va reso presente con le parole per rendergli giustizia.
Un io è sempre una responsabilità. Così – dice Derrida – opera la legge, il diritto, la giustizia.
A partire dall’Io ma da un Io aperto, un Io che è cancellato (magari solo temporaneamente) per risolversi nell’Altro.
Miller appare a Derrida – giusto a sua volta perché empatico ed amante della amicizia e della singolarità - un giusto.
Uno che rende giustizia ai testi. Rende giustizia ai testi perché li decostruisce.
L’analisi del libro di Miller The disappearance of God (un libro dedicato all’analisi del poeta vittoriano Hopkins ma questo poco importa) conduce Derrida a scoprire che Miller era alla ricerca del fondamento teologico mistico dei poeti interpretati, della loro Haecceitas nel senso di Duns Scoto.
La decostruzione, in questa logica, si rivela una lettura “errante” dei testi, volta non alla ricerca di una sola unica interpretazione come giusta e corretta, ma come ricerca (lettura) aperta all’errore, alla possibilità del fraintendimento, alla dinamica consapevole che il testo è vertigine che non conduce a nessuna origine.
L’origine essendo poi l’autore, impossibile da cogliere nella sua singolarità.
Il testo perde il suo primato e diviene l’occasione per l’apertura del gioco interpretativo, inteso come gioco parassitario, non solo nel senso che il parassita si appropria di una cosa/casa che non gli appartiene ma anche ( e soprattutto ) nel senso che il parassita è compagno nel pasto, in una posizione insieme di prossimità e distanza, somiglianza e differenza, interiorità ed esteriorità rispetto all’autore del testo “parassitato”.
Uno scambio di ruoli fra l’interprete e l’autore del testo (fra il giudice ed il legislatore diremmo da giuristi) che appare spaesante ma è inevitabile perché sempre sotteso all’ars interpretandi nel suo processo di aporetica mimesi e distanziamento agonistico.
Lo scambio (possibile – inevitabile) fra giudice e legislatore insito in ogni atto interpretativo è il grande rimosso della metodologia giuridica gius-positivistica.
La decostruzione non si presenta tuttavia come una metodologia alternativa.
Non è una teoria, non è una critica, non è un’analisi, nemmeno un metodo, è qualcosa che avviene. Solo avviene. Come la psicanalisi.
È il soggetto ça déconstruit che pratica la decostruzione anche senza saperlo, la fa.
Questo è il giusto.
Uno che ha il gusto di se stesso, una virtù certamente, un senso esemplare della responsabilità davanti agli altri ed alle loro opere.
Solo chi ha gusto di se stesso è responsabile si presenta come responsabile.
Responsabile è chi rinuncia a se stesso. L’amore – dice Derrida – è l’accordo di due rinunce per dire l’impossibile.
La giustizia, pur meno radicale dell’amore, è fatta dello stesso gesto di rinuncia, è impastata della stessa materia.
E rinuncia a se stesso chi è soddisfatto di se stesso. Non certo il “risentito” della schiatta dei personaggi nietzschiani – dostoevskiani che imperano nel nostro tempo.
Questo è un dono, essere giusti.
La giustizia in questo eccede il diritto, si pone al di là del diritto.
Il diritto come sistema di leggi, mantiene il suo legame con la forza.
Nel cuore del diritto – dice Derrida – nel testo “Forza di legge” leggendo passi di Zur Kritik der Gewalt di Benjamin, c’è una forte ambiguità legata all’utilizzo della violenza.
O anche del calcolo, del diritto calcolabile – weberiano - inteso, nel suo complesso, come sistema di pesi e contrappesi, atto a garantire misura e proporzione.
Ma nella violenza sottomessa alla legge e nel calcolo dell’operare del macchinismo giuridico si cela spesso l’insidia – quasi un residuo non scontabile - della violenza originaria, della lex talionis.
La giustizia va oltre la violenza ed oltre il calcolo.
Essa è incalcolabile, non segue nessuna regola, nessun equilibrio.
Rende a ciascuno il suo ma seguendo la logica paradossale del dono, senza scambio, senza contro dono, senza debito, senza restituzione.
La giustizia è nella decisione, nella sua gratuità, nella sua immedesimazione nell’ Altro (levinassiano) nel tentativo (sempre parziale , sempre umano) di conciliare universalità e singolarità.
La giustizia non è legalità.
Crea regola (ma non nel senso che fuoriesce dalla cornice legislativa) ma nel senso che rende giustizia a ciò che è singolare (rimanendo nella cornice, nel carapace linguistico della legge, nel suo esoscheletro ha detto Antonello Cosentino in un recente interessante dibattito promosso dalla Rivista dedicato al saggio di Tomaso Epidendio).
La giustizia è la legge della singolarità.
La legge della singolarità è la misura della nostra libertà.
La giustizia è quindi (anche) l’esperienza dell’impossibilità, della sua impossibilità.
E la conferma della (nostra) solitudine (come uomini, come giudicati, come giudici).
La giustizia è sempre a –venire, mai realizzata.
Il suo tempo è messianico.
La giustizia richiede un perenne senso di inadeguatezza.
Perennemente aperta, è una “veglia” sulla nostra universalità.
È al fondo, apocalittica.
Comunque connessa ai libri sacri dai quali procede (una parola Dio ha detto, due ne ho udite ; per arrivare all’uno occorre saper contare fino a due, ha detto, in lode del pluralismo, Barbara Spinelli commentando il Salmo 62).
Il diritto – fatto di materiali politico economici – è decostruibile. Va decostruito.
La giustizia – pur consistendo nella decostruzione (del diritto) – non è decostruibile.
Questo atto ginnico/gnomico aporetico e paradossale nel che consiste la giustizia deve le sue caratteristiche al fatto che si confronta con l’unicità dei singoli , con la loro insostituibilità, con la loro verità profonda, con quello in-scape, (il termine inscape viene usato dal poeta inglese Gerard Manley Hopkins, per definire quel complesso di caratteristiche che conferiscono unicità ed esclusività ad un'esperienza interiore individuale) che è l’oggetto oltre che della poesia, della ricerca critico-letteraria che la poesia ricrea.
La giustizia è così praticata dal giusto in modo quasi naturale.
Il giusto è chi pratica la giustizia.
Ma la tensione fra il soggetto e la sua azione è sempre una ricerca irrisolta.
La giustizia è perfezione cercata ma anche finita, iniziata ma anche giunta al termine, è il risultato ma anche il muoversi per raggiungerla, quindi la distanza che perennemente segna il soggetto che la cerca ed il compimento dato dall’atto che decide.
La giustizia rende a se stessa la forma di ogni creatura o ambisce a renderla, nella letteratura e nel diritto.
È un universale che non annichilisce, ma al fondo della scoperta dell’unicità, appare la solitudine dell’uomo, non mitigata nemmeno dalla trascendenza, perché poi – a ben vedere – la solitudine dell’uomo – dice Derrida leggendo Miller - è la solitudine di Dio.
Entrambi giusti ma entrambi soli.
Entrambi simili, creatori nel segreto incomunicabile di un’istante che possiamo anche pensare eterno.
La giustizia non si riferisce a norme calcolabili, si è giusti come si respira, per essenza, in modo spontaneo, liberamente come il fiume che scorre dalla fonte al mare.
La giustizia è immanente ed emanante.
Essa si irradia e, nello stesso tempo, non può essere compresa fino in fondo, per la sua connessione al singolare, per l’abbandono necessario della pretesa del Logos, della verità.
La giustizia è questo abbandono (relativo ma ineludibile) del Logos.
E si torna all’umiltà. Ed al mistero.
Il principio di (im)modificabilità dei raggruppamenti di imprese (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 25 gennaio 2022, n. 2)
di Domenico Bottega
Sommario: 1. Premessa. - 2. La vicenda. - 3. L’art. 48 del codice dei contratti pubblici. - 4 L’interpretazione restrittiva: l’inapplicabilità dei commi 17 e 18 alla “fase di gara”. - 5. L’interpretazione estensiva: l’applicabilità dei commi 17 e 18 anche alla “fase di gara”. - 6. L’ordinanza di rimessione alla Plenaria. - 7. La decisione dell’Adunanza Plenaria. - 8. L’antinomia assoluta. - 9. I criteri di risoluzione delle antinomie. - 10. L’interpretazione correttiva. - 11. La risoluzione dell’antinomia: l’interpretazione secondo ragionevolezza o costituzionalmente orientata. - 12. Un problema per certi versi chiuso, per altri aperto: quando si conclude “la fase di gara”? - 13. Considerazioni conclusive.
1. Premessa.
La sentenza dell’Adunanza Plenaria in commento compone il severo contrasto formatosi in seno al Consiglio di Stato sull’interpretazione del comma 19-ter dell’art. 48 del codice dei contratti pubblici e risponde, in senso affermativo, al quesito se sia consentito escludere dal R.T.I. l’impresa che, in fase di gara, abbia perso uno dei requisiti di ordini generale di cui all’art. 80, e consentire ai restanti associati di “riorganizzarsi”, senza essere pretermessi dalla selezione. La Plenaria giunge a tale esito interpretativo apparentemente senza aderire ad alcuno dei due orientamenti, bensì componendo una “antinomia assoluta” generata da una tecnica legislativa “poco sorvegliata”. Al di là del risultato ermeneutico cui si perviene, è interessante il percorso argomentativo svolto da colui che è l’interprete per eccellenza – ossia il giudice – di fronte a una (apparente) contraddizione dell’ordinamento.
2. La vicenda.
Nell’ambito della procedura di affidamento dei lavori di ampliamento alla terza corsia del tratto autostradale Firenze Sud – Incisa è accaduto che, al termine delle operazioni di gara e nelle more dell’espletamento del subprocedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta, i rapporti tra la stazione appaltante e una società mandante dell’A.T.I. aggiudicataria si siano incrinati per vicende legate ad altre commesse[1]. Tale società ha deciso allora di recedere dal raggruppamento di imprese, il quale ha domandato all’Amministrazione la possibilità di rimodulare la propria compagine interna[2].
La richiesta è stata rigettata dalla stazione appaltante, che ha quindi deciso di escludere l’intero raggruppamento dalla gara, sulla base del fatto che la mandante di cui si è detto si fosse resa responsabile di “significative e persistenti carenze nell’esecuzione di precedenti contratti d’appalto che hanno causato la risoluzione per inadempimento contrattuale”, rilevanti come causa di esclusione ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c-ter, del codice dei contratti pubblici, come pure di condotte qualificabili come “gravi illeciti professionali” di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), del codice, “tali da rendere dubbia l’integrità e l’affidabilità”, per essere gli inadempimenti “numerosi, ravvicinati nel tempo e coevi allo svolgimento della procedura di gara in oggetto”. In aggiunta, è stata rigettata la richiesta di autorizzazione alla modifica soggettiva del raggruppamento, difettando – a detta della stazione appaltante – dell’esplicitazione delle esigenze organizzative legittimanti tale domanda e in ragione del breve lasso di tempo trascorso tra i provvedimenti di risoluzione e di revoca e la comunicazione di recesso (la richiesta in parola è stata ritenuta essere “finalizzata ad eludere la perdita di un requisito di partecipazione alla gara da parte della mandante” che era incorsa nelle cause di esclusione predette[3]).
Il provvedimento è stato allora impugnato avanti il T.A.R. Toscana, che lo ha annullato, dando applicazione al combinato disposto dei commi 18 e 19-ter dell’art. 48 del codice dei contratti pubblici, in base ai quali – nella lettura offerta dal Giudice fiorentino – deve essere consentita la possibilità di modificare la composizione soggettiva del consorzio partecipante, in corso di gara e in corso di esecuzione, ove sia sopraggiunta la perdita, da parte di una società mandante, di uno o più dei requisiti morali e professionali di cui all’art. 80.
Non dello stesso avviso – nei termini di cui si dirà – si è dimostrato il Consiglio di Stato che, nell’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria da cui è poi scaturita la sentenza qui in commento, ha osservato che il dato normativo non è così perspicuo da consentire di affermare sic et simpliciter che l’interpretazione delle disposizioni conduca a un unico esito interpretativo.
Onde apprezzare la portata del problema e comprendere la soluzione offerta dal Supremo Concesso della giustizia amministrativa, vale la pena partire dal dato legislativo di riferimento.
3. L’art. 48 del codice dei contratti pubblici.
L’art. 48, d.lgs. n. 50/2016, si occupa dei “raggruppamenti temporanei e consorzi ordinari di operatori economici”, due tra le forme collaborative tra imprese di maggiore successo, finalizzate alla partecipazione alle procedure a evidenza pubblica. I raggruppamenti temporanei sono assai diffusi nel panorama delle procedure a evidenza pubblica, consentendo a più operatori, di diversa capacità economica, tecnica ed organizzativa, di eseguire commesse pubbliche congiuntamente ad altre imprese, pur mantenendo la propria autonomia[4]: la dottrina ha individuato in tale istituto una “funzione antimonopolistica”, fungendo da vero e proprio argine al predominio delle grandi imprese[5].
Ci si vuole innanzitutto concentrare sul comma 9 dell’art. 48, che sancisce il divieto di mutamento della compagine soggettiva dei raggruppamenti temporanei, da cui si fa discendere il principio di immodificabilità soggettiva del R.T.I.: principio che, originariamente, doveva intendersi esteso a tutta la procedura di gara, dalla presentazione dell’offerta alla conclusione dell’esecuzione del contratto, al fine di consentire alla stazione appaltante una verifica preliminare e piena del possesso dei requisiti di partecipazione in capo ai partecipanti, verifica che non doveva essere vanificata in corso di gara con modifiche di alcun genere[6].
Il principio aveva già subito alcune deroghe da parte dell’abrogato “codice appalti”, precisamente dall’art. 37, co. 18 e 19, oggi riprodotti e ampliati dai commi 17 e 18 dell’art. 48.
Il comma 17 inizialmente prevedeva che, “in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo ovvero procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione del mandatario ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante può recedere dal contratto”.
Nelle medesime circostanze, per il caso in cui tali eventi colpiscano una delle società mandanti, in base al comma 18 “il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”[7].
I due commi sono stati oggetto di una novella recata dal “decreto correttivo” n. 56/2017, il quale ha aggiunto una fattispecie al novero di quelle suddette in cui è consentita una modifica della compagine societaria: il caso in cui la mandataria ovvero una delle mandanti perdano, in corso di esecuzione, uno dei requisiti di cui all’art. 80. Il medesimo decreto ha altresì previsto, con l’introduzione del comma 19-ter all’art. 48, che “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”.
Il quesito ermeneutico sottoposto alla Plenaria verte proprio intorno al combinato disposto del comma 17 ovvero del comma 18, da un lato, e il comma 19-ter, dall’altro, in particolare con riguardo alle conseguenze in capo al R.T.I., nell’ipotesi in cui la mandataria o una delle mandanti vengano a difettare di uno dei requisiti generali di partecipazione: è possibile ricorrere ai “meccanismi riparativi” di cui ai commi 17 e 18, che consentono la sostituzione del soggetto colpito dalla causa escludente, solo se la sopravvenuta perdita occorre “in corso di esecuzione”, così come testualmente prevedono i commi 17 e 18, ovvero anche se ciò accade “in fase di gara”, per effetto di quanto disposto dal comma 19-ter?
Detto in altri termini, i commi 17 e 18, riferendosi alla “perdita … dei requisiti di cui all’articolo 80” che avvenga “in corso di esecuzione” mirano a escludere l’applicazione del comma 19-ter a questa fattispecie ovvero tale specificazione deve essere letta come ultronea o inutile ovvero ancora come coerente con l’impianto dei due commi, che si occupano di quanto accade nel corso dell’esecuzione del contratto, e pertanto non osta a che operi la predetta sostituzione, anche se il venir meno di uno dei requisiti generali sopraggiunge durante la “fase pubblicistica” della competizione?
Pare utile partire dall’analisi della posizione più restrittiva, che esclude l’applicabilità del comma 19-ter alla sopravvenuta perdita in corso di gara di un requisito di cui all’art. 80, per poi passare a esaminare quella più estensiva, che invece estende l’applicazione del comma 19-ter a tutte le ipotesi elencate dai commi 17 e 18.
4. L’interpretazione restrittiva: l’inapplicabilità dei commi 17 e 18 alla “fase di gara”.
Non poche sono state le sentenze che hanno deciso secondo l’interpretazione più restrittiva, per cui il comma 19-ternon si applicherebbe in caso di sopraggiunta mancanza di uno dei requisiti di cui all’art. 80 in fase di gara.
Gli argomenti, benché affrontati talvolta in modo più analitico, talaltra con modalità espositive più sintetiche, sono sostanzialmente sempre i medesimi[8].
Il primo si fonda su un’interpretazione sistematico-letterale delle disposizioni. Il punto di partenza è che i commi 17, 18 e 19 dell’art. 48 consentono che il raggruppamento possa modificare la propria composizione in conseguenza di un evento, occorso in fase di esecuzione, che priva uno dei suoi partecipanti della capacità di contrattare con la pubblica amministrazione[9]; la modifica soggettiva del raggruppamento è eccezionalmente possibile anche “nei casi previsti dalla normativa antimafia” e in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’art. 80 da parte della mandante o della mandataria.
Quest’ultima possibilità costituisce, però – per i fautori di tale opinione –, una deroga alla regola generale dell’immodificabilità del raggruppamento temporaneo rispetto alla composizione risultante dall’impegno presentato in sede di offerta, così come è sancita dall’art. 48, comma 9.
Per tale ragione la portata applicativa del comma 19-ter, che “estende espressamente la possibilità di modifica soggettiva per le ragioni indicate dai commi 17, 18 e 19 anche in corso di gara”, deve intendersi applicabile nei limiti e “con le precisazioni contenute nei detti commi”[10], ivi inclusa quella per cui la “perdita dei requisiti di cui all’art. 80 [è] circoscritta espressamente alla sola fase esecutiva”. Pena, altrimenti, lo svilimento o comunque la riduzione a nullità dell’inciso “in corso di esecuzione”.
