ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea: qualche breve valutazione sulla legittimità, sulla proporzionalità della misura e sui suoi effetti non discriminatori
di Beatrice Rossilli
Sommario: 1. Il caso. Breve ricognizione dei sette quesiti rivolti alla Corte di Giustizia Europea dal giudice del lavoro di Padova. – 2. L’autorizzazione condizionata della Commissione Europea alla messa in commercio dei vaccini anti COVID-19 e la procedura accelerata prevista dal Regolamento (CE) 507/2006. Il potrei ma non voglio del Tribunale a sospendere gli effetti di un atto europeo. – 3. La compatibilità dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 con il principio generale di proporzionalità… - 4.…e il principio di non discriminazione – 5. Valutazioni conclusive alla luce degli ultimi aggiornamenti normativi.
1. Il caso. Breve ricognizione dei sette quesiti rivolti alla Corte di Giustizia Europea dal giudice del lavoro di Padova.
L’ordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia in commento è stata disposta il 7 dicembre 2021 dal giudice del lavoro di Padova, nell’ambito del giudizio promosso ex art. 700 c.p.c. da un’infermiera che, essendosi sottratta alla somministrazione del vaccino anti COVID-19 aveva subito la sospensione dall’Albo professionale e la sospensione del rapporto di lavoro intrattenuto con la struttura sanitaria presso la quale risultava occupata, ai sensi e per l’effetto dell’art. 4 d.l. n. 44/2021.
È oramai notorio che il legislatore, con l’art. 4 del d.l. n. 44/2021 - convertito con modificazioni dalla L. n. 76/2021 - ha introdotto nell’ordinamento l’obbligo vaccinale[1] gravante nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario attuando, in questo modo, la rigorosa riserva di legge contenuta nell’art. 32 Cost. in materia di trattamenti sanitari obbligatori[2].
L’effetto che la legge riconduce all’inadempimento dell’obbligo vaccinale è la sospensione dall’esercizio della professione e il venir meno del diritto del lavoratore a ricevere la retribuzione o qualunque altro compenso o emolumento.
Il datore di lavoro, nel caso di specie, preso atto dell’inosservanza di tale obbligo e valutata l’impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni, anche inferiori, predisponeva nei suoi confronti il provvedimento di sospensione. Sul punto, è bene chiarire che nella versione originaria dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 – applicabile ratione temporis ai fatti in causa - diversamente dalla disposizione attualmente in vigore, il legislatore prevedeva al comma 8[3] una particolare ipotesi di ius variandi verticale in pejus (ulteriore rispetto a quelle già previste dai commi 2 e 4 dell’art. 2103 del c.c.), successivamente eliminata dal d.l. n. 172/2021 che con l’art. 1 comma 1 lett. b) ha sostituito l’art. 4[4]. Evidentemente, lo ius variandi sarebbe stato strumentale alla possibilità per il lavoratore di proseguire lo svolgimento della prestazione, deputandolo a mansioni che non implicassero contatti interpersonali o, comunque, il rischio di diffusione del contagio.
La facoltà del datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni diverse o inferiori, lascia intendere che, in un primo momento, l’intenzione del legislatore dovesse essere quella di limitare “ove possibile” l’ipotesi di sospensione del rapporto contrattuale (e della retribuzione) a casi limite.
Ritenendo illegittimamente sospeso il suo rapporto di lavoro, la lavoratrice impugnava il provvedimento di sospensione dinanzi al Tribunale chiedendo di essere riammessa in servizio e invocando, a sostegno del proprio ricorso, argomenti sia in fatto che in diritto.
Il giudice di prime cure, riservandosi di decidere, sospende il procedimento e rinvia gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sottoponendole ben sette quesiti.
Com’è noto, la competenza pregiudiziale di cui è titolare la CGUE si erge lungo due direttrici, vale a dire che i giudici nazionali possono porre alla Corte tanto questioni di interpretazione che questioni di validità del diritto dell’Unione[5]. In questo secondo caso il controllo di validità in sede pregiudiziale viene esercitato sugli atti posti in essere dalle Istituzioni europee.
Nell’ordinanza in commento, si riscontrano entrambe le tipologie di rinvio (rinvio di interpretazione/rinvio di invalidità).
Guardando ai quesiti trasmessi dal g.l. di Padova, si evince che la maggior parte di essi sono connessi al quesito “madre” avente ad oggetto il dubbio di validità dell’atto attraverso il quale la Commissione europea ha autorizzato la messa in commercio dei vaccini anti COVID-19.
Tuttavia, rinviando al prossimo paragrafo il doveroso approfondimento su quanto appena accennato, è ora opportuno passare al vaglio i quesiti contenuti nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale.
Il Tribunale chiede alla Corte di Giustizia di chiarire: 1) se l’autorizzazione condizionata emessa su parere favorevole EMA in relazione ai vaccini in commercio possa ancora essere considerata valida alla luce dell’art. 4, Regolamento n. 507/2006; 2) se possa ritenersi sussistente una deroga all’obbligo vaccinale valida nei confronti di quegli operatori sanitari guariti dal Covid-19 e, pertanto, divenuti immuni; 3) se, in ragione della condizionalità dell’autorizzazione dei vaccini, i sanitari obbligati possano opporsi all’inoculazione fintantoché non sarà accertato che non vi siano controindicazioni e che i benefici siano superiori a quelli di altri farmaci anti-COVID-19 oggi in commercio; 4) se sia legittima la sospensione dal posto di lavoro senza diritto alla retribuzione per il sanitario non vaccinato, o se sia necessario prevedere una gradualità delle misure sanzionatorie, in ossequio al principio fondamentale di proporzionalità; 5) se la verifica della possibilità di utilizzazione in forma alternativa del lavoratore debba avvenire nel rispetto del contraddittorio e, quando ciò non avvenga, se ai sensi dell’art. 41 della Carta di Nizza si configuri il diritto al risarcimento del danno.
Il giudice ha poi posto due ulteriori quesiti:
6) se la normativa interna che da un lato, permette al personale sanitario dichiarato esente dall’obbligo vaccinale di esercitare la propria attività purché nel rispetto dei presidi di sicurezza, e dall’altro, prevede la sospensione automatica senza retribuzione del sanitario che - divenuto immune a seguito del contagio - non voglia sottoporsi al vaccino senza indagini mediche, possa ritenersi compatibile con il principio di non discriminazione, il cui rispetto è imposto dal Regolamento n. 953/2021[6].
7) se la normativa nazionale che obbliga alla vaccinazione anche il personale sanitario che, sebbene proveniente da altro stato membro, si trovi nel territorio italiano ai fini dell’esercizio della libera prestazione dei servizi e della libertà di stabilimento, possa ritenersi rispettosa del Regolamento n. 953/2021.
2. L’autorizzazione condizionata della Commissione Europea alla messa in commercio dei vaccini anti COVID-19. Il potrei (?) ma non voglio del Tribunale a sospendere gli effetti di un atto europeo.
Una volta presentati i quesiti posti dal Tribunale è possibile riprendere le fila del discorso di sopra solo accennato. Ebbene, si è testé rilevato che la maggioranza dei quesiti possono ritenersi connessi al primo tra quelli elencati nel paragrafo precedente.
In effetti, il quesito relativo alla questione di validità dell’atto autorizzatorio emanato dalla Commissione, attraverso il quale essa ha abilitato la messa in commercio dei vaccini, appare essere la barriera da valicare, e la soluzione affermativa eventualmente predisposta dalla Corte di Giustizia in sede di competenza pregiudiziale configura, a tutti gli effetti, la fondamentale premessa per poter rispondere a molti degli altri successivi quesiti.
Detto in altre parole, se la Corte di Giustizia riterrà illegittima l’autorizzazione della Commissione, i quesiti connessi a tale questione di validità, saranno inevitabilmente assorbiti.
È bene ora soffermarsi sull’autorizzazione della Commissione e su quali siano le argomentazioni giuridiche sulle quali risultano essersi diramati i dubbi di validità avanzati dal giudice del lavoro di Padova.
Ai sensi dell’art. 3 del Regolamento (CE) n. 726[7] del 31 marzo 2004 si legge, al primo comma “Nessun medicinale (…) può essere immesso in commercio nella Comunità senza un'autorizzazione rilasciata dalla Comunità secondo il disposto del presente regolamento”.
Ciò significa che, alla luce della normativa europea sul punto, qualunque azienda farmaceutica desideri commercializzare un vaccino nel territorio dell’UE dovrà richiedere ex ante l’autorizzazione all’agenzia europea del farmaco (EMA), competente a valutare la sicurezza, l'efficacia e la qualità dello stesso[8].
Se l'EMA formula un parere favorevole al rilascio dell’autorizzazione, allora la Commissione può procedere alla commercializzazione del vaccino sul mercato dell'UE.
Tuttavia, l’ordinamento sovranazionale si è dotato di uno strumento normativo, azionabile al verificarsi di particolari situazioni d’emergenza, che permette vengano rapidamente messi a disposizione - in tutto il territorio unionale - medicinali in grado di fronteggiarle.
Si tratta della procedura di autorizzazione condizionata all’immissione in commercio, contenuta nel Regolamento (CE) n. 506 del 29 marzo 2006.
Si badi bene, non si tratta di una procedura più asciutta o scarna rispetto alla procedura ordinaria, al contrario, si tratta di uno strumento la cui cifra è senza dubbio quella della celerità – funzionale a domare la circostanza emergenziale che ne presuppone e giustifica l’impiego[9] – ma dove gli ulteriori passaggi si realizzano in un secondo momento, vale a dire ex post rispetto all’effettiva diffusione del medicinale.
In circostanze di questo tipo, comunque, l’EMA svolge un esame accurato ed approfondito di tutte le prove fornite dalle aziende farmaceutiche istanti.
Malgrado non siano stati forniti dati clinici completi in merito alla sicurezza e all’efficacia del medicinale,
l’art. 4 del presente Regolamento definisce le condizioni da rispettare affinché possa essere rilasciata l’autorizzazione all’immissione in commercio: a) il rapporto rischio/beneficio del medicinale risulta positivo; b) è probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi; c) il medicinale risponde ad esigenze mediche insoddisfatte; d) i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superano il rischio inerente al fatto che occorrano ancora dati supplementari.
Allo stato, sono molteplici i vaccini per i quali risulta che la Commissione abbia autorizzato la loro immissione in commercio condizionata[10] per fronteggiare l’epidemia.
Nell’ordinanza in commento si evince che il nocciolo sul quale si fonda il dubbio di validità delle autorizzazioni vaccinali emesse dalla Commissione nutrito dal Tribunale di Padova e su cui dovrà pronunciarsi in sede pregiudiziale la Corte di Giustizia, insiste proprio su questo punto, vale a dire, l’effettivo perfezionamento delle condizioni previste ex art. 2 par. 1 del Regolamento n. 506/2006.
Per il giudice il maggior grado di incertezza si concentrerebbe sulla condizione di cui alla lettera c).
A fondamento delle sue perplessità menziona la presenza di cure alternative[11] rispetto a quelle vaccinali, già allora disponibili in ambienti ospedalieri, meno pericolose e aventi anch’esse un’alta efficacia di prevenzione.
Tra le condizioni contemplate dall’art. 4 del Regolamento, secondo la ricostruzione del giudice, questo tassello andrebbe a compromettere il verificarsi di quella che ammette il rilascio dell’autorizzazione solo in quanto il medicinale “risponde ad esigenze mediche insoddisfatte”. Per ciò deve intendersi, come spiega lo stesso Regolamento al par. 2, “una patologia per la quale non esiste un metodo soddisfacente di diagnosi, prevenzione o trattamento autorizzato nella Comunità”.
Tale dato, pertanto, andrebbe a minare la legittimità dell’autorizzazione condizionata e, secondo il Tribunale, ciò comporterebbe l’invalidità dell’atto di diritto dell’Unione Europea in questione ritenendo perciò necessario l’intervento della CGUE.
È bene chiarire che, in queste poche pagine, non si ha nemmeno l’ambizione di tentare di sciogliere questioni afferenti ad un dibattito complesso che neppure il Tribunale ha inteso fronteggiare. Un’operazione di questo tipo, infatti, merita evidentemente un’ampia conoscenza tecnica medico-scientifica e una confacente capacità critica che non possono essere eluse. Rimanendo, però, nel campo giuridico è possibile fare qualche considerazione in merito all’ordinanza di rinvio in commento.
La prima considerazione che si intende offrire concerne la scelta del giudice del lavoro di Padova di richiamare la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di potere cautelare riconosciuto ai giudici nazionali, e quale significato è possibile attribuirle alla luce del caso di specie.
Il Tribunale, infatti, prima di porre il primo quesito da rinviare alla CGUE, riconosce di non essere competente a dichiarare l’invalidità degli atti delle istituzioni comunitarie, salva la possibilità per il giudice nazionale di ordinare la sospensione cautelare fino a che la Corte non abbia statuito sulla questione di validità.
È utile forse ricordare, infatti, che quando viene operato un rinvio pregiudiziale e in attesa della pronuncia della Corte, questa riconosce alle giurisdizioni degli Stati membri il potere di sospendere non solo l’efficacia di provvedimenti nazionali fondati su atti dell’Unione[12] di cui la validità è incerta, ma anche il potere di sospendere l’efficacia di leggi ed atti dell’Unione[13] della cui legittimità comunitaria venga investita la Corte in via pregiudiziale.
Ebbene, si è detto più volte che la Commissione ha accordato l’immissione in commercio di tutti i vaccini tramite autorizzazione, ed effettivamente, tale atto ha natura di decisione.
Quale valore dare, dunque, alla scelta di richiamare tale giurisprudenza della CGUE?
Effettivamente, sebbene la mossa giocata dal Tribunale desti un po’ di curiosità, il motivo sembrerebbe essere uno e uno soltanto. Se – come emerge dalla citata giurisprudenza comunitaria - la condizione affinché il giudice nazionale attribuisca la tutela cautelare è che egli ravvisi dei seri dubbi di validità dell’atto comunitario, probabilmente, tale presupposto non risulta essersi realmente verificato.
È plausibile sostenere, infatti, che, proprio per questo, il giudice abbia voluto “passare la palla” direttamente alla Corte di Giustizia, informando che sebbene egli avrebbe potuto sospendere l’efficacia dell’atto, ha voluto comunque lasciare alla Corte la “responsabilità” di una scelta di questo tipo, rimandando tutti gli effetti del caso (giuridici e non solo) al momento in cui, semmai, essa dovesse pronunciarsi rispetto all’ invalidità dell’atto stesso.
A latere, un altro aspetto su cui riflettere è poi connesso all’effettiva capacità del giudice nazionale di sospendere l’efficacia di una decisione emessa dalla Commissione che, sebbene sia da qualificarsi come diritto europeo derivato, non ha natura di atto legislativo[14].
La seconda considerazione che qui si propone insiste, invece, sul dubbio di validità che aleggia sulla decisione della Commissione di autorizzare l’immissione in commercio dei farmaci attraverso la procedura condizionata.
Ora, staremo a vedere come si pronuncerà sul punto la Corte di Giustizia ma non può sottacersi il valore determinante che assume, nel caso di specie, l’ultimo capoverso del par. 1 dell’art. 4 del Regolamento n. 726/2004:“nelle situazioni di emergenza di cui all’articolo 2, paragrafo 2, può essere rilasciata un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata anche in assenza di dati farmaceutici o preclinici completi purché siano rispettate le condizioni di cui alle lettere da a) a d) del presente paragrafo.”
