Il mestiere del giudice e la religione
Intervista di Roberto Conti a Gabriella Luccioli
Un tema apparentemente a rime obbligate quello del rapporto fra giudice e religione che abbiamo scelto di scandagliare insieme a Gabriella Luccioli, tanto esso parrebbe trovare risposta, quasi lapalissiana, nel canone della laicità dello Stato al cui interno si incardina il giudice quale suo ganglio vitale.
Eppure, chi svolge le funzioni giudiziarie e più in generale chi ha vissuto e vive nel nostro Paese sa bene come sia vero il contrario.
Il ruolo giocato dalla giurisprudenza rispetto a temi eticamente sensibili ha messo in luce, in questi anni, quanto sia difficile il mestiere del giudicare quando si incide su questioni che suscitano forti contrapposizioni di natura ideologica. Da qui le accuse che spesso vengono rivolte al giudice di turno, individuandolo come portatore di un preorientamento, più o meno conosciuto o manifestato e comunque percepito come rassicurante da taluni e pericoloso da altri ed in ogni caso capace di instillare nella società la convinzione della non parzialità di quel giudice.
Si percepisce, per altro verso, come emerga, a volte, una sorta di rivendicazione del giudice a non nascondere il proprio credo religioso o il proprio atteggiamento agnostico, esteriorizzando un’esigenza che affonda nel diritto a manifestare liberamente la propria personalità, nella legittima convinzione che il bagaglio di valori laici o religiosi non potrà incidere in alcun modo sul suo “giudicare” ovvero si fonderà con il compendio di principi che affondano nella Costituzione.
Da qui il florilegio di questioni che toccano tanto il piano dell’esteriorità quanto quello del modo del giudicare e che, a ben considerare, coinvolgono questioni di portata universale, come testimoniano i rumors che giungono dagli Stati Uniti circa la nomina alla Corte Suprema, proprosta alle Camere dal Presidente Trump, di una giudice nota per le sue posizioni conservatrici in sostituzione della Giudice Ginsburg, icona delle istanze progressiste.
Gabriella Luccioli, per molti individuata come la giudice della sentenza Englaro, ha trovato il modo di fissare senza enfasi un quadro di regole etiche, deontologiche e giuridiche importanti che non solo invitano alla riflessione, ma suscitano sincera ammirazione per una giurista che, pur avendo alle spalle il peso di un'esperienza professionale pressoché unica in Italia, non perde la voglia di ragionare, di confrontarsi a tutto campo e al contempo di dire in modo chiaro e senza tentennamenti il suo pensiero arioso e moderno com’è quello che si attende con quella società in perenne movimento che Rosario Livatino aveva anche lui individuato come terreno di continuo confronto del giudice, ulteriormente riflettendo attorno al ruolo del giudice e della fede.
1. D. Cara Gabriella, di recente un giudice del Consiglio di Stato nel corso di un’intervista, parlando di una sentenza della quale era stato relatore, relativa ad una questione eticamente sensibile - i matrimoni gay - ha esplicitato la sua fede cattolica dicendo che questa non poteva incidere sulla qualità della sentenza.
In un’altra recente vicenda che ha visto protagonista un altro magistrato questi, in modo garbato, ha stigmatizzato l’atteggiamento dell’attività amministrativa che, in ossequio alle disposizioni in tema di lock down, avrebbero vulnerato il suo diritto alla libera espressione del credo religioso. Secondo te quanto un magistrato ha il diritto di esternare il suo credo religioso e quanto la società ha il diritto-dovere di conoscerlo? E, ancora, quanto le esternazioni pubbliche di un magistrato sulla posizione personale del giudice sono in grado di appannare il canone della neutralità confessionale? Qual è, in definitiva, il punto di bilanciamento fra la libertà di religione e di espressione del giudice e l’interesse dello Stato alla laicità del giudice nell’esercizio delle sue funzioni?
R. Non credo esista un diritto del magistrato ad esternare il suo credo religioso, così come non credo esista il diritto-dovere della società di conoscerlo. Sono convintamente contraria a qualsiasi esposizione pubblica della vita privata e degli spazi esistenziali di ciascuno e rivendico l’importanza della riservatezza, della discrezione e del silenzio su tutto ciò che attiene alla sfera personale del magistrato, ai suoi orientamenti politici, al suo mondo di relazioni.
Ritengo peraltro che esternazioni siffatte siano prive di ogni interesse per la collettività, atteso che gli unici precetti che il magistrato è tenuto ad osservare nell’ esercizio delle sue funzioni stanno scritti nella Costituzione e nelle Carte dei Diritti e che i valori che innervano il suo lavoro sono la soggezione soltanto alla legge, l’autonomia della magistratura, la laicità dello Stato. Il controllo della legalità proprio della funzione del giudice non potrebbe espletarsi validamente se non fosse presidiato dalla saldatura di quei principi.