Il secondo argomento si basa sui principi eurounitari in materia di contratti pubblici, così come ribaditi nel corso del tempo dalla giurisprudenza interna. Il diritto comunitario – ancora una volta per i sostenitori della tesi in argomento – non ammette che nella fase pubblicistica, deputata alla scelta del miglior offerente, l’A.T.I. sia attraversata da una modifica soggettiva, mediante l’addizione di un soggetto esterno alla gara: in caso contrario, ossia se venisse ammesso alla selezione un soggetto diverso da quello che ha presentato l’offerta, si finirebbe per violare la par condicio tra i concorrenti.
La ricognizione di questo principio sarebbe stata di recente consacrata dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 9/2021[11], che si è espressa sulla cosiddetta “sostituzione in riduzione” di uno dei partecipanti a un R.T.I. e ha affermato il principio di diritto per cui “l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter, del d. lgs. n. 50 del 2016, nella formulazione attuale, consente la sostituzione, nella fase di gara, del mandante di un raggruppamento temporaneo di imprese, che abbia presentato domanda di concordato in bianco o con riserva a norma dell’art. 161, comma 6, l. fall, e non sia stata utilmente autorizzato dal tribunale fallimentare a partecipare a tale gara, solo se tale sostituzione possa realizzarsi attraverso la mera estromissione del mandante, senza quindi che sia consentita l’aggiunta di un soggetto esterno al raggruppamento; l’evento che conduce alla sostituzione interna, ammessa nei limiti anzidetti, deve essere portato dal raggruppamento a conoscenza della stazione appaltante, laddove questa non ne abbia già avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di c.d. sostituibilità procedimentalizzata a tutela della trasparenza e della concorrenza, di assegnare al raggruppamento un congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere correttamente, e rapidamente, la propria partecipazione alla gara”.
Insomma, “la deroga all’immodificabilità soggettiva dell’appaltatore costituito in raggruppamento è solo quella dovuta, in fase esecutiva, a modifiche strutturali interne allo stesso raggruppamento, senza l’addizione di nuovi soggetti che non abbiano partecipato alla gara”: ciò, infatti, “contraddirebbe la stessa ratio della deroga, dovuta a vicende imprevedibili che si manifestino in sede esecutiva e colpiscano i componenti del raggruppamento, tuttavia senza incidere sulla capacità complessiva dello stesso raggruppamento di riorganizzarsi internamente, con una diversa distribuzione di compiti e ruoli (tra mandante e mandataria o tra i soli mandanti), in modo da garantire l’esecuzione dell’appalto anche prescindendo dall’apporto del componente del raggruppamento ormai impossibilitato ad eseguire le prestazioni o, addirittura, non più esistente nel mondo giuridico (perché, ad esempio, incorporato od estinto)”[12].
Tale approdo ermeneutico si porrebbe poi sul solco di una risalente giurisprudenza della Plenaria, addirittura antecedente al codice dei contratti pubblici, per cui in materia di gare pubbliche il divieto di modificazione della compagine delle associazioni temporanee di imprese o dei consorzi nella fase procedurale, ossia tra la presentazione delle offerte e la definizione della procedura di aggiudicazione, è finalizzato a impedire l’aggiunta o la sostituzione di imprese partecipanti all’A.T.I. o al consorzio con finalità elusive della legge di gara e in spregio alla tutela della par condicio[13].
Dunque, ancor prima del decreto correttivo la modificazione soggettiva dei componenti di un R.T.I. era sì ammessa ma solo in senso riduttivo, a condizione che le imprese che restano a far parte del raggruppamento risultino titolari, da sole, dei requisiti di partecipazione e di qualificazione[14].
Il terzo argomento è ancora di carattere testuale e attiene all’interpretazione letterale delle norme. A detta del Consiglio di Stato, il comma 19-ter rinvierebbe “alle ipotesi tipizzate ai precedenti commi, puramente e semplicemente, senza escludere per la perdita dei requisiti di cui all’art. 80 l’inciso «in corso di esecuzione»”: l’assenza di tale precisazione, “secondo un’interpretazione letterale e logica”, andrebbe “inteso nel senso di non consentire la modificazione soggettiva se l’evento si verifichi in corso di gara”[15].
Difatti, se “il legislatore avesse voluto estendere la rilevanza della perdita dei requisiti di cui all’art. 80 in corso di gara, lo avrebbe disposto con chiarezza, introducendo il doveroso distinguo nel testo del comma 19-ter”[16].
Tale conclusione sarebbe suffragata anche dall’impossibilità di poter “ipotizzarsi una «distrazione» del Legislatore nella formulazione della norma”: siccome il comma 19-ter è stato introdotto contestualmente alla novella dei commi 17 e 18, con la quale la fattispecie (antecedentemente non prevista) di perdita dei requisiti soggettivi è divenuta una ragione di possibile modificazione del raggruppamento, “sarebbe … del tutto illogico che l’estensione «alla fase di gara» di cui al comma 19-ter, introdotto dallo stesso ‘decreto correttivo’ vada a neutralizzare la specifica e coeva modifica del comma 18”[17] e dell’analogo comma 17.
In questi termini è dunque la tesi più restrittiva, in base alla quale le ragioni fin qui esposte dovrebbero indurre a ritenere che la perdita dei requisiti di cui all’art. 80 da parte della mandataria o di una delle mandanti “in fase di gara” determini l’esclusione dell’intero R.T.I., cui non è consentita alcuna modificazione soggettiva.
5. L’interpretazione estensiva: l’applicabilità dei commi 17 e 18 anche alla “fase di gara”.
Di diverso avviso un’altra parte della giurisprudenza amministrativa che, come la sentenza di primo grado che ha deciso il caso poi affrontato dalla Plenaria, ritiene che l’inciso “in corso di esecuzione” non osti all’applicazione del comma 19-ter anche all’ipotesi di perdita di uno dei requisiti generali in corso di gara[18].
Anche in questo caso il punto di partenza è, ovviamente, la lettera della norma: siccome i commi 17, 18 e 19 si riferiscono alla fase esecutiva del rapporto, l’estensione alla fase di gara delle modifiche soggettive esplicitamente prevista dal comma 19-ter non può che riferirsi – “senza distinzione alcuna”[19] – al complesso della disciplina recata dai tre commi.
Detto con parole diverse, l’inciso “in corso di esecuzione” riferito alla perdita dei requisiti di cui all’art. 80 sarebbe da leggersi in coerenza coi due commi (17 e 18) in cui è stato inserito, entrambi dedicati unicamente alla fase esecutiva del rapporto.
Basta leggere per intero il comma 18 per avvedersi che esso si riferisce espressamente (e solamente) alla fase esecutiva; nella parte in cui si disciplina la possibilità che la mandataria venga sostituita, si prevede infatti che “la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente Codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante deve recedere dal contratto”.
Altrettanto vale per il comma 17, nel quale è previsto che il mandatario, ove non indichi altra impresa al posto della mandante estromessa, “è tenuto alla esecuzione direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”.
Dunque, l’inciso aggiunto dal correttivo “…ovvero in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80” si inserirebbe “in modo del tutto coerente ed omogeneo in tale contesto regolatorio afferente i mutamenti intervenuti in corso di esecuzione. In particolare, la locuzione «in corso di esecuzione», di cui all’inciso aggiunto, è neutra o al più superflua dato il contesto in cui è inserita”[20].
Alle medesime conclusioni – sempre secondo questa certa giurisprudenza – conduce anche la ratio della novella legislativa di cui si è detto, che sarebbe “quella di apportare una deroga al principio dell’immodificabilità alla composizione dei raggruppamenti, al fine di evitare che un intero raggruppamento sia escluso dalla gara a causa di eventi sopraggiunti comportanti la perdita dei requisiti di ordine generale da parte di un’impresa componente”[21].
Se l’obiettivo del legislatore è quello di garantire la partecipazione degli operatori non colpiti da uno degli eventi elencati nei commi 17 e 18 costituiti in raggruppamento, evitando che la patologia di un operatore travolga ingiustamente anche gli altri, salvaguardando al contempo l’interesse pubblico della stazione appaltante a non perdere offerte utili, allora non vi sarebbe alcuna “ragione di operare distinzioni fra le varie sopraggiunte cause di esclusione”[22].
Peraltro, una interpretazione siffatta esclude di per sé il rischio di abuso di tale strumento, dato che la modifica soggettiva è possibile solo nei casi di sopravvenuta carenza dei requisiti, e non nell’ipotesi di “mancanza” ab origine, sussistente fin dalla data della presentazione della domanda di partecipazione.
6. L’ordinanza di rimessione alla Plenaria.
Così ricostruito il contrasto creatosi in seno al Consiglio di Stato, si può comprendere il motivo per cui la Quinta Sezione, con l’ordinanza n. 6959/2021, lo scorso 18 ottobre 2021 ha sottoposto il seguente quesito all’Adunanza Plenaria: “se sia possibile interpretare l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 nel senso che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 da parte del mandatario o di una delle mandanti è consentita non solo in fase di esecuzione, ma anche in fase di gara”. A tale richiesta ne è stata aggiunta una seconda, subordinata al caso in cui venisse data risposta positiva alla prima: “precisare la modalità procedimentale con la quale detta modifica possa avvenire, se, cioè, la stazione appaltante sia tenuta, anche in questo caso, ed anche qualora abbia già negato la autorizzazione al recesso che sia stata richiesta dal raggruppamento per restare in gara avendo ritenuto intervenuta la perdita di un requisito professionale, ad interpellare il raggruppamento, assegnando congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere la propria partecipazione alla gara”.
Ci si dedicherà allora precipuamente a indagare le ragioni per cui il Collegio rimettente abbia ritenuto necessario coinvolgere l’Adunanza Plenaria.
L’ordinanza in parola, a differenza delle sentenze cui appartengono entrambi gli orientamenti descritti nei due paragrafi che precedono, mette innanzitutto l’accento sul dato letterale, affermando che, a ben riflettere, “non pare decisivo per ricavare la regola della fattispecie”: difatti l’inciso “in corso di esecuzione” – sulla cui presenza i fautori dell’interpretazione più restrittiva si sono concentrati per sostenere che costituisse un ostacolo all’applicazione del comma 19-ter anche all’ipotesi di sopraggiunta perdita dei requisiti di ordine generale – potrebbe essere stato inserito “per evitare il possibile dubbio interpretativo che il richiamo ai «requisiti di cui all’art. 80» vale a dire a quei requisiti – e a quell’articolo del codice – la cui verifica si compie in fase procedurale avrebbe potuto far sorgere circa l’effettivo ambito applicativo della disposizione”.
Insomma, “senza che lo si dica inutile o superfluo come fatto dal giudice di primo grado, od anche illogico”, l’inserzione di quell’inciso potrebbe avere[23] lo scopo di evitare un equivoco.
Oltre a ciò, continua il Giudice, non si può dubitare che risponda a logica “l’argomento per il quale se il legislatore, introducendo il comma 19-ter all’interno dell’art. 48, avesse voluto far eccezione alla deroga e ripristinare il principio di immodificabilità del raggruppamento in caso di perdita dei requisiti generali di cui all’art. 80 del codice in fase di gara, la via maestra sarebbe stata quella di operare la distinzione all’interno dello stesso comma 19-ter, senza dar vita ad un arzigogolo interpretativo”: è infatti ben possibile sostenere che con il rinvio alle “modifiche soggettive” dei commi 17, 18 e 19, la disposizione dovrebbe consentire la modifica del raggruppamento in fase di gara per il caso in cui si presentino una tra tutte le sopravvenienze ivi previste, compresa la perdita dei requisiti generali, senza eccezioni di sorta.
Al contempo, l’ordinanza mette in guardia dal ritenere che il problema possa essere risolto così facilmente, dato che “una distonia e contraddizione tra le norme” indubbiamente c’è ed essa ricorrerebbe su di un duplice piano.
Sul piano interno, a voler seguire l’interpretazione restrittiva e quindi consentendo la modifica soggettiva del raggruppamento in corso di gara in caso di impresa sottoposta a procedura concorsuale o raggiunta da interdittiva antimafia e non invece nel caso in cui la stessa abbia perso uno o più dei requisiti generali, si finirebbe per ammettere la riorganizzazione dell’associazione di imprese in ipotesi che paradossalmente “risultano per più versi maggiormente allarmanti per l’interesse pubblico delle altre per le quali si vuole escluso”; e ciò senza tener conto del fatto che tutte le fattispecie previste nei commi 17 e 18, benché ciascuna abbia la sua peculiarità, sono accumunate dal fatto di essere “incidenti” che denotano la perdita dell’integrità dell’operatore economico per la sua condotta professionale[24] ovvero la perdita dell’affidabilità circa la sua capacità di eseguire le prestazioni oggetto del contratto in affidamento[25].
Sempre sul piano interno, il Collegio fa notare la possibile distonia tra la possibilità, oggi concessa dai commi 17 e 18, a seguito dell’intervento del “decreto correttivo”, di modificare – in fase di esecuzione – i componenti del raggruppamento anche in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80, “quand’ormai la stazione appaltante ha ben poche possibilità di vagliare l’affidabilità del raggruppamento per come riorganizzatosi al venir meno di un suo componente, con ogni possibile incertezza sulla residuata capacità di esecuzione”, e l’impossibilità di operare la medesima modifica “in fase di gara quando è ancora in tempo ad effettuare ogni verifica sui rimanenti componenti”: scelta che – se il legislatore effettivamente avesse compiuto – parrebbe effettivamente poco logica.
Quanto al piano esterno, l’interpretazione estensiva non dovrebbe essere foriera di problemi, “perché se è vero che la deroga al principio di immodificabilità dei raggruppamenti per sopravvenuto assoggettamento a procedura concorsuale di un soggetto aggregato o per adozione nei suoi confronti di una misura prevista dalla normativa antimafia evita che le vicende dell’uno possano ripercuotersi su tutti gli altri, in situazioni in cui non sia incisa la capacità complessiva dello stesso raggruppamento che, riorganizzatosi al suo interno, sia ancora in grado di garantire l’esecuzione dell’appalto”, è indubbio, seguendo questa via di ragionamento, che le medesime “ragioni possano condurre a dire giustificata la deroga all’immodificabilità del raggruppamento per la perdita dei requisiti generali di partecipazione e, specularmente, a dire non giustificato un diverso trattamento di detta vicenda”.
Sembra quindi che non pochi siano gli aspetti problematici che genererebbe l’adesione alla tesi restrittiva, benché residui un problema di contraddizione tra norme, a voler sposare l’interpretazione estensiva.
Ebbene, essendosi già verificato (e prospettandosi ancora possibile) un contrasto giurisprudenziale per differente ermeneutica delle norme suddette, la Quinta Sezione ha rimesso la causa all’Adunanza Plenaria, affinché questa risponda ai quesiti sopra riportati.
7. La decisione dell’Adunanza Plenaria.
Vale la pena partire dalle conclusioni, per poi analizzare punto per punto il ragionamento offerto dall’Adunanza Plenaria. Quest’ultima ha ritenuto “che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese, in caso di perdita dei requisiti di partecipazione di cui all’art. 80 d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 (Codice dei contratti pubblici) da parte del mandatario o di una delle mandanti, è consentita non solo in sede di esecuzione, ma anche in fase di gara, in tal senso interpretando l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter del medesimo Codice. Ne consegue che, laddove si verifichi la predetta ipotesi di perdita dei requisiti, la stazione appaltante, in ossequio al principio di partecipazione procedimentale, è tenuta ad interpellare il raggruppamento e, laddove questo intenda effettuare una riorganizzazione del proprio assetto, onde poter riprendere la partecipazione alla gara, provveda ad assegnare un congruo termine per la predetta riorganizzazione”.
Prima di risolvere i quesiti devoluti, il Giudice propone alcune osservazioni preliminari, utili a “inquadrare” la tematica oggetto del contendere.
La prima concerne la regola generale contenuta nell’art. 48, co. 9, a mente del quale “è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta”, fatto “salvo quanto disposto ai commi 17 e 18”, i quali quindi costituiscono – per espressa previsione legislativa – due ipotesi eccezionali al predetto principio.
Le due disposizioni – scrive la Plenaria – debbono essere interpretate alla luce di quanto affermato dalla propria sentenza n. 10/2021, per cui la sostituzione del mandatario o della mandante è consentita unicamente “con un altro soggetto del raggruppamento stesso in possesso dei requisiti”; negli stessi termini – ossia solo mediante una sostituzione “in diminuzione” e mai “per addizione[26]” – deve leggersi il comma 19, che ammette il recesso di una o più imprese raggruppate “esclusivamente per esigenze organizzative del raggruppamento”; è vietato valersi di questi “meccanismi” per “eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara”[27].
Il comma 9 cristallizza dunque il principio generale di “immodificabilità” della composizione del raggruppamento, di cui costituiscono eccezioni sia le due ipotesi di cui ai commi 17 e 18, richiamati dallo stesso comma 9, che quella di cui al comma 19: una pluralità di esclusioni – commenta la Plenaria – “tali per la verità (stante il loro numero) da render[e] sempre meno concreta l’applicazione” del principio in parola, se si pensa che a esse deve pure aggiungersi il più volte citato comma 19-ter[28].
Fatte tali premesse, si può quindi passare a esaminare il problema interpretativo.
8. L’antinomia assoluta.
A detta della Plenaria, la difficoltà di dare applicazione ai commi 17, 18 e 19-ter sarebbe ingenerato da una “antinomia normativa”, causata da “una tecnica legislativa non particolarmente sorvegliata”[29].
