Carenza sopravvenuta di interesse e interesse alla pronuncia di illegittimità “a fini risarcitori” (commento a Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 13 luglio 2022, n. 8)
di Andreina Scognamiglio
Sommario: 1. Il caso. - 2. Le interpretazioni dell’art. 34, comma 3. - 2.1. La soluzione accolta dalla Plenaria. - 3. Carenza sopravvenuta di interesse nella giurisprudenza anteriore al codice. - 4. Carenza sopravvenuta ex art. 34. comma 3 e principi ispiratori del c.p.a.. - 5. La lettera della norma condiziona tuttavia l’interprete. - 6. La sentenza della Plenaria non scioglie tutti i dubbi riguardanti l’interpretazione dell’art. 34, comma 3. - 7. Alcune (precarie) conclusioni.
1. Il caso
Con sentenza n. 8 del 13 luglio 2022 l’Adunanza Plenaria ha risolto il quesito riguardante l’interpretazione dell’art. 34 c.p.a. nella parte in cui, al comma 3, dispone che “quando nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento impugnato non è più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori”.
Nel caso, che ha dato luogo all’ordinanza di rinvio della Sezione IV, n. 945 del 9 febbraio scorso, il Tar del Veneto aveva dichiarato improcedibili per carenza sopravvenuta di interesse i ricorsi proposti da alcuni proprietari avverso le delibere comunali di adozione del Piano di assetto del territorio che aveva dichiarato la non edificabilità di aree di loro proprietà. Nelle more del giudizio era poi intervenuta una disciplina urbanistica, nuova e sostitutiva rispetto a quella esistente al momento della proposizione della domanda, circostanza, quest’ultima, che aveva reso certa e definitiva l’inutilità dell’eventuale annullamento delle delibere impugnate. Il Tar aveva poi ritenuto non essere sorretta da adeguato interesse neppure la domanda intesa a conseguire una pronuncia di mero accertamento dell’illegittimità delle delibere contestate ai fini di una eventuale futura azione risarcitoria: parte ricorrente si era difatti limitata a dichiarare l’intenzione di proporre con separato e successivo giudizio una domanda per il ristoro dei danni patiti e a versare in atti una perizia per la stima delle perdite asseritamente derivanti dall’imposizione del vincolo di inedificabilità, senza invece dar conto “neppure genericamente” della sussistenza o meno di tutti gli altri elementi costitutivi dell’illecito. Così statuendo il giudice di prime cure aveva dunque aderito all’interpretazione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. per la quale, venuto meno nel corso del giudizio l’interesse all’annullamento, è necessaria l’allegazione da parte del ricorrente di tutti i presupposti della successiva domanda risarcitoria perché si concreti l’interesse alla sentenza di mero accertamento dell’illegittimità dell’atto [1].
2. Le divergenti interpretazioni dell’art. 34, comma 3
L’ordinanza di rimessione sintetizza le diverse letture dell’art. 34, comma 3 che sono state di volta in volta proposte da una giurisprudenza invero altalenante e che sono ricondotte a tre diversi indirizzi: a) l’obbligo del giudice di pronunciare sui motivi di ricorso (e quindi di accertate l’illegittimità del provvedimento impugnato) sussiste solo che la parte ricorrente dichiari di avere interesse a detta pronuncia a fini risarcitori[2]; b) per radicare l’interesse all’accertamento dell’illegittimità dell’atto è necessario che il ricorrente alleghi tutti i presupposti della successiva domanda risarcitoria[3]; c) al fine di dimostrare l’interesse è, quantomeno, necessario che il ricorrente “comprovi sulla base di elementi concreti il danno ingiustamente subito”[4] .
Le soluzioni sub b) e c) aprono la strada ad un ulteriore interrogativo sul quale pure la Plenaria è stata chiamata ad esprimersi, ovvero se il giudice debba non esaminare affatto la questione dell’ingiustizia del danno (ovvero i profili di illegittimità del provvedimento) laddove accerti la mancanza degli ulteriori elementi dell’illecito (nesso di causalità, spettanza del bene della vita, elemento soggettivo, danno patrimoniale o non patrimoniale) la cui assenza assumerebbe valore assorbente.
