ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le funzioni dei consigli giudiziari dopo la riforma Cartabia
di Marcello Basilico
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’ingresso della componente laica nel controllo sulla professionalità dei magistrati. - 3. Le pagelle e gli altri nuovi adempimenti per la valutazione di professionalità. - 4. Gli interventi di semplificazione del procedimento valutativo. - 5. Il ruolo del Consiglio giudiziario nelle misure per l’efficienza degli uffici.
1. Premessa.
Uno dei campi d’intervento più significativi della legge 17 giugno 2022, n. 71 riguarda la valutazione di professionalità dei magistrati. Il Consiglio giudiziario (e il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione cui s’intendono riferite per automatica estensione le note che seguiranno) nasce come organo istruttorio e consultivo in quella specifica materia, oltre che in quella tabellare. La riforma dell’ordinamento non poteva non investire dunque le sue funzioni e, in parte, la sua struttura.
La nuova legge riserva anche una novità che potrebbe cambiare volto al Consiglio giudiziario: non tanto per la discussa partecipazione dell’avvocatura ai giudizi di professionalità o per le cosiddette “pagelle” sulla capacità organizzativa, quanto piuttosto per il ruolo propositivo che norme meno considerate gli affidano nell’interlocuzione coi dirigenti degli uffici.
La parte numericamente preponderante delle disposizioni relative all’organo è concentrata nell’art. 3 (“Modifiche del sistema di funzionamento del consiglio giudiziario e delle valutazioni di professionalità”). Ma altri, come detto, sono gli spunti da raccogliere nel corpo della legge 71/2022.
Archiviate per il momento, con la sua approvazione, le valutazioni di opportunità sotto il profilo della politica giudiziaria, è il momento di procedere a una disamina dei singoli precetti della riforma e ad una prima riflessione sui relativi aspetti applicativi.
2. L’ingresso della componente laica nel controllo sulla professionalità dei magistrati.
La riforma della ministra Cartabia ha confermato la novità del d.d.l. del suo predecessore Bonafede l’introduzione della facoltà, per gli avvocati e i docenti universitari che formano il Consiglio giudiziario, di assistere e partecipare alle discussioni sulla valutazione quadriennale di professionalità dei magistrati di legittimità e di merito, disciplinata dall’art. 11 d. lgs. 160/2006[1].
Con la l. 71/2022 il testo dell’art. 3, primo comma, lett. a), è stato ampliato attribuendo alla sola “componente degli avvocati” la facoltà di esprimere “un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione”.
È bene ricordare che già l’art. 11, quinto comma, d. lgs. 160/2006, nell’accordare al Consiglio giudiziario poteri istruttori sui “fatti specifici” che gli fossero stati segnalati, ammetteva che tali segnalazioni potessero venire dai consigli dell’ordine degli avvocati. La riconosciuta inerzia del Foro su questo fronte ha rappresentato uno degli argomenti con cui si sono più contestate l’opportunità e la concreta utilità dell’ultima apertura alla componente degli avvocati[2].
L’espressione del “voto unitario” che la riforma ora gli conferisce è condizionata dalla compresenza di tre presupposti: 1) l’esistenza di una segnalazione da parte del consiglio dell’ordine sul magistrato in valutazione; 2) a riferibilità della segnalazione a fatti specifici; 3) la valutazione preliminare dell’incidenza di questi fatti sulla professionalità del magistrato.
Spetta evidentemente al Consiglio giudiziario tutto il controllo sull’esistenza di questi tre presupposti; particolarmente delicata sarà la verifica sulla correlazione tra fatto segnalato e professionalità del magistrato, verifica che dovrebbe selezionare i casi in cui l’evento non abbia attinenza coi parametri specifici su cui si deve basare la valutazione.
L’oggetto della possibile segnalazione trova una precisazione nel disposto dell’art. 11, quarto comma, lett. f, d.lgs. 160/2006: deve trattarsi di “fatti specifici incidenti sulla professionalità, con particolare riguardo alle situazioni eventuali concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”.
La norma precisa che i fatti specifici possono essere “positivi o negativi”. E’ una puntualizzazione improvvida, perché da un lato potrebbe apparire superflua (è difficile ipotizzare la totale neutralità di una circostanza che attenga all’agire di un professionista quando la si segnali nel procedimento teso a valutarlo) e dall’altro conferisce alla nuova attribuzione della componente forense una carica valoriale che riporta immediatamente al giudizio finale sul magistrato: si puntualizza che ogni contributo al procedimento di valutazione è teso non a delineare la figura del magistrato, ma a pervenire ad un giudizio favorevole o sfavorevole. Quello testé menzionato non è dunque l’inciso ideale per stemperare i contrasti che hanno accompagnato l’elaborazione e l’approvazione della disposizione.
Il prescritto carattere “unitario” del voto sembra escludere la possibilità che gli avvocati componenti del Consiglio giudiziario possano esprimere più di un giudizio: viene loro richiesta un’opinione comune e condivisa. Il voto dovrà dunque essere unico indipendentemente dall’appartenenza o meno di ciascun avvocato al consiglio dell’ordine da cui proviene la segnalazione.
Presa alla lettera, la disposizione in esame pare ancorare il voto “sulla base” solo del contenuto dei fatti specifici segnalati. Sarebbe irragionevole però precludere agli avvocati la possibilità di esprimere una posizione che tenga conto non solo di questi fatti, ma dell’intero complesso di elementi acquisiti nella valutazione di professionalità.
L’ultima proposizione della lett. a) dell’art. 3 l. 71/2022 impone alla componente forense che “intenda discostarsi dalla predetta segnalazione” di richiedere “una nuova determinazione” del consiglio dell’ordine. E’ lampante qui la diffidenza del legislatore verso la possibile dissociazione dei componenti avvocati del Consiglio giudiziario dalla segnalazione del loro ordine.
Per non peccare d’incoerenza rispetto alle premesse di una segnalazione avente ad oggetto circostanze oggettive, la nuova determinazione rimessa all’ordine forense dovrà limitarsi a valutazioni sull’opportunità della segnalazione e sull’attinenza alla professionalità di quanto si era comunicato. In caso contrario quest’ultima disposizione metterebbe a nudo un intento diverso da quello emergente dal complesso del dato normativo: il coinvolgimento della componente dell’avvocatura di un giudizio di carattere soggettivo, che andrebbe ben al di là della mera informazione di fatti specifici.
Siamo di fronte a un passaggio che nella materia in questione esalta il ruolo del legislatore delegato, al quale spetta il compito non banale di attuare la legge in modo sistematicamente coerente.
A riprova dell’attenzione riservata dalla riforma al contributo dell’avvocatura v’è la prescrizione, diretta al CSM, d’individuare annualmente e comunicare ai consigli dell’ordine i nominativi dei magistrati per i quali maturi nell’anno successivo uno dei sette quadrienni che costituiscono i periodi da valutare (art. 3, primo comma, lett. a, l. 71/2022). Nell’intenzione del legislatore ciò dovrebbe consentire ai Consigli giudiziari di acquisire per tempo dal Foro le eventuali segnalazioni.
3. Le pagelle e gli altri nuovi adempimenti per la valutazione di professionalità.
In sede di attuazione Governo (e CSM) dovranno cimentarsi anche in un’altra operazione spinosa: identificare i “criteri predeterminati” che qualifichino le capacità organizzative del magistrato sottoposto alla valutazione periodica. Il generale giudizio positivo dovrà infatti essere accompagnato da una valutazione “ulteriore” dedicata a quel parametro specifico ed espressa con gli aggettivi discreto, buono o ottimo (art. 3, primo comma, lett. c).
La stesura della “pagella” sulla capacità organizzativa si prefigura come un’attività particolarmente sensibile almeno sotto tre angoli visuali: la difficoltà di articolare un giudizio su una qualità che nel singolo periodo potrebbe non emergere appieno, anche a causa delle caratteristiche obiettive dell’attività del giudice o del p.m. in valutazione; il soggettivismo insito in un giudizio siffatto rischia di creare disparità di trattamento nella valutazione compiuta tra diversi Consigli giudiziari o tra magistrati che svolgono funzioni diverse e non comparabili; in difetto di elementi utili a realizzare una confronto efficace tra territori, funzioni o profili del tutto differenti, la prospettiva di una graduatoria tra magistrati ottimi, buoni o solo discreti organizzatori potrebbe caricare la valutazione periodica di professionalità di una valenza pericolosa sotto il profilo delle aspettative dei singoli, una valenza alla quale l’eventuale opera di livellamento della classificazione, compiuta su base nazionale, potrebbe sopperire solo per approssimazione e con risultati a loro volta criticabili in senso corporativo.
È dunque evidente come la riforma renda la valutazione periodica quadriennale ancora più composita e problematica, malgrado il dichiarato intento dei proponenti di semplificarla almeno sul piano dell’estrinsecazione motivazionale.
Secondo la delega, nell’adempiere a quell’attività i Consigli giudiziari dovranno inoltre:
- tenere conto dei fatti accertati nel giudizio disciplinare (art. 3, primo comma, lett. i, n. 5);
- esaminare il parametro della laboriosità anche in ordine al rispetto da parte del magistrato del programma annuale di gestione elaborato ai sensi dell’art. 37 d.l. 98/2011, conv. in l. 111/2011 (art. 3, primo comma, lett. d);
- acquisire dagli interessati “documentazione idonea alla valutazione dell’attività alternativa espletata” che abbia garantito un esonero totale o parziale dal lavoro giudiziario (art. 3, primo comma, lett. e);
- acquisire altresì, ai fini del parametro della capacità, le informazioni necessarie per accertare “gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi o nei gradi del procedimento” nonché provvedimenti a campione relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato in valutazione nelle fasi o nei gradi successivi (art. 3, primo comma, lett. g).
È difficile immaginare come quest’ultima previsione possa riguardare la valutazione dei magistrati di legittimità e, dunque, per la gran parte, l’operato del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.
Ciò detto, i risultati delle complesse indagini istruttorie così richieste dall’intervento riformatore dovrebbero riversarsi nel “fascicolo per la valutazione del magistrato”; esso raccoglierà anche i dati statistici e la documentazione necessaria a valutare “sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo” il complesso dell’attività da lui svolta (art. 3, primo comma, lett. h, n. 1).
Nell’idea del legislatore il fascicolo individuale dovrebbe evidentemente favorire l’espressione di giudizi comprensivi di una molteplicità di fonti e di elementi, che andrebbero apprezzati in modo organico anziché disarticolato. Fino alla sua istituzione concreta e alla predisposizione d’una disciplina di raccordo con quella dell’attuale fascicolo personale del magistrato (art. 3, primo comma, lett. h, n. 1), la valutazione di professionalità verrà compiuta giocoforza con gli strumenti di verifica tradizionali.
Nessuna delle disposizioni esaminate è costruita come self executive. E’ dunque prevedibile che, mancando allo stato norme transitorie, l’attività futura dei Consigli giudiziari si dipanerà attraverso tre fasi progressive:
- la prima di valutazione di professionalità secondo l’ordinamento previgente;
- la seconda di applicazione dei precetti della riforma, in attesa dell’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato;
- la terza di attuazione piena della riforma.
4. Gli interventi di semplificazione del procedimento valutativo.
L’art. 3, primo comma, lett. i, della legge 71/2022 ha indicato tre momenti di semplificazione della procedura di valutazione di professionalità. Esse vengono circoscritte ai casi in cui la procedura abbia “esito positivo”.
1) L’autorelazione del magistrato in valutazione dovrà contenere “esclusivamente” i dati conoscitivi sull’attività giudiziaria; andrà redatta secondo le modalità e i criteri definiti dal CSM.
2) Se ritenga di confermare il giudizio positivo espresso nel rapporto del dirigente dell’ufficio, il Consiglio giudiziario redigerà una “motivazione semplificata”.
3) Quando ritenga di recepire il parere del Consiglio giudiziario, il CSM a sua volta esprimerà il giudizio di professionalità per richiamo a tale parere, “senza un’ulteriore motivazione”.
Recependo su questi punti le proposte inserite nel disegno di legge 2681 del Ministro Bonafede, il testo della riforma Cartabia non ha però riprodotto la previsione del rapporto del dirigente privo di motivazione in tutti i casi in cui intenda confermare il contenuto dell’autorelazione. Il rapporto diventa così l’unico atto per cui non sia prevista una semplificazione, fulcro permanente della procedura valutativa.
Le norme in questione enunciano le fonti di cui il Consiglio giudiziario e il CSM si avvalgono (rapporto, autorelazione, statistiche comparate, provvedimenti estratti a campione o prodotti dall’interessato), senza menzionare la documentazione su un procedimento disciplinare pendente, i risultati dell’attività per la quale si è goduto dell’esonero dal lavoro giudiziario, le informazioni sulle gravi anomalie relative all’esito degli affari trattati, la segnalazione del consiglio dell’ordine si eventuali fatti specifici rilevanti.
Tutti questi sono elementi che rientrano ormai necessariamente nel perimetro della valutazione di professionalità e che anche quando introducano dei fattori di criticità potrebbero non alterare il giudizio finale di positività.
Il silenzio serbato in proposito dal legislatore nei precetti relativi alla semplificazione delle procedure, lascerebbe intendere che essi siano da prendere in considerazione quando la valutazione risulti comunque non problematica. Il che però stride, ad esempio, con la “gravità” dell’anomalia accertata o con la pregnanza del fatto specifico segnalato dagli avvocati. Non è pensabile dunque che un parere del Consiglio giudiziario, pur non negativo, non ne faccia menzione.
Per superare questa contraddizione bisogna ipotizzare una casistica nella quale il giudizio positivo sulla professionalità non possa essere limitato ad una mera conferma, da parte del Consiglio giudiziario, del contenuto del rapporto dirigenziale, poiché esso deve dare conto nella motivazione dell’esistenza di elementi di possibile problematicità e delle ragioni per cui si è ritenuto che non inficino l’esito favorevole della valutazione finale. Non tutti i pareri positivi, insomma, possono darsi nella forma abbreviata prevista dall’ art. 3, primo comma, lett. i), n. 2.
Se così è, a riforma attuata, l’adozione o meno della procedura semplificata potrà costituire un ulteriore fattore di distinzione nella valutazione dei magistrati: vi sarà chi avrà giudizio positivo senza necessità di motivazione e chi avrà giudizio positivo, ma in forma ordinaria. Ecco un’altra situazione potenzialmente discriminante per le posizioni dei magistrati, che si sa quanto attenti e suscettibili siano alla veste anche formale dei pareri che li riguardano.
Alla normazione secondaria affidata al CSM il compito di sciogliere questi nodi e delimitare le deroghe alla semplificazione ai casi davvero rilevanti, affinché l’esigenza di snellimento da tutti auspicata e perseguita dalla riforma non venga disattesa nei fatti.
5. Il ruolo del Consiglio giudiziario nelle misure per l’efficienza degli uffici.
La riforma Cartabia interviene anche sull’assetto dei programmi di gestione ex art. 37 d.l. 98/2011, con disposizioni tese sostanzialmente a valorizzarne gli obiettivi ai fini del controllo individuale di produttività se non addirittura del controllo disciplinare.
Per i Consigli giudiziari la novità è quasi dirompente, così come si accennava già nella premessa del presente contributo.
L’art. 14, primo comma, lett. c), li individua infatti come destinatari di due iniziative dei dirigenti degli uffici: i “piani mirati di smaltimento”, da predisporre in caso di “gravi e reiterati ritardi da parte di uno o più magistrati dell’ufficio” (ora è il comma 5-bis dell’art. 37); “ogni intervento idoneo a consentire l’eliminazione delle eventuali carenze organizzative”, al verificarsi di un aumento delle pendenze dell’ufficio o di una sezione superiore al dieci per cento rispetto all’anno precedente (comma 5-ter).
In entrambi i casi il dirigente è tenuto a trasmettere al Consiglio giudiziario il proprio provvedimento, anche quando non assuma la forma della modifica tabellare, insieme con la documentazione inerente. Il CG – e qui sta la grossa novità – ha facoltà di “indicare interventi diversi da quelli adottati”.