Come già si è detto, l’art. 32, co. 1, lett. h), d. lgs. 19 aprile 2017, n. 56, ha introdotto nel testo dell’art. 48, per quel che qui interessa, due modifiche: la prima ai commi 17 e 18, aggiungendo alle sopravvenienze già ivi presenti anche il “caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’art. 80”; la seconda consistente nell’aggiunta dell’intero comma 19-ter, il quale prevede che “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”.
Per il Consiglio di Stato l’antinomia si concreterebbe nel fatto che, da un lato, “il riferimento espresso al «corso dell’esecuzione», contenuto nei commi 17 e 18, farebbe propendere per ritenere l’ipotesi di «perdita dei requisiti di cui all’art. 80», come limitata ad una sopravvenienza che si verifichi in quella fase”; dall’altro lato, che “l’ampia dizione del comma 19-ter rende[rebbe] applicabili tutte le modifiche soggettive contemplate dai commi 17 e 18 (quindi anche la predetta «perdita dei requisiti di cui all’art. 80»), anche in fase di gara”.
Prima di passare in rassegna la modalità con cui l’Adunanza Plenaria ha risolto l’antinomia, vale la pena ricordare cosa essa sia.
Il termine ‘antinomia’ significa opposizioni di norme o regole[30], incompatibilità tra di esse[31]: è la situazione per cui due norme non possono essere entrambe vere (cioè validamente applicabili)[32]. Più precisamente, perché si abbia un’antinomia è necessario che le norme appartengano allo stesso ordinamento e che le stesse abbiano lo stesso àmbito di validità (temporale, spaziale, personale, materiale). A sua volta, a seconda che l’àmbito di validità sia uguale, in parte uguale e in parte diverso, in parte uguale ma non anche in parte diverso, l’antinomia si presenta, rispettivamente, come “totale-totale”, “parziale-parziale”, “totale-parziale”[33]; gli interpreti ritengono tuttavia che solo la prima sia la vera antinomia[34], quella che viene anche denominata antinomia assoluta, posta da fonti contemporanee, entrambe generali (o entrambe speciali), equiparate gerarchicamente e ambedue competenti[35].
Non sono poi molti i casi in cui si riscontrano delle antinomie di tal fatta, non rinvenendosi poi così spesso nell’ambito di uno stesso atto normativo una incompatibilità tra disposizioni non risolvibile mediante semplice interpretazione[36]: in queste ipotesi, il contrasto è talmente importante che il più delle volte il legislatore è obbligato a intervenire direttamente, emanando una norma abrogativa o modificativa di una delle due disposizioni in conflitto[37].
Vale allora la pena di capire se, alla luce di queste coordinate, le due disposizioni che riguardano la fattispecie di nostro interesse (i commi 17 e 18, da un lato, e il comma 19-ter, dall’altro) siano effettivamente in opposizione tra loro.
Le due norme “che non possono essere entrambe vere” sono le seguenti: la prima, “in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico …” (così il comma 17 e specularmente il comma 18[38]) e la seconda, “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara” (così comma 19-ter).
A onor del vero, non pare così scontato che ci si trovi davanti a un caso di antinomia: o meglio, il contrasto insanabile tra le due disposizioni si rinviene, solo se si accede a una certa lettura delle stesse; precisamente, si ha antinomia se l’inciso “in corso di esecuzione” si interpreta in senso fortemente esclusivo, ossia come “solo in corso di esecuzione”.
Diversamente, infatti, il comma 19-ter, che prevede l’applicazione dei commi 17, 18 e 19 “anche” in fase di gara, lascia chiaramente intendere che le tre disposizioni trovano applicazione di per sé in fase di esecuzione e, per effetto della novella, “anche” in quella successiva: aderendo a questa interpretazione, non si avrebbe alcuna antinomia.
Beninteso, non si intende con queste righe banalizzare o semplificare il problema ermeneutico affrontato dalla Plenaria, bensì dimostrare che l’interpretazione letterale delle disposizioni, alla luce della loro ratio, consente un’esegesi che dà loro un significato, in grado di superare i dubbi applicativi, senza, peraltro, privare di significato – o considerare tamquam non esset – l’inciso “in corso di esecuzione. Non è questa, però, la strada seguita dal Consiglio di Stato, che invece rinviene un’antinomia assoluta tra le due disposizioni sopra enunciate.
Sulla prima già si è detto molto: l’espressione “in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80” farebbe “propendere per ritenere l’ipotesi di «perdita dei requisiti di cui all’art. 80», come limitata ad una sopravvenienza che si verifichi in quella fase”.
Sulla seconda, che genererebbe un’antinomia con la precedente, se letta nel senso per cui “l’ampia dizione del comma 19-ter” sia tale da rendere “applicabili tutte le modifiche soggettive contemplate dai commi 17 e 18 (quindi anche la predetta «perdita dei requisiti di cui all’art. 80»), anche in fase di gara”, deve ancora indugiarsi.
Si deve infatti evidenziarne in primis il carattere poco perspicuo: risulta difficilmente comprensibile, in questo specifico contesto, l’utilizzo dell’espressione ‘modifiche soggettive ivi contemplate’.
Essa rinvia evidentemente ai tre commi più volte citati, 17, 18, e 19: le “modifiche soggettive” di cui si discorre nelle tre disposizioni sono, rispettivamente, la facoltà per “la stazione appaltante [di] proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice”, l’obbligo per il “mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, [di eseguire], direttamente o a mezzo degli altri mandanti” i lavori o i servizi o le forniture ancora da eseguire, il “recesso di una o più imprese raggruppate”.
Se così si devono intendere le “modifiche soggettive ivi contemplate”, ci si accorge ben presto che il comma 19-ter non ha alcun significato. Volendo fare un esempio concreto (prendendo il caso che ha riguardato la sentenza in commento), la norma che si ricava dalla disposizione in parola avrebbe questo tenore: “la previsione di cui al comma 18”, ossia l’obbligo per il mandatario di eseguire i servizi, nel caso in cui, il mandante, in corso di esecuzione, perda uno dei requisiti di cui all’articolo 80[39], trova applicazione anche laddove la modifica soggettiva contemplata nel comma 18, ossia la sostituzione del mandante pretermesso con altro operatore già parte del R.T.I., si verifichi in fase di gara.
Ci si avvede subitamente che non ha alcun senso prevedere l’applicazione dei commi 17, 18 e 19 “anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”; semmai, i meccanismi sostitutivi previsti da quei commi spiegheranno effetti anche laddove le sopravvenienze ivi contemplate si verifichino in fase di gara. È infatti evidente che la modifica soggettiva si potrà avere, ossia potrà dirsi autorizzabile dalla stazione appaltante, al ricorrere di uno di quelli eventi elencati dalla disposizione. Detto in altro modo, è il comma 19-ter a consentire la modifica soggettiva (ossia l’applicazione dei commi 17, 18 e 19) in fase di gara: ciò, però, non allorquando “le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”, bensì per l’ipotesi in cui quei certi “incidenti di percorso” (procedure concorsuali, perdita dei requisiti ex art. 80 ecc.) si verifichino in corso di gara.
La giurisprudenza che si è occupata del tema sembra aver ignorato un dettato legislativo così maldestro, interpretando il comma 19-ter sempre nei termini appena detti, benché non possa passare sottotraccia che anche tale formulazione letterale debba attribuirsi a una “tecnica legislativa non particolarmente sorvegliata”, per usare le parole della Plenaria.
Se questo è allora il significato – probabilmente l’unico – da attribuirsi al comma 19-ter, la norma che si ricava quanto al caso che ci riguarda sarà la seguente: “la previsione di cui al comma 18”, ossia l’obbligo per il mandatario di provvedere all’esecuzione dei servizi, nel caso in cui il mandante, in corso di esecuzione, perda uno dei requisiti di cui all’articolo 80[40], trova applicazione anche laddove la sopravvenienza contemplata nel comma 18, ossia la perdita, in corso di esecuzione, di uno dei requisiti di cui all’articolo 80, si verifichi in fase di gara.
Anche al termine della ricostruzione di questi passaggi ermeneutici, ci si avvede che non è poi antinomica la previsione di estendere determinati effetti all’ipotesi in cui un certo evento (la perdita di uno dei requisiti di cui all’articolo 80), pensato per accadere in corso di esecuzione, si verifichi invece in fase di gara.
Tale conclusione è ancora più vera, se si considera il caso ipotetico (e radicale) in cui sia al comma 17 che al comma 18 fosse anteposto l’inciso “in corso di esecuzione”, riferito a tutte le ipotesi ivi contemplate: nulla sarebbe cambiato quanto all’applicazione del comma 19-ter, che richiama le sopravvenienze ivi elencate, ossia gli accadimenti riportati dalle tre disposizioni, nella consapevolezza (del legislatore) che i tre commi hanno effetti in corso di esecuzione ed è dunque necessaria un’altra disposizione (il comma 19-ter) per estenderne la portata applicativa anche alla fase di gara.
Non ha dunque senso sostenere che il richiamo del comma 19-ter alle fattispecie elencate ai commi 17, 18 e 19 sarebbe da intendersi nei limiti e “con le precisazioni contenute nei detti commi”[41], perché è evidente che tutte quelle fattispecie si riferiscono a sopravvenienze in corso di esecuzione del contratto: se così non fosse stato, non ci sarebbe stato bisogno di introdurre il comma 19-ter ed estendere gli effetti di quelle disposizioni alla fase antecedente all’esecuzione del contratto.
Vale comunque la pena, nonostante, per quel che si è detto, si debba fare un certo sforzo per vedere un’antinomia nelle due disposizioni suddette, proseguire l’analisi del ragionamento dell’Adunanza Plenaria.
9. I criteri di risoluzione delle antinomie.
In presenza di un’antinomia – è noto – deve darsi applicazione ai cosiddetti criteri di risoluzione, che sono il criterio cronologico, quello gerarchico e quello di specialità.
Non è questa la sede per ripetere concetti risaputi e ben noti a tutti gli interpreti: ci si limerà quindi a qualche sintetica considerazione in merito. Quanto al criterio cronologico, vale la pena ricordare che esso “esprime l’essenziale temporalità di ogni ordinamento positivo”[42], andando a regolare il conflitto tra norme poste da atti normativi dello stesso tipo secondo quanto dispongono i diversi ordinamenti positivi (ad esempio, nel nostro ordinamento, le varie figure di legge: costituzionale, ordinaria, regionale; i vari tipi di regolamento: governativo, ministeriale, regionale, provinciale, comunale, ecc.). Sulla base di tale criterio si risolvono quindi “antinomie «apparenti» tra norme incompatibili poste nell’àmbito dello stesso tipo di fonte e non già tra norme appartenenti a fonti diverse”[43]. Per la soluzione di queste ultime antinomie varranno i criteri stabiliti dai singoli ordinamenti positivi, i quali, differenziando i tipi di atti normativi stabiliscono pure, esplicitamente o implicitamente, le (possibili) relazioni tra le norme corrispondenti. Il criterio cronologico si applicherà quindi in ogni altra ipotesi, con l’effetto, di carattere relativo, di incidere non sulla validità della norma abrogata, bensì sulla sua limitazione di efficacia (pro futuro).
Il secondo criterio è quello gerarchico, in base al quale, in caso di antinomia fra norme collocate a livelli gerarchici diversi, la norma superiore “rende annullabile”[44] quella inferiore irregolare: nel nostro ordinamento antinomie fra una norma costituzionale e una contenuta in una legge ordinaria vengono regolate secondo il criterio in parola (artt. 134, 136 e 138 Cost.), così come fra una norma contenuta in una legge e una contenuta in un regolamento (art. 4, co. 1, Prel.); è vero comunque che la maggior parte dei rapporti sono positivamente disciplinati sulla base della ripartizione e separazione delle competenze normative, per cui più sovente è il criterio della competenza a trovare applicazione, come sottospecie di quello della gerarchia[45].
Il terzo criterio è quello della specialità, per il quale, in caso di antinomia totale-parziale fra due norme (per cui l’àmbito di validità delle stesse è in parte uguale ma non anche in parte diverso), quella speciale fa eccezione a quella generale: l’attività si risolve, più che nella rilevazione della sola norma valida in un ordinamento, nella individuazione della norma applicabile al caso di specie, ossia nella restrizione della portata della disposizione generale e nella corrispondente applicazione della norma speciale derogatoria[46].
Venendo quindi all’applicazione dei criteri suddetti nella fattispecie di nostro interesse, la Plenaria scrive che le disposizioni in contrasto tra loro sono contestuali dal punto di vista temporale, essendo “riferibili ed introdotte dalla medesima fonte”: il che, oltre a rendere inapplicabile il criterio cronologico, impedisce pure di ricorrere a quello gerarchico e a quello di specialità.
Il Collegio passa dunque a indagare, “in applicazione dell’art. 12 disp. prel cod. civ., [la] lettera delle disposizioni” e la “«volontà del legislatore»”.
Non è questo, tuttavia, l’approccio suggerito dalla dottrina più autorevole[47]. Nel caso in cui due norme con la stessa sfera di validità, contemporanee, pariordinate e appartenenti alla stessa sfera di “competenza” normativa, entrambe generali o speciali, siano in contrasto tra loro, ossia generino un’antinomia, non vi è alcun criterio che possa soccorrere e ciò “fa sì che l’antinomia si converta in lacuna delle norme sulla normazione”[48]: difatti, il problema della coerenza dell’ordinamento giuridico si converte in una questione sulla completezza dello stesso, dal momento che anche le norme sulla normazione (e quindi i criteri di risoluzione delle antinomie) fanno parte integrante dell’ordinamento giuridico[49].
Si è cercato quindi un quarto criterio per risolvere tali antinomie insolubili: il criterio storicamente proposto “è quello che veniva tratto dalla forma della norma”[50]. Il termine ‘forma’ viene utilizzato per riferirsi al “modo di presentarsi della prescrizione”, ovverosia il “modo deontico”: obbligo (positivo), o divieto (obbligo negativo), permesso (positivo o negativo)[51]. Ci si domanda quindi se, a parità di grado, di sfera di validità, di tempo, di generalizzazione-specializzazione, sia possibile preferire l’una rispetto all’altra qualificazione del comportamento.
La risposta si trae da uno dei principi storico-positivi dell’ordinamento giuridico complessivamente inteso, per cui esso, nella sua ideologia di fondo, ha una ispirazione liberale (tendenzialmente permissiva): in sostanza, considerando i modi deontici delle norme di comportamento, bisognerebbe stabilire una precisa prevalenza fra obblighi, divieti, permessi e facoltà secondo un’interpretazione che favorisce la lex permissiva su quella imperativa[52]. Detto altrimenti, se è vero che “tutto ciò che non è comandato (obbligatorio o vietato) è permesso”, sembrerebbe allora di poter preferire, nella situazione antinomica, il permesso al comando, positivo o negativo che sia.
Ciò vale per il caso in cui la norma giuridica in esame non sia bilaterale, altrimenti la preminenza del permesso sull’imperativo si risolve, corrispondentemente, nella preferenza della norma imperativa rispetto a quella permissiva nei confronti dell’altro destinatario. Il criterio può ritenersi valido e pacificamente applicabile, quindi, solo nell’ipotesi di antinomia tra norme che non presentino il carattere della bilateralità (per esempio, tra due norme che impongono «doveri» od «obblighi» o, rispettivamente, «permessi», senza che al dovere o all’obbligo corrisponda una situazione attiva di pretesa, di diritto, di interesse giuridicamente protetto[53]).
Proprio il carattere bilaterale della norma – a ogni diritto corrisponde un dovere – ha smorzato l’entusiasmo nei confronti del criterio fin qui enunciato: è infatti evidente che quando ad una norma permissiva corrisponde una norma “imperativa”, la preminenza del permesso sull’imperativo (o, meglio, della norma permissiva sulla norma imperativa) nei confronti di uno dei due destinatari della norma o delle norme (ad es. il debitore) si risolve, corrispondentemente, nella preferenza dell’imperativo sul permesso (o, meglio, della norma imperativa su quella permissiva) nei confronti dell’altro destinatario (ad es. del creditore). Il vero problema, allora, non è di far prevalere la norma permissiva sull’imperativa, o viceversa, ma di stabilire quale dei due soggetti del rapporto giuridico, ossia quale dei due interessi in conflitto debba avere la prevalenza[54].
Il criterio, insomma, lascia la scelta all’interprete, rivelandosi quindi, più che un vero e proprio criterio di soluzione delle antinomie, “un canone ermeneutico per la composizione di disposizioni contrarie o contraddittorie e di individuazione o deduzione della norma applicabile”[55]. Sia che si tratti, ad esempio, di preferire la norma permissiva rispetto a quella imperativa, sia di ricavare da due disposizioni contrarie la norma permissiva, l’operatore-interprete non elimina né la norma imperativa nel primo caso, né alcuna delle due potenziali norme imperative (di obbligo o di divieto) nel secondo, ma semplicemente da due disposizioni o espressioni normative tra loro contraddittorie o contrarie ricava e presceglie per l’applicazione la norma permissiva.
La strada cui conduce l’applicazione del presente criterio è quindi quella della “conservazione” di entrambe le norme incompatibili, attraverso la cosiddetta interpretazione correttiva, che presuppone il riconoscimento della semplice “apparenza” dell’antinomia: in essa non vi è modificazione alcuna delle disposizioni (apparentemente) contrastanti, ma semplicemente una possibile diversa interpretazione di un’espressione contenuta nel testo normativo.
