ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Crisi della legge o crisi del giudice? Considerazioni a margine di un recente scritto di Tomaso Epidendio
di Antonello Cosentino
Sommario: 1. La crisi della soggezione del giudice alla legge. - 2. Legge e principio di legalità. - 3. La crisi del giudice. - 4. Le prospettive.
1. La crisi della soggezione del giudice alla legge.
In un recente articolo su questa Rivista Tomaso Epidendio[1] ha tracciato il profilo della progressiva decostruzione del modello di magistratura tratteggiato nella nostra Costituzione.
In tale articolo si analizzano, con indubbia acutezza, i fattori, interni ed esterni alla magistratura, che hanno concorso al dissolvimento del sogno dei Padri costituenti di una magistratura interclassista, costituita come un “ordine” non gerarchico, autonomo e indipendente da ogni altro “potere”, legittimato dalla soggezione “soltanto” alla legge.
Nella scia del vivace dibattito suscitato dalle dense riflessioni sviluppate in quell’articolo, vorrei soffermarmi sul primo dei fattori ivi indicati tra le cause della fine di quel sogno: la crisi della soggezione del giudice alla legge.
Secondo l’Autore, «il giudice è sempre meno il tecnico che effettua operazioni di “sussunzione” del fatto nella fattispecie descritta dalla norma ed è sempre più l’autore diretto di “bilanciamenti” di valori, attraverso i quali ricostruisce il senso e seleziona le disposizioni applicabili per garantire la soluzione che, in base alla sua “precomprensione” (convinzioni personali di varia natura), risulta più “giusta” nel caso concreto».
Il tema della relazione tra la posizione della norma da parte del legislatore e la sua interpretazione da parte del giudice è tra i più antichi, controversi ed arati.
Vorrei iniziare le mie riflessioni partendo dalla metafora - utilizzata da Maria Rosaria Ferrarese a chiusura del suo bel libro Diritto sconfinato - del diritto-ragno e diritto-ape[2]; in tale metafora[3] il diritto-ragno - tipico delle tradizioni dei moderni stati nazionali europei, caratterizzati dal monopolio statale del diritto - era quello che, al pari, appunto, di un ragno, «stava ben radicato sul suo territorio, era statico ed autopoietico, e la sua tela non ammetteva intrusioni da parte di elementi estranei»; il diritto-ape - tipico del mondo pre-moderno e riemergente, secondo molti studiosi, della presente fase storica – è invece - al pari, appunto, di un’ ape - «instancabile, sempre in movimento, che cerca di nutrirsi proprio di elementi diversi e che vive di contatti numerosi e variabili con altri mondi … un diritto che sembra non volersi privare dell'ironico pendolarismo tra il grande e il piccolo, il nobile e il vile, che consente di vedere la verità umana contemporanea nelle sue contraddizioni e nelle sue illusioni».
Ecco, a me pare che questa immagine sintetizzi bene la dialettica culturale di questi anni, anni nei quali il diritto perde sempre più vistosamente il suo collegamento con la legge e diventa sempre più simile all’ape che al ragno; anni nei quali la funzione legislativa, come il potere che in essa si esprime, sembra indebolirsi progressivamente, a fronte dell’ampliamento dello spazio riservato alla creatività, da un lato, della giurisprudenza, e d’altro lato, delle prassi mercantili, delle esperienze di soft law, dei protocolli organizzativi (e talvolta normativi) tra ceti professionali e, addirittura, tra ceti professionali e poteri pubblici. Basta pensare, per percepire quasi tangibilmente cosa significa creazione del diritto “dal basso”, alla stupefacente esperienza delle prassi interpretative condivise - prassi interpretative, si badi, non soltanto prassi organizzative - elaborate negli osservatori sulla giustizia civile sorti in tutta Italia dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso[4]. Su questo sfondo si parla di “diritto giurisprudenziale”, di “dottrina delle corti”, di “crisi della fattispecie normativa”, di “comunità interpretante”, di “tramonto del mito del legislatore onnipotente”, e così via[5].
Su tali problematiche, però, mi sembra necessario svolgere qualche considerazione più specifica.
Lo stato moderno, come chiarì Giovanni Tarello[6], nasce con il superamento del particolarismo giuridico, vale a dire con il duplice superamento, da un lato, della coesistenza di diverse autorità regolatrici nello stesso contesto e, d’altro lato, della coesistenza di regimi giuridici differenziati in ragione dell’autorità regolatrice, delle qualità personali del destinatario della regola, dello spazio e del tempo in cui la regola deve trovare applicazione[7] .
È l’esigenza di superare il particolarismo giuridico, conseguente all’evoluzione della società e dell’economia europea sviluppatasi tra il XVIII e il XIX secolo, che ha imposto la codificazione del diritto privato, vale a dire la sistematizzazione, razionalizzazione e omogeneizzazione delle regole che lo compongono. La codificazione era foriera di eguale trattamento dei consociati davanti alla legge: era il presupposto del principio di eguaglianza formale: “dallo status al contratto”, per dirla con Summer Maine.
Emmanuel de Las Cases, nel suo Memoriale di Sant’Elena, riporta una frase pronunciata da Napoleone nell’ esilio atlantico: “Appena il codice comparve fu tosto seguito come supplemento da commentarii, spiegazioni sviluppi e che so io ? Io era solito esclamare: Eh! Signori, noi abbiamo spazzato le stalle di Augia, per Dio, non lordiamole un'altra volta”.[8] La frase viene commentata da Renato Rordorf[9] con la considerazione che «Napoleone, dopo tutto, era pur sempre figlio di una stagione nella quale al pensiero dell’illuminismo era toccato il compito di sgomberare il campo da una selva di consuetudini e di ordinamenti di ceto la cui opacità aveva generato, sul piano applicativo, gli abusi più gravi, sicché facilmente si comprende la ragione per cui in quel torno di tempo l’esigenza di riaffermare il primato di una legge scritta, chiara e da tutti ben conoscibile, era assolutamente prioritaria (come non menzionare qui Cesare Beccaria; e si può allora anche comprendere la crudezza del paragone napoleonico tra lo sterco delle stalle e l’attività interpretativa dei primi commentatori del suo codice)».
Oggi difficilmente qualcuno potrebbe seriamente pensare di paragonare l’attività interpretativa allo sterco delle stalle di Augia. Perché l’epoca nostra - l’epoca della pos-modernità, per dirla con Paolo Grossi[10] - «ha sperimentato la caduta di molte tra le illusioni suscitate dalla stagione dell’illuminismo, o che vi hanno fatto seguito, e tra esse anche quella di un diritto positivo in grado di esprimere comandi sempre così chiari ed univoci da consentirne l’applicazione quasi meccanica ad opera di un giudice destinato a fungere da mera “bocca della legge”»[11].
Oggi è chiarissimo che il “calculemus” di Leibenitz[12] non può funzionare.
Stanno entrando in crisi, d’altra parte, entrambi i presupposti fondativi del diritto moderno, l’accentramento della produzione del diritto nello Stato nazionale e il principio di eguaglianza formale.
Sotto il primo profilo, è evidente che la produzione normativa non è più monopolio degli Stati nazionali, i quali devono ormai dividere (o contendere) la funzione di produzione del diritto con soggetti pubblici interni ai confini (si pensi, per esempio, agli enti territoriali o alle autorità amministrative indipendenti nazionali) o esterni ai confini (si pensi al diritto dell’Unione europea o al diritto convenzionale derivante da trattati internazionali, in alcuni casi presidiato da specifici organi giurisdizionali, come la CEDU); o addirittura con soggetti privati investiti di compiti di regolazione settoriale (si pensi, per esempio, al sistema delle norme Uni-Iso o ai principi contabili emanati dall’ Organismo italiano di contabilità).
Sotto il secondo profilo, il principio di eguaglianza formale patisce la crisi del “soggetto unico di diritto”; come è stato efficacemente rilevato[13] «si hanno regole per i “cittadini” e per i “non cittadini” (a loro volta distinti in cittadini Ue e cittadini non Ue); si hanno regole per i cittadini di una certa regione e altre regole per i cittadini di un’altra regione; si hanno regole per i “consumatori” e regole per i “professionisti”; regole per gli “uomini” e regole per le “donne”; e così via».
Stiamo tornando, insomma, dal contratto allo status.
La contemporaneità pone allora in questione direttamente il ruolo della legge e la sua capacità ordinante; e, specularmente, pone in questione il ruolo del giudice, che è chiamato a tradurre la lettera della legge in un comando rivolto ad un individuo e, dunque, a far camminare la legge con le gambe degli uomini.
È innegabile, infatti, che l’aumento quantitativo della produzione normativa, l’opacità derivante dallo scadimento qualitativo della fattura delle disposizioni (a volte conseguente alla consapevole scelta del legislatore di rimettere all’interprete l’individuazione del punto di caduta finale di processi di mediazione di interessi sociali non interamente risolti in sede politica), la pluralità di fonti nazionali e sovranazionali di livello diverso, la crescente diffusione di disposizioni che esprimono regole elastiche (clausole generali) e di disposizioni che non esprimono regole ma principi[14], finisce con il potenziare il ruolo dell’interprete e con il conferirgli una funzione che può addirittura apparire creativa (inventiva, secondo la formula di Paolo Grossi[15]). Siamo molto lontani, oggi, dalle condizioni di stabilità e chiarezza delle leggi sul cui presupposto Montesquieu invitava ad accostarsi alle stesse “con mano tremante”.[16]
Fin qui, la mia consonanza con la riflessione di Tomaso Epidendio è completa.
2. Legge e principio di legalità.
Tale riflessione, tuttavia, cessa di persuadermi là dove descrive «la lunga parabola, che parte dalla celebre Assemblea della ANM di Gardone, attraversa la stagione dei cd. “Pretori d’assalto”, per approdare poi alle metodiche ermeneutiche delle cd. interpretazioni “costituzionalmente orientate” e, successivamente, “convenzionalmente o comunitariamente orientate”» come un percorso al cui esito «il giudice finisce per risultare non più soggetto a nulla: inebriato da una libertà mai prima conosciuta, non si avvede di perdere inconsapevolmente la radice costituzionale della sua legittimazione giudicante e non sa prevedere che, prima o poi, la tendenza all’omeostasi del sistema gli avrebbe chiesto il conto, avrebbe individuato nuove forme di responsabilizzazione, così da mettere a rischio quell’autonomia e indipendenza che il costituente voleva garantita da una soggezione, che, ormai non solo più scientificamente, ma sempre di più anche nella pratica, si riconosce impossibile, quella alla legge».
Non mi sembra, infatti, che la crisi della legge possa farsi coincidere tout court con la crisi del principio di legalità.
Soccorre, mi pare, l’antichissima distinzione tra jura e leges[17], su cui ancora pochi giorni fa è tornato, con l’usuale acutezza, Aurelio Gentili nel suo intervento al convegno “Nell’Ottantesimo del Codice civile. Giurisprudenza e Dottrina a confronto”, svoltosi in Cassazione nei giorni 20 e 21 giugno 2022.
La crisi della legge non si identifica con la crisi del diritto.
Come ha chiarito lucidamente Luigi Ferrajoli[18], il principio di legalità è un principio formale, in duplice senso. In primo luogo, nel senso che la legge può avere qualunque contenuto (Piero Calamandrei scriveva che «nello stampo della legalità si può calare oro o piombo»[19]). In secondo luogo, nel senso che esso non allude necessariamente alla legge quale legge dello Stato; esso allude, piuttosto alla logica del diritto. «Fa riferimento alla legge nel senso di norma generale ed astratta che predispone effetti in presenza dei presupposti, quali che siano, da essa prestabiliti; garantisce la prevedibilità, sia pure relativa, di tali effetti e dei loro presupposti e, insieme, del giudizio su di essi»[20].
In sostanza, sottolinea Ferrajoli, non ha nessuna importanza che le norme generali ed astratte richieste dal principio di legalità siano leggi dello Stato, o leggi regionali, o regolamenti dell’Unione europea o trattati internazionali o anche norme consuetudinarie. Ciò che importa, ai fini del ruolo garantistico svolto dal principio di legalità, è la predeterminazione normativa in astratto e formalmente vincolante dei presupposti delle decisioni giudiziarie.
Se infatti è innegabile che l’interpretazione di un testo, di qualunque testo - giuridico, religioso, letterario - può spesso offrire risultati non univoci e che, in particolare, accade sovente che un testo normativo mostri la pluralità di significati che esso racchiude solo quando viene chiamato ad essere applicato ad una concreta situazione di vita, è però altrettanto innegabile che esiste un limite nelle possibilità espansive dell’interpretazione e tale limite è fissato dal testo della disposizione, che l’interprete non può infrangere. Tale limite è stato tenuto ben presente e ben fermo nella giurisprudenza elaborata dalla magistratura italiana, anche dopo Gardone. Le interpretazioni costituzionalmente orientate, convenzionalmente orientate, eurounitariamente orientate che rispettano tale limite non sono contra jus e nemmeno contra legem; quelle che non lo rispettano sono, semplicemente, interpretazioni sbagliate.
Su questo punto la giurisprudenza della Suprema Corte è nettissima. Il chiaro rifiuto di un dictum giudiziale che fuoriesca dalla proposizione prescrittiva espressa dall’enunciato è stato affermato molte volte: cito solo due pronunce, entrambe provenienti dalla Sezioni Unite civili: la sentenza n. 15144/11, dove si afferma che «Nel quadro degli equilibri costituzionali (ispirati al principio classico della divisione dei poteri) i giudici (estranei al circuito di produzione delle norme giuridiche) sono appunto (per disposto dell'art. 101, comma 2, Cost.), "soggetti alla legge". Il che realizza l'unico collegamento possibile, in uno Stato di diritto, tra il giudice, non elettivo né politicamente responsabile, e la sovranità popolare, di cui la legge, opera di parlamentari eletti dal popolo e politicamente responsabili, è l'espressione prima»; e la sentenza n. 24413/21 dove si afferma che «l'interpretazione giurisprudenziale non può che limitarsi a portare alla luce un significato precettivo (un comando, un divieto, un permesso) che è già interamente contenuto nel significante (l'insieme delle parole che compongono una disposizione, il carapace linguistico della norma) e che il giudice deve solo scoprire. L'attività interpretativa, quindi, non può superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell'enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell'inveramento della norma nella concretezza dell'ordinamento ad opera della giurisprudenza».
Ed allora, se la giurisprudenza di legittimità non teorizza in alcun modo una funzione creativa della giurisprudenza, il tema che oggi si pone a me pare essere, più che quello della crisi della soggezione del giudice alla legge, quello della caduta di fiducia dei cittadini nei confronti della magistratura[21]; in altri termini, il tema della crisi del giudice.
3. La crisi del giudice.
Il tema della crisi del giudice si declina sotto diversi profili; essi investono, tra l’altro:
- il modello ordinamentale, specialmente con riferimento all’appannamento del principio, fissato dall’articolo 107 Cost., per cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni; principio inverato nella storia della magistratura italiana grazie alla spinta culturale dell’Associazione Nazionale Magistrati, che nel congresso di Gardone del 1965 seppe cogliere il messaggio della Costituzione repubblicana con straordinaria lucidità e consapevolezza;
- il sistema dell’autogoverno, specialmente con riferimento ai meccanismi di valutazione dei magistrati, all’esercizio della discrezionalità nel conferimento di uffici direttivi e semidirettivi, alle prospettive della giustizia disciplinare;
- il ruolo costituzionale del giudice ordinario come giudice naturale dei diritti soggettivi, in un contesto normativo che rende sempre più complessa la ripartizione della giurisdizione tra i giudici ordinario, amministrativo e contabile e in un contesto politico e culturale che vede rilevanti settori delle classi dirigenti nazionali mettere in discussione il disegno costituzionale della «unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé» [22].
- da ultimo, ma non per ultimo, il senso e le prospettive dell’associazionismo giudiziario, per come esso si è evoluto nell’ultimo decennio, gradatamente appannando la propria capacità di elaborazione culturale ed appiattendosi su un ruolo di mera gestione del potere nel sistema dell’autogoverno, secondo un percorso per molti aspetti analogo a quello compiuto dai partiti politici italiani; pur consapevole del «gigantesco processo antropologico e sociale che vi è stato fra noi e la Carta scritta nel 1948»[23], io credo che a Gardone si debba ancora continuare a guardare (anzi, si debba tornare a guardare), perché, se è vero che (quasi) tutto è cambiato, dagli anni ’60, nella società italiana, mi pare altrettanto vero che le ragioni che impongono di presidiare il principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione con una magistratura disegnata come potere orizzontale non sono oggi meno forti di quanto lo fossero negli anni ’60.
Si tratta, evidentemente, di temi molto vasti, ognuno dei quali richiederebbe un approfondimento specifico. A me interessa sottolineare, in questa sede, la saldatura, ben messa in luce da Enrico Scoditti, tra indipendenza e responsabilità[24]: responsabilità, voglio aggiungere, multilivello: responsabilità del singolo magistrato, nel suo lavoro quotidiano (si tratti della conduzione di una udienza o dell’esame di un testimone o della redazione di una sentenza), così come nella sua attività associativa; responsabilità dell’ufficio nel suo complesso, nei rapporti con gli altri uffici, con l’avvocatura, con il territorio di riferimento; responsabilità del sistema dell’ autogoverno (che, sottolineo, non si risolve esclusivamente nel circuito CSM - Consigli giudiziari - Dirigenti degli uffici, ma coinvolge tutti i magistrati, perché ogni magistrato è titolare del dovere, prima che del diritto, di critica e di proposta) nell’esercizio della propria discrezionalità.
Un tema, tuttavia, mi pare che si imponga, prima di tutto e sopra tutto.
Io credo che la ricostruzione di un rapporto di fiducia, vorrei dire di una “connessione sentimentale”[25], tra la magistratura e la società italiana passi ineluttabilmente dal miglioramento del servizio reso ai cittadini, in termini di celerità di risposta, di capacità di ascolto, di accuratezza del lavoro giudiziario.
È nella quotidianità della vita giudiziaria che i magistrati si mostrano ai cittadini ed è lì, assai più che sui giornali e davanti ai dibattiti televisivi, che i cittadini si formano la loro opinione della magistratura. È lì che i cittadini possono sperimentare concretamente la fattiva presenza di un giudice che risponda tempestivamente alle loro domande. È decisivo, allora, affrontare il problema della durata dei processi, penali e civili.
Tale problema - che poi si risolve in quello del rapporto tra definizioni e sopravvenienze - è al centro del dibattito pubblico sulla giustizia da almeno trent’anni.
Esso è in parte legato a dati strutturali della società italiana; se si riflette su quanto pesano sull’amministrazione della giustizia le controversie in cui una delle parti è una pubblica amministrazione (basta pensare al contenzioso tributario e previdenziale) si coglie immediatamente come sul processo finiscano per scaricarsi anche molte inefficienze degli apparati amministrativi e come la magistratura italiana sia investita della gestione di tensioni nel rapporto tra mano pubblica e cittadini di cui le magistrature di altri Paesi a noi vicini non sono chiamate a farsi carico.
Al netto di tali profili strutturali, comunque - e per quanto più direttamente concerne l’amministrazione della giustizia, e, in particolare, l’amministrazione della giustizia civile - molto è stato fatto, non sempre utilmente, e molto c’è da fare.
Negli ultimi venti anni il legislatore è più volte intervenuto, nella materia civile, con iniziative volte sia a ridurre le sopravvenienze che ad aumentare la capacità del sistema di produrre decisioni.
Sotto il primo profilo, sono stati introdotti articolati meccanismi di mediazione, preventiva e successiva all’introduzione della lite, volti a favorire soluzioni stragiudiziali e, per altro verso, sono stati aumentati gli oneri fiscali del processo, rendendolo più costoso, in una prospettiva esplicitamente deflattiva (l’esempio più evidente è il raddoppio del contributo unificato in caso di rigetto dell’impugnazione[26]).
Sotto il secondo profilo, si è reiteratamente operato sul rito, irrigidendo preclusioni e termini e disciplinando le modalità redazionali degli atti, sia delle parti [27] che del giudice (si pensi ai rifermenti normativi alla concisione dei provvedimenti).
Questo insieme di interventi - che pure qualche risultato, in termini quantitativi, ha portato - non ha colto, a mio avviso, il cuore del problema ed ha recato non irrilevanti svantaggi di sistema.
Le limitazioni dell’accesso alla giustizia civile, sia sotto il profilo dell’incremento dell’onere economico imposto all’attore, sia sotto il profilo dell’introduzione di meccanismi di conciliazione limitativi della procedibilità, ha evidentemente un costo in termini di riduzione di tutele; un costo che mi sembra più allarmante in relazione al primo profilo, perché inequivocabilmente censitario.[28]
Gli interventi effettuati sul processo, per contro, sembrano perdere di vista che la disciplina processuale non è funzionale al tempo del processo ma alla qualità del medesimo. Essa deve, cioè, modellare un processo idoneo a pervenire a risultati di giustizia, ossia a produrre una decisione fondata sull’esatta interpretazione della legge applicata a fatti ricostruiti nel rispetto del contraddittorio delle parti secondo modalità che favoriscano la massima possibile approssimazione della verità processuale alla verità storica. Il tempo del processo è una variabile indipendente rispetto al rito.
Anche le esortazioni del legislatore alla brevità degli atti, sia delle parti che del giudice, non mi paiono congruenti al fine di ridurre la lunghezza dei processi. Non è in dubbio che la sinteticità sia un pregio: gli atti devono essere sintetici perché la sinteticità favorisce la chiarezza. Ma la sinteticità - o, per meglio dire, la diffusione generalizzata tra gli avvocati e i magistrati di uno stile di redazione dei rispettivi atti caratterizzato da sinteticità ed asciuttezza - non si impone per legge: è una conquista che richiede un lavoro culturale di lunga lena, che deve iniziare nelle università, proseguire nelle scuole di formazione, consolidarsi con l’esempio dei colleghi più anziani e nella pratica quotidiana. La regola di chi scrive di diritto, atti defensionali o sentenze, è quella di esporre, secondo l’aurea formula cartesiana, idee “chiare e distinte”, dicendo tutto quello che serve e solo quello che serve[29]; ma l’applicazione di tale regola è funzionale a farsi capire, non a ridurre i tempi dei processi.
4. Le prospettive.
Il problema di oggi, dunque, è quello di ricostruire il rapporto di fiducia tra la magistratura e la società italiana e, come ho sopra accennato, tale opera di ricostruzione passa imprescindibilmente dal potenziamento della capacità del sistema giudiziario di tutelare tempestivamente i diritti dei cittadini. Non è solo, va sottolineato, un problema di quantità: è anche, forse soprattutto, un problema di qualità. Le decisioni frettolose, le decisioni che comprimono ingiustificatamente l’istruttoria, quelle che non si confrontano con le argomentazioni delle parti, quelle che trascurano i precedenti giurisprudenziali, non definiscono un procedimento; si limitano a trasferirlo davanti al giudice dell’impugnazione. Da qui la necessità che i programmi che gli uffici sono chiamati a predisporre per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza non si risolvano in una rincorsa a spazzare in qualunque modo le scrivanie, ma valorizzino l’esigenza che le controversie, civili e penali, siano definite con pronunce che - sia che provengano da magistrati togati, sia che provengano da magistrati onorari – abbiano una tenuta che le renda sufficientemente accettate dalla comunità e, quindi, non vengano impugnate oltre le percentuali fisiologiche.
Per migliorare la risposta del sistema alle domande di giustizia provenienti dalla società mi pare che si debba puntare sulla realizzazione di tre convergenti obiettivi:
-aumentare il numero dei magistrati in operatività, coprendo interamente gli organici ampliati dal Ministero in attuazione delle disposizioni contenute nella legge 30.12.2018 n. 145 e, ovviamente, facendo corrispondere all’aumento dei magistrati in servizio un corrispondete aumento del personale amministrativo;
- aumentare la capacità di lavoro dei giudici, sollevandoli dall’ onere di attività che sottraggono tempo e possono essere svolte da persone dotate di profili professionali meno sofisticati (e meno retribuiti);
- aumentare la prevedibilità degli esiti delle controversie, mettendo la Corte di cassazione in condizione di svolgere con celerità la sua funzione di nomofilachia e, quindi, di offrire agli operatori un quadro interpretativo stabile.