2. D. Giuseppe Pera, nel suo Un mestiere difficile. Il magistrato, osservava:” È comunque chiaro che, a prescindere dalle legittime e rispettabili convinzioni religiose, il magistrato non può farsi pregiudizialmente condizionare da una determinata concezione dei rapporti tra la predominante confessione nazionale e lo Stato; egli deve sentirsi impegnato alla stretta osservanza della legge statuale, eventualmente anche in contrasto con le direttive promananti dalle autorità ecclesiastiche, specialmente quando queste reclamino in ipotesi posizioni di favore che non possono trovare riconoscimento nell’ordinamento che egli serve, in particolare quando siano in questione i diritti fondamentali di libertà dei cittadini. Nel passo successivo Pera aggiungeva che “a prescindere dalla posizione specifica del giudice, ove la questione si pone sul piano dei doveri implicitamente collegati alla funzione, io non vedo come il giurista, in quanto tale, possa aggettivarsi, politicamente o confessionalmente, in un senso o nell’altro; confesso che non ho mai condiviso le ragioni per le quali taluni si raggruppano come giuristi democratici e altri come giuristi cristiani, giacchè, a prescindere dalle prese di posizione in questo senso nelle sedi adatte, i giuristi, a mio avviso, non sono nè debbono essere di questa o di quella parte, posto che come tali si distinguono semmai dai non giuristi.” Gabriella, tu sei stata Presidente del collegio della prima sezione della Cassazione cha ha deciso il caso Englaro, suscitando notevoli reazioni nel mondo religioso. Sono passati ormai più di 13 anni dalla storica sentenza che ti vide Presidente. Oggi come rileggi quella vicenda? E ti sentiresti di rivelare le tue convinzioni religiose?
R. Prima di rispondere alle domande ora formulate credo sia necessario fare una premessa, agganciandomi alle parole di Giuseppe Pera.
La generalizzazione sempre più diffusa e convinta dell’ argomento costituzionale come criterio di interpretazione della legge, secondo acquisizioni maturate sin dal Congresso di Gardone, facendo della Costituzione una fonte in grado di regolare direttamente, attraverso l’ interpretazione, la vita delle persone e i rapporti sociali, ha profondamente inciso sull’ esercizio della giurisdizione, consentendo alla giurisprudenza di collocarsi, anche dal punto di vista dommatico, nel sistema delle fonti di produzione del diritto ed attribuendo al giudice un ruolo molto più incisivo e dinamicamente aperto rispetto al passato, ponendolo come cerniera tra legge e cittadino, tra un comando che resta fissato in un testo scritto e richieste di tutela di diritti spesso non immediatamente riconducibili a quel testo.
Ed è inevitabile che nel momento in cui l’ attività interpretativa si inserisce nel processo di individuazione del significato della norma, e dunque di produzione del diritto, che si fa diritto vivente, si aprano spazi sterminati per l’interpretazione, anche a causa dell’ affiorare, spesso inconsapevole, di sensibilità personali, stereotipi inconsciamente alimentati, pregiudizi, convincimenti radicati e mai posti in discussione, esperienze di vita, forme mentali, dati caratteriali. E lì dove premono orientamenti pregiuridici le linee di ragionamento e di valutazione restano profondamente influenzate.
In realtà tutte le nostre decisioni sono impregnate di stereotipi, pregiudizi e ideologie, ed anche la proposizione di questioni di costituzionalità riflette, a ben vedere, la maggiore sensibilità del giudice remittente rispetto ad altri giudici che della norma impugnata hanno fatto sino a quel momento applicazione.
Ben più delicata e complessa è la questione quando si tratta di affrontare argomenti che coinvolgono i grandi temi della fede o comunque profili religiosi, come quelli inerenti alle scelte di vita o di morte e al biodiritto, in quanto per il credente le prescrizioni religiose dispiegano la forza del vincolo ineludibile, da rispettare in ogni momento del suo operare. Ed è qui che viene in gioco il principio di laicità dello Stato.
Alcuni commentatori[1] richiamano, nella sterminata letteratura sul tema, la contrapposizione tra gli studiosi, divisi tra coloro che propugnano una laicità debole (Habermas), che unisce credenti e non credenti e che esige che le ragioni religiose utilizzino clausole di traduzione tali da renderle ragioni condivise, o una laicità debolissima (Taylor), che esclude la possibilità di distinguere argomenti religiosi e non religiosi, così annullando la differenza tra ragione e religione, o infine una laicità forte (Flores d’ Arcais), che tende a rifiutare qualsiasi argomento religioso, in quanto basato su affermazioni di tipo autoritativo, secondo una visione che, prescindendo dalla presenza di una divinità superiore, è inevitabilmente destinata a produrre un irriducibile contrasto tra i suoi fautori ed il pensiero cattolico.