Come si è visto, invece, l’Adunanza Plenaria non ha esplorato il “criterio deontico”. E così, dopo aver registrato l’inapplicabilità dei tre criteri di risoluzione delle antinomie classici, ha affermato che non vi sarebbero “elementi utili all’interprete [che] possono essere ricavati, in applicazione dell’art. 12 disp. prel cod. civ., dalla lettera delle disposizioni”[56], né qualche aiuto esegetico potrebbe ricavarsi dalle tradizionali fonti utilizzate per ricostruire la volontà del legislatore: la relazione illustrativa al d. lgs. n. 56/2017 si riduce a “poco più di una parafrasi del testo normativo”.
Ci si propone allora di tentare la strada dell’interpretazione correttiva, onde esplorare un diverso iter che porti ad appianare il contrasto ermeneutico insorto.
10. L’interpretazione correttiva.
Già si è detto che ad avviso di chi scrive non è poi antinomica la previsione di estendere determinati effetti all’ipotesi in cui un certo evento (la perdita di uno dei requisiti di cui all’articolo 80), pensato per accadere in corso di esecuzione, poi si verifichi in fase di gara.
Ad ogni modo, è innegabile che il dettato letterale abbia provocato la formazione di due orientamenti giurisprudenziali contrapposti: per lo meno, quindi, le disposizioni di interesse danno luogo a problemi interpretativi, che devono risolversi a mezzo di appositi criteri.
I criteri interpretativi sono i medesimi strumenti che ha a disposizione il giudice, nel caso in cui non rinvenga un’antinomia assoluta insolubile, ma anche nel caso più semplice e comune in cui vi siano due norme apparentemente incompatibili. La filosofia del diritto conosce nove argomenti giuridici[57], che rappresentano un sottoinsieme del più ampio insieme degli argomenti retorici: oltre ai quattro menzionati dall’art. 12 delle Preleggi, ve ne sono altri cinque.
Il primo di essi è l’argomento letterale o, come nell’art. 12 Prel., del “significato proprio delle parole”, che invoca il rispetto del vincolo rappresentato dal significato utilizzato dal legislatore: serve a ottenere un’interpretazione meramente linguistica, cui deve sempre seguire un’interpretazione in senso stretto, o giuridica. Il secondo è l’argomento psicologico o, come nell’art. 12 Prel., dell’“intenzione del legislatore”, che richiede di attribuire a una disposizione il significato attribuitole da chi l’ha concepita. Il terzo è l’argomento a contrario, definito come l’argomento per cui, se il legislatore “ha esplicitamente prescritto una certa disciplina per un certo oggetto, ha implicitamente prescritto la disciplina opposta per qualsiasi altro oggetto”[58]. Il quarto argomento è la cosiddetta analogia legis o argomento a simili, codificata nel diritto italiano dal secondo comma dell’art. 12 Prel., per cui, “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Questo secondo inciso dell’art. 12, per vero, è un argomento a sé stante, la cosiddetta analogia iuris, per cui si ricava una norma implicita a partire da principi (generali, ma anche costituzionali).
Vi sono poi l’argomento della dissociazione, per cui l’interpretazione conduce a distinguere dal caso generico regolato un altro sotto-caso più specifico[59]; l’argomento teleologico o della ratio legis, che richiede di interpretare una disposizione secondo la sua ratio, “in base ai fini o scopi oggettivamente perseguiti dalla norma”[60]; l’argomento sistematico, che, più che un singolo argomento, è una famiglia di argomenti, accumunati dall’esigenza “che la norma da individuare sia comunque compatibile con le altre norme ordinate in una stessa sistematica”[61]: fra gli argomenti sistematici, si ricordano quello topografico o della sedes materiae, quello dogmatico, quello della coerenza e l’interpretazione adeguatrice; vi è infine l’argomento equitativo, per il quale bisogna scegliere l’interpretazione più conforme all’equità (da intendersi come giustizia nel caso specifico) o alla giustizia (del caso generico)[62].
Ebbene, così riassunti i principi da applicarsi alla fattispecie e consideratene le sue peculiarità, vi è che l’argomento letterale, analogico, psicologico, a contrario e quello della dissociazione non sono utili per risolvere il nostro caso, benché, come già si è scritto, sia una certa lettura dell’inciso “in corso di esecuzione” ad aver esacerbato il dibattito sulla questione e ad aver reso, per alcuni, inutile la sola interpretazione letterale.
Di poco aiuto è l’argomento teleologico, che comunque è bene distinguere dall’argomento psicologico, avendo un tratto interpretativo di tipo oggettivo. L’argomento teleologico richiede di risalire “all’oggettivo scopo della legge, non alla soggettiva intenzione del legislatore”[63]: di conseguenza, mentre quest’ultima resta sempre uguale a sé stessa, l’oggettivo scopo della legge può cambiare nel tempo. L’argomento teleologico viene dunque utilizzato per fornire un’interpretazione evolutiva o innovatrice, mentre l’argomento psicologico per una lettura “originalista” o conservatrice. Nel nostro caso, trattandosi di assai disposizioni recenti, non vi è l’esigenza di adeguarle al mutato spirito dei tempi, della legge o dell’ordinamento.
Sembra, invece, decisivo l’argomento detto sistematico, in particolare il sotto-argomento topografico e quello della coerenza.
Il punctum pruriens è la presenza e la collocazione dell’inciso “in corso di esecuzione” nei commi 17 e 18. La Plenaria, così come anche il Giudice rimettente, non trovano convincente la tesi per cui tale espressione potrebbe essere superflua, benché, considerato che la tecnica legislativa è stata “poco sorvegliata”, è un risultato che non dovrebbe poi stupire molto.
Sulla possibilità di risolvere il conflitto anche attraverso una mera esegesi letterale, già si è detto. Vi è comunque un’altra ragione che giustifica quell’esito ermeneutico e l’esistenza di questa precisazione: i commi 17 e 18 sono originariamente stati concepiti come disposizioni aventi efficacia nella fase esecutiva del rapporto; i requisiti di cui all’art. 80 sono, invece e a rigore, ragioni di esclusione dell’operatore economico “dalla partecipazione a una procedura d’appalto” e la verifica dell’insussistenza di ragioni di esclusione riguarda precipuamente la fase della selezione (o comunque la fase anteriore alla stipulazione del contratto), non la fase esecutiva: del resto, benché tale condizione di “irriprensibilità morale” debba sussistere per tutta la durata dell’appalto, non vi sono dei momenti codificati nei quali, nella fase esecutiva, la stazione appaltante debba procedere a verifiche della persistenza di tali requisiti in capo all’aggiudicatario.
Insomma, sembra possibile affermare che l’inciso fosse funzionale a non creare equivoci, ossia a inserire una previsione, com’è quella della perdita dei requisiti di cui all’art. 80, tipicamente afferente alla fase procedurale, in una disposizione riguardante ciò che accade all’indomani della stipulazione del contratto.
Sempre utilizzando l’argomento topografico, sarebbe inspiegabile la scelta del legislatore di inserire un’eccezione alla facoltà consentita dal comma 19-ter in un comma che lo precede, ossia il comma 17 ovvero il comma 18. Difatti, a voler seguire questa interpretazione, l’inciso “in corso di esecuzione” a una prima lettura della norma, che proceda dal primo all’ultimo comma dell’art. 48, non avrebbe alcun significato, bensì lo acquisterebbe solo dopo aver letto il comma 19-ter. Al di là dell’“arzigogolo interpretativo” che si avrebbe, pare evidente che il legislatore non possa aver novellato le disposizioni in questo modo.
Vi sono poi ragioni di coerenza – e si viene qui all’argomento omonimo, parte della “famiglia” dell’argomento detto sistematico – che impongono di non vedere un’eccezione, là dove essa non c’è. Il comma 19-ter, benché formulato in modo discutibile e poco perspicuo, è chiaro nei suoi intenti: rendere possibili le modifiche soggettive previste dai commi 17, 18 e 19 anche “nella fase di gara”, laddove le sopravvivenze ivi contemplate si verifichino in questa specifica fase. L’argomento della coerenza impone di non creare antinomie con altre norme collocate allo stesso livello gerarchico: è evidente, invece, che l’introduzione per via interpretativa di una eccezione a una certa regola in un luogo diverso da dove quella stessa regola è sancita non risponde a coerenza. Se il comma 19-ter avesse inteso prevedere un’eccezione, non si sarebbe espresso in termini così piani da non lasciar intendere che ve ne siano: e ciò a maggior ragione nel caso di specie, in cui la modifica dei commi 17 e 18 è coeva all’introduzione del comma 19-ter.
Decisiva si presenta infine l’interpretazione adeguatrice, ossia quell’argomento che impone all’interprete di non produrre antinomie con norme collocate a un livello gerarchico superiore. Tipica dell’interpretazione costituzionale, essa rappresenta quel sottotipo di argomentazione sistematica, che consiste nell’attribuire a una disposizione solo significati conformi a costituzione o comunque a quei principi generalissimi su cui si fonda una certa materia.
Tale metodo interpretativo si concretizza in un controllo di ragionevolezza, ossia in un esame comparativo finalizzato a stabilire se il legislatore abbia legiferato ragionevolmente, trattando casi uguali in modo uguale e casi diversi in modo diverso.
Un lettore attento delle sentenze che hanno sostenuto l’interpretazione restrittiva non avrà mancato di notare che nessun interprete è stato in grado di argomentare la ragione per cui la perdita dei requisiti ex art. 80 in fase di gara dovrebbe costituire “una colpa senza possibilità di perdono” per tutti i membri del raggruppamento di cui l’operatore economico colpito fa parte. Insomma, non vi è una buona ragione per escludere l’intero R.T.I. nel caso in cui un suo componente sia colpito, in fase di gara, da un motivo di esclusione ex art. 80; perché, se essa ci fosse, allora dovrebbe considerarsi incostituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., la mancata esclusione del R.T.I., nel caso in cui un suo associato sia colpito da un’interdittiva antimafia, attesa la maggiore gravità di questa fattispecie.
Vi è poi un ultimo aspetto che l’interpretazione secondo ragionevolezza impone di prendere in esame: il netto ridimensionamento del principio di immodificabilità dei raggruppamenti di imprese nel corso del tempo. Come peraltro la stessa Plenaria osserva, le eccezioni sono oramai talmente numerose, che pare difficile continuare a predicare l’esistenza di un principio di tal fatta in termini assoluti: vi sono le ipotesi di cui ai commi 17 e 18, l’estensione degli stessi alla fase di gara per effetto del comma 19-ter, la possibilità per l’A.T.I. di riorganizzarsi in caso di recesso da parte di una delle partecipanti.
Se è ancora sostenibile che le modificazioni ammissibili sono solamente quelle che per espressa previsione di legge vengono ritenute giustificabili, è vero comunque che il loro numero non è poi così limitato. Se quindi il principio di immodificabilità deve oggi interpretarsi in questo senso, ossia in quello per cui gli incolpevoli componenti del R.T.I. non possono essere sanzionati (ed esclusi) per il sol fatto di essersi associati con un’impresa poi ritenuta non meritevole di eseguire una commessa pubblica, sicuramente nel novero delle eccezioni deve includersi la sopravvenuta perdita di uno dei requisiti di cui all’art. 80, anche se accaduta in fase di gara.
Una conclusione diversa, poi, finirebbe per svilire la funzione antimonopolistica degli R.T.I.[64], aumentando i rischi di essere esclusi per quegli operatori che, stante la propria dimensione, sono costretti ad associarsi, e si avrebbe l’indesiderato effetto di agevolare invece quegli operatori economici che hanno in proprio tutti i requisiti per partecipare da soli alla gara.
Per tutte queste ragioni, l’inciso “in corso di esecuzione” non può essere interpretato come eccezione alla disposizione recata dal comma 19-ter.
11. La risoluzione dell’antinomia: l’interpretazione secondo ragionevolezza o costituzionalmente orientata.
Concluso il percorso argomentativo che, ad avviso di chi scrive, si sarebbe dovuto seguire per risolvere il noto quesito, può ora riprendersi il ragionamento della Plenaria, che, una volta riconosciuta l’esistenza di una antinomia assoluta, è passata a esaminare le disposizioni antinomiche dal punto di vista letterale e ha quindi preso in considerazione la voluntas legis, tuttavia senza ricavare elementi utili.
Non potendo il giudice ricorrere al non liquet in attesa dell’intervento del legislatore, l’antinomia è stata composta dal Consiglio di Stato seguendo l’iter che si appresta ad analizzare.
L’Adunanza Plenaria si dice convinta che si tratta di una “antinomia assoluta” o “totale”, non potendosi sostenere che “vi sarebbe solo una incompatibilità apparente di enunciati, stante la natura «generale» della norma espressa dal comma 19-ter e la natura «parziale» di quella ricavabile dagli incisi dei commi 17 e 18”. “È questo il caso” – continua la sentenza in commento – “che ricorrerebbe allorché si intenda sostenere che il richiamo effettuato dall’art. 19-ter (norma generale) alle «modifiche soggettive ivi contemplate» (cioè nei commi 17 e 18) vada inteso come riferito alle predette modifiche «come disciplinate» dai medesimi commi 17 e 18 (e dunque, anche nei limiti per esse imposti)”: da ciò conseguirebbe che, “mentre la norma del comma 19-ter sarebbe tranquillamente applicabile (nel suo effetto espansivo riferito alla fase di gara) a tutte le modifiche soggettive salvo quelle derivanti «dalla perdita dei requisiti di cui all’art. 80», l’enunciato «in corso di esecuzione» a queste ultime riferito introdurrebbe una norma speciale che sottrae i casi considerati alla disciplina del comma 19-ter”.
Un’ipotesi di questo genere costituirebbe però un’antinomia “totale-parziale” (o “unilaterale”), che tuttavia non ricorre nella fattispecie, viceversa occorrendo – scrive ancora la Plenaria – “- o che uno dei due enunciati nomativi aggiungesse una specificazione (ad esempio, nel caso di specie, ad una certa fase della gara), tale da escludere (eccettuare) un singolo caso dalla classe di fattispecie altrimenti disciplinata dalla norma generale; nel caso di specie, invece, le fattispecie si presentano perfettamente coincidenti; - ovvero (e quantomeno) che l’esclusione della singola fattispecie fosse prevista dalla stessa norma generale, con una delle formule usualmente utilizzate dal legislatore (ad esempio: “fatto salvo quanto previsto…etc.”), e dunque, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere il comma 19-ter (norma generale) ad escludere la specifica ipotesi della “perdita dei requisiti di cui all’art. 80” dalla classe di fattispecie degli articoli 17 e 18 per le quali interviene l’effetto ampliativo anche alla fase di gara”.
La Plenaria, tuttavia, argomentando perché nella fattispecie ci si trovi davanti a una antinomia assoluta e non a un’antinomia totale-parziale, finisce per smentire in punto di merito l’interpretazione restrittiva di cui si è detto sopra, che allora non si comprende se sia infondata – perché postula l’esistenza di un’antinomia parziale là dove, invece, ve ne è una “assoluta” – o sia da non preferirsi per altre ragioni.
Nella sentenza si può infatti leggere che, “in difetto di previsione espressa del legislatore, l’esclusione della predetta fattispecie sarebbe il frutto di una doppia operazione dell’interprete, il quale dovrebbe dapprima applicare l’estensione prevista dal comma 19-ter alle molteplici fattispecie di cui ai commi 17 e 18 e poi limitare tale estensione ad una sola di esse per effetto di una esclusione che agirebbe per così dire «di rimbalzo» sulla norma generale. In questo caso, per effetto di un duplice percorso interpretativo (secondo un tragitto, per così dire, di «andata e ritorno»), l’interprete più che risolvere un problema di antinomia finisce per auto-attribuirsi una potestà normativa ex novo”. All’esclusione di tale ipotesi interpretativa perviene, in sostanza, anche l’ordinanza di rimessione, laddove sostiene come risponda a logica “l’argomento per il quale, se il legislatore, introducendo il comma 19-ter all’interno dell’art. 48, avesse voluto fare eccezione alla deroga e ripristinare il principio di immodificabilità … la via maestra sarebbe stata quella di operare la distinzione all’interno dello stesso comma 19-ter, senza dare vita ad un arzigogolo interpretativo. Ed al fine di escludere l’interpretazione «restrittiva», valga, da ultimo, rilevare come questa sia conseguenza di una considerazione «sovrastimata» dell’inciso «in corso di esecuzione», posto che problemi interpretativi non molto dissimili potrebbero porsi – volendo utilizzare il metodo interpretativo qui non condiviso – anche per il fatto che il legislatore, nel momento stesso in cui introduceva il comma 19-ter, non ha eliminato dai commi 17 e 18 i riferimenti ai lavori, servizi o forniture «ancora da eseguire»; cioè proprio quei riferimenti che, prima delle modifiche introdotte dal d. lgs. n.56/2017, costituivano il fondamento dell’interpretazione limitativa delle sopravvenienze soggettive alla sola fase di esecuzione”.
Queste considerazioni, in cui la (s)correttezza dogmatica dell’interpretazione restrittiva si confonde con la sua insostenibilità nel merito, conducono dunque la Plenaria ad affermare di dover risolvere l’antinomia con “il ricorso ad altre considerazioni, riconducibili ai principi di interpretazione secondo ragionevolezza ovvero secondo Costituzione (o costituzionalmente orientata), cui peraltro lo stesso criterio di ragionevolezza (riferibile all’art. 3 Cost.) si riporta”.
Il primo argomento enucleato dalla Plenaria è l’equità o comunque l’applicazione del principio di non discriminazione, tra concorrenti e tra fattispecie che debbono essere trattate nello stesso modo.
Escludere la perdita dei requisiti ex art. 80 dal novero delle fattispecie per cui è ammessa una modifica soggettiva del raggruppamento in fase di gara finirebbe per introdurre “una disparità di trattamento tra varie ipotesi di sopravvenienze non ragionevolmente supportata” e condurrebbe a un esito interpretativo “irragionevole”, dato che, nella comparazione in concreto tra le diverse ipotesi, si consentirebbe “la modificazione del raggruppamento in casi che ben possono essere considerat[i] più gravi – secondo criteri di disvalore ancorati a valori costituzionali che l’ordinamento deve tutelare, come certamente quella inerente a casi previsti dalla normativa antimafia – rispetto a quelli relativ[i] alla perdita di requisiti di cui all’art. 80”.