Mi soffermo brevemente su ciascuno di tali punti.
Quanto al primo, le difficoltà mostrate dal tradizionale meccanismo del concorso in magistratura nel selezionare un numero di nuovi magistrati corrispondente ai posti messi a bando dimostra, a mio avviso, la necessità di ripensare a fondo il meccanismo di accesso alla magistratura. È certamente positiva l’innovazione introdotta dalla riforma Cartabia che consente la partecipazione al concorso con la semplice laurea. Ma, probabilmente, è il momento di cominciare a riflettere sulla possibilità di coinvolgere maggiormente la Scuola Superiore della Magistratura sia nella formazione dei laureati nella fase precedente al concorso, sia nello stesso meccanismo di selezione degli aspiranti magistrati, ragionando su modelli di “corso-concorso” utilizzati per altre pubbliche amministrazioni[30].
Quanto al secondo punto, ritengo realmente felice, e potenzialmente decisiva, l’innovazione dell’Ufficio per il processo. Pur con i limiti legati alla temporaneità del rapporto di lavoro degli addetti, alla carenza di spazi negli uffici, alle difficoltà della formazione dei nuovi assunti, l’Ufficio del processo rappresenta, tuttavia, una grandissima opportunità, che la magistratura non deve farsi sfuggire. Esso è la concretizzazione di un progetto al quale alcuni magistrati, con la fattiva collaborazione di una parte dell’avvocatura (penso, nuovamente, agli osservatori sulla giustizia civile) hanno cominciato a lavorare una ventina di anni fa, con i primi tirocinanti negli uffici giudiziari; un progetto (all’inizio si chiamava ufficio del giudice) che prendeva le mosse dalla considerazione dell’inadeguatezza di una organizzazione del lavoro che non prevedeva alcuno staff di supporto per il giudice. Il profilo più interessante di quei primi esprimenti fu che ai tirocinanti venivano affidate funzioni miste, in parte riconducibili a quelle di un “assistente di studio” (ricerche giurisprudenziali, redazione bozze), in parte tipiche del personale amministrativo (verbalizzazione delle attività di udienza, scarico dei ruoli); da qui la ridenominazione (che esprimeva un programma preciso) da “ufficio del giudice” ad “ufficio del processo”. Oggi l’ufficio del processo è una realtà che non solo può alleggerire il magistrato di taluni incombenti - liberando spazi da destinare allo studio, all’aggiornamento giurisprudenziale e, in ultima analisi, alla qualità del prodotto giurisprudenziale - ma che, in sinergia con l’informatizzazione del processo, può essere valorizzata per incidere in profondità sull’organizzazione del lavoro giudiziario, trasformando la pronuncia giudiziaria nel frutto del lavoro, non più di un singolo, ma di una équipe di cui il magistrato è il direttore.[31]
Quanto al terzo punto, va ribadito con la massima energia che l’efficienza della Cassazione è decisiva ai fini del funzionamento di tutti gli uffici giudiziari. Perché, se la nomofilachia funziona bene, cioè se la Cassazione è in grado di offrire interpretazioni delle leggi chiare e stabili e riesce ad intervenire rapidamente nella risoluzione delle questioni nuove che via via si presentano, i giudici di merito possono risolvere i casi al loro esame in maniera sicura ed uniforme. Ciò, per un verso, invera il principio costituzionale di eguaglianza, in quanto assicura che lo stesso caso sia deciso secondo la stessa regola di diritto davanti a tutti gli uffici giudiziari d’Italia, e, per altro verso, favorisce la graduale riduzione del contenzioso, conseguentemente abbreviando i tempi di definizione dei processi; se la questione di diritto è chiara, infatti, è più facile per le parti misurare la concreta convenienza di una controversia.
Sulla funzione di nomofilachia, tuttavia, è necessaria una puntualizzazione.
Tale funzione è attribuita dalla legge - e, precisamente, dall’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario - alla Corte di cassazione, dinanzi alla quale il Pubblico Ministero conclude nell’interesse della legge. Ma nessuno oggi potrebbe ragionevolmente immaginare la nomofilachia come “ordine” di conformità che discende dal vertice e, certamente, ha ragione Giovanni Canzio, quando scrive che «dobbiamo guardarci da una nomofilachia verticale, riservata alla Corte di cassazione e declinata in senso gerarchico» e sottolinea che «la nomofilachia moderna non può essere che “orizzontale”, “circolare” e “cetuale”»[32]. Proprio l’esperienza, già sopra evocata, degli osservatori sulla giustizia civile, del resto, dimostra che la ricerca di prassi - non solo organizzative, ma anche interpretative - condivise tra giudici e avvocati costituisce una fortissima leva di miglioramento dell’amministrazione della giustizia, con particolare riguardo al profilo della prevedibilità delle decisioni. Anche alla luce di quella esperienza è evidente che oggi la nomofilachia non può essere intesa che come sintesi ed espressione di cultura e valori condivisi, come processo che coinvolge circolarmente la dottrina, l’avvocatura, i giudici di merito, i giudici speciali, le Corti sovranazionali[33]. Le Sezioni Unite – come esse stesse ci hanno spiegato nella sentenza n. 24414/21, «non sono sole» e la loro opera di nomofilachia «è un farsi, un divenire che si avvale dell'apporto dei giudici del merito e delle riflessioni del Collegio della Sezione rimettente, dell'opera di studio e di ricerca del Massimario, degli approfondimenti scientifici e culturali offerti dagli incontri di studio organizzati dalla Formazione decentrata presso la Corte, delle sollecitazioni e degli stimoli, espressione di ius litigatoris, derivanti dalle difese delle parti e del contributo, ispirato alla salvaguardia del pubblico interesse attraverso il prisma dello ius constitutionis, del pubblico ministero. Le Sezioni Unite sono dunque inserite in un contesto di confronto, di dialogo e di contraddittorio tra le parti, che consente alla Corte di legittimità di svolgere il suo ruolo con quella prudenza "mite" che rappresenta un connotato del mestiere del giudice».
Si tratta, all’evidenza, di un’attività che richiede studio, riflessione, dialogo e, quindi, postula condizioni operative difficilmente conciliabili con i numeri dei procedimenti che annualmente vengono iscritti davanti alla Corte di legittimità italiana.
Il tema del sovraccarico della Corte di cassazione è troppo noto per aver bisogno di essere illustrato. Tra le varie ipotesi affacciatesi nel dibattito pubblico per affrontare tale tema (rimodulazione del principio costituzionale della impugnabilità per cassazione di tutte le sentenze, eliminazione o riduzione del controllo della Cassazione sull’accertamento di fatto svolto dal giudice di merito, contingentamento e specializzazione degli avvocati abilitati al patrocinio in sede di legittimità) il legislatore ha scelto, per quanto concerne il civile, la strada della distinzione tra i procedimenti con valenza nomofilattica e quelli privi di tale valenza, con la cameralizzazione del giudizio relativo a questi ultimi; ciò, evidentemente, sull’implicito presupposto che la cameralizzazione riduca il tempo di lavoro necessario per la trattazione del procedimento e, quindi, consenta di destinare quel tempo all’incremento del numero dei procedimenti trattati.
In questa sede non è evidentemente possibile nemmeno accennare ai termini del problema. Quello che è certo, tuttavia, è che, proprio nel quadro della vasta e complessa azione riformatrice portata avanti dall’attuale Governo in materia di giustizia, appare non più differibile un serio esame della “questione Cassazione”, con un’assunzione di responsabilità collettiva che coinvolga l’intera magistratura – a partire dal suo organo di autogoverno - l’avvocatura, il modo accademico ed il mondo politico.
[1] Tomaso Epidendio, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, in questa Rivista, 24 maggio 2022.
[2] Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, 2006, si veda cap. V, § 10.
[3] L’immagine che identifica le api con gli antichi e i ragni con i moderni - riferita non specificamente al diritto, bensì alla cultura in generale - risale a Jonathan Swift, che la usa nel suo La battaglia dei libri, ed è stata vigorosamente rilanciata da Marc Fumaroli in Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, Adelphi, 2005.
[4] Sulle implicazioni di sistema dell’esperienza degli osservatori sulla giustizia civile, resta sempre centrale R. Caponi, L’attività degli osservatori sulla giustizia civile nel sistema delle fonti del diritto, in Foro It. 2007, V, col. 7.
[5] In questi termini, R. Rordorf, Editoriale del numero monografico Il giudice e la legge di Questione Giustizia (trimestrale) , 4/2016 , pag. 3.
[6] G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto. Il Mulino, Bologna, 1976.
[7] Così A. Natale, Introduzione al numero monografico Il giudice e la legge di Questione Giustizia (trimestrale) , 4/2016 , pag. 6.
[8] E. de Las Cases, Memoriale di Sant’Elena, Milano, Tipografia Editrice Verri, s.d., vol. II, pag. 217.
[9] Op. cit. pag. 4
[10] P. Grossi, Percorsi nel giuridico pos-moderno, Editoriale Scientifica, 2017.
[11] Così, ancora, R. Rordorf, op. loc. cit.
[12]Il riferimento è, ovviamente, alla Dissertatio de arte combinatoria, 1666. «Secondo ciò, quando sorga una controversia, non ci sarà più necessità di discussione tra due filosofi di quella che c’è tra due calcolatori. Sarà sufficiente prendere una penna, sedersi al tavolo e dirsi l’un l’altro: calcoliamo!» (la citazione è tratta da L. Catalani, “Calculemus!”: il sogno di Leibniz, https://medium.com/@luigicatalani/calculemus-il-sogno-di-leibniz-196b11a55766)
[13] A. Natale, op. cit., pag. 7
[14] Sull’aumento di incertezza indotto dall’operare dei principi al livello dell’interpretazione, sono preziose le brevi ma dense considerazioni di A. Proto Pisani, Brevi note in tema di regole e principi, Foro It., 2015, V, col. 455 e segg.
[15] Cfr. P. Grossi, L’invenzione del diritto, Laterza, 2017
[16] Per Montesquieu «È vero che talvolta occorre cambiare qualche legge. Ma il caso è raro; e quando avviene, bisogna ritoccarle con mano tremante: con tanta solennità e con tante precauzioni che il popolo debba concluderne che le leggi sono veramente sante; e soprattutto con tanta chiarezza che nessuno possa dire di non averle capite» (Lettere Persiane, lettera LXXVI).
[17] Sul tema, M. Donini, Iura et Leges. Perché la legge non esiste senza il diritto, in Sistema Penale, 20.12.2019, http://www.antoniocasella.eu/archica/Donini_iura.et.leges_20dic19.pdf
[18] L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, nel numero monografico Il giudice e la legge di Questione Giustizia (trimestrale) , 4/2016 , pagg. 13 e segg., da cui traggo le considerazioni svolte nel testo.
[19] P. Calamandrei, Prefazione a C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Le Monnier, 1945; la citazione è tratta da L. Ferrajoli, op. cit. pag. 23
[20] L. Ferrajoli, loc. ult. cit.
[21]In G. De Amicis, Per l’alto mare aperto…: la Magistratura tra sogni spezzati e nuove speranze, in questa Rivista, 25.6.22., si dà conto degli esiti di una indagine dell’Eurispes da cui emerge che solo l’8% dei cittadini ritiene che il settore giustizia funzioni bene, mentre più del 65% non serba fiducia nel sistema giudiziario.
[22] Così C. Mortati, nei lavori dell’Assemblea costituente (seduta pomeridiana del 27 novembre 1947), citato nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, par. 2.2. Quanto al menzionato contesto politico e culturale, mi riferisco ai progetti germogliati negli ultimi anni per modificare la composizione dei collegi e le funzioni delle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione; penso al “Memorandum sulle tre giurisdizioni” presentato il 15 maggio 2017 al Presidente della Repubblica, su cui A. Travi, Rapporti fra le giurisdizioni e interpretazione della Costituzione. Osservazioni sul Memorandum dei presidenti delle tre giurisdizioni superiori, in Foro it. 2018, V, 109, nonché, volendo, A. Cosentino, Brevi considerazioni a proposito del Memorandum sulle giurisdizioni, ivi, col. 117; penso al “Tribunale superiore dei conflitti”, oggetto di una proposta di legge presentata alla Camera il 22 maggio 2018, su cui F. De Stefano, I discutibili presupposti del Tribunale dei conflitti, in Questione Giustizia on line, 30.5.2019, nonché, volendo, A. Cosentino, Note critiche sull'ipotizzato tribunale superiore dei conflitti, in questa Rivista 27.2.2019; penso all’”Alta Corte”, oggetto di un disegno di legge costituzionale presentato al Senato il 28 ottobre 2021, su cui l’intervista di P. Filippi e R. Conti a A. Rossomando, in questa Rivista 5.2.2022, nonché, volendo, A. Cosentino, L'Alta Corte. È davvero una buona idea? in Questione Giustizia on line, 25.3.2022.
[23] Così E. Scoditti, L’ora della responsabilità per la magistratura, in Questione Giustizia on line, 17.6.2022.
[24] E. Scoditti, op. cit., dove si legge: «Non c’è indipendenza senza responsabilità, e non c’è responsabilità senza indipendenza: l’una è l’altra faccia dell’altra. La responsabilità non è un principio concorrente con quello di indipendenza, ma ne è il rovescio. Non è un limite dell’indipendenza, ma il suo contenuto. Il giudice per davvero responsabile, che è consapevole del dovere di rendere conto del proprio operato, è quello in grado di assumere il dovere di indipendenza da se stesso»
[25] La formula è di Gramsci: «non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio». A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Tomo II (Q. XVIII), p. 1505.
[26] Introdotto dall’articolo 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012 n. 228 (Legge di stabilità 2013).
[27] Paradigmatico è l’art. 13 ter del codice del processo amministrativo, alla cui stregua «le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato» e, conseguentemente, «L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione.»
[28] Quanto all’enfasi posta dal legislatore sui meccanismi di definizione conciliativa della lite, una valutazione molto critica si legge in G. Scarselli, Osservazioni sul disegno di legge delega di riforma del processo civile, in questa Rivista 27.10.2021
[29] Nel recente convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialoghi a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro” organizzato da Area DG presso la Corte di cassazione lo scorso 8 giugno 2022, il Primo Presidente della Corte di cassazione, Piero Curzio, discorrendo delle sentenze, specialmente di legittimità, inutilmente prolisse, ha icasticamente indicato i tre vizi capitali da cui deve rifuggire l’estensore di una sentenza in quelli della incompetenza, del narcisismo e del carrierismo.
[30] In Francia, all'esito del tirocinio presso l’École Nationale de la Magistrature, è prevista una valutazione finale che «può avere quattro decisioni: 1) attitudine a tutte le funzioni giudiziarie; 2) Non idoneità; 3) Previsione di un ulteriore anno di stage in uffici giudiziari;4) raccomandazioni in ordine a specifiche funzioni. Rarissima la dichiarazione di inidoneità (negli ultimi corsi l’1%), più frequente il rinnovo dello stage in giurisdizione» (così M.G. Civinini ed E. Bruti Liberati, La formazione iniziale dei magistrati. Analisi di una esperienza e una proposta, in
in Questione Giustizia on line, 28.4.2021.
[31] in M.G. Civinini, Il "nuovo ufficio per il processo" tra riforma della giustizia e PNRR. Che sia la volta buona!, in Questione Giustizia on line, 28.4.2021, si legge la seguente, persuasiva, considerazione: «Si passa da una modalità fieramente individuale e artigianale a una modalità organizzata e collettiva che esalta la funzione del giudicare mentre rende più efficiente il sistema».
[32] G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Diritto Pubblico, 2017, 25.
[33] Sul tema, si veda l’ampia analisi di R.Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista 4.3.2021. Si veda anche F. De Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in questa Rivista 3.3.2021, nonché A. Scarpa, Nomofilachia codificata e supremazia dei precedenti, in questa Rivista 23.2.2021.
Giurisdizione esclusiva nella materia del bilancio: il giudice amministrativo ne riconosce l’esistenza e la riserva costituzionale in favore della Corte dei conti (nota a TAR Lombardia, sez. I, n. 1088 dell’11.5.2022)
di Marco Calaresu
Sommario: 1. Premessa – 2. La riforma della disciplina sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali e i correttivi apportati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 39/2014. – 3. La disciplina transitoria per l’anno 2012 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 130/2014 - 4. Altre significative pronunce della Corte Costituzionale in tema di rendiconti dei gruppi consiliari regionali – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa.
La sentenza in commento trae origine dall’impugnazione, da parte di un gruppo consiliare della Regione Lombardia, del provvedimento dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale, e di tutti gli altri atti ad esso presupposti, che ha imposto al ricorrente la restituzione delle spese irregolarmente sostenute, e non ancora restituite, nell’anno 2012.
Il Collegio dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, confermando le proprie precedenti pronunce adottate sui ricorsi proposti da altri gruppi consiliari della Lombardia anch’essi destinatari di atti di accertamento di irregolarità nell’attività di rendicontazione riferita al 2012[1].
L’elemento di novità della pronuncia in esame, come si avrà modo di meglio illustrare nel prosieguo, risiede nelle argomentazioni che il TAR esprime al fine di ricondurre il procedimento del controllo esterno sul bilancio regionale nel perimetro della giurisdizione esclusiva costituzionalmente devoluta alla cognizione del giudice contabile.
Ai fini dell’inquadramento della vicenda in esame, occorre premettere che nel 2012 il legislatore nazionale ha introdotto, nell’ambito delle misure di rafforzamento della partecipazione della Corte dei conti al controllo sulla gestione finanziaria delle Regioni, una serie di norme che hanno profondamente modificato la disciplina del rendiconto di esercizio annuale dei gruppi consiliari e attribuito alla Corte dei conti il controllo sulla regolarità degli stessi[2].
Tuttavia, l’omessa previsione di una disciplina transitoria ha generato dubbi e criticità in ordine all’applicabilità, o meno, delle nuove regole anche ai rendiconti relativi all’esercizio finanziario del 2012.
In tale contesto, la Regione Lombardia ha introdotto un regime transitorio, disciplinato all’art. 10, comma 1, lettera j), della l.r. 24 dicembre 2013, n. 19[3], in forza del quale l'Ufficio di Presidenza regionale assegnava ai presidenti dei gruppi consiliari il termine di sessanta giorni per la presentazione, al collegio dei revisori, di una relazione, contenente le valutazioni sul rendiconto delle risorse assegnate al gruppo per l’anno 2012. Su tale relazione il collegio dei revisori esprimeva le proprie valutazioni che venivano formalizzate in una nota trasmessa all'Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale. È opportuno precisare sin d’ora che il descritto regime transitorio recepiva gli indirizzi espressi nella deliberazione della Sezione Autonomie della Corte dei conti n. 15 del 5 luglio 2013[4], poi annullata, per difetto di attribuzione, dalla Corte Costituzionale[5].
Il Consiglio Regionale della Lombardia nel costituirsi in giudizio ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sul presupposto che la controversia attiene alla materia del controllo di regolarità dei rendiconti dei gruppi consiliari, devoluta, ai sensi dell’art. 1, co. 12, del d.l. 174/2012[6] [successivamente recepito nell’articolo 11, co. 6, lett. d) del Codice di giustizia contabile[7]], alla giurisdizione esclusiva delle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione della Corte dei conti.
Il TAR Lombardia, allineandosi a propri precedenti pronunciamenti[8], ha accolto l’eccezione di cui sopra e, per l’effetto, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Il Collegio nel fondare la propria decisione richiama alcuni passaggi della sentenza della Corte Costituzionale n. 39 del 2014[9] che, come noto, ha esaminato le questioni di legittimità costituzionale (sollevate dalle Regioni Autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna e dalla Provincia Automa di Trento) relative, tra l’altro, alle disposizioni normative contenute all’art. 1, co. 9, 10, 11 e 12, del d.l. 174/2012 recanti la disciplina del procedimento di controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali.
In primo luogo, il TAR afferma che: “con sentenza del 6 marzo 2014, n. 39, la Corte costituzionale ha affermato che l’intervento normativo del codice di giustizia contabile deve ritenersi meramente ricognitivo di un riparto di giurisdizione già desumibile dall’assetto ordinamentale e, in particolare, dall’articolo 1, comma 12, del decreto legge 10 ottobre 2012, n. 174, così come modificato dall’articolo 33, comma 2, lettera a), del decreto legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito con modificazioni nella legge 11 agosto 2014, n. 116, e dagli ordinari criteri di riparto della giurisdizione contenuti negli articoli 24 e 103 della Costituzione”.
La suddetta affermazione del TAR deve essere però contestualizzata, in considerazione dell’assenza, nel testo della sentenza n. 39/2014, di un richiamo, e/o di un riferimento espresso, all’intervento normativo del Codice di giustizia contabile che, come noto, è intervenuto con il D.lgs. 174/2016 e, dunque, in epoca successiva all’emanazione della citata pronuncia della Consulta. Inoltre, appare preferibile, la ricostruzione proposta in un precedente pronunciamento della medesima sezione del TAR Lombardia, secondo cui l’intervento legislativo di cui all’art. 1, co. 12, del d.l. 174/2012 [come novellato dall’art. 33, co. 2, lett. a) del d.l. 91/2014] - che attribuisce alle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione della Corte dei conti la giurisdizione sulle deliberazioni delle Sezioni regionali di controllo – non assume “portata innovativa” in quanto la già citata sentenza n. 39/2014 aveva riconosciuto la possibilità di ricorrere, avverso le suddette deliberazioni, attraverso gli “ordinari strumenti di tutela giurisdizionale previsti dall’ordinamento in base alle fondamentali garanzie costituzionali previste dagli artt. 24 e 113 Cost.”[10].
In un successivo passaggio, il TAR Lombardia afferma che: “Come evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 15 maggio 2014 e dal costante orientamento di questo Tribunale (…) deve ritenersi che, anche anteriormente all’entrata in vigore della novella dell’articolo 1, comma 12, del decreto legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni nella legge 11 agosto 2014, n. 116, e successive modificazioni, il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali fosse direttamente riconducibile alla materia della contabilità pubblica, ai sensi dell’articolo 103, comma 2, della Costituzione”. Il Collegio precisa ulteriormente che “il controllo sui rendiconti delle spese effettuate dai gruppi consiliari regionali si inscrive infatti all’interno del procedimento del controllo esterno del bilancio regionale e si concretizza nella verificazione della conformità tra la destinazione dei fondi ed il loro effettivo utilizzo”.
Anche le indicate affermazioni richiedono qualche ulteriore precisazione al fine di rispettare il dettato della più volte citata sentenza n. 39/2014. Invero, come correttamente rilevato nei richiamati precedenti pronunciamenti della sezione[11], è sulla base dell’affermazione contenuta nella sentenza n. 39/2014 - secondo cui “Il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regionale” – che è possibile desumere che già prima dell’entrata in vigore della previsione di cui all’art. 1, co. 12, del d.l. 174/2012, il controllo esercitato dalla Corte dei Conti fosse “direttamente riconducibile alla materia «contabilità pubblica» e, dunque, ascrivibile alla giurisdizione della Corte dei Conti, a norma dell’art. 103, secondo comma, Cost.”.
In questa fase dell’iter logico-argomentativo sviluppato dal TAR Lombardia si innesta l’affermazione secondo cui “a prescindere dall’interpositio legislatoris, il procedimento del controllo esterno sul bilancio regionale deve essere attribuito alla giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti, in quanto rientra nel perimetro della materia della contabilità pubblica, la quale è irrelata alla qualificazione della situazione soggettiva come interesse legittimo. Come già affermato da questo Tribunale, l’interesse legittimo non è da solo sufficiente a fondare la giurisdizione del giudice amministrativo”.