A fronte di tali distinzioni concettuali io penso che il rispetto della dignità, della libertà, dell’ autonomia di ogni essere umano sancito dalla Costituzione imponga al giudice l’ assunzione di una laicità sana, quella cui la Corte Costituzionale[2] ha inteso riferirsi affermando che ai fini del rispetto del principio di laicità vi è l’ obbligo dello Stato di assumere un atteggiamento di equidistanza e imparzialità nei confronti di tutte le confessioni religiose e di assicurare il libero esercizio di tutte le attività spirituali delle diverse comunità dello Stato. Ne consegue che tra le ragioni esplicitabili nei provvedimenti giurisdizionali non può esservi spazio per argomentazioni di carattere religioso o per manifestazioni di adesione ad una qualsiasi confessione.
Venendo ora alle tue domande, esse mi sollecitano il ricordo delle reazioni violentissime che si scatenarono dopo la sentenza n. 21748 del 2007 e dopo il successivo decreto della Corte di Appello di Milano che in sede di rinvio autorizzò il distacco dei trattamenti di sostegno vitale che consentivano ad Eluana Englaro di continuare a vivere. Reazioni di esponenti di una certa area politica e del mondo ecclesiastico che parlarono di omicidio per sentenza e accusarono la magistratura, ed in particolare la Corte di Cassazione, di aver posto in essere la prima esecuzione capitale per sentenza della storia repubblicana italiana. Nonostante la violenza di un’ accusa siffatta, quella decisione, frutto di uno studio e di una discussione profonda dell’ intero collegio, non mi ha mai posto problemi di coscienza o di coerenza con i miei convincimenti religiosi, trovando essa solido fondamento in quel nucleo forte di principi tratti dalla Costituzione e dalle Carte dei diritti che esaltano la dignità, la libertà e l’ autodeterminazione delle persone, ponendo al centro della riflessione il rispetto dei diritti umani e il valore dell’ eguaglianza.
3. D. Quando il giudice si trova a dirimere una lite nella quale entra in gioco la religione - pensa al caso esaminato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.21916/2019, relativo al diritto del minore a frequentare le funzioni dei Testimoni di Geova alle quali partecipava la madre con l’ opposizione del padre - o direttamente una questione religiosa (sono note le cause relative all’esposizione del crocefisso all’interno di istituzioni pubbliche ed alla compatibilità di tali simboli con il principi di laicità dello Stato, sulle quali è di recente tornata, sia pur investendo della questione le Sezioni Unite civili, Cass. sez. lav., n.19618/2020) quale deve essere, secondo te, la posizione del giudice nel motivare la sua decisione e quanto inciderà sulla decisione stessa il suo convincimento religioso?
R. Le due questioni cui fai riferimento hanno effettivamente costituito oggetto di plurimi interventi della giurisprudenza. Quanto ai testimoni di Geova ed al loro credo contrario ad ogni trasfusione, che ha dato luogo ad un ampio contenzioso, osservo che se il giudice non può non rispettare la volontà espressa dall’ adulto di rifiutare per sé la trasfusione[3], anche a costo della perdita della vita, secondo il principio fondamentale di autodeterminazione, più delicata è la questione quando si tratti di minore e la volontà contraria provenga dall’ esercente la responsabilità genitoriale. Venendo qui in discussione la vita stessa del minore in relazione ad un trattamento terapeutico che viene rifiutato per motivi attinenti al credo religioso del legale rappresentante, che si pongono in antitesi con la tutela della salute psicofisica del minore stesso, e prima ancora della sua vita, soccorre l’ ultimo comma dell’ art. 3 della legge n. 219 del 2017, che affida la decisione al giudice tutelare, il quale non potrà che assumere come canone fondamentale di riferimento e come limite all’ autonomia familiare il best interest del minore. Nella tensione tra le dimensioni della libertà e della doverosità che segnano la responsabilità genitoriale compito del giudice è quello di sottrarre il minore alle conseguenze letali di una scelta ideologica e di farsi garante della tutela della vita, in forza del principio di precauzione che depone per la vita, non per la sua cessazione.
Quanto alla questione della presenza del crocefisso nelle aule scolastiche, non è questa la sede per ricordare i tanti interventi della giustizia amministrativa, anche in sede consultiva, dei giudici ordinari, della Corte Costituzionale e della Corte di Strasburgo in materia (io stessa ebbi occasione di occuparmene nel decidere in Sezioni Unite un regolamento preventivo di giurisdizione): ho sempre ritenuto che si trattasse di questione enfatizzata da una ideologizzazione estrema, da una sorta di bigottismo laico, atteso che l’ affissione di quel simbolo, consentita da risalenti e mai abrogati provvedimenti normativi, se può avere un significato di testimonianza per i seguaci della religione cattolica, per chi non è credente si risolve in una presenza ininfluente rispetto alle proprie convinzioni, potendo essere intesa come simbolo di una cultura che fa parte del nostro patrimonio storico o addirittura come un mero elemento di arredo.