Non vanno nemmeno trascurate le esigenze di tutela di quelle imprese, associate nel raggruppamento, di per sé incolpevoli, che, in caso di sopravvenuto difetto di uno dei requisiti generali da parte di una società associata, finirebbero per essere resi, per colpa altrui, incapaci a contrattare con la pubblica amministrazione: tale esito esiterebbe nella creazione di una “fattispecie di «responsabilità oggettiva», ovvero una inedita, discutibile (e sicuramente non voluta) speciale fattispecie di culpa in eligendo”.
Al rigetto dell’interpretazione restrittiva milita anche uno dei principi fondamentali in tema di disciplina dei contratti con la pubblica amministrazione – tale da giustificare la previsione stessa del raggruppamento temporaneo – ossia quello di consentire la più ampia partecipazione delle imprese, in condizione di parità, ai procedimenti di scelta del contraente (e dunque favorirne la potenzialità di accedere al contratto, al contempo tutelando l’interesse pubblico ad una maggiore ampiezza di scelta conseguente alla pluralità di offerte). Ebbene, “una interpretazione restrittiva della sopravvenuta perdita dei requisiti ex art. 80, a maggior ragione perché non sorretta da alcuna giustificazione non solo ragionevole, ma nemmeno percepibile”, avrebbe come effetto – ingiusto – quello di “porsi in contrasto sia con il principio di eguaglianza, sia con il principio di libertà economica e di par condicio delle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni (come concretamente declinati anche dall’art. 1 della l. n. 241/1990 e dall’art. 4 del codice dei contrati pubblici)”.
A una conclusione non dissimile era giunta pure l’ordinanza di rimessione, ove si trova affermato che “nessuna delle ragioni che sorreggono il principio di immodificabilità della composizione del raggruppamento varrebbero a spiegare in maniera convincente il divieto di modifica per la perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 in sede di gara: non la necessità che la stazione appaltante si trovi ad aggiudicare la gara e a stipulare il contratto con un soggetto del quale non abbia potuto verificare i requisiti, in quanto, una volta esclusa dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 10 del 2021 la c.d. sostituzione per addizione, tale evenienza non potrà giammai verificarsi quale che sia la vicenda sopravvenuta per la quale sia venuto meno uno dei componenti del raggruppamento; né la tutela della par condicio dei partecipanti alla procedura di gara, che è violata solo se all’uno è consentito quel che all’altro è negato”.
Nella fattispecie, quindi, l’antinomia assoluta “trova soluzione inquadrando il caso concreto e le norme antinomiche ad esso applicabili nel più generale contesto dei principi costituzionali ed eurounitari, fornendo una interpretazione che renda applicabile una sola di esse in quanto coerente con detti principi, e che consente una regolazione del caso concreto con essi compatibile. In tal modo, l’interpretazione determina – in presenza di norme incompatibili ma provenienti da fonti di pari livello e contestualmente introdotte dalla medesima fonte – la applicazione di una sola di esse (quella, appunto, compatibile con le fonti sovraordinate della Costituzione e del diritto dell’Unione Europea) e la non applicazione dell’altra, recessiva perché contraria ai più volte richiamati principi”.
Un’operazione di questo tipo – a detta della Plenaria – è pienamente legittima, costituendo, da un lato, “solo una più articolata applicazione del metodo di interpretazione secondo Costituzione; per altro verso, costituisce metodo interpretativo non del tutto ignoto allo stesso legislatore ordinario, laddove questi prevede (art. 15 disp. prel. cod. civ.) la possibile abrogazione di norme “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti”[65]; dall’altro lato, una attuazione del principio di coerenza, “che impone il superamento delle antinomie, rimettendo all’interprete, chiamato ad individuare ed applicare la regola di diritto al caso concreto, di verificare le possibilità offerte dall’interpretazione, senza necessariamente (e prima di) evocare l’intervento del giudice delle leggi”.
Benché il percorso interpretativo non sia stato lineare e si trovi una certa commistione di argomenti, comunque l’approdo della Plenaria non è assai dissimile da quello cui si è giunti in questo contributo: da un lato, in forza del richiamo all’equità e ai principi di non discriminazione, dall’altro, per effetto di un’interpretazione sistematica, che impone di considerare la topografia delle norme, di non creare antinomie con norme gerarchicamente superiori, di operare un controllo di ragionevolezza, analogo a quello che generalmente svolge la Corte Costituzionale.
12. Un problema per certi versi chiuso, per altri aperto: quando si conclude “la fase di gara”?
Un cenno a una questione che, se è risolta nel caso di specie, non lo è in via generale.
Per effetto dei commi 17, 18 e 19-ter, così come da ultimo interpretati dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria qui in commento, che una sopravvenienza tra quelle più volte citate accada “in fase di gara” ovvero nel corso dell’esecuzione del rapporto, nulla cambia: in entrambe le ipotesi è consentito ricorrere ai ben noti meccanismi modificativi.
Vale comunque la pena domandarsi, benché, come si è detto, oggi non rilevi più ai fini dell’applicazione delle norme in parola, quando la fase di gara possa dirsi conclusa.
Semplicisticamente si suole affermare che la stipulazione del contratto sia il momento in cui si conclude la parte pubblicistica della competizione. Questo insegnamento si fonda sulla disciplina che regola il riparto di giurisdizione delle controversie attinenti alle procedure di affidamento di appalti pubblici: alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo afferiscono tutti giudizi che hanno ad oggetto ciò che accade nel “tratto procedimentale” e, dunque, pubblicistico delle stesse; la fase esecutiva del relativo rapporto, invece, è riservata alla cognizione del giudice ordinario[66].
Come è noto, le procedure a evidenza pubblica hanno una “prospettiva bifasica” che caratterizza la formazione del contratto: la “procedura di affidamento”, ossia la fase propriamente pubblicistica, che si concreta in peculiari procedimenti amministrativi che esitano nella determinazione conclusiva con cui viene disposta l’aggiudicazione a favore dell’offerta selezionata; e la fase esecutiva, ossia la “stipula del contratto” e la formale assunzione degli impegni negoziali.
Siccome quest’ultima fase prefigura situazioni essenzialmente paritetiche, eventuali controversie che la riguardano sono devolute al giudice ordinario. La distinzione emerge oggi anche dall’art. 30, co. 8, del codice dei contratti pubblici, in base al quale “alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici … si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile”.
È altrettanto pacifico, però, che vi siano fattispecie connotate da peculiarità tali da costituire delle deroghe a tale principio, dovendosi avere bene a mente che il criterio di riparto della giurisdizione si fonda sulla situazione giuridica fatta valere. Ogni volta che l’agire della stazione appaltante attiene ad un segmento procedimentale pubblicistico, ed è collegata all’esercizio di un potere da parte dell’Amministrazione, sussisterà la giurisdizione del giudice amministrativo. Tale discrimen è determinante, tenuto conto che la valutazione dell’interesse pubblico esclude ogni rapporto paritetico, anche se sussiste un vincolo contrattuale tra le parti. Ne consegue che, nella fase privatistica, l’Amministrazione si pone con la controparte in una posizione di parità che si può definire ‘tendenziale’, in quanto può sempre verificarsi l’ipotesi che l’intervento autorizzativo sia espressione di una valutazione operata al fine primario dell’interesse pubblico. In tal caso, appare all’evidenza l’insussistenza tra le parti (pubblica e privata) di un rapporto giuridico paritetico, che invece si ravviserebbe in situazioni soggettive da qualificare in termini di diritti soggettivi e di obblighi giuridici[67].
Insomma, al fine di definire quando una gara possa dirsi conclusa il criterio del riparto della giurisdizione non è detto che sia sempre soddisfacente. O meglio, sicuramente si può affermare che la “fase esecutiva” comincia con la stipulazione del contratto (coincidendo quindi con il primo momento in cui si affaccia in questa materia la giurisdizione del giudice ordinario), ma non risponde al vero che la “fase di gara” allo stesso modo si chiuda un momento prima della predetta sottoscrizione.
Infatti, il tempo dedicato alla competizione vera e propria si chiude con l’aggiudicazione: ad essa, seguono una serie di controlli sul “possesso dei prescritti requisiti”, che, in caso di esito positivo, determinano l’efficacia dell’aggiudicazione (così l’art. 32, co. 7, d.lgs. n. 50/2016). Indi, “divenuta efficace l’aggiudicazione, e fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione deve avere luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell’invito ad offrire, ovvero l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario, purché comunque giustificata dall’interesse alla sollecita esecuzione del contratto”[68].
Ebbene, ci si domanda allora se debba intendersi incluso nella cosiddetta “fase di gara” il periodo di tempo intercorrente tra l’aggiudicazione e il momento in cui essa diviene efficace (ossia al termine della verifica dei requisiti dell’operatore economico utilmente classificato), così come se debba considerarsi ricompreso nella “fase di gara” l’intervallo temporale che intercorre tra quando l’aggiudicazione diventa efficace e il giorno in cui il contratto viene sottoscritto dall’aggiudicatario e dalla stazione appaltante. Ben può darsi, infatti, che in questo secondo arco di tempo l’aggiudicazione venga impugnata ovvero che la stessa sia sospesa (dal giudice o, prima ancora, per effetto delle disposizioni che regolano il cosiddetto “stand still”[69]).
Del tema qui accennato non si vuole proporre una soluzione, né esso rappresenta più un problema nel caso di nostro interesse. Resta però che l’espressione “fase di gara”, invalsa nel gergo degli operatori ma non definita dal codice, è vaga e pertanto foriera di possibili ambiguità. Un altro aspetto su cui la tecnica legislativa dovrebbe maggiormente sorvegliare.
13. Considerazioni conclusive.
Gli esiti cui si giunge seguendo il percorso interpretativo disegnato dalla dottrina e quelli cui è pervenuta l’Adunanza Plenaria, che ha argomentato più liberamente, dando ampia applicazione all’equità sostanziale, sono sostanzialmente i medesimi. Tuttavia, non possono condividersi appieno le premesse da cui il Supremo Consesso ha preso le mosse, ossia l’esistenza di un’antinomia insolubile, di cui non si sono rinvenuti gli estremi nell’analisi qui condotta. La pronuncia ha comunque il pregio, avendo dovuto colmare una lacuna o per lo meno comporre un contrasto, di aver riconosciuto che il principio di immodificabilità dei raggruppamenti di imprese è tramontato, per lo meno nei termini in cui tradizionalmente è stato predicato, e che esso oggi sopravvive in una forma temperata, frutto di un bilanciamento tra diversi principi, tra cui quello di economicità e buon andamento, per cui bisogna consentire alla stazione appaltante, là ove possibile, di non escludere inutilmente operatori economici che sono a tutti gli effetti degni di contrattare con una pubblica amministrazione; e il principio di par condicio e non discriminazione, per cui non possono essere pretermesse dal mercato degli appalti pubblici quelle società che, incolpevolmente, si sono associate con partner commerciali che, nel corso del tempo, sono stati colpiti da eventi che ne minano l’affidabilità. Più che un’antinomia tra disposizioni, la pronuncia risolve la distanza tra le diverse anime del Consiglio di Stato, finendo per sconsigliare tutte quelle decisioni che sono inutilmente punitive e penalizzanti (e quindi irragionevoli), anche per la stessa stazione appaltante, i cui interessi quegli stessi principi sono chiamati a proteggere.
[1] Nella sentenza di primo grado, T.A.R. Toscana, sez. II, 10 febbraio 2021, n. 217, si parla genericamente del fatto che “nelle more dell’espletamento del subprocedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria, rispetto ad altre commesse e poi ad altre gare, sono venuti ad incrinarsi i rapporti tra il mandante … (mandante al 10%) e la stazione appaltante, portando a contrapposte iniziative volte tra l’altro allo scioglimento dei rapporti in essere con reciproci addebiti di inadempimento”.
[2] Si trattava peraltro di riassegnare tra i membri restanti una quota limitata al solo 10%.
[3] Le citazioni sono tratte dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2/2022 qui commentata, che, a differenza della pronuncia di primo grado, ha riportato ampi stralci dei provvedimenti impugnati.
[4] In tema di R.T.i. si vedano, tra i moltissimi, P. Chirulli, I soggetti ammessi alle procedure di affidamento, in I contratti di appalto pubblico, a cura di C. Franchini, in Trattato dei contratti diretto da Rescigno-Gabrielli, Milano, 2010, pp. 373 ss.; R. Greco, Commento all’art. 37, in Garofoli-Ferrari, Codice degli appalti pubblici, Roma, 2011, pp. 409 ss.; S. Santoro, Nuovo manuale dei contratti pubblici, Rimini, 2011, 783 ss.
[5] Così M. Mazzamuto, I raggruppamenti temporanei di imprese tra tutela della concorrenza e tutela dell’interesse pubblico, in Riv. it. dir. pub. com., 2003, pp. 179 s.
[6] Così R. Dagostino, Commento all’art. 48, in L.R. Perfetti (a cura di), Codice dei contratti pubblici commentato, Milano, 2017, p. 501. Si vedano anche T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 6 febbraio 2017, n. 211, e Cons. St., sez. V, 20 gennaio 2015, n. 169, per cui le modifiche soggettive erano consentite unicamente dopo la stipulazione del contratto, ma non in corso di gara.
[7] Per comodità di lettura, si riporta il testo del comma 18, prima della modifica operata dal d.l. n. 56/2017: “Salvo quanto previsto dall’articolo 110, comma 6, in caso di liquidazione giudiziale, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria, concordato preventivo o di liquidazione di uno dei mandanti ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o liquidazione giudiziale del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”.
[8] Le due pronunce di riferimento sono Cons. Stato, sez. V, 28 gennaio 2021, n. 833, e sez. III, 11 agosto 2021, n. 5852.
[9] Già si sono elencati: in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo o procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione di uno dei mandanti, ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo.
[10] Così Cons. Stato n. 5852/2021 cit.
[11] Cons. Stato, Ad. Plen., 27 maggio 2021, n. 9.
[12] Così, ancora, l’Adunanza Plenaria, sent. n. 9/2021 cit.
[13] Cons. Stato, Ad. Plen., 4 maggio 2013, n. 8.
[14] Così Cons. St., sez. V, 20 gennaio 2015, n. 169, e 24 febbraio 2020, n. 1379.
[15] Così Cons. Stato n. 5852/2021.
[16] Ancora Cons. Stato n. 5852/2021.
[17] In questi termini si è espressa la sentenza n. 833/2021 del Consiglio di Stato: “Se ne trae ulteriore conferma dal fatto che proprio l’art. 18 è stato contestualmente modificato introducendo, bensì, anche la fattispecie (antecedentemente non prevista) di perdita dei requisiti soggettivi quale ragione di possibile modificazione del raggruppamento, ma espressamente limitando l’ipotesi alla fase esecutiva. Sarebbe, allora, del tutto illogico che l’estensione «alla fase di gara» di cui al comma 19 ter, introdotto dallo stesso ‘decreto correttivo’ vada a neutralizzare la specifica e coeva modifica del comma 18”.
[18] Così Cons. Stato, sez. III, 2 aprile 2020, n. 2245; nello stesso senso anche C.G.A.R.S., sez. giur., 22 maggio 2020, n. 298.
[19] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit.
[20] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit.
[21] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit.
[22] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit. In questi termini si è espresso anche Cons. Stato, sez. III, 2 aprile 2020, n. 2245: “A fronte del chiaro disposto del comma 19 ter, che rinvia alle disposizioni di cui ai commi 17, 18 e 19, non sono conducenti gli argomenti che l’appellante trae dalla Relazione illustrativa al correttivo al codice (pag. 20) e dall’Atto del Governo n. 397 (pagg. 86 e 87). Né è convincente l’argomentazione dell’appellante secondo cui nel rinvio ai citati commi, il comma 19 ter farebbe salva anche la locuzione «in corso di esecuzione», perché si tratterebbe di una contraddizione palese con il contenuto dispositivo innovativo del nuovo comma aggiunto dal Legislatore del correttivo, che lo priverebbe di significato”.
[23] È d’uopo usare il condizionale, dato che nessuna fonte consente di ricostruire la precisa voluntas legis.
[24] L’ordinanza si riferisce al mancato versamento di contributi previdenziali o al mancato pagamento dei tributi, al dubbio circa l’idoneità morale conseguente all’adozione di uno dei provvedimenti della normativa antimafia.
[25] L’ordinanza si riferisce ai pregressi inadempimenti, specialmente se intervenuti con la stessa stazione appaltante, ma anche allo stato di decozione comportante l’assoggettamento alla procedura concorsuale.
[26] Ricorda la Plenaria n. 10/2021, richiamata dalla sentenza in commento, che “la modifica sostituiva c.d. per addizione costituisce ex se una deroga non consentita al principio della concorrenza perché ammette ad eseguire la prestazione un soggetto che non ha preso parte alla gara secondo regole di correttezza e trasparenza, in violazione di quanto prevede attualmente l’art. 106, comma 1, lett. d), n. 2, del d. lgs. n. 50 del 2016, più in generale, per la sostituzione dell’iniziale aggiudicatario”.
[27] La sentenza della Plenaria n. 10/2021 aggiunge che l’evento che conduce alla sostituzione meramente interna, ammessa nei limiti anzidetti, deve essere portato dal raggruppamento a conoscenza della stazione appaltante, laddove questa non ne abbia già avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di c.d. sostituibilità procedimentalizzata a tutela della trasparenza e della concorrenza, di assegnare al raggruppamento un congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere correttamente, e rapidamente, la propria partecipazione alla gara o la prosecuzione del rapporto contrattuale”.