L’affermazione in esame introduce un elemento di novità rispetto alle argomentazioni prospettate nei richiamati precedenti della sezione, ed è certamente rappresentativa della maggiore sensibilità del giudice amministrativo rispetto al tema della giurisdizione esclusiva della Corte dei conti nella materia della contabilità pubblica.
Il TAR Lombardia, evidentemente aderendo ai più recenti approdi della giurisprudenza contabile[12], riconosce che l’attività di controllo sui bilanci pubblici è parte integrante del nucleo concettuale in cui si sostanzia la materia della contabilità pubblica devoluta, per espressa previsione costituzionale, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a prescindere dalla interpositio legislatoris.
Le indicate conclusioni assumono un valore particolarmente significativo e sono dense di conseguenze sul piano pratico anche alla luce del fatto che si innestano in un momento storico in cui il tema dei confini del riparto di giurisdizione tra il giudice amministrativo e quello contabile è al centro di un dibattito che ha visto contrapporsi due visioni diametralmente opposte rispettivamente rivendicate dal giudice amministrativo e da quello contabile.
Alla base di tali opposte ricostruzioni si collocano le complesse e articolate vicende che hanno interessato il bilancio di un Comune abruzzese[13]. In questa sede, non potendo analizzare compiutamente i molteplici risvolti della vicenda de qua, è sufficiente evidenziare che in seguito all’adozione della delibera comunale di dichiarazione del dissesto, un gruppo di consiglieri comunali proponeva ricorso al TAR avverso la suddetta deliberazione. Contestualmente, i ricorrenti agivano innanzi alle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione della Corte dei conti avverso le pronunce con le quali la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti aveva, da un lato, disposto l’adozione di misure correttive ai sensi dell’art. 148-bis TUEL e, dall’altro lato, accertato la violazione del termine perentorio fissato dalla legge per l’approvazione del piano di riequilibrio finanziario pluriennale.
In entrambi i gradi di giudizio il giudice amministrativo ha rigettato l’eccezione sul difetto di giurisdizione, prospettata dal Comune. In particolare, ad avviso del Consiglio di Stato, gli assunti alla base dell’opinione secondo cui il riconoscimento della giurisdizione piena ed esclusiva della Corte dei conti sarebbe confermata dall’evoluzione normativa (a partire dal d.l. 174/2012) che manifesta non già una mera interpositio legislatoris bensì “un vero e proprio rinvio diretto della norma ordinaria all’art. 103, secondo comma, della Costituzione”, dovrebbero essere ridimensionati alla luce delle posizioni espresse dalle SS.UU. della Corte di Cassazione che avrebbero ricondotto la giurisdizione contabile “pur sempre nel quadro dello stretto collegamento fra le funzioni di controllo e quelle giurisdizionali della Corte dei conti, e dunque in relazione all’impugnazione delle delibere adottate dalle Sezioni regionali di controllo nei diversi ambiti di loro competenza, ivi inclusa la parificazione dei rendiconti regionali”[14].
Le Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione della Corte dei conti sono invece pervenute a conclusioni diametralmente opposte alla luce di un’analitica e sistematica ricostruzione della giurisprudenza costituzionale[15].
In tale occasione il giudice contabile ha innanzitutto evidenziato che la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che “la Corte dei conti è, in senso più ampio, il giudice naturale delle controversie nelle “materie” di contabilità pubblica, per le quali l’afferenza al suo ambito di cognizione si determina sulla base di due elementi: quello della natura pubblica dell'ente (Stato, Regioni, altri enti locali e amministrazione pubblica in genere, oggi individuabili in modo economico-funzionale, tramite i criteri forniti dal SEC 2010) e nell'elemento oggettivo che riguarda la qualificazione pubblica del denaro e del bene oggetto della gestione (Corte Costituzionale sentt. n. 17/85; n. 189/84; n. 241/84; n. 102/77)”.
Inoltre, precisano ancora le Sezioni Riunite, con la sentenza n. 60/2013 la Corte Costituzionale ha chiarito che “la funzione di controllo, intesa nello stretto senso del sindacato neutrale di legittimità sul bilancio, non può essere attribuita ad autorità diverse della Corte dei conti, in quanto organo dello Stato-ordinamento (punto 4 cons. in diritto). Poiché la Corte dei conti è anche il giudice naturale precostituito per legge in materia di contabilità pubblica (art. 25 Cost.), questa riserva di cognizione vale tanto nei confronti delle pubbliche amministrazioni, che non possono surrogare l’attività di controllo della Corte, quanto verso le altre giurisdizioni, che non possono alterare il riparto di giurisdizione previsto dalla Costituzione (art. 102 Cost.; art. VI disp. trans.; nonché artt. 113 e 103 Cost.), surrogando il controllo che spetta alla Corte dei conti e sindacandone in sede giurisdizionale l’esito”.
Alla luce di quanto sopra esposto, le Sezioni Riunite definiscono la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in materia di bilancio nei termini di una “giurisdizione integrata, esclusiva e per “blocco” di materia”, cui consegue che “il riparto di giurisdizione con le altre magistrature non si svolge sul crinale della natura della situazione giuridica sottostante, in base alla “dicotomia diritti soggettivi interessi legittimi”, (C. cost. sentenza n. 204/2004), collegata ad una manifestazione illegittima del potere amministrativo (C. cost. sentenza. n. 191/2006), né in base all’autorità o potere che ha emesso l’atto impugnato (autorità amministrativa o sezione regionale di controllo), ma opera sulla decisiva individuazione dell’ambito normativo perimetrato, identificabile come “materia” di contabilità pubblica”.
2. La riforma della disciplina sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali e i correttivi apportati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 39/2014.
Come sopra accennato, le norme contenute all’art. 1, co. 9, 10, 11 e 12, del d.l. 174/2012 hanno ridisegnato il sistema di rendicontazione e verifica delle spese sostenute dai gruppi consiliari regionali, prevedendo, altresì, le conseguenze nei casi di omessa presentazione e di accertamento di irregolarità.
A seguito della proposizione dei ricorsi da parte delle Regioni Sardegna e Friuli Venezia Giulia e dalla Provincia Autonoma di Trento, la Corte Costituzionale ha scrutinato, tra le altre, le sopra richiamate norme ed è giunta all’adozione della sopra richiamata sentenza n. 39/2014 con la quale ha fatto salvo l’impianto complessivo delineato dal legislatore del 2012, fatta eccezione per alcuni frammenti normativi colpiti dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale[16].
Nel dettaglio, il co. 9 prevede che ciascun gruppo consiliare è chiamato ad approvare un rendiconto di esercizio annuale, strutturato secondo le “linee-guida” (deliberate in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio) al fine di “assicurare la corretta rilevazione dei fatti di gestione e la regolare tenuta della contabilità, nonché per definire la documentazione necessaria a corredo del rendiconto”. Il co. 9 in precisa, altresì, che “in ogni caso il rendiconto evidenzia, in apposite voci, le risorse trasferite al gruppo dal consiglio regionale, con indicazione del titolo del trasferimento, nonché le misure adottate per consentire la tracciabilità dei pagamenti effettuati”.
In attuazione di quanto sopra, con decreto del Presidente del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 dicembre 2012 sono state recepite le menzionate “linee guida” sul rendiconto di esercizio annuale dei gruppi consiliari. Il modello di rendiconto, ivi previsto, contempla: (i) le spese per il personale assunto presso i gruppi consiliari (stipendi, oneri previdenziali, missioni, buoni pasto, consulenze; (ii) le spese a carattere strumentale (postali, telefoniche, noleggio dotazioni informatiche, affitto sale); (iii) gli esborsi per materiale informativo (cancelleria, libri, riviste, duplicazione e stampa, logistiche); (iv) spese per “attività promozionali, di rappresentanza, convegni ed attività di aggiornamento”.
Relativamente al comma in esame, la Corte Costituzionale, con la richiamata sentenza n. 39/2014, ha escluso la lesione delle prerogative regionali in quanto gli invocati parametri costituzionali e statutari, posti a presidio dell’autonomia regionale, “preservano un ambito competenziale rimesso a fonti di autonomia che non risulta in alcun modo leso dall’introdotta tipologia di controlli che sono meramente "esterni” e di natura documentale”.
La Corte giunge a tale conclusione sul fondamentale presupposto, richiamato e ribadito nella giurisprudenza successiva, secondo cui “il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regionale. A tal fine, il legislatore ha predisposto questa analisi obbligatoria di tipo documentale che, pur non scendendo nel merito dell’utilizzazione delle somme stesse, ne verifica la prova dell’effettivo impiego, senza ledere l’autonomia politica dei gruppi interessati al controllo. Il sindacato della Corte dei conti assume infatti, come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi documentale, non potendo addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale”.
I successivi co. 10, 11 e 12 recano il procedimento di controllo dei rendiconti da parte della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti e le conseguenze in caso di omessa regolarizzazione. In base al vigente dettato normativo, condizionato dai correttivi apportati dalla più volte richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 39/2014[17], il procedimento di controllo dei rendiconti consiliari è avviato dal Presidente del Consiglio regionale, il quale entro sessanta giorni dalla chiusura dell’esercizio, trasmette il rendiconto di ciascun gruppo alla competente Sezione regionale di controllo della Corte dei conti perché si pronunci, nel termine di trenta giorni dal ricevimento, sulla regolarità dello stesso con apposita delibera.
A questo punto possono ipotizzarsi tre diversi esiti: i) il rendiconto è dichiarato regolare e la relativa delibera della Corte dei conti è trasmessa al Presidente del Consiglio Regionale che ne cura la pubblicazione; ii) il rendiconto si considera comunque approvato nel caso in cui la Corte dei conti non si pronunci entro l’indicato termine di trenta giorni; iii) il rendiconto o la documentazione trasmessa a corredo dello stesso sono qualificati come non “conformi” alla prescrizioni normative e, pertanto, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti provvede, entro trenta giorni, a trasmettere al Presidente del Consiglio regionale una comunicazione “affinché si provveda alla regolarizzazione”, fissando un termine non superiore a trenta giorni “per i successivi adempimenti da parte del gruppo consiliare interessato” e disponendo, contestualmente, la sospensione del decorso del termine per la pronuncia della Corte dei conti stessa.
Anche in questo caso, in base al vigente dettato normativo, condizionato dai correttivi apportati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 39/2014[18], nell’eventualità in cui il gruppo non provveda alla regolarizzazione, sorge in capo allo stesso “l’obbligo di restituzione” delle somme ricevute e non correttamente rendicontate in forza del “principio generale delle norme di contabilità pubblica”. La Corte Costituzionale precisa infatti che il suddetto obbligo “risulta strettamente correlato al dovere di dare conto delle modalità di impiego del denaro pubblico in conformità alle regole di gestione dei fondi e alla loro attinenza alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi consiliari”.
Da ultimo, si evidenzia che in base al co. 12 dell’art. 1 del d.l. 174/2012, come novellato dall’art. 33, co. 2, lett. a) del d.l. 91/2014, le deliberazioni delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti in materia di rendiconti dei gruppi consiliari sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Riunite della Corte dei conti in speciale composizione, con le forme e i termini di cui all'art. 243-quater, co. 5, del D.lgs. 267/2000. Successivamente è intervenuto l’art. 11, co. 6, lett. d) del Codice di giustizia contabile che ha confermato l’indicata facoltà di impugnazione innanzi alle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione.
3. La disciplina transitoria per l’anno 2012 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 130/2014.
Come sopra illustrato, il legislatore ha subordinato l’operatività del nuovo sistema di verifica delle spese dei gruppi consiliari regionali all’adozione di apposite “linee-guida”, recanti le modalità di strutturazione del rendiconto di esercizio, poi adottate con il richiamato d.P.C.m. 21 dicembre 2012.
La circostanza che l’adozione delle menzionate “linee guida” sia intervenuta solo alla fine del 2012 ha provocato dubbi e criticità in ordine all’applicabilità, o meno, delle nuove regole anche ai rendiconti relativi all’esercizio finanziario del 2012.
Con la deliberazione 5 aprile 2013 n. 12 la Sezione Autonomie della Corte dei conti ha ritenuto applicabili le nuove regole anche ai rendiconti riferiti al 2012, giustificando la scelta in ragione, da un lato, della preesistenza di un obbligo di rendicontazione basato su leggi regionali e, dall’altro lato, dell’assenza di una norma espressa di rinvio dell’operatività delle nuove regole al successivo esercizio.
Tuttavia, a fronte dell’impossibilità di applicare retroattivamente i criteri recati dal menzionato d.P.C.m., la Corte dei conti, con la menzionata deliberazione, ha individuato dei parametri “desunti dalle norme regionali e dai provvedimenti attuativi vigenti nel 2012, integrati però con i contenuti essenziali, cui fa riferimento la nuova disciplina, ossia con l’indicazione delle risorse trasferite al Gruppo dal Consiglio regionale, della corretta rilevazione dei fatti di gestione e della regolare tenuta della contabilità”.
La Sezione Autonomie della Corte dei conti è ulteriormente intervenuta sul tema con la deliberazione 5 luglio 2013, n. 15 con la quale ha sostenuto l’applicabilità di un controllo di tipo “misto” per i rendiconti riferiti al 2012, ipotizzando una “applicazione parziale e frazionata” che prevedeva, da un lato, l’esclusione dell’impianto sanzionatorio e, dall’altro lato, l’applicazione della regola secondo cui le delibere già emesse dalle Sezioni regionali di controllo dovevano essere interpretate secondo gli indirizzi sopra descritti.
Le Regioni Emilia Romagna, Veneto e Piemonte hanno adito la Corte Costituzionale attraverso la proposizione di ricorsi per conflitto di attribuzione avverso le sopra richiamate deliberazioni della Sezione Autonomie e quelle adottate dalle rispettive Sezioni regionali di controllo.
Con la sentenza 130/2014 la Corte Costituzionale si è pronunciata sui ricorsi de quibus rilevando, innanzitutto, che l’impianto normativo, di cui ai co. 9,10, 11 e 12 dell’art. 1 del d.l. 174/2012, condiziona l’esercizio del potere di controllo alla “previa individuazione dei criteri per il suo esercizio e ciò sull’evidente presupposto della loro indispensabilità”. Invero, prosegue ancora la Consulta, “il sindacato della Corte dei conti assume (…) come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi documentale, non potendo addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale”.
Per tali ragioni la Corte Costituzionale ha ritenuto fondati i ricorsi proposti dalle suddette Regioni e, sul presupposto che “non spettava allo Stato e, per esso, alla Corte dei conti, sezione delle autonomie e sezioni regionali di controllo per le Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, adottare le deliberazioni impugnate con cui si è, rispettivamente, indirizzato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari in relazione all’esercizio 2012”, ha annullato, tra le altre, le suddette deliberazioni adottate dalla Sezione Autonomie della Corte dei conti.
4. Altre significative pronunce della Corte Costituzionale in tema di rendiconti dei gruppi consiliari regionali.
Il tema dei rendiconti dei gruppi consiliari regionali è stato spesso al centro di importanti pronunce della Corte Costituzionale[19]. Non potendo essere questa la sede per una compiuta analisi, di seguito saranno illustrate le questioni e i profili più significativi sui quali si è espressa la Corte Costituzionale.
Un primo e significativo aspetto attiene alla natura e all’inquadramento istituzionale dei gruppi consiliari. Al riguardo, la Consulta ha affermato che “i gruppi consiliari sono organi del consiglio regionale, caratterizzati da una peculiare autonomia in quanto espressione, nell’ambito del consiglio stesso, dei partiti o delle correnti politiche che hanno presentato liste di candidati al corpo elettorale, ottenendo suffragi necessari alle elezioni dei consiglieri. Essi pertanto contribuiscono in modo determinante al funzionamento e all’attività dell’assemblea, assicurando l’elaborazione di proposte, il confronto dialettico fra le diverse posizioni politiche e programmatiche, realizzando in una parola quel pluralismo che costituisce uno dei requisiti essenziali della vita democratica”[20]. La Corte Costituzionale ha poi ulteriormente ricordato che “I gruppi consiliari sono stati qualificati […] come organi del consiglio e proiezioni dei partiti politici in assemblea regionale (sentenze n. 187 del 1990 e n. 1130 del 1988), ovvero come uffici comunque necessari e strumentali alla formazione degli organi interni del consiglio (sentenza n. 1130 del 1988)» (sentenza n. 39 del 2014)”[21].
Su tali presupposto la Corte Costituzionale ha riconosciuto che la “lamentata lesione delle prerogative dei gruppi si risolve dunque in una compressione delle competenze proprie dei consigli regionali e quindi delle Regioni ricorrenti, pertanto legittimate alla proposizione del conflitto”[22].
Un ulteriore e significativo aspetto che è stato ripetutamente messo in rilievo dalla giurisprudenza costituzionale attiene alla rilevanza e all’incidenza dei rendiconti dei gruppi consiliari sul bilancio regionale. Anche di recente la Corte Costituzionale ha avuto modo di ribadire che il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari “costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regionale (sentenza n. 39/2014), poiché anche esso costituisce un mero documento di sintesi ex post delle risultanze contabili della gestione finanziaria e patrimoniale dell’ente (sentenza n. 235 del 2015)”[23]. Ne consegue, sempre ad avviso del Giudice delle leggi, che il suddetto documento “non ha una consistenza finanziario-contabile esterna al bilancio della Regione, ma ne rappresenta una parte integrante e necessariamente coordinata, sia in sede previsionale, sia in sede consuntiva”[24].
Nella maggior parte dei casi la Corte Costituzionale è stata adita attraverso la proposizione di ricorsi per conflitto di attribuzione da parte delle Regioni, aventi ad oggetto le deliberazioni adottate dalla Corte dei conti. In questi casi la Consulta si è soffermata sull’illustrazione degli elementi che devono connotare tale tipologia di ricorsi, precisando che “il tono costituzionale del conflitto sussiste quando le Regioni non lamentino una lesione qualsiasi, ma una lesione delle proprie attribuzioni costituzionali”[25] e, pertanto, “vanno distinti i casi in cui la lesione derivi da un atto meramente illegittimo (la tutela dal quale è apprestata dalla giurisdizione amministrativa), da quelli in cui l’atto è viziato per contrasto con le norme attributive di competenza costituzionale (mentre non rileva che l’atto possa essere anche oggetto di impugnazione in sede giurisdizionale)”[26]. Su tali presupposti, la Corte Costituzionale ha costantemente dichiarato inammissibili tutte quelle censure con le quali le Regioni “non lamentavano l’invasione della sfera costituzionale delle stesse ma si limitavano a far valere “la mera illegittimità della funzione esercitata, illegittimità da far valere innanzi alla giurisdizione comune”[27].
Quanto alla natura e alla tipologia dei controlli affidati alla Corte dei conti sui rendiconti regionali, la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che “il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari, se, da un lato, non comporta un sindacato di merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, dall’altro, non può non ricomprendere la verifica dell’attinenza delle spese alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi medesimi, secondo il generale principio contabile, costantemente seguito dalla Corte dei conti in sede di verifica della regolarità dei rendiconti, della loro coerenza con le finalità previste dalla legge”[28].
Tra le sentenze più significative in tema di rendiconti dei gruppi consiliari, merita di essere richiamata la pronuncia con la quale la Corte Costituzionale si è espressa sul ricorso, per conflitto di attribuzione, proposto nel 2015 dalla Regione Emilia Romagna. In tale sede, infatti, sono stati forniti importanti chiarimenti riguardo alla portata e ai limiti del raccordo tra la funzione di controllo e quella giurisdizionale intestate alla Corte dei conti.
Il giudizio traeva origine dall’impugnazione: (i) della nota del Presidente della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti di trasmissione alla Procura contabile della deliberazione di irregolarità dei rendiconti dei gruppi consiliari per l’anno 2012; (ii) degli inviti a dedurre e dei susseguenti atti di citazione adottati nei confronti dei capigruppo e di alcuni consiglieri regionali, e (iii) della nota del Procuratore regionale, indirizzata al Presidente del Consiglio regionale e recante l’invito al recupero di somme relative a spese ritenute irregolari[29].
Innanzitutto la Corte Costituzionale rammenta che quanto al raccordo tra la funzione di controllo e quella giurisdizionale vige la regola posta a tutela del rispetto del principio del contraddittorio, enucleata con la fondamentale pronuncia n. 29/1995, secondo cui “è incontestabile che il titolare dell’azione di responsabilità possa promuovere quest’ultima sulla base di una notizia o di un dato acquisito attraverso l’esercizio dei ricordati poteri istruttori inerenti al controllo sulla gestione, poiché, una volta cha abbia avuto comunque conoscenza di un’ipotesi di danno, non può esimersi, ove ne ricorrano tutti i presupposti, dall’attivare l’azione di responsabilità. Ma i rapporti tra attività giurisdizionale e controllo sulla gestione debbono arrestarsi a questo punto, poiché si vanificherebbero illegittimamente gli inviolabili “diritti della difesa”, garantiti a tutti i cittadini in ogni giudizio dall’art. 24 della Costituzione, ove le notizie o i dati acquisiti ai sensi delle disposizioni contestate potessero essere utilizzati anche in sede processuale (acquisizioni che, allo stato, devono avvenire nell’ambito della procedura prevista dall’art. 5 della legge n. 19 del 1994)”.
Ne consegue, pertanto, che il raccordo tra la funzione di controllo – di qualunque natura ̶ e quella giurisdizionale della Corte dei conti, nella forma della segnalazione della notitia damni da parte degli organi deputati all’espletamento della prima, è legittimo a condizione che vengano rispettate le regole del contraddittorio.
Tuttavia, la segnalazione alla Procura e la successiva attività da quest’ultima espletata traevano origine dalle deliberazioni della Sezione regionale di controllo relative all’esercizio finanziario 2012, poi annullate in forza della richiamata sentenza n. 39/2014, con la conseguenza che, ad avviso della Corte Costituzionale, la nota di trasmissione era “funzionalmente collegata” in maniera indissolubile alla deliberazione di controllo e, pertanto, l’annullamento della seconda non poteva che comportare l’automatica caducazione della prima.
La Consulta ha poi respinto le censure regionali riferite agli atti di citazione emessi dalla Procura regionale, in ragione del fatto che l’attività d’indagine della Procura regionale e le sue determinazioni finali si fondavano non già sulla deliberazione annullata dalla sentenza n. 39/2014, ma sulla documentazione contabile autonomamente acquisita presso la Sezione regionale di controllo.
La Corte Costituzionale ha invece accolto la censura regionale riferita alla nota con la quale il Procuratore regionale aveva invitato il Presidente del Consiglio regionale al recupero amministrativo delle somme irregolarmente spese dai gruppi consiliari, sul presupposto che la richiesta di compimento di un’attività di recupero amministrativo esula dalle facoltà della magistratura inquirente; richiesta peraltro formulata in assenza di una pronuncia giurisdizionale di accertamento delle contestate irregolarità.
Da ultimo, si richiama la sentenza della Corte Costituzionale pronunciata sul ricorso per conflitto di attribuzione proposto dalle Regioni Toscana e Piemonte avverso i decreti, emessi dalle rispettive Sezioni regionali di controllo, recanti l’ordine rivolto ai Presidenti dei gruppi consiliari di provvedere al deposito dei conti giudiziali relativi alla gestione dei contributi pubblici ricevuti[30].
La pronuncia si segnala per aver escluso l’attribuzione della qualifica soggettiva di agente contabile in capo ai presidenti dei gruppi consiliari, giungendo alla medesime conclusioni alle quali erano pervenute, sia pure con argomenti diversi, le Sezioni Riunite in sede giurisdizionale della Corte dei conti con la sentenza n. 30/2014.