4. D. La Corte costituzionale italiana, occupandosi di una vicenda in cui il giudice tutelare remittente aveva prospettato l’incostituzionalità della legislazione interna in tema di autorizzazione di minore d’età ad interrompere la gravidanza laddove non consente al giudice la possibilità di far valere la propria obiezione di coscienza, ha ritenuto, nel dichiarare l’infondatezza della questione, che “É propria del giudice, invero, la valutazione, secondo il suo "prudente" apprezzamento: principio questo proceduralmente indicato, che lo induce a dover discernere - secondo una significazione già semantica della prudenza - intra virtutes et vitia. Ciò beninteso in quei moduli d'ampiezza e di limite che nelle singole fattispecie gli restano obiettivamente consentiti realizzandosi, in tal guisa, l'equilibrio nel giudicare.” (Corte cost.n.196/1987). Concordi con questa prospettiva del giudice costituzionale e, se sì, come si concilia col tema di cui qui discutiamo?
R. Il potere conferito dall’ art. 12 della legge n. 194 del 1978 al giudice tutelare di autorizzare la donna minorenne ad interrompere la gravidanza è forse quello che più incisivamente può far sorgere situazioni di conflitto con la coscienza religiosa del magistrato, non essendo prevista alcuna possibilità di sua obiezione di coscienza. Ma ogni ipotesi di conflitto interiore non può che trovare composizione seguendo le lucide riflessioni della Corte Costituzionale nella sentenza da te citata, che ha ricordato non solo, sul piano strettamente tecnico, che i margini di intervento del giudice tutelare sono ben circoscritti, limitandosi il suo provvedimento ad integrare la volontà della minore, ma anche che il magistrato è istituzionalmente deputato ad attuare un interesse generale che impone la limitazione della sua libertà di coscienza e che il doveroso adempimento dei doveri inerenti al suo ministero vale a rendere compatibili i suoi convincimenti con la norma da applicare.
5. D. Negli Stati Uniti l’incidenza del fattore religioso nella procedura di nomina dei giudici delle Corti federali e delle Corte Suprema assume tratti diversi. Sono note le domande che alcuni senatori rivolsero in sede di audizione preliminare ai futuri giudici della Corte Suprema. Certamente emblematica in tal senso fu la domanda posta dal senatore Joseph Mahoney al futuro giudice della Corte Suprema William Brennan sul conflitto interiore che animerebbe il giudice tra l’asservimento ai dettami della propria religione e l’obbedienza al giuramento alla Costituzione ed alle leggi degli Stati Uniti d’America, ogni qual volta siano sottoposte al suo vaglio questioni involgenti la fede e la morale. Il problema sembra riproporsi in questi giorni, all’indomani della scomparsa della Giudice della Corte Suprema Ginsburg, icona del mondo progressista, che potrebbe essere sostituita dalla Giudice Barrett, personalità del mondo giuridico nota per le sue posizioni conservatrici, che tuttavia ha rivendicato, già in occasione della sua precedente nomina a giudice di una corte federale di appello, di non sentirsi condizionata dalla sua fede religiosa, esternata in alcune pubblicazioni, sentendosi soggetta soltanto alla Costituzione.
Anche nella procedura di nomina dei giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo i candidati dei singoli Stati sono sottoposti a domande da parte dell’Assemblea del Consiglio dell’Europa nelle quali è possibile che ai giudici vengano poste domande concernenti le loro convinzioni personali.
Orientando ora lo sguardo sul piano interno, secondo te il fattore religioso risulta neutro rispetto al ruolo del giudice o la società accetta che esso possa condizionare la sua attività quando nei casi concreti potrebbero essere determinanti, soprattutto rispetto ai grandi temi etici e bio-giuridici del nostro tempo, le convinzioni religiose del giudice?
Capita che i messaggi dei rappresentati di un orientamento religioso risultino, a volte, davvero di portata universale. Pensa all’incontro di Papa Francesco con l’Associazione Nazionale Magistrati del febbraio 2019, avvenuto ben prima delle vicende culminate nella indagine della Procura di Perugia (Se lo dice il Papa!, in questa Rivista). In quell’occasione furono scolpiti alcuni principi sul ruolo della giurisdizione del nostro tempo mostrandone la centralità ed indispensabilità purché essa si fosse mostrata linda, trasparente, apolitica, non opaca, non parziale, non orientata a logiche ‘di parte’ o ‘di corrente’. Ne condividi la portata ed il senso dunque consentito al giudice laico?
R. Innanzi tutto rivendico la bontà del nostro sistema di reclutamento dei giudici per concorso, che si fonda unicamente sul principio del merito.