Pare di potere dire che per la prima volta l’Ordinamento giudiziario assegni una funzione propulsiva che va ben al di là di quella di controllore formale del provvedimento in materia organizzativa che tradizionalmente viene riconosciuta ai Consigli. È indubbio che, nel silenzio delle norme, il vaglio sia qui improntato anche a criteri di efficacia della scelta dirigenziale. In buona sostanza non si esclude che il Consiglio giudiziaria possa indicare soluzioni alternative a quelle adottate dal dirigente, sulla base di una valutazione di loro superiore idoneità a elidere le criticità (i ritardi del magistrato, nell’un caso; l’aumento delle pendenze, nell’altro) accertate.
Il sindacato di adeguatezza così conferito può essere letto non sono nell’ottica di un controllo invasivo della sfera di competenza dirigenziale, ma anche in una chiave di collaborazione molto proficua e foriera di prospettive feconde. Viene a costituirsi un asse di collegamento tra ufficio e Consiglio che potrebbe rendere il secondo maggiormente calato nelle realtà giudiziarie del distretto avviando un dialogo improntato al raggiungimento dei migliori obiettivi di efficienza senza che da ciò debbano derivare necessariamente conseguenze sul piano delle valutazioni di professionalità (del singolo magistrato o del dirigente).
Anche la vigilanza sull’andamento degli uffici (art. 15, primo comma, lett. d, d. lgs. 25/2006), finora esercitata col contagocce e comunque a pelle di leopardo nei diversi distretti, potrebbe beneficiare di una relazione più costante tra le due figure istituzionali. E’ immaginabile a questo riguardo un ruolo finalmente proattivo dei Consigli giudiziari, che si concretizzi in azioni per la raccolta d’informazioni, per lo scambio di prassi tra gli uffici, per discutere e stimolare iniziative organizzative nuove.
Certo, occorrerà fare i conti con le risorse disponibili. Sempre più emerge l’esigenza di una dotazione di personale per l’assistenza dei consiglieri giudiziari, gravati di competenze ulteriori che la semplificazione di cui si è accennato potrebbe non bastare a bilanciare.
Costituisce illecito disciplinare l’omessa segnalazione, da parte del dirigente dell’ufficio, al Consiglio giudiziario della mancata collaborazione del magistrato interessato dai ritardi al piano mirato di smaltimento ora previsto dal comma 5-bis dell’art. 37 d.l. 98/2011. Il Consiglio deve dunque essere investito di tale segnalazione non in quanto organo disciplinare, ma, deve ritenersi, in vista della raccolta più completa possibile delle informazioni sul profilo del singolo magistrato e sull’andamento dell’ufficio.
Anche in questo tema specifico trova dunque riscontro la predilezione del legislatore attuale per una risposta sanzionatoria che pervade purtroppo l’intera riforma ordinamentale.
[1] L’art. 11 d. lgs. 160/2006 è richiamato tanto dall’art. 7 quanto dall’art. 15 del d. lgs. 25/2006, che, nel testo poi modificato dalla legge 111/2007, delineano le competenze, rispettivamente, del Comitato direttivo e dei Consigli giudiziari.
[2] Sia consentito di citare il mio recente contributo “Il Consiglio giudiziario, questo sconosciuto”, in questa rivista, 11 maggio 2022.
Essere presidente di un ufficio giudiziario, oggi.
Intervista di Marcello Basilico, Riccado Ionta e Federica Salvatore a Antonella Magaraggia e Giuseppe Meliadò
Essere un buon giudice è condizione necessaria per essere un buon presidente? Quali altre effettive capacità richiede l’impegno dirigenziale?
Magaraggia Per poter dirigere qualsiasi struttura bisogna conoscerla. Un presidente deve aver esercitato la giurisdizione e, aggiungo, sarebbe auspicabile che avesse fatto esperienza sia nel penale che nel civile (per riuscire a comparare il lavoro nei due settori) e lavorato in più uffici giudiziari (ciò consente di conoscere più modelli organizzativi).
L’essere un buon giudice è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Per essere un buon dirigente bisogna avere capacità organizzative (un giudice organizzato è riconoscibile facilmente, da come gestisce il proprio ruolo o partecipa alla vita dell’ufficio), passione per l’organizzazione (alcuni colleghi la ritengono, invece, un deminutio rispetto all’esercizio della giurisdizione) e un carattere empatico e dialogante.
Meliadò L’esperienza mi dice che senza un bagaglio risalente e autorevole di conoscenze e competenze giuridiche e giurisdizionali è difficile essere un buon dirigente, diffido da sempre degli ottimi organizzatori che non si sono misurati con la complessità e la difficoltà del fare giurisdizione, in quanto hanno una visione del tutto parziale, e spesso distorta, delle problematiche umane e professionali che dovrebbero orientare. E tuttavia ognuno di noi potrebbe testimoniare di come assai spesso ottimi magistrati non hanno inclinazione (passione e propensione) a organizzare non solo il proprio lavoro, ma anche il lavoro degli altri, a rapportarsi con tutti i soggetti che danno corpo a quello che si definisce l’ufficio giudiziario, e quindi non solo a fare giurisdizione, ma anche a organizzare la giurisdizione.
Il fatto è che in questi ultimi anni si sono innestati processi (per quanto lenti e a macchia di leopardo) di cambiamento non solo del ruolo della dirigenza, ma anche dei suoi comportamenti e atteggiamenti, su cui è necessario insistere.
Ed infatti mi sembra che si sia progressivamente acquisita la consapevolezza di come non sia fruttuoso né un atteggiamento di mera denuncia, né la pura attesa di risultati che dipendono solo dagli altri; un atteggiamento che esaltava il ruolo formale della dirigenza, come custode dell’osservanza delle regole e delle procedure, che può assicurare la conservazione, ma non certo il miglioramento di una struttura concepita a torto come sostanzialmente insensibile ad ogni valutazione in termini di efficienza.
Il che vale quanto dire che il limite dell’esistente – che è una verità di fatto non pretermettibile – non può costituire il raggio di azione esclusivo dell’attività del dirigente, precludendo una tensione verso il risultato e il cambiamento organizzativo che rischia di tradursi in una aprioristica rinuncia a esplorare le potenzialità che il sistema offre per ottimizzare le risorse disponibili e perseguire concreti e specifici obiettivi di efficienza e trasparenza dell’attività giudiziaria. Ma per superare il limite dell’esistente, è necessaria una visione generale dell’organizzazione, che va al di là della sola competenza giuridica.
Dirigere bene un ufficio è un compito spesso difficile e gravoso. La partecipazione attiva dei magistrati dell’ufficio in questo senso è un aiuto? Come può essere attuata concretamente, nell’organizzare, programmare e gestire l’ufficio?
Magaraggia La collaborazione dei magistrati è fondamentale. La porta dell’ufficio presidenziale deve essere sempre aperta. La mia lo è stata, anche fisicamente. Nessuna decisione significativa che riguarda il Tribunale può essere presa senza una previa consultazione. Questo è un principio tanto corretto quanto utile perché più la soluzione è condivisa più troverà facile attuazione. Se il Tribunale è piccolo si possono fare riunioni con tutto l’ufficio. Se è medio o grande sono fondamentali i presidenti di sezione, che sono un’ottima cinghia di trasmissione con i colleghi.
Anche le deleghe, lungi dall’essere uno strumento per far lavorare di meno il presidente, se utilizzate con intelligenza, possono essere utili. Un dirigente deve conosce bene i propri magistrati e valorizzare i talenti di ognuno. Questo consente di avere apporti significativi dai colleghi e li fa sentire partecipi dell’organizzazione complessiva. Dirigenza partecipata non vuol dire, peraltro, dirigenza deresponsabilizzata, che cerca a tutti i costi la condivisione. Ci sono, infatti, momenti in cui i dirigenti debbono assumersi la responsabilità delle scelte, anche se difficili o scomode.
Meliadò Il coinvolgimento e la partecipazione consapevole dei magistrati dell’ufficio nei processi di cambiamento e di miglioramento organizzativo sono non solo di aiuto per la dirigenza, ma costituiscono una condizione indispensabile per la loro stessa realizzazione e il loro effettivo successo. Mi limito a ricordare l’esperienza che ha condotto alla costituzione, presso la Corte di appello di Catania, nell’anno 2016, e poi a Roma, nell’anno 2020, dell’ufficio per il processo; ben prima quindi che lo stesso venisse imposto dall’Europa (come a torto si dice) con il PNRR.
Il coinvolgimento dei magistrati della Corte nelle scelte intraprese per ridurre i tempi dei processi e modernizzare la risposta di giustizia è stata realizzata attraverso una articolata rete di punti di contatto e di responsabili per gli obiettivi perseguiti da ciascuna sezione ed è stata preceduta e accompagnata da molteplici gruppi di lavoro su temi particolarmente esposti (dalla comunicazione delle decisioni fra il primo e il secondo grado, all’esame preliminare delle impugnazioni), che si sono risolti in ulteriori momenti di confronto fra i consiglieri, attraverso la partecipazione dei magistrati delegati dei vari uffici.
Gli obiettivi di produttività e la realizzazione dei criteri di qualità e di priorità della Corte – sia in materia civile che penale – sono oggetto di costante rilevazione (con cadenza trimestrale) e di confronto fra tutti i consiglieri del settore. In tal modo le scelte organizzative dell’ufficio (per quanto grande e complesso) sono esposte ad un costante processo di confronto e di condivisa responsabilizzazione, che, senza diminuire la responsabilità del dirigente per le scelte operate, ne rende partecipati e diffusi gli obiettivi e le finalità.
La valutazione dei dirigenti è incentrata sui “risultati conseguiti nella gestione dell’ufficio”, spesso interpretati in termini meramente numerici. Com’è possibile valorizzare l’aspetto produttivo salvaguardando la qualità delle decisioni e l’autonomia ed indipendenza dei magistrati?
Magaraggia Non ritengo che la valutazione sia incentrata solo su questo. Se si scorrono i vari parametri che vengono presi in considerazione nei rapporti sulla conferma si può verificare che vi sono molti elementi che entrano in valutazione.
Personalmente non ho mai ragionato in termini quantitativi né nella gestione dell’ufficio né nella valutazione dei colleghi. Ad esempio, in sede di redazione del programma ex art. 37 D.L. 98/2011, se i ruoli dei giudici civili sono composti di cause molto risalenti nel tempo o complicate è ovvio che i risultati attesi siano quantitativamente minori, ma la valutazione del rendimento, sia dell’ufficio che del collega, deve essere positiva. L’importante è che il dirigente faccia una programmazione adeguata alla situazione del Tribunale e verifichi (e sia valutato per) i risultati sulla stessa e non su parametri standard e uguali per tutti.
Per salvare qualità e quantità credo dovrebbe essere fatto un grande lavoro sulla tecnica di redazione dei provvedimenti, ancora molto datata. Spesso i colleghi si spendono nella stesura dei provvedimenti quando un testo completo, ma sintetico farebbe risparmiare tempo e, aggiungo, ridurrebbe le impugnazioni.
Meliadò Io sono profondamente convinto della validità di un modello di ufficio giudiziario ove alla cultura dell’adempimento burocratico si sostituisce la cultura del servizio, in un contesto in cui prevale, sulle iniziative individuali, l’organizzazione e il lavoro di squadra, e che si pone pertanto come strumento funzionale ad una nuova organizzazione del lavoro giudiziario, per la realizzazione di alcuni obiettivi prioritari, ed innanzi tutto della riduzione dei tempi dei processi e del miglioramento della loro qualità.
Il coinvolgimento dei magistrati intorno ad un modello organizzativo volto a lavorare per progetti e obiettivi condivisi (all’insegna del proposito di lavorare meglio e non solo di più) costituisce la indispensabile premessa per conseguire risultati positivi nella gestione della giustizia civile e penale, garantendo anche un aumento sostenibile della produttività, rispettoso della specificità del nostro lavoro. Ricordo sempre il giovane magistrato che mi raccontava come il suo primo capo ufficio gli dicesse che non gli importava “quel che scrivesse”, ma “quante sentenze sfornasse”; naturalmente quel collega era privo di cultura della giurisdizione, ma anche di reale capacità organizzativa, era un finto organizzatore.
Nell’esercizio delle funzioni direttive che ruolo gioca l’effettiva presenza nell’ufficio e in quale misura l’impegno dedicato a compiti amministrativi, lontani dalla direzione dell’attività dei colleghi, potrebbe essere ridimensionato da interventi migliorativi del CSM o ministeriali?
Magaraggia Un dirigente è al servizio dell’ufficio e, come i giudici e il personale amministrativo, deve essere presente. L’esperienza mi ha insegnato che ogni giorno accade qualcosa di nuovo e di diverso, importante o meno importante, che richiede l’intervento, anche solo rassicurante, del presidente.
Quanto ai compiti amministrativi, non ritengo che la soluzione sia quella di eliminarli o ridurli. Il settore giurisdizionale e quello amministrativo procedono di pari passo e l’uno condiziona l’altro. La visione deve essere unica. Il problema è che il dirigente dovrebbe ricevere maggior formazione (quelle del C.S.M. e della S.S.M. sono ancora carenti) e, soprattutto, avere uno staff tecnico che lo supporti per decisioni che non rientrano nelle sue competenze ordinarie.
Meliadò È questo un punto nodale dell’attuale stato della dirigenza. La devoluzione al Ministero della giustizia della materia delle spese di giustizia, già gestite dai Comuni, per il modo in cui è stata attuata, sta determinando una sorta di mutazione genetica del ruolo dei capi degli uffici, che va rigorosamente attenzionata e denunciata. La mancata istituzione delle direzioni regionali, previste nell’impianto originario della riforma, in grado di far fronte alle complesse questioni connesse alla disciplina degli appalti pubblici e delle altre procedure di acquisto (e cioè, di una problematica del tutto estranea alla formazione esclusivamente giuridica e pubblicistica dei dirigenti amministrativi), sta stabilizzando, infatti, nonostante il tempo trascorso (oltre sette anni) una situazione originariamente concepita come transitoria, che incide sulla funzionalità degli uffici, esponendoli a compiti e rischi gestionali aggiuntivi del tutto insostenibili, e sul ruolo stesso dei capi degli uffici, ed in primo luogo dei presidenti delle Corti di appello.
Lo stabile trasferimento a questi ultimi di compiti delegati determina, infatti, una impropria commistione fra competenze amministrative relative all’organizzazione dei servizi, che rientrano, ai sensi dell’art.110 Cost., nelle attribuzioni del Ministero della Giustizia, e compiti di organizzazione della giurisdizione, propri dei capi degli uffici.
Tale situazione non giova né alla funzionalità degli uffici (se non altro per la necessaria “creatività” con cui si è costretti ad affrontare problemi che implicano specifiche competenza tecniche e scelte gestionali centralizzate, e che, in ogni caso, determinano un’ulteriore distrazione delle scarse risorse umane disponibili), né alla funzione propria dei dirigenti giudiziari, progressivamente assorbiti da incombenze che non attengono alle loro attribuzioni giurisdizionali e ai compiti di gestione e di miglioramento dell’apparato giudiziario alle prime connesse. Si tratta di una condizione ambigua ed insostenibile che merita di essere al più presto sciolta e rispetto alla quale si impone grande attenzione da parte del CSM e della magistratura associata.
L’incarico dirigenziale implica un intenso rapporto con l’avvocatura, chiamata anche ad esprimere un rapporto informativo sul dirigente in sede di conferma. Come deve atteggiarsi il dirigente nei suoi confronti?
Magaraggia L’apporto dell’avvocatura è fondamentale. Ci deve essere una stretta collaborazione tra presidente del Tribunale e presidente del C.O.A. Gli avvocati sono una fonte di conoscenza dei problemi (che, alcune volte, i giudici non vedono) e anche di loro soluzione (anche in questo caso, se è condivisa, trova più facile attuazione). Deve essere, però, un dialogo reale e biunivoco. Nella mia esperienza ho tratto molto giovamento dall’istituzione oltre che degli, ormai diffusi, osservatori sulla giustizia civile, che raccolgono prassi interpretative ed elaborano protocolli, anche di altri osservatori, più legati all’organizzazione. A Verona ne esistono due (uno nel civile e uno nel penale), composti dal presidente del Tribunale, dal presidente del C.O.A. e della Camera penale, da legali, da magistrati e da personale amministrativo. Si occupano dei problemi, molto concreti, segnalati dal foro, dalle cancellerie, dai giudici e dagli utenti, ricercando, in maniera condivisa, i possibili rimedi. I risultati sono stati molto positivi.