Ebbene, anche quindi volendo aderire alla posizione assunta dal giudice del lavoro di Padova rispetto alla mancata configurazione della condizione di cui alla lett. c) dell’art. 4, è anche vero che lo stesso Regolamento sembra prevedere una sorta di rimedio ulteriore finalizzato a fronteggiare emergenze sanitarie, quale evento determinante un grave rischio per la salute pubblica. Il par. 2 prevede la possibilità di rilasciare l’autorizzazione a patto che si verifichino almeno due essenziali condizioni (lett. a; lett. d) a fronte delle quattro elencate nell’articolo.
La presenza di queste due condizioni sarebbero sufficienti, pertanto, al rilascio dell’autorizzazione e nell’ordinanza di rinvio nulla viene eccepito sul punto dal Tribunale.
3. La compatibilità dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 con il principio generale di proporzionalità…
Lo spazio a disposizione impone necessariamente di circoscrivere l’indagine sull’ordinanza di rinvio in commento e, pertanto, nel corso dei paragrafi successivi ci si soffermerà solamente su almeno altri due dei quesiti rivolti dal Tribunale di Padova alla Corte di Lussemburgo.
Come già indicato precedentemente, il giudice di Padova si è così rivolto: “Dica la Corte di Giustizia se, nel caso del vaccino autorizzato dalla Commissione in forma condizionata, l’eventuale non assoggettamento al medesimo da parte del personale medico sanitario nei cui confronti la legge dello Stato impone obbligatoriamente il vaccino, possa comportare automaticamente la sospensione dal posto di lavoro senza retribuzione o se si debba prevedere una gradualità delle misure sanzionatorie in ossequio al principio fondamentale di proporzionalità”.
È forse doveroso, dapprima, svolgere qualche considerazione di ordine formale rispetto al quesito così rivolto alla Corte di Giustizia.
Quando quest’ultima viene adita in funzione della sua competenza pregiudiziale, essa è chiamata a fornire al giudice nazionale a quo, unicamente, la propria interpretazione sulle norme del diritto europeo[15] (norme dei Trattati; atti di diritto derivato; accordi stipulati dall’UE; principi generali del diritto dell’UE).
In altre parole, ciò significa che la Corte non può pronunciarsi sull’interpretazione di una norma del diritto interno né può pronunciarsi direttamente sulla compatibilità di una norma nazionale con il diritto dell’Unione, sebbene, tuttavia, sia oramai sdoganato anche un uso alternativo della competenza pregiudiziale.
Spesso, infatti, la Corte si è dichiarata competente a decidere questioni che sebbene formalmente vertessero sulla portata di un principio o di una disposizione del diritto dell’Unione, permettevano comunque di “mettere in discussione” una norma di diritto interno di cui si dubitava la conformità a quel diritto.
Sembra, tuttavia, che in questo caso il giudice di Padova si sia spinto un po’ oltre, ritenendo di potersi rivolgere alla Corte chiedendo che si pronunciasse direttamente sulla compatibilità di una norma interna con il principio generale di proporzionalità.
Ad ogni modo, non c’è dubbio che spetti esclusivamente alla Corte l’apprezzamento circa la ricevibilità o meno di tale quesito.
In questa sede, comunque, è utile svolgere qualche riflessione rispetto all’ipotizzato dubbio di compatibilità della disposizione in questione con il principio di proporzionalità, di derivazione comunitaria.
Nell’ordinamento sovranazionale tale principio trova specifica espressione nell’art. 5 par. 4 TUE volto a stabilire che, in virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati. In altre parole, i mezzi impiegati devono essere adeguati per il raggiungimento del fine voluto.
Occorre distinguere, tuttavia, il principio di proporzionalità ex art. 5 par. 4 TUE e il principio generale avente lo stesso nome, individuato dalla giurisprudenza e riconosciuto quale principio generale del diritto comunitario[16]. Da un lato, infatti, si ha il principio di cui all’art. 5 par. 4 che riguarda – come riportato- il rapporto tra le competenze comunitarie e quelle degli Stati membri. Dall’altro, invece, si ha il principio generale, affermatosi quale strumento di protezione dei singoli nei confronti delle istituzioni o delle autorità degli Stati membri, quando queste agiscono in un settore rientrante nel campo d’applicazione dei Trattati.
Più che differenziare questi due principi, si potrebbe dire, piuttosto, che il principio di proporzionalità enunciato ai sensi dell’art. 5 par. 4 sia una specifica applicazione del principio generale di uguale denominazione.
In tema di principio di proporzionalità è doveroso, inoltre, dare conto di un’ulteriore disposizione, contenuta nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (la c.d. Carta di Nizza), l’art. 52 par. 1, la quale precisa che qualunque limitazione apportata all’esercizio dei diritti e delle libertà sanciti dalla stessa Carta, possa essere imposta esclusivamente solo laddove si mostri quale misura necessaria al raggiungimento di una “finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”.
La giurisprudenza unionale[17] ha declinato il principio di proporzionalità attraverso tre passaggi: 1) il controllo sulla verifica dell’idoneità dei mezzi perseguiti rispetto allo scopo prefissato; 2) il controllo sulla necessarietà della misura (al presentarsi di due o più misure ugualmente idonee al raggiungimento dello scopo, è necessario ricorrere alla misura meno restrittiva); 3) il controllo sulla proporzionalità in senso stretto (si deve accertare che il sacrificio subito dalla posizione individuale giuridicamente tutelata sia proporzionata all’interesse pubblico perseguito dall’autorità).
Il principio esige, pertanto, che i sacrifici e le limitazioni di libertà imposti ai singoli non eccedano quanto necessario per il raggiungimento degli scopi pubblici da perseguire e, in particolare che siano idonei e necessari a questo stesso fine, evitando di imporre ai privati sacrifici superflui.
Nel caso di specie, si potrebbe dire che il diritto su cui l’art. 4 del d.l. n. 44/2021 pone una limitazione è il diritto a svolgere le prestazioni o mansioni che “implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”[18].
Nel suo apprezzamento circa l’effettiva violazione del principio di proporzionalità perpetrata dal legislatore italiano, la Corte di Giustizia, pertanto, orienterà il proprio giudizio sulla base delle valutazioni sopraesposte.
Non vi sono dubbi che la questione in oggetto sia particolarmente delicata, come dimostra anche l’ampio contenzioso[19] che la norma ha ingenerato sin dalla sua entrata in vigore.
D’altronde, si tratta di valutazioni che la Corte dovrà effettuare non potendo esimersi dal confrontarsi anche con i dati e le informazioni di natura medico-scientifica, necessari per potersi esprimere in tema di idoneità e adeguatezza della misura (l’obbligo vaccinale) per il raggiungimento dell’interesse pubblico perseguito (la cessazione dello stato di emergenza sanitaria).
Bisogna evidenziare, inoltre, che il giudice fa riferimento al principio di proporzionalità relativamente alla misura sospensiva dell’operatore sanitario non vaccinato, qualificando quest’ultima come misura sanzionatoria e ipotizzando l’assenza di adeguatezza della sospensione proprio alla luce di una maggiore gradualità della misura sanzionatoria che, alla luce del quesito rivolto alla Corte ha ritenuto si potesse assicurare, a fronte del mancato rispetto dell’obbligo vaccinale.
Ebbene, tuttavia, sembrerebbe comunque scorretto riferirsi alla gradualità della sanzione disciplinare in quanto si ricordi che, proprio sul tema della qualificazione della sospensione quale misura sanzionatoria, il Governo –chiarendolo, poi, in modo ancora più esplicito nel d.l. n. 172/2021[20]– specifica che la sospensione dal lavoro debba intendersi quale conseguenza discendente dal mancato configurarsi del requisito essenziale per l’esercizio della professione.
Come si evince dalla lettura della norma, la sospensione si determina quale effetto legale del mancato adempimento all’obbligo vaccinale e non si assiste a nessun intervento disciplinare da parte del datore di lavoro.
4. …E il principio di non discriminazione.
Il terzo quesito che si intende analizzare è stato sollevato d’ufficio dal Tribunale di Padova. Sebbene il giudice ammetta nell’ordinanza che nessuna delle parti abbia invocato il Regolamento n. 953/2021[21], egli ritiene che tale atto normativo assuma, invero, un certo rilievo nella controversia e, difatti, chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sull’ipotetico contrasto tra l’art. 4 comma 11 del d.l. n. 44/2021 e il Regolamento (UE) n. 953/2021.
Il considerando n. 36 del citato Regolamento recita: “È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate”.
Il comma 11 dell’art. 4 d.l. n. 44/2021[22], riconosce la possibilità, ai libero-professionisti nei confronti dei quali - per comprovate “specifiche condizioni cliniche” - è prevista ex lege un’eccezione all’obbligo vaccinale (“la vaccinazione non è obbligatoria e può essere omessa o differita”), di proseguire l’esercizio dell’attività lavorativa osservando le misure di prevenzione igienico sanitarie contenute nel Protocollo di sicurezza adottato con decreto del Ministro della salute, di concerto con i Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali.
Secondo il giudice di Padova, pertanto, il trattamento discriminatorio si consumerebbe proprio in questa previsione.
Da un lato, si ha il lavoratore non vaccinato poiché renitente alla somministrazione del vaccino; dall’altro, si ha il lavoratore non vaccinato in ragione di accertati pericoli di salute.
Sebbene in via astratta entrambi i lavoratori risultano essere sprovvisti del requisito essenziale per l’espletamento della propria attività professionale[23], il legislatore fa discendere due diversi trattamenti: la sospensione dal rapporto di lavoro e della relativa retribuzione al primo, l’adibizione a diverse mansioni – confacenti a scongiurare la diffusione del rischio di diffusione del contagio – e l’adozione delle misure igienico-sanitarie indicate dal Protocollo di sicurezza, al secondo.
In attesa di apprendere il responso della Corte di Giustizia circa l’effettiva violazione della norma europea e dovendo necessariamente escludere dalle riflessioni che di seguito si cercherà di sviluppare, le questioni afferenti il conflitto tra norme nazionali e sovranazionali, si vuole provare di seguito ad avanzare qualche valutazione sul caso di specie, non potendo esimersi dal ricorrere all’aiuto-guida della giurisprudenza della Corte di Giustizia.
A prescindere dal considerando di cui al Regolamento citato nell’ordinanza in commento, si ricorda che il principio di non discriminazione è uno dei principi generali dell’ordinamento sovranazionale, sancito dall’art. 21 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[24] che la Corte di Lussemburgo ha più volte riconosciuto quale diritto soggettivo direttamente invocabile dai privati[25].
In altre parole, ciò significa che per la giurisprudenza della Corte di Giustizia, il principio di non discriminazione ha efficacia diretta nei confronti dei singoli e, pertanto, abilita il giudice nazionale a disapplicare una norma nazionale che si ponga in contrasto con tale principio[26].
Ora, anzitutto, oltre a cercare di individuare la natura della discriminazione generata dalla disposizione di cui al comma 11 art. 4, d.l. 44/2021, è bene anche indagare rispetto a quale sia il motivo su cui la discriminazione si fonderebbe.
Relativamente a quest’ultimo punto, la questione non è semplice: il Regolamento n. 953/2021 prescrive che è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta a svantaggio delle persone non vaccinate “per esempio per motivi medici” o “perché non hanno ancora avuto l'opportunità di essere vaccinate”.
Dalla lettera della disposizione, tuttavia, si evince che il legislatore europeo abbia richiamato solo in via esemplificativa alcuni dei motivi posti alla base della mancata vaccinazione, lasciando ciò intendere che è possibile configurarne ulteriori.
Si pensi ad esempio a tutti coloro che hanno assunto preoccupanti posizioni di obiezione e di contrasto alla campagna vaccinale, mossi da uno scetticismo generalizzato nei confronti degli studi scientifici che negli ultimi anni sono stati promossi al fine di fronteggiare la pandemia da Covid-19, che hanno condotto alla diffusione dei vaccini.
Oppure, senza spingersi a tali estremismi, si pensi a tutti coloro che hanno scelto di non sottoporsi alla somministrazione del vaccino perché spaventati dagli effetti collaterali che si sarebbero potuti registrare, ad esempio – come è avvenuto nel caso di specie- nel caso in cui si fosse già stati contagiati dal virus.
Generalizzando, può dirsi che in via astratta il fil rouge che lega queste diverse posizioni assunte da soggetti privi dello status di vaccinato è una convinzione personale che, ai sensi dell’art. 21 par. 1 della Carta di Nizza, configura una delle cause di discriminazione per cui è prevista una tutela.
In materia di discriminazione fondate anche sulle convinzioni personali per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro vi è la direttiva 2000/78/CE[27] che fornisce la nozione di discriminazione diretta e indiretta basata su uno dei motivi di cui all’art. 1 della stessa direttiva.
Nel caso del citato comma 11 art. 4, in via astratta, potrebbe individuarsi una sorta di discriminazione indiretta, la quale si ritiene sussistere quando “una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano (una determinata religione o) ideologia di altra natura (…)”.
È bene segnalare che il giudice di Padova non sembra tenere in conto che il comma 11 art. 4, limiti il trattamento più favorevole agli operatori sanitari esenti dall’obbligo per ragioni mediche, a coloro che prestino la loro attività in regime di lavoro autonomo.
La norma non si riferisce, pertanto, a coloro che svolgono la loro prestazione in regime di subordinazione: il decreto prevede, infatti, per i sanitari impiegati per i quali la vaccinazione è omessa o differita, il cambio di mansioni (ius variandi orizzontale) senza decurtazione della retribuzione.
Ad ogni modo, in via astratta, è possibile rinvenire un trattamento meno favorevole nei confronti di coloro che volontariamente decidono di non adempiere all’obbligo vaccinale, a maggior ragione se si pensa che nella versione definitiva dell’art. 4 è stato espunto il comma che prevedeva la possibilità di modifica delle mansioni, anche inferiori, per i sanitari reticenti al vaccino.
Provando a seguire il ragionamento del giudice ed esemplificando, può dirsi che il trattamento presumibilmente discriminatorio consisterebbe nel fatto che, sebbene il medico che non voglia vaccinarsi e il medico che non possa vaccinarsi costituiscano entrambi lo stesso rischio di promanazione del virus, la norma preveda per quest’ultimo un trattamento sicuramente più svantaggioso (come visto, una volta accertata l’inosservanza dell’obbligo si verifica “la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”).
Bisogna segnalare, tuttavia, che guardando alla direttiva 2000/78, l’art. 2, par. 2, lett. b), dispone che la disposizione, il criterio o la prassi che pongono in una posizione di particolare svantaggio “le persone che professano una determinata (…) ideologia (…)” non determinano una discriminazione indiretta se “siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.
Come chiarito e precisato nel d.l. n. 44/2021, lo scopo primario dell’imposizione della somministrazione del vaccino nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario è quello di “tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”.
Se dunque, da un lato, può ritenersi sussistere l’oggettiva giustificazione e la legittima finalità della disposizione, dall’altro, sul giudizio relativo alla proporzionalità delle misure impiegate per il conseguimento della stessa, invece, può concludersi dicendo che tale quesito rivolto alla CGUE viene in parte assorbito dal quesito - già analizzato nelle pagine precedenti - in tema di conformità della norma interna al principio di proporzionalità. Dovrà attendersi, pertanto, la pronuncia della Corte di Giustizia.