Quanto alla vicenda della successione alla giudice Ginsburg, alla Corte Suprema degli Stati Uniti, si tratta di una brutta pagina della storia americana. E’ oggetto di pesanti critiche nella comunità internazionale ed in tutta la libera stampa la repentina, ma non inaspettata, decisione di Trump di sostituire alla vigilia delle elezioni presidenziali colei che è stata una icona liberal della cultura progressista, femminista, intrepida e tenace combattente in tante battaglie in favore delle donne con la giudice Amy Coney Barret, personaggio fieramente di destra ( che sembra peraltro essere stata cinicamente tenuta in stand by in attesa della morte della Ginsburg).
Leggiamo che la Barret è stata assistente di Antonin Scalia, del quale sono ben note le posizioni reazionarie assunte quale giudice della Corte, è cattolica, conservatrice, antiabortista; difende il diritto al possesso di armi; è stata seguace dell’ originalism, corrente di pensiero che sostiene che la Costituzione americana debba essere interpretata secondo lo spirito del tempo in cui fu scritta, senza alcuna possibilità di una sua lettura evolutiva; ha fatto parte della “setta delle ancelle cristiane”, People of Praise, gruppo cristiano emerso dal cattolicesimo che crede nelle profezie e nell’estasi religiosa e pone l’ uomo come unica guida della famiglia, precludendo alle donne il raggiungimento di posizioni di vertice; si è espressa in favore di provvedimenti anti-immigrati; ha contestato le “condanne facili” di studenti accusati di stupro nei campus universitari, denunciando la facilità con la quale si si dà generalmente credito alle parole delle donne denuncianti. Sembra inoltre che in più occasioni abbia affermato di ritenere il suo lavoro legale come un modo per affermare il regno di Dio. Se poi si aggiunge la sua giovane età (ha quasi 40 anni meno della Ginsburg), l’essere madre di sette figli e la sua telegenia, è da prevedere che l’impatto su un certo elettorato sarà fortissimo.
Se, come purtroppo sembra probabile, l’operazione andrà in porto con la ratifica del Senato, un così forte squilibrio tra le due anime della Corte Suprema avrà effetti determinanti nelle decisioni su temi importanti come la riforma sanitaria, l’ immigrazione, la normativa sull’ aborto e sui diritti riproduttivi, il lavoro, l’ ambiente, i diritti sindacali e si proietterà in un tempo assai più lungo della presidenza Trump, attesa l’ assurda durata a vita della carica.
Indubbiamente tra le molte ragioni che hanno ispirato la scelta di Trump vi è quella di recuperare consenso, assicurandosi il voto dei cattolici, così come vi è il proposito di azzerare in tempi brevi riforme non condivise, ed in primis l’Obamacare, come espressamente dichiarato, ma vi è anche, più in generale, la volontà di riaffermare a livello politico, culturale e sociale i suoi valori di riferimento, ispirati alla reazione più oscurantista, consegnando la Corte Suprema americana ad una maggioranza solidamente conservatrice.
Le parole accorate di Ruth Bader Ginsburg, che poco prima di morire formulava l’ auspicio che la nomina del suo successore avvenisse dopo le elezioni presidenziali, suonano ora come una denuncia, più che come una sconfitta.
Vengo all’ ultima domanda. Il pensiero espresso da Papa Francesco in occasione dell’ incontro con l’ ANM nel febbraio 2019 colpisce per la sua forte laicità e per la capacità di rivolgersi a tutti i magistrati, credenti e non credenti, cogliendo in modo intenso il senso del giudicare ed il ruolo del giudice nella società.
Nella visione del Pontefice al centro della giustizia sta l’uomo e la sua dignità, soprattutto quando si trova in condizioni di povertà e vulnerabilità. Il Papa sollecita i giudici ad una giustizia “sempre più inclusiva, attenta agli ultimi e alla loro integrazione”. Ed il valore della solidarietà che il Papa fortemente richiama si aggancia nel suo pensiero al tema dei diritti e delle libertà, secondo una prospettiva che trova la sua sintesi nell’art. 2 della nostra Costituzione.
Le uniche norme che il Papa ha evocato nel corso dell’incontro sono state la Carta costituzionale, le leggi dello Stato, da interpretare in senso evolutivo sulla base dei principi sanciti in Costituzione, il codice etico. Una visione moderna, dinamica e aperta ai grandi cambiamenti nella società ed una straordinaria lezione di laicità da parte della massima autorità del cattolicesimo.
6. D. Nel romanzo dello scrittore inglese Ian Mc Ewan “La Ballata di Adam Henry” ad un certo punto, la giudice Maye rivolge al minore che aveva deciso di non sottoporsi alle trasfusioni per il suo credo religioso la seguente domanda: ”Credi che Dio sarebbe contento di averti cieco, demente o in dialisi per il resto della vita?” E il ragazzo così risponde: “Se non crede in Dio dovrebbe evitare di parlare di cosa lo fa contento e cosa no.” In questo frammento del romanzo cosa cogli nel contegno dei due interlocutori, cosa apprezzi e cosa pensi che non andava detto? Come ti saresti comportata tu se, ipoteticamente, ti fossi trovata in una situazione simile a quella di Fiona Maye?