Sul punto, la Corte Costituzionale ha evidenziato che la figura dei Presidenti dei gruppi consiliari “delineata dagli statuti regionali e dai regolamenti consiliari interni, si caratterizza, (…), per il forte rilievo politico e per l’importanza delle funzioni di rappresentanza, direttive e organizzative ad essi attribuite. Ne consegue che l’attività di gestione amministrativa e contabile dei contributi pubblici assegnati ai gruppi è meramente funzionale all’esercizio della sfera di autonomia istituzionale che ai gruppi consiliari medesimi e ai consiglieri deve essere garantita, affinché siano messi in grado di concorrere all’espletamento delle molteplici e complesse funzioni attribuite al Consiglio regionale”.
La Corte conclude affermando che “l’eventuale attività materiale di maneggio del denaro costituisce, quindi, in relazione al complesso ruolo istituzionale del presidente di gruppo consiliare, un aspetto del tutto marginale e non necessario (perché i gruppi consiliari ben potrebbero avvalersi per tale incombenza dello stesso tesoriere regionale), e non ne muta la natura eminentemente politica e rappresentativa della figura, non riducibile a quella dell’agente contabile”.
Ad ogni buon conto, sottolinea ancora la Corte, i capigruppo dei Consigli regionali, anche se sottratti alla giurisdizione di conto, “restano assoggettati alla responsabilità amministrativa e contabile (oltre che penale, ricorrendone i presupposti)”.
5. Considerazioni conclusive.
La conclusione cui perviene la pronuncia in commento - laddove afferma che il controllo esterno sul bilancio regionale (rispetto al quale i rendiconti dei gruppi consiliari ne rappresentano una “parte necessaria”) deve essere attribuito alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in ragione della sua riconducibilità all’interno del perimetro della materia della “contabilità pubblica”, a prescindere dall’interpositio legislatoris - appare pienamente condivisibile alla luce delle riflessioni e degli approfondimenti che hanno interessato, sotto vari profili, la Corte dei conti.
Nel corso del tempo si è sviluppato un intenso dibattito in ordine alla portata dell’art. 103, co. 2, della Costituzione, sulla riserva costituzionale di giurisdizione in favore della Corte dei conti nelle “materie di contabilità pubblica”, che vede contrapposti, da un lato, coloro che affermano la natura immediatamente precettiva del dettato costituzionale, e, dall’altro lato, coloro che sostengono, invece, la natura meramente programmatica della norma con la conseguente necessità di esplicitazione dei contenuti della riserva attraverso la cd. interpositio del legislatore.
Autorevole dottrina ha evidenziato che la disposizione costituzionale è stata considerata, per lungo tempo, come espressione di un principio “tendenzialmente generale” in modo da poter operare immediatamente, con capacità espansiva, solo laddove ricorresse una identità oggettiva di materia, e che le successive riflessioni hanno condotto alla presa d’atto che la materia è sufficientemente individuabile una volta accertata la sussistenza dell’elemento soggettivo, che attiene alla natura pubblica dell’ente, e dell’elemento oggettivo che riguarda la qualificazione pubblica del denaro e del bene oggetto della gestione[31].
Ebbene, a parere di chi scrive, la pronuncia in esame esprime compiutamente il ruolo della Corte dei conti e la sua rilevanza all’interno dell’ordinamento italiano, e rispetta i criteri, che la dottrina qualifica come essenziali ai fini della ricostruzione del concetto di “contabilità pubblica”, rappresentati dalla “ratio storica e oggettiva” della magistratura contabile e dal suo attuale posizionamento “nel sistema dei poteri”[32].
[1] TAR Lombardia, sez. III, n. 598 del 21.3.2019, Id. n. 1509 dell’1.7. 2019.
[2] In dottrina, si v. A. Baldanza, “Le funzioni di controllo della Corte dei conti”, in V. Tenore (a cura di), “La nuova Corte dei conti: Responsabilità, Pensioni, Controlli”, Giuffré, 2019, p.1536 e ss.; M. Salvago, “I nuovi controlli della Corte dei conti sulla gestione finanziaria regionale (art. 1, d.l. n. 174/2012) nei più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale”, in www.federalismi.it, 2015, n. 19; D. Morgante, “I nuovi presidi della finanza regionale e il ruolo della Corte dei nel d.l. n. 174/2012”, in www.federalismi.it, 2013; D. Morgante, “Controlli della Corte dei conti e controlli regionali: autonomia e distinzione nella sentenza della Corte costituzionale n. 60/2013”, in www.federalismi.it, 2013, n. 9.
[3] Nel dettaglio, con la predetta norma il legislatore ha modificato la l.r. n. 3 del 24.6.2013 prevedendo l’inserimento, nel testo dell’art. 24, del nuovo comma 7-bis, che disciplina il descritto regime transitorio.
[4] Pronuncia di orientamento, di natura vincolante ai sensi dell’art. 6, co. 4, del d.l. n. 174/2012, in ordine alla prima applicazione della nuova disciplina sul controllo dei rendiconti dei gruppi consiliari regionali.
[5] Corte Costituzionale n. 130/2014.
[6] L’art. 1, co. 12, del d.l. 174/2012, prevede che: “Avverso le delibere della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti, di cui al presente comma, e' ammessa l'impugnazione alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione, con le forme e i termini di cui all'articolo 243-quater, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267”.
[7] L’art. 11, co. 6, del D.lgs. 174/2016, prevede che “6. Le sezioni riunite in speciale composizione, nell'esercizio della propria giurisdizione esclusiva in tema di contabilità pubblica, decidono in unico grado sui giudizi” (…) “d) in materia di rendiconti dei gruppi consiliari dei consigli regionali”.
[8] TAR Lombardia, sez. III, n. 2505 del 2.12.2015, Id., n. 598 del 21.3.2019 e n. 1509 dell’1.7. 2019.
[9] In dottrina, per un’analisi sulla sentenza della Corte costituzionale n. 39/2014, si v. B. Caravita e E. Jorio, “La Corte costituzionale e l’attività della Corte dei conti (una breve nota sulla sentenze n. 39 e 40 del 2014)”, in Federalismi.it; G. Di Cosimo, “Sul contenuto e sul controllo degli atti normativi (nota a sentenza 39/2014)”, in “Le Regioni” 2014; L. Buffoni e A. Cardone, “I controlli della Corte dei conti e la politica economica della Repubblica: rules vs. discretion?”, in “Le Regioni” 2014; M. Salvago, “I nuovi controlli della Corte dei conti sulla gestione finanziaria regionale (art. 1, d.l. n. 174 del 2012) nei più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale”, in Federalismi.it; F. Guella, “Il carattere “sanzionatorio” dei controlli finanziari di fronte alle prerogative dei Consigli regionali e dei gruppi consiliari: ricadute generali delle questioni sollevate dalle autonomie speciali”, in Osservatorio Costituzionale AIC, Aprile 2014; P. I. D’Andrea, “Commento alla sentenza Corte Cost. n. 39/2014”, in Federalismi.it.; M. Morvillo, “L'ausiliarietà ai tempi della crisi: i controlli della Corte dei conti tra equilibrio di bilancio e autonomia dei controllati”, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 2, 2014, pag. 0933B”.
[10] TAR Lombardia, sez. III, n. 2505 del 2.12.2015.
[11] TAR Lombardia, sez. III, n. 2505 del 2.12.2015, Id., n. 598 del 21.3.2019 e n. 1509 dell’1.7.2019.
[12] SS.RR. in sede giurisdizionale in speciale composizione della Corte dei conti n. 32/2020/EL.
[13] In dottrina, si v. R. Bocci, “La giurisdizione sull’equilibrio di bilancio in caso di dissesto”, in Diritto & Conti; A. Romano, “I rapporti tra giurisdizione contabile e amministrativa nei giudizi sui piani di riequilibrio finanziario pluriennali”, in ildirittoamministrativo.it;
[14] Cons. Stato, sez. V, n. 8108 del 17.12.2020 che richiama Cass., SS.UU., n. 22645 8.11.2016; Cass., n. 16631 del 2014, “che valorizza la non riconducibilità della fattispecie concreta esaminata alla specifica “previsione di giurisdizione esclusiva” presa a riferimento; Cass., SS.UU., 18 maggio 2017, n. 12496, in cui si afferma sì la giurisdizione “piena ed esclusiva” della Corte dei conti riconoscendole un sindacato “estes[o] a tutti i vizi dell’atto”, ma nel quadro pur sempre d’una espressa attribuzione di legge, in specie ex art. 1, comma 169, l. n. 228 del 2012”.
[15] SS.RR. in sede giurisdizionale in speciale composizione n. 32/2020/EL. In dottrina, si v. R. Bocci, “La giurisdizione sull’equilibrio di bilancio in caso di dissesto”, in “Diritto e Conti – Bilancio, Comunità, Persona”.
[16] Per l’analisi della sentenza della Corte Costituzionale n. 39/2014 si rinvia alla dottrina richiamata alla nota n. 9.
[17] La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei co. 10 e 11 nella parte in cui attribuiscono al Presidente della Giunta regionale l’onere della trasmissione dei rendiconti dei gruppi consiliari alla competente Sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Sul punto la Corte, richiama i propri precedenti con i quali, da un lato, è stato affermato che il legislatore statale non può individuare l’organo della Regione quale soggetto titolare di determinate funzioni (cfr. punto 6.3.9.4.) e, dall’altro lato, è stato affermato che il legislatore statale ben può legittimamente individuare il Presidente del Consiglio regionale quale organo titolare di funzioni inerenti alla trasmissione del rendiconto di ciascun gruppo alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti (cfr. punto 6.3.9.5.).
[18] La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del terzo periodo del co. 11, il quale prevede che, in caso di riscontrate irregolarità da parte della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti, il gruppo consiliare che non provveda alla regolarizzazione del rendiconto entro il termine fissato “decade”, per l’anno in corso (quindi per l’esercizio successivo a quello rendicontato), dal diritto all’erogazione di risorse da parte del consiglio regionale. La Corte ha evidenziato sul punto che si tratta di “misura repressiva di indiscutibile carattere sanzionatorio che consegue ex lege, senza neppure consentire che la Corte dei conti possa graduare la sanzione stessa in ragione del vizio riscontrato nel rendiconto, né che gli organi controllati possano adottare misure correttive. Ciò non consente di preservare quella necessaria separazione tra funzione di controllo e attività amministrativa degli enti sottoposti al controllo stesso che la giurisprudenza di questa Corte ha posto a fondamento della conformità a Costituzione delle norme istitutive dei controlli attribuiti alla Corte dei conti (tra le tante, sentenza n. 179 del 2007)”.
[19] In dottrina si v. P.L. Tomaiuoli, “La Corte costituzionale e la disciplina dei rendiconti dei gruppi consiliari regionali”, in www.questionegiustizia.it.
[20] Corte Costituzionale n. 107/2015 che richiama la sentenza n. 187/1990.
[21] Corte Costituzionale n. 107/2015.
[22] Corte Costituzionale n. 107/2015 che richiama le sentenze nn. 252 del 2013, n. 195 del 2007 e n. 163 del 1997.
[23] Corte Costituzionale n. 215/2021.
[24] Corte Costituzionale n. 215/2021 che richiama le sentenze della Corte nn. 235 e 107 del 2015, nonché nn. 130 e n. 39 del 2014.
[25] Corte Costituzionale n. 10 del 2017 che richiama le sentenze nn. 260 del 2016, 87 del 2015, 263 del 2014, 52 del 2013.
[26] Corte Costituzionale n. 10 del 2017 che richiama le sentenze nn. 260 del 2016, 87 del 2015 e 137 del 2014.
[27] Corte Costituzionale n. 10 del 2017 che richiama le sentenze nn. 260 e 104 del 2016.
[28] Corte Costituzionale n. 260 del 2016, 104 del 2016, n. 263 del 2014. Più nel dettaglio, con le sentenze n. 260 del 2016, 104 del 2016, la Corte Costituzionale ha precisato che tra i criteri richiamati, l’art. 1 dell’Allegato A al d.P.C.m. 21 dicembre 2012, menziona la «veridicità e correttezza delle spese», specificando che «la veridicità attiene alla corrispondenza tra le poste indicate nel rendiconto e le spese effettivamente sostenute» (comma 2), mentre «la correttezza attiene alla coerenza delle spese sostenute con le finalità previste dalla legge» (comma 3), con l’ulteriore puntualizzazione che «ogni spesa deve essere espressamente riconducibile all’attività istituzionale del gruppo» (comma 3, lettera a)”.
[29] Corte Costituzionale n. 235 del 2015.
[30] Corte Costituzionale n. 107 del 2015.
[31] P. Santoro, “La nozione di contabilità pubblica nella giurisprudenza costituzionale”, relazione illustrata in occasione del Convegno di studi in memoria di S. Zambardi, dal titolo “La Corte dei conti e la contabilità pubblica nella tradizione e nella evoluzione del quadro normativo e giurisprudenziale”, Venezia 03.10.2014.
[32] F. Sucameli, “Contabilità finanziaria, contabilità economica e contabilità analitica come «materia» e come «tecnica». In particolare, il principio della competenza finanziaria potenziata”, in AA.VV., “La Corte dei conti. Responsabilità, Contabilità, Controllo, 2019.
Carlo Smuraglia: un uomo per la democrazia e il lavoro*
di Olivia Bonardi
1. Il compito di ricordare Carlo Smuraglia è difficile, non solo per l’affetto che mi legava a lui ma soprattutto per le sue caratteristiche umane. Non so se più per timidezza o semplicemente perché guardava sempre avanti con una straordinaria capacità di presagire le sfide future, non l’ho mai sentito non dico vantarsi, ma nemmeno raccontare delle sue esperienze passate e di quanto ha fatto per tutti noi. Certamente la colpa è in buona parte mia, perché nonostante lui si sia rapportato a me, come del resto a tutti gli altri, sempre da pari a pari, io sono rimasta costantemente frenata da un autoinflitto e insormontabile senso di soggezione. Così era estremamente facile lavorare insieme, discutere di politica, di lavoro e del futuro del paese, mentre quando si passava al personale Carlo parlava del presente, dei suoi fatti personali, dei suoi affetti, mai del passato. Anche quando ha tentato, anche su molteplici pressioni, di scrivere la sua autobiografia ha fatto una “non biografia”, che di fatto è un manuale di resistenza civile.
2. Carlo Smuraglia era un giuslavorista, uno dei più importanti del nostro tempo, ma di questo dirò dopo, perché non è possibile non dare conto della persona senza considerare l’ampiezza delle sue attività. Ricostruire il suo percorso oggi è come ricomporre un puzzle che ha migliaia di pezzi, dovendoli prima cercare. Oltretutto la sua vita è fatta di grandiose vittorie e di altrettante brucianti sconfitte. Molte di queste per la radicalità delle rivendicazioni che portava avanti, molte però semplicemente perché i tempi non erano ancora maturi. Il compito è difficile anche perché Carlo non avrebbe mai voluto un ricordo celebrativo: per lui quello che ha sempre contato è “Il contatto diretto con persone di diverse origini e di diversa estrazione sociale”, con “idee che prima non avevamo mai sentite”; “conta il percorso di formazione, e dunque l’esperienza umana e personale e la questione delle scelte” (Con la costituzione nel cuore, p. 17 e s.). Il fatto è che Carlo è stato un avvocato, un professore universitario, un politico: un uomo delle istituzioni, si direbbe, ed è stato anche detto, ma questa è una visione riduttiva. Carlo era prima di tutto un uomo della società civile. Deposte le armi imbracciate per liberare l’Italia dal nazismo e dal fascismo, ha continuato a combattere la battaglia per la democrazia con le armi del diritto e della cultura. Non credo di sbagliare nel dire che Carlo ha passato molto più tempo nelle piazze, nei collettivi, nei comitati, nelle associazioni, nelle sedi sindacali, nei gruppi di lavoro che costantemente istituiva, che nelle sedi istituzionali, dove andava come uno dei nostri, in quanto uno dei nostri. Non solo uno di noi compagni, ma uno di tutti noi che ci riconosciamo insieme come collettività e come cittadinanza attiva unita dai valori della democrazia, dell’eguaglianza, della solidarietà.
3. Come avvocato era prima di tutto il nostro avvocato: nell’immediato dopoguerra era con Terracini e Lelio Basso nei Comitati di Solidarietà Democratica a difendere i partigiani nei processi avviati dalla magistratura non ancora defascistizzata per gli atti commessi in combattimento. Era, in quello che egli definì un processo farsa, l’avvocato di parte civile per Farioli, Franchi, Serri, Reverberi e Tondelli, operai, sindacalisti ed ex partigiani uccisi dalla polizia a Reggio Emilia mentre pacificamente manifestavano contro l’appoggio del MSI al governo Tambroni. Era l’avvocato degli studenti del Parini che nel ’66 scrivevano di condizione femminile e di rapporti sessuali prematrimoniali. Era l’avvocato di Licia Pinelli nel processo volto a riscattare la memoria del marito Pino, volato giù da una finestra del quarto piano della questura di Milano il 15 dicembre 1969 dopo tre giorni di fermo illegale. Era Commissario d’accusa al processo per lo scandalo Lockheed innanzi alla Corte costituzionale e avvocato di parte civile nel processo per l’omicidio di Cristina Mazziotti, rapita dalla ‘ndrangheta nel ’75, era al CSM la notte del 19 gennaio 1988 a sostenere - perdendo purtroppo - la nomina di Giovanni Falcone alla funzione di Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo ed era l’avvocato di Giancarlo Caselli e di tutti i giudici del pool della Procura di Palermo nei numerosi processi avviati contro gli attacchi diffamanti dei giornali della destra. Non fu mai l’avvocato degli inquisiti dal pool di mani pulite, che pure talvolta bussarono alla sua porta. Era, come ho detto, nelle piazze: sempre il 25 aprile e poi anche il 12 dicembre, ed era alla Festa dell’Unità di Bologna il 17 settembre 2016 a confrontarsi con Renzi, mantenendo la sua proverbiale compostezza e anche l’ordine pubblico, a sostenere le ragioni del no al referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale Boschi-Renzi. Era sempre in movimento, sempre in giro per l’Italia, alle commemorazioni, nelle manifestazioni, nelle riunioni e nei gruppi di lavoro, dove si confrontava con tutti. Ed era spesso nelle scuole a parlare con i giovani di fascismo, di diritti e di Costituzione. Perché come ho detto sopra, quello che contava per lui era il percorso collettivo, mediante il quale ci si poteva riconoscere nei valori comuni e crescere. Gli interventi sui quotidiani, alla milanese Radio Popolare e in generale sui media non si riescono a contare.
4. Come professore era il professore dell’Università democratica e di massa. Entrato con estrema fatica nell’Accademia, vuoi per il suo essere comunista, vuoi per la separazione dalla sua prima moglie in un’epoca in cui ciò era considerato scandaloso, prenderà servizio come professore straordinario nel ’75, contribuendo a dar vita alla neo istituita Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano, nata in polemica con il carattere statico e stantio dell’Università dell’epoca, al fine di costituire a Milano un polo culturale laico e riformista (nel quale pure faticò ad entrare, sempre per le stesse ragioni politiche). Dalla sua cattedra di diritto del lavoro sperimenterà metodi didattici innovativi. Renderà gli studenti partecipi di ricerche collettive che vedranno la partecipazione di ispettori, giudici del lavoro, lavoratori e operai che usufruivano delle 150 ore. Ne uscirà il volumetto, forse addirittura ciclostilato, del ’75 “I problemi della sicurezza del lavoro. Ricerche collettive nell’ambito del corso di diritto del lavoro” (Cuesp, 1975). Lo sforzo è sempre quello di consentire a tutti di maneggiare concetti giuridici tendenzialmente specialistici e anche sofisticati, utilizzando un metodo partecipativo che replicherà nelle sue innumerevoli iniziative formative e culturali e poi anche nelle indagini conoscitive che guiderà dalle aule del Senato (v. §5). Vale la pena di ricordare, oltre alla nota Enciclopedia dei diritti dei lavoratori (Teti, 1975), i lavori collettivi, come il “Corso di formazione politico culturale. Lezioni” del 2012 per gli iscritti all’ANPI organizzato sulla base di lezioni itineranti in giro per l’Italia, e i seminari organizzati in occasione dei 70 anni della Costituzione da cui poi la creazione di un gruppo di lavoro e la pubblicazione del “La Costituzione 70 anni dopo.” (Viella, 2019). Nella sua non biografia scriverà che “si è spesso delegato il compito di interpretare la Costituzione ai giuristi e così si è diffusa l’idea sbagliata che essa sia materia specialistica, di settore, che richiede cultura e competenze particolari” (p. 64), mentre i principi e valori di fondo devono essere condivisi, se si vuole convivere in uno Stato democratico. Nell’ultimo volume che ci lascia, intitolato “Antifascismo quotidiano. Strumenti istituzionali per il contrasto a neofascismi e razzismo” (Bordeaux, 2020) scriverà che il diritto e gli strumenti di tipo istituzionale, in questo caso volte a contrastare i nuovi fascismi di cui ci propone una chiara mappatura - “vanno conosciuti e utilizzati non solo dagli esperti, ma dai cittadini che intendono reagire agli atti di arroganza e di violenza”.
5. Come giuslavorista il suo contributo al riscatto della classe lavoratrice è difficilmente commensurabile. Devo necessariamente rinviare ad altra sede una più minuziosa analisi scientifica del suo pensiero, qui mi limito a dare conto delle sue linee essenziali e del suo contributo alla Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, alla Cgil e alla causa dei lavoratori. Inizia a scrivere assiduamente per la rivista nel ‘56 e continuerà a contribuire per tutta la sua vita. Entra nella redazione nel ‘63 e nel Comitato scientifico nel ‘71, dove resterà fino al 2016. Dal ’77 all’85 contribuisce all’istituzione e dirige la parte IV della Rivista, dedicata al diritto penale del lavoro. Dalle prime annate della Rivista, all’epoca diretta da Aurelio Becca e Ugo Natoli, dà vita a quella che è stata poi definita la corrente giuslavoristica “costituzionale” volta a riconoscere il carattere preminente e l’immediata precettività della Costituzione, sia per quanto riguarda le norme volte a garantire i diritti fondamentali della persona dentro la fabbrica, sia per proteggere l’esercizio del diritto di sciopero dall’applicazione delle norme del codice penale che ancora lo sanzionavano. Lo ritroveremo infatti con Luciano Ventura davanti alla Corte costituzionale nel ‘65 a discutere della legittimità costituzionale della libertà di recesso sotto il profilo del rispetto del diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost. Ma quando gli chiesi di raccontarmi della vicenda, “sì, ma ho perso” fu l’unico commento che riuscii a ottenere e dal silenzio traspariva una ferita rimasta aperta, e forse sanguinante più al momento della domanda (erano i tempi del Jobs Act) che all’epoca. Vinse parzialmente invece, anche se lui direbbe di no perché sosteneva radicale abrogazione della norma per assoluta incompatibilità con l’articolo 40 Cost., nel 1969 quando con la sentenza n. 31 la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità dell’articolo 330 c.p. nella parte relativa allo sciopero economico che non compromettesse funzioni o servizi pubblici essenziali. La norma come noto verrà totalmente abrogata solo con la l. n. 146/90 e Carlo farà poi assolvere i ferrovieri in alcuni procedimenti per il reato di interruzione di pubblico servizio. E vinse soprattutto quando la Corte costituzionale con un’altra storica sentenza, la n. 22 del ’67, riconobbe la facoltà del giudice civile di accertare la sussistenza della responsabilità penale per il fatto dal quale era derivato l’infortunio sul lavoro ove non si fosse potuto procedere con l’azione penale.