Meliadò Il dialogo e l’azione comune fra la magistratura e l’avvocatura costituiscono, insieme ad un ampio coinvolgimento dei magistrati negli obiettivi programmatici e di gestione degli uffici, l’altro pilastro su cui costruire il successo delle strategie di riforma dell’amministrazione della giustizia. Protocolli e intese programmatiche, attività congiunte negli organi di gestione e azioni formative comuni, tavoli di lavoro e osservatori permanenti hanno costituito in questi anni un reticolo prezioso di esperienze che hanno inciso profondamente sulla visione comune dei problemi della giurisdizione e hanno dato corpo a quella cultura dell’autogoverno, ben diversa dall’antica separatezza, che sostanzia la libertà delle formazioni sociali, l’autonomia dell’avvocatura e l’indipendenza della magistratura.
In realtà, in questi ultimi anni, se non è decollata quella “comune cultura della giurisdizione”, che a torto è stata accusata di essere solo un titolo buono per i convegni, e che invece ha avuto il merito di tenere aperto un canale di dialogo importante anche in momenti particolarmente difficili di reciproca incomprensione, si è progressivamente radicata, nella magistratura e nell’avvocatura, l’idea che il perseguimento di prassi e azioni comuni di miglioramento delle rispettive funzioni, oltre che della qualità del servizio giustizia, ha carattere strategico e non presente credibili alternative. Questa comune visione, nonostante inevitabili tensioni e differenziazioni, ha dato anche nel periodo della pandemia i suoi frutti, consentendo di proseguire l’attività giudiziaria, e di assicurare la tutela dei diritti, in una situazione inedita ed eccezionale.
Il dirigente giudiziario concorre, coi rapporti che gli sono richiesti, alla valutazione di professionalità dei giudici e, in sede di conferma, dei semidirettivi. Come avete interpretato questo compito? C’è il rischio di personalismi e di assecondare una visione e una deriva gerarchica degli uffici giudicanti?
Magaraggia I rapporti non devono essere standardizzati, ma rispecchiare il lavoro e la personalità del singolo giudice. Io chiedevo che le autorelazioni fossero il più possibile dettagliate. Soprattutto volevo che venissero elencati dati di fatto (che provvedevo a riscontrare), sui quali esprimevo le mie valutazioni. Se i rapporti sono basati su fatti e sulla loro valutazione si evitano i personalismi sia in senso positivo che in quello negativo. Tra l’altro io, prima di inviare il rapporto al C.G., lo facevo leggere al collega che, se aveva qualcosa da rilevare, me lo segnalava.
Non credo, quindi, che la gerarchizzazione passi per le valutazioni di professionalità. Si dovrebbe, forse, ragionare di più sul fatto che, quando il presidente fa un parere negativo, difficilmente trova seguito al C.S.M., che tiene parzialmente conto di quanto osservato dal dirigente e ha maglie di valutazione molto più larghe.
Meliadò Il problema non mi sembra quello dei personalismi, che è una criticità che per un dirigente serio non dovrebbe ipotizzarsi nemmeno in astratto, quanto quello delle fonti di cognizione che sono poste a sua disposizione per offrire un giudizio coerente con il reale impegno professionale di ogni magistrato. Per i semidirettivi il compito è più agevole, in quanto il capo dell’ufficio opera (o, almeno, dovrebbe operare) a stretto contatto con gli stessi, qualunque sia la dimensione dell’ufficio, ed è in grado di apprezzarne capacità e limiti; si complica per i giudici, rispetto ai quali la valutazione è mediata dal contributo conoscitivo offerto dai presidenti di sezione.
Mi sembra necessario, pertanto, che il dirigente e i presidenti di sezione concordino ex ante le modalità di verifica, specie con riferimento a quegli aspetti dell’attività giudiziaria che non risultano statisticamente verificabili, e che nondimeno valgono a configurare il profilo professionale complessivo del magistrato, in modo da evitare giudizi differenziati sostanzialmente privi di riscontro. Che, in questo contesto, gli uffici giudicanti stiano andando incontro al rischio di una deriva gerarchica è affermazione che merita di essere attentamente monitorata e verificata; allo stato a me sembra che il sistema tabellare contenga in sé tutti gli antidoti necessari per dare persistente tutela al principio, fondamentale nell’organizzazione costituzionale della magistratura italiana, per cui i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni.
I semidirettivi e i magistrati dell’ufficio, invece, non sono chiamati ad esprimersi nella procedura di conferma del dirigente. Un’inversione di tendenza è auspicabile e possibile?
Magaraggia La ritengo assolutamente necessaria. Chi meglio dei giudici e dei presidenti di sezione può conoscere l’operato di un presidente di Tribunale? Aggiungo che sarebbe necessaria anche l’audizione del dirigente amministrativo e del procuratore. L’unico inconveniente di questa scelta è che complica e allunga la procedura che, così articolata, forse, la struttura del C.S.M. non può permettersi.
Meliadò È una prospettiva che mi lascia perplesso, in quanto presenta l’evidente rischio della ricerca del consenso, che può trasformarsi nell’anticamera del condizionamento; lo penso giusto in quanto sono profondamente convinto di una organizzazione pienamente partecipata dell’ufficio, ma con chiare distinzioni di responsabilità.
Completata un’esperienza dirigenziale è possibile professionalmente tornare all’esercizio della giurisdizione alla scadenza dell’incarico? È auspicabile che ciò diventi la regola?
Magaraggia Ritengo che il cd. bagno di giurisdizione sia una scelta un po' populista. Sembra quasi che l’aver fatto il dirigente significhi non aver lavorato. Se un presidente ha acquisito una buona esperienza organizzativa (e non è facile), è irragionevole che la stessa non venga messa a servizio di un altro ufficio. E’ un principio organizzativo elementare. Si dice che così si crea il cd. circuito dei dirigenti. È vero. Il T.U della dirigenza aveva tentato di superarlo, ma, nell’attuazione pratica, ha fallito. Questo è il vero problema e la soluzione non è semplice.
Meliadò La temporaneità degli incarichi direttivi è stata una rivendicazione storica della magistratura italiana, sorretta da giustificazioni ineccepibili; un naturale corollario di tale principio è che, scaduto il mandato, si possa ritornare all’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Altra cosa è la previsione di un obbligo in tal senso, quasi che i dirigenti partecipino di uno status separato da quello degli altri giudici. In realtà, spiace dirlo, ma mi sembra che si tratti di uno dei tanti luoghi comuni che circolano in materia di giustizia, frutto di suggestione più che di riflessione.
Nella narrazione ora circolante penetra anche all’interno della magistratura, l’incarico dirigenziale viene collegato al correntismo. Entrambi voi avete una storia di vita attiva in gruppi associativi dell’ANM. Quale è il rapporto tra questi e gli incarichi dirigenziali?
Magaraggia Sarebbe ipocrita nascondere che l’appartenere ad una corrente abbia favorito alcune nomine. In sistema di autogoverno gestito correttamente questo non dovrebbe accadere. In ogni caso, anche in assenza di favoritismi, l’aver fatto parte di un gruppo consente, probabilmente, a un collega di farsi conoscere di più e, quindi, di avere più chances rispetto a un altro. Quanto affermato non può, comunque, gettare un’ombra generalizzata su chi fa politica associativa. Nella mia esperienza, l’averla praticata mi ha insegnato molto e mi ha consentito di costruire una rete, positiva, di relazioni che sono tornate utili nella gestione del Tribunale.
Meliadò Per i magistrati della mia generazione l’impegno all’interno dell’ANM e dei suoi gruppi associativi rappresentò lo strumento per cambiare la nostra condizione umana e professionale, per rompere l’isolamento cui ci costringeva il nostro lavoro, ricercando, attraverso la riflessione e l’azione comune, un diverso modo di fare il magistrato, in modo da trasformare una magistratura che vedevamo ossequiosa e impotente. Il principio per cui i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni fu, nella sua versione precettiva, il frutto della ostinata determinazione di quegli anni, orienta a tutt’oggi la mia attività di dirigente e mi dispero per quanti non comprendono che quella fu per tutti noi la più grande conquista, realizzata grazie all’aggregazione e al confronto su un nuovo sistema di valori.
Semplificazione ed efficienza del processo civile nella legge 203/2021: note critiche e prospettive[1]
di Pasquale Serrao d’Aquino
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Gli istituti acceleratori: istruzione stragiudiziale; anteposizione alla prima udienza dello scambio degli scritti difensivi; ordinanze provvisorie di accoglimento e di rigetto; rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione. - 2.1. Il giudizio di legittimità. - 3. L’Ufficio per il processo. - 4. La (mancata) modifica della geografia giudiziaria. - 5. La digitalizzazione del processo civile. - 5.1. Processo, giustizia predittiva e intelligenza artificiale: prolegomeni.
1. Introduzione.
La riforma del processo civile attuata con la legge n. 206 del 2021[2], mantenendo ferma la finalità dell’accelerazione dei tempi del giudizio, ha subito nel corso dei suoi lavori, tre diverse rivisitazioni della sua struttura: il DDL Bonafede (ddl 1662); l’elaborazione della cd. Commissione Luciani[3], istituita dalla Ministra della Giustizia; nella sua versione finale, quella operata dal maxiemendamento governativo, poi trasfuso nella legge delega.[4]
La riduzione dei tempi processuali del giudizio dovrebbe essere garantita attraverso la scelta della semplificazione, ma il suo impianto generale sembra tradire tale finalità. Le misure collegate all’attuazione del PNRR[5], che mirano all’efficienza del processo civile, invece, contengono dei principi condivisibili e di autentico rinnovamento anche se previsti in una prospettiva per ora futuribile.
La delega persegue cinque obiettivi: 1) portare a compimento la digitalizzazione, consentendone aggiuntivamente la celebrazione del processo da remoto per determinate fasi; 2) riorganizzare e implementare l’Ufficio per il processo; 3) ridurre i flussi in entrata degli uffici giudiziari, con le novità in tema di mediazione e negoziazione assistita); 4) abbreviare i tempi delle diverse fasi processuali; 5) intervenire in alcuni settori (esecuzione[6], famiglia e minori[7], arbitrato [8]) che richiedono migliorie di vario tipo. L’obiettivo primario, tuttavia, resta il raggiungimento degli obiettivi del PNRR: ridurre del 40% tempi del processo e del 90% arretrato, su scala nazionale (sulla baseline dei dati del 2019), target indispensabile per ottenere i fondi europei.[9]
Di tali direttrici, la prima (digitalizzazione) e, in parte, la seconda (riorganizzazione) mi sembrano quelle più centrate.
La terza (deflazione) non mi sembra, invece, destinata ad avere particolare successo, per la persistenza di problemi culturali e di contesto socio-economico che hanno finora portato al fallimento degli istituti della mediazione e della negoziazione assistita. Gli incentivi fiscali costituiscono, però, una novità apprezzabile. Nel parere ex art. 10 l. 195/1958 reso con delibera del 15 settembre 2021, il CSM ha opportunamente indicato che <<Per una “riconciliazione” tra l’utenza della giustizia e la mediazione e perché si realizzi il cambiamento culturale indispensabile perché le ADR costituiscano un’alternativa reale alla tutela giurisdizionale occorre che la procedura sia affidabile e sia conveniente. A tal fine occorre assicurare: a) effettiva competenza del mediatore nella materia (si pensi alla diversità tra i giudizi riguardanti divisioni o diritti reali e cause risarcitorie o di colpa medica); b) terzietà del mediatore, che non deve essere scelto dall’attore secondo criteri opportunistici; c) forme di agevolazione fiscale e di esenzione dal pagamento dell’imposta di registro per le parti; d) incentivazione dei compensi professionali degli avvocati».
L’accelerazione del processo tramite interventi sul rito e con istituti innovativi (punto 4) appare, invece, velleitaria e destinata, per alcuni aspetti, a ridurre i tempi solo nei pochi tribunali già molto virtuosi, per altri a creare complicazioni e dannosa ammuina - in particolare con le ordinanze provvisorie - tanto da avere subito critiche quasi unanimi.
Un impatto minimo, dovendo coniugarsi con il principio del raggiungimento dello scopo e, quindi, non incidendo sulla validità degli atti, ma sul regime delle spese[10], avrà il principio di chiarezza e sinteticità degli atti[11] - termine quest’ultimo che compare per otto volte nella legge 206) e già previsto dal codice del processo amministrativo (art. 3 d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104) e da quello contabile (d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174- art. 5) e presente, quanto alla “chiarezza”, nel giudizio di legittimità dall’art. 366bis c.p.c. Maggiore interesse, invece, suscita, pur nel rispetto del medesimo principio, l’aver demandato al legislatore delegato che per «i provvedimenti del giudice e gli atti del processo sia assicurata la strutturazione di campi necessari all'inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense» (comma 17, lett. d), prescrizione potenzialmente prodromica alla strutturazione obbligatoria degli atti sul modello es. dei ricorsi alla Corte EDU, con potenzialità direttamente proporzionali allo stadio dell’evoluzione informatica (v. infra).
Le riforme settoriali previste nella delega (punto 5) presentano aspetti positivi, come l’istituzione del Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie [12], allo scopo di evitare eccessive sovrapposizioni e interventi contraddittori tra uffici minori e sezioni famiglia dei tribunali, rendere più efficienti alcuni istituti dell’esecuzione; esse, tuttavia, determinano anche alcuni inconvenienti, quali l’ eccessiva attribuzione di competenze monocratiche in materia familiare, la perdita di know-how e strutture degli uffici minorili, oltre che della cultura del diritto minorile e della relativa impostazione del procedimento sulla tutela del minore. Quest’ultima risulta messa a rischio sia per l’impossibilità di garantire la specializzazione, creando solo utopisticamente tante unità dedicate alla famiglia quanti sono i tribunali italiani sia perché le decisioni del giudice non possono essere solo il frutto dell’approccio alle questioni proprio dello stretto jus litigatoris. Esse, infatti, richiedono una istruttoria ampia integrata con i servizi sociali e con gli altri uffici giudiziari, interfacciandosi anche il settore civile e quello penale e volta a garantire a tutto campo gli interessi del minore, indagando sull’intero contesto famigliare, e non solo sulle criticità della coppia o sul singolo figlio.[13]
L’aspetto più interessante consiste, tuttavia, nell’intravedere dei segnali di una trasformazione profonda delle caratteristiche strutturali del processo si cui si ritornerà successivamente.
2. Gli istituti acceleratori: istruzione stragiudiziale, anteposizione alla prima udienza dello scambio degli scritti difensivi; ordinanze provvisorie di accoglimento e di rigetto; rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione.
La prima innovazione è la possibilità celebrazione del processo in assenza del giudice.
Per stringere i tempi dell’istruttoria la si anticipa, infatti, su scelta delle parti, ad una fase anteriore all’instaurazione del contraddittorio processuale e alla designazione del giudice.
L’istruttoria stragiudiziale[14], fatta in contraddittorio solo tra gli avvocati, è destinata a ad avere uno spazio molto limitato. Da un lato trova applicazione solo nei casi in cui, nell’ambito della negoziazione assistita, la relativa convenzione lo preveda espressamente e a condizione che tutti gli avvocati delle parti vi partecipino. I testimoni, poi, sono obbligati a dire il vero, e sono sanzionati penalmente se mentono, ma non sono obbligati a deporre.
Si tratta di un istituto destinato ad avere un ambito applicativo effettivo “di nicchia”, per conflitti nei quali già in partenza la cooperazione tra le controparti è considerevole ed esse hanno la volontà di chiarire alcuni aspetti controversi (es. su un danno o risarcimento) in vista di una già prevista conciliazione o transazione.
Va ricordato che l’altra forma di esternalizzazione dell’attività istruttoria, l’istituto della cd. testimonianza scritta (art. 257 bis c.p.c.), ha avuto scarsissimo successo, per la poca sfiducia riposta nello stesso da parte di tutti i protagonisti del processo.