5. Valutazioni conclusive alla luce degli ultimi aggiornamenti normativi.
Come più volte indicato precedentemente, l’art. 4 è stato più volte aggiornato.
Come è noto, sulla scorta di tale disposizione, ne sono state emanate altre[28] – tutte concorrenti a raggiungere il medesimo scopo di tutela della sicurezza pubblica – che hanno ampliato il perimetro soggettivo della platea degli obbligati a sottoporsi alla vaccinazione.
Il d.l. n. 24 emanato il 24 marzo 2022 ha apportato alcune modifiche all’art. 4: ha, da un lato, prorogato il termine ultimo entro il quale vige l’obbligo vaccinale nei confronti degli operatori sanitari[29] e, dall’altro, sembrerebbe delineare un’ipotesi di eccezione alla sospensione del rapporto di lavoro e relativa retribuzione dell’operatore sanitario non vaccinato.
La disposizione, infatti, chiarisce che un soggetto non vaccinato che abbia contratto il virus, una volta guarito, possa porre istanza all’Ordine professionale territorialmente competente, il quale dovrà disporre la cessazione della sospensione “sino alla scadenza del termine in cui la vaccinazione è differita in base alle indicazioni contenute nelle circolari del Ministero della salute”[30].
Si tratta, sicuramente, di una novità rilevante che sembra tuttavia generare qualche contraddizione con la disposizione di cui al primo comma, quando il legislatore assurge il vaccino quale “requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative”.
Il sanitario non vaccinato, contagiato e poi guarito, infatti, non può più essere sospeso e potrà proseguire la sua attività lavorativa benché in difetto di quel requisito di cui, ora, la stessa norma sembrerebbe metterne in discussione l’imprescindibilità.
Ovviamente non è dato, allo stato, prevedere come la Corte di Giustizia si esprimerà su questi e sugli ulteriori quesiti rivolti dal giudice del lavoro di Padova. Non ci sono dubbi, tuttavia, che il suo intervento configurerà una fondamentale direttrice per i giudici nazionali che dovranno fronteggiare l’ampio contenzioso che, rispetto a questo tema, inevitabilmente, si potenzierà.
[1] In generale, in tema di obbligo vaccinale previsto per gli operatori sanitari si rinvia a: P. Pascucci e C. Lazzari, Prime considerazioni di tipo sistematico sul d.l. 1 aprile 2021, n. 44, in Dir. sic. lav., 2021, 1, p. 153; C. Pisani, Vaccino anti-covid: oneri e obblighi del lavoratore alla luce del decreto per gli operatori sanitari, in Mass. giur. lav., 2021, 1, p. 151; V.A. Poso, Dei vaccini e delle «pene» per gli operatori sanitari. Prime osservazioni sul D.L. 1° aprile 2021, n. 44 (G.U. n. 79 del 1° aprile 2021), in Labor, 10 aprile 2021; F. Scarpelli, Arriva l’obbligo del vaccino (solo) per gli operatori sanitari: la disciplina e i suoi problemi interpretativi, Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi. Conversazioni sul lavoro a distanza da agosto 2020 a marzo 2021, promosse e coordinate da V.A. Poso, 3 aprile 2021, p. 6. Ancora, su questa Rivista v. le interessanti posizioni emerse in M. Basilico, Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale? Intervista di M. Basilico a F. Amendola, R. De Luca Tamajo e V. A. Poso, 30 marzo 2021.
[2] Tra la dottrina costituzionalista che si espressa sul tema, si rinvia per tutti a F. Grandi, L’art. 32 nella pandemia: sbilanciamento di un diritto o “recrudescenza” di un dovere?, Costituzionalismo.it, 1, 2021; v. anche l’intervista a Sabino Cassese comparsa sul quotidiano il Mattino, il 30.12.2020, quando il dibattito circa l’opportunità dell’obbligo vaccinale iniziava poco a poco ad accendersi: “la Costituzione prevede trattamenti sanitari obbligatori, purché siano disposti con legge e rispettino la persona umana”.
[3] La versione originaria del comma 8, art. 4 d.l. n. 44/2021 recitava: “(…) il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio.” Si noti che il discrimine rispetto alla disciplina generale del demansionamento consisteva nel fatto che in tale speciale ipotesi non si rinveniva il diritto alla conservazione del livello di inquadramento. Come detto in precedenza, nella versione attualmente in vigore dell’art. 4, è stata eliminata la possibilità di modificare le mansioni, anche in pejus, dell’operatore sanitario che violi l’obbligo vaccinale. L’unica ipotesi di ius variandi è attualmente prevista per coloro nei confronti dei quali non vige l’obbligo di vaccinazione per ragioni di salute ex art. 4 comma 7 del d.l. n. 44/2021, così come modificato dal d.l. n. 172/2021: “Per il periodo in cui la vaccinazione di cui al comma 1 è omessa o differita, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al comma 2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”. In dottrina, sul punto, v. anche M. Verzaro, Ecce lex! L’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari, LDE, 2, 2021, 12.
[4] Il legislatore è intervenuto più volte sul testo dell’art. 4, d.l. n. 44/2021: dapprima in sede di conversione, la l. n. 76/2021 ha disposto, con l’art. 1 comma 1, la modifica dei commi 1,3,5,6, e 8. Successivamente, il Governo in funzione delegata ha sostituito per intero la disposizione con l’art. 1 comma 1 lett. b del d.l. n. 172/2021. In sede di conversione, la l. n. 3/2022 ha disposto l’introduzione del comma 1-bis dell’art. 4 e la modifica dei commi 2,3,4,5, e 6.
[5] In generale, si rinvia a G. Tesauro, Alcune riflessioni sul ruolo della Corte di Giustizia nell’evoluzione dell’Unione Europea, DUE., 3, 2013, 483 ss.; L. Garofalo, Sulla competenza a titolo pregiudiziale della Corte di Giustizia secondo l’art. 68 del Trattato CE, DUE, 4, 2000, 805 ss.
[6] Cfr. Regolamento (UE) 2021/953 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 giugno “su un quadro per il rilascio, la verifica e l'accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione alla COVID-19 (certificato COVID digitale dell'UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19”.
[7] Cfr. “Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 che istituisce procedure comunitarie per l'autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, nonché istituisce l'agenzia europea per i medicinali (EMA)”.
[8] Cfr. Capo I, artt. 55 e ss. del Reg. (CE) n. 726/2004.
[9] Cfr. i considerando del Reg. n. 726/2004. Cfr. il considerando n. 2: “Nel caso di determinate categorie di medicinali, al fine di rispondere a necessità mediche insoddisfatte dei pazienti e nell’interesse della salute pubblica, può tuttavia risultare necessario concedere autorizzazioni all’immissione in commercio basate su dati meno completi di quelli normalmente richiesti e subordinate ad obblighi specifici (…) Le categorie interessate sono (…)i medicinali da utilizzare in situazioni di emergenza in risposta a minacce per la salute pubblica riconosciute dall’Organizzazione mondiale della sanità o dalla Comunità nel quadro della decisione n. 2119/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 settembre 1998, che istituisce una rete di sorveglianza epidemiologica e di controllo delle malattie trasmissibili nella Comunità (…). E ancora, cfr. lo stesso art. 2 che nel definire il campo di applicazione del Regolamento, dispone che “si applica ai medicinali per uso umano di cui all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, del regolamento (CE) n. 726/2004” purché appartenenti alle categorie specificate ai numeri successivi. Al numero 2 si legge: “medicinali da utilizzare in situazioni di emergenza in risposta a minacce per la salute pubblica, debitamente riconosciute dall’Organizzazione mondiale della sanità ovvero dalla Comunità nel contesto della decisione n. 2119/98/CE”. La situazione d’emergenza, pertanto, deve essere tale da configurare una minaccia alla salute pubblica. Ebbene, risulterà forse ultroneo rammentare che, il 30 gennaio 2020, l’epidemia da COVID-19 è stata dichiarata dall’OMS un’emergenza sanitaria. Risulta perfezionato, pertanto, il presupposto contestuale che giustifica il ricorso a tale procedura condizionata.
[10] Il vaccino Comirnaty di Pfizer-BioNtech è stato il primo vaccino ad essere stato autorizzato in Unione Europea: il 21 dicembre 2020 dall'Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e il 22 dicembre dall'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). Il vaccino Spikevax (Moderna) è stato autorizzato dall'EMA il 6 gennaio 2021 e il 7 gennaio 2021 dall'AIFA.
Vaccino Vaxzevria di AstraZeneca - il 29 gennaio è stato autorizzato dall’EMA e il 30 gennaio dall’AIFA.
Vaccino Janssen (Johnson & Johnson) - l'11 marzo è stato autorizzato dall'EMA e il 12 marzo 2021 dall'AIFA
Vaccino Nuvaxovid (Novavax) - il 20 dicembre è stato autorizzato dall’EMA e il 22 dicembre dall'AIFA. La lista dei vaccini attualmente autorizzati è consultabile al seguente link vaccini COVID-19 | Agenzia europea per i medicinali (europa.eu).
[11] Il riferimento è alle cure degli anticorpi monoclonali e alle cure antivirali orali. Per approfondimenti si rinvia al sito dell’AIFA, Emergenza COVID-19 | Agenzia Italiana del Farmaco (aifa.gov.it).
[12] Cfr. CGUE, 19.06.1990, n. 213, Foro it. 1992, IV,498, cfr. anche, forse la più nota, sentenza Simmenthal, CGUE, 9.03.1978, n. 106, DeJure.it, e cfr. la più recente CGUE, 13.03.2007, n.432, RDint. 2007, 4, 1196.
[13] Cfr. punto n. 20 della sentenza Zuckerfabrik “La tutela cautelare garantita dal diritto comunitario ai singoli dinanzi ai giudici nazionali non può variare a seconda che essi contestino la compatibilità delle norme nazionali con il diritto comunitario oppure la validità di norme del diritto comunitario derivato, vertendo la contestazione, in entrambi i casi, sul diritto comunitario medesimo.”
[14] Si noti, infatti, che le sentenze riportate dal Tribunale nell’ordinanza di rinvio in tema di sospensione dell’efficacia di atti da parte dei giudici nazionali, avevano tutti ad oggetto atti aventi natura normativa.
[15] Cfr. art. 267 TFUE
[16] Cfr. diffusamente, L. Daniele, Diritto dell’Unione Europea, Giuffrè Editore, 2020, o ancora, cfr. dello stesso A., Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e Trattato di Lisbona, DUE, 2008, 4, 655-659.
[17] Cfr. CGUE, 07.09.2006, n. 310, DeJure.it; CGUE, 16.10.1991, n. 24, DeJure.it; CGUE, 11.03.1987, nn. 279, 280, 285, 286, DeJure.it.
[18] Cfr. il comma 6 dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 nella sua formulazione originaria.
[19] Per una rassegna della giurisprudenza in tema di obbligo vaccinale per le professioni sanitarie si rinvia ad A. De Matteis, Dal Tribunale di Belluno al Consiglio di Stato 20 ottobre 2021 n. 7045. Uno sguardo sulla giurisprudenza in tema di obbligo di vaccino, Labor, 5 novembre 2021. Un interessante commento alla sentenza del CdS dell’ottobre 2021 è fornita da F. Gambardella, Obbligo di vaccinazione e principi di precauzione e solidarietà (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045), su questa Rivista, 30 novembre 2021. Si segnala, inoltre, l’ordinanza di rinvio alla Corte Costituzionale del 22 marzo 2022, n. 351, del Consiglio di Giustizia amministrativo per la regione Sicilia in tema di legittimità dell’obbligo vaccinale, inedita a quanto consta.
[20] Come detto in precedenza, l’art. 4 d.l. n. 44/2021 è stato sostituito integralmente dal d.l. n. 172/2021. L’ art. 1 lett. b) modifica, tra gli altri, anche il comma 4 e chiarisce: “L'atto di accertamento dell'inadempimento dell'obbligo vaccinale è adottato da parte dell'Ordine professionale territorialmente competente, all'esito delle verifiche di cui al comma 3, ha natura dichiarativa e non disciplinare, determina l'immediata sospensione dall'esercizio delle professioni sanitarie ed è annotato nel relativo Albo professionale”.
[21] Cfr. REGOLAMENTO (UE) 2021/953 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2021 su un quadro per il rilascio, la verifica e l'accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione alla COVID-19 (certificato COVID digitale dell'UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19.
[22] Nella formula attualmente vigente dell’art. 4, questa disposizione è contenuta nel comma 8.
[23] Cfr. art. 4 comma 1, d.l. n. 44/2021: “La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati”.
[24] Cfr. art. 21, par. 1, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.
[25] Cfr. CGUE, 15.01.2014, n.176, in DRI, 2014, 4 , 1178, nt. Corti; CGUE, 19 aprile 2016, n. 44, DeJure.it; CGUE 17 aprile 2019, n. 414, DeJure.it; CGUE, 14 marzo 2017, n. 157, DeJure.it; CGUE, 11 settembre 2018, n. 68, DeJure.it.
[26] Cfr. in generale, più di recente, sul tema, M. Barbera, S. Borelli, “Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione”, CSDLE.It, 451/2022.
[27] Nel nostro ordinamento, la direttiva 2000/78/CE è stata attuata dal d.lgs n. 216/2003.
[28] Cfr. art. 4-bis; 4-ter; 4 ter.1; 4 ter.2; 4 quater, d.l. n. 44/2022.
[29] Cfr. art. 8, comma 1, lett. a), d.l. n. 24/2022. Allo stato, il termine è il 31 dicembre 2022.
[30] Cfr. art. 8, comma 1, lett. b), punto 2, d.l. n. 24/2022.
L’assegno di divorzio: un punto di equilibrio tra autoresponsabilità e solidarietà
di Rita Russo
Sommario: 1. La funzione compensativo-perequativa dell’assegno di divorzio - 2. La modificazione dello status e la funzione dell’assegno periodico - 3. Considerazioni conclusive.
1. La funzione compensativo-perequativa dell’assegno di divorzio
La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 24250 dell’8 settembre 2021, ribadisce e specifica i principi già affermati dalle sezioni unite della Corte nel 2018[1], secondo le quali l'assegno di divorzio non ha solo una funzione assistenziale, diretta a mantenere per il coniuge divorziato lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma anche una funzione perequativo-compensativa. Se in sede di divorzio si accerta squilibrio economico tra i due coniugi e che uno dei due è rimasto privo di occasioni di lavoro e di carriera per essersi dedicato alla famiglia, contribuendo così al benessere economico del gruppo familiare, ma sacrificando le proprie possibilità di entrate economiche autonome, questo contributo deve essere ricompensato.
In tal modo sono state accolte le esigenze di modernizzazione del tradizionale orientamento giurisprudenziale, negli anni oggetto di critiche da parte della dottrina, secondo il quale l'assegno di divorzio aveva una funzione essenzialmente assistenziale, una sorta di prolungamento dei doveri di assistenza materiale e morale che caratterizzano il matrimonio, ritenendosi che il suo scopo fosse di assicurare la conservazione del tenore di vita matrimoniale. Una idea dell'assegno divorzile che nel tempo è stata superata, man mano che ci si è resi conto che la solidarietà non è mero assistenzialismo e che va bilanciata con il principio di autoresponsabilità, in virtù del quale ciascuno deve organizzarsi con i propri mezzi e non dipendere dagli altri.