Alla lettura della corrente costituzionalista volta al riconoscimento della dignità del lavoro e della sua primazia rispetto all’iniziativa economica privata, e all’interpretazione delle norme riguardanti il lavoro orientata verso l’eguaglianza sostanziale e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, Carlo Smuraglia ha dato un contributo fondamentale, sia sull’interpretazione e precettività delle norme, sia nell’opera di disincrostazione dai caratteri corporativistici delle disposizioni dei codici civile e penale regolanti il rapporto di lavoro e lo sciopero. Ricordo per questi aspetti, oltre che i numerosi saggi apparsi sulla rivista negli anni ’50 e ’60, la sua prima monografia La Costituzione e il sistema del diritto del lavoro (Feltrinelli, 1958). Successivamente, con la monografia La persona del prestatore nel rapporto di lavoro. I. L’intuitus personae (Giuffrè, 1965) Carlo Smuraglia opta decisamente per la lettura contrattualistica del rapporto di lavoro, vedendo nel contratto una garanzia di libertà ed uguaglianza (quanto meno formale) del lavoratore, rifiutando insieme alle teorie istituzionistiche anche ogni tentativo di allargare lo spettro degli obblighi del lavoratore oltre i limiti di quanto necessario per l’adempimento dell’obbligazione primaria. È la lettura contrattualistica di Carlo Smuraglia che riesce a coniugare il carattere assoluto e indisponibile dei diritti costituzionali del lavoratore con la loro matrice civilistica. Se ne avrà pochi anni dopo conferma negli studi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, quando con il suo La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale - che uscirà in una prima edizione nel ‘62 in una seconda del ‘67 e in una terza, la più conosciuta, aggiornata con le novità di cui all’art. 9 St. lav., nel ’74 – leggerà l’art. 2087 c.c. quale dovere di sicurezza del datore di lavoro avente carattere bifrontale a tutela dell’interesse pubblico e di quello individuale, fonte di integrazione del contratto ex art. 1374 c.c., cui segue la legittimità oltre che dell’eccezione di inadempimento, dell’azione per la richiesta di esecuzione in forma specifica dell’obbligo.
La sua battaglia per la sicurezza sul lavoro non è mai cessata. Il suo impegno trova ulteriore consacrazione nel notissimo Diritto penale del lavoro, il volume 10º dell’Enciclopedia giuridica del lavoro diretta da Giuliano Mazzoni (Cedam, 1980), dove l’analisi della normativa speciale prevenzionistica viene sviluppata anche con particolare riguardo alla ripartizione dei compiti tra i vari soggetti e all’individuazione delle responsabilità, al coordinamento tra le contravvenzioni dei decreti prevenzionistici con i delitti del codice penale, con l’analisi del ruolo e delle funzioni dell’Ispettorato del lavoro e degli enti di vigilanza allora deputati al controllo della sicurezza sul lavoro. E dove il tema delle prevenzione si accompagna a quello della necessità di utilizzare tutti gli strumenti giuridici disponibili, dal potere della polizia giudiziaria di impedire la prosecuzione dei reati e quindi di sospendere il lavoro in caso di pericolosità, al ruolo dei rappresentanti sindacali e alla legittimazione del sindacato e a intervenire nei processi penali a tutela dell’interesse collettivo.
6. Sempre incentrata sulla persona del lavoratore si svolge anche la sua azione parlamentare, con risultati importanti anche se non sempre chiaramente visibili. È a tutti nota la c.d. Legge Smuraglia (l. n. 193/2000) che ha decisamente ampliato le possibilità di lavoro dei detenuti, ma il contributo è stato di ben più ampio respiro. Ciò che colpisce maggiormente è anzitutto il metodo di lavoro portato avanti in Parlamento, attraverso la straordinaria capacità di costruire, attraverso il lavoro collettivo, attraverso le indagini le inchieste coinvolgenti Parlamentari di tutte le parti, ampie convergenze tra le diverse forze politiche. Sicché i suoi principali disegni di legge riuscirono ad essere approvati dalla Commissione Lavoro del Senato di cui faceva parte e talvolta anche dall’Aula del Senato. Risale alla XII legislatura il disegno di legge per la tutela contro le molestie sessuali, a cui segue l’Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della legge 10 aprile 1991, n. 125 recante norme in materia di azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro, nella quale si denunciavano tra l’altro gli inadempimenti della pubblica amministrazione e lo stato di sostanziale abbandono dei consiglieri delle consigliere di parità, privi di strutture e strumenti per agire. Sarà nella legislatura successiva che il d.lgs. n. 145/2000, sulla scorta di quella denuncia, tenterà di porvi un rimedio. Non diventerà legge, pur dopo essere approvato dal Senato il 26 settembre 1995 e riproposto e riapprovato dal Senato nella legislatura successiva, il disegno di legge sulle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Per una tutela si dovrà quindi attendere fino al recepimento delle nuove direttive europee del ‘2000. Come primo firmatario nella 13ª legislatura presenta ben 14 ddl, di cui un paio sulle molestie sessuali, e diversi in materia di sicurezza sul lavoro, compreso il ddl n. 2389 recante delega al Governo per l’adozione di un testo unico in materia, e il più noto, almeno all’epoca, Ddl n. 2049 sulla disciplina dei lavori atipici. Entrambi resteranno il palo, il Ddl sui lavori atipici fu approvato dal Senato, quello sulla sicurezza sul lavoro si arrestò in Commissione.
Al di là dei percorsi dei disegni di legge da lui stesso presentati come primo firmatario, il contributo di C.S. alla causa dei lavoratori è stato determinante in numerose altre riforme di quella legislatura. Penso in particolare al d. lgs. n. 38/00, che ha ampliato l’ambito di applicazione la tutela per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali ai collaboratori coordinati e continuativi e riconosciuto finalmente il diritto al risarcimento del danno biologico da parte dell’Inail; penso anche alla riforma dei patronati approvata con l. n. 152/01 che ha esteso l’assistenza degli istituti a tutte le prestazioni anche assistenziali e che si rivelerà fondamentale anni dopo a seguito delle riforme della sicurezza sociale e della digitalizzazione dei servizi; e penso ancora al lavoro fatto per emendare e migliorare quella che diventerà la l. n. 68/99 per la promozione dell’accesso al lavoro dei disabili.
Non si può apprezzare appieno il contributo di C.S. se non si tiene altresì conto di ciò che ha impedito che accadesse. Penso in particolare allo stop allo stillicidio di proroghe che ha caratterizzato l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 626/94, alla netta opposizione rispetto alle proposte di semplificazione e delegificazione, sempre nel senso della riduzione delle tutele, della normativa in materia di salute sicurezza sul lavoro, e ricordo che mi raccontò come in una seduta notturna riuscì a togliere da quella che diventerà la legge numero 142 del 2001 i primi tentativi di introdurre l’istituto della certificazione dei rapporti di lavoro.
Si sa che le sconfitte nei Tribunali sono fisiologiche e in qualche modo ce ne si fa una ragione; molto meno facile è accettare la sconfitta politica, soprattutto quando è opera dei propri stessi compagni di partito o di maggioranza. Lasciò il Parlamento, non ricandidandosi, e il partito alla fine della XIII legislatura. Non so dire se fosse più per il disappunto per le mancate riforme del lavoro o per il complessivo approccio degli allora Democratici di sinistra alle riforme istituzionali. So per certo che aveva estremo timore degli esiti della Bicamerale voluta da D’Alema e che mal digerì – astenendosi al voto – anche la Riforma del titolo V della Costituzione.
7. Certo non si arrese: proseguì la sua battaglia culturale e per la difesa della Costituzione semplicemente tornando al posto a cui in realtà è sempre appartenuto: la società civile e l’Anpi. Noi lo ritroveremo nelle sale di Corso d’Italia e alla Rivista giuridica del lavoro a sostenere la Cgil nella negoziazione della legge n. 123/2007 prima e del d. lgs. n. 81/2008. Anche in quelli non è difficile trovare il suo tocco, anche se nemmeno di quelli era totalmente soddisfatto, soprattutto dopo i cedimenti che già si intravvedevano nella stesura del testo unico rispetto alle dirette previsioni contenute nella legge delega. Danno atto del suo impegno il fascicolo del 2001 della rivista dedicato Al lavoro sicuri, con il suo Sicurezza e igiene del lavoro. Quadro normativo. Esperienze attuative e prospettive, il saggio del 2005 “Nuovi fattori di rischio, prevenzione e responsabilità del datore di lavoro. Quali regole?, e in specifico sul d. lgs. 81/08 la cura del supplemento al n. 2 della Rivista del 2007, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e il lavoro di gruppo fatto con il penalista Luca Masera e la sottoscritta, Note sullo schema di decreto "correttivo e integrativo" del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81: provvedimento "correttivo" o controriforma?, che tentava in qualche modo di frenare la deriva riduzionistica del testo unico tanto faticosamente conquistato.
8. Spero che mi perdonerà l’irriverenza. Ora che riposa, con affetto me lo immagino sulla spiaggia di un’isola greca, in completo anonimato la notte in costume da bagno balla il paso doble. Come il soldato di Salamina di Javier Cercas, il compagno rimasto nell’ombra, ma quello che “ha avuto il coraggio e l’istinto della dignità e per questo non ha mai sbagliato o comunque non si è sbagliato nel momento in cui contava davvero non sbagliare”.
* Questo contributo è destinato alla Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, alla quale Carlo Smuraglia ha collaborato per circa 60 anni. Uscirà sul fascicolo n. 2 del 2022.
Un manifesto costituzionale: recensione a Tania Groppi, Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale
di Corrado Caruso*
1. Con “Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale” (Laterza, 2021), Tania Groppi detta un manifesto per le politiche costituzionali del tempo presente. Non si tratta di una paludata opera di diritto costituzionale, di un volume che, a partire dalla Costituzione repubblicana, si inerpica sulle strade scoscese della tecnica giuridica. Il lavoro di Groppi è invece un agile e colto pamphlet che mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle derive individualiste ed elitarie della società contemporanea, per certi versi assai lontana dalla società “promessa” dalla nostra Costituzione. È bene però sgombrare il campo da un possibile equivoco: Groppi non cede alla giaculatoria secolarizzata, non compone un cahier de doléance intriso di pessimismo e rassegnazione. Il volume che qui si recensisce è, piuttosto, un richiamo alla necessità di un’educazione culturale ispirata ai principi costituzionali, che costituiscono le ammorsature su cui innestare le risposte politiche agli attuali squilibri sociali.
Groppi parte da un assunto, dimostrato da una analisi ricca di riferimenti teologici, letterari e artistici: il tratto costitutivo della storia umana è la diseguaglianza politica e sociale. Corollario della diseguaglianza è un’organizzazione sociale retta sul principio di gerarchia. Se la diseguaglianza, infatti, è un «dono» dei processi di civilizzazione (p. 6), la gerarchia definisce la struttura dell’ordine sociale. L’organizzazione gerarchica è talmente interiorizzata nella cultura del mondo occidentale da diventare, secondo il senso comune, la norma fondamentale della struttura sociale. Nella prima parte del lavoro, l’A. mira dunque a decostruire il concetto di gerarchia, svelandone le radici storico-culturali, i significati latenti e i reali obiettivi.
La gerarchica gode di un’aura di sacralità, che risale al proprio etimo (il termine deriva dal greco ieros, sacro, e arkein, comandare). Essa dà luogo a «concettualizzazioni basate su riferimenti spaziali», «che definiscono la positio di un determinato oggetto (davanti/dietro, sopra/sotto, destra/sinistra, vicino/lontano, dentro/fuori)» nel contesto sociale (pp. 7-8). Tra questi riferimenti spaziali, quello prevalente è la diade «sopra/sotto», (…) più frequentemente (…) espressa attraverso gli aggettivi alto/basso» (p. 9). In tal senso, «la metafora spaziale è divenuta la principale forma espressiva del principio di gerarchia, inteso quale principio di ordinazione delle cose attraverso una gradazione asimmetrica, e pertanto diseguale» (ibidem). La storia del pensiero e dell’esistenza umana è costellata di riferimenti verticali: esempi si ritrovano nella società stratificata degli antichi romani (si pensi all’opposizione summi infimique su cui Livio erige la distinzione tra la classe dominante e quella subalterna), nell’«ossessione» tomistica per la gerarchia angelica, persino nella fondazione dello Stato moderno, in cui la «société d’ordres articolata in ceti rigorosamente gerarchizzati (…) culmina nell’immortale corpo politico del re» (p. 13). Rare sono le eccezioni letterarie che prescindono dal culto della gerarchica: tra queste vanno annoverate Gargantua e Pantagruel di Rabelais, che rovescia la gerarchia ascensionale tipica del pensiero e dell’iconografia medievale a favore di «un moto discendente, verso le profondità della terra e del corpo umano», e il mito di Sisifo, ove la fatica ascensionale, consistente nella spinta verso l’alto di un immane macigno destinato, inesorabilmente, a rotolare giù, è segnata dall’inutilità e dalla alienazione di un’umiliante coazione a ripetere (pp. 16, 18).
La gerarchia non si limita a descrivere un ordine reale: nella narrazione collettiva assume una valenza ideale, un ordine da raggiungere perché intrinsecamente giusto. Nel senso comune maturato nei secoli, ciò che sta in alto è necessariamente bene. A questa narrazione contribuiscono ragioni cosmologiche, teologiche e antropomorfe (pp. 21-29). L’alto è, infatti, in «pressoché tutte le culture e religioni (…), il luogo del divino». Anche la parola “Dio”, che rimanda all’indoeuropeo deiwos - luminoso, celeste -, si contrappone all’homo, soggetto terrestre, come testimonia la sua origine etimologica (da humus, terra). L’altezza di Dio ritorna nelle sacre scritture (dalla sommità della scala sognata da Giacobbe, Dio lo rassicura sull’avvenire del popolo d’Israele), mentre nel Nuovo Testamento, che esprime l’ordine gerarchico anche attraverso la relazione di precedenza “davanti/dietro”, la giustizia divina si contrappone alla gerarchia terrestre, dalla prima sovvertita a favore dei più deboli: nel messaggio evangelico gli ultimi saranno i primi o, come sottolinea Gesù nel discorso ai Farisei, nel Regno dei Cieli «chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». È questa la conversione dello sguardo che assiste anche la Regola benedettina, nel senso che con «l’esaltazione si discende e con l’umiltà si sale» (p. 28).
La metafora verticale trova giustificazione anche in ragioni antropomorfiche: la verticalità della posizione umana (la testa dell’uomo «è in alto in rapporto dell’ordine dell’universo», ricorda l’A., richiamando Aristotele, p. 23), serve a legittimare gli squilibri sociali, a giustificare diseguaglianze e discriminazioni di ogni genere (p. 31).
2. Il costituzionalismo, movimento politico-filosofico che origina dalle rivoluzioni liberali del XVII e del XVIII secolo, nasce proprio per ribaltare l’ordine gerarchico dello status quo, sostituendo all’homo hierarchicus, il soggetto che è tale in quanto gerarchicamente situato, l’homo aequalis, e cioè «il singolo considerato in quanto essere umano individuale» (p. 38).
La lotta del costituzionalismo è una lotta contro i privilegi tipici della società organicista dell’ancien régime, ed è volta a riaffermare l’eguaglianza di tutti gli individui nelle libertà, a prescindere dalle condizioni di nascita, come recita l’art. 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. L’eguaglianza rivendicata dal costituzionalismo degli esordi è, però, una eguaglianza astratta, che si premura di garantire diritti contro l’intervento dello Stato (le cd. libertà negative e il diritto di proprietà) a prescindere dalle concrete condizioni sociali in cui versa l’individuo. Nello stato borghese, il «diritto “oggettivo” – a partire dal codice civile, il vero testo normativo fondamentale di questa società – diventa uno strumento a garanzia dei nuovi canali ascensionali che in quel periodo si aprono in campo economico e sociale per le figure emergenti come l’uomo imprenditore, vincente e di successo in confronto ai vecchi nobili, etichettati come “parassiti nullafacenti”». Simile evoluzione riflette una nuova distribuzione del potere politico, a favore della frazione di popolazione di censo elevato che concorre a formare le assemblee elettive. Queste rappresentano gli interessi della classe egemone: lo stato assoluto cede il passo alla nazione, un’entità collettiva fondata sulla «grande finzione del suffragio limitato su base censitaria e di genere» (nell’Italia del 1861, ricorda l’A., la nazione, e cioè la parte politicamente attiva del corpo sociale, coincideva con l’1,9% della popolazione, p. 41).
Il costituzionalismo degli albori, sostiene Groppi, non ha rovesciato l’organizzazione verticale tipica delle precedenti organizzazioni politiche: ha solo mutato l’ordine di precedenza dei soggetti egemoni senza scalfire l’esprit della gerarchia sociale. Da questo nuovo ordine restano fuori coloro che non possiedono beni e formano classi subalterne «che continuano una vita misera a dispetto di tutte queste ‘formali’ aperture di possibilità». Lo sbocco naturale di questa divisione sociale è il conflitto di classe, che ricomprende al suo interno le diverse fratture misconosciute dalla omogenea società liberale: i cleavages di natura razziale, culturale, di genere scorrono sottotraccia, assorbiti dalla grande questione economica che divide gli haves dagli haves not. L’eguaglianza rivendicata dal costituzionalismo liberale, nonostante sia presentata sotto il segno dell’universalità, sottintende in realtà un determinato tipo sociale: l’individuo bianco, maschio, proprietario (p. 42).
3. Lo stato borghese non reggerà al confitto di classe e alle tragedie del Novecento. Dalle ceneri della Seconda guerra mondiale nasce, in Europa, una nuova forma di stato, lo stato costituzionale, che segna l’ingresso delle masse dei lavoratori sul proscenio della storia e sigla il grande compromesso tra capitale e lavoro o, come scrive l’A., tra capitale e democrazia, sistema politico contraddistinto «dall’eguaglianza politica» (p. 45). Lo Stato costituzionale è uno Stato pluralista, che fa proprie le «differenze di interessi, di convinzioni ideologiche, di visioni della vita» e redistributivo: esso promuove la coesione sociale, «un insieme di legami di affinità e di solidarietà tra individui» (p. 43).
La coesione sociale richiede un intervento dei poteri pubblici volto ad appianare le gerarchie sociali attraverso una molteplicità di interventi, di natura anche economica. Le Costituzioni del dopo guerra richiedono la predisposizione di «meccanismi redistributivi basati sull’attrazione in capo al settore pubblico di una parte rilevante delle risorse, al fine di destinarle alla spesa sociale» (ibidem). Non a caso, la nostra Carta costituzionale positivizza una nuova generazione di diritti, i diritti sociali, che non proteggono dall’intervento dello stato, ma richiedono, all’opposto, l’intervento dei pubblici poteri sotto forma di prestazioni socio-economiche.
Questo deciso cambio di paradigma può essere riassunto in una norma annoverata, non a caso, tra i principi fondamentali della Costituzione: l’art. 3 enuncia, a fianco dell’eguaglianza formale di cui al comma 1, l’eguaglianza sostanziale (comma 2), «che prende in considerazione l’individuo nella realtà della sua vita e delle sue relazioni, economiche e sociali, rendendo legittimi, anzi necessari, interventi “diseguali”, allo scopo di riequilibrare le condizioni di fatto in favore di quelli che stanno “in basso”» (p. 48). All’art. 3.2 Cost si affianca l’art. 2 Cost., che nel richiedere l’inderogabile adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale, determina una «identità costituzionale incentrata sulla fraternità e sulla vicinanza tra le persone» (p. 49). Queste coordinate costituzionali richiamano tutti i soggetti istituzionali della Repubblica al loro inveramento: «[c]he si tratti di soggetti appartenenti al circuito della decisione politica, come il parlamento, il governo, le regioni, o piuttosto di giudici – comuni o costituzionali – è a essi che spetta dare effettività ai principi costituzionali» (p. 49).
4. L’eguaglianza sostanziale «ci proietta in una dimensione nella quale la crescita individuale è funzionale sia allo sviluppo personale sia a quello della società nel suo insieme: in tal modo pone le basi per scavalcare la contrapposizione-contraddizione tra individuo e gruppo sociale, tra diritti individuali e bene comune (…) che aveva dilaniato lo Stato liberale ottocentesco fino a scardinarlo» (pp. 51-52). È la persona, nei suoi concreti rapporti sociali, nelle sue plurime reti di interlocuzione, a richiedere tutela, non un astratto figurino individuale che sottintende, in realtà, un determinato tipo sociale. L’art. 3.2 Cost. disegna una società «pronta non solo ad accogliere, ma ad incoraggiare e sostenere il cambiamento e i cammini di ciascuno, ove ogni persona liberata dalla zavorra che la tiene immobilizzata (…) possa fiorire e trovare il posto più consono alle sue aspirazioni inclusa la partecipazione alla classe dirigente» (p. 55).
A parere dell’A., il disegno delineato dall’art. 3.2 Cost. rinvia a una concezione orizzontale dei rapporti sociali che rende incompatibile con la Costituzione le strategie che mirano a riprodurre, sotto mentite spoglie, una logica ascensionale di tipo verticale. Così è per il concetto di mobilità sociale che, pur patrocinata da autori di diverso orientamento ideologico, trasforma «le disparità e le sperequazioni in fenomeni naturali», innescando «processi competitivi improntati al darwinismo sociale». Essa contribuirebbe a «cristallizzare (…) una visione del mondo articolata secondo l’asse verticale alto-basso e orientata al mantenimento dello status quo», producendo «invidia per quelli che stanno sopra (…) e disprezzo per quelli che stanno sotto» (pp. 56-57). Stesso discorso vale, a parere dell’A., per la retorica del merito, concetto «quanto mai ambiguo e ideologico» (p. 58). I talenti non sono misurabili: non sono meriti ma «doni» ricevuti per motivi insondabili o, all’opposto, per motivi «anche troppo facilmente sondabili, come la famiglia, la ricchezza, l’eredità». In altri termini, «quello che a prima vista consideriamo un “merito” è invece il frutto di condizioni economico-sociali, proprie o dei propri antenati, che condizionano lo sviluppo psicofisico e culturale della persona umana» (p. 59). Il discorso sul merito si intreccia con l’acritica valorizzazione della eguaglianza di opportunità, che in realtà ridurrebbe i rapporti tra individui a una «competizione (…) nella quale tutti (…) debbono essere messi in condizioni di gareggiare (…) per emergere e primeggiare» (p. 61). Anche la creazione di percorsi di eccellenza per «i capaci e i meritevoli», per utilizzare i termini della nostra Costituzione (art. 34), assumerebbe un significato discriminatorio ed escludente: sulla scia di Don Milani, Groppi sostiene che la «meritocrazia» non sarebbe altro che una forma di valorizzazione dei forti e di disprezzo dei deboli. «In definitiva», conclude l’A., «l’unica concezione di mobilità sociale compatibile con la nostra Costituzione è quella che, depurata da ogni accezione gerarchica e meritocratica, sta ad indicare il diritto di ciascuna persona (…) al pieno sviluppo della sua personalità e alla sua partecipazione, su un piano di parità, all’adozione delle decisioni politiche» (p. 65).
5. Groppi dedica l’ultima parte del volume ad un bilancio e alle prospettive del costituzionalismo sociale, volto alla realizzazione dell’eguaglianza sostanziale. Non vi è dubbio, ricorda l’A., che la forza normativa della Costituzione abbia contribuito a una significativa redistribuzione della ricchezza, orientando l’edificazione dello Stato sociale. A partire dalle politiche neo-liberali degli anni ’80 dello scorso secolo, è iniziato però un processo di regressione delle tutele sociali, che ha messo in crisi la forza normativa della Costituzione (p. 73). L’A. accenna alla crisi di progressività del sistema fiscale, richiesta dall’art. 53 Cost., «svaporata in un profluvio di tributi non progressivi» (p. 74), o alla svalutazione prescrittiva dei diritti sociali «propugnata in nome di presunte razionalizzazioni della spesa pubblica», di cui non resterebbe che la garanzia del nucleo essenziale, come in effetti affermato dalla Corte costituzionale (ibidem). L’impoverimento delle tutele sociali troverebbe conferma nella modifica, realizzata sull’onda della crisi finanziaria del 2012, dell’art. 81 Cost e dall’introduzione del principio dell’equilibrio di bilancio, che avrebbe sopravanzato le ragioni del contenimento della spesa pubblica alle garanzie sociali della Costituzione.