Nelle altre ipotesi difficilmente il convenuto sarà collaborativo perché preferirà attendere che il teste sia sentito dal giudice; il teste si sentirà più garantito nel processo vero e proprio. La legge nel caso in cui rifiuti prevede l’intervento del giudice che, tuttavia, avviene prima che si instauri il giudizio, con modalità – non fosse altro che per definire i fatti oggetto di prova e le modalità dei tempo e luogo del’audizione- necessariamente non dissimili quelle dell’accertamento tecnico preventivo ante causam, con un’evidente perdita di tempo. In ogni caso il magistrato, ove le parti non concilino diviene un ricettore passivo del materiale probatorio raccolto e non quello che, con la sua professionalità, garantisce l’acquisizione genuina delle prove, pur potendo selezionare il materiale raccolto e, se del caso, rinnovare l’istruttoria.[15]
Con riguardo all’introduzione della causa, sono state abbandonate le scelte iniziali di utilizzare come archetipo il rito sommario e, successivamente, una sorta di ibrido tra rito ordinario e rito del lavoro, con plurimo scambio anticipato di scritti difensivi. Confermata, invece, l’opzione per la citazione. Senza soffermarsi su condizioni nelle quali “salta” la possibilità di celebrare una sola udienza e di evitare lo scambio di memorie, vanificandosi gli obiettivi acceleratori, deve evidenziarsi – tenendo sempre a conto che l’imbuto del processo resta sempre la decisione per l’eccessivo numero di sentenze che il magistrato deve scrivere – che si tratta di un cambio di passo sostanzialmente inutile per chi ha carico di lavoro elevato, cioè proprio per quelli uffici che avrebbero bisogno di ridurre i tempi del processo e di abbattere l’arretrato.
Più utili sono le alternative fornite al momento della decisione (abrogazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni con anticipazione dello scambio di comparse e memorie rispetto all’ultima udienza, possibilità di decisione ex art. 281 sexies c.p.c. dopo la discussione seguita dal deposito della sentenza anche non contestuale, cosa molto utile nelle cause complesse e collegiali).
Mi sembra pessima, invece, l’idea, sul modello francese della rèfèrès provision, delle ordinanze provvisorie di accoglimento e di rigetto: a) non passando in giudicato non impediscono la riproposizione della domanda; b) poco aggiungono alla possibilità del giudice per i casi più semplici di pronunciare sentenza ai sensi dell’ 281 sexies c.p.c.; quanto meno una sentenza concisa la parola fine al giudizio di primo grado; c) implicano l’investimento di tre giudici del collegio e il mutamento del giudice assegnatario del fascicolo in caso di accoglimento del reclamo (coinvolgendo, quindi, 5 giudici, invece che uno solo); d) nel caso in cui sia adottata per genericità dell’editio actionis risulta particolarmente defatigante la definizione con l’ordinanza provvisoria rispetto all’ordine di rinnovazione della citazione.
L’errore (o meglio l’omissione) più grave, dovuto alla brevità dei tempi concessi e, soprattutto, all’assenza di idee condivise circa il “rito migliore” ritengo sia la previsione di riti distinti per processo monocratico, collegiale, ordinario e semplificato, esteso anche al giudice di pace (per l’incremento delle sue competenze) e, soprattutto, la rinuncia allo sfoltimento degli innumerevoli riti speciali sopravissuti allegramente alla forbice del cd. tagliariti (d.lgs. 150/2011).
Sono tre le ragioni per cui senza esercitare questa opzione drastica non vi può essere semplificazione e, quindi, efficienza.
1. Il labirinto dei riti diventa, se possibile, ancora più inestricabile: i modelli generali restano molteplici (ordinario e monocratico, collegiale, semplificato, lavoro, camerale, senza tener conto anche del cautelare uniforme).
2. I subriti, quali riti fallimentari e della crisi d’impresa, protezione internazionale, disciplinari vari, rito familiare oggi unificato, opposizioni a sanzioni varie, riti sommari obbligatori, cause in grado unico, ecc. restano troppi. Trovo davvero difficile sostenere la bontà dell’idea di un rito per ciascuna materia, da applicare in tribunali non specializzati (o parzialmente specializzati), molteplicità destinata ad incrementarsi esponenzialmente con tutte le possibili variabili e interrelazioni tra specialità dei riti rationae materiae e specialità per fasi processuali (riti cautelari, opposizione a decreto ingiuntivo e all’esecuzione), con l’inevitabile effetto di costringere il giudice e gli avvocati ad avanzare faticosamente attraverso una fitta giungla per arrivare ad una decisione di merito. Non ne comprendo la base teorica e mi sembra che sia frutto di una visione atomistica del processo che non tiene conto della specializzazione necessariamente ridotta degli interpreti. Perdutasi da tempo una visione d’insieme del processo, si aggiorna il diritto processuale con interventi per singoli settori e spinti da specifiche emergenze. Nessuno ha il tempo di elaborare una razionalizzazione complessiva e l’autorevolezza necessaria per imporre delle scelte su altre, senza che si levino gli scudi dei supporters di ciascun rito (la plurimillenaria citazione, il pratico rito del lavoro, il duttile rito camerale, la specificità della Crisi di impresa, ecc.) .
Le transizioni da un rito all’altro, anche secondo la riforma, avvengono sulla base di valutazioni non fondate su dati del tutto oggettivi e, quindi, opinabili: secondo la legge delega il rito semplificato è rimesso alla scelta dell’attore, ma deve essere adottato in caso di prove precostituite, fatti non contestati o istruttoria non complessa.[16] Ma cosa ne sa l’attore, nello scegliere, di come reagirà il convenuto, se si costituirà, contesterà i fatti, articolerà prove costituende?
Facile presagire, quindi, che ancora un volta si dibatta sulla correttezza del rito, se ne chieda la conversione, ecc, si ponga il problema delle riconvenzionali, ecc.
È prevista, inoltre, la modifica del sommario-rito semplificato con termini ridotti. Sarà l’unico modello di sommario, oppure restano le forme speciali? Il legislatore delegato, demandando il delegante che esso <<4) sia disciplinato mediante l'indicazione di termini e tempi prevedibili e ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario per lo svolgimento delle difese e il maturare delle preclusioni, nel rispetto del contraddittorio fra le parti», dovrà introdurre, come sembra, uno scambio di memorie a cadenza più rapida rispetto al rito ordinario, oppure n farà a meno?
La prima attività del giudice, dopo il controllo della regolarità del contraddittorio, sarà quello sul rito. E se l’attore ha scelto il rito semplificato e il resistente si è difeso, di nuovo dovranno essere concesse le memorie.
Questo affastellarsi incessante di innovazioni specifiche non si traduce solo in ritardi, ma anche in decisioni ingiuste. Manca una norma di portata generale come quella prevista nella legge 206 solo per l’erronea introduzione col rito collegiale o monocratico e mutuata dall’art. 4, comma 5 del d.lgs. 150/2011. Il principio della salvezza dalle decadenze in caso di errore sul rito ove si siano rispettati i termini del rito (erroneamente) prescelto, ma non quelle del rito ritenuto corretto dal giudice (con concessione di termine per gli atti integrativi)[17], oggi non ha, a mio avviso erroneamente, portata generale. Dovrebbe averla, invece, esplicitamente, perché lo richiede il diritto al giusto processo e il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, relegando gli errori sul rito, innocui per il convenuto, alla regolamentazione delle spese.
Ancora, lo sbarramento, anche per il giudice, per mutare il rito dovrebbe essere fissato alla prima udienza, evitando marce indietro.
Quasi unanimi i commenti negativi alla scelta di novellare:<<difficile sfuggire all’impressione che neppure le proposte in esame si sottraggano al metodo, reiteratamente sperimentato nel corso di interi decenni, degli interventi di mera “novellazione” e di semplice “restyling”che hanno finito per produrre un accumulo di norme e di riti il cui effetto, anziché aiutare a risolvere i problemi, è stato quello di complicarli rendendo sempre più difficoltosa (anche a causa, a volte, della cattiva formulazione del testo) l’attività degli interpreti e degli operatori».[18]
Concludo sul punto condividendo la citazione che Giorgio Costantino, a proposito di questa ultima riforma, dedica a Ludovico Mortara il quale nel 1913 avvertiva che «non vi è lite in cui la controversia di diritto sostanziale possa essere istruita, trattata e decisa senza che uno sciame di moleste questioni di diritto formale venga a deviare e quindi a ritardare il cammino della giustizia. Chiunque vive la vita giudiziaria sa come la percentuale delle sentenze pronunciate su dispute relative alla procedura sia in Italia indicibilmente superiore a quella delle sentenze che risolvono in modo schietto e semplice una pura contesa sul diritto».[19]
2.1. Il giudizio di legittimità.
Il rinvio pregiudiziale[20], importazione della francese saisin pour avis, presenta alcune analogie, oltre che un’identità di fini con l’accertamento pregiudiziale sul contratto collettivo nazionale (art. 420-bis c.p.c.), con la questione incidentale di costituzionalità e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. È destinato ad avere una portata applicativa molto ridotta, essendo ammissibile solo in caso di assoluta novità della questione, gravi difficoltà interpretative, potenzialità diffusiva della questione in quanto suscettibile di porsi in numerose controversie.
Suscita notevole interesse per le implicazioni sottese e, in particolare, l’esistenza di vincoli per il giudice di appello della causa, la libertà interpretativa per gli altri giudizi, l’accentuazione del ruolo nomofilattico della Corte Suprema, in modo non dissimile dal ricorso nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c. L’istituto risulta destinato a questioni ritenute “particolarmente rilevanti” e pone il problema dello ius superveniens (che supera certamente la decisione pregiudiziale presa) e,soprattutto, al mutamento di giurisprudenza di legittimità dopo la sentenza di rinvio pregiudiziale e prima della decisione di merito.
L’istituto è ricondotto, credo non del tutto fondatamente, alla nomofilachia discorsiva ed a un più fecondo dialogo tra merito e legittimità[21], avendo, piuttosto, connotazioni verticistiche, sia pur mosse dallo scopo, del tutto condivisibile, di evitare contenziosi seriali nell’attesa del giudice di ultima istanza. Sotto tale aspetto il rinvio pregiudiziale si dimostra utile, ma rischia in caso ricorso all’istituto troppo largheggiante da parte dei giudici di procrastinare il giudizio per la sospensione necessaria che ne deriva: la questione idonea al rinvio può essere solo incidentale, riguardare una sola delle domande cumulative o una domanda accessoria. Sarebbe meglio prevedere la sospensione facoltativa. Inoltre, dovrebbe anche essere prevista la comunicazione sul sito web della Corte di cassazione delle istanze pendenti in modo da rendere edotti i giudizi che la questione già pende.
Può essere utilizzata anche dai giudici tributari, non da quelli della Corte dei conti e dal giudice amministrativo, perché non ammesso il ricorso per cassazione se non per motivi di giurisdizione.
Utile l’eliminazione della sesta sezione “filtro” e l’abrogazione del relativo rito camerale allo scopo di evitare il doppio spoglio, nella sezione filtro e lo spoglio sezionale, con riti diversi. Già ora in sesta ci sono i consiglieri delle sezioni. Secondo i commentatori più esperti delle prassi interne la creazione della Struttura e della Sesta fu un’innovazione di rilievo sul piano organizzativo. Oggi, invece, è diventata un inutile appesantimento in quanto non si è creata una prassi comune sulle inammissibilità; i consiglieri che operano in sesta sono gli stessi tabellarmente assegnati alle singole sezioni; spesso in sesta sono decise cause di non spedita definizione.
Con il maxiemendamento scompare la proposta del relatore con fissazione dell’adunanza camerale comunicata di manifesta inammissibilità o infondatezza o manifesta fondatezza (art. 380 bis c.p.c.), ma è sostituita da una proposta del “giudice” (quindi senza vaglio del presidente o del collegio) di analogo tenore, comunicata alle parti che, ove non seguita da istanza di fissazione dell’udienza, comporta l’estinzione del giudizio per rinuncia implicita, senza condanna al pagamento del doppio contributo unificato.
3. L’Ufficio per il processo.
L’ufficio per il processo dovrebbe costituire il vero propulsore dello smaltimento dell’arretrato e della riduzione dei tempi del processo.
Nell’idea del legislatore le funzioni possono essere opportunamente modulate a seconda delle caratteristiche e dei bisogni effettivi dell’ufficio. Le organizzazioni finora predisposte tendono opportunamente ad una assegnazione degli addetti a singole sezioni o all’intero ufficio, piuttosto che al singolo giudice.
La vera sfida con annessa incognita è l’idea del management del carico della sezione come questione di staff e non del singolo giudice.
Molto dipende anche da cosa debbano fare i magistrati onorari aggregati negli uffici giudiziari gravati da maggiore arretrato, come previsto nelle schede allegate al PNRR[22], con una accorta modulazione tra attività di assistenza del giudice ed assegnazioni di funzioni giurisdizionali vere e proprie, nonché dal ruolo che verrà ritagliato per la magistratura onoraria.
Le riforme del processo civile e penale dovranno poi essere coordinate con la riforma della magistratura onoraria, assegnata ad apposita Commissione, sciogliendo i nodi relativi alla loro condizione lavoristica e assicurando la possibilità di una vera e propria verifica attitudinale in ingresso e controlli di professionalità proporzionati ai sempre più delicati compiti loro affidati (il riferimento, in particolare, è all’attribuzione di compiti decisionali e di gestione del ruolo, oltre che all’incremento di competenze previsto per l’Ufficio del giudice di pace).
Un ripensamento anche del ruolo dei giudici ausiliari di corte d’appello è necessario in vista della loro necessaria scadenza nel 2025 in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 41 del 2021.
È prevista l’istituzione dell’ufficio per il processo anche presso la Corte di Cassazione e la Procura Generale della Cassazione (definito per quest’ultima “Ufficio spoglio”) modellando accuratamente i compiti sulle specificità funzionali e organizzative della Corte Suprema che rendono critica l’assegnazione di mansioni di sintesi dei motivi o di elaborazione di bozze di sentenze.
4. La modifica della geografia giudiziaria.
Ferme le considerazioni positive sopra espresse, non può farsi a meno di evidenziare l’insufficienza di quanto sopra descritto per assicurare le misure necessarie all’abbattimento dell’arretrato.
Un gruppo di studiosi del processo civile ha rimarcato la carenza di risorse globali del nostro ordinamento giudiziario rispetto a quelle di altri Stati europei, sulla base di dati riportati anche nell’Analisi di impatto della regolamentazione (AIR) allegata al D.d.l., pag. 47 in nota e tratti dal rapporto CEPEJ 2016)[23].
Come osservato dalla Commissione Giustizia nel parere reso sul PNRR, “l’amministrazione della giustizia civile in Italia evidenzia una geografia giudiziaria a macchia di leopardo con esiti sconcertanti in merito alla durata dei procedimenti tra i diversi uffici e ciò a parità di risorse. Tale constatazione evidentemente non dipende dalle norme processuali, che sono uguali in tutta Italia, ma da fattori operativi e organizzativi (…).
Il Consiglio Superiore nel corso del 2020 ha elaborato i dati statistici acquisiti in seguito alla redazione dei programmi di gestione ex art. 37 predisposti dagli Uffici giudiziari. Se si analizza la durata media dei procedimenti di contenzioso ordinario, esecuzione immobiliare e procedure concorsuali, sul territorio nazionale emerge come la durata media non sia tanto collegata alle dimensioni dell’ufficio giudiziario quanto alla sua collocazione geografica, evidenziandosi, con alcune eccezioni, un grosso divario Nord-Sud in termini di performance.
Può apparire sgradito il riferimento territoriale. Per evitare fraintendimenti dovuti al riferimento geografico, è opportuno evidenziare che, prescindendo dall’esistenza di specifiche criticità di uffici anche del Nord, non si tratta di una questione meridionale calata nel contesto giudiziario e non se ne possono, ovviamente, trarre conclusioni sulle diverse capacità organizzative. Questo gap è di natura multifattoriale e, in buona parte, dipende anche dal tessuto socio-economico con il quale i singoli uffici giudiziari si interfacciano che alimenta una domanda di giustizia molto elevata.
Risultano indispensabili, allora, misure adeguate, quali incentivi economici e di carriera peri magistrati, che riescano a ridurre il turn over del personale di magistratura nelle sedi critiche, in gran parte coperte in modo pressoché esclusivo con magistrati di prima nomina. Solo con un mutamento delle strategie di assegnazione delle risorse può raggiungersi l’indispensabile scopo di assicurare maggiore stabilità alla presenza dei magistrati che le funzioni giudiziarie orizzonte temporale più ampio e maturando quella esperienza indispensabile ad un servizio più efficiente.