Accanto agli indirizzi sopra sintetizzati è rinvenibile invero nella giurisprudenza una tesi ulteriore e più radicale che l’ordinanza di rimessione pure riporta e per la quale esprime la sua preferenza.[5] Secondo la lettura prediletta dalla IV Sezione, una volta che nel giudizio di annullamento sopraggiunga o venga dichiarata la carenza di interesse della domanda di annullamento dell’atto impugnato, la pronuncia di accertamento della mera illegittimità dell’atto è possibile solo se la domanda risarcitoria sia effettivamente formulata nel medesimo giudizio (qualora il processo penda in primo grado), con la proposizione di motivi aggiunti (notificati dalla parte proprio in previsione della possibile declaratoria di improcedibilità del giudizio, in ragione dell’eccezione di una delle parti resistenti o del rilievo officioso della questione), o con un autonomo ricorso (soluzione, quest’ultima, inevitabile quando la carenza sopravvenuta si verifichi nel giudizio di appello).
A sostegno della tesi l’ordinanza deduce argomenti di ordine letterale e di ordine sistematico. In particolare, l’indicativo impiegato dall’art. 34, comma 3, c.p.a., (“il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”) postulerebbe la concreta sussistenza dell’interesse risarcitorio e dunque l’avvenuta proposizione della domanda di risarcimento danni. Inoltre se il legislatore avesse voluto davvero consentire la prosecuzione del giudizio solo in vista di una ‘futura’ domanda risarcitoria, non avrebbe adoperato non l’espressione “se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”, ma avrebbe impiegato una formulazione diversa. Ad esempio: “se è dichiarato un (futuro/eventuale) interesse a fini risarcitori” o anche “se sono allegati i presupposti di un (futuro/eventuale) interesse a fini risarcitori”.
Sul piano sistematico, l’interpretazione che postula l’avvenuta proposizione della domanda di risarcimento danni è ritenuta poi coerente con la nozione di “interesse” cui il comma 3 fa riferimento e che, in linea di principio, dovrebbe coincidere con l’interesse di cui all’art. 100 c.p.c., e dunque munito dei caratteri della concretezza ed attualità. Non secondario nella motivazione della ordinanza è poi l’argomento utilitaristico ovvero l’esigenza di impiegare con parsimonia la “scarsa” risorsa giurisdizionale che imporrebbe anch’essa una lettura restrittiva dell’art. 34, comma 3.. Uno sperpero di esercizio di giurisdizione si avrebbe infatti laddove si consentisse l’esercizio dell’azione a meri fini esplorativi costringendo il giudice ad esaminare questioni di legittimità complesse che si potrebbero palesare irrilevanti quando poi – nel giudizio a cognizione piena sulla domanda di risarcimento – emerga la mancanza degli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie aquiliana.
In ogni caso, ad evitare un accertamento in astratto dell’illegittimità del provvedimento che potrebbe poi rivelarsi inutile o addirittura portare ad una duplicazione di giudizi, sul ricorrente dovrebbe poi quanto meno gravare l’onere di allegare alla domanda di accertamento tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito ( e dunque il nesso di causalità, il giudizio prognostico circa la spettanza del bene della vita, la colpevolezza dall’amministrazione e il danno arrecato al destinatario del provvedimento) così che il giudice possa non pronunciare sui vizi dell’atto ove ritenga insussistente uno degli altri elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria.
2.1. La soluzione della Plenaria
La Plenaria prende le distanze dalle soluzioni suggerite dall’ordinanza di rimessione.
L’argomento legato cioè a supposte ragioni di economia processuale[6] è respinto in base alla considerazione che le medesime esigenze potrebbero essere addotte a sostegno della tesi opposta: indubbiamente la sentenza di accertamento mero ex art. 34, comma 3, c. p.a. potrebbe anche avere una funzione deflattiva poiché se l’accertamento dell’illegittimità richiesto dal ricorrente dovesse essere negativo l’azione risarcitoria sarebbe preclusa. Al tempo stesso, il giudizio di accertamento mero consentirebbe all’amministrazione autrice dell’atto impugnato, di conoscere anticipatamente se questo sia o meno illegittimo e se vi sono pertanto rischi di esborsi economici, e dunque di assumere le opportune iniziativa attraverso il proprio potere di autotutela.