R. Nel bel romanzo di Mc Ewan il malato Adam ha 17 anni e 9 mesi ed è intelligente, brillante, appassionato nelle sue convinzioni di fede, molto preparato sui testi religiosi: tutto questo rende estremamente difficile e sofferta per Fiona Maye la scelta della decisione da adottare, specialmente dopo aver ascoltato il ragazzo in un drammatico e intenso colloquio. Ma la scelta compiuta dalla giudice inglese tra legge laica e precetti religiosi, dando ad Adam con la propria decisione una nuova vita, è quella giusta anche secondo il nostro sistema giuridico, in quanto la minore età del ragazzo gli preclude il pieno esercizio di diritti in ambito sanitario ed il giudice deve ispirarsi al principio del best interest of the child preservando per lui il bene della vita.
7. D. In un passo de Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, discorrendo della pena di morte Guido Calabresi così scrive: “Io sono contrario alla pena di morte, perché, in primis, già sotto il profilo etico-religioso, non ritengo che possa darsi il diritto di uccidere un’altra persona”. Pensi che un giudice in Italia possa spingersi a tali dichiarazioni?
R. Per un giudice italiano la risposta è chiara. La sua contrarietà alla pena di morte non può che trarre ragione dall’ultimo comma dell’art. 27 Cost. e dal disposto del comma precedente, che ne costituisce fondamentale premessa, secondo il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Al di là della facilità della risposta, la domanda evoca il tema più ampio dei doveri del giudice chiamato ad applicare una legge ritenuta ingiusta. La conclusione dell’Autore di quel prezioso libretto, dopo un’accorata e inutile ricerca di una possibile soluzione che lo dispensi dal comminare la pena capitale, è nel senso che l’unica via percorribile è quella del rispetto della legge. Nell’ eterno dilemma tra Antigone e Creonte, tra legge morale e diritto positivo, tra coscienza individuale e ragion di stato[4], il giudice non può che utilizzare gli strumenti che l’ordinamento mette a sua disposizione per avvicinare la legge alla giustizia, percorrendo il sentiero dell’interpretazione costituzionalmente orientata o proponendo la pertinente questione di costituzionalità. Se l’adozione di tali strumenti non producesse il risultato auspicato, al giudice non resterebbe che il confronto sofferto e solitario con la propria coscienza.
8. D. Quando una decisione del giudice risulta “contro-maggioritaria”, ponendosi in contrasto con il sentimento religioso dominante di una società, il giudice rischia di apparire come portatore di un sentimento del tutto opposto a quello della maggioranza. Trovi vi siano rimedi a questa situazione difficile in cui viene a trovarsi il giudice?
R. Non esistono rimedi immediati all’ irrazionalità di un dibattito alterato da posizioni ideologiche preconcette e segnato dall’ intolleranza. Soltanto una maturazione della coscienza collettiva ed un ritorno a ragionamenti lucidamente argomentati può portare alla ricerca di soluzioni nel segno della tutela effettiva dei diritti. Come osserva Marilisa D’ Amico, l’ideologia non difende i diritti.
Tornando alla sentenza Englaro, dubito che le aspre reazioni cui prima cennavo riflettessero il sentire prevalente del Paese, ma so per certo che esse si fondavano su una assurda contrapposizione del partito della vita a quello della morte e sulla inaccettabile pretesa di far risiedere la legittimità di una legge statuale nella sua conformità alla morale cattolica. Le successive evoluzioni di tale tematica sul piano normativo, con la legge n. 219 del 2017 concernente i trattamenti di fine vita, e su quello della giurisprudenza costituzionale, con la doppia pronuncia della Consulta n. 207 del 2018 e n. 242 del 2019, costituiscono autorevole conferma non solo della coerenza sul piano dei principi di quella decisione, ma anche del maturare a livello politico ed istituzionale di una diversa sensibilità e a livello sociale di una maggiore comprensione per i drammi di coloro che vivono esperienze oltre il limite del sopportabile.
9. D. La rappresentazione della giustizia umana e di quella divina nelle parole di Rosario Livatino tendono a coincidere, ma non sempre questa coincidenza risulta possibile. Nel suo scritto “Fede e diritto” raccolto dalla sua professoressa Ida Abate nel libro “Il piccolo giudice” Livatino scrive che non è possibile non porsi il problema del rapporto fra fede e diritto. Nell’esaminare alcune delle questioni eticamente più sensibili, Livatino afferma che “il magistrato, credente e non credente, deve nel momento del decidere dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia: devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà e autonomia!”