Un’ulteriore necessità di riorganizzazione, come meglio illustrata in seguito, riguarda, le Corti di appello. Gli uffici di secondo grado rientrano tra quelli in maggiore sofferenza quanto alla durata media dei procedimenti civili. La riforma del processo penale e l’introduzione dell’istituto dell’improcedibilità decorso il biennio rendono urgente un incremento degli organici delle Corti di appello e la previsione di misure ad hoc per il settore penale che non si traducono in un solo travaso di risorse dal civile, che porterebbe inevitabilmente al mancato raggiungimento degli obiettivi del PNRR.
5. La digitalizzazione del processo civile.
La digitalizzazione, soprattutto prospetticamente, è la misura più importante della riforma in quanto incide sul processo in più direzioni.
1. Il processo telematico è esteso a tutti gli uffici giudiziari italiani: giudice di pace, molto difficile da attuare per il numero degli uffici e lo scarso grado di informatizzazione, nonché Cassazione e Procura generale, che richiederanno 4-5 anni di transizione.
2. Va completata la digitalizzazione integrale della fase esecutiva del processo. La positiva esperienza delle vendite telematiche deve essere estesa a tutti i settori e fasi dell’esecuzione, dando piena effettività alle misure quali le ricerche telematiche dei beni e del credito del debitore, alle possibilità di pignoramento telematico, ecc. (art. 492 bis c.p.c.).
3. È prevista l’ obbligatorietà e omnicomprensività delle notifiche telematiche: chiunque ha una PEC iscritta in pubblici registri o ha eletto un domicilio digitale deve essere citato in giudizio con PEC.
4. Diviene obbligatorio il deposito telematico degli atti, anche quelli iniziali, come in deroga alle norme vigenti, è stato previsto dalla recente normativa emergenziale per ridurre gli accessi alle Cancellerie.
5. Si prefigura, almeno in prospettiva, il superamento del sistema attuale fondato sull’inoltro di PEC in favore di un possibile sistema basato su upload di documenti, che consentirebbe di superare i notevoli limiti tecnici del sistema quale, ad esempio, il SIGIT della giustizia tributaria.
6. È previsto un ampliamento delle forme di celebrazione del processo da remoto e in forma cartolare mediante scambio di note sull’esperienza del diritto pandemico. Occorre evitare, tuttavia, che il ricorso a tali modalità, certamente utili, non assurga a regola del processo sia per non distorcerne la dimensione simbolica sia perché nelle materie sensibili, come l’interdizione, l’inabilitazione, l’amministrazione di sostegno, la crisi familiare il distacco o l’assenza del giudice – prevista come forma eventuale del processo dalla legge 203- può nuocere alla comprensione della condizione di fragilità delle parti.
7. Quanto alle banche dati, la loro alimentazione massiva e la necessità di algoritmi di ricerca, progressivamente raffinati e selettivi, costituirà un indubbio fattore di impulso alla conoscenza della giurisprudenza, dell’esito dei giudizi, pur dovendosi implementare l’anonimizzazione.
8. Il principio di chiarezza e sinteticità e, soprattutto di redazione degli atti per “campi”, in prospettiva potrebbe essere esteso anche alle sentenze.
L’attuazione di tale principio richiede il coinvolgimento anche del Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio Nazionale Forense e CNF allo scopo, non solo di razionalizzare e snellire gli atti, di sistematizzare l’attività domande, repliche e decisioni su singoli aspetti del thema decidendum (e sotto questo aspetto ampia spinta propulsiva può derivare dall’assicurare effettività al principio di chiarezza e sinteticità degli atti, ma anche da quello della redazione per “campi”), ma anche di consentire, nell’ambito degli archivi digitali, l’elaborazione di metadati che consentano: a) di poter agevolmente assegnare, schedare, spogliare, ritrovare, riunire, i giudizi; b) di conoscere i precedenti e l’esito dei giudizi.
Nel medio termine, una volta che il processo telematico diviene l’unica modalità di celebrazione del processo civile, è inevitabile che le norme del processo “tradizionale” (orale e scritto) e quelle del processo telematico confluiscano in un unico quadro regolatorio nel quale gli istituti relativi alle notifiche, al depositi, agli atti introduttivi, memorie, atti giudiziari, udienze di trattazione e istruttorie (in presenza e a distanza), verbalizzazione, documentazione, atti degli ausiliari, rilascio di copie e impugnazioni siano modellati tenendo conto delle potenzialità e dei limiti della dimensione digitale.
Il primo passo sarà l’inclusione delle norme del processo digitale nel codice processuale. quindi, l’evoluzione verso forme tecnologiche sempre più avanzate inevitabilmente porterà a conformare parte delle regole processuali in ragione delle nuove opportunità che esse offrono di interazione tra le parti, sincrona e asincrona, in presenza e a distanza, oltre che di documentazione, ricerca e analisi dei dati processuali.
Limitata l’operatività del processo cartaceo ai soli casi remoti di malfunzionamento dei sistemi informatici, il processo digitale diverrà l’unica forma di processo, sia esso celebrato in presenza che a distanza. Non avrà più senso, pertanto, che le regole del primo “duplichino” quelle del processo tradizionale cartolare e vi si sovrappongano.
5.1. Processo e intelligenza artificiale: prolegomeni.
L’estensione anche alla Corte suprema del PCT e, in prospettiva, al Giudice di pace consente altresì, con l’evoluzione sistemistica, il tracing della lite, di forte ausilio anche per lo stesso giudice redattore della sentenza, agevolato nel verificare l’esito del proprio lavoro e potenzialmente destinatario di un feedback automatico della conferma o riforma della sentenza e delle relative ragioni.
La redazione degli atti e delle sentenze per campi, l’ampliamento contenutistico e della platea degli aventi accesso alle banche dati, risultano essenziali per sperimentare, nei prossimi anni, forme di giustizia predittiva quanto all’esito della lite sulla scorta dei precedenti e della giurisprudenza dei gradi superiori, utili anche nelle procedure di mediazione e di negoziazione assistita, nonché anche alla selezione, accorpamento e gestione dei casi da parte dell’Ufficio per il processo prima dell’istruttoria.
L’uso dell’intelligenza artificiale nelle forme del machine learning e del deep learning può, in prospettiva, garantendo una conoscenza in tempo reale dei precedenti, dei trend, dell’esito finale delle controversie (dalla fase di mediazione a quella di esecuzione), assicurare quella prevedibilità delle decisioni che costituisce il fattore chiave per la deflazione del contenzioso, oltre che del miglioramento della qualità della giurisdizione.
Forme di audizione da remoto possono essere previste, nei casi più delicati con la presenza di un pubblico ufficiale, per testimoni residenti in altre Regioni, per l’interrogatorio libero delle parti, per il conferimento di incarichi ecc., senza necessità di raccogliere prove delegate, di richiedere la presenza di ausiliari residenti in luoghi distanti, ecc.
Nel lungo termine, l’uso dell’intelligenza artificiale, prima come analisi intelligente dei precedenti, poi come giustizia predittiva e, quindi, come possibile ausilio decisionale (almeno per gli small claims), dovrà essere adeguatamente guidato.
I giuristi non dovranno, con una atteggiamento di rifiuto pregiudiziale, farsi scavalcare dai tecnici, questi ultimi forti della suggestione dell’efficienza, mantenendo fermi i seguenti pilastri del giusto processo del futuro:
a) il principio essenziale di “moral neutrality” della tecnologia adottata, rispetto ai fini e alle garanzie del processo;
b) il rispetto tassativo del principio del suo utilizzo under human control e di non discriminazione, già sanciti dalle fonti eurounitarie (il riferimento è d’obbligo alla Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi, adottata dalla CEPEJ il 3-4 dicembre 2018, ma anche, per alcuni versi all’art. 22 del GDPR);
c) la riservatezza dei dati delle persone e, quindi, della necessaria anonimizzazione delle sentenze, messa a rischio dall’accumulo di sentenza digitali nel PCT e dall’accesso sempre più allargato alle banche dati;
b) la preservazione della indispensabile dimensione simbolica e rituale del processo, destinata a svolgersi nell’udienza pubblica (quest’ultima già messa in crisi più banalmente, dalla comodità delle varie forme di udienza non partecipata o a trattazione scritta) essenziali alla conservazione della legittimazione democratica della giurisdizione. Un delicato equilibrio tra le diverse forme di celebrazione va attuato tenendo conto della natura dei diritti controversi (questioni meramente patrimoniali, incidenza del processo su diritti costituzionali, questioni familiari, ecc.) delle fasi processuali, delle risorse disponibili, lasciando, almeno nei casi più delicati, la possibilità per la parte di richiedere il processo, almeno per alcune fasi in presenza.
Si tratta di discorsi forse prematuri, ma che non debbono trovare i giuristi impreparati alle nuove sfide. Il processo, orale, scritto, in presenza, da remoto, sincronico o diacronico, così come il contratto è sempre conformato, non solo dalla sociologia, ma anche dalla tecnologia e, quindi, non può che necessariamente seguirne la sua evoluzione.
[1] Relazione tenuta per la SSM - Struttura territoriale della Corte d’appello di Napoli, 2022.
[2] V. G. Scarselli, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile, in Giustizia insieme, 24 maggio 2021, www.giustiziainsieme.it; G. Timbolini, Note «a caldo» sulla nuova legge delega di riforma della giustizia civile: le modifiche al giudizio di primo grado, www.judicium.it, 2021; Comunicato dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile del 28 giugno 2021; A. Briguglio, Avanti con la ennesima riforma del rito civile purché sia solo (tutt’altro che decisiva ma) modestamente utile e non dannosa, in www.giustiziacivile.com; cfr. anche B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, pubblicato il 18 maggio 2021 in www.giustiziainsieme.it. P. Biavati, La riforma del processo civile: motivazioni e limiti, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1, 2022, pag. 45 s.
[3] G. Gilardi, span class="markedcontent">no sguardo generale agli emendamenti governativi al ddl 1662/S/XVIII, www.questionegiustizia.it, 2021.
[4] Si veda su singoli aspetti della riforma il numero monografico di questione giustizia n. 3 del 2021 “La riforma della giustizia civile secondo la legge delega 26 novembre 2021, n. 206”, www.questionegiustizia.it.
[5] E. D’Alessandro, La riforma della giustizia civile secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII. Riflessioni sul metodo, in Giustizia insieme, 31 maggio 2021 www.giustiziainsieme.it; F. Gigliotti, Le linee di intervento del PNRR in tema di Giustizia. Un quadro di sintesi,sempre www.giustiziainsieme.it, 2022.
[6] V. A. Tedoldi, Misure urgenti e delega in materia di esecuzione forzata (legge 206 del 2021) – Parte I, in www.giustiziainsieme.it.
[7] M. Dogliotti, La riforma della giustizia familiare e minorile: dal tribunale per i minorenni al tribunale per le persone, i minorenni, le famiglie, in Famiglia e Diritto, 2022, 4, 333; A. Arceri, Il minore nel nuovo processo familiare: le regole sull'ascolto e la rappresentanza, in Famiglia e Diritto, 2022, 4, 380; A. Carratta, Un nuovo processo di cognizione per la giustizia familiare e minorile, in Famiglia e Diritto, 2022, 4, 349.
[8] E. Dalmotto, L'impatto della prossima riforma dell'arbitrato comune e societario sulla sospensione delle delibere assembleari, in Le società, 2022, 5, p. 639 ss.
[9] Nel corso dell'audizione in Commissione Giustizia, alla Camera, dello scorso 15 febbraio 2022, la Ministra della Giustizia ha affermato che l'andamento dei flussi dei dati di fine 2021, per il settore civile, rispetto al 2019, tutti gli indicatori PNRR sono in calo:- disposition time totale, -11,1>#/strong###; - arretrato in tribunale, -4>#/strong###; - arretrato in Corte di appello, -11,6>#/strong###. La complessiva analisi dei flussi del civile segnala poi, in tutte le fasi del giudizio, una riduzione di pendenze rispetto a 2019:- in tribunale, - 8,6>#/strong###; - in Corte d'appello -13,5%; - in Corte di cassazione, -5%.
[10] In tali termini Commissione Luiso, per la quale «alla luce della giurisprudenza sovranazionale e costituzionale interna», la violazione del dovere di sinteticità e chiarezza degli atti di parte «non possa comportare sanzioni di invalidità o di inammissibilità», potendo invece «essere presa in considerazione dal giudice solo ai fini della liquidazione delle spese giudiziali». (cfr. Relazione finale)
[11] L.R. Luongo, Il «principio» di sinteticità e chiarezza degli atti di parte e il diritto di accesso al giudice (anche alla luce dell’art. 1, co. 17 lett. d ed e, d.d.l. 1662) ove anche per i richiami, tra l’altro a Cass., sez. trib., 15.07.2020, n. 15007; Id., sez. II, 21.05.2020, n. 9382; Id., sez. V, 5.03.2020, n. 6234; Id., sez. II, 25.02.2020, n. 4971; Id., sez. trib., 12.02.2020, n. 3394; Id., sez. trib., 31.01.2019, n. 2913; Id., sez. trib., 22.11.2018, n. 30240; Id., sez. II, 05.06.2018, n. 14362,
[12] G. Luccioli, Le sfide attuali del diritto di famiglia e dei minori: problemi emergenti, riforme attuate da riformare, riforme ancora da attuare, www.giudicedonna.it, n. 1/2021; G. Sergio, Riflessioni sulle proposte di procedimenti in materia di famiglia e di riforma ordinamentale della Commissione Luiso, 22 luglio 2021, www.questionegiustizia.it; per una critica all’operare del Tribunale per i minorenni A. Proto Pisani,Brevi osservazioni di carattere tecnico e culturale su “Proposte normative e note illustrative” rese pubbliche dal Ministero della Giustizia, in Giustizia insieme, 8 giugno 2021, www.giustiziainsieme.it.
[13] Vedi ad esempio la “Risoluzione sulla organizzazione degli uffici requirenti presso i Tribunali per i Minorenni (art. 23 della circolare sull’organizzazione delle Procure del 16 novembre 2017), delibera del CSM 18 giugno 20184 quanto ai “Criteri organizzativi generali”. Per la quale “La peculiarità del campo e delle modalità di azione delle Procure minorili, sia in ambito penale, sia in ambito civile, determina la necessità di dedicare ampi sforzi organizzativi per costruire intese con gli operatori del settore presenti sul territorio e con gli altri uffici giudiziari.” Esse “possono svolgere un importante ruolo di raccordo fra enti ed istituzioni che sono o, comunque, devono essere coinvolte nel sistema di cura dei minorenni e delle loro famiglie (…) È auspicabile, pertanto, che la dimensione progettuale del documento organizzativo della Procura per i Minorenni non sia circoscritta alla sola organizzazione interna dell’ufficio, ma contenga, direttamente o con autonomi documenti allegati, un programma di attuazione delle iniziative già adottate e l’indicazione di quelle di prossima adozione nel periodo di vigenza del documento organizzativo. Altrettanto importante è la valorizzazione della complementarietà delle competenze proprie delle Procure minorili in campo penale, civile e amministrativo: il prospetto organizzativo potrà, quindi, contenere indicazioni generali circa l’attivazione del controllo, in campo civile, sull’esercizio dei doveri educativi da parte dei genitori di minorenni che si rendano autori di gravi e/o reiterati reati, i per valutare le forme di intervento più idonee per la tutela dei minori appartenenti al nucleo familiare».
[14] Il comma 4, lett. delega di «s) prevedere, nell'ambito della procedura di negoziazione assistita, quando la convenzione di cui all'articolo 2, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, la prevede espressamente, la possibilità di svolgere, nel rispetto del principio del contraddittorio e con la necessaria partecipazione di tutti gli avvocati che assistono le parti coinvolte, attività istruttoria, denominata «attività di istruzione stragiudiziale», consistente nell'acquisizione di dichiarazioni da parte di terzi su fatti rilevanti in relazione all'oggetto della controversia e nella richiesta alla controparte di dichiarare per iscritto, ai fini di cui all'articolo 2735 del codice civile, la verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli alla parte richiedente; t) prevedere, nell'ambito della disciplina dell'attività di istruzione stragiudiziale, in particolare:
1) garanzie per le parti e i terzi, anche per ciò che concerne le modalità di verbalizzazione delle dichiarazioni, compresa la possibilità per i terzi di non rendere le dichiarazioni, prevedendo in tal caso misure volte ad anticipare l'intervento del giudice al fine della loro acquisizione;
2) sanzioni penali per chi rende dichiarazioni false e conseguenze processuali per la parte che si sottrae all'interrogatorio, in particolar modo consentendo al giudice di tener conto della condotta ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli articoli 96 e 642, secondo comma, del codice di procedura civile;
3) l'utilizzabilità delle prove raccolte nell'ambito dell'attività di istruzione stragiudiziale nel successivo giudizio avente ad oggetto l'accertamento degli stessi fatti e iniziato, riassunto o proseguito dopo l'insuccesso della procedura di negoziazione assistita, fatta salva la possibilità per il giudice di disporne la rinnovazione, apportando le necessarie modifiche al codice di procedura civile;
4) che il compimento di abusi nell'attività di acquisizione delle dichiarazioni costituisca per l'avvocato grave illecito disciplinare, indipendentemente dalla responsabilità prevista da altre norme».