Nella ricostruzione del significato della norma, la Plenaria riconosce invece un valore decisivo al comma quinti dell’art. 30 c.p.a.. La possibilità, consentita dalla norma, di domandare in successione la tutela demolitoria e quella risarcitoria e di attivare il secondo rimedio entro un congruo termine decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio di annullamento non può essere derogata in via interpretativa. Pertanto non può essere imposto al ricorrente di azionare la tutela risarcitoria immediatamente, pena l’estinzione del processo per carenza sopravvenuta di interesse.
Dimostrata la fallacia della tesi per la quale, una volta venuto meno l’interesse all’annullamento, la pronuncia di accertamento della mera illegittimità dell’atto è possibile solo se la domanda risarcitoria è effettivamente formulata, nel medesimo giudizio o in via autonoma, la Plenaria critica pure la tesi c.d. intermedia per la quale ai fini dell’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato è comunque necessario che il ricorrente alleghi i presupposti della futura eventuale azione risarcitoria. Anche questa soluzione è ritenuta sprovvista di fondamento normativo e tale, comunque, da determinare una sovrapposizione tra le due domande, di annullamento e risarcitoria, che il codice del processo ed in particolare l’art. 30 nel suo complesso considera autonome.
Per la Plenaria l’interpretazione corretta della disposizione controversa è quella che pone i minori ostacoli alla prosecuzione del processo in linea, del resto, con la tendenza propria della giurisprudenza anteriore al codice del processo a considerare restrittivamente le ipotesi di carenza sopravvenuta e a considerare procedibile il ricorso anche in assenza di utilità materiali ricavabili dalla sentenza. Venuto meno l’interesse all’annullamento, il processo deve comunque andare avanti fino alla sentenza di accertamento della legittimità/illegittimità del provvedimento impugnato solo che il ricorrente manifesti detto interesse, con semplice dichiarazione da rendersi nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a..
3. La giurisprudenza anteriore al codice
Il rinvio operato dalla IV Sezione ha offerto (alla Plenaria) l’occasione di tornare [7] sul tema dell’interesse a ricorrere riguardato, in questo caso, sotto il particolare angolo di visuale della permanenza di detto interesse, una volta che l’annullamento dell’atto impugnato non sia più in grado di fornire al ricorrente una utilità concreta.
Che l’esito di una siffatta vicenda non sia scontatamente quello di una pronuncia in rito di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse è acquisizione già raggiunta dalla giurisprudenza anteriore alla entrata in vigore del codice e pure in mancanza di una disposizione che espressamente prevedesse la proseguibilità del processo.
La massima costante di quella più risalente giurisprudenza limitava la possibilità di chiudere il processo con sentenza di rito dichiarativa della improcedibilità per sopravvenuta carenza d'interesse ai casi nei quali il mutamento della situazione di fatto o di diritto intervenuto nelle more del giudizio avesse fatto venir meno con assoluta certezza una qualsiasi utilità, anche se solo strumentale o morale[8], ad ottenere la pronuncia in merito sul ricorso [9].
E, in mancanza di una esplicita dichiarazione di carenza sopravvenuta da parte del ricorrente, altrettanto costante è, in quella giurisprudenza, l’avvertenza di dover il giudice valutare con la massima attenzione la persistenza dell'interesse alla decisione di merito e a considerare anche le possibili ulteriori iniziative in ipotesi attivabili da parte attrice per ottenere comunque un risultato positivo tramite il processo intentato. In particolare, a prescindere dall’effetto eliminatorio del provvedimento impugnato (la cui utilità è esclusa per le sopravvenienze), la giurisprudenza affermava di doversi tener conto di tutti i possibili effetti conformativi e ripristinatori della sentenza di accoglimento del ricorso e anche di quelli solo propedeutici a future azioni rivolte al risarcimento del danno[10].
In definitiva, l’assetto dell’istituto della carenza sopravvenuta proprio della fase antecedente al codice si incentra su due punti: la verifica del residuo interesse può essere condotta dal giudice anche d’ufficio [11]; la gamma degli interessi che giustificano la prosecuzione del processo è ampia perché la declaratoria di improcedibilità non deve trasformarsi in un sostanziale diniego di giustizia né può consentire al giudice di eludere l’obbligo di pronunciare nel merito sulla domanda[12].