Ancora di recente Marta Cartabia, in un’intervista rilasciata al Messaggero all’indomani del suo commiato dalla Corte costituzionale, alla richiesta di spiegare come riuscisse a conciliare il suo essere cattolica con la visione laica dei suoi colleghi, ha risposto dapprima con un interrogativo - “Perché essere cattolico viene percepito da alcuni come un problema?” - poi, sottolineando come il Vangelo offra uno sguardo che “permette a tutti, laici e credenti, di trovare un terreno di incontro”. Condividi questa prospettiva?
R. Le posizioni di Rosario Livatino ( di cui in questi giorni abbiamo rinnovato il ricordo e il rimpianto) e di Marta Cartabia mi sembrano molto vicine su questo tema. Per entrambi fede e diritto costituiscono mondi pienamente conciliabili, perché la legge evangelica della carità e dell’ amore, anche verso la persona giudicata, comprende e valorizza l’ umanità di ogni essere umano e rende lo sguardo del giudice simile a quello del Cristo che incontra la prostituta o conforta il buon ladrone sulla croce: ed è questo sguardo, nella loro prospettiva, che permette di trovare un terreno di incontro tra laici e credenti.
Mi è difficile condividere l’assunto secondo il quale il rendere giustizia non può essere disgiunto dalla fede. Per formazione mi sento piuttosto in sintonia con quel modello di giurista liberalcattolico propugnato da Arturo Carlo Jemolo, che pur non separandosi mai da un colloquio con se stesso e con la sua coscienza pensa secondo gli schemi della società civile ed intende la laicità - che non ha nulla di antireligioso - come principio di distinzione tra Stato e religioni e che pone come propria coscienza politica uno Stato che accoglie credenti e non credenti e riconosce a tutti eguali diritti ed eguale dignità.
Nella visione laica quello sguardo di carità e di amore si chiama rispetto e si identifica appunto nella tutela della dignità di ogni essere umano. Ed è lo stesso principio di legalità, come ricordava Antonino Caponnetto, che impone di porre la persona al centro dell’universo, così garantendo il rispetto di tutte le fedi da parte dello Stato.
Non riesco peraltro a ravvisare spazi di conciliabilità tra precetti evangelici e diritto positivo su alcuni temi che compendiano valori irrinunciabili per la dottrina cattolica, come quelli dell’aborto, dell’indissolubilità del vincolo coniugale, del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, dell’aiuto al suicidio.
Ancor più evidente mi appare l’impossibilità di ricomporre le due sfere negli ordinamenti islamici, in cui le due società, religiosa e statale, sono totalmente fuse ed in cui la coincidenza tra legge divina e legge dello Stato e tra le rispettive tavole dei valori ha determinato l’introduzione nel sistema di istituti come il ripudio o la poligamia e di pratiche di mutilazione genetica del tutto stridenti con il rispetto del valore della persona. Mi piace al riguardo richiamare la recentissima sentenza n. 16804 /2020 della Corte di Cassazione, che ha ritenuto non riconoscibile nell’ ordinamento statuale italiano, per la sua contrarietà all’ordine pubblico sostanziale e processuale, la sentenza di ripudio emessa da un tribunale sciaraitico.
10. D. Le istituzioni giudiziarie, nel momento in cui devono valutare e decidere questioni “religiosamente” sensibili - in Italia tra i casi più noti vi è stato quello del crocefisso esposto nelle aule di giustizia - potrebbero trovarsi di fronte a “scelte tragiche” in caso di conflitto tra i principi costituzionali e quelli della religione che professano o alla quale non aderiscono, più o meno dichiaratamente. La Corte costituzionale ha offerto risposte univoche sul punto?
R. Un’ indicazione precisa in direzione della supremazia del principio di laicità nella soluzione di questioni che hanno a che fare con la religione e con la fede è stata offerta proprio dalla Corte Costituzionale con la due pronunce n. 207 del 2018 e n. 242 del 2019 innanzi richiamate: ed invero detta Corte ha percepito l’ inaccettabilità da parte dell’ ordinamento del dolore di persone che si trovano in una posizione simile a quella di Fabiano Antoniani ed ha ritenuto irragionevole continuare ad infliggere loro una sofferenza gravissima per mantenere un divieto penale assoluto contrario ad ogni principio di ragionevolezza. Con spirito laico e libero da incrostazioni ideologiche la Consulta ha formulato osservazioni di grande rilievo dal punto di vista etico, prima ancora che giuridico, ed ha saputo conciliare i valori della vita e della salute con il principio di autodeterminazione anche nella scelta finale di morire con dignità, prendendo così le distanze da quella posizione dottrinale che la configura solo come legislatore negativo. L’ esigenza di garantire la legalità costituzionale ha indotto la Corte a rifiutare la facile soluzione dell’inammissibilità della questione in assenza di rime obbligate, dichiarando l’ incostituzionalità, nei limiti precisati, della disposizione impugnata e al tempo stesso ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari.