Simile processo sarebbe dovuto a una pluralità di fattori, alcuni di essi esterni ai confini nazionali: anzitutto, il peso rilevante delle istituzioni della globalizzazione (come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Commissione europea) che avrebbero svuotato il potere politico dei governi, ridotti a meri esecutori di scelte altrui. Questo svuotamento dei poteri democratici interni causato dalla globalizzazione avrebbe portato alla diffusione di una sorta di apatia politica, di una percezione, da parte dei cittadini, circa «l’inutilità di partecipare a processi decisionali che [non influiscono] sulle grandezze che stanno alla base della propria vita, soprattutto per quanto riguarda le politiche economiche, finanziarie, e del lavoro» (p. 80). Questa perdita di fiducia verso i circuiti democratico-rappresentativi, insieme al timore di un arretramento della sicurezza sociale, porta i cittadini ad assecondare svolte autoritarie, come avvenuto in Polonia e in Ungheria. Tali esperienze hanno reso nuovamente attuale il fenomeno delle cd. illiberal democracy, caratterizzate dalla «compresenza» di elementi democratici e autoritari (p. 79).
A questo deve aggiungersi il «processo di individualizzazione», e cioè «la ricerca di soluzioni individuali a problemi collettivi», con la promozione di dinamiche concorrenziali tra individui e «l’indebolirsi dei legami di solidarietà e collaborazione», che portano alla crisi di formazioni sociali e corpi intermedi (p. 77). Simile tendenza è favorita dalle nuove forme di comunicazione di massa offerte dalle piattaforme digitali, che, per mezzo di algoritmi, favoriscono la creazione di eco chambers, di gruppi chiusi che consentono agli internauti di incontrare e diffondere opinioni e commenti con soggetti che condividono i medesimi orientamenti politico-culturali. Viene meno dunque una delle caratteristiche della democrazia pluralista, «che si nutre, al contrario, di “incontri non pianificati”» e di «esperienze condivise» frutto di reciproca comprensione (p. 81).
Per Groppi, dunque, la crisi della democrazia risiede anzitutto nel tramonto del sentimento di comune appartenenza al corpo politico: «[i]l venire meno di una comune appartenenza mina, a sua volta, lo stesso legame comunitario, favorendo la divisione e la polarizzazione» (p. 84). Tale polarizzazione è acuita dalle incertezze economiche del nostro tempo, che generano «una molteplicità di emozioni negative: risentimento, rancore, invidia, sfiducia, insicurezza, paura e finanche rabbia». Queste incertezze, unite alle penurie di risorse, provocano una sorta di guerra tra ultimi: la rabbia sociale non viene indirizza verso chi muove le leve del potere reale, ma verso i più poveri (i migranti, ad esempio), considerati responsabili del progressivo impoverimento collettivo.
6. Di fronte a questo quadro tutt’altro che rassicurante, Groppi propone di “tornare” alla Costituzione. I diritti sociali e i corollari dell’eguaglianza sostanziale non sono semplici opzioni politiche (come nell’ordinamento statunitense, ad esempio), sempre reversibili alla luce degli equilibri che vanno determinandosi in un determinato contesto, ma sono veri e propri principi normativi che conferiscono identità all’ordinamento costituzionale. È necessario, dunque, «”trarre dall’oblio”» le norme costituzionali: «il diritto [costituzionale] non è una variabile indipendente nel mare magnum delle politiche economiche e sociali, ma ha carattere prescrittivo, cioè deve improntare di sé programmi politici, elettorali e di governo, atti normativi di ogni ordine e grado, sentenze di ogni ordine e grado» (p. 91).
Deve essere poi riscoperto l’art 11 Cost., che segna l’apertura internazionalistica dell’ordinamento e impegna l’Italia a dare vita ad organizzazioni internazionali che promuovano la pace e la giustizia tra le nazioni. In altri termini, l’Italia deve portare a livello europeo e internazionale i temi «dello sviluppo e della giustizia (…) in nome degli ultimi, degli oppressi, di chi sta in basso» (p. 91).
Il vero cambiamento deve essere però culturale: è necessario, secondo l’A., riscoprire i sentimenti collettivi che legano insieme la società, lasciando da parte, come insegnano autorevoli neuroscienziati (l’A. cita i lavori di Damasio sul ruolo delle emozioni nel ragionamento umano e nell’assunzione di decisioni individuali), il semplice calcolo razionale o utilitaristico: tra tali sentimenti collettivi, «il sentimento di giustizia, o meglio, di rifiuto dell’ingiustizia, (…) faccia inevitabile dell’empatia, cioè della fraternità, svolge, per la sua fondamentale natura relazionale, il ruolo centrale» (p. 95). Anche i sentimenti, naturalmente, vanno educati: rovesciando il diktat di Margareth Thatcher, che in una famosa intervista richiamò la necessità di «cambiare il cuore e l’anima» dei lavoratori per renderli funzionali alle esigenze del capitale, è dal cuore che, secondo Groppi, bisogna ripartire. Cuore inteso come «unione di sentimento, intelletto e volontà e che spesso viene definito “coscienza”» (p. 96). La voce della coscienza, «nella quale si radica il sentimento di giustizia, è sepolta giù (…) negli insondabili abissi di ogni cuore umano. Essa deve e può essere raggiunta (…) attraverso la crescita spirituale e umana di ognuno. Ritornando alle (…) metafore spaziali, è in basso che occorre cercare, è dal basso che può germogliare la vita, come sempre accade sulla terra» (p. 97).
Quale è il posto del diritto e dei suoi chierici in questo processo, individuale e collettivo, di sensibilizzazione delle coscienze? I costituzionalisti, scrive Groppi, devono uscire dall’autoconfinamento, «concentrati come sono sugli aspetti più “tecnici” [della disciplina], come il costo dei diritti sociali, le garanzie giurisdizionali, i vincoli europei, al punto di lasciare la democrazia in balia di una diseguaglianza con essa inconciliabile» (p. 100). Il giurista, sembra dire l’A., ha da essere engagé, dedito alla attuazione del programma costituzionale, immerso nei «piccoli luoghi vicino a casa» dove nascono i diritti (secondo la nota espressione di E. Roosevelt, p. 101), votato all’inveramento di una democrazia progressiva, guidata «dai principi del costituzionalismo (…) sociale» (ibidem). Oggi, conclude Groppi, «abbiamo bisogno che il diritto, muovendo dai grandi principi, si traduca in contesti in cui “il pieno sviluppo della persona umana” si realizzi effettivamente: ci serve un “diritto piccolo”, che trasformi i principi in politiche che tengano conto di ogni essere umano nella sua concretezza e unicità, scardinando visioni basate su stereotipi, sostenute da fuorvianti metafore» (ibidem).
Non sfugge all’A. che questo rinnovato umanesimo giuridico deve concretizzarsi in una adeguata azione istituzionale: le politiche necessarie a realizzare una trasformazione sociale in senso egualitario devono essere realizzate da «maggioranze politiche che credano nella democrazia costituzionale, da rappresentanti di un’opinione pubblica e di elettori capaci di vedere altro. E vanno attuate attraverso la scuola, le amministrazioni, specie locali, la società civile, le famiglie e in definitiva col contributo di ciascuno di noi» (p. 101).
Anche i giudici e le istituzioni di garanzia sono destinati ad avere un ruolo rilevante, anche in ragione della stasi e dell’incapacità decisionale delle istituzioni politiche. In effetti, «la funzione di presidiare la precettività (…) del diritto (…) implica che sulle loro spalle si scarichi il compito di supplire alle omissioni della politica, dando effettività ai principi nei casi concreti». L’azione giurisdizionale, là ove lasci interagire i principi costituzionali con le concrete dinamiche sociali, dà vita a un «diritto mite», come lo ha definito Gustavo Zagrebelsky, che tuttavia rischia di arrivare in ritardo, quando le violazioni della Costituzione sono «già avvenute e molte volte irrecuperabili» (p. 102).
Non bastano, però, i giudici, secondo Groppi, a realizzare la trasformazione sociale richiesta dalla Costituzione. È necessario invece affidarsi a uno «Stato costituzionale diffuso, depurato dalle reminiscenze gerarchiche, e per il quale occorre al più presto cercare nuove rappresentazioni spaziali». È necessario uno sforzo istituzionale plurale, fondato sull’eterarchia e sulla gestione reticolare dei processi di produzione del diritto (p. 103). Solo in questo modo è possibile riaffermare la precettività del diritto e soddisfare il suo fine ultimo, che risiede nel «contrapporsi alla forza, al privilegio, all’ingiustizia, in una parola a scardinare l’odiosa gerarchia che sottomette chi sta in basso a chi sta in alto» (p. 103).
7. Il lavoro di Tania Groppi è una appassionata apologia dell’eguaglianza sostanziale, considerata, non a torto, condizione di effettività del sistema democratico. Un libro da leggere, per riscoprire l’importanza dell’educazione costituzionale, del sentimento collettivo di appartenenza di una comunità di destini unita nel segno della Costituzione.
La lettura del volume solleva però alcuni interrogativi, sia sul piano teorico sia sotto il profilo istituzionale, che in questa sede non possono che essere accennati. Non vi è dubbio che la Costituzione repubblicana tuteli l’homme situé, secondo l’espressione di Georges Burdaeau, e cioè la persona nelle sue plurime declinazioni sociali. Per la Costituzione, titolari dei diritti sono i cittadini, i lavoratori (anche minori di età), le donne lavoratrici, gli «inabili e i minorati», la madre, il figlio, i coniugi, lo studente e così via. Questa frammentazione degli status è in fondo conseguenza dell’eguaglianza sostanziale riconosciuta nell’art. 3, secondo comma, Cost., che richiede di intervenire sulle particolari situazioni sociali evocate dalle successive disposizioni costituzionali. Vanno però valutate con attenzione le conseguenze di una lettura estensiva di tale principio, il quale richiede, per sua natura, una estesa differenziazione giuridica. Se, infatti, compito del diritto è individuare le condizioni che, di volta in volta, situazione per situazione, ostacolano la piena realizzazione individuale, l’eguaglianza sostanziale richiede un costante processo di individualizzazione giuridica, traducendosi, nei fatti, in una diffusa diseguaglianza normativa. Fino a che punto questo percorso è compatibile con l’eguaglianza formale (eguaglianza davanti alla legge senza distinzioni di condizioni personali e sociali), che rappresenta l’altro corno dell’art. 3 Cost.? L’estrema valorizzazione delle differenze non rischia di incidere sulla stessa coesione sociale, sulla possibilità di fondare una appartenenza condivisa alla comunità politica? Questa sorta di diritto differenziato non rischia di frammentare l’identità collettiva della comunità politica, a favore di un egoistico individualismo, peraltro fortemente criticato dalla stessa A.? In fondo, lo stesso principio di ragionevolezza, sorto grazie alla giurisprudenza costituzionale, ha rappresentato il ponte di connessione tra il secondo e il primo comma dell’art. 3 Cost., individuando, allo stesso tempo, la necessità e il limite delle differenziazioni costituzionalmente richieste.
La sintesi politica realizzata dalla legge, che trova nel proprio etimo la necessità di legare insieme (ligare) la comunità politica, rischia altrimenti di cedere il passo a un diritto singolare, ridotto a conferire dignità giuridica a qualsiasi pretesa portata avanti dall’individuo. Questa attenzione ai bisogni individuali porta con sé precise conseguenze istituzionali, avallando una sovraesposizione delle corti a detrimento delle istituzioni politiche. L’A. è ben consapevole dei limiti di un gouvernement des juges, incapaci, per la loro posizione istituzionale, di offrire una risposta sistematica alle sfide poste dalla diseguaglianza. A parere di chi scrive, si può però evidenziare anche un potenziale (ed esiziale) spostamento (ed accentramento) di potere: la decisione giurisdizionale rischia di diventare un trasformatore permanente di energia sociale in pretese giuridicamente assistite.
Groppi sottolinea, inoltre, come la retorica del merito sia utilizzata per giustificare l’assetto gerarchico verticistico, perciò profondamente ineguale, della società. Tale conclusione presenta più di un aspetto di verità, soprattutto qualora le logiche meritocratiche siano calate su un tessuto sociale squilibrato, con punti di partenza differenziati, sfavorevoli per i meno abbienti. La cultura della valutazione, se correttamente applicata, può però anche portare dei benefici, proteggendo i più deboli da logiche di selezione ispirate ad altri criteri (familistici, corporativi, biecamente corruttivi, etc.). In fondo, è questa la ratio del diritto allo studio sancito dall’art. 34 Cost., laddove richiede di assicurare, ai capaci e ai meritevoli, il raggiungimento dei gradi più alti degli studi.
Per correggere le disarmonie sociali, ed evitare che il merito legittimi e garantisca la sopravvivenza di gerarchie precostituite, c’è senz’altro bisogno di politiche redistributive ed inclusive. Nel nostro ordinamento, come opportunamente sottolinea Groppi, lo stato sociale esprime una formula prescrittiva, che deve essere inverata (e rispettata) da tutti i pubblici poteri.
A parere di chi scrive, le politiche sociali chiamano in causa soprattutto l’intermediazione legislativa. Per ragioni di teoria generale, anzitutto: i diritti sociali, quanto meno quelli che consistono in una prestazione resa dai pubblici poteri, richiedono l’individuazione delle risorse, degli apparati amministrativi necessari a fornire il servizio, della platea dei beneficiari. Inoltre, l’intermediazione legislativa è imprescindibile per ragioni eminentemente politiche, legate alla necessità di imboccare un coerente percorso di riforme. Da tempo sono noti i difetti e le mancanze dello stato sociale italiano: ascrivibile al modello mediterraneo di welfare state, il nostro sistema si caratterizza per un’elevata spesa pensionistica, per essere legato a “categorie” tradizionali di soggetti protetti e per la sua spiccata arretratezza sul piano dei servizi, sbilanciato come è sul versante dei sussidi. Questo assetto, che porta a supplenze “familiste”, cioè a prestazioni di cura e assistenza realizzate dalla famiglia a favore dei suoi componenti più deboli, marginalizza il contributo dello Stato, che interviene solo a fronte dell’impossibilità di fornire assistenza all’interno della famiglia. Proprio la necessità di aggiornare le finalità e l’organizzazione dello stato sociale chiama in causa le responsabilità della politica e la necessità del riformismo legislativo (come insegna la storia, l’Inghilterra adottò uno dei tra più avanzati esperimenti di welfare grazie alla coraggiosa politica laburista del governo Attlee, che diede dignità normativa al rapporto Beveridge).
Tali riforme possono però essere realizzate solo rafforzando i circuiti della decisione politica, oggi dispersa in mille rivoli istituzionali. È senz’atro auspicabile, come scrive l’A., trasformare l’organizzazione del potere, passando da un assetto verticistico a un modello reticolare, ove ciascun centro istituzionale porti il proprio contributo al processo di decisione politica. Rimane però imprescindibile, a seguito di un simile confronto orientato all’intesa, individuare il soggetto incaricato della scelta finale, garantirgli uno spazio di azione politica al riparo da possibili veti incrociati e attivare meccanismi che ne facciano valere la responsabilità di fronte ai cittadini. In fondo, l’apatia e il distacco dei cittadini dalla politica, evidenziata da Groppi, dipendono anche dalla incapacità della democrazia rappresentativa di rispondere alle plurime esigenze del corpo sociale e di calmierare i conflitti che possono sorgere nella cornice pluralista. Di fronte all’accidia democratica, i populismi di oggi e di domani hanno già pronta la soluzione, suadente e sinistra: se una democrazia è immobile o inefficiente, perché non affidare il proprio destino ad un dittatore (più o meno) illuminato?
* Professore associato di diritto costituzionale, Università di Bologna.
Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022
di Pasquale Serrao d’Aquino
Sommario: 1. Introduzione. - 2. I divieti di mutamento di funzioni secondo la riforma Castelli-Mastella del 2006. - 3. La riforma dell’art. 13: una separazione delle carriere a Costituzione invariata. - 3.1. I cambi nei primi nove anni di funzioni giudiziarie. - 3.2. Le possibilità di scelta residue dopo nove anni dal conferimento delle funzioni giudiziarie. - 3.3. Le funzioni di legittimità. - 3.4. I procuratori europei delegati e il procuratore europeo. - 4. La normativa transitoria e la tutela del principio dell’affidamento. - 5. Gli ulteriori problemi sollevati dalla riforma: assegnazione d’ufficio delle funzioni, incoerenza e irrazionalità delle finalità sottese alle norme introdotte.
La modifica dell’art. 13, introdotta dopo la presentazione del d.d.l. Cartabia al Parlamento, attua una separazione tendenziale delle carriere analoga a quella già prevista dalla Legge n. 150 del 2011 e dal d.lgs. 160/2006 nella sua prima formulazione, prima della “controriforma” operata con la legge n. 111 del 2007 . E’ previsto un solo cambio delle funzioni durante la carriera che, solo ove posto in essere nei primi nove anni di funzioni, non comporta il sorgere di incompatibilità assolute di funzioni (requirente) o di settore (penale), anche nell’ambito della legittimità.
A prescindere dalla costituzionalità della riforma, vengono a crearsi numerose difficoltà applicative e incongruenze, quali l’operatività delle incompatibilità anche per le funzioni svolte prima dell’entrata in vigore della legge n. 71 del 2022 e fino al primo cambio di funzioni o trasferimento ad altro ufficio, nonché in tutti i casi di trasferimento o applicazione d’ufficio. Si impone un’interpretazione costituzionalmente orientata che tuteli l’affidamento dei magistrati in servizio a poter effettuare le proprie scelte professionali senza che la novella abbia effetti retroattivi, nonché che eviti le criticità organizzative degli uffici e del Consiglio Superiore della Magistratura derivanti dall’impossibilità di assegnare a determinare funzioni o settori i magistrati non su domanda, determinando con loro pregiudizio la successiva impossibilità di accesso alle diverse funzioni o al medesimo settore.
L’ ipotetica inidoneità a svolgere le funzioni giudicanti penali da parte del pubblico ministero o, all’opposto, le funzioni requirenti da parte del giudice penale, non è ragionevolmente perseguita, posto che le incompatibilità previste sono collegate al momento del cambio di funzione, piuttosto che alla durata delle pregresse funzioni esercitate; analogamente l’ulteriore ratio, sottesa alla novella, dell’alimentare una percezione di estraneità reciproca tra giudici e pubblici ministeri risulta frustrata dall’identità di status di tutti i magistrati, appartenenti al medesimo ordine e soggetti al comune governo autonomo, costituzionalmente garantiti.
1. Introduzione.
I risultati modesti del referendum sulla giustizia del 12 giugno, con le loro percentuali di voto minime, indicative di una scarsa adesione reale della cittadinanza ai propositi riformatori, hanno costituito un’efficace arma di distrazione di massa, nascondendo il velocissimo rush finale operato dall’Assemblea del Senato che ha condotto all’approvazione del DDL Cartabia sulla riforma ordinamento giudiziario il 17 giugno, a distanza di meno di una settimana dalla consultazione popolare.
La magistratura, ferma tra le secche degli scandali della consiliatura passata, indebolita dagli interessati attacchi mediatici da parte della politica, che agiscono sinergicamente con le lacerazioni interne, non è riuscita a compiere un’elaborazione critica dell’andamento della consiliatura attuale, giunta agli sgoccioli, e sembra, con un singolare istinto di rimozione, voler continuare il dibattito sulle riforme che, per forza inerziale, si protrae sebbene superato dall’approvazione del testo legislativo definitivo. Attraversato lo spartiacque tra il prima e il dopo occorre, invece, interpretare la nuova fase storica e focalizzare l’attenzione su tre aspetti: l’attuazione delle norme immediatamente applicabili; la corretta elaborazione delle norme attuative dei principi di delega; il ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura.
Gli interventi sull’ordinamento giudiziario preesistente e sulla disciplina del Consiglio Superiore prevista dalla legge n. 195 del 1958, come successivamente modificata sono così invasivi che, rispetto all’assetto precostituzionale del r.d. n. 12 1941 e alla successiva riforma Castelli-Mastella operata con il d.lgs. 160/2006 e il d.lgs. 109/2006[1], occorre approcciarsi alla legge n. 71 del 2022 come ad un nuovo ordinamento giudiziario 3.0.
In questa sede è opportuno soffermarsi su quella che è l’innovazione più dirompente, costituita dalla separazione quasi integrale delle carriere, prevista da norme direttamente applicabili, rinviando ad altra sede sia un esame complessivo della riforma sia alcune riflessioni di fondo sulla sua costituzionalità e sulla opportunità di questa e altre misure[2].
2. I divieti di mutamento di funzioni secondo la riforma Castelli-Mastella del 2006.
L’art. 13 del d.lgs. 160/2006, come accennato, nella versione risultante dalle modifiche attuate con la legge n. 11 del 2007 (controriforma “Mastella”), conteneva delle disposizioni che irrigidivano i passaggi di funzioni, abbandonando, tuttavia, quella radicale destinazione prevista dalla legge n. 150 del 2011 e dal relativo decreto legislativo attuativo.
Non è fondata la tesi emersa in alcune sentenze, per le quali la finalità dell’art. 13, non sarebbero quelle in seguito illustrate ma, più semplicemente quella di rendere più difficili i passaggi di funzioni per separare le carriere (es. T.A.R. del Lazio n. 3711 del 2022), per la banale considerazione che si tratta di una tautologia: l’irrigidimento dei passaggi non può essere la finalità della norma, se non politica e, quindi, metagiuridica; ogni divieto, come ovvio, deve salvaguardare interessi costituzionalmente rilevanti.
Tanto precisato, la precedente versione dell’articolo, in primo luogo, garantiva la terzietà del giudice anche sotto il profilo dell’apparenza, vietando i cambi repentini dalla scrivania del requirente a quella del giudicante e viceversa, attraverso precisi limiti territoriali, di settore e temporali.
Per i cambi nell’ambito del settore penale era fissata un’incompatibilità a livello regionale, e non solo distrettuale (comma 3). Il divieto era temperato dalla possibilità di cambi infraregionali. Per modificare le funzioni di pubblico ministero con quelle giudicanti civili, così come quelle di giudicante civile per quelle pubblico ministero, bastava per il magistrato, infatti, cambiasse provincia e circondario.
Allo scopo di evitare cadute nella percezione della terzietà del giudice, vi erano due regole distinte: (1) la prima, relativa all’ufficio di provenienza, prevedeva che il giudice civile che intendeva trasferirsi in Procura non doveva avere svolto funzioni penali per cinque anni; la seconda, relativa, invece, all’ufficio di destinazione, prevedeva che chi acquisiva le funzioni giudicanti provenendo dalla procura, non potesse “essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni”; analogamente, chi, al contrario, assumeva le funzioni requirenti, non poteva essere assegnato a funzioni civili o promiscue nella procura di destinazione fino al successivo trasferimento o cambio di funzioni (comma 4).