Seguendo questa linea, l’ordinanza n. 24250/2021 afferma che, sciolto il vincolo coniugale, in linea di principio ciascun ex coniuge deve provvedere al proprio mantenimento, tuttavia tale principio è derogato, in base alla disciplina sull'assegno divorzile, oltre che nell'ipotesi di non autosufficienza di uno degli ex coniugi, anche nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale dall'uno all'altro coniuge, "ex post" divenuto ingiustificato, spostamento patrimoniale che in tal caso deve essere corretto attraverso l'attribuzione di un assegno, in funzione compensativo-perequativa. Pertanto, ove ne ricorrano i presupposti e vi sia una specifica prospettazione in tal senso, l'assegno deve essere adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali - che il coniuge richiedente l'assegno ha l'onere di dimostrare nel giudizio - al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l'eventuale profilo assistenziale.
Si tratta di un intervento che aggiunge un ulteriore tassello alla faticosa ricerca di un punto di equilibrio tra il principio di autoresponsabilità e quello di solidarietà post-coniugale[2].
La sentenza delle sezioni unite del 2018 ha infatti lasciato aperte diverse questioni. Sono stati espressi dubbi sulla reale portata innovativa della sentenza, e su quanto la funzione assistenziale, storicamente ritenuta prevalente sulle altre, possa realmente diventare recessiva rispetto alla funzione perequativo-compensativa: in altre parole se le due funzioni dell'assegno di divorzio debbano ritersi equivalenti oppure se l'una sia prevalente sull'altra[3]. Inoltre, il criterio del tenore di vita, apparentemente abbandonato, riemerge nel momento in cui deve quantificarsi in concreto il valore dell’impegno domestico e familiare che ha comportato la rinuncia alla carriera. Il coniuge che abbia rinunciato ad una carriera professionale avviata e sicura può senz’altro pretendere un riconoscimento di questo sacrificio, come è altresì ragionevole che quello che non ha rinunciato ad una specifica professionalità abbia meno da pretendere. È stato però osservato che se c'è un "lavoro casalingo" da retribuire, esso andrà monetizzato sulla base di una valutazione solidaristica che tenga conto delle reali condizioni reddituali e patrimoniali del coniuge forte e non in base a criteri estrinseci. Il che significa che l'assegno non potrà parametrarsi automaticamente né all'entità del potenziale reddito che il coniuge avrebbe percepito qualora si fosse dedicato all'attività di cui era - in atto o in potenza - capace, né al costo del lavoro domestico, dovendosi tener conto, al contrario, che in virtù dei principi solidaristici e della lettera stessa della legge, l'assegno deve essere misurato sul reddito del coniuge forte[4].
Del resto, lo stesso art. 5 della legge sul divorzio impone che l’assegno sia proporzionato alle sostanze ed ai redditi del soggetto obbligato, diversamente, più che una funzione solidaristica avrebbe una funzione risarcitoria, forse anche in termini punitivi, il che porrebbe qualche problema di compatibilità con i principi fondamentali che regolano lo scioglimento del matrimonio.
Il divorzio, in Italia, non è né una conseguenza della colpevole violazione dei doveri coniugali, né un recesso per mutuo dissenso, quanto piuttosto la presa d’atto che la comunione materiale morale di vita tra i coniugi si è dissolta e non si può ricostituire, in base ad indici normativi predeterminati, dei quali quello statisticamente più rilevante è il decorso del tempo (oggi breve) nella condizione di coniugi legalmente separati.
La funzione risarcitoria dell'assegno di divorzio è quindi residuale ed è appena accennata dalla stessa normativa, la quale stabilisce che nella quantificazione dell'assegno può tenersi conto delle ragioni della decisione. In verità, nella formulazione dell’art. 5 della legge sul divorzio neppure la funzione perequativo-compensativa ha un così grande risalto, mentre è piuttosto evidente la funzione assistenziale, insita nel fatto stesso che si preveda un assegno periodico.
Di ciò è consapevole la Corte di legittimità che afferma, nell’ordinanza in esame, che l'assegno risponde, anzitutto, ad un'esigenza assistenziale, che le sezioni unite non hanno affatto inteso cancellare e danno invece per scontata. Ed ancora che la misura dell’assegno deve essere stabilita in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l'indipendenza o autosufficienza economica dell'ex coniuge, intesa in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza ma ancorata ad un criterio di normalità, avuto riguardo alla concreta situazione del coniuge richiedente nel contesto in cui egli vive, nel qual caso l'assegno deve essere adeguato a colmare lo scarto tra detta situazione ed il livello dell'autosufficienza come individuato dal giudice di merito. Infine, l’ordinanza in esame considera anche la funzione perequativa dell’assegno, ma senza entrare specificamente nel dettaglio del parametro utilizzabile, limitandosi a ripetere ancora una volta la formula della compensazione del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali.
È questo infatti il nodo non ancora sciolto dalla giurisprudenza, e che difficilmente, almeno allo stato della vigente legislazione, potrà essere sciolto: una vera e propria perequazione tra le posizioni dei due coniugi, che consenta ad entrambi di ricominciare ciascuno la propria vita in posizione di parità, richiederebbe non tanto la attribuzione di un assegno periodico, quanto la ripartizione del patrimonio o la corresponsione di un capitale una tantum. Il che porta l'interprete a interrogarsi sulla effettiva modernità del nostro sistema e sulla sua capacità di fornire risposte tanto rapide quanto, nella realtà dei fatti, è rapida la dissoluzione e la ricostituzione dei legami familiari. Quand’anche i coniugi abbiano accettato il regime legale della comunione dei beni -che però è un regime derogabile- né in sede di separazione né in sede di divorzio si procede alla divisione dei beni comuni; sebbene la comunione legale si sciolga nel momento in cui i coniugi vengono autorizzati a vivere separati dopo l'esito negativo del tentativo di conciliazione, il processo di divisione dei beni comuni segue la via ordinaria e non è il giudice della separazione né il giudice del divorzio ad operare questa ripartizione, salvo che non debba recepire un accordo delle parti sul punto[5].
2. La modificazione dello status e la funzione dell’assegno periodico
La previsione normativa che il coniuge separato o divorziato debba corrispondere all'altro un assegno periodico si lega, anche per ragioni storiche, all'idea che il coniuge economicamente più debole abbia diritto a conservare un certo tenore di vita, e che debba essere l’altro a provvedervi, assioma che a sua volta è un retaggio dell’idea che la moglie debba essere mantenuta dal marito.
Nel nostro ordinamento, mentre l'istituto della separazione legale è previsto nel codice civile e quindi vanta una nobiltà di antica data, il divorzio è relativamente recente. È naturale pertanto che il legislatore degli anni ‘70 nel regolare dei rapporti economici tra gli ex coniugi si sia ispirato, in certa misura, alle regole già stabilite per la separazione, istituto che originariamente aveva una funzione eminentemente conservativa dello status matrimoniale, in vista di una possibile ed auspicata riconciliazione; mentre oggi la separazione è essenzialmente un mezzo per conseguire il divorzio.
La funzione conservativa della separazione si invera(va) anche nel riconoscimento del diritto del coniuge economicamente debole a mantenere lo stesso tenore di vita, diritto fondato sulla persistenza del dovere di assistenza morale e materiale, che si attua(va) tramite una continuativa assistenza da parte dell’altro, tenuto a corrispondergli ogni mese una somma di denaro; in altre parole, una dipendenza economica a tempo indeterminato, ovvero, secondo alcuni detrattori dell’istituito, una rendita parassitaria. Non diversamente si è ragionato in tema di assegno di divorzio, pur se si è fatto riferimento non già alla persistenza del dovere di assistenza materiale e morale -incompatibile con lo scioglimento del vincolo - bensì alla trasformazione di questo dovere nella cosiddetta solidarietà post-coniugale. Ciò spiega perché inizialmente la funzione dell'assegno divorzile era considerata eminentemente assistenziale, mentre oggi si inizia a mettere in discussione anche la stessa funzione assistenziale dell'assegno di separazione, nonostante la giurisprudenza di legittimità continui ad affermare che l’assegno di separazione presuppone la permanenza del vincolo coniugale e che esso è correlato al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, diversamente dall’assegno divorzile, svincolato da detto criterio[6]; anche se poi questa indipendenza dal criterio del tenore di vita trova un suo limite, come sopra si è detto, nella necessità che anche l’assegno di divorzio sia comunque parametrato ai redditi ed alle sostanze del soggetto obbligato.
La progressiva valorizzazione del principio di autoresponsabilità nonché il progressivo perdersi della funzione conservativa della separazione e l’accentuarsi della sua funzione di “anticamera” del divorzio, unitamente alla riduzione dei tempi necessari per conseguirlo, inevitabilmente comporta che in tutta una serie di casi la differenza tra assegno di separazione e assegno di divorzio, netta in teoria, rischia di sfumare e non di poco nella pratica. Il coniuge separato deve essere consapevole che la separazione è una condizione tendenzialmente di breve durata e che nella maggior parte dei casi non prelude a una riconciliazione bensì allo scioglimento del vincolo, in seguito al quale l'assegno di divorzio sarà riconosciuto sulla base di presupposti diversi oppure non sarà riconosciuto affatto. Ciò a maggior ragione nel momento in cui sarà attuata pienamente la riforma preannunciata dalla legge delega numero n. 206 del 2021, che prevede la possibilità di proporre contestualmente la domanda di separazione e divorzio.
Queste regole, e la loro lettura evolutiva, sono poi da inquadrare nella attuazione del principio di parità morale e materiale dei coniugi, il quale richiede che il sostegno sia reciproco, senza graduazioni o differenze, ma anche solidale, il che significa che chi ha maggiori risorse economiche deve condividerle con chi ne ha di meno.
È stato correttamente osservato che parità e solidarietà si coniugano con il principio di autoresponsabilità, in particolare ove ci si ponga nella prospettiva del divorzio. L’assunzione del principio di autoresponsabilità può avvenire alla sola condizione che sia assicurata tra i coniugi, o quasi ex coniugi, quale base di partenza per la futura vita separata una effettiva perequazione in ordine alla partecipazione a quella complessiva economia familiare cui ciascuno abbia contribuito nel corso della convivenza, ponendosi il rimedio alle sperequazioni venutesi a determinare eventualmente nella situazione patrimoniale delle parti, in dipendenza delle scelte comuni in ordine alla conduzione della vita familiare[7].
Il che ci riporta a quello che è il limite stesso della previsione di un assegno periodico, poiché esso non può riequilibrare in senso pieno ed intero le posizioni dei due coniugi se non in un'ottica di periodica assistenza e sostegno economico nella quotidianità. Ciò potrebbe non essere pienamente satisfattivo delle esigenze del coniuge economicamente più debole che voglia rendersi indipendente ed ispirare la propria vita futura al principio di autoresponsabilità. Ad esempio, l’ex coniuge che privo di redditi propri al momento del divorzio, volesse raccogliere i frutti della sua collaborazione familiare domestica e monetizzarli, al fine di investirli in una attività imprenditoriale o artigianale che costituisca una fonte di reddito, potrebbe non essere in condizioni di conseguire questo risultato, perché la corresponsione del capitale (una tantum) è possibile solo su accordo tra le parti. Inoltre, la divisione dei beni comuni, ammesso che ci siano beni comuni, è un procedimento lungo, che richiede tempo ed investimento di risorse economiche a meno che, anche in questo caso, non vi sia un accordo tra le parti.
Allo stesso modo la previsione dell'assegno periodico, quale che sia la sua funzione, si può rivelare insoddisfacente per le esigenze del coniuge economicamente più forte che, divorziando, pur se è consapevole di dovere destinare una parte del suo reddito e del suo patrimonio a sostegno del coniuge economicamente più debole, vorrebbe ragionevolmente quantificare ex ante queste obbligazioni anche al fine di sapere quanto potrà investire nella ricostituzione di nuovi legami familiari.
3. Considerazioni conclusive.
A legislazione invariata e finché si prevede che sia l'assegno periodico il mezzo principale di regolazione rapporti tra ex coniugi, il superamento della prospettiva assistenzialistica può avvenire valorizzando la funzione dell'autonomia privata, anche attraverso la negoziazione assistita.
Non si può negare infatti che da tempo sia in atto un procedimento di de-giurisdizionalizzazione dello scioglimento del matrimonio, intesa come restituzione del matrimonio all’area dell’autonomia privata.
Il matrimonio dei coniugi senza figli da tutelare si può sciogliere oggi in virtù di due dichiarazioni di volontà rese a distanza di sei mesi l’una dall’altra davanti all’ufficiale di stato civile (legge162/2014). Si scioglie inoltre, anche nel caso in cui i coniugi abbiano figli, in virtù di un procedimento di natura essenzialmente privatistica (negoziazione assistita). Infine, gli uniti civilmente (legge 76/2016) accedono direttamente al divorzio dopo avere preannunciato la loro intenzione di porre fine all’unione all’ufficiale di stato civile.
La più recente legislazione valorizza quindi l'importanza dell'autonomia privata anche nella fase di scioglimento del vincolo e non soltanto in quella della regolamentazione degli effetti di detto scioglimento. Non sarebbe pertanto in contrasto con questo percorso di progressiva riduzione della funzione di controllo dell'autorità giudiziaria, una maggiore apertura al riconoscimento di efficacia e validità degli accordi che le parti possono stipulare per riequilibrare le situazioni di disparità economica.
Occorre però fare i conti con la nostra giurisprudenza di legittimità, la quale afferma che sono nulli gli accordi in vista di un futuro divorzio e che l’assegno una tantum in sede di separazione non vale come anticipazione di assegno di divorzio [8].
Tuttavia, ciò non impedisce che si tenga conto, in sede di divorzio, delle attribuzioni permanenti (un immobile, un capitale) che sono state fatte nel giudizio di separazione, sicché il coniuge che svolgeva attività domestica può arrivare al divorzio dotato di mezzi (più o meno) adeguati[9].
A maggior ragione, se le attribuzioni patrimoniali hanno un intento di sistemazione dei rapporti economici della coppia, e finalità compensative; poiché le attribuzioni in sede di separazione consensuale sono a vario titolo, potrebbe in futuro configurarsi la possibilità di compensare anticipatamente, in via consensuale, anche quello che è stato l’impegno del coniuge nella vita matrimoniale.
Gli assetti economici della separazione servirebbero in questo caso non soltanto ad assicurare al coniuge economicamente più debole il mantenimento sia pure temporaneo del tenore di vita matrimoniale, ma anche a porre le basi per una razionale distribuzione delle risorse economiche in vista del divorzio.
In questi termini, la previsione di consentire alle parti di presentare con un unico ricorso la domanda di separazione e la domanda di divorzio, per quanto possa apparire a prima vista una forma di divorzio immediato introdotta per la via processuale anziché come istituto di diritto sostanziale, ha tuttavia quantomeno il pregio di spingere le parti a dichiarare manifestamente le loro intenzioni e cioè dire se nella loro separazione prevale l’aspetto conservativo o quello dissolutivo.
Ciò potrebbe consentire - una volta che si decida di giocare a carte scoperte - di dare spazio ad accordi di adeguata sistemazione dei rapporti patrimoniali dei coniugi, avendo ben chiare le prospettive su ciò che può essere giudizialmente riconosciuto ed in quali tempi.
[1] Cass. sez. un. n. 18287 del 11/07/2018: “All'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate”.