[28] Non si può mancare di evidenziare che, benché le ipotesi derogatorie al principio di immodificabilità siano molte, non sono tutte dello stesso genere. Ed infatti, come sottolinea la sentenza in commento, “mentre le ipotesi disciplinate dal comma 17 (con riferimento al mandatario) e dal comma 18 (con riferimento ad uno dei mandanti) attengono a vicende soggettive, puntualmente indicate, del mandatario o di un mandante, conseguenti ad eventi sopravvenuti rispetto al momento di presentazione dell’offerta”, vi è invece che l’ipotesi di cui al comma 19 attiene ad una modificazione della composizione del raggruppamento derivante da una autonoma manifestazione di volontà di recedere dal raggruppamento stesso, da parte di una o più delle imprese raggruppate, senza che si sia verificato nessuno dei casi contemplati dai commi 17 e 18, ma solo come espressione di un diverso e contrario volere rispetto a quello di partecipare, in precedenza manifestato. Ed il recesso in tanto è ammesso, non tanto in base ad una più generale valutazione dei motivi che lo determinano, ma in quanto le imprese rimanenti «abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire» e sempre che la modifica soggettiva derivante dal recesso non sia «finalizzata ad eludere un requisito di partecipazione alla gara»”. Insomma, “si tratta, dunque, nel caso disciplinato dal comma 19, di eccezione al principio generale di immodificabilità della composizione del raggruppamento del tutto diversa da quelle di cui ai commi 17 e 18, di modo che la possibilità che la stazione appaltante non ammetta il recesso di una o più delle imprese raggruppate non esplica alcun effetto sulle diverse ipotesi di eccezione, relative alle vicende soggettive del mandatario o di uno dei mandanti, disciplinate dai citati commi 17 e 18 dell’art. 48”.
[29] In risposta a coloro che – a più riprese – hanno sostenuto che non vi era, invero, nessun contrasto interpretativo, perché, se anche in passato vi fosse stato, esso doveva dirsi risolto dalla sentenza della Plenaria n. 10/2021, la medesima Adunanza scrive che “è opportuno preliminarmente precisare che tale problema non può dirsi superato e risolto per effetto di quanto incidentalmente affermato da questa stessa Adunanza Plenaria, con la propria citata decisione n. 10 del 2001 [recte, 2021] (v. par. 23.3), al contrario di come invece ritengono l’appellante e la costituita amministrazione. Come condivisibilmente osservato anche dall’ordinanza di rimessione, la questione della estensione della perdita dei requisiti di cui all’art. 80 non rappresentava affatto la questione centrale di quel giudizio, né tale problema interpretativo forma espressamente oggetto dei principi di diritto enunciati dalla citata sentenza n. 10/2001 (né di questi costituisce il presupposto logico giuridico), principi solo in relazione ai quali si esplica l’effetto nomofilattico voluto dall’art. 99 c.p.a. Si è trattato, dunque, di una affermazione incidentale, non conseguente ad una disamina argomentativa peraltro non necessaria, stante l’estraneità di questo aspetto al thema decidendum”.
[30] Così T. Mazzarese, Antinomia, in Dig. disc. priv., Torino, 1989, I, p. 348. Come ricorda l’Autrice, il termine ‘antinomia’ è utilizzato anche in altre due accezioni, diverse da quella etimologica. In una prima accezione, ‘antinomia’ designa “la contraddizione tra due proposizioni ambedue ugualmente dimostrabili” (in questo senso I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Riga, 1781, 1787); in una seconda accezione, ‘antinomia’ designa (in logica) “un enunciato tale che sia la sua affermazione, sia la sua negazione implicano una contraddizione” (tra i molti, F. von Kutschera, Die Antinomien der Logik, Freiburg-München, 1964).
[31] Così F. Modugno, Ordinamento giuridico (dottrine), in Enc. dir., Milano, 1980, XXX, p. 706.
[32] Così F. Modugno, ibidem. L’Autore aggiunge che “le due norme possono essere, quindi, o entrambe false (contrarietà) o una delle due falsa e l’altra necessariamente vera (contraddizione). Rispettivamente, la prima opposizione si verifica tra norma obbligatoria (prescrizione di fare alcunché) e norma proibitiva (prescrizione di non fare alcunché); la seconda, sia tra norma obbligatoria e norma (negativamente) permissiva o «facoltativa» (non è prescritto di fare alcunché), sia tra norma proibitiva e norma (positivamente) «permissiva» (non è prescritto di non fare alcunché). Insomma, l’obbligo è antinomico al divieto, perché tra loro contrari; l’obbligo è antinomico al permesso (negativo) e il divieto al permesso (positivo), perché tra loro, rispettivamente, contraddittori. S’intende che, mentre la soluzione della prima antinomia può risolversi significativamente nella negazione di entrambi i termini: un comportamento non è né obbligatorio né vietato, ma semplicemente permesso; la soluzione delle altre due si risolve sempre nella negazione di uno solo dei due termini: un comportamento o è obbligatorio o è facoltativo, ovvero un comportamento o è vietato o è permesso. Né può obiettarsi che un comportamento né obbligatorio né facoltativo possa risultare vietato, o che un comportamento né vietato né permesso possa risultare obbligatorio, perché in questi casi non si tratterebbe propriamente di soluzione dell’antinomia tra due norme, bensì della rilevazione di una «terza» norma che vieta o che impone il comportamento che né l’una né l’altra delle norme antinomiche vietano o impongono. D’altra parte, se un comportamento è «facoltativo» («non obbligatorio fare» = «permesso non fare») o, rispettivamente, è «permesso» («non obbligatorio non fare» = «permesso fare»), esso non è del tutto incompatibile con il comportamento «vietato», o, rispettivamente, con il comportamento «obbligatorio», dal momento che un comportamento vietato è necessariamente anche «facoltativo», e che un comportamento obbligatorio è necessariamente anche «permesso»”. Più d’interesse per il nostro caso sono le antinomie fra norme qualificative di fatti, stati di cose, oggetti. In tale ipotesi, “l’antinomia è espressa dalla diversa qualificazione che valga negazione di una norma da parte di un’altra. Si pensi ad una disposizione la quale preveda che la bandiera italiana rechi altri segni oltre quelli stabiliti dall’art. 12 cost.” (così ancora F. Modugno, op. cit., pp. 706-707).
[33] Cfr., in proposito, A. Ross, Diritto e giustizia, trad. it. a cura di G. Gavazzi, Torino, 1965, pp. 122 ss.; N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico cit., pp. 90 ss.; G. Gavazzi, Elementi di teoria del diritto, Torino, 1970, pp. 45 s.
[34] Cfr. A. Ross, op. cit., p. 122: il riferimento è all’antinomia che “si verifica quando nessuna delle due norme può essere applicata a qualsiasi circostanza senza venire in conflitto con l’altra”. È F. Modugno a spiegare (op. cit., p. 707) che, “se si distingue, secondo una tradizione di pensiero ormai acquisita e consolidata, tra disposizioni (espressioni normative) e norme, ci si accorge che il secondo e il terzo tipo di antinomie sono «improprie» e precedono e si risolvono nell’attività interpretativa necessaria ad enucleare o ad individuare le norme”. Possono essere utili degli esempi, fatti dallo stesso Autore: “Si prenda un esempio di cosiddetta antinomia parziale-parziale: «È vietato fumare la pipa e il sigaro» è norma parzialmente antinomica rispetto all’altra: «È permesso fumare il sigaro e le sigarette»? Dalla prima disposizione si ricavano manifestamente due norme: «È vietato fumare la pipa», «è vietato fumare il sigaro». Corrispondentemente, dalla seconda disposizione si ricavano pure due norme: «È permesso fumare il sigaro»; «è permesso fumare le sigarette». Ora, delle quattro norme soltanto la seconda e la terza sono tra di loro antinomiche, in quanto hanno lo stesso àmbito di validità materiale e sono quindi affette da antinomia cosiddetta totale-totale. Ma la prima è manifestamente compatibile con la terza e la quarta, e la seconda con la quarta. Non diversamente, nel caso di cosiddetta antinomia totale-parziale, che è sempre «impropria» antinomia tra disposizioni. «È vietato fumare» ed «è permesso soltanto fumare sigarette» sono disposizioni dalle quali si ricavano, rispettivamente, una sola e due norme. Dalla seconda infatti si ricavano unitamente le norme: «È permesso fumare sigarette» ed «è vietato fumare altro: per esempio la pipa o il sigaro», di cui solo la prima è antinomica con la norma (generale) ricavabile dalla prima disposizione, ma, in quanto norma speciale, dovrebbe limitare il significato normativo della disposizione generale”.
[35] Si veda A. Celotto, Coerenza dell’ordinamento e soluzione delle antinomie nell’applicazione giurisprudenziale, in F. Modugno, Appunti per una teoria generale del diritto, Torino, 2000, p. 151.
[36] Cfr. A. Ross, op. cit., p. 123, che ricorda il caso della Costituzione danese del 1920, ove, all’art. 36, in tema di composizione della Camera alta, si stabilisce, in una prima parte, che i membri di tale assemblea non possono superare il numero di 78; mentre nella seconda parte della stessa disposizione, mediante una minuziosa regolamentazione dei criteri di nomina, risulta che il numero dei componenti della Camera alta sia di 79; A. Celotto, op. cit., p. 151, menziona il caso più recente del d.l. n. 669 del 1996, che aveva provveduto a modificare due volte — e in termini differenti — l’art. 3, co. 114, l. n. 662/1996, riguardo al regime dei beni immobiliari e dei diritti immobiliari dello Stato nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome di Trento e Bolzano. E ancora la l. n. 240/2010 (c.d. “legge Gelmini”) che all’art. 6, co. 5, in tema di stato giuridico dei professori e dei ricercatori di ruolo, aveva disposto la modifica dell’art. 1, co. 11, e, contestualmente, all’art. 29, co. 11, lett. c), aveva disposto l’abrogazione del medesimo art. 1 co. 11. In questi ultimi due casi, si è reso necessario un intervento del legislatore per porre rimedio.
[37] Cfr. F. Lisena, Un raro caso di antinomia insolubile: la disciplina delle elezioni del Parlamento europeo tra compiti del legislatore e poteri del giudice, in Giur. merito, fasc. 10, 2011, pp. 2531 ss., che ricorda un caso in cui il legislatore non è stato così tempestivo nel porre rimedio a una antinomia insolubile: trattasi del contrasto tra gli artt. 2 e 21, l. n. 18/1979, che “sussiste oramai da più di un ventennio, a partire dalla citata novella del 1984”: precisamente, “mentre l’art. 2 prevede un sistema articolato in circoscrizioni territoriali, per ciascuna delle quali è prevista l’assegnazione di un numero di seggi determinato sulla base della popolazione residente, il successivo art. 21 detta le concrete modalità di assegnazione dei seggi seguendo esclusivamente il criterio della proporzionalità politica. Si ricaverebbe, pertanto, un principio europeo di proporzionalità articolato su due livelli, entrambi meritevoli di salvaguardia: il livello della proporzionalità territoriale, attinente al rapporto tra cittadini-residenti e numero degli eletti, ed il livello della proporzionalità politica, riflettente l’impostazione fondamentale del metodo di votazione. Tuttavia, in sede di effettiva applicazione, le due norme appaiono evidentemente inconciliabili”. L’antinomia è stata al centro di un caso di cui si è occupata la giustizia amministrativa: il risultato delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, svoltesi nei giorni 6 e 7 giugno del 2009, aveva portato alla contrazione dei rappresentanti eletti nella circoscrizione territoriale dell’«Italia meridionale» (15 eletti, in luogo dei 18 seggi assegnati) e in quella delle «Isole» (6 eletti, in luogo degli 8 seggi assegnati), con il complessivo spostamento in altre circoscrizioni di cinque posti. In altri termini, in virtù del sistema di calcolo di cui all’art. 21, l. n. 18/1979, i cittadini delle due citate circoscrizioni si sono visti sottrarre dei rappresentanti rispetto a quelli che avrebbero dovuto avere in applicazione del criterio della proporzionalità territoriale. Per ogni approfondimento, si rinvia alla lettura delle sentenze del T.A.R. Lazio, Roma, n. 38638/2010, Cons. Stato n. 2886/2011 e C. Cost. n. 271/2010.
[38] “… in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80, … il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione …”.
[39] “ove [il mandatario] non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità”.
[40] Sempre a patto che non indichi altro operatore economico che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità.
[41] Così Cons. Stato n. 5852/2021 cit.
[42] F. Modugno, Norma giuridica (teoria generale), in Enc. dir., Milano, 1980, XXVIII, p. 381.
[43] Così F. Modugno, Ordinamento giuridico (dottrine) cit., p. 706, che ricorda che ad esempio, una legge ordinaria successiva non abroga un regolamento governativo anteriore contrastante, ma lo rende piuttosto illegittimo. La visione sul punto non è comunque unamime: si veda, ad esempio, V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1976, p. 180.
[44] Così M. Barberis, Filosofia del diritto, Torino, 2008, p. 196.
[45] Così M. Barberis, op. cit., p. 197. F. Modugno, op. ult. cit., p. 708-709, richiama l’insegnamento di V. CRISAFULLI contenuto in Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, pp. 775 ss.; nonché, del medesimo autore, Fonti del diritto (diritto costituzionale), in Enc. dir., Milano, 1980, XVII, pp. 955 ss.; Id., Lezioni cit., 179 ss. per cui “unica ed identica essendo la ragione per cui atti e comportamenti umani raggiungono forza normativa, la tesi che la forza degli atti di creazione del diritto obiettivo si commisura alla loro origine non dovrebbe portare alla conseguenza che la forza degli atti normativi sia varia, ma unica ed identica”. Pertanto, non sarebbe “possibile distinguere tra «forza» e «forza» diverse con riferimento alle disposizioni prodotte da differenti specie di atti nei loro reciproci rapporti: la possibilità di atti di una certa specie di abrogare o modificare atti di altra specie, ovvero di resistere ad abrogazione o modifica da parte di questi ultimi, andrebbe spiegata, non con il fatto che «gli atti di una specie abbiano ‘forza maggiore’ di quelli di altra specie», ma solo con il fatto «che ‘più estesa’ è l’attività normativa legittimamente esercitabile attraverso gli atti di una specie che non sia quella esercitabile attraverso atti di altre specie»” (le citazioni di Crisafulli sono di C. Esposito, La consuetudine costituzionale, in Studi in onore di E. Betti, I, Milano, 1961). Pertanto, al criterio gerarchico dovrebbe preferirsi quello della “competenza” o della “riserva”, che addirittura potrebbe sostituire il primo.
[46] Come si è detto, trattasi più che di un’antinomia tra norme, che di un’antinomia tra disposizioni, risultando in definitiva da due disposizioni due norme compatibili tra loro, in quanto complementari: così F. Modugno, op. ult. cit., p. 710.
[47] Cfr. N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, p. 103.
[48] Così F. Modugno, Ordinamento giuridico cit., p. 710.
[49] O, per dirla con le parole di Carnelutti, in ipotesi di antinomia insolubile, si deve “varcare il confine del problema della «purgazione» (antinomie) per entrare in quello dell’integrazione (lacune) (così F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 79.
[50] Cfr. N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento cit., p. 103.
[51] F. Modugno, ibidem, ricorda che “vi sono cioè tre «modi» fondamentali in cui può presentarsi la norma (di comportamento) e vi è antinomia … tra norma obbligante e norma proibitiva, tra norma obbligante e norma permissiva (negativa), tra norma proibitiva e norma permissiva (positiva)”.
[52] Così G. Tracuzzi, Esistenza e possibilità, Padova, 2020, p. 74.
[53] F. Modugno, Ordinamento giuridico cit., p. 711, nt. 114, propone questo esempio: “poste due disposizioni di una stessa legge, l’una delle quali si esprima nel senso del dovere od obbligo per una autorità governante, nel pubblico interesse, di provvedere ad alcunché, senza che sia possibile però individuare una corrispondente specifica situazione giuridica di vantaggio di chicchessia, e l’altra si esprima nel senso di consentire alla stessa autorità governante di provvedere discrezionalmente (se e quando essa lo ritenga opportuno), il criterio sembra applicabile nel senso di far prevalere la norma discendente dalla seconda disposizione su quella discendente dalla prima, dal momento che il pubblico interesse pare meglio perseguibile lasciando all’autorità competente un àmbito di discrezionalità nel quale operare le scelte che sono alla base del suo provvedere”.
[54] Così A. Franco, I problemi della coerenza e della completezza dell’ordinamento, in F. Modugno, Appunti per una teoria generale del diritto. La teoria del diritto oggettivo, Torino, 1993, p. 193. Si veda anche F. Modugno, Ordinamento giuridico cit., p. 711, per cui “la ricordata «ambiguità» del criterio può essere risoluta, al solito, ricorrendo ai princìpi generali dell’ordinamento, e alla «valutazione» che essi indirettamente operano nei confronti dei soggetti che, di volta in volta, si trovino ad essere favoriti o sfavoriti dall’applicazione dell’una o dell’altra norma. Se, per esempio, l’ordinamento protegge in particolar modo il lavoro dei minori (art. 37 comma ult. cost.) e si prospetti un’antinomia tra una norma permissiva ed una norma «imperativa» nei confronti del datore di lavoro, sarà quest’ultima a dover essere applicata per consentire al prestatore di lavoro minorile di soddisfare il suo diritto o rendere esercitabile la sua pretesa. Ma ciò equivale a dire che il criterio della preferenza della «forma permissiva» o del modo deontico «permesso» rispetto ai suoi contraddittori (obbligatorio e vietato) non è di per sé decisivo, neppure assumendo un ordinamento giuridico ispirato alla massima del «tutto è permesso tranne ciò che è vietato (o comandato)»”.