[15] Il Parere del CSM del 15 settembre 2021 ha evidenziato che l'idea di una fase ante iudicium da destinare all'assunzione della prova testimoniale nonché di eventuali (per vero alquanto improbabili) dichiarazioni confessorie delle parti, appare in astratto in grado di realizzare un alleggerimento della fase apud iudicem e dunque una riduzione dei tempi processuali. «I rischi correlati all'assenza del giudice nella delicata fase di assunzione e verbalizzazione della testimonianza appaiono solo in parte mitigati dalla pur opportuna previsione del potere del giudice del successivo processo di disporre la rinnovazione dell’assunzione. L’intento deflattivo della norma potrebbe condurre, peraltro, ad un aggravio per il lavoro del giudice. Sarà, infatti, sicuramente più oneroso e dispendioso in termini di tempo ed energie il controllo ex post sulla ammissibilità e rilevanza di lunghi verbali di prova, piuttosto che una valutazione ex ante.»
[16] Comma 5, lett. I), n. 3) «ferma la possibilità che l'attore vi ricorra di sua iniziativa nelle controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica, debba essere adottato in ogni procedimento, anche nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, quando i fatti di causa siano tutti non controversi, quando l'istruzione della causa si basi su prova documentale o di pronta soluzione o richieda un'attività istruttoria costituenda non complessa, stabilendo che, in difetto, la causa sia trattata con il rito ordinario di cognizione e che nello stesso modo si proceda ove sia avanzata domanda riconvenzionale priva delle condizioni di applicabilità del procedimento semplificato».
[17] Comma 5, lett. s), n. 3) «in caso di mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producano secondo le norme del rito seguite prima del mutamento, restino ferme le decadenze e le preclusioni già maturate secondo le norme seguite prima del mutamento e il giudice fissi alle parti un termine perentorio per l'eventuale integrazione degli atti introduttivi».
[18] G. Gilardi, span class="markedcontent">no sguardo generale agli emendamenti governativi al ddl 1662/S/XVIII, cit.
[19]G. Costantino, Perché ancora riforme della giustizia?, in www.questionegiustizia.it, richiama L. Mortara, Discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 1913-1914, Regia Corte di cassazione, assemblea generale del 6 novembre 1913, p. 10, in www.giustizia.it/resources/cms/documents/1913_14_Mortara_Procura_generale.pdf).
[20] V. E. Scoditti, Brevi note sul nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione, in La riforma della giustizia civile secondo la legge delega 26 novembre 2021, n. 206”, cit. C. V. Giabardo, In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, www.giustiziainsieme.it, che richiama R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, www.giustiziainsieme.it, 2021, e i relativi riferimenti a G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Contratto e impresa, 2/2017.
[21] B. Capponi – A. Panzarola, Questioni e dubbi sulle novità del giudizio di legittimità secondo gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, cit.
[22] Il Piano prevede, infatti, anche l'innesto straordinario di magistrati onorari aggregati nei tribunali più gravati da arretrato nel settore civile, specificando che dovrà trattarsi di professionalità già strutturate e, quindi, in grado di operare da subito a pieno regime, con la finalità specifica di collaborare con il magistrato nell'adozione della decisione e nella redazione della sentenza. Tali magistrati onorari aggregati, dunque, concorreranno all'attività di definizione dei procedimenti mediante la redazione di progetti completi di sentenza al fine di consentire la riduzione dei tempi di durata dei procedimenti civili e la definizione anticipata dei procedimenti per i quali sia stata fissata udienza per la precisazione delle conclusioni.
[23] https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/717-osservazioni-sulle-proposte-di-riforma-del-processocivile?tmpl=component&print=1&layout=default pp. 19/33.
Separazione delle funzioni dei magistrati vs. celerità dei processi e tutela dei diritti
Intervista di Marta Agostini al Prof. David Brunelli
1. Professore, Lei ha potuto studiare e “praticare” il processo penale in qualità di accademico, di avvocato e di giudice d’Appello nella Repubblica di San Marino ed in tali vesti è stato testimone dell’evolversi, negli anni, della normativa processuale, da un lato e della realtà giudiziaria, dall’altro. Alla luce di questa differente esperienza scientifica e professionale quali sono secondo lei, oggi, i problemi della giustizia penale e quali gli strumenti necessari per superarli?
I problemi sono enormi e riguardano una moltitudine di aspetti a vari livelli, di sistema e di dettaglio, coinvolgendo le strutture, i soggetti, e soprattutto i tempi di lavorazione. Gli strumenti per provare a superarli o a ridurli possono incidere come rimedi nel breve periodo o possono essere pensati nel lungo periodo, ma, quale che sia l’obiettivo, deve trattarsi di una terapia d’urto e non di un pannicello caldo. Ci vorrebbe un libro - e molti ne sono stati scritti - per illustrare problemi e possibili rimedi e ogni elenco qui sarebbe incompleto.
Come avvocato il primo problema che mi viene in mente è quello della scarsa incidenza della difesa tecnica nel processo. Non me la prendo però con norme scarsamente garantiste, ma più profondamente denuncio un atteggiamento “culturale” nel rapporto tra magistrato e avvocato. Tanto è vero che si tratta di un problema accentuatosi negli ultimi trenta anni sebbene il nuovo modello di codice contenga norme potenzialmente più garantiste e sebbene il grado di “sensibilità” verso il diritto di difesa in quanto tale si sia oggettivamente elevato. Parlo piuttosto del modo con cui il magistrato si approccia all’avvocato e quindi del “contributo” che quest’ultimo riesce a dare al prodotto giudiziario.
L’avvocato è oggi e sempre più percepito dal magistrato, nella maggior parte dei casi, come un “disturbatore” o un “complicatore di affari semplici” ed egli (l’avvocato) spesso ha contezza di questo suo ruolo, che cerca affannosamente di ottimizzare, magari sabotando il processo.
Poiché sto parlando di un problema di “cultura” e di atteggiamento spirituale, che ha ormai solide radici e anche recenti ragioni di accentuazione, per superarlo occorrerebbero misure profonde e di sistema, come quelle di una completa rivoluzione dei sistemi di accesso alla magistratura e all’avvocatura. Riduco il tutto ad un flash: non ci possiamo più permettere che tutti gli studenti migliori dell’università facciano i magistrati e la moltitudine residuale sia destinata a sbarcare il lunario con la toga di avvocato. Il magistrato non deve più essere e (inevitabilmente) sentirsi il migliore; l’avvocato non deve più essere e (inevitabilmente) sentirsi un paria.
Forse questo è il principale problema che colgo mettendo insieme i miei tre mestieri. Ho creduto per un po’ che l’idea delle scuole di specializzazione per le professioni legali presso le università fosse un possibile inizio di percorso verso la rivoluzione che immaginavo, ma il loro fallimento ha messo la pietra tombale su ogni speranza. Oggi magistratura e avvocatura sono arroccate nel loro splendido isolamento e la ricaduta sul processo (penale) di un simile “medio evo” culturale pregiudica l’efficacia di qualsivoglia riforma delle (sole) regole.
Se poi vogliamo parlare del problema dei tempi e della qualità del prodotto finito, mi limito a un cenno impopolarissimo quanto a possibili rimedi: aboliamo i Tribunali di piccole e anche quelli di medie dimensioni, formando poche cittadelle giudiziarie, facilmente raggiungibili, e popoliamole di (molti) magistrati che fra loro non si conoscono e che gli avvocati neppure conoscono (dato il numero elevato). Poi potenziamo anche nel penale il bellissimo strumento telematico, riducendo al massimo gli spostamenti fisici delle persone. Mi rendo conto che si tratta di una chimera dato il numero e la qualità dei controinteressati, e mi scuso per la sintesi, ma io credo che qualcuno dovrà prima o poi affrontare questi temi, pur rischiando di perdere consenso elettorale.
2. È stato da poco approvato da entrambi i rami del Parlamento il disegno di legge c.d. Cartabia sulla riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’ordinamento giudiziario che prevede, tra le varie proposte di modifica, quella di ridurre ad una la possibilità per un magistrato del Pubblico Ministero di cambiare le funzioni e diventare giudice e viceversa, oggi ammessa per un massimo di quattro volte. Nella medesima direzione andava anche uno dei quesiti previsti dal referendum abrogativo del passato 12 giugno, per il quale non è stato raggiunto il quorum che, in modo più stringente, prevedeva la totale eliminazione di questa possibilità. Quali sono le ragioni alla base di questa proposta ed in che modo questa può far fronte ai problemi della giustizia penale sopra descritti?
La ragioni sono strettamente connesse al modello processuale accusatorio adottato nel 1989 e alla conseguente accentuazione dell’esigenza che anche sotto il profilo formale sia assicurata la parità delle parti e la terzietà del giudice. Ma, al di là delle “apparenze”, a me non sembra che la c.d. separazione o il semplice “sbarramento” delle carriere possa sortire effetti benefici rilevanti sul problema della vera “separazione” culturale che affligge la giustizia italiana, a cui ho fatto già cenno. Che un giudice non possa aspirare a fare il pubblico ministero non mi sembra una idea portentosa anche per chi lamenta che il pubblico ministero sia oggi troppo “appiattito” sulla brama inquisitoria della polizia giudiziaria e per nulla aperto all’ascolto della ragioni della difesa; che - al contrario - un giudice porti con sé nello scranno la mentalità da pubblico ministero, dopo aver svolto eventualmente per tanti anni tali funzioni, è anche possibile e qualche volta mi sembra di riscontrarlo nella pratica, ma forse sono più numerosi i casi di giudici di lungo corso, con nessuna esperienza nell’altro campo, che a mio avviso avrebbero fatto meglio a fare i pubblici ministeri.
Insomma, di là dal profilo “estetico”, non la vedrei come una riforma da prima fila, perché se invece pensiamo che in tal modo la “colleganza” tra giudici e pm cesserebbe e con ciò i due personaggi finalmente la finirebbero di prendere il caffè insieme, di darsi del “tu”, di entrare negli uffici dell’altro senza appuntamento o magari senza neppure bussare alla porta, allora vuol dire che continuiamo a cadere nell’illusione che basti una norma per rovesciare l’abito mentale, la sensibilità, l’attitudine delle persone.
Al momento si tratta di una misura in cui la finalità vanamente “punitiva” della magistratura prevale nettamente sulle conseguenze “virtuose” per il processo penale.
3. Durante la vigenza del vecchio codice di procedura penale, che prevedeva le figure del pretore e del giudice istruttore quali organi funzionalmente inquirenti e giudicanti, il Paese ha affrontato ed efficacemente contrastato diversi fenomeni criminali: pensiamo all’epoca dei c.d. pretori d’assalto, del terrorismo e delle stragi di mafia. Alla luce di quella esperienza, pur nella consapevolezza che un siffatto sistema processuale non sarebbe oggi riproponibile per diversi e numerosi motivi, come ritiene che incida l’“intercambiabilità” delle funzioni per un magistrato sugli equilibri del processo penale, sul suo buon funzionamento e sulle garanzie dell’imputato?
Rispondere sinceramente a questa domanda può costarmi caro, perché in materia ho idee del tutto “politicamente scorrette”. Rischio la figuraccia e dico due cose rapidissime. Nel 1989 abbiamo “osato” introdurre un modello processuale che non ci potevamo permettere, per carenza di risorse e carenza di preparazione mentale e culturale. Nella sua versione “pura” è stato infatti subito modificato, integrato, adattato, ma in una situazione che già all’epoca veniva definita come da malato terminale della giustizia penale, questo salto nel vuoto ha comportato una mostruosa dilatazione dei tempi di svolgimento del processo con nessun ampliamento effettivo delle garanzie difensive (comprese quelle della persona offesa). Chi doveva essere assolto prima era assolto anche dopo; chi doveva essere condannato prima lo era anche dopo, ma in tempi insopportabilmente più lunghi e con forme procedurali paradossali.
Basti pensare alla barzelletta dell’oralità nella formazione della prova al dibattimento, dove nel 99 per cento dei casi le fonti di prova dell’istruttoria si trasformano in prove, col sistema delle letture o delle pseudocontestazioni al testimone, e dove la prova decisiva che conta nel giudizio di merito è quella impressa nel verbale scritto che il giudice d’appello consulta sommariamente a distanza di anni dalla sua formazione, quando riesce a resistere alla stucchevole lungaggine di controesami solitamente intesi dagli avvocati come occasioni per mettersi in mostra.
Oppure alle incredibili testimonianze della polizia giudiziaria che debbono supplire alla illusoria non ostensibilità al giudice della informativa di reato, o di testi assunti su materia tecniche, come ad esempio per processi in materia di criminalità economica. L’ostracismo di bandiera alla forma scritta lascia il campo ad una pseudo oralità di facciata, che ditata a dismisura i tempi e produce risultati spesso inintelligibili (per tutte le parti). Chissà quando ci renderemo conto che l’oralità (e la auspicabile immediatezza) servono per i processi di violenza sessuale o di omicidio, ma non per quelli di bancarotta o aggiotaggio?
Il codice di procedura penale - mi perdoneranno i colleghi processualisti - è oggi diventato uno strumento che infittisce sempre più le regole, che si avvita sui dettagli delle eccezioni e delle eccezioni alle eccezioni; un mostro che genera ingestibile cavillosità fine a se stessa, dove il tempo processuale impiegato è inversamente proporzionale alla qualità del prodotto finito.
Eppure ancora regna sovrana l’illusione di poter correggere con norme norme incorreggibili, come quelle che hanno creato, modificato, rovesciato, il luogo simbolo del fallimento del codice, vale a dire l’udienza preliminare. La recente metamorfosi del criterio decisorio affidato al giudice, che d’ora in poi dovrebbe riservare al dibattimento solo quei casi in cui è ragionevolmente certa la condanna dell’imputato, è un esempio insuperabile del male che ci affligge. Come si fa a “sperare” che l’udienza preliminare costituisca finalmente un vero “filtro” quando il giudice - come accaduto finora - non dovrà dar conto della scelta di procedere oltre e potrà continuare a riempire semplicemente un modulo indicante la data di inizio del processo? La metamorfosi che non cambierà nulla comporterà semmai un ulteriore allungamento dei tempi, poiché indurrà le parti ad “approfondire” i discorsi sulle fonti prova e sulla loro pregnanza, non solo con discussioni più lunghe, ma con attività ulteriori da spendere in quel frangente (ad es.: interrogatorio imputato, produzione indagini difensive, richieste probatorie).
Beh, insomma… ho risposto alla domanda. La questione dell’intercambiabilità delle funzioni, dato il drammatico contesto in cui vive oggi il processo, non è quella alla quale penso immediatamente quando entro in Tribunale.
4. Se dovessimo fare un calcolo costi-benefici rispetto alla separazione delle funzioni quale possibile rimedio alle inefficienze del processo penale ed alla lamentata disparità delle parti dinnanzi al giudice, da che parte penderebbe la bilancia? Quali sono i vantaggi e quali, invece, i rischi in cui incorrerebbe il sistema ove il Pubblico Ministero divenisse di fatto un organo esterno alla giurisdizione?
Anche qui ho già sostanzialmente risposto. Io non vedo i rischi per la deformazione del pubblico ministero che i magistrati solitamente descrivono. Ripeto che non si tratta di far uscire il pm dalla sfera della giurisdizione, il che vuol dire dalla “cultura” della giurisdizione, perché nessune esclude che essa possa essere coltivata anche “separatamente” dal giudice; si tratta piuttosto di aprire la porta della giurisdizione anche all’avvocato, nel senso di consideralo e farlo funzionare in pieno come soggetto accreditato a contribuire alla formazione del prodotto giurisdizionale. Poco importa che i tre soggetti provengano da strutture organizzative uguali o diverse, quello che conta è la condivisione dei medesimi principi e della medesima “lingua” attraverso la quale esprimersi.