[2] V. anche Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 04/09/2020, n. 18522; Cass. civ. Sez. I Ord., 02/10/2020, n. 21140
[3] CASTELLANI G. La ricerca di un equilibrio tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, in Famiglia e Diritto, 2021, 10, 904
[4] SESTA M. “L'assegno di divorzio: in viaggio di ritorno al tenore di vita?” in Famiglia e Diritto, 2022, 1, 79
[5] A lungo di è dibattuto sulla ammissibilità dei trasferimenti immobiliari in sede di separazione e divorzio e soltanto di recente la questione è stata risolta, in termini positivi, da Cass. sez. un. n. 21761 del 29/07/2021.
[6] Cass. civ. sez. I n. 17098 del 26/06/2019; Cass. civ. sez. I, n. 5605 del 28/02/2020.
[7] QUADRI E. La quarta stagione del divorzio: le prospettive di riforma, in Divorzio 1970-2020
[8] Si veda Cass. civ. sez. I n. 2224 del 30/01/2017; Cass. civ. sez. I, n.4424. del 21/02/2008,
[9] Si vada ad es. Cass. civ. sez. I n. 15064 del 09/10/2003 “Diversa è l'ipotesi in cui le parti abbiano già regolato i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti, non necessariamente comporta la corresponsione di un assegno "una tantum", potendo le parti avere regolato diversamente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso l'accordo è valido per l'attualità, ma non esclude che successivi mutamenti della situazione patrimoniale di una delle due parti possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell'altra”.
Tatuaggi e concorsi per l’arruolamento nelle forze armate (nota a Consiglio di Stato. 16 febbraio 2022 n. 1167)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa - 2. Sull’inidoneità derivante da tatuaggi - 3. Riflessioni conclusive.
1. Premessa: la vicenda contenziosa
La sentenza che si annota affronta il tema del “tatuaggio[1]” considerato nella sua relazione con il concetto di decoro dell’uniforme.
La questione origina dall’esclusione dell’appellante dal concorso per il reclutamento di 2165 volontari in ferma prefissata quadriennale per l’anno 2015 nell’Esercito italiano, nella Marina Militare e nell’Aeronautica Militare, indetto con il bando di concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, quarta serie speciale, n. 95 del 5 dicembre 2014.
La stessa veniva esclusa per non aver superato una prevista prova fisica e, in particolare, per il mancato superamento delle prove dei piegamenti sulle braccia e, avverso tale determinazione negativa, la predetta appellante ha proposto ricorso giurisdizionale dinanzi al T.A.R., con richiesta di misure cautelari, anche monocratiche.
Con decreto presidenziale veniva sospeso il provvedimento di esclusione e con successiva ordinanza collegiale veniva confermata la misura interinale di sospensione del provvedimento di esclusione.
Successivamente, in esecuzione dell’indicata ordinanza cautelare, l’attuale appellante è stata nuovamente convocata dalla Commissione di concorso per essere sottoposta ai previsti accertamenti psico-fisici nuovamente esclusa per la presenza di un tatuaggio posto sulla cute del lato sinistro del collo, ritenuto non compatibile con i requisiti concorsuali.
L’ornamento, posizionato sul collo, veniva ritenuto non compatibile con i requisiti previsti dalla procedura concorsuale; in ragione di tale vulnus, anche questa, successiva, esclusione veniva gravata dall’appellante con ricorso per motivi aggiunti.
Successivamente, il TAR adito si pronunciava dichiarando l’improcedibilità in quanto non vi era stata impugnazione della graduatoria finale del concorso ritualmente pubblicata.
Si proponeva, dunque, appello all’interno del quale veniva mossa censura visto che la dichiarazione di improcedibilità per la mancata impugnazione del Decreto dirigenziale pareva erronea in quanto con quest’ultimo provvedimento veniva approvata la graduatoria relativa alla seconda immissione nell'Esercito come VFP 4, mentre l’appellante rientrava nella prima immissione di VFP 4 e venivano altresì riproposti tutti i motivi non esaminati dal giudice di prime cure.
Nel merito della questione del tatuaggio e, per quanto rileva in questa sede, l’appellante ha individuato un grave vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione, derivante dall’esclusione direttamente collegata alla presenza della figurazione cutanea, poiché, dal canto suo, l’esistenza non poteva comportare ex se l'esclusione dal concorso essendo necessario a tal fine che esso sia deturpante o contrario al decoro dell'uniforme o ancora possibile indice di personalità abnorme.
Ancora, si spiegava come nel caso di specie il tatuaggio consisteva in “un piccolo e quasi invisibile tatuaggio in prossimità dell'orecchio sinistro e dell'attaccatura dei capelli, il quale non presenta certamente le caratteristiche suindicate” censurando, comunque, le mancate valutazioni di merito da parte dell’Amministrazione visto che l’appellante era già in cura, da molti mesi, per un trattamento laser chirurgico volto all'eliminazione definitiva del tatuaggio in questione.
Inoltre, l’appellante sottolinea come il tatuaggio in questione era già impresso sulla sua pelle all'atto del primo arruolamento, momento in cui non ha comportato effetto alcuno, né in detta sede nè in relazione al prolungamento della rafferma dei VFP1.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, si è determinato per il rigetto del ricorso in quanto la pronuncia, oggi in nota, precisa che anche se il ricorso non fosse stato improcedibile sarebbe stato comunque infondato nel merito circa la legittimità dell’esclusione dell’appellante per la presenza del tatuaggio sul collo che, in quanto visibile, rappresenta elemento di inidoneità.
2. Sull’inidoneità derivante da tatuaggi
La rilevanza che assumono i tatuaggi nell’ambito dei concorsi per le forze armate è pregnante.
Tale rilevanza va posta in relazione alla famigerata uniforme, ovvero l'insieme dei capi di vestiario, corredo ed equipaggiamento che contraddistinguono gli uomini e le donne delle Forze Armate.
Tatuaggio ed uniforme costituiscono dunque una sorta di ossimoro, poiché se è vero che il vestiario e gli accessori costituiscono l’elemento distintivo della funzione dei pubblici poteri dei quali sono investiti i militari e le forze dell’ordine tutte nello svolgimento del proprio servizio; il tatuaggio appare come una sorta di “neo” capace di inquinare e svilire quella che è la funzione che l’uniforme figura, altresì, l’appartenenza a una specifica Nazione e a una determinata Forza Armata, ricordandone la Storia e le tradizioni sia di una che dell’altra: l’uniforme rappresenta, dunque, la sintesi della storia e delle tradizioni dell’organizzazione militare.
Sono numerosissime le pronunce giurisprudenziali che negano l’accesso alle Forze Armate per la presenza di segni più o meno evidenti per le ragioni ripercorse dalla pronuncia in commento che si muove sulla granitica scia disegnata dai massimi organi della G.A[2].
Orbene, i Giudici di Palazzo Spada richiamano quanto previsto dal Bando di Concorso (pubblicato in G.U. Serie Speciale n.95 del 5/112014) il quale prevede che la commissione dovrà giudicare inidonei i concorrenti che presentino tatuaggi allorquando, per la loro sede ovvero per la raffigurazione risultino contrari al decoro dell’uniforme.
Pertanto, risulta irrilevante la posizione del tatuaggio quando rappresenta una forma di disonore delle istituzioni ovvero indice di personalità inidonea; se invece, il tatuaggio è posizionato in una parte del corpo scoperta dalla divisa è in ogni caso elemento di inidoneità per l’accesso alle forze armate.
Invero, ormai, consolidata giurisprudenza ritiene che il tatuaggio sia causa di esclusione ove esso sia posizionato nelle parti del corpo scoperte dalla divisa anche qualora esso non rappresenti un disonore per le istituzioni[3]. In tali ipotesi, la commissione non detiene alcuna discrezionalità, non dovendo eseguire alcuna valutazione, bensì dovendo esclusivamente prendere atto degli esiti di un mero accertamento tecnico[4].
Altresì è meritevole di attenzione il punto della pronuncia relativo alla circostanza che il tatuaggio dell’appellante sia in via di rimozione.
Ciò che conta e rileva, secondo il giudice adito, è la presenza visibile del tatuaggio al momento della proceduta concorsuale e in quel preciso momento che la valutazione si cristallizza e, tale accertamento, non è pervaso da discrezionalità alcuna dunque in nessun caso può essere valutato il percorso di rimozione intrapreso[5].
A tale scopo è necessario il richiamo ai principi generali che regolano i concorsi pubblici per cui i requisiti recati nella lex specialis debbono essere posseduti al termine della presentazione delle domande. Ebbene anche se nell’ipotesi della verifica dei requisiti psicofisici tale termine è posticipato al momento della visita medica (momento effettivo di accertamento) non si può riconoscere valenza a fatti ultronei intervenuti successivamente[6].
In tale fattispecie, infatti, la commissione medica è chiamata alla verifica circa la riconducibilità della situazione di fatto accertata nella fattispecie astratta che disciplina le cause di esclusione.
Pertanto, nel caso che ci occupa, la commissione non ha fatto altro che segnalare la presenza del tatuaggio in una zona non coperta dall’uniforme e, pertanto, rientrante nelle ipotesi di inidoneità prescritte, rendendo superfluo qualsivoglia valutazione sulla entità ovvero significato dello stesso[7].
L’esigenza della non visibilità del tatuaggio, per collegarci al concetto di ossimoro, è strettamente collegata alla visibilità dell’uniforme, necessità che raggiunse l’apice durante il periodo napoleonico: i soldati dell’imperatore corso iniziarono a indossare copricapi sempre più ingombranti e accessori oltremodo luccicanti, il tutto per acquisire un aspetto tanto più imponente e maestoso quanto era più alto il grado del milite.
3. Riflessioni conclusive
La posizione della giurisprudenza è chiara e consolidata sull’inidoneità recata dai tatuaggi nell’ambito dei concorsi per l’accesso nelle forze armate.
Con sentenza n. 658/2020 i Giudici di Palazzo Spada ritenevano irrilevante la rimozione in corso d’opera del tatuaggio, costituendo anche il residuo del tatuaggio sbiadito (ma ancora visibile) legittima causa di esclusione dal concorso.
Difatti, il “residuo di un tatuaggio”, in via di rimozione non lo rende invisibile bensì elemento valutabile dalla commissione medica che senz’altro accerta la causa di esclusione. Né tanto meno è ipotizzabile la possibilità di posticipare la visita medica al momento della completa rimozione del tatuaggio poiché contrasterebbe con il generale principio di imparzialità e di parità di trattamento dei candidati.
È pur vero però che si scorge una inversione di rotta nella giurisprudenza più recente che non ritiene “sufficiente la mera visibilità di un tatuaggio per giustificare l’esclusione di un candidato dal concorso, indipendentemente dal fatto che il tatuaggio risulti deturpante dell’immagine del militare o possa risultare indicativo di personalità abnorme. Sebbene, quindi, la presenza di un tatuaggio su una parte del corpo non coperta dall’uniforme sia rilevante al fine della valutazione di idoneità, si deve escludere l’automatismo tra la visibilità del tatuaggio e l’esclusione dal concorso per l’accesso al Corpo di polizia penitenziaria, essendo necessario che la Commissione di concorso, esercitando la propria discrezionalità tecnica, valuti se il tatuaggio, oltre che visibile, costituisca causa di non idoneità in quanto deturpante o contrario al decoro per le istituzioni ovvero in quanto indicatore di personalità abnorme”[8].
Dunque, aver impresso sul proprio corpo una raffigurazione di qualsivoglia entità o specie non comporta, o non dovrebbe comportare ex se l’inidoneità ai concorsi relativi all’accesso delle Forze Armate.
Come detto, gli uomini e le donne che indossano la divisa rappresentano un’istituzione a tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica e per tanto sono chiamati a possedere requisiti più stringenti rispetto a quelli richiesti per gli altri concorsi pubblici.
La disciplina è chiara nella previsione dell’inammissibilità dei candidati che abbiano tatuaggi su parti del corpo non coperti da divisa nonché nelle ipotesi di raffigurazioni che chiaramente rappresentino un disonore per l’uniforme indossata nonché evidenzino una personalità abnorme.
È l’amministrazione al momento delle verifiche che deve accertare esclusivamente la presenza di segni scoperti dalla divisa ed eventualmente valutare la portata di tatuaggi che si collocano in zone coperte dalla stessa.
È forse il caso di inquadrare in modo più stringente le ipotesi di inammissibilità derivante da tatuaggi?
[1] Tatüàggio s. m. [dal fr. tatouage, der. di tatouer «tatuare»]. – 1. a. Deformazione artificiale permanente dei tessuti cutanei, ottenuta mediante segni indelebili prodotti per puntura dall’inserzione sotto la cute di sostanze coloranti senza alterare la superficie epidermica. Per estens., il disegno ottenuto sulla pelle mediante tale pratica in treccani.it.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01/04/2016, n. 1300 E’ legittimo il provvedimento di esclusione dal concorso a posti di vice revisore tecnico di Polizia giudiziaria a carico di una candidata in ragione di un tatuaggio disegnato sul polpaccio della gamba destra e non copribile dalla gonna della divisa.
[3] Ex multis T.A.R. Roma, (Lazio), sez. I, 22/09/2016, n. 9903 “La presenza di un tatuaggio in zona visibile è sufficiente per giustificare l’esclusione del candidato dal concorso, indipendentemente dal fatto che il tatuaggio in questione possa risultare deturpante o indicativo di personalità abnorme”.
[4] Sul punto si veda Cons. Stato Sez. IV, 09/03/2020, n. 1690; Cons. Stato, sez. IV, 3 ottobre 2019 n. 6640; Cons. Stato, Sez. IV, 18/03/2011 n. 1690.
[5] v. T.A.R. Roma, (Lazio), sez. III, 12/05/2015, n. 6860 “Non può essere reputato deturpante un tatuaggio, peraltro in fase di rimozione, di centimetri 4×5 che raffiguri un motivo floreale. La non immediata percepibilità visiva della presenza di un tatuaggio non consente di ritenere che la sua presenza risulti in contrasto con il prototipo di figura istituzionale, il che rende irragionevole e sproporzionata – rispetto alle finalità presidiate dalla disciplina di riferimento – l’esclusione del ricorrente dal concorso”.
[6] Di tale avviso, Cons. Stato, Sez. IV, 27 gennaio 2020, n. 658; Cons. Stato Sez. IV, 30/06/2020, n. 4109; Cons. Stato Sez. II, 01/09/2021, n. 6155.
[7] Sul punto T.A.R. Salerno, (Campania), sez. I, 03/03/2015, n. 463
Il tatuaggio costituisce legittima causa di esclusione dalle procedure concorsuali indette per l’assunzione di personale militare o, comunque, in divisa, solo quando le dimensioni o i contenuti dell’incisione sulla pelle siano rivelatori di una personalità abnorme, ovvero quando questa sia oggettivamente deturpante della figura o incompatibile con il possesso della divisa medesima. Quindi è onere dell’Amministrazione fornire, all’atto della esclusione, concreta e puntuale motivazione in ordine alle ragioni per le quali, di volta in volta, il tatuaggio sia stato ritenuto preclusivo dell’assunzione o incompatibile con il possesso della divisa.
[8] Cfr. TAR Lazio sez. V n. 2063/2022
La revisione prezzi nei contratti pubblici: disciplina legale eccezionale, discrezionalità della stazione appaltante e rimedi civilistici (nota a T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 10 marzo 2022, n. 239)
di Saul Monzani
Sommario: 1. La connotazione codicistica del contratto d'appalto: in particolare, l'allocazione del rischio in capo al soggetto appaltatore. Le peculiarità del contratto pubblico di appalto. - 2. L'istituto della revisione dei prezzi nella normativa più recente sui contratti pubblici. - 3. L'attuale disciplina “eccezionale” in tema di revisione dei prezzi nei contratti pubblici. - 4. Conclusioni: riconoscimento legale della revisione prezzi e residua discrezionalità della stazione appaltante.