In secondo luogo, per assicurare che la facoltà di cambio non ostacolasse la maturazione di una certa professionalità nelle funzioni, indipendentemente dal fattore territoriale e dal settore di esercizio, era previsto un tempo minimo per cinque anni tra un cambio di funzioni e quello successivo, oltre che numero massimo di quattro cambi nell’arco dell’intera carriera.[3]
Tali limitazioni valevano anche per le funzioni di legittimità, anche direttive (commi 6 e 14), salvo quella relativa al mutamento di sede, logicamente necessitata dalla giurisdizione nazionale degli uffici di legittimità, con l’eccezione di quelle direttive superiori ed apicali (art. 10, commi 15 e 16). Discutibile, per ragioni che in questa sede non è possibile approfondire compiutamente, era la mancata sottrazione integrale delle funzioni di legittimità, requirenti e giudicanti, per le loro specificità connesse all’assenza di funzioni requirenti della Procura generale, al suo agire nell’interesse della legge (si pensi ad esempio al ricorso ex art. 363 c.p.c.) e, soprattutto, per la sua partecipazione alla funzione nomofilattica, di assicurazione dello ius constitutionis piuttosto che dello ius litigatoris.[4]
In questo quindicennio non sono stati eccessivi i problemi interpretativi di dovuti all’attuazione dell’art. 13, anche per il ridotto numero di cambi di funzione effettuati, disincentivati dalla necessità di trasferimento in altra Regione, con le conseguenze familiari che ne derivano[5] . Essi hanno riguardato essenzialmente i seguenti aspetti:
1) l’applicazione di tali disposizioni anche ai trasferimenti per incompatibilità funzionale, esclusa da un risposta a quesito del CSM del 9 febbraio 2011 sia sulla base di argomenti testuali (secondo l’art. 13, comma 3 esso non poteva ”essere richiesto” più di quattro volte”) sia di incomprimibilità della facoltà futura di scelta del magistrato come effetto eccedente le finalità dell’art. 2 l. guarentigie [6];
2) l’applicazione in genere ai trasferimenti d’ufficio, al primo trasferimento dei magistrati di nuova nomina dopo aver svolto le funzioni nella sede iniziale[7], ai trasferimenti d’ufficio su disponibilità verso le sedi disagiate (s. alle quali i recenti bandi del CSM prevedono espressamente che debbano rispettarsi i vincoli di cui all’art. 13);
3) la possibilità, cambiate le funzioni e mutata la regione di servizio, di ritornare nel distretto di provenienza con le diverse funzioni prima del decorso dei cinque anni di decantazione minima, inizialmente in qualche caso ammesso dal CSM e, successivamente, invece,negato, conformemente alla giurisprudenza amministrativa e, in particolare ad una decisione del Consiglio di Stato (Sez. IV n. 1961 del 2015[8]), la quale ha affermato che tale ritorno è possibile solo dopo cinque anni anche nel caso in cui il magistrato effettui dei trasferimenti cd. intermedi (dall’ufficio A verso l’ufficio B e poi nuovamente a quello A o, comunque, nella provincia, circondario o distretto di A), rilevando, ai fini dell’art. 13, solo il risultato finale;
4) l’estensione di tali divieti ai casi in cui un magistrato, negatogli il trasferimento in un determinato distretto, per essere ad esempio, preferito altro magistrato abbia presentato ricorso e, medio tempore trasferitosi in quel distretto mutando le funzioni con bando successivo, abbia successivamente vinto il ricorso per il posto preventivamente richiesto, trovandosi in tal modo ad essere assegnato, in ottemperanza alla sentenza, ad funzioni nel distretto incompatibili ex art. 13 rispetto a quelle attualmente svolte (es. domanda di trasferimento al Tribunale di Roma rigettata dal CSM, ricorso al giudice amministrativo, trasferimento alla Procura di Roma con successivo bollettone e relativa presa di possesso, accoglimento del ricorso per il trasferimento nel distretto di Roma come giudice). In tale caso il giudice amministrativo, per assicurare effettività alla tutela giurisdizionale ha ritenuto inapplicabile il divieto;
5) più di recente, l’applicabilità di tali divieti anche in caso di passaggio dalle funzioni di legittimità a quelle di merito di diversa natura (requirente o giudicante), ancora sub iudice;
6) la configurabilità del divieto di mutare le funzioni per chi, prima dell’entrata in vigore della riforma Cartabia-Mastella, aveva già esaurito il numero di cambi di funzione ammissibile, ritenuto inapplicabile secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata (v. infra);
7) la rilevanza del periodo fuori ruolo ai fini del decorso del quinquennio di decantazione.
3. La riforma dell’art. 13: una separazione delle carriere a Costituzione invariata.
Il nuovo testo apporta modifiche radicali all’art. 13, non più volte ad assicurare una semplice immagine nella dimensione regionale di terzietà del giudice, ma a realizzare una effettiva separazione delle carriere giudicanti e requirenti. Esse, infatti, secondo la riforma finiscono tendenzialmente per divaricarsi una volta maturati nove anni di funzioni giudiziarie per le incompatibilità che si maturato, per poi definitivamente divenire separate una volta esercitata la facoltà unica di cambio delle funzioni.
La misura adottata, infatti, presenta diverse analogie con quella prevista dal testo originario del d.lgs. 160/2006 (riforma Castelli), successivamente modificato dalla legge n. 11 del 2007 (testo Mastella), che prevedeva l’obbligo di una scelta definitiva tra le funzioni giudicanti e quelle requirenti entro i primi cinque anni.[9]
Nell’interpretazione delle nuove norme, come per ogni modifica normativa occorre distinguere il fine perseguito dalla maggioranza parlamentare rispetto alla ratio obiettivata nelle norme definitivamente approvate dall’Aula. Rispetto alla loro effettiva formulazione i lavori parlamentari, forniscono un mero ausilio attraverso una verifica, con rilevanza decrescente, delle modifiche apportate la testo definitivo, delle Relazioni allegate al testo o delle dichiarazioni di voto. Nella specie, trattandosi di emendamenti non vi sono, tuttavia argomentazioni utili sottese alla modifica del disegno di legge di origine governativa.
La finalità politica generale è quella di “separare le carriere”, non solo ostacolando i passaggi da una funzione all’altra, ma creando in tal modo un’alterità di status che dovrebbe contribuire ad accentuare la terzietà del giudice rispetto alle richieste del pubblico ministero. E’ necessario, tuttavia, perché l’assetto normativo che ne consegue risponda al principio di ragionevolezza che esso presenti una sua coerenza e che l’interprete possa individuare i singoli interessi sottesi alle incompatibilità previste e riconoscerli come meritevoli di tutela.
Ebbene, risulta chiaro che la creazione di una alterità categoriale e la percezione del pubblico ministero come “altro da sé” da parte dei giudici resti una mera declamazione politica di principio, priva di ogni addentellato normativo nella legge 71/2022, la quale, non modificando la Costituzione, non può che confermare l’unicità della progressione in carriera e il comune governo autonomo: giudici a pubblici ministeri sono nominati con il medesimo concorso; l’assegnazione alla prima sede avviene d’ufficio e coloro che sono nella parte bassa della graduatoria non possono scegliere tra funzioni giudicanti e requirenti; il consiglio giudiziario e il CSM restano comuni; lo statuto ordinamentale del magistrato, giudice o pubblico ministero è unitario, non solo quanto alle valutazioni di professionalità, ma anche per ciò che concerne tutte le guarentigie previste dall’ordinamento giudiziario.
Occorre, verificare, quindi, quali siano le più stringenti incompatibilità previste nel cambio di funzione e quale sia la finalità oggettiva della previsione di un solo cambio.
Come può verificarsi in base alla lettura delle norme, il risultato pratico delle modifiche, complessivamente considerate, è quello: A) di rendere incompatibili, dopo un certo periodo, con le funzioni giudicanti penali tutti coloro che hanno svolto funzioni requirenti; B) di consentire il passaggio alle funzioni requirenti solo dei magistrati che non hanno mai svolto funzioni penali.
3.1. I cambi nei primi nove anni di funzioni giudiziarie.
Andando nel dettaglio, l’art. 12 sostituisce il secondo periodo del comma 3 dell’art. 13: «Il passaggio di cui al presente comma (NB di funzioni) può essere richiesto dall'interessato, per non più di una volta nell'arco dell'intera carriera, entro il termine di sei anni dal maturare per la prima volta della legittimazione al tramutamento previsto dall'articolo 194 dell'ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12.»
La regola generale, pertanto, è quella della possibilità di un cambio di funzioni nella prima parte della carriera. Per l’esercizio di tale facoltà i limiti sono quelli che derivano esclusivamente da quanto previsto dai non modificati primo periodo del comma 3 (incompatibilità regionale per i cambio nel medesimo settore penale)[10] e del comma 4[11] (e, quindi, incompatibilità provinciale per i cambi da e verso il civile, con i limiti dei cinque anni sopra indicati).
La ragione per cui scompare il divieto di cambio di funzioni prima del decorso dei cinque anni è perché diviene possibile un solo mutamento di funzioni. Il cambio diviene possibile una volta maturato il termine di legittimazione previsto dall’art. 194 ord. giud. (attualmente quattro anni, ma ridotti a tre per i magistrati di prima destinazione dall’art. 7 della legge n. 71 del 2022)[12]; ancora prima, deve ritenersi, ove il trasferimento avvenga da parte di soggetto non legittimato ex art. 194 ord. giud. (es. trasferimento in sedi a copertura necessaria, trasferimento in base alla legge 104/92 o 100/87).
Per i passaggi nella medesima regione dalle funzioni requirenti a quelle civili e viceversa, restano, invece, i limiti dei cinque anni di non espletamento nell’ufficio di provenienza, o di funzioni giudicanti penali per chi assume le funzioni requirenti e il divieto di assegnazione invece, al settore penale del pubblico ministero che cambia le funzioni, fino a quando questi resta nell’ufficio di destinazione (e, quindi, anche oltre i cinque anni).
È altresì consentito il mutamento dalle funzioni (giudicanti o requirenti) di primo grado a quelle (requirenti o giudicanti di secondo grado), alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (DNAA), il conferimento, previo mutamento delle funzioni, delle funzioni requirenti e giudicanti di legittimità e le funzioni semidirettive giudicanti e requirenti di secondo grado. Per accedere a tali funzioni, infatti, è sufficiente il superamento della seconda valutazione di professionalità, che si consegue dopo otto anni dal d.m. di nomina.
La nuova previsione solleva dei problemi per l’accesso all’ufficio del Massimario e del Ruolo, per il quale occorre, invece, aver conseguito la terza valutazione di professionalità (oltre che anche otto anni di effettivo esercizio delle funzioni), da parte di chi ha svolto funzioni requirenti (art. 7 l. 72/2022, che modifica l’art. 115 ord. giud.). Dal momento che è possibile un solo cambio di funzioni e che, ove esso sia effettuato dopo i primi nove anni di funzioni, infatti, scatta il divieto di assegnazione a funzioni giudicanti penali. Pertanto, l’unico modo che hanno i pubblici ministeri per essere assegnati a tale ufficio è cambiare le funzioni entro i primi nove anni, senza poter transitare direttamente dalla Procura al Massimario della Cassazione, se non venendo assegnati solo al settore civile. Per contro, i giudici che aspirano ad accedere in futuro al Massimario, potendo effettuare un solo cambio di funzioni, dovranno rinunciare a svolgere l’esperienza requirente.
Ad una diversa conclusione si potrebbe giungere solo intendendo che l’equiparazione alle funzioni giudicanti è solo di natura ordinamentale e che non scattano le incompatibilità di settore previste dai commi 3 e 4 dell’art. 13. Si tratta, tuttavia, di una forzatura poco convincente, per tre ragioni: a) le funzioni del Massimario sono strettamente collegate con quelle tipicamente giurisdizionali; b) essi possono essere applicati ai collegi della Cassazione; c) sarebbe illogico che, ove successivamente acquisiscano le funzioni giudicanti di legittimità, non possano essere addetti al penale e, invece, come addetti al Massimario, sia prevista tale possibilità.
3.2. Le possibilità di scelta residue dopo nove anni dal conferimento delle funzioni giudiziarie.
Questa libertà di mutamento delle funzioni, viene drasticamente ridimensionata dopo nove anni dal conferimento delle stesse essendo previste delle incompatibilità assolute tra funzioni requirenti e funzioni giudicanti penali. Prosegue, infatti, il secondo periodo del comma 3 «Oltre il termine temporale di cui al secondo periodo è consentito, per una sola volta, il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, quando l'interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali, nonché il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro».
Chi ha già cambiato le funzioni non può avvalersi di tale facoltà posto che il primo periodo del 3° comma, come su riportato prevede che essa può essere esercitata ”per non più di una volta nell'arco dell'intera carriera”.
Tra coloro che, invece, non hanno cambiato fino a tale momento, chi ha svolto le funzioni requirenti non potrà in alcun modo, nell’intero arco della carriera, essere destinato, quale che sia il luogo di lavoro, a funzioni giudicanti penali: di primo grado e di secondo grado (da vedersi se semidirettive, di legittimità, presso uffici specializzati e se in caso di conferimento di funzioni direttive, possa essere tabellarmente assegnato anche a tali funzioni). Al tempo stesso chi ha svolto, anche per un giorno funzioni penali, non potrà mai assumere le funzioni requirenti (salvo quelle di legittimità, v. infra).
In altre parole, a carriera avviata, il cambio di funzioni è possibile solo: a) se non si sono mai mutate le funzioni in precedenza; b) se non si sono mai svolte funzioni penali oppure se, nel mutamento da requirente a giudicante, si è assegnati definitivamente a funzioni civili o lavoro. Un pubblico ministero non potrà mai essere trasferito al Tribunale di Sorveglianza o al Tribunale per i Minorenni, ove è difficilmente ipotizzabile che possa svolgere esclusivamente funzioni civili, senza alcun ruolo, anche accessorio o come sostituto, che implichi lo svolgimento di funzioni penali.
La tassatività di tale divieto deriva dal periodo successivo per il quale “In quest'ultimo caso, il magistrato non può in alcun modo essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni giudicanti di natura penale o miste, anche in occasione di successivi trasferimenti.”
I due perni della separazione quasi integrale delle carriere magistratuali, accomunate dall’autogoverno unico, sono, per l’appunto, l’unicità del passaggio, che rende la scelta irreversibile, e il fattore impeditivo segnato dall’impossibilità totale di qualsiasi osmosi nel settore penale tra funzioni giudicanti e requirenti: salve le funzioni svolte nei primi nove anni, nessuno che ha svolto le funzioni di pubblico ministero potrà essere inserito un collegio penale o svolgere funzioni penali monocratiche e nessun giudice penale potrà divenire pubblico ministero.
Di scarsa rilevanza, invece, è il fatto che per attuare tale passaggio, sia necessario, come attualmente già previsto che il magistrato previamente partecipi “ad un corso di qualificazione professionale” e che esso sia subordinato “a un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario.” [13]
3.3. Le funzioni di legittimità.
Regole specifiche, non meno insoddisfacenti, sono dettate per le funzioni di legittimità.
Il comma 6 distingue due categorie di funzioni di legittimità assoggettate a regole diverse. Il primo periodo prevede che: “Per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’articolo 10, commi 15 e 16, nonché per il conferimento delle funzioni requirenti di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10 non opera alcuna delle limitazioni di cui al comma 3 del presente articolo.” Il secondo, periodo, invece, dispone che: Per il conferimento delle funzioni giudicanti di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dell’articolo 10, che comportino il mutamento da requirente a giudicante, fermo restando il divieto di assegnazione di funzioni giudicanti penali, non operano le limitazioni di cui al comma 3 relative alla sede di destinazione”.
Solo per il conferimento delle funzioni requirenti e direttive requirenti di legittimità (sostituto procuratore generale e avvocato generale), oltre che direttive superiori e apicali, giudicanti e requirenti (presidente aggiunto, presidente del Tribunale Superiore delle acque pubbliche e procuratore aggiunto – art. 10, commi 15 e 16) “non opera alcuna delle limitazioni di cui al comma 3 del presente articolo”. Per le funzioni giudicanti (e direttive giudicanti) di legittimità (consigliere e presidente di sezione), vi è una deroga solo “le limitazioni di cui al comma 3 relative alla sede di destinazione”, e resta fermo “il divieto di assegnazione di funzioni giudicanti penali. Se ne desume chiaramente che per queste seconde trovano applicazione tutte le altre, ivi incluso il divieto di secondo mutamento delle funzioni.
Le regola dei cambi, pertanto, analogamente a quanto previsto per le funzioni di merito, è asimmetrica per gli uffici requirenti e giudicanti di legittimità.
In pratica, i giudici di merito e i consiglieri di cassazione addetti (o che in passato sono stati addetti) al settore penale, potranno svolgere tutte le funzioni requirenti di legittimità; i pubblici ministeri inclusi i sostituti procuratori generali della Cassazione (e gli avvocati generali), invece, potranno svolgere le funzioni di consigliere di cassazione, ma solo nel settore civile o lavoro.
Il ricorso all’espressione “conferimento” delle funzioni, potrebbe indurre alla conclusione che i divieti non trovino applicazione per i mutamenti interni alla legittimità, in coerenza con il quadro ordinamentale che individua la funzione di legittimità come comune alla Cassazione e alla Procura Generale. Si è recentemente evidenziato[14] che l’art. 104 Cost. prevede che siano membri di diritto il Primo Presidente della Cassazione e la Procura Generale della (e non presso) la Cassazione, a riprova di tale unitarietà. Deve osservarsi, tuttavia, che l’espressione conferimento è identica a quella prevista già dalla precedente versione dell’art. 13, comma 6, finora interpretata nel senso della rilevanza, ai fini del rispetto dei numero massimo dei cambi di funzione, anche del mutamento di funzioni di legittimità.
Si realizzano in tal modo, a regime, due evidenti paradossi: I) chi è stato sempre pubblico ministero può divenire consigliere di cassazione, anche se deve svolgere le funzioni giudicanti civili; chi, invece, ha sempre svolto funzioni giudicanti, non operando la deroga al numero dei trasferimenti e ha ricevuto le funzioni requirenti di legittimità, non potendo a regime effettuare un secondo cambio di funzioni, non può divenire consigliere di cassazione, in qualunque settore; II) inoltre, non distinguendosi tra funzioni requirenti civili e penali di legittimità, anche chi ha svolto la propria carriera interamente nel settore civile, ma espleta le funzioni requirenti di legittimità nel settore civile, senza avere fatto un solo processo penale, superato il periodo transitorio, non può ricevere le funzioni giudicanti di legittimità e, anche secondo la norma transitoria, ove muti le funzioni deve essere assegnato al settore civile o lavoro.
3.4. I procuratori europei delegati e il procuratore europeo.
La legge n. 71 del 2002, trascura speciali funzioni svolte dai procuratori europei delegati e dal procuratore europeo, non affrontando il tema dei cambi di funzioni dei magistrati che intendono svolgere o hanno svolto queste funzioni.
L’art. 5, comma 3 di tale decreto prevede che “Possono candidarsi per l'incarico di procuratore europeo delegato i magistrati, anche se collocati fuori dal ruolo organico della magistratura o in aspettativa, i quali alla data di presentazione della dichiarazione di disponibilità alla designazione non hanno compiuto il sessantaquattresimo anno di età e hanno conseguito almeno la terza valutazione di professionalità. Quando l'accordo di cui all'articolo 13, paragrafo 2, del regolamento prevede la designazione di procuratori europei delegati addetti in via esclusiva alla trattazione dei giudizi innanzi alla Corte di cassazione, la dichiarazione di disponibilità a ricoprire tale incarico può essere presentata unicamente da magistrati che svolgono o che hanno svolto funzioni di legittimità. “[15]
Ebbene, come si coordina l’art. 13 con la disciplina dell’EPPO? Si consideri che l’accesso alle funzioni EPPO è previsto per coloro che “sono membri attivi delle procure o della magistratura dello Stato membro interessato”, con una volontà di ampliare, anche se in modo non tassativo, la sfera dei legittimati non solo ai pubblici ministeri, ma anche ai giudici.
Quale delle due norme deroga rispetto all’altra? E’ legittimo precludere ad un giudice che abbia già svolto le funzioni di pubblico ministero l’assunzione delle funzioni PED, oppure al PED di cambiare funzioni al termine del mandato? Poiché le funzioni PED rivestono carattere nazionale, come si attua il cambio di funzioni senza violare le norme di cui a comma 3, primo periodo e comma 4? Questi è obbligato ad andare al settore civile? Si tratta di una condizione analoga a quella della DNAA?
4. La normativa transitoria e la tutela del principio dell’affidamento.
A temperare transitoriamente il rigore della superazione surrettizia delle carriere operata interviene, appunto, il comma 2 dell’art. 12 del disegno di legge approvato: “I magistrati che prima della data di entrata in vigore della disposizione di cui al comma 1, lettera c), hanno effettuato almeno un passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, o viceversa, possono effettuare un solo ulteriore mutamento delle medesime funzioni nonché richiedere il conferimento delle funzioni requirenti di legittimità ai sensi del comma 6 dell'articolo 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, come sostituito dal presente articolo, a condizione che non abbiano già effettuato quattro mutamenti di funzione.”
Nel ritenere ammissibile il quesito referendario votato il 12 giugno 2022 la sentenza n. 58 della Corte Costituzionale del 2022, oltre a richiamare la precedente sentenza n. 37 del 2000 dettata in tema, afferma significativamente “che la possibilità - rientrante tra i compiti del legislatore - che, a seguito dell'eventuale abrogazione referendaria, si pongano in essere gli interventi legislativi necessari per rivedere organicamente la normativa "di risulta", e per l'introduzione di discipline transitorie e conseguenziali, onde evitare, in particolare, la immediata "cristallizzazione" delle funzioni attualmente in essere.”
La norma è piuttosto generica, non prevede esplicitamente una deroga alle norme sopra riportate e, pertanto, richiede di essere interpretata.
Secondo una prima interpretazione la norma prevede una deroga solo al numero dei passaggi possibili, fermi restando tutti gli altri divieti: chi si trova in una determinata funzione o ha svolto funzioni penali (giudicanti o requirenti), che radicano le nuove incompatibilità, troverebbe la sua condizione definitivamente ingessata, e gli sarebbero inibiti i passaggi su indicati vietati a regime.
Una diversa, interpretazione, invece, porta a ritenere che in ogni caso il primo trasferimento successivo all’entrata in vigore della legge sia sempre integralmente sottratto alle restrizioni previste dal comma 3 novellato dell’art. 13. Escluso, ovviamente un trasferimento “libero”, inibito tanto dalla versione precedente quanto da quella attuale dell’art. 13, esso resta soggetto alle regole della riforma Castelli-Mastella; pertanto, può essere espletato decorsi cinque anni dal precedente mutamento, rispettando i limiti regionali nel caso di permanenza con funzioni diverse nel settore penale, senza essere assoggettato alle incompatibilità definitive sopra descritte.
Si tratta, quanto alla seconda, di una soluzione costituzionalmente imposta.
Per i magistrati in servizio impediti nel mutamento di funzioni o nell’assegnazione al settore penale per ragioni diverse dai divieti preesistenti (cambio funzioni nella regione o distretto e limite dei quattro cambi), la norma, ove interpretata nel primo senso, determinando una parziale cristallizzazione delle funzioni, precludendo l’accesso a determinati settori o funzioni, viola il principio dell’affidamento, di rilevanza costituzionale e avente un riconosciuto fondamento eurounitario.
Il Consiglio di Stato ha già riconosciuto proprio per i mutamenti di funzione dei magistrati l’operatività di tale principio anche nell’ambito dell’ordinamento giudiziario e le necessità di assicurare tutela alla sua lesione (Cons. Stato, V Sez., n. 7695/2020[16]).
Senza ripercorre l’ampia evoluzione dell’istituto dell’affidamento, valevole non solo nei confronti della pubblica amministrazione, ma anche nei confronti del legislatore, è sufficiente richiamare alcuni dei rilievi mossi da tale sentenza ad una delibera del Consiglio Superiore della Magistratura che vietava un ulteriore cambio di funzioni ad un magistrato della procura generale della Cassazione che aveva già cambiato cinque volte le funzioni:
La delibera è stata annullata affermando che il limite dei quattro mutamenti non poteva che valere per il periodo successivo all’entrata in vigore del d.lgs. 160/2006 proprio per la lesione dell’affidamento e l’illegittimità costituzionale di una norma preclusiva dei mutamenti di funzione sulla scorta delle funzioni giudiziarie svolte prima sella sua entrata in vigore.