5. I critici della riforma sostengono che la separazione delle funzioni sia il primo passo verso la separazione delle carriere che, a sua volta, provocherebbe la sostanziale perdita di autonomia ed indipendenza dei magistrati del Pubblico Ministero i quali, uscendo dall’ordine giudiziario, finirebbero per rispondere al potere esecutivo. In questo modo si arriverebbe ad un radicale stravolgimento dell’assetto costituzionale, sia in relazione al principio di separazione dei poteri che, a cascata, di tutti i suoi corollari, tra i quali, appunto, il principio di autonomia ed indipendenza della magistratura (anche) requirente e quello della obbligatorietà dell’azione penale. In che termini, dal punto di vista dell’avvocato penalista e del giudice di appello questo possibile scenario può incidere sui diritti degli imputati e delle persone offese, in particolare e sulla giustizia penale, in generale?
Come ho detto, non credo che questo pericolo sia insito in sé in una qualunque riforma che prevede il progressivo distacco tra le due “carriere”; tutto dipende da come la riforma venga fatta. Quanto ai principi costituzionali di autonomia e indipendenza anche della magistratura requirente e al principio della obbligatorietà dell’azione penale mi sia consentito un certo disincanto.
Da un lato, la sempre più diffusa “pubblicità” dei processi e prima ancora delle indagini determina una inevitabile grande popolarità dei magistrati del pubblico ministero, spesso immaginati come odierni “eroi” schierati contro il male e contro i cattivi. Tale dato - molto studiato e decritto, anche in libri di giuristi - può determinare nei più “dotati” una “inclinazione” alla intrapresa della carriera politica, con viaggi di andata e finora persino di ritorno, che rinnega l’olimpica impermeabilità del pm rispetto al coacervo degli interessi sottostanti e di fondo che spesso collegano il processo penale alla politica.
D’altro lato - e anche questo è argomento studiatissimo - l’obbligatorietà dell’azione penale è un mito ampiamente sfatato ai nostri giorni, con gli uffici del pm travolti da reali o - qualche volta solo - sbandierate montagne di fascicoli da istruire. E in proposito la dicono lunga le ormai numerose circolari o linee guida che prima in Procura e poi in Tribunale governano la diversa velocità assicurata alle varie tipologie dei processi (obbligatorietà dell’azione penale dovrebbe significare anche garanzia di eguale velocità a tutti i processi).
Per l’alto mare aperto…: la Magistratura tra sogni spezzati e nuove speranze
di Gaetano De Amicis
Sommario: 1. Tra utopia e realtà: l’impossibile ritorno al criterio dell’anzianità. – 2. Sul fondamento della legittimazione costituzionale della magistratura. – 3. Quale giudice? – 4. Riconfigurare il principio della soggezione del giudice alla legge. – 5. Un rapporto nuovo con il potere politico. – 6. A mo’ di conclusione: qualche proposta operativa, fra inutili resistenze e speranze di cambiamento.
1. Tra utopia e realtà: l’impossibile ritorno al criterio dell’anzianità.
Un recente saggio di Tomaso Epidendio (apparso su questa rivista il 24 maggio 2022) sulla grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura tratteggiato nel IV titolo della parte II della nostra Carta costituzionale ha sollecitato un confronto dialettico intenso, che rende opportuno un ulteriore approfondimento per il rilievo delle riflessioni, dense e stimolanti, che vi vengono argomentate.
Sulla sostanza di tali riflessioni per lo più si conviene, specie in relazione all’ampiezza della diagnosi e alla ricostruzione dei numerosi fattori di crisi del ruolo e dell’attività del giudice nell’attuale contesto istituzionale.
Affiora, di contro, qualche perplessità sulla prospettiva di un possibile ritorno al criterio dell’anzianità, così da restituirle centralità ed eliminarne, al contempo, la residualità ai fini delle valutazioni richieste per il conferimento degli incarichi direttivi.
Non si può negare che il tramonto del criterio dell’anzianità abbia condotto, talora, a risultati paradossali, facendo emergere posizioni dirigenziali assunte, senza particolari meriti, da magistrati assai più giovani rispetto ad altri colleghi del medesimo ufficio giudiziario, ma è parimenti problematico, se ci si colloca in una prospettiva diacronica, individuarvi la causa scatenante del “carrierismo” attualmente dilagante all’interno della Magistratura: un male, questo, in realtà endemico[1], i cui guasti per l’indipendenza dei magistrati erano già ampiamente riconosciuti prima delle riforme a cavallo degli anni sessanta e settanta dello scorso secolo[2].
Proprio per rimuovere la trionfante “gerontocrazia” di una Magistratura stanca e inerte, incapace di gestire, nell’attesa dell’imminente collocamento a riposo, le complesse problematiche di sedi e uffici che avrebbero meritato ben altra capacità di visione e spinta propulsiva, si è rovesciato il sistema, valorizzando, specie a seguito delle travagliate riforme legislative maturate nel torno di tempo ricompreso fra gli anni 2005-2007[3], l’acquisizione di competenze organizzative e nuovi moduli regolativi nella gestione degli uffici giudiziari.
Un metodo nuovo, frutto di una più moderna impostazione culturale, che in numerosi uffici si è affermato generando frutti positivi, anche se il novum, probabilmente, necessita ancora di essere “introiettato” nel corpo della Magistratura e meglio assimilato a tutti i livelli.
Non credo sia possibile, dunque, ipotizzare un salto all’indietro, auspicando il ritorno ad un passato che troverebbe forti ostacoli nella classe politica e che gli stessi cittadini difficilmente riuscirebbero a comprendere.
Da una recente indagine dell’Eurispes (Rapporto Italia 2022) e dai risultati indicati nello Scoreboard elaborato dalla Commissione europea riguardo alla durata media dei procedimenti civili e commerciali e alla percezione del livello di indipendenza dei magistrati negli Stati membri UE (Quadro di valutazione 2022 - Eu justice scoreboard - sulla giustizia), emergono dati estremamente preoccupanti per il nostro Paese, quasi sempre collocato nelle ultime posizioni.
Dagli esiti dell’indagine svolta dall’Eurispes risulta, fra l’altro, che solo l’8% dei cittadini ritiene che il settore giustizia funzioni bene, mentre più del 65% non serba fiducia nel sistema giudiziario.
Sono elementi sintomatici di un complessivo degrado istituzionale e morale, cresciuto ben al di là della soglia di guardia, che non è possibile affrontare con la riproposizione di soluzioni basate sulla valorizzazione di criteri già in passato rilevatisi fallimentari.
D’altro canto è difficile negare, seguendo il filo delle riflessioni svolte nello scritto di Epidendio, che le diffuse critiche rivolte all’avanzare del carrierismo, al conseguente incremento di un pericoloso livello di conflittualità interna e alla straripante dimensione assunta dai sempre più frequenti interventi regolativi degli organi di giustizia amministrativa trovino, proprio scavando nel retroterra di tali fenomeni, un altrettanto sicuro fondamento nella scoperta dei frutti avvelenati dell’affermazione di una pseudo-cultura manageriale e “giovanilistica” di stampo aziendalistico, di per sé non assimilabile alle peculiarità del sistema giudiziario.
Una pseudo-cultura che si pretende di impiantare al di fuori di una reale osmosi con gli obiettivi di natura costituzionale che si ricollegano ai meccanismi di funzionamento del settore e, soprattutto, alla necessità di mantenere alta la “qualità” della risposta giurisdizionale.
Su questo versante, limitarsi a sbandierare gli apparenti risultati di un’entusiastica “efficienza”, di una “ottimizzazione” delle “performances”, senza incanalarne i presupposti giustificativi nell’alveo di una reale “efficacia” delle soluzioni organizzative e gestionali da progettare sul piano concreto dell’amministrazione della giustizia, e dei correlativi risultati di complessiva “equità” sostanziale che essa deve promuovere e realizzare, costituirebbe il frutto solo di una vana illusione prospettica.
Alla cultura dell’organizzazione, che ha bisogno di tempo per affermarsi e crescere nella diffusione e nella comune consapevolezza delle migliori prassi gestionali, occorre affiancare, invece, una capacità di gestione degli uffici orientata al miglioramento della “qualità” e dei “tempi” del “prodotto” giurisdizionale, dunque di un risultato di garanzia e protezione del contenuto sostanziale del diritto controverso.
In questo quadro, il criterio dell’anzianità non può essere certo rimosso, ma viene ad acquisire il giusto peso nei meccanismi di bilanciamento con gli altri, e numerosi, fattori di valutazione generali e speciali che di volta in volta entrano in gioco (al riguardo basti pensare, ad es., alle diverse possibilità legate ad una migliore delimitazione delle fasce di anzianità per determinate tipologie di incarichi direttivi[4]).
2. Sul fondamento della legittimazione costituzionale del giudice.
L’analisi svolta da Epidendio sollecita ulteriori spunti di riflessione, là dove acutamente si interroga sulle ragioni della crisi attuale del modello costituzionale di indipendenza basato sul principio della soggezione del giudice alla legge e intravede i pericoli legati all’attività di un giudice che, inebriato da una libertà mai prima conosciuta, “finisce per risultare non più soggetto a nulla”.
Qui l’area delle questioni problematiche si allarga a dismisura, poiché in una società segnata dalla rapidità dei mutamenti e dalla “despazializzazione” della giustizia i concetti di spazio, diritto e territorio si trasformano e pongono l’esigenza di conferire nuovi significati ai diversi, e fra loro strettamente collegati, profili dell’atto normativo, delle forme processuali e delle tecniche di decisione[5], sotto le pressioni esercitate da una nuova concezione dell’economia, finanziaria e monetaria, e dall’avvento del digitale.
Nel passaggio da un ordine giuridico territorializzato alla formazione di norme “senza confini”, le stesse categorie dell’interpretazione giuridica si evolvono e tendono a mutare, imponendo l’esigenza di individuare un nuovo sistema di relazioni fra la centralità della produzione del diritto quale “atto creativo” riservato allo Stato e la corrispondente centralità del momento interpretativo che inevitabilmente ne consegue.
Un crinale problematico, questo, sulle cui molteplici implicazioni non è possibile ragionare funditus in questa sede, ma che certamente mette in gioco l’esigenza fondamentale di una nuova forma di assunzione di “responsabilità” da parte del giudice, “….quale nozione in grado di porre il limite all’appropriazione soggettiva della funzione di magistrato, a qualsiasi livello essa si svolga, dalla giurisdizione all’investigazione o all’organizzazione dell’ufficio”[6].
Al quadro di regole che ne presidiano il funzionamento nel sistema e al “valore culturale” del principio di responsabilità, inteso quale inevitabile pendant dell’indipendenza del giudice, occorre dare, tuttavia, sostanza e profondità di contenuti, in una società dove la stessa natura umana del giudizio processuale basato su una relazione di tipo dialogico rischia di scomparire sotto l’urto di una griglia numerica basata sul calcolo di algoritmi[7].
Uno dei problemi più gravi nella configurazione del rapporto fra l’ordine giudiziario e gli altri poteri dello Stato mi sembra quello legato al progressivo venir meno della consapevolezza del fondamento della legittimazione costituzionale del nostro ruolo, che non va ricercato nel “consenso” di quel popolo nel cui nome si pronunciano le sentenze[8], ma nell’acquisizione e nella conservazione del prezioso e insostituibile bene della “fiducia” dei cittadini.
Un fondamento relazionale invisibile che si regge sulle imprescindibili basi:
a) della responsabilità e dell’etica professionale del giudice (sia singolarmente che globalmente considerata, con i contenuti costituzionali dell’onore e della disciplina richiamati nell’art. 54, secondo comma, Cost.);
b) della rapidità dei tempi di decisione (con la conseguente necessità di modificare e snellire, con il concorso di tutti gli “attori” della giurisdizione, forme e sequenze processuali “barocche”, ormai inadeguate a fronteggiare, sia nel settore civile che in quello penale, le nuove esigenze di una società globale che non può attendere anni per veder tutelati i propri diritti);
c) della certezza dei risultati dell’attività giurisdizionale, rispetto alle naturali aspettative di cittadini, imprese, investitori esteri ecc. (con il conseguente rafforzamento di una funzione nomofilattica effettivamente in grado di orientare e stabilizzare nel tempo le risposte alle domande di giustizia).
In tal senso, dalle parole che il Presidente della Repubblica ha rivolto ai Magistrati ordinari in tirocinio in occasione dell’incontro svoltosi il 30 marzo 2022 possiamo trarre un prezioso insegnamento per il futuro: “Occorre aver ben presente che il fine ultimo dell’intervento richiesto alla Magistratura è la risposta di giustizia, che rimarrebbe irrimediabilmente denegata ogni qualvolta, alla pur sapiente ricostruzione normativa, non corrispondesse l’adozione di una decisione riconoscibile e comprensibile.
In questa prospettiva assume rilievo anche la prevedibilità della decisione: la coerenza giurisprudenziale nell’interpretazione delle norme rafforza la fiducia dei cittadini, perché assicura la parità nel trattamento di casi simili.”.
Sebbene la credibilità e l’immagine esterna di affidabilità della Magistratura appaiano oggi in gran parte legate alla capacità di rendere decisioni prevedibili in tempi ragionevoli, nessuno di quei pilastri ha ricevuto il necessario e vitale sostegno, né ha retto all’onda d’urto della crisi devastante che il CSM e l’intero ordine giudiziario hanno dovuto affrontare negli ultimi anni.
“Disciplina” ed “onore”: un’endiadi in apparenza dal sapore antico, eppure, in realtà, attualissima nella sua progettualità valoriale, quale precondizione dell’indipendenza dei giudici garantita dall’art. 101, secondo comma, Cost. e, al contempo, quale presupposto del sistema di regole deontologiche fissate nel codice etico della Magistratura del 7 maggio 1994.
Proprio la scarsa considerazione, se non il disprezzo, mostrati per quei valori, e per l’imperativo morale che essi trasfondono nella coscienza del Magistrato, sono alla base della perdita di fiducia del cittadino medio nel funzionamento della giustizia, con i conseguenti pericoli non solo di un progressivo indebolimento dei fondamentali requisiti di autonomia e indipendenza, ma anche di una sostanziale erosione della tenuta dello Stato di diritto[9], che proprio sulla forza di quella fides e sulla sua continuità storica nell’immaginario collettivo di una nazione radica le proprie basi costituzionali.
Si è icasticamente fatto riferimento all’attuale “condizione storico-spirituale” della Magistratura italiana[10], per descriverne il momento di affanno, di opacità, di complessivo sbandamento all’interno di un’architettura costituzionale i cui assi portanti paiono in via di sgretolamento.
È un’analisi che, nella sua impostazione complessiva, coglie nel segno, là dove individua l’esigenza di superare la separatezza della Magistratura e di recuperarne la legittimazione ed il ruolo costituzionale non solo attraverso il riconoscimento del valore dell’etica della professione, ma anche nella delineazione di una “nuova forma del governo interno che rompa il cerchio dell’autoreferenzialità e connetta la magistratura ai valori del nostro tempo”, senza toccarne tuttavia l’indipendenza.
È in questo quadro che deve collocarsi la ricerca delle condizioni necessarie per delineare i contenuti di una nuova legittimazione costituzionale della Magistratura: legittimazione che, come per tutte quelle istituzioni non fondate sulla rappresentanza politica, trova la sua base nella conformazione ai canoni-guida fissati dalla Costituzione, ma anche nella sostanza profonda dei processi storico-culturali che hanno segnato l’evoluzione del nostro Paese, nell’autorevolezza dei precedenti, nella chiarezza e trasparenza degli argomenti, nella capacità di ascolto e di rispetto delle parti, nella consapevolezza dei limiti e dei doveri che marcano i confini dell’azione giudiziaria rispetto alle prerogative di altri poteri dello Stato, in definitiva nella saggezza con la quale si esercitano le funzioni della giurisdizione[11].
3. Quale Giudice?
Quale può essere, dunque, il ruolo del Giudice oggi, in una prospettiva che coniughi le capacità di garanzia dei diritti fondamentali e le inevitabili tendenze espansive del “giudiziario” in una società multipolare, segnata da un’estesa domanda di giurisdizione, ma anche da erosioni profonde dello Stato di diritto e da fenomeni di interdipendenza, interna ed esterna, certamente non prefigurabili nel secolo scorso?