[55] Così F. Modugno, ibidem.
[56] Così si può leggere nella sentenza: “Quanto alla lettera delle disposizioni, essa non si presenta particolarmente «affidabile», tale cioè da poter desumerne un senso «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», non essendo in particolare coordinati gli enunciati introdotti dal d. lgs. n. 56 del 2017 con quelli originari del Codice; e di ciò costituisce dimostrazione, oltre ad altri casi non rilevanti nella presente sede, lo stesso intervento interpretativo effettuato da questa Adunanza Plenaria con la propria sentenza n. 10/2021”.
[57] Cfr. M. Barberis, Filosofia del diritto cit., p. 238.
[58] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 241.
[59] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 244.
[60] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 245, che richiama J. Bell, Policy Arguments in Judicial Interpretation, Clarendon, Oxford, 1985.
[61] Cfr. M. Barberis, ibidem.
[62] Per questa ricostruzione ci si è rifatti a M. Barberis, op. cit., pp. 237-247.
[63] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 245.
[64] Cfr. M. Mazzamuto, I raggruppamenti temporanei di imprese cit., pp. 179 ss.
[65] Se vi è, dunque, la possibilità di verificare l’intervenuta abrogazione di una norma rimettendo al giudice/interprete la verifica della incompatibilità tra due norme temporalmente successive, non sembrano sussistere impedimenti a che la medesima operazione possa riguardare norme incompatibili non successive ma coeve
[66] Cfr., ex multis e da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2022, n. 171.
[67] Cons. Stato n. 171/2022 cit..
[68] Per effetto della novella recata d.l. n. 76/2020, e la conseguente modifica dell’art. 32, co. 8, cit., “la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente preposto. Non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto, salvo quanto previsto dai commi 9 e 11, la pendenza di un ricorso giurisdizionale, nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto”.
[69] A mente dell’art. 32, co. 9, d.lgs. n. 50/2016, “il contratto non può comunque essere stipulato prima di trentacinque giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione”. Ai sensi del successivo comma 11, “se è proposto ricorso avverso l’aggiudicazione con contestuale domanda cautelare, il contratto non puo’ essere stipulato, dal momento della notificazione dell’istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all’udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva. L’effetto sospensivo sulla stipula del contratto cessa quando, in sede di esame della domanda cautelare, il giudice si dichiara incompetente ai sensi dell’articolo 15, comma 4, del codice del processo amministrativo di cui all’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, o fissa con ordinanza la data di discussione del merito senza concedere misure cautelari o rinvia al giudizio di merito l’esame della domanda cautelare, con il consenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all’immediato esame della domanda cautelare”. La disposizione peraltro non chiarisce cosa accada in caso di rigetto della richiesta di misure cautelari monocratiche, ossia se la stazione appaltante possa dirsi libera di sottoscrivere il contratto, ovverosia debba attendere comunque la celebrazione dell’udienza camerale e il successivo provvedimento collegiale. Ma non si indugia in questa sede su questo punto.
Le linee di intervento del PNRR in tema di Giustizia. Un quadro di sintesi*
di Fulvio Gigliotti*
Sommario: 1. Premessa. Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). - 2. Sollecitazioni "europee" alle riforme in materia di Giustizia.- 3. Le principali misure di intervento del PNRR sul tema. - 4. (Segue): l'Ufficio per il processo. - 5. (Segue): gli interventi in materia di giustizia digitale. - 6. Altri specifici interventi di settore.
1. Premessa. Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza italiano [[1]] si inquadra, com'è noto, nel più ampio contesto del Dispositivo europeo per la Ripresa e Resilienza [[2]], elaborato all'interno del programma europeo c.d. Next Generation eu [[3]], che ha richiesto agli Stati membri di presentare un pacchetto di investimenti e riforme.
In questo contesto, l'italia ha presentato, appunto, il c.d. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che si articola in sei Missioni (cioè, sei grandi aree di intervento) e sedici Componenti (cioè, specifiche azioni previste all'interno di ciascuna area di intervento) [[4]].
Peraltro, poichè i PNRR sono, anzitutto, piani di riforme, prima ancora che di investimenti, le linee di investimento sono collocate all'interno di una strategia di riforme che si muove lungo due direttrici fondamentali:
- le riforme settoriali, cioè misure consistenti in innovazioni normative relative a specifici ambiti di intervento o attività economiche;
- e le riforme cc.dd. di contesto, cioè d’interesse generale, che comprendono - secondo lo stesso lessico del Piano - riforme cc.dd. abilitanti, funzionali a garantire l’attuazione del Piano e in generale a rimuovere gli ostacoli amministrativi, regolatori e procedurali che condizionano le attività economiche e la qualità dei servizi erogati ai cittadini e alle imprese (come, in particolare, le misure di semplificazione e razionalizzazione della legislazione e quelle per la promozione della concorrenza); e riforme cc. dd. orizzontali, di interesse trasversale a tutte le missioni: è proprio in quest'ultimo ambito, più precisamente, che si collocano gli interventi del Piano in materia di Giustizia (nella stessa prospettiva, orizzontale, delle riforme che riguardano la P.A.).
Tali interventi, va detto subito, ancorché occasionati - soprattutto - dalla contingente stagione emergenziale, sollecitano, però, una riflessione indirizzata sul medio-lungo periodo, come d'altra parte suggerito anche da coeve iniziative di riflessione in materia di Giustizia, quale, specialmente, il c.d. Libro bianco per la Giustizia (Giustizia 2030), che - come si legge nella sua presentazione - "raccoglie le idee, l’entusiasmo e la professionalità di un gruppo di esperti – magistrati, avvocati, docenti universitari, dirigenti di uffici giudiziari, specialisti di digitalizzazione e di organizzazione dei servizi pubblici – riuniti dall’ambizione di sviluppare una visione strategica e di proporre soluzioni sistemiche per trasformare la Giustizia da elemento di crisi a motore della rinascita del Paese" [[5]].
E non è un caso che i due documenti (la Sezione del PNRR in tema di Giustizia; e il predetto Libro Bianco per la Giustizia) presentino programmi in qualche modo paralleli e convergenti, non soltanto sul piano degli obiettivi generali (digitalizzazione, organizzazione strutturale della giurisdizione; implementazione della giurisdizione alternativa), ma anche degli interventi specifici (ad es., in tema di organizzazione del processo civile).
2. Sollecitazioni "europee" alle riforme in materia di Giustizia.
Nel considerare le misure di intervento del PNRR in tema di Giustizia - che è quanto qui interessa - occorre anzitutto premettere che specifici interventi in questo ambito rientravano nelle raccomandazioni rivolte all'Italia dall'Unione europea.
Già la Relazione per Paese 2020 relativa all'Italia, presentata dalla Commissione UE il 26 febbraio 2020 [[6]], aveva evidenziato, infatti, che la durata dei contenziosi civili e commerciali in Italia continua a costituire un problema, manifestando altresì, quanto al processo penale, preoccupazioni per i tempi lunghi del processo a livello di appello; e aveva concluso, pertanto, recando - tra le altre - la raccomandazione (n. 4) a "ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio, razionalizzando e facendo rispettare le norme di disciplina procedurale, incluse quelle già all'esame del legislatore; migliorare l'efficacia della lotta contro la corruzione riformando le norme procedurali al fine di ridurre la durata dei processi penali".
In linea con questi rilievi, poi, la Raccomandazione del Consiglio dell'Unione, del 20 maggio 2020, sottolineava le criticità con riguardo alla "lunghezza delle procedure, tra cui quelle della giustizia civile" (punto 24 dei "considerando"), e manifestava preoccupazione rispetto ai "tempi di esaurimento dei procedimenti penali presso i giudici d'appello" (punto 27), raccomandando quindi all'Italia, tra l'altro, di adottare provvedimenti, tra il 2020 e il 2021, diretti al fine di "migliorare l'efficienza del sistema giudiziario e il funzionamento della pubblica amministrazione" (raccomandazione n. 4).
3. Le principali misure di intervento del PNRR sul tema
A queste richieste, appunto, si è proposto di dare una risposta il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, (anche) con specifiche misure di intervento in tema di Giustizia.
Per grandi linee, gli interventi programmati (da realizzare, secondo la prospettiva del Piano, attraverso lo strumento della delega legislativa: cioé, mediante leggi di delegazione al Governo delle misure di intervento), dovranno soprattutto dirigersi verso:
- la riforma del processo, civile e penale;
- la deflazione del contenzioso tributario;
- la riforma dell'ordinamento giudiziario;
- la riorganizzazione strutturale degli uffici giudiziari.
Attraverso tali misure, evidentemente, si persegue l'obiettivo di fondo della riduzione dei tempi della Giustizia, che - forse ambiziosamente - il PNRR stima nell'ordine della riduzione della durata media dei processi civili di più del 40 per cento e dei processi penali di circa il 25 per cento [[7]], con un potenziale impatto di crescita, nel lungo periodo, dello 0,5 per cento in termini di PIL, consumi privati e investimenti totali [[8]].
In questo scenario - nel quale, pure, trovano spazio specifiche misure di riqualificazione e valorizzazione dell'edilizia giudiziaria, in chiave ecologica e digitale - due fondamentali linee portanti (diciamo così, "trasversali") del Piano risultano essere:
- per un verso, l'obiettivo – espressamente enunciato – di portare a piena attuazione il c.d. Ufficio per il processo;
- nonché, per altro verso, quello di aumentare il grado di digitalizzazione della Giustizia.
Dal primo punto di vista, il Piano si propone la massiccia implementazione e stabilizzazione del c.d. Ufficio per il processo, avviato, sperimentalmente, a partire dall'anno 2014.
Secondo le prospettive presentate nel Piano, ciò dovrebbe contribuire in modo decisivo alla realizzazione di alcuni obiettivi strategici da realizzare entro la prima metà del 2026, quali, in particolare:
- l'abbattimento dell’arretrato civile (cioè dei processi pendenti che hanno già superato i termini di tolleranza della c.d. Legge Pinto) del 90%, in tutti i gradi di giudizio;
- l'abbattimento dell’arretrato della giustizia amministrativa del 70% in tutti i gradi di giudizio;
- la riduzione del 40% della durata dei procedimenti civili e la riduzione del 25% della durata dei procedimenti penali (come anche ricordato, di recente, dal Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, nel suo intervento del 4 settembre 2021 al Forum Ambrosetti di Cernobbio).
Obiettivo intermedio è, invece, l'abbattimento dell’arretrato civile già del 65% in primo grado e del 55% in appello, entro la fine del 2024 (non senza assicurare un monitoraggio continuo sulla formazione di nuovo arretrato al fine, evidentemente, di scongiurare che ciò abbia a realizzarsi): e ciò perché, com'è noto, l'erogazione degli importi accordati dall'Unione europea ha luogo progressivamente, solo man mano che gli obiettivi programmati vengono conseguiti in misura adeguata, essendo altrimenti prevista la sospensione dei pagamenti e l'adozione di misure dirette a garantirne il raggiungimento.
Tutti gli obiettivi, peraltro, sono di sistema, dovendo quindi essere valutati complessivamente, a livello nazionale e non dei singoli Uffici giudiziari.
4. (Segue): l'Ufficio per il processo.
In questo quadro, come si è anticipato, un ruolo fondamentale viene assegnato al consolidamento dell'Ufficio per il processo.
Si tratta, com'è noto, di una struttura organizzativa a supporto dell'attività del magistrato, introdotta, in via sperimentale, dal D. L. n. 90/2014, presso le Corti di Appello e i Tribunali ordinari, impiegando personale di cancelleria e i tirocinanti della Giustizia di cui all'articolo 73 D.L. n. 69/2013; struttura poi estesa (dal D.L. n. 168/2016) anche alla giustizia amministrativa e integrata, nella sua composizione, dalla successiva assegnazione ad essa di giudici onorari di pace (dal D.L. 117/2016) [[9]].
Successivamente, il Consiglio Superiore della Magistratura ha anche adottato, nel corso del 2019, apposite Linee guida per l'Ufficio per il processo, prevedendo che la struttura possa «essere assegnata a supporto di uno o più giudici professionali o di una o più sezioni, valutati, a tal fine e in via prioritaria, il numero delle sopravvenienze e delle pendenze a carico di ciascuna sezione o di ciascun magistrato, e tenuti in considerazione gli obiettivi perseguiti con i programmi di gestione»[[10]].
La novità introdotta sul punto dal PNRR, dunque, non riguarda tanto la presenza di tale modello organizzativo (modello in effetti, già esistente e diretto a proiettare l'attività giurisdizionale verso una dimensione che travalica quella per così dire solitaria del magistrato, richiedendo, al contrario, di sviluppare l'attitudine a una diversa impostazione della propria funzione e del proprio lavoro, calibrandola sulla cooperazione e sulla capacità di organizzazione, indirizzo e confronto con altri soggetti, nel comune sforzo, pur nella diversità di ciascun ruolo, di migliorare l'efficienza del sistema Giustizia).
Piuttosto, il vero elemento di novità è costituito dal tentativo di fare uscire l'Ufficio per il processo dal livello della mera sperimentazione, in una prospettiva che guarda al suo progressivo consolidamento e che richiama l'attenzione sull’importanza del fattore organizzativo [[11]] nella dimensione giudiziaria [[12]].
Proprio al fine - su questo punto - dell'attuazione del Piano, il D.L. 9 giugno 2021, n. 80, all'art. 11, ha autorizzato l'assunzione, seppure a tempo determinato, di ben 16.500 unità di personale, con profili professionali diversificati, da destinare all'Ufficio per il processo, in una prospettiva tendente alla possibile stabilizzazione della struttura di supporto all’attività dei magistrati, con la finalità di «garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi ed assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione»[[13]].
Su queste basi, il primo bando per l'Ufficio per il processo, relativo a 8.171 unità (scaduto il 23 settembre 2021), ha visto la presentazione di circa 66.000 domande, con un’età media dei candidati compresa tra 30 e 40 anni e con prevalenza di laurea magistrale, conseguita nel 77,8% dei casi in materie giuridiche (un secondo bando è programmato per il 2023).
Parallelamente, poi, è stato anche adottato, dal Ministero della Giustizia, un bando per un progetto da 51 milioni di euro col quale le Università (che risulteranno assegnatarie dei fondi) dovranno contribuire ad individuare un nuovo modello di organizzazione della Giustizia; e ciò - come è stato detto, assai di recente, dal Ministro Cartabia in apertura di un webinar organizzato dal Ministero insieme alla crui - al fine di mettere in atto un “cambio di paradigma” da parte delle stesse Università, diretto a consentire una rinnovata formazione dei giuristi del futuro [[14]].
5. (Segue): gli interventi in materia di giustizia digitale.
Un secondo profilo "trasversale" di intervento in materia di Giustizia è dato, poi, dal tema della digitalizzazione del sistema giudiziario: l'obiettivo di una "giustizia digitale" rappresenta con sufficiente sicurezza, infatti, il futuro dell'organizzazione del lavoro giudiziario, diventando perciò inevitabile anche l'acquisizione di competenze di carattere tecnologico-informatico sempre più particolareggiate [[15]].
Invero, molto dipenderà dal modo in cui sarà concretamente "declinata" la digitalizzazione della Giustizia; in proposito, peraltro, la linea di tendenza sembra ormai sempre più decisamente orientata verso una preponderante transizione digitale anche nel settore Giustizia [[16]], come ad es. è reso evidente dalle conclusioni presentate dal Consiglio dell'Unione europea (che si leggono in G.U.C.E. n. 342 del 4 ottobre 2020), la cui lettura è molto istruttiva al riguardo.
Il Consiglio, infatti, pur riconoscendo l'opportunità del mantenimento di procedure non digitali tradizionali, sollecita lo sviluppo di soluzioni digitali per l'intero iter dei procedimenti giudiziari, invitando gli Stati membri e l'UE a intensificare gli sforzi orientati verso questa direzione.
E in questa prospettiva, le conclusioni del Consiglio non mancano di sottolineare che «la promozione delle competenze digitali nel settore della giustizia è necessaria per consentire a giudici, procuratori, operatori giudiziari e altri professionisti del diritto di utilizzare e applicare le tecnologie e gli strumenti digitali in modo efficace», raccomandando, correlativamente, la necessità di una adeguata formazione degli operatori medesimi «per poter trarre vantaggio dall'uso delle tecnologie digitali, compresa l'intelligenza artificiale» (della quale vengono indicati i possibili risvolti pratici), invitando la Commissione a «promuovere opportunità di formazione in materia di alfabetizazione e competenze digitali» anche per i magistrati.
Nel medesimo senso, d'altra parte, indirizza anche la "Carta etica europea" sull'utilizzo dell'intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari, elaborata dalla Commissione europea per l'efficienza della Giustizia e adottata il 3 dicembre 2018 [[17]], la quale si diffonde anche sulle prospettive della c.d. giustizia predittiva, evidenziandone potenzialità e limiti [[18]].
Che quello descritto rappresenti, ragionevolmente, il quadro più verosimile delle "nuove competenze" da maturare, acquisire e consolidare è ampiamente confermato, d'altra parte, dalle stesse posizioni ufficiali espresse a livello eurounitario.
Basterà qui richiamare, ad es., la Comunicazione della Commissione europea n. 713/2020, sulla strategia europea di formazione giudiziaria 2021-2024, la quale richiama l'attenzione proprio, tra l'altro, sulla necessità di una significativa digitalizzazione della giustizia e della possibile promozione dell'impiego dell'intelligenza artificiale nel settore Giustizia.
Il PNRR, in coerenza con la prospettiva appena delineata, dedica quindi ampia attenzione agli interventi diretti a favorire il processo di digitalizzazione del Paese [[19]].