1. La connotazione codicistica del contratto d'appalto: in particolare, l'allocazione del rischio in capo al soggetto appaltatore. Le peculiarità del contratto pubblico di appalto.
In ambito civilistico, il contratto d'appalto, così come descritto dall'art. 1655 c.c., prevede che l'appaltatore assuma l'impegno di svolgere una certa attività “con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio”1. Ciò implica che, in via generale, il corrispettivo pattuito sia fondamentalmente invariabile, restando a carico dell'appaltatore ogni evenienza che possa capitare dopo la stipulazione del contratto. Le uniche eccezioni a tale principio sono costituite dalla possibilità di chiedere la revisione del prezzo nei casi di aumento, o diminuzione, del costo dei materiali o della manodopera in misura superiore al decimo del prezzo convenuto e per effetto di circostanze imprevedibili o di difficoltà di esecuzione non previste dalle parti (art. 1664 c.c.), nonchè dall'ipotesi di risoluzione del contratto oppure di modifica delle condizioni di esecuzione dello stesso nei casi di eccessiva onerosità sopravvenuta eccedente l'alea normale del contratto per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili (1467 c.c.).
Per quanto riguarda i contratti pubblici, invece, storicamente, si è evidenziata una maggiore sensibilità del legislatore ad intervenire, soprattutto in caso di situazioni di mercato eccezionali determinate da eventi su larga scala, quali guerre ed inflazione, al fine di consentire la revisione dei prezzi a vantaggio degli operatori impegnati nell'esecuzione di contratti d'appalto con la pubblica amministrazione2.
In tale ambito, l'istituto della revisione dei prezzi è stato considerato rivestire, da un lato, “la finalità di salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse...e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte; dall'altro di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto”3.
Così individuata la ratio dell'istituto oggetto del presente commento, occorre anche rilevare, sempre in via generale, come la giurisprudenza amministrativa abbia comunque “modellato” il meccanismo della revisione prezzi di un contratto pubblico d'appalto al fine di preservare un certo equilibrio tra interessi della stazione appaltante e quelli degli operatori, evitando uno sbilanciamento a favore di questi ultimi; ciò in coerenza con il modello legale del contratto d'appalto che, come poc'anzi evidenziato, presuppone comunque l'allocazione di un fisiologico margine di rischio in capo all'appaltatore (e non certo l'azzeramento sostanziale dello stesso).
Così, si è statuito che l'inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo negli atti di gara non comporta anche il diritto all'automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto l'interesse legittimo a che l'Amministrazione svolga un'adeguata istruttoria a seguito della richiesta di revisione al fine di accertare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, nella prospettiva “di pervenire ad un corretto bilanciamento tra l'interesse dell'appaltatore alla revisione e l'interesse pubblico connesso al risparmio di spesa, ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato”4. In tema, si registra la presa di posizione anche della giurisdizione ordinaria, la quale ha avuto modo di ribadire che “il diritto dell'appaltatore alla revisione dei prezzi sorge solo quando, a lavori compiuti, la pubblica amministrazione adotti un espresso provvedimento attributivo della revisione e determini il compenso revisionale spettante all'appaltatore il quale, fino a tale momento, è portatore di un interesse legittimo pretensivo, sicché...non vi è un diritto dell'appaltatore di pretendere la revisione,... poiché l'ammontare della revisione potrà essere determinato solo quando la pubblica amministrazione avrà deciso se ed in che misura corrisponderla”5.
L'individuazione della posizione giuridica fatta valere dall'operatore richiedente la revisione dei prezzi ha, evidentemente, una diretta conseguenza sulla determinazione della giurisdizione rispetto all'eventuale contenzioso che ne può derivare. Sul punto, come è noto, il disposto di cui all'art. 133, comma 1, lett. e), n. 2 del Codice del processo amministrativo, di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ha ricondotto le controversie in tema di revisione del prezzo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
In tema, la giurisprudenza ha specificato che nel caso in cui sia in contestazione esclusivamente l'espletamento di una prestazione già puntualmente prevista nel contratto e disciplinata in ordine all'an e al quantum del corrispettivo, così che la controversia incardinata dall'appaltatore ai fini della percezione del compenso revisionale ha ad oggetto una mera pretesa di adempimento contrattuale comportando l'accertamento dell'esistenza di un diritto soggettivo, si ricade nell'ambito della giurisdizione ordinaria. Diversamente, qualora la posizione fatta valere dall'appaltatore tragga origine dall'attivazione della clausola di revisione del prezzo, essa dovrà essere riconosciuta sulla base dell'istruttoria condotta dei competenti organi tecnici dell'Amministrazione, rendendo pertanto configurabile l'esercizio di un potere di supremazia in capo all'ente appaltante che costituisce estrinsecazione di un apprezzamento discrezionale. Quest'ultimo viene svolto attraverso l'attività istruttoria, così che l'esercitata pretesa nella fase procedimentale degrada al mero rango di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione dei giudici amministrativi6.
Inoltre, tornando all'impostazione giurisprudenziale circa l'istituto revisionale nei contratti d'appalto pubblici, si è sottolineato come gli istituti volti al riequilibrio del sinallagma contrattuale non assumano affatto, come già accennato in precedenza, “come obiettivo l’azzeramento del rischio di impresa connesso alla sopportazione in capo all’appaltatore dell’alea contrattuale normale riconducibile a sopravvenienze, quali l’oscillazione generale e diffusa dei prezzi”, dovendosi fare riferimento, ai fini in esame, “non già ad aumenti di costi di fattori della produzione prevedibili – anche dal punto di vista della loro consistenza valoriale – nell’ambito del normale andamento dei mercati relativi”, bensì al fatto di aver fornito la prova “rigorosa”, non circa il “maggior costo sostenuto rispetto a quello ipotizzato in sede di offerta”, ma in merito alla “sussistenza di eventuali circostanze imprevedibili che abbiano determinato aumenti o diminuzioni nei costi”7. In tale ottica, si è aggiunto che “risulterebbe singolare un’interpretazione che esentasse del tutto, in via eccezionale, l’appaltatore dall’alea contrattuale, sottomettendo in via automatica ad ogni variazione di prezzo solo le stazioni appaltanti pubbliche, pur destinate a far fronte ai propri impegni contrattuali con le risorse finanziarie provenienti dalla collettività”8.
2. L'istituto della revisione dei prezzi nella normativa più recente sui contratti pubblici.
Il previgente Codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, se, da un lato, escludeva la revisione prezzi nonchè l'applicazione dell'art. 1664 c.c. in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta per i lavori pubblici affidati dalle stazioni appaltanti, stabilendo il criterio del “prezzo chiuso” (ovvero quello risultante dall'offerta aggiornato al tasso di inflazione se superiore ad una certa soglia), dall'altro lato, contemplava anche una fattispecie in deroga per cui qualora il prezzo di singoli materiali da costruzione, per effetto di circostanze eccezionali, subissse variazioni in aumento o in diminuzione, superiori al dieci per cento rispetto al prezzo rilevato dal Ministero delle infrastrutture nell'anno di presentazione dell'offerta, si poteva dare luogo a compensazioni, in aumento o in diminuzione, per la metà della percentuale eccedente il dieci per cento. Inoltre, sempre il previgente Codice, stabiliva, all'art. 115, l'obbligo da parte delle stazioni appaltanti di inserire nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture una clausola di revisione periodica del prezzo.
Diversamente, l'art. 106, comma 1, lett. a) del Codice vigente, di cui al d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50, dispone in maniera uniforme per lavori, servizi e forniture, che “I contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento nei casi seguenti: a) se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi. Tali clausole fissano la portata e la natura di eventuali modifiche nonché le condizioni alle quali esse possono essere impiegate, facendo riferimento alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti9. Esse non apportano modifiche che avrebbero l'effetto di alterare la natura generale del contratto”. Viene poi stabilita una regola specifica per gli appalti di lavori, la quale prevede la possibilità di revisione solo in caso di variazioni in misura eccedente il dieci per cento dei prezzi originari e comunque nei limiti della metà del relativo importo, così riferendosi più alle modifiche dei costi dei singoli materiali che assumendo quale parametro di riferimento l'intero importo contrattuale10.
Ne deriva che nel quadro normativo vigente, viene rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante la decisione di inserire, o meno, negli atti di gara, la possibilità di revisione dei prezzi, così come di stabilire la relativa disciplina.
Sul punto, si è chiarito che, con particolare riferimento ai servizi e forniture, “la revisione non è obbligatoria per legge come nella previgente disciplina, ma opera solo se prevista dai documenti di gara, con la conseguente inapplicabilità del principio di inserimento automatico delle clausole relative alla revisione prezzi e di sostituzione delle eventuali clausole contrattuali difformi11.
Ciò sta a significare che la stazione appaltante ben potrebbe non prevedere alcuna clausola di revisione dei prezzi o sottoporre tale possibilità a limiti o condizioni.
Nello stesso senso si è espressa anche la dottrina, la quale ha sottolineato come relativamente alla revisione dei prezzi, il nuovo Codice abbia operato un’autentica rivoluzione, “precludendo qualsiasi automatismo”, con l’effetto di attuare un “ripristino in via generale del rischio a carico dell’appaltatore” proprio in quanto “in difetto di indicazione sin dagli atti di gara di una precisa disposizione in materia di revisione periodica del prezzo, l’appaltatore non può formulare alcuna pretesa in corso di esecuzione”12.
Tale impostazione è stata ritenuta compatibile anche con il diritto euro-unitario: infatti, si è ritenuto che “il diritto dell'Unione consente a norme di diritto nazionale di non prevedere la revisione periodica dei prezzi dopo l'aggiudicazione di appalti”13.
Ciò posto, si tratta di verificare se la facoltatività della clausola di revisione prezzi nell'ambito dei contratti pubblici sia in qualche modo “temperata” dalla possibilità da parte dell'operatore di ricorrere comunque ai rimedi civilistici, la cui applicazione era espressamente esclusa, con particolare riferimento all'art. 1664, comma 1, c.c., dal previgente Codice.
Sul punto, partendo proprio dal presupposto per cui il vigente Codice dei contratti pubblici non ha riprodotto l'espressa esclusione circa l'applicazione della norma predetta, si è giunti a ritenere che, ove gli atti di gara non prevedano alcuna clausola di revisione dei prezzi (o addirittura contemplino una previsione di esclusione della revisione dei prezzi), torni a potersi applicare la norma di cui all'art. 1664 c.c.14.
La stessa sentenza oggetto precipuo del presente commento ha escluso che, pur in presenza di una espressa esclusione negli atti di gara di ogni ipotesi di revisione del prezzo, l’impresa appaltatrice rimanga sprovvista di mezzi di tutela nel caso in cui si verifichi un aumento esorbitante dei costi del servizio in grado di azzerarne o comunque di comprometterne in modo rilevante la redditività: nel corso del rapporto, infatti, anche in presenza di una previsione escludente della legge di gara, qualora si verifichi un aumento imprevedibile del costo del servizio in grado di alterare il sinallagma contrattuale rendendo il contratto eccessivamente oneroso per l’appaltatore, questi può sempre esperire il rimedio civilistico di cui all’art. 1467 c.c., chiedendo la risoluzione del contratto di appalto per eccessiva onerosità sopravvenuta, alle condizioni previste dalla norma in questione, tra cui, lo squilibrio complessivo del rapporto contrattuale (e non già riferito ad aumenti di singole voci dello stesso)15.
3. L'attuale disciplina “eccezionale” in tema di revisione dei prezzi nei contratti pubblici.
Da ultimo, prendendo atto degli “aumenti eccezionali dei prezzi di alcuni materiali da costruzione”, come conseguenza del contesto di grave crisi internazionale sul piano politico ed economico, oltre che a seguito della pandemia da Covid-19, l'art. 1-septies del d.l. 25 maggio 2021, n. 73, convertito nella legge 23 luglio 2021, n. 106 (relativamente all'anno 2021) ha introdotto temporaneamente una disciplina derogatoria di quanto previsto nel vigente Codice dei contratti pubblici, in base alla quale la revisione dei prezzi relativi ai contratti pubblici in corso è ammessa, indipendentemente dalle previsioni degli atti di gara, tramite compensazioni determinate dall'incremento dei costi dei materiali superiori ad una certa soglia, come rilevati in appositi decreti del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibile (MIMS),per ciascun periodo di riferimento16.
In sostanza, secondo il meccanismo ora in commento, la compensazione è determinata applicando alle quantità dei singoli materiali impiegati nelle lavorazioni eseguite e contabilizzate dal direttore dei lavori, ovvero annotate sotto la sua responsabilità nel libretto delle misure, le variazioni dei relativi prezzi, con riferimento alla data dell'offerta, eccedenti l'otto per cento, come rilevate dall'apposito decreto.
Inoltre, è stato previsto che le stazioni appaltanti provvedono alle compensazioni dovute secondo quanto appena illustrato nei limiti del cinquanta per cento delle risorse appositamente accantonate per imprevisti nel quadro economico di ogni intervento, fatte salve le somme relative agli impegni contrattuali già assunti, nonché utilizzando le eventuali ulteriori somme a disposizione della stazione appaltante per lo stesso intervento e stanziate annualmente. Possono, altresì, essere utilizzate le somme derivanti da ribassi d'asta, qualora non ne sia prevista una diversa destinazione sulla base delle norme vigenti, nonché le somme disponibili relative ad altri interventi ultimati di competenza della medesima stazione appaltante e per i quali siano stati eseguiti i relativi collaudi ed emanati i certificati di regolare esecuzione nel rispetto delle procedure contabili della spesa e nei limiti della residua spesa autorizzata.
A fronte dell'incremento, talvolta gravoso, delle necessità finanziarie rispetto a quanto originariamente previsto ed impegnato, la normativa in questione ha previsto la possibilità per le stazioni appaltanti, in caso di insufficienza delle risorse individuate come sopra, di accedere ad un fondo per l'adeguamento prezzi costituito presso il Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili.
Per quanto riguarda, invece, l'anno 2022, è intervenuto di recente il d.l. 17 maggio 2022, n. 50 (c.d. Decreto “aiuti”) il quale, abrogando la normativa di poco precedente di cui all'art. 25 del d.l. 1° marzo 2022, n. 17 conv. nella l. 27 aprile 2022, n. 34, ha posto una ulteriore disciplina in tema di revisione prezzi con riguardo alle lavorazioni eseguite e contabilizzate dal direttore lavori ovvero dal medesimo annotate nel libretto delle misure, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2022.
Ebbene, in base a quest'ultima normativa, la revisione dei prezzi, sempre muovendo dal presupposto degli “aumenti eccezionali dei prezzi dei materiali da costruzione” e relativamente ad appalti pubblici di lavori le cui offerte siano state presentate entro il 31 dicembre 2021, è accordata dalle stazioni appaltanti, “anche in deroga alle specifiche clausole contrattuali”, sulla base dei prezzari regionali (da aggiornarsi entro il 31 luglio 2022) e, nelle more, incrementando fino al venti per cento le risultanze dei prezzari regionali aggiornati al 31 dicembre 2021. Ebbene, sempre in base alla disciplina ora in commento, i maggiori importi derivanti dall'applicazione dei prezzari aggiornati sono riconosciuti dalle stazioni appaltanti, al netto dei ribassi formulati in sede di offerta, nella misura del novanta per cento e nei limiti delle risorse disponibili. Per quanto riguarda le somme eventualmente riconosciute dalle stazioni appaltanti nelle more dell'aggiornamento dei prezzari, è previsto che le medesime, anche in deroga a quanto previsto negli atti di gara, procedano ai relativi conguagli rispetto ai valori aggiornati in occasione del pagamento degli stati di avanzamento dei lavori afferenti alle lavorazioni eseguite e contabilizzate dal direttore lavori, ovvero dallo stesso annotate nel libretto delle misure, successivamente all'adozione del prezzario aggiornato.