In tale occasione il giudice amministrativo come, per la Corte Costituzionale, la retroattività nelle disposizioni normative concernenti settori dell’ordinamento diversi da quello penale ”è ammissibile solo nel rispetto dei principi generali di ragionevolezza, proporzionalità e prevedibilità, atteso che il divieto di retroattività della legge, previsto dall'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, costituisce valore fondamentale di civiltà giuridica e può essere compromesso solo per l’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) (cfr. Corte cost., 29 maggio 2013, n. 103).” [17]
È necessario, quindi, se “interessi pubblici sopravvenuti” richiedono “interventi normativi in grado di comprimere posizioni consolidate, è comunque necessario, per un verso, che l'incidenza peggiorativa non sia sproporzionata rispetto all'obiettivo perseguito nell'interesse della collettività e, per altro verso, che l'intervento di modifica sia prevedibile, non potendosi tollerare mutamenti retroattivi del tutto inaspettati” (Corte cost., 26 aprile 2018, n. 89). Sulla scorta di tali principi, il Consiglio di Stato, nel caso esaminato ha evidenziato come “prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 160 del 2006 non sussisteva alcun limite al mutamento di funzioni nella carriera del magistrato, non potendosi prevedere in alcun modo che tali mutamenti di funzione sarebbero stati in futuro pregiudizievoli; anzi, gli stessi, all’epoca in cui sono stati posti in essere, erano considerati un arricchimento della carriera e non un elemento di disvalore. Invero, per la Corte costituzionale, l'imprevedibilità di un intervento normativo è proprio uno degli elementi sintomatici della lesione del legittimo affidamento (cfr. Corte cost., 24 gennaio 2017, n. 16).”
Se tali principi hanno trova applicazione rispetto al caso in cui sono stati già effettuati ben cinque passaggi di funzione, nella medesima e più ancora più irrazionale e inaspettata condizione, lesiva del loro legittimo affidamento, vengono a trovarsi tutti i magistrati italiani, specie coloro che, avendo già svolto nove anni di funzioni, vedono improvvisamente l’accesso a determinate funzioni o settori radicalmente vietato, con una sorta di inaspettata incompatibilità assoluta rispetto alle funzioni penali giudicanti e requirenti, estesa all’intero territorio nazionale e di carattere definitivo.
Per giungere a tale interpretazione non è in alcun modo necessario sollevare l’incidente di costituzionalità. La disposizione transitoria, infatti, non contiene deroghe testuali al regime di nuova introduzione (in tal caso, la questione neppure si porrebbe in quanto già positivamente risolta in termini espliciti), ma neppure ne prevede espressamente l’applicabilità a trasferimenti da essa previsti (se lo facesse, in questo secondo caso, invece, la strada della incostituzionalità sarebbe obbligata non lasciando il dato testuale spazio all’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata e, quindi, dovendo l’interprete andare contro la norma). Nel suo silenzio, pertanto, il contenuto dell’enunciato non è dirimente e, pertanto, sono ammissibili più letture del dato semantico.
Va precisato che non costituisce un dato con valenza ostativa neppure il fatto che l’art. 12, comma 2 del disegno di legge approvato, da un lato, prevede il diritto soggettivo ad un ulteriore trasferimento (“I magistrati che prima della data di entrata in vigore della disposizione di cui al comma 1, lettera c), hanno effettuato almeno un passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, o viceversa, possono effettuare un solo ulteriore mutamento delle medesime funzioni”), dall’altro, con il termine “nonché” – nell’univoco significato di “e anche” - la disposizione precede la possibilità la possibilità ulteriore di “richiedere il conferimento delle funzioni requirenti di legittimità” (e non di quelle giudicanti di legittimità).
È evidente, infatti, che aggiungendosi questa seconda facoltà (accesso alle funzioni di sostituto procuratore generale, ma non di consigliere di cassazione) alla prima (previsione generale della possibilità di un secondo cambio di funzioni), i magistrati in servizio, anche dopo avere mutato le funzioni, come previsto dalla norma generale (da p.m. a giudice di merito o di legittimità), dopo l’entrata in vigore della norma, possono effettuare un secondo cambio di funzioni, circoscritto, tuttavia, alle sole funzioni requirenti di legittimità.
Si tratta, pertanto di due disposizioni distinte: una più generale che assicura a tutti i magistrati il diritto a cambiare le funzioni dopo la modifica ordinamentale; l’altra specificamente dettata per le funzioni requirenti di legittimità , che consente a tal fine anche un secondo passaggio.
Ne deriva che, se la disposizione transitoria non contiene un rimando ineludibile “ai limiti di cui al comma 3” ma, secondo l’intenzione del legislatore, si limita a presupporli, vi è spazio per una interpretazione conforme a costituzione che impedisca la violazione del principio dell’affidamento, del divieto di retroattività e del principio di ragionevolezza.
Risulta, pertanto, conforme all’art. 12 disp. prel. cod, civ. e ai principi sopra riportati, l’interpretazione per la quale la disposizione transitoria non trova applicazione per le situazioni di fatto già consolidate al momento della entrata in vigore della norma, ma solo per quelle che costituiscono esercizio di facoltà da parte dei magistrati esercitate dopo tale momento. Ciò significa che il magistrato che intende ora cambiare le funzioni è soggetto all’art. 13 nella formulazione applicabile le regole vigenti nel momento in cui ha espletato le funzioni, mentre il magistrato muta che muta le funzioni (o, probabilmente, effettua un qualunque altro trasferimento), nella vigenza del d.d.l. di riforma è soggetto alle nuove più stringenti regole del novellato art. 13 a parte da tale momento.
La necessità di tutelare l’affidamento dei magistrati, e la manifesta incostituzionalità della tesi dell’applicabilità delle incompatibilità di settore e di funzioni alle posizioni già consolidate, comporta che il Consiglio Superiore, dovrebbe ritenere inapplicabili tali norme ai bandi in corso (manca all’uopo una norma transitoria), ma dovrebbe altresì opportunamente evidenziare per quelli successivi quale sia il regime transitorio del mutamenti di funzione, con particolare riguardo, ma non solo, per i magistrati che hanno maturato un’anzianità di almeno nove dal conferimento delle funzioni.
Concludendo sul punto, in pratica, deve ritenersi che per il primo mutamento di funzioni (successivo alla riforma), deve escludersi per tutti l’operatività dei rigorosi divieti: sopra descritti a) il pubblico ministero che cambia funzioni, potrà essere assegnato al settore penale se cambia regione; b) il giudice che svolge, o che ha svolto funzioni penali, potrà assumere le funzioni requirenti; c) lo svolgimento delle funzioni penali giudicanti o quelle requirenti farà scattare l’incompatibilità solo a partire dal primo trasferimento o cambio di funzioni successivo all’entrata in vigore della legge. Ad esempio, il giudice con funzioni penali deve ritenersi attualmente non incompatibile, ma se si trasferisce ad altre funzioni giudicanti ed è nuovamente assegnato al settore penale, non potrà acquisire, nella vigenza della norma le funzioni requirenti; allo stesso modo, il magistrato requirente non potrà svolgere le funzioni giudicanti penali ove si trasferisca ad altro ufficio requirente, perché tali passaggi sono avvenuti nell’ambito del regime della riforma attuale.
5. Gli ulteriori problemi sollevati dalla riforma: assegnazione d’ufficio delle funzioni, incoerenza e irrazionalità delle finalità sottese alle norme introdotte.
Accanto a tali temi principali, impregiudicata la questione della costituzionalità della separazione delle carriere introdotta[18], emergono anche altri problemi:
1) i magistrati nella prima destinazione sono assegnati d’ufficio; tale assegnazione impedirà loro di svolgere le funzioni desiderate se non riescono ad acquisirle entro i primi dieci anni di carriera. Es. chi vorrà fare il PM o il giudice penale a Roma (o, come già indicato, quelle di addetto al Massimario) ed è stato assegnato, come regolarmente avviene, come giudice o PM penale nella prima sede lontana, dovrà cambiare le funzioni entro i primi nove anni, se intende esercitare le funzioni preferite nel settore penale;
2) i magistrati assegnati a funzioni promiscue (o come si esprime la norma “miste”) incontreranno gli stessi ostacoli e così anche i magistrati assegnati agli uffici specializzati (minori, sorveglianza); pertanto, decorsi i nove anni, essi non potranno mai assumere funzioni requirenti e i pubblici ministeri mai potranno accedere a tali funzioni. Un’interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio di ragionevolezza potrebbe indurre ad escludere l’operatività dei divieti per gli uffici specializzati;
3) la nuova disposizione prevede che “il magistrato non può in alcun modo essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni giudicanti di natura penale o miste, anche in occasione di successivi trasferimenti”). Appare forzato interpretare la norma nel senso che i trasferimenti successivi vietati sono solo quelli “interni” e non anche quelli esterni, ovvero i tramutamenti successivi; il comma 4, infatti, per il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti civili nella medesima regione, prevede il divieto di assegnazione al penale “prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni”. Proprio tale locuzione, diversa dall’altra contenuta nel medesimo articolo, unitamente all’unicità del passaggio, è quella che determina la separazione delle carriera;
4) le norme disincentivano il trasferimento verso sedi disagiate da parte di chi vuole mutare le funzioni. Un giudice civile che non vuole “bruciarsi” il mutamento di funzioni, non chiederà mai di andare in disagiata con assegnazione al penale o promiscua;
5) in generale, sicuramente si verificherà una fuga dalle funzioni requirenti che renderà difficile la copertura di tali posti;
6) delle due l’una, o il Consiglio, rimeditando il proprio precedente orientamento, ritiene che la norma non trovi applicazione per tutti i trasferimenti o assegnazioni d’ufficio, oppure ogni applicazione interna, endodistrettuale o extradistrettuale o trasferimento d’ufficio, ivi incluso quello ex art. 2 l.g., potrà essere legittimamente rifiutata dal magistrato se implica il cambiamento di funzioni o l’assegnazione a funzioni penali o promiscue; certamente al magistrato non può essere imposto uno svolgimento, anche temporaneo, di funzioni che gli preclude con decisione autoritativa e contingente le successive opzioni di carriera;
7) per le funzioni di legittimità, nessun consigliere di cassazione assegnato dal penale potrà mai avere svolto funzioni in Procura, Procura Generale, DNNAA e Procura Generale Cassazione, limite gravissimo e perdita di patrimonio complessivo di esperienza e professionalità complessive della Cassazione, che, all’evidenza, abbisogna di coagulare tutte tali esperienze e, nel caso, della Procura Generale, uno snaturamento delle sue peculiari funzioni requirenti di legittimità.
Peraltro, deve rilevarsi aggiuntivamente in Cassazione possono essere assegnati come consiglieri meriti insigni che avevano svolto la professione legale nel settore penale: i consiglieri di cassazione penale possono essere ex avvocati di lungo corso, ma non a quelli ex pubblici ministeri (salve le funzioni svolte ad inizio carriera), perfino, come si è visto, nel caso in cui, come quello dei sostituti procuratori generali della Corte di Cassazione addetti al civile o lavoro, non hanno mai svolto funzioni penali.
Per la particolare rilevanza della tematica delle incompatibilità che possono scaturire dall’assegnazione delle funzioni penali d’ufficio, deve ritenersi l’unicità della carriera magistratuale impone un’interpretazione costituzionalmente orientata per la quale non possono sorgere incompatibilità rispetto ad un determinato settore (penale) o funzioni (requirenti) per effetto di un trasferimento o di un’assegnazione o attribuzione di funzioni tabellari avvenuta d’ufficio. In tale caso, infatti, il magistrato viene pregiudicato nell’accesso a determinate funzioni giudiziarie per effetto di una decisione che non ha mai preso, con ciò vulnerandosi la sua legittima aspettativa a poter svolgere, nei limiti dei posti disponibili e, naturalmente, ove abbia le specifiche attitudini, tutte le funzioni giudiziarie previste dall’ordinamento.
Infine, esaminato l’impatto complessivo delle modifiche operate dall’art. 12 della legge n. 71 del 2022 sui cambi di funzione, occorre focalizzare gli interessi dalla stessa perseguiti. Come si è indicato, emerge come: a) resti immutato il comma 4 dell’art. 13 e, quindi, la finalità di preservare, fin dall’inizio della carriera, l’apparenza di terzietà del giudice rispetto al pubblico ministero in ambito regionale, limitandosi la possibilità di cambio in tale ambito al diverso settore (penale e civile o lavoro); b) sia stato eliminato, invece, il limite dei cinque anni, sostituito dall’unicità del cambio e, se svolto dopo i primi nove, anni dal sorgere di incompatibilità assolute rispetto alle funzioni requirenti o giudicanti penali. Il legislatore, in tal modo non persegue più la finalità di consentire la maturazione adeguata di una professionalità nelle funzioni scelte e, quindi, di impedire continue variazioni. Introducendo tali incompatibilità ritiene, invece, che, svolte le funzioni penali o requirenti, il magistrato dopo un certo periodo, divenga inidoneo ad espletare le funzioni requirenti o giudicanti penali.
La soluzione presenta degli aspetti di irrazionalità perché tale inidoneità è collegata al momento in cui il magistrato cambia, e non alla durata di svolgimento delle diverse funzioni: se ha svolto le funzioni di pubblico ministero per i primi otto anni, può fare il giudice penale, ma se ma cambia dopo i primi nove anni dopo avere svolto per un brevissimo periodo le funzioni “incompatibili”, esse gli sono precluse; allo stesso modo chi è stato giudice civile per 10-20 anni di carriera ed è stato assegnato al penale, d’ufficio o su domanda per pochi mesi, non può cambiare le funzioni dopo i primi nove anni. La riforma, pertanto, non persegue con coerenza il proposito di impedire che chi ha sviluppato la “mentalità” del pubblico ministero negli anni - secondo l’attuale dibattito politico asseritamente incompatibile con quella del giudice - possa divenire giudice penale, ma è orientata ad imporre una scelta professionale definita dopo il primo quarto di carriera nella logica del “separare purché si separi”. L’incompatibilità del giudice penale a svolgere le funzioni di pubblico ministero poi rafforza tale idea perché le è estraneo, non solo il tema della “forma mentis”, ma anche quello della “competenza”, dal momento che può assumere tali funzioni il giudice civile. In parole povere, precludendo proprio a chi ha più motivazione e competenza nel settore a mutare le funzioni, si incentiva in tal modo un’ulteriore riduzione del già ridotto numero di magistrati che mutano le funzioni[19] in modo da stimolare la maturazione di una percezione da parte dei giudici e pubblici ministeri di una reciproca estraneità per essere i loro percorsi professionali non sovrapponibili. Che quest’ultima possa rappresentare una finalità delle norme conforme al principio di ragionevolezza, posto anche che giudici e pubblici ministeri continuano ad appartenere al medesimo ordine, conservando – per espressa previsione costituzionale - identità di status e di guarentigie, e che nulla muti sul piano processuale in termini di “parità delle armi tra pubblico ministero e avvocato”, è poi discorso da affrontare in altra sede.
Conclusivamente le modifiche dell’art. 13, sollevano dei dubbi di costituzionalità che richiedono un approfondimento a parte; creano numerose incertezze interpretative e, inoltre, pongono notevoli difficoltà alla organizzazione degli uffici e alle politica consiliare dei trasferimenti orizzontali e verticali. Appare urgente, pertanto, un ricorso da parte del Consiglio Superiore ai suoi poteri paranormativi, rispettoso tanto dell’opzione legislativa appena esercitata quanto della morfologia costituzionale delle carriere e delle funzioni dei magistrati, quale garante dell’unitarietà della magistratura prevista dall’art. 104 Cost., dell’indipendenza del pubblico ministero, nonché responsabile dell’organizzazione generale degli uffici giudiziari.
[1] V. in tema su questa Rivista, A. Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica ed inutile, 2017. Sempre su giustiziainsieme è intervenuto sul tema anche il prof. C. Smuraglia, Il delitto Pinelli e il diritto alla verità, 2019, da poco scomparso, e che la Rivista ha recentemente ricordato .
[2] Occorre, tuttavia, quanto meno, richiamare le fonti internazionali, che consentono uno sguardo sulla questione, dall’”esterno”. La prima è la Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000 , ove si prevede (al punto 18) che: “…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice , o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie”. Ancora si argomenta che: “ La possibilità di <> tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine della garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto . Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero”. La seconda è il parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”.
[3] Per il conferimento delle (diverse) funzioni di secondo grado era necessario cambiare distretto. Anche se la norma non indicava esplicitamente se, in tal caso, per il cambio nello stesso settore fosse necessario cambiare regione ai sensi del comma 3, e non solo distretto, come affermava la norma specifica dettata dal comma 4; tale conclusione era obbligata in ragione della collocazione della norma speciale nell’ambito delle deroghe, nonché dalla ratio complessiva dell’art. 13, prevalendo le ragioni di “apparenza” rispetto a quelle enucleabili dalla diversità tra funzioni di primo e secondo grado.
[4] Funzioni incompatibili con il ruolo di parte o, quanto meno, secondo una formula solo sintatticamente contraddittoria di parte imparziale. Sul punto v. C. Sgroi, La funzione della Procura generale della Cassazione, in questionegiustizia.it, 2018.
[5] V. P. Filippi, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum, in questa Rivista.
[6] Ove sono richiamate le delibere che hanno escluso l’applicabilità dell’art. 13 ai trasferimenti ex art. 2; cfr. in tale senso anche sent. del T.A.R. del Lazio n. 6324 del 2009, non impugnata.
[7] Es. con delibera del 12 giugno del 2008 il Consiglio ha affermato che:”La regola per la quale il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti (e viceversa) può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata, prevista dal comma terzo all’art. 13 decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 non si applica per la prima domanda di trasferimento dei magistrati del D.M. 6 dicembre 2007 dalla sede assegnata d’ufficio al termine del tirocinio.”.»
Lo stesso legislatore, con l’art. 3-bis, comma 1 del d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, conv. in legg 22 febbraio 2010, n. 24, rimaneggiando la norma che prevedeva il divieto di assegnazione delle funzioni requirenti ai magistrati dei magistrati di aveva successivamente affermato che per le sedi con scopertura superiore al 30% e prima dell’abrogazione del secondo comma dell’art. 13 ad opera dell’art. 1, , comma 2 del d.l. 168/2016, conv. in legge n. 193 del 2016, che prevedeva, appunto, tale divieto, ha disposto che "provvedimento motivato, il Consiglio superiore della magistratura, ove alla data di assegnazione delle sedi ai magistrati nominati con il decreto ministeriale 2 ottobre 2009 sussista una scopertura superiore al 30 per cento dei posti di cui all'articolo 1, comma 4, della legge 4 maggio 1998, n. 133, come da ultimo modificato dal presente decreto, puo' attribuire esclusivamente ai predetti magistrati, in deroga all'articolo 13, comma 2, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, e successive modificazioni, le funzioni requirenti al termine del tirocinio, anche antecedentemente al conseguimento della prima valutazione di professionalita'". Coerentemente ha, inoltre disposto (con l'art. 3, comma 1) che "Il trasferimento d'ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma puo' essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa all'interno di altri distretti della stessa regione, previsto dall'articolo 13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160”.
[8] Sentenza che è intervenuta proprio su un caso di trasferimento verso una sede disagiata con cambio di funzioni e sul diniego di un successivo trasferimento nel distretto di provenienza senza che il magistrato avesse maturato la legittimazione quinquennale.
[9] L’art. 2 della legge delega n. 150 del 2015 prevedeva che addirittura l’opzione dovesse essere esercitata già al momento del concorso, anche se poi era consentito il cambio successivo entro tale termine. Art. 2 l. n. 150 del 2005 “Principi e criteri direttivi, nonché disposizioni ulteriori. 1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, comma 1, lettera a), il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi: a) prevedere per l'ingresso in magistratura: 1) che sia bandito annualmente un concorso per l'accesso in magistratura e che i candidati debbano indicare nella domanda, a pena di inammissibilità, se intendano accedere ai posti nella funzione giudicante ovvero a quelli nella funzione requirente” (…) 4) “che, al momento dell'attribuzione delle funzioni, l'indicazione di cui al numero 1) costituisca titolo preferenziale per la scelta della sede di prima destinazione e che tale scelta, nei limiti delle disponibilità dei posti, debba avvenire nell'ambito della funzione prescelta”.
[10] Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all'interno dello stesso distretto, né all'interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell' articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni».
[11] “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all'interno dello stesso distretto, all'interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento. »
[12] L’art. 194 dell’ordinamento giudiziario (Tramutamenti successivi) prevede che il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede, non possa essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di 4 anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell'ufficio, salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. Su tale previsione interviene l’articolo 7 del disegno di che, aggiungendovi un comma, precisa che “per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione il termine di cui al primo comma è di 3 anni”.
[13] “Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell'ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell'ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità’'.
[14] L. Salvato, La struttura argomentativa dei provvedimenti, l’organizzazione del lavoro e la gestione dei carichi, in giustiziainsieme.it, 2022, che cita la riflessione di F. Auletta.
[15] L’art. 2, comma 3 del d.lgs. n. 9 del 2021 prevede che 3 “Possono candidarsi per l'incarico di procuratore europeo i magistrati, anche se collocati fuori dal ruolo organico della magistratura o in aspettativa, i quali alla data di presentazione della dichiarazione di disponibilità alla designazione non hanno compiuto il cinquantanovesimo anno di età e hanno conseguito almeno la quarta valutazione di professionalità.” Una delle differenze tra le due funzioni è che il procuratore europeo, a differenza, dei PED, è collocato fuori ruolo.
[16] Richiama, in particolare, Corte cost., 11 giugno 2010, n. 209; 29 maggio 2013, n. 103, nonché Corte cost., 24 luglio 2009, n. 236 e la giurisprudenza costituzionale tedesca, sulla “retroattività “propria”, cioè comportante la modifica di un assetto di interessi già interamente definito e pienamente sedimentato tra le parti o che sopprime integralmente un’aspettativa giuridicamente qualificata connessa a un rapporto di durata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2015, n. 1432), a differenza dalla cosiddetta retroattività “impropria”, che si limita ad introdurre per il futuro una modificazione peggiorativa del rapporto di durata e determina anche una contrazione del momento finale di quello status che si riflette negativamente sulla posizione giuridica già acquisita dall'interessato” e sullo stesso tema Cass. civ., sez. I, 5 maggio 1999, n. 4462.
[17] Inoltre, “l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce un elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto e trova copertura costituzionale nell’art. 3 della Costituzione”. Pertanto, sebbene “non in termini assoluti e inderogabili”, “dette disposizioni non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l'affidamento del cittadino, che postula, tuttavia, il consolidamento nel tempo della situazione normativa che ha generato la posizione giuridica incisa dal nuovo assetto regolatorio, sia perché protratta per un periodo sufficientemente lungo, sia per essere sorta in un contesto giuridico sostanziale idoneo a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento.”
[18] Sebbene, come ricorda A. Spataro, la Corte Costituzionale, in relazione ad un precedente quesito referendario ha affermato (sentenza 3-7 febbraio 2000, n. 37/2000) quanto segue: “la Corte non può non rilevare che il titolo attribuito al quesito dall'Ufficio centrale per il referendum "Ordinamento giudiziario: separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti" appare non del tutto adeguato, e in sostanza eccedente, rispetto alla oggettiva portata delle abrogazioni proposte, concernenti piuttosto, come si è detto, l'attuale disciplina sostanziale e procedimentale dei passaggi dall'una all'altra funzione in occasione dei trasferimenti dei magistrati a domanda”, precisando che: “Non può dirsi che il quesito investa disposizioni il cui contenuto normativo essenziale sia costituzionalmente vincolato, così da violare sostanzialmente il divieto di sottoporre a referendum abrogativo norme della Costituzione o di altre leggi costituzionali (…). La Costituzione, infatti, pur considerando la magistratura come un unico "ordine", soggetto ai poteri dell'unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”.
[19] V. P. Filippi, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum, in questa Rivista.
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