Una preziosa sollecitazione per ogni giudice in direzione della massima tutela dei diritti fondamentali e della supremazia dei valori fissati nella Costituzione rispetto al principio cattolico dell’assoluta sacralità della vita.
11. D. Che il tema della relazione fra giudice e religione sia di strettissima attualità nel panorama anche straniero sembra confermato dalla recente decisione della Corte Suprema, che ha ritenuto applicabile il titolo VII del Civil Rights Act del 1964 – ove si vieta ogni discriminazione sulla base della razza, del colore, della religione, del sesso o della nazionalità – anche all’orientamento e all’identità di genere di una persona. Secondo il giudice Alito, la sentenza sul transgenderismo equivale a una vera e propria “legislazione” giudiziaria.
Il tema è assai caldo anche in Italia. Come sai, esistono movimenti di pensiero che hanno collocato alcune posizioni assunte dalla giurisprudenza su temi eticamente sensibili come provenienti da settori della magistratura nei quali si contesta la matrice religiosa di istituti giuridici. Cosa ti sentiresti di consigliare o suggerire ai giovani magistrati italiani per evitare le polemiche o, quel che è più importante, essere a posto con la loro coscienza quando adottano una decisione su temi simili a quelli qui accennati?
R. In un sistema orientato sui principi della divisione dei poteri e della soggezione dei giudici soltanto alla legge tanto più le sentenze della magistratura sono corrette e capaci di ricevere condivisione quanto più si inseriscono in una cornice di legalità costituzionale e poggiano su una motivazione coerente, persuasiva, razionale e ragionevolmente prevedibile, così che l’etica del giudice finisce per convertirsi nell’ etica del ragionamento giuridico e della sua razionalità.
Quanto alla domanda conclusiva, rispondo che ai giovani magistrati, che saranno verosimilmente chiamati con sempre maggiore frequenza ad affrontare questioni nuove in materie eticamente sensibili, alimentate dall’ inarrestabile evoluzione della medicina e dalle continue scoperte scientifiche, nonché dal continuo mutare del costume e della coscienza collettiva, è opportuno ricordare che a fronte delle nuove potenzialità dell’ interpretazione in un sistema così articolato e complesso è necessario mettere in campo una forte attenzione e un’ estrema cautela, nel rispetto di quel limite di legalità, di quella soglia ideale oltre la quale si sconfinerebbe nel soggettivismo e nell’ arbitrio.
Deve essere a tutti chiaro che attraverso l’interpretazione non si può fare tutto, non si può far dire ai testi normativi ciò che essi non intendono dire e che si oppone alla loro ratio, né si può utilizzare il metodo dell’interpretazione conforme come uno schermo per compiere una sostanziale manipolazione del disposto legislativo, anziché proporre le pertinenti questioni di costituzionalità.
Vorrei inoltre ricordare ai giovani colleghi che compito dei giudici non è quello di seguire o assecondare nuove mode o tendenze, che sono fenomeni effimeri, ma di comprendere e analizzare i cambiamenti sul piano culturale e sociale e di aver cura, nel dare risposta alle istanze dei cittadini che su tali cambiamenti si innestano, che le decisioni adottate costituiscano coerente sviluppo delle precedenti acquisizioni giurisprudenziali, atteso che ogni distonia può determinare effetti gravemente negativi sulla tenuta complessiva del sistema, come purtroppo di recente è avvenuto.
Tale impegno richiede a ciascuno un costante riferimento al valore dell’ indipendenza, sia all’ interno che all’ esterno dell’ ordine giudiziario: un valore che si acquisisce con la consapevolezza del ruolo e si alimenta con la pratica del quotidiano giudicare, che non costituisce un privilegio di casta, non è uno scudo che protegge dalle critiche, ma integra una garanzia essenziale per i cittadini.
Richiede ancora, come ha ricordato Gaetano Silvestri nel suo discorso di insediamento alla presidenza della SSM, la capacità di essere, al tempo stesso, fermo custode del sistema giuridico esistente e coraggioso costruttore di nuove strade giurisprudenziali. Richiede infine un continuo lavoro di affinamento della propria professionalità ed un aggiornamento costante sulle fonti, così da impersonare un modello di magistrato che sappia integrare preparazione, umanità e senso dell’istituzione.
[1] Così EPIDENDIO, in www.giudicedonna.it, 2019 n. 2-3.
[2] Sentenza n. 508 del 2000.
[3] V. in tal senso per tutte Cass. n. 23676 del 2008.
[4] Sul punto rinvio al volume di Marta Cartabia e Luciano Violante Giustizia e mito. Con Edipo, Antigone e Creonte.