Inoltre, sempre in tema di normativa “eccezionale”, occoore ricordare come l'art. 29 del d.l. 27 gennaio 2022, n. 4 (conv. dalla legge 28 marzo 2022, n. 25), al fine “di incentivare gli investimenti pubblici, nonché al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento dell'emergenza sanitaria globale derivante dalla diffusione del virus SARS-CoV-2”, abbia disposto l'obbligo, fino al 31 dicembre 2023, di inserire negli atti delle procedure ad evidenza pubblica, clausole di revisione del prezzo.
La stessa norma prevede, in particolare, per i lavori, che, in deroga al Codice dei contratti pubblici, le variazioni di prezzo dei singoli materiali da costruzione, in aumento o in diminuzione, sono valutate dalla stazione appaltante soltanto se esse risultino superiori al cinque per cento rispetto al prezzo rilevato nell'anno di presentazione dell'offerta, anche tenendo conto di quanto previsto dal decreto del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. In tal caso si procede a compensazione, in aumento o in diminuzione, per la percentuale eccedente il cinque per cento e comunque in misura pari all'ottanta per cento di detta eccedenza, nel limite delle risorse disponibili. E' stato inoltre precisato, nella medesima sede, che sono esclusi dalla compensazione i lavori contabilizzati nell’anno solare di presentazione dell’offerta.
Quest'ultimo punto delle norme ora in commento riproduce l'impostazione giurisprudenziale, cui aderisce anche la sentenza che ha dato spunto al presente commento, per la quale “la revisione dei prezzi in tanto è concepibile in quanto si riferisca alle annualità di contratto successive alla prima”17 ovvero, in altri termini, si riprende il concetto per cui “l'aggiornamento del corrispettivo contrattuale...non riguarda, per sua stessa natura, il primo anno di riferimento della prestazione, ma comprende necessariamente il corrispettivo riferibile a tutte le annualità contrattuali successive al primo anno”18.
4. Conclusioni: riconoscimento legale della revisione prezzi e residua discrezionalità della stazione appaltante.
In definitiva, per i noti motivi legati al contesto globale post-pandemico e alla situazione di tensione geopolitica internazionale in atto, l'istituto della revisione prezzi è tornato a rivestire un aspetto di grande attualità nel panorama della disciplina in tema di contratti pubblici, in concomitanza con l'acuirsi della tendenza inflattiva relativa soprattutto, ma non solo, al cospicuo aumento del costo delle materie prime19.
Entro tale cornice, si inseriscono i recenti interventi legislativi che hanno riguardato, in primo luogo, i contratti (aventi ad oggetto lavori pubblici) in corso, rispetto ai quali si è operata una sorta di riconoscimento legale della spettanza in capo all'operatore della revisione prezzi, sia pure entro certi limiti, attraverso una procedura predeterminata e con riferimento a rilevazioni effettuate dal Ministero competente o dalle regioni. In questi casi, pertanto, sembre essere stato introdotto un vero e proprio diritto, più che un mero intersse legittimo, dell'appaltatore alla revisione del prezzo riferito ai materiali oggetto della ricognizione ministeriale.
In altri termini, nelle situazioni rientranti nelle casistiche individuate dalla normativa vigente, la compensazione in aumento a favore degli appaltatori (così come, in astratto, anche quella in dimunizione) viene effettuata, secondo la procedura prevista, in deroga al Codice dei contratti pubblici che, come visto, ammette la possibilità di revisione solo se espressamente contemplata negli atti di gara, nonchè indipendentemente dalla formulazione di questi ultimi, ovvero anche se essi, per ipotesi, dovessero contenere, al contrario, clausole di esclusione della revisione prezzi (pienamente legittime in base alla disciplina “ordinaria” del Codice vigente). Inoltre, il riconoscimento della compensazione, nelle ipotesi ora in considerazione, sembra prescindere dall'onere in capo all'appaltatore interessato di fornire prova del carattere eccezionale dell'aumento e della sua consistenza: ciò proprio in quanto è lo stesso Ministero, o la regione, ad avere accertato d'ufficio la sussistenza di tali circostanze.
Sempre per quanto riguarda gli appalti di lavori in corso alla data di entrata in vigore della l. 23 luglio 2021, n. 106, paiono rimanere nell'alveo della discrezionalità della stazione appaltante le eventuali richieste di compensazione formulate dagli operatori che riguardino materiali non ricompresi nella ricognizione “istituzionale”. In tali ipotesi, la posizione giuridica soggettiva dell'appaltatore sembra tornare ad essere riconducibile all'interesse legittimo a che la stazione appaltante svolga un'adeguata istruttoria in relazione alla prova, di cui è onerato l'operatore stesso, circa l'entità della variazione di costo rispetto a quanto esposto nella propria offerta e la sua eccezionalità nel senso della imprevedibilità.
Per ciò che attiene, invece, alle procedure pubblicate dopo l'entrata in vigore del d.l. 27 gennaio 2022, n. 4, il legislatore ha, più semplicemente, ripristinato, in via temporanea fino al 31 dicembre 2023, l'obbligo di inserimento negli atti di gara di clausole di revisione del prezzo, lasciando così alla stazione appaltante la discrezionalità di “modellare” l'effettivo contenuto di siffatte previsioni, almeno nel caso di servizi e forniture, pur delineando in maniera più precisa la fisionomia del meccanismo di revisione per quanto riguarda i lavori, i quali, come illustrato, sono oggetto anche dell'ulteriore e più recente disciplina di cui al d.l. 17 maggio 2022, n. 50.
In ogni caso, laddove resti demandato alla stazione appaltante definire il contenuto delle clausole di revisione dei prezzi, appare comunque doveroso, in ossequio alla illustrata giurisprudenza che si è espressa in tema, esigere dall'operatore che richiede la revisione la prova “rigorosa” circa la sussistenza di circostanze “imprevedibili” che abbiano determinato aumenti nei costi.
Il tutto fermo restando, secondo quanto di recente puntualizzato dalla sentenza oggetto precipuo del presente commento, il ricorso ai rimedi civilistici, perlomeno a quello di cui all'art. 1467 c.c., il quale, come già rilevato, si riferisce ai casi, straordinari e imprevedibili, di squilibrio complessivo del sinallagma contrattuale, e non all'aumento di singole voci di costo.
Maggiormente problematica, invero, appare la possibilità di invocare, nell'ambito di un contratto pubblico, il disposto di cui all'art. 1664 c.c., e ciò in quanto tale eventualità sembrerebbe in grado di vanificare l'eventuale intento di una stazione appaltante, riconosciuto come legittimo secondo il disposto del vigente Codice dei contratti pubblici e fatta salva la disciplina eccezionale poc'anzi illustrata, di escludere la revisione prezzi, in modo da tenere fermo il quadro economico-finanziario originariamente previsto20. In altre parole, nel momento in cui gli atti di gara contengano una clausola di esclusione della revisione del prezzo, risulterebbe singolare, al di fuori del periodo eccezionale ora in corso, ritenere che essa possa essere comunque essere invocabile nell'ambito di un contratto pubblico per effetto della disciplina civilistica.
1 In tema, tra i tanti, si v. D. Rubino, G. Iudica, Dell'appalto, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Libro quarto, Bologna-Roma, 1992, 229 ss.
2 In tema, per ulteriori approfondimenti, cfr. M. Zoppolato, A. Comparoni, Revisione dei prezzi, in Aa.Vv., Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli, R. De Nictolis, t. IV, Milano, 2019, 67 ss., ivi ulteriori riferimenti.
3 Cons. St., sez. V, 16 giugno 2020, n. 3874, in www.giustizia-amministrativa.it. Nello stesso senso, tra le altre, Cons. St., sez. III, 20 agosto 2018, n. 4985, ivi; Cons. St., sez. III, 5 marzo 2018, n. 1337, ivi; Cons. St., sez. VI, 7 maggio 2015, n. 2295, ivi; Cons. St., sez. III, 4 marzo 2015, n. 1074, in Foro amm., 2015, 701; Cons. St., sez. V, 20 agosto 2008, n. 3994, in Foro amm.CdS, 2008, 2097; Cons. St., sez. III, 19 luglio 2011, n. 4362, ivi, 2011, 2366; Cons. St., sez. V, 14 maggio 2010, n. 3019, ivi, 2010, 1045. Di recente, nei termini illustrati, si v. T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 4 novembre 2021, n. 11309, in Foro amm., 2021, 1777; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I, 7 luglio 2021, n. 211, ivi, 1178.
4 Così, Cons. St., sez. III, 6 agosto 2018, n. 4827, in www.giustizia-amministrativa.it. Nel medesimo senso anche Cons. St., sez. III, 19 giugno 2018, n. 3768, in Foro amm., 2018, 965; Cons. St., sez. III, 9 gennaio 2017, n. 25, ivi, 2017, 20. Di recente, sul punto, cfr. T.A.R. Lazio Roma, sez. III-quater, 15 febbraio 2022, n. 1818, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 14 gennaio 2022, n. 63, ivi; T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 15 luglio 2021, n. 4902, in Foro amm., 2021, 1206.
5 Cass. civ., sez. I, 3 ottobre 2018, n. 24096, in Foro amm., 2019, 778.
6 Così, di recente, Cass. civ., Sez. un., 8 febbraio 2022, n. 3935, in Guida al diritto, 2022, 8. In tema, sempre di recente, si v. anche Cass. civ., Sez. un., 22 novembre 2021, n. 35952, in Giust. Civ. Mass.
7 T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 18 febbraio 2021, n. 435, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso conforme anche Id., sez. IV, 26 gennaio 2022, n. 178, ivi; sul punto si v. anche T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 3 luglio 2020, n. 504, in Foro amm., 2020, 1482, in cui si è puntualizzato ulteriormente che se il meccanismo in questione “deve prevedere la correzione dell'importo previsto ab origine in esito al confronto comparativo — per prevenire il pericolo di un'indebita compromissione del sinallagma contrattale — il riequilibrio non si risolve in un automatismo perfettamente ancorato ad ogni variazione dei valori delle materie prime (o dei quantitativi), che ne snaturerebbe la ratiotrasformandolo in una clausola di indicizzazione. In sostanza, è onere dell'appaltatore fornire la prova che nel corso del rapporto contrattuale i prezzi delle materie prime sia aumentato, a causa di circostanze eccezionali e imprevedibili, in misura tale da erodere in modo significativo l'utile di impresa derivante dalla commessa, compromettendo la capacità dell'imprenditore di far fronte compiutamente alle prestazioni oggetto dell'appalto”. Sul punto si v. anche Cass. civ., sez. I, 18 maggio 2016, n. 10165, in Guida al diritto, 2016, 40, 59, la quale ha sottolineato che “Anche in tema di appalti pubblici il contratto di appalto comporta che l'appaltatore assume il compimento di un'opera con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione proprie e a proprio rischio”.
8 Così, Cons. St., sez. III, 25 marzo 2019, n. 1980, in www.giustizia-amministrativa.it.
9 Il riferimento è da intendersi all'art. 213, comma 3, lett. h-bis), dei vigente Codice dei contratti pubblici, il quale affida ad ANAC, al fine di favorire l’economicità dei contratti pubblici e la trasparenza delle condizioni di acquisto, il compito di elaborare apposite linee guida, fatte salve le normative di settore, inerenti l'elaborazione dei costi standard dei lavori e dei prezzi di riferimento di beni e servizi, avvalendosi a tal fine, sulla base di apposite convenzioni, del supporto dell'ISTAT e degli altri enti del Sistema statistico nazionale, alle condizioni di maggiore efficienza, tra quelli di maggiore impatto in termini di costo a carico della pubblica amministrazione, avvalendosi eventualmente anche delle informazioni contenute nelle banche dati esistenti presso altre Amministrazioni pubbliche e altri soggetti operanti nel settore dei contratti pubblici.
10 L'art. 106 in commento del Codice fa, poi, salva l'applicazione della norma di cui all'art. 1, comma 511, della l. 28 dicembre 2015, n. 208, la quale si riferisce ai contratti pubblici relativi a servizi e forniture ad esecuzione continuata o periodica stipulati da un soggetto aggregatore nei quali sia stata inserita una clausola di revisione e adeguamento dei prezzi collegata o indicizzata al valore di beni indifferenziati. In tale fattispecie, è previsto che nel caso in cui si sia verificata una variazione nel valore dei predetti beni che abbia determinato un aumento o una diminuzione del prezzo complessivo in misura non inferiore al dieci per cento e tale da alterare significativamente l'originario equilibrio contrattuale, come accertato dall'autorità indipendente preposta alla regolazione del settore relativo allo specifico contratto ovvero, in mancanza, dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, l'appaltatore o il soggetto aggregatore hanno facoltà di richiedere una riconduzione ad equità o una revisione del prezzo medesimo. In caso di raggiungimento dell'accordo, i soggetti contraenti possono, nei trenta giorni successivi a tale accordo, esercitare il diritto di recesso ai sensi dell'art. 1373 c.c. Nel caso, invece, di mancato raggiungimento dell'accordo le parti possono consensualmente risolvere il contratto senza che sia dovuto alcun indennizzo come conseguenza della risoluzione del contratto, fermo restando quanto previsto dall'art. 1467 c.c. Le parti, inoltre, sempre secondo la specifica normativa ora in commento, possono chiedere all'autorità che provvede all'accertamento di cui al presente comma di fornire, entro trenta giorni dalla richiesta, le indicazioni utili per il ripristino dell'equilibrio contrattuale ovvero, in caso di mancato accordo, per la definizione di modalità attuative della risoluzione contrattuale finalizzate a evitare disservizi.
11 In tal senso, Cons. St., sez. III, 19 giugno 2018, n. 3768, in www.giustizia-amministrativa.it.
12 M. Zoppolato, A. Comparoni, op. cit., 97.
13 Corte di giustizia Ue, sez. IX, 19 aprile 2018, in C-152/17, in Foro amm., 2018, 544, resa con riferimento ai settori speciali ma il cui enunciato di principio appare valido anche nei settori ordinari. In senso conforme, di recente, si v. anche Cons. St., sez. IV, 4 aprile 2022, n. 2446, in Guida al diritto, 2022, 15.
14 M. Zoppolato, A. Comparoni, op. cit., 94. Sulla applicabilità dell'art. 1664 c.c. ai contratti di appalto pubblici si v. Cass. civ., sez. I, 6 marzo 2018, n. 5267, in Giust. Civ. Mass., 2018; Corte d'Appello L'Aquila, 3 novembre 2020, n. 1480, in www.dejure.it.