6. Altri specifici interventi di settore.
Sotto altro aspetto, poi, il PNRR ha previsto ambiti di intervento prioritario in materia di Giustizia, soprattutto attraverso quattro riforme fondamentali:
- quella del processo penale;
- quella del processo civile e delle cc.dd. ADR;
- quella diretta alla riduzione del contenzioso tributario, specialmente in Cassazione;
- e, infine, quella dell'ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della Magistratura.
Per tutte queste riforme - alcune delle quali già approdate a primi risultati normativi [[20]] - sono state costituite dal Ministero apposite Commissioni di Studio, per la elaborazione di specifiche proposte di riforme.
Soprattutto le prime due (dei processi penale e civile), peraltro, hanno determinato consistenti discussioni, anche sulla base di alcuni pareri critici resi dal Consiglio Superiore della Magistratura e di significative prese di posizione contrarie di autorevoli esponenti dell'Accademia e di importanti rappresentanze della professione forense.
Non è possibile, naturalmente, entrare - in questa sede - nel dettaglio delle specifiche discussioni sorte rispetto a ciascun settore di intervento, perché questo richiederebbe altrettante autonome relazioni e relativi dibattiti.
Sembra quindi sufficiente limitarsi - in poche e rapidissime battute conclusive - a qualche riflessione sulle più rilevanti questioni a tal riguardo sollevate.
A) Quanto al settore penale, com'è noto, pur essendo stati apprezzati altri profili della riforma complessivamente proposta (dagli interventi in tema di riti alternativi alla valorizzazione della c.d. "giustizia riparativa"), due aspetti hanno destato speciale preoccupazione (e, talora, anche radicali dissensi):
- l'assoggettamento all'indirizzo della determinazione legislativa parlamentare della definizione di criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale [[21]];
- e, soprattutto, l'introduzione, per i giudizi di gravame (appello e Cassazione), del meccanismo della c.d. improcedibilità per superamento di limiti temporali prefissati: limiti, peraltro, tendenzialmente - e salve talune "limature" (per lo più transitorie) introdotte in extremis - assai ristretti (due anni per l'appello e uno per la Cassazione) [[22]].
In proposito, che - in effetti - la novella introdotta (com'è noto, ormai già tradotta in legislazione vigente) risulti davvero in linea con gli stessi obiettivi di partenza - quali parzialmente derivanti anche dalle sollecitazioni europee - non appare facilmente predicabile: la richiesta da soddisfare, invero, atteneva ai tempi dei procedimenti di gravame - sul presupposto, però, della loro celebrazione - mentre non sembra risposta davvero adeguata quella del taglio radicale del numero dei procedimenti (taglio che, in determinate realtà territoriali giudiziarie sarà pressoché inevitabile).
B) Relativamente al processo civile, invece, mentre hanno trovato sufficiente consenso gli interventi in tema di valorizzazione degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (ADR) [[23]], la questione che maggiormente ha fatto discutere è quella delle cc.dd. preclusioni istruttorie: cioè della introduzione di una disciplina che imponga alle parti del processo civile - fin dall'udienza di apertura del procedimento [[24]] - la completa e puntuale delimitazione iniziale dell'oggetto della controversia e dei mezzi istruttori dedotti [[25]].
Senza poter entrare, al riguardo, nei dettagli tecnici della disciplina dettata allo scopo, basterà qui ricordare che da diversi fronti - e anche da parte del Consiglio Nazionale Forense - sono state manifestate serie preoccupazioni, sia per una possibile compromissione del diritto di difesa che, paradossalmente, per forti riserve sulla stessa idoneità effettiva di una tale misura a semplificare e ridurre i tempi di trattazione delle controversie, considerato che, per un verso, la disciplina così dettata costringerà prudenzialmente le parti, sotto il profilo istruttorio, a "dedurre tutto il deducibile" (con possibile appesantimento del fascicolo); e che, per altro verso, rimarrà altamente probabile che gli uffici in sofferenza ritardino comunque la definizione del giudizio, rinviando a lunghissimo termine le udienze per l'assunzione dei mezzi istruttori e la decisione.
Non meno problematiche si annunciano, peraltro, le ulteriori riforme programmate in tema di Giustizia, avuto specialmente riguardo a quelle in materia di ordinamento giudiziario e di riforma del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) [[26]].
Non va trascurato, tuttavia, che la più gran parte degli interventi programmati - come si è già anticipato - riguarda principi di delega legislativa, per cui la concreta attuazione delle misure proposte - nei limiti, ovviamente, delle possibilità tecniche offerte dallo strumento della legislazione delegata - potrà in certa misura giovarsi delle sollecitazioni e dei dibattiti che ne precederanno l'adozione, rendendo quindi altamente preziosi momenti di riflessione come quello oggi proposto, e altri che verranno, anche a carattere più specificamente tematico.
*Costituisce, omesse le parole di circostanza, e con l'aggiunta delle note, il testo della Relazione presentata al Convegno Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (P.N.R.R.): quadro normativo e misure di esecuzione degli investimenti - Catanzaro (umg) - 1 ottobre 2021
*Ordinario di Diritto Privato nell'Università Magna Graecia di Catanzaro (umg) - Direttore dell'Ufficio Studi del Consiglio Superiore della Magistratura
[[1]] Che può essere direttamente scaricato, in formato pdf, visitando l'indirizzo https://italiadomani.gov.it/it/home.html.
L'elenco e la consultazione dei singoli Piani nazionali presentati è disponibile all'indirizzo
https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/recovery-coronavirus/recovery-and-resilience-facility_en#national-recovery-and-resilience-plans.
Ampia informazione sul tema, con specifico riguardo alle misure attuative, nel contributo di P. Casalino, La fase di prima attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza: gestione, momitoraggio e controllo. Principi trasversali e condizionalità per il corretto utilizzo delle risorse europee, in http://www.rivistacorteconti.it/, 5/2021, 5 SS.
Una essenziale esplicazione del Piano nel volume di V. Vacca, Guida al piano Nazionale di Ripresa e Resilienza - pnrr, Pisa, Pacini giuridica, 2021.
[[2]] Istituito dal Regolamento (ue) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021.
[[3]] Il "pacchetto" per la ripresa da Covid-19 (Recovery Fund), istituito dal Consiglio europeo nel luglio del 2020, stanzia risorse per circa 750 miliardi di euro, di cui poco più di 191 miliardi risultano destinati per l'attuazione del pnrr italiano (denominato Italia domani, sul quale, per informazioni essenziali, si può utilmente consultare l'indirizzo Internet https://italiadomani.gov.it/it/home.html).
Un'approfondita disamina delle questioni connesse al Recovery Fund si trova nei saggi (di diversi AA.) raccolti nel volume Recovery Fund e ruolo della Corte dei conti, Quaderno n. 1/2021 della Rivista della Corte dei conti, Roma, 2021.
[[4]] Il Piano può essere consultato e scaricato visitando l'indirizzo Internet https://italiadomani.gov.it/it/home.html (le successive citazioni di rinvio a singole pagine del Piano fanno riferimento alla versione pdf scaricabile dal predetto indirizzo).
Le Missioni del Piano riprendono le sei grandi aree di intervento (pilastri) individuate nel Dispositivo europeo per la Ripresa e Resilienza (transizione verde; trasformazione digitale; crescita intelligente, sostenibile e inclusiva; coesione sociale e territoriale; salute e resilienza economica, sociale e istituzionale; politiche per le nuove generazioni, l’infanzia e i giovani).
[[5]] Il testo del Libro Bianco è disponibile on line, all'indirizzo Internet https://www.giustizia2030.it. Una specifica valutazione del predetto Libro Bianco, anche alla luce delle prospettive oggi dischiuse dal pnrr è nel contributo di C. Castelli, Giustizia 2030. Un libro bianco per la giustizia e il suo futuro, in www.questionegiustizia.it (fasc. 3/2021).
[[6]] Per il testo v. https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/2020-european_semester_country-report-italy_it.pdf.
[[8]] La stima è effettuata «sulla base di un recente studio della Banca d’Italia, basato su dati microeconomici a livello di impresa», in forza del quale si è ritenuto che «l’insieme degli effetti di una riforma della giustizia può essere simulato attraverso la relazione che intercorre tra la durata dei processi e la produttività del sistema economico. Lo studio mostra come la riduzione nella durata dei processi pari a circa il 15 per cento, intercorsa tra il 2008 e il 2016 a seguito di una serie di innovazioni introdotte da diversi provvedimenti legislativi, abbia innescato un miglioramento della produttività totale dei fattori (TFP) pari allo 0,5 per cento. Alla luce di tale risultato» - prosegue il Piano - «si ipotizza che le nuove iniziative di riforma del settore giudiziario possano avere effetti addizionali della stessa portata di quelli descritti, gradualmente e su un orizzonte di cinque anni dal momento della loro implementazione» (così a pag. 265 del pnrr, da cui sono tratti i periodi tra virgolette che precedono).
[[9]] Sulle novità introdotte dal D. Lgs. n. 116/2017 v. G. Reali, Il giudice onorario di pace e l'ufficio del processo, in Foro it., 2018, 12 ss.
[10] Per un commento alle richiamate Linee Guida v. G. Grasso, L'attuazione dell'ufficio per il processo, in Foro it., 2019, 409 ss.
[11] E ciò perché, come ha di recente ricordato il Ministro della Giustizia nell'intervento al quale più sopra si faceva cenno, «finora il lavoro del magistrato è stato sempre un lavoro squisitamente individuale. Con l’ufficio del processo diventa, invece, un lavoro di equipe. È come se in una sala operatoria finora il chirurgo avesse lavorato da solo o al massimo con qualcuno che gli passava i ferri. Ora entra in sala tutta un’equipe di infermieri, assistenti, anestesisti, specialisti. Il lavoro del decidere" - continua il Ministro - "non può che spettare al magistrato, come solo il chirurgo può mettere la mano sul bisturi nei passaggi decisivi, ma il lavoro di supporto potrà essere svolto con l’aiuto di altre risorse».
[12] Nè è da escludere, peraltro, che tutto ciò possa riflettersi anche nell'attività della formazione giudiziaria, la quale dovrà sviluppare sempre più, prevedibilmente, quelle metodologie cc.dd. di apprendimento partecipativo sulle quali diffusamente si intratteneva, già da tempo, il Manuale della Rete europea di formazione giudiziaria, proprio al fine di promuovere la maturazione di competenze relazionali (di indirizzo, organizzazione e confronto) che proprio un metodo di tipo esperienziale più facilmente potrà favorire.
[13] Gli addetti all'Ufficio, in particolare, supporteranno i magistrati nello studio dei fascicoli, nelle ricerche giurisprudenziali e dottrinali, nella redazione di bozze di provvedimenti semplici e in altre attività a carattere pratico-materiale (come, ad esempio, il controllo di regolarità delle notifiche).
[14] È chiaro, peraltro, che - come evidenziato da G. Reali, L'ufficio per il processo, in Lavoro Diritti Europa, 2021, 2 ss. (citaz. a pag. 19) - «il successo (auspicabile ed auspicato) di tali importanti novità organizzative è legato a triplo filo vuoi all’effettiva (e duratura) attribuzione di mezzi e di adeguate risorse finanziarie da destinare al personale inserito nella struttura, vuoi alla capacità dei capi degli uffici di coordinare, organizzare e integrare tra loro le diverse e ben più numerose professionalità che vi faranno parte, vuoi dalla disponibilità dei magistrati togati ad accogliere il nuovo metodo di lavoro “in squadra” per tentare di raggiungere l’atteso e improcrastinabile obiettivo dell’efficienza e del miglioramento qualitativo e quantitativo della giustizia civile».
[15] A ben guardare, infatti – al di là delle conoscenze di base necessarie per confrontarsi con un determinato ambiente digitale (si pensi, specialmente, alla c.d. "consolle del magistrato") – una particolare esperienza informatica è richiesta, oggi, soltanto (come reso evidente dalla Circolare CSM in materia, del 26.10.2016 e s.m.i.) per i Magistrati referenti distrettuali per l'innovazione e l'informatica (cc. dd. RID) e per i Magistrati di riferimento per l'innovazione e l'informatica (cc.dd. MAGRIF).
[16] Su tale prospettiva v., per tutti: A Garapon-J. Lassègue, La giustizia digitale. Determinismo tecnologico e libertà, Bologna, 2021; F. Fimmanò-I.S.I. Pisano-G. Buccarella, Giustizia digitale. Processi telematici e udienza da remoto, Milano, 2021.
[17] Per una rapida informazione di sintesi sul tema v. D. Onori, Intelligenza artificiale e Giustizia. I principi della "Carta etica europea", in https://www.centrostudilivatino.it.
[18] Il tema della c.d. giustizia predittiva è ormai da tempo all'attenzione della riflessione giuridica; ex multis v.: S. Arduini, La scatola nera della decisione giudiziaria: tra giudizio umano e giudizio algoritmico, in BioLaw Journal - Rivista di BioDiritto, 2021, 453 ss.; E. Battelli, Giustizia predittiva, decisione robotica e ruolo del giudice, in Giust. civile, 2020, 281 ss.; F. Donati, Intelligenza artificiale e giustizia, in Riv. AIC, 2020, 415 ss.; V. Zambrano, Algoritmi predittivi e amministrazione della giustizia: tra esigenze di certezza e responsabilità, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, 2020, 611 ss.; C. Castelli-D.Piana, Giustizia predittiva. La qualità della giustizia in due tempi, in Questione Giustizia, 2018, 153 ss.
V., inoltre, L. Viola, Overruling e giustizia predittiva, Milano, 2020.
[19] Non va trascurato, infatti, che proprio la digitalizzazione è una delle sei missioni fondamentali del Piano, anche perché, come ricordato in apertura del pnrr, «per quanto concerne la transizione digitale, i Piani devono dedicarvi almeno il 20 per cento della spesa complessiva per investimenti e riforme»: proprio per questa ragione «la digitalizzazione e l’innovazione di processi, prodotti e servizi rappresentano un fattore determinante della trasformazione del Paese e devono caratterizzare ogni politica di riforma del Piano». Conseguentemente, il Piano riserva specifica considerazione al profilo appena indicato, proponendosi di «aumentare il grado di digitalizzazione della giustizia, mediante l’utilizzo di strumenti evoluti di conoscenza (utili sia per l’esercizio della giurisdizione sia per adottare scelte consapevoli), il recupero del patrimonio documentale, il potenziamento dei software e delle dotazioni tecnologiche, l’ulteriore potenziamento del processo (civile e penale) telematico».
[20] Per la riforma del processo penale v., in particolare, la L. n. 134/2021, sulla quale, per una prima riflessione, A. Natale, La c.d. "riforma Cartabia" e la giustizia penale, in Questione Giustizia, 24 marzo 2022; G. De Marzio, La riforma Cartabia e il nuovo regime dell'improcedibilità per decorso dei termini del giudizio di impugnazione, in Foro it., 2021, 213 ss.
Per gli interventi sul processo civile v. la L. n. 206/2021, su cui, ad es., C. Cecchella, Riforma del processo civile: le disposizioni in vigore dal 22 giugno 2022, in www.altalex.com.
[21] Sul tema v., di recente, anche per diversi spunti critici, G. Monaco, Riforma della giustizia penale e criteri di priorità nell'esercizio dell'azione, in www.federalismi.it, 23 marzo 2022.
[22] In proposito v.: G. Leo, Prescrizione e improcedibilità: problematiche di diritto intertemporale alla luce della giurisprudenza costituzionale, in www.sistemapenale.it, 16 febbraio 2022; A. Nappi, Appunti sulla disciplina dell’improcedibilità per irragionevole durata dei giudizi di impugnazione, in Questione Giustizia, 2021, 176 ss. Alla riforma della giustizia penale è interamente dedicato il fascicolo n. 4/2021 di Questione Giustizia (con contributi, spesso critici, di diversi Autori).
Per una trattazione specifica v. anche B. Romano-A. Marandola (a cura di), La riforma Cartabia. La prescrizione, l’improcedibilità e le altre norme immediatamente precettive, Pisa, 2021.
[23] Esprime apprezzamento sul punto (pur manifestando riserve su altri profili della riforma) A.M. Tedoldi, Le adr nella delega per la riforma del processo civile, in Questione Giustizia, 2021, 142 ss.; formula, invece, alcune rilevanti osservazioni critiche anche sul tema specifico degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie A.M. Zumpano, Le adr nella delega per la riforma del processo civile, ivi, 135 ss.
[24] Nella versione originaria della proposta di riforma, la preclusione maturava già con riguardo agli "atti introduttivi" del giudizio, laddove nella successiva rielaborazione della stessa si è collocata la preclusione lungo una scansione temporale (articolata su tre termini diversi) che va dagli atti introduttivi alla prima udienza.
[25] Analitica considerazione dei vari aspetti della riforma è contenuta nei contributi (di diversi Autori) ospitati nel fascicolo n. 3/2021 di Questione Giustizia, interamente dedicato alla novella.
Sul tema specifico delle preclusioni istruttorie v., per molteplici riserve e perplessità, M. Gattuso, La riforma governativa del primo grado: le ragioni di un ragionevole scetticismo e alcune proposte organizzative ancora possibili, in Questione Giustizia, 2021, 59 ss.
[26] Sebbene anche con riferimento ai diversi propositi di riforma della giustizia tributaria non siano mancate perplessità e preoccupazioni (v., ad es.: E. Della Valle, La riforma della giustizia tributaria nei ddl di fonte "senatoriale", in www.rivistadirittotributario.it, 1 aprile 2022; M. Basilavecchia, Riforma della giustizia tributaria. Una "storica" prima pietra, tra luci e ombre, in www.ipsoa.it), è soprattutto la riforma dell'ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della Magistratura che ha sollevato le più forti resistenze e riserve (quotidianamente presenti, non solo nelle riviste specializzate, nel dibattito sul tema).
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