Un giudice di elevata professionalità, eticamente responsabile[12], culturalmente attrezzato e dotato di competenze multidisciplinari, ma al tempo stesso consapevole di far parte della complessiva governance di una grande democrazia, a sua volta membro costitutivo, e Paese fondatore storicamente “portante”, di organizzazioni internazionali, regionali, sub-regionali, i cui atti normativi incidono, talora direttamente, sulla vita quotidiana e sugli interessi concreti dei cittadini.
Un giudice che sappia cogliere il problematico punto di equilibrio nella evoluzione del diritto “fluido” di una società “liquida”, mettendo a frutto il suo deposito di sapienza e la sua competenza tecnica in un quadro di interventi assai più ampio e complesso rispetto anche al recente passato, proprio perché gli viene richiesto di “de-cidere” (da de e caedĕre, «tagliar via») sui problemi originati dall’incrocio, e dalle conseguenti innumerevoli combinazioni, di pretese che maturano all’interno di ordinamenti multidimensionali e interdipendenti.
Se è impossibile uscire dai “cancelli” delle norme, è pur vero che all’interno degli spazi da esse delimitati il giudice deve porre in essere, nel rispetto dei principi costituzionali, ogni sforzo per cogliere la realtà del comando nel suo sostrato valoriale.
Tra un ruolo “inventivo”, nel senso etimologico della inventio dei latini, ragionevolmente orientata ad un “cercare per trovare”, ed un’opera di pura ed originaria creatio di strutture normative, si apre un’infinita area di possibili soluzioni ermeneutiche, responsabilmente ancorate a quel “forziere valoriale della Costituzione” cui fa acutamente riferimento Paolo Grossi, quando invita il giurista di diritto positivo ad “aprire le finestre del proprio studio” e a dare uno sguardo attento ai mutamenti in corso nella società, “….preda di un continuo auto-ordinarsi, tacito, fattuale, senza brusche forzature ma sicuro nel tentativo di consolidare qualcosa di effettivo”[13].
4. Riconfigurare il principio della soggezione del giudice alla legge.
Di fronte alla moltiplicazione delle fonti e alla conseguente osmosi tra corpi normativi di diversa origine, reciprocamente concorrenti nell’ampliamento del catalogo dei diritti fondamentali e delle loro esigenze di tutela, la Corte di cassazione ha dovuto confrontarsi con la Costituzione e con le Carte europee ed internazionali dei diritti, rimettendo in discussione indirizzi interpretativi tradizionali e rivisitando le leggi ordinarie sia attraverso un’opera di armonizzazione della pluralità dei circuiti di legalità, sia con una delicata attività di coordinamento tra i diversi spazi di integrazione apertisi nei mobili confini del diritto nazionale, internazionale e sovranazionale.
Anche attraverso questa “necessaria opera di coordinamento con le pronunce delle varie Corti, nella prospettiva della effettiva tutela dei diritti fondamentali, la Cassazione ha assunto il ruolo di ordinatore del caos, secondo la felice espressione di alcuni commentatori, ricercando la regola di definizione della controversia sulla base della conoscenza delle fonti e del loro reciproco interferire”[14].
Un mutamento nell’approccio culturale, ancor prima che nell’acquisizione di uno specifico strumentario tecnico-giuridico, che assegna al giudice di legittimità il compito di comprendere la modernità, “….non per seguire o assecondare nuove mode o tendenze, che sono di per sé effimere, ma per contribuire alla definizione di un sistema completo di tutele multilivello, tenendo ben presente il contesto storico e sociale in cui la norma è nata e quello in cui è destinata ad operare nel tempo,..…….senza al tempo stesso assecondare derive creazioniste”[15].
Ai rischi derivanti dalla maggiore complessità dell’attuale ordinamento e alle correlate esigenze di certezza del diritto e di assicurazione di una “poli-garanzia” dei diritti fondamentali deve farsi fronte con la stabilità degli orientamenti giurisprudenziali, garantita dall’esercizio di una nomofilachia ampliata, nel suo oggetto, da nazionale ad europeo, affidando alla Corte di cassazione il compito di “…..definire in modo uniforme gli effetti che sull’ordinamento interno derivano dalle sentenze delle due Corti europee”[16].
È dunque mutato, nel tempo, il concetto di soggezione del giudice soltanto alla legge, poiché la qualità della norma, che per essere considerata “legge” nella sua dimensione convenzionale richiede l’integrazione dei requisiti di conoscibilità e prevedibilità, “….dipende anche dalla costanza della sua applicazione giudiziale. E la naturale evoluzione giurisprudenziale è compatibile con i principi di legalità e di equità dei giudizi solo se è accompagnata da un’efficace e pronta opera di stabilizzazione da parte delle Corti supreme”[17].
Impossibile, in questa prospettiva, pensare ad un ritorno all’indietro, poiché sono troppo forti le ragioni (in primo luogo, i mutamenti in corso nella rappresentanza delle democrazie parlamentari e la prepotente emersione del ruolo delle fonti e delle Corti sovranazionali) che hanno innescato e plasmato le linee di sviluppo di tale processo evolutivo: non resta, allora, che “…….prendere atto che la soggezione soltanto alla legge di cui all’art. 101 Cost. vive in un ordinamento giuridico radicalmente diverso da quello maturato dalla storia che l’ha preceduta e immaginato dai Costituenti. La “legge” è cambiata e con essa l’idea stessa di “soggezione”[18].
5. Un rapporto nuovo con il potere politico.
Illusorio, perché antistorico, apparirebbe qualsiasi tentativo di marginalizzare l’azione dell’istituzione giudiziaria, o di burocratizzarne i poteri e le funzioni.
Parimenti vana, tuttavia, risulterebbe la pretesa di slegarne il ruolo, e la duplice dimensione di “potere” e “servizio” istituzionale, al di fuori di un reciproco sistema di controllo, bilanciamento e dialogo con gli altri poteri dello Stato.
Si delinea, così, un quadro di interferenze e reciproche connessioni, che pone, più in generale, il tema della “crisi della giurisdizione” in un più ampio contesto segnato da una progressiva dequotazione degli indici di legittimazione, che investe, nella sua profondità, tutte le istituzioni dello Stato.
Un contesto problematico, marcato da tensioni costanti e, a volte, da spinte emotive, quando non da irragionevoli pulsioni “revansciste”, che non si può pensare di superare né, da un lato, a colpi d’ascia referendaria o con riforme ordinamentali diffusamente percepite, e come tali criticate, per il loro intento punitivo, né, dall’altro lato, con la proclamazione di forme di astensione anch’esse duramente osteggiate per il rischio di collisione con le prerogative costituzionali proprie di altri poteri dello Stato.
L’amministrazione della giustizia, area neutrale della regolazione dei conflitti, non può essere trasformata in un terreno di scontro permanente fra settori dello Stato che dovrebbero, invece, collaborare strettamente fra loro nel rigoroso rispetto delle reciproche sfere di competenza.
La revisione dei profili ordinamentali della Magistratura, proprio in ragione delle evidenti implicazioni e ricadute di natura costituzionale, deve essere oggetto di una particolare attività di “cura delle norme”, attraverso la predisposizione di un quadro di regole certe, generalmente condivise dalle forze politiche e, proprio per la loro finalità di oggettiva e precostituita garanzia dei diritti dei cittadini, non modificabili ad ogni mutamento delle maggioranze parlamentari.
Due debolezze che si scontrano non lasciano vincitori sul campo, ma producono solo un danno al Paese, alla solidità delle sue strutture democratiche ed alla sua immagine esterna.
Se, da un lato, la Magistratura, che non è certo un “contropotere”, ma fa parte integrante della “classe dirigente” di una matura democrazia occidentale, non può pretendere di ergersi ad organo di “controllo” generale della classe politica, dall’altro lato quest’ultima deve riappropriarsi della propria “sovranità” e rinunciare alla tentazione di infliggere alla prima una “punizione” per l’esercizio di una non richiesta opera di supplenza pluridecennale.
In questa prospettiva, specie in vista della prossima attuazione dei criteri di delega dettati dalla legge 17 giugno 2022, n. 71 (recante Deleghe al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario e per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario militare, nonché' disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), pare necessario individuare, al di fuori di qualsiasi tentazione di “collateralismo”, le forme di un dialogo costruttivo e propositivo con le forze politiche, volto a neutralizzare le occasioni di scontro sulla base di una generale assunzione di responsabilità, che muova dal rispetto e dal reciproco riconoscimento della pari dignità istituzionale e costituzionale delle diverse articolazioni dello Stato.
6. A mo’ di conclusione: qualche proposta operativa, fra inutili resistenze e speranze di cambiamento.
La capacità di elaborazione culturale e di riflessione della magistratura associata sulle prospettive di riconfigurazione del nostro ruolo costituzionale e sul rapporto con gli altri poteri costituisce una preziosa ed irrinunciabile risorsa da coltivare, anche attraverso un fecondo coinvolgimento dell’intera Avvocatura: dalle pagine di riviste come Giustizia Insieme e Questione Giustizia emergono importanti novità e spunti di riflessione, proposte concrete ed occasioni di confronto da valorizzare ai fini del dibattito politico-culturale sui complessi temi della giustizia.
Centrali in tal senso appaiono, ragionando in una prospettiva di medio-lungo periodo, iniziative volte a favorire:
a) lo sviluppo e la diffusione di modelli organizzativi “sostenibili”, che tengano conto, nelle diverse realtà territoriali, delle peculiarità e delle esigenze di modulazione gestionale all’interno dei diversi uffici giudiziari;
b) la complessiva revisione e semplificazione della normativa consiliare, asciugandone la dimensione pletorica e ridisegnando in senso virtuoso i profili della discrezionalità dell’organo di autogoverno sulla base di un catalogo diverso, e meno dettagliato, di indicatori generali e speciali;
c) il rafforzamento della coesione e dell’unità interna della Magistratura attraverso l’organizzazione di costanti momenti di confronto e rispettiva conoscenza delle tematiche comuni che, anche in una prospettiva macro-regionale, attraversano il funzionamento delle diverse aree di competenza (civile, penale, lavoro, sorveglianza, minori ecc.) di qualsiasi ufficio giudiziario, eliminando i rischi di azioni a “compartimento stagno” e valorizzando, invece, i contenuti omogenei della risposta giurisdizionale da calibrare secondo la specificità dei bisogni emergenti sul territorio;
d) l’ampia diffusione e il consolidamento a livello territoriale, sulla scia della rilevante opera di programmazione già da tempo avviata dalla Scuola Superiore della Magistratura, delle riflessioni e delle analisi di approfondimento sulle tematiche legate ai profili di deontologia giudiziaria e di storia costituzionale della Magistratura;
e) la capacità di coinvolgere, nella dimensione propria delle singole realtà territoriali, quelle competenze professionali, culturali e imprenditoriali maggiormente sensibili a sviluppare forme di collaborazione e possibili sinergie in vista delle tipologie di “risposta”, anche in forma seriale, che gli uffici giudiziari sono chiamati a dare secondo le specifiche esigenze locali;
f) la riappropriazione, da parte della SSM e del CSM, del segmento formativo che corre tra il momento della laurea del giovane che aspiri ad entrare in magistratura e la preparazione del concorso per accedervi, elaborando protocolli d’intesa sulle forme e sui possibili contenuti del percorso di studio da intraprendere, d’intesa con le istituzioni universitarie ed il Ministero dell’Istruzione.
Nulla, tuttavia, potrà cambiare senza il mutamento dei comportamenti personali e in assenza di un reale processo di autoriforma dei vari gruppi associativi, sulla cui ratio essendi s’imporrà una scelta radicale fra opposte alternative: accettarne la trasformazione in vuoti simulacri di potere orientati alla ricerca di accordi per favorire interessi personali, così travalicando le competenze costituzionali del CSM e degli organi di autogoverno territoriale della Magistratura, o rilanciarne, pur nella consapevolezza di impossibili soluzioni miracolistiche o di improbabili ritorni a mai esistite età dell’oro, le imprescindibili funzioni di animazione culturale e confronto dialettico, nella prospettiva di una ricomposizione delle visioni plurali del ruolo costituzionale e dell’attività del giudice.
Una reale volontà di autoriforma imporrebbe quanto meno l’inserimento, nei rispettivi statuti, di meccanismi di incompatibilità nell’assunzione di cariche associative ed istituzionali, di un radicale divieto di condizionamento sull’attività del CSM e del divieto di mandato imperativo per coloro che vengono selezionati all’esito delle competizioni elettorali svolte ai fini del rinnovo della composizione di tutti gli organi di autogoverno, rappresentandovi naturaliter le esigenze costituzionali dell’intera Magistratura, non certo gli occulti interessi, individuali o collettivi, schermati dalle manovre di questo o quell’altro potentato correntizio.
La questione da affrontare, senza infingimenti, “è quella del superamento delle derive corporative e spartitorie e del rilancio delle correnti come associazioni che svolgono un ruolo politico-ideale, soddisfacendo requisiti di “partecipazione, trasparenza e valori”[19].
Nel triste imbrunire di questi anni la notte sembra ancora lunga e l’alba, lontana, tarda ad arrivare.
“Sentinella quanto resta della notte?”[20].
Scrutando la linea dell’orizzonte, non v’è alcun rimpianto per il giorno precedente, ma solo speranza, in una nuova alba di giustizia.
[1] M. D’ORAZI, Una giustizia degna dell’Italia. Idee sparse per la riscossa della Magistratura, Bologna 2020, pp. 56 ss.
[2] G. PALOMBARINI, Giudici a sinistra. I 36 anni anni di Magistratura Democratica: una proposta per una nuova politica della giustizia, E.S.I., 2000, p. 34.
[3] Per una complessiva ricostruzione storica dei tormentati passaggi della riforma v. E. BRUTI LIBERATI, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Bari, 2018, pp. 326 ss.
[4] P. SERRAO D’AQUINO, Appunti per una riforma della dirigenza giudiziaria, in Questione giustizia, 12 aprile 2021, pp. 25 ss.
[5] Su tali questioni si veda l’importante saggio di A. GARAPON, La despazializzazione della giustizia, Bologna, 2021, pp. 27 ss.
[6] V., sul punto, le riflessioni di E. SCODITTI, L’ora della responsabilità per la magistratura, in Questione Giustizia, 17 giugno 2022.
[7] A. GARAPON, cit., p. 135 ss.
[8] Sul rifiuto del protagonismo giudiziario come negazione del principio di imparzialità v. L. FERRAJOLI, Magistratura e democrazia, in Questione giustizia, 28 luglio 2021, p. 4.
[9] R. RORDORF, Fedeltà, disciplina, onore: parole antiche e valori attuali nell’art. 53 della Costituzione, in Foro it., 2022, c. 162.
[10] L. VIOLANTE, Sull’attuale condizione storico-spirituale della magistratura italiana, in Quaderni della Scuola Superiore della Magistratura. Storia della Magistratura, Quaderno n. 6, 2022, pp. 230 ss.
[11] L. VIOLANTE, cit., p. 231.
[12] Si leggano le riflessioni di A. AMATUCCI, L’etica del magistrato. Esiste ancora?, in questa rivista, 5 luglio 2020.
[13] P. GROSSI, Oltre la legalità, Bari, 2020, p. 74.
[14] G. LUCCIOLI, Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità, in Il mestiere del giudice, a cura di R. CONTI, Cedam, 2020, p. 279 ss.
[15] G. LUCCIOLI, cit., p. 280.
[16] E. LUPO, Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità, in Il mestiere del giudice, a cura di R. CONTI, Cedam, 2020, p. 286; G. CANZIO, Nomofilachia, dialogo tra le Corti e diritti fondamentali, in Foro it., 2017, V, c.71.
[17] V. ZAGREBELSKY, Nozione e portata dell’indipendenza dell’Ordine giudiziario e dei giudici Ruolo del Consiglio superiore della magistratura, in www.aic. Osservatorio costituzionale, 3 dicembre 2019, p. 88.
[18] V. ZAGREBELSKY, cit., p. 89.
[19] M. VOLPI, Le correnti della Magistratura: origini, ragioni ideali, degenerazioni, in www.aic, n. 2/2020, 20 maggio 2020, p. 370; C. CASTELLI, Elogio dell’associazionismo giudiziario, in Questione Giustizia, n. 3, 2019, p. 62.
[20] Isaia, 21, 11.
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