15 Secondo la giurisprudenza l'eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto può essere invocata, ai sensi dell'art. 1467 c.c., quando l'originario assetto di interessi sotteso al contratto abbia subito un'alterazione tale da rendere eccessivamente gravosi gli obblighi gravanti su uno dei due contraenti per effetto di fattori eccezionali e imprevedibili di natura oggettiva che le parti non hanno avuto la possibilità di ponderare al momento dell'instaurazione del rapporto: così, di recente, Trib. Firenze, sez. II, 13 agosto 2021, n. 1737, in Guida al diritto, 2022, 2; sempre nella medesima prospettiva, ribadendo la riconducibilità della eccessiva onerosità sopravvenuta ad eventi straordinari ed imprevedibili che non rientrano nell'ambito della normale alea contrattuale, si è precisato che “il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva, qualificando un evento in base all'apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l'intensità, suscettibili di misurazioni (e quindi, tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico), mentre il carattere della imprevedibilità ha fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza”: così Corte d'Appello Roma, sez. II, 29 maggio 2020, n. 2565, in www.dejure.it.
16 La rilevazione dei prezzi riguardante il primo semestre del 2021 è avvenuta con decreto MIMS del 11 novembre 2021, mentre quella relativa al secondo semestre 2021 è intervenuta con decreto MIMS del 5 aprile 2022.
17 Cons. St., sez. II, 17 marzo 2021, n. 2298, in Foro amm., 2021, 474.
18 Così, T.A.R. Campania Napoli, sez. III, 19 agosto 2019, n. 4362, in Foro amm., 2019, 1349; nello stesso senso, si v. anche T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 25 settembre 2017, n. 1518, ivi, 2017, 1932, nonché Cass. civ., sez. I, 6 giugno 2016, n. 11577, in Giust. Civ. Mass., 2016.
19 Il Presidente di Anac così si è espresso nel comunicato del 22 febbraio 2022: “In questo momento...bisogna avere clausole di adeguamento dei prezzi che tengano conto dei costi reali, indicizzando i valori inseriti nel bando di gara. Altrimenti rischiamo di vanificare lo sforzo del Pnrr, perché le gare di appalto andranno deserte, o favoriranno i “furbetti” che punteranno subito dopo l’aggiudicazione a varianti per l’aumento dei prezzi. Molto meglio stabilire dei meccanismi trasparenti e sicuri di indicizzazione, così da favorire un’autentica libera concorrenza e apertura al mercato plurale, e serietà in chi si aggiudica l’appalto”.
20 In senso favorevole all'applicabilità dell'art. 1664 c.c. ai contratti di appalto pubblici si v. la giurisprudenza citata alla nota n. 14 mentre nel senso della specialità della disciplina sui contratti pubblici rispetto a quella civilistica, con conseguente prevalenza della prima, cfr. Cons. St., sez. V, 21 luglio 2015, n. 3594, in www.giustizia-amministrativa.it.
Presiedo una sezione e risolvo problemi
Intervista di Antonella Marrone ad Alessandra Salvadori
La realtà di un semidirettivo di tribunale, tra ricerca di soluzioni per il lavoro quotidiano dei colleghi, attenzione per il loro benessere organizzativo e generale ossessione per le valutazioni di professionalità. Antonella Marrone, giudice di tribunale, intervista Alessandra Salvadori, presidente a Torino.
1. Quale è stata l’istanza più profonda che ti ha spinta ad aspirare ad un ruolo semidirettivo?
Ho presentato domanda per un posto di presidente di sezione presso il tribunale ove lavoravo perché desideravo applicare alcuni accorgimenti organizzativi utili a migliorare il modo di svolgere i nostri compiti.
Quando, circa trent’anni fa, ho preso possesso nella mia prima sede ho subito notato che i miei colleghi, molti dei quali erano davvero preparati e bravissimi sotto il profilo giuridico, prestavano scarsissima attenzione agli aspetti organizzativi del nostro lavoro. Fin da subito ho cercato di introdurre qualche piccola modifica migliorativa. Ad esempio, ho proposto e, con il tempo, ho ottenuto un minimo di ripartizione tra noi di alcune delle materie più specialistiche (appello lavoro, sezione agraria, riesame e prevenzione). Un’altra questione che mi stava molto a cuore era riuscire ad evitare di fissare tutti i fascicoli davanti al collegio penale alla stessa ora o, almeno, evitare di citare tutti i testimoni della giornata alle ore 9 e seguenti. Sono andata via da quel tribunale dopo quattro anni e mezzo senza essere riuscita a modificare quella prassi consolidata che costringeva tante parti e testimoni a lunghe e spesso infruttuose attese.
Credo che tutto abbia avuto origine da lì. Non appena ho potuto fissare in autonomia le mie cause ho cercato di fare grande attenzione agli orari e a molti altri aspetti di pianificazione. Ho, tra l’altro, sperimentato come la gestione in sequenza delle cause del mio ruolo monocratico fosse uno strumento utilissimo per ridurre i tempi mantenendo inalterata la qualità delle decisioni. Aspiravo al ruolo semidirettivo perché particolarmente interessata a poter incidere concretamente sulle modalità di attuazione del servizio, avendo la possibilità di mettere in pratica su ampia scala qualche cambiamento proficuo.
2. Quando hai fatto domanda per un posto da semidirettivo quale ruolo ha svolto la auto-valutazione circa la tua capacità di gestione dei rapporti con e tra le persone?
Prima di presentare la domanda da semidirettivo ho attentamente riflettuto sulle mie caratteristiche, cercando di comprendere se fossero tali da rendermi davvero idonea a svolgere quel ruolo per il quale stavo per propormi.
La mia auto-valutazione circa la capacità di gestire i rapporti con e tra le persone ha avuto un ruolo decisivo. Sono convinta che essa rappresenti un requisito fondamentale per chiunque sia chiamato a coordinare un qualsiasi gruppo di lavoro. In base alla mia ormai lunga esperienza personale, il buon andamento di una sezione è legato al clima emotivo e ai rapporti interpersonali molto più di quanto si sia portati a credere: è di gran lunga preferibile un presidente un po’ meno organizzato, che però mantiene una situazione armoniosa tra i colleghi, rispetto a qualcuno che sia preparatissimo ed efficientissimo, ma che non riesca a risolvere le tensioni o, addirittura, finisca per crearle.
3. Tra tanti adempimenti di tipo organizzativo-formale un semidirettivo ha modo di occuparsi e preoccuparsi di ogni suo singolo Giudice e del suo benessere all’interno della sezione?
Il ruolo del semidirettivo, diversamente da quello del direttivo, è strettamente legato ai non molti colleghi della sezione. Egli deve occuparsi del benessere di ogni magistrato della sezione ed è, a mio parere, tenuto a trovare il tempo per farlo. Ovviamente, non vi è la necessità di un monitoraggio capillare e continuo. Tuttavia, è indispensabile prestare la massima attenzione anche ai minimi segnali di disagio e difficoltà. A volte basta poco. In qualche occasione, prima ancora di procedere a riequilibrare i ruoli proponendo variazioni tabellari, è sufficiente occuparsi di redigere in prima persona qualche provvedimento o sentenza in più del proprio collegio od offrirsi per qualche turno particolarmente scomodo, altre volte basta semplicemente dare ascolto. Non so dire se io sia riuscita a garantire il benessere di ciascuno dei giudici delle sezioni con cui ho lavorato. Questo bisognerebbe chiederlo a loro. Certamente io posso assicurare di averci sempre provato.
Aggiungo, in linea generale, che questa attenzione al singolo oggi è possibile e doverosa proprio perché il numero dei semidirettivi è adeguato e ciascuno deve confrontarsi con pochi magistrati. Non credo che sarà ancora così laddove si proceda a ridurlo.
4. Quanto conta la produttività dei Giudici in termini numerici dal tuo punto di vista?
Come magistrati prestiamo un servizio. Quanto riusciamo a fare è certamente molto importante. Una decisione che arriva dopo troppo tempo è sempre almeno in parte insoddisfacente. Tuttavia, io credo che in questi ultimi anni sia maturato tra noi uno strisciante malinteso senso di efficienza che ci ha portato a dare troppo risalto ai numeri.
A fronte di una imponente domanda di giustizia, non accompagnata da adeguati incrementi delle risorse, noi magistrati siamo stati colpiti dalla sindrome dell’addetto allo sportello. Cerco di esemplificare cosa intendo: in un supermercato o in ufficio postale i vertici stabiliscono il numero degli addetti e i loro turni e ciò consente di tenere aperto un solo sportello, si forma la coda, la gente attende per ore e si lamenta del disservizio, la “colpa” agli occhi degli utenti è dell’unico addetto che sol per questo viene tacciato di essere troppo lento. Nel caso dei magistrati, il Ministro della Giustizia non manda risorse adeguate, il legislatore continua a fare riforme a costo zero, i processi durano troppo e la “colpa” ricade sul giudice che fissa udienze lontane.
Tutti noi siamo stati messi sotto pressione da questa situazione e abbiamo cercato di uscirne aumentando la produttività. Lo abbiamo fatto, doverosamente, cercando di recuperare efficienza attraverso accorgimenti organizzativi, ma il margine di miglioramento non è enorme e, dunque, gli sforzi restano insufficienti. Tuttavia, fino a quando il magistrato crea arretrato potrà sempre essere giustificato dalla impossibilità oggettiva di far fronte a un carico eccessivo, quando – come purtroppo sta accadendo da anni - si adegua alle pressioni di “fare in fretta” e lavora non soltanto in modo maggiormente efficiente, ma anche trascurando la qualità, diventa indifendibile. Soltanto la qualità può garantire ai magistrati la loro legittimazione a poter decidere sulla vita degli altri. Una sentenza può non essere scritta in modo perfetto dal punto di vista linguistico e non deve essere un dotto trattato, ma deve essere frutto di una decisione pienamente ponderata e deve fondarsi su corrette ragioni di fatto e di diritto; l’istruttoria non dovrebbe essere ipertrofica, ma nemmeno può essere sommaria. Insomma, dobbiamo trovare un punto di equilibrio che consenta di coniugare qualità e quantità.
In sintesi, ritengo che i numeri siano importanti, ma che ad essi non si possa sacrificare tutto il resto.
Aggiungo che il ruolo del semidirettivo e del direttivo a mio parere è anche quello di assumersi la responsabilità e il carico emotivo – che spesso è la ragione principale del disagio dei colleghi – di gestire l’arretrato.
5. È compatibile tutta la laboriosa attività organizzativa che ti è richiesta con l’ordinario esercizio della giurisdizione?
Un semidirettivo ha di regola la possibilità di svolgere sia l’attività giurisdizionale sia le attività organizzative che di volta in volta gli vengono richieste.
Ogni sezione ha però peculiarità diverse. Ci sono sezioni, mi limito a parlare del settore penale, che conosco, per le quali lo sforzo organizzativo è minimo (mi riferisco al riesame e alla Corte d’Assise) e altre sezioni in cui è maggiore, ma sempre ampiamente compensato da un esonero parziale. Ci sono, poi, congiunture in cui è particolarmente difficile riuscire a conciliare i due aspetti. In questi anni – sono presidente di sezione dal febbraio 2016 – ho affrontato situazioni molto diverse tra loro. L’avvio di una sezione nuova, che è partita in via sperimentale previo esame, profilazione e catalogazione di circa 8000 fascicoli di citazione diretta, che costituivano l’arretrato accumulato fino a quel momento, è stato un lavoro molto impegnativo reso possibile solo perché ci siamo dedicati in due (l’altro presidente di sezione è un collega eccezionale) e perché per almeno un paio di mesi abbiamo ridotto notevolmente l’attività giurisdizionale e aumentato il tempo di lavoro a livelli non sostenibili a lungo.
Ho poi riorganizzato la sezione misure di prevenzione, nel momento in cui si sono succeduti intervenuti legislativi e innovazioni giurisprudenziali di grande rilevanza, riuscendo comunque a svolgere il lavoro giurisdizionale a pieno ritmo.
Segnalo che, per la mia esperienza, lo svolgimento dell’attività giurisdizionale da parte di un semidirettivo è fondamentale perché gli consente di non scollarsi dalla realtà dei colleghi con cui lavora e di comprendere in concreto le dinamiche di quei particolari servizi che è chiamato a coordinare. Sarei quindi assolutamente contraria ad esoneri totali o maggiori al già previsto limite del 50%.
6. Cosa pensi dell’attuale sistema di valutazione dei giudici? Lo ritieni idoneo a far emergere ciò che a tuo parere davvero è fondamentale per la valutazione di professionalità di un magistrato oppure andrebbe modificato? In tal caso, cosa andrebbe modificato?
Questa domanda la trovo difficilissima. Ritengo che l’altra ossessione che – insieme a quella per i numeri – ha accompagnato questi ultimi decenni è stata cercare di effettuare valutazioni sempre più precise e approfondite dei magistrati.
Comprendo la posizione degli esterni. Noi magistrati appariamo e veniamo raccontati come una categoria di privilegiati che non ha orari o altri vincoli e che spesso esercita senza impegno e in modo arbitrario i suoi enormi poteri. È normale che si pensi che attraverso controlli, pagelle, esami e dando risalto al merito per l’attribuzione di incarichi si possano ricondurre i magistrati entro binari di maggiore adeguatezza, inducendoli a lavorare tanto e bene. Tuttavia, la situazione è molto più complessa. Non possiamo dimenticare che il sistema precedente all’ultima riforma ordinamentale, che poteva a prima vista sembrare il trionfo delle spinte corporative interessate a sbarazzarsi di ogni controllo e della meritocrazia, era strumentale a realizzare una magistratura orizzontale ed egualitaria, conforme al precetto costituzionale secondo il quale i magistrati si distinguono soltanto per funzioni. Dietro ogni meccanismo di merito e selezione, purtroppo, si cela l’idea che esistano magistrati superiori e magistrati inferiori. Ecco che, più che favorire una crescita di qualificazione professionale e culturale dell’intera categoria, il sistema meritocratico ha contribuito a far riemerge l’idea pericolosissima di “carriera”.
Inoltre, mi sembra che nonostante i defatiganti tentativi di effettuare ricorrenti e penetranti valutazioni non si riesca a far emergere i tratti davvero essenziali.
La soluzione non è per nulla agevole: non si può ovviamente rinunciare a qualsiasi controllo e valutazione, ma continuare secondo la via intrapresa (addirittura si parla di pagelle con valutazioni scolastiche) non potrà che acuire gli effetti collaterali, nettamente superiori a quelli positivi, già verificatisi.
Forse un sistema semplificato di valutazione periodica che si limiti a richiedere di indicare esclusivamente se vi siano vere criticità potrebbe essere più proficuo dal punto di vista del messaggio culturale sotteso, oltre che maggiormente snello ed efficace.
7. Ora che svolgi un ruolo da semidirettivo, mi consiglieresti di tentare di fare altrettanto? E perché?
Se ti piace organizzare, cercare soluzioni, farti carico dei problemi altrui e se ti senti pronta a relazionarti con gli altri, te lo consiglio vivamente. Ritengo la mia esperienza di presidente di sezione complessivamente molto arricchente e stimolante e penso che potrebbe esserlo anche per te. Devo avvisarti però che anche se il ruolo semidirettivo è fonte di grandi stimoli e soddisfazioni, se svolto con coscienza comporta anche tanto impegno e tanti problemi. A volte, quando devo solo scrivere sentenze, mi sento così rilassata e libera.
Per questo non so ancora se vorrò ripetere la mia esperienza alla scadenza degli otto anni e se presenterò una nuova domanda da semidirettivo. Dipenderà dal contesto in cui potrei operare e, soprattutto, dall’energia e dall’entusiasmo che sentirò di avere ancora tra un paio d’anni.
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