Al fondo di questo indirizzo interpretativo vi è indubbiamente l’idea che il processo ed il ricorso di legittimità che sono sicuramente finalizzati alla tutela di situazioni soggettive del singolo assolvono però anche una funzione di diritto oggettivo, di tutela della legalità, e che l’utilità di tale funzione può prescindere dall’interesse all’annullamento.
4. L’interpretazione dell’art. 34. comma 3 orientata ai principi ispiratori del c.p.a.
La disposizione contenuta nell’art. 34, comma 3, c.p.a. recepisce dalla giurisprudenza precedente l’idea che la sopravvenuta “inutilità” della tutela di annullamento non comporta necessariamente una pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse. Al tempo stesso la norma restringe il campo dei possibili residui interessi ad una pronuncia di merito (che è però di mera dichiarazione della illegittimità dell’atto impugnato) al solo interesse “risarcitorio”. La norma assume dunque un significato più evidente se letta in negativo, alla luce della giurisprudenza precedente: non è sufficiente a proseguire il processo la prospettazione di un interesse solo morale o dell’interesse alla affermazione della soluzione conforme al diritto. Deve sussistere, invece, un “interesse risarcitorio”.
Ma, al di là delle più o meno significative novità ricavabili dalla formulazione letterale della norma, sulle quali mi soffermerò più tardi, innegabilmente mutato dal codice è il contesto nel quale questa si colloca e che inevitabilmente orienta l’interprete. Il contesto è segnato da una irrobustita visione soggettiva del processo amministrativo come processo su impulso di parte e finalizzato alla tutela di situazioni soggettive della parte ricorrente[13]. Alla stregua di tale concezione, risulta in primo luogo inaccettabile l’idea di una officiosa conversione della domanda di annullamento in domanda per la mera declaratoria dell’illegittimità dell’atto[14]. Un’ulteriore posizione di principio che condiziona l’interpretazione dell’art. 34, comma 3 è quella della conclamata autonomia della azione risarcitoria, che rinnega l’indefettibilità di una previa pronuncia di annullamento ai fini della proposizione della domanda risarcitoria[15] e invece ammette che l’indagine sulla illegittimità possa essere condotta autonomamente in sede di accertamento del danno (concretando l’illegittimità il requisito della ingiustizia)
Il mutato contesto incide in misura notevole sull’interpretazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. e sulla individuazione dei presupposti per la pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse.
La concezione soggettiva del processo amministrativo porta al superamento di un assunto essenziale nella precedente costruzione giurisprudenziale dell’istituto che contemplava la verifica anche d’ufficio della attualità di un qualsivoglia interesse alla decisione. La verifica dell’interesse e dunque la conversione officiosa dell’azione di annullamento in azione per la mera declaratoria dell’illegittimità dell’atto non è espressamente consentita dall’art. 34, comma 3 ed è oggi dai più ritenuta inaccettabile in un processo retto sul principio della domanda[16].
Il riconoscimento della autonomia della azione risarcitoria e della possibilità di esperire questa forma di tutela dinanzi al giudice amministrativo porta poi a ritenere che, una volta venuta meno, per il mutato contesto di fatto o di diritto, l’utilità della tutela demolitoria, a giustificare la prosecuzione del giudizio fino alla sentenza di merito non è sufficiente un interesse qualsiasi, anche solo morale, alla decisione[17]. Si afferma così nella giurisprudenza la massima secondo la quale anche l’interesse morale in tanto rileva, ai fini della prosecuzione del giudizio (sia pure mirato alla mera declaratoria di illegittimità) in quanto questo venga dedotto per dimostrare la sussistenza dei presupposti per la proposizione di una, anche successiva, azione risarcitoria per danno non patrimoniale nella forma del danno morale ovvero di un danno anche di natura diversa correlato alla tipologia di diritto della persona che viene in rilievo[18].
In definitiva, i principi ispiratori del codice del processo amministrativo orientano l’interpretazione dell’art. 34, comma 3 nel senso di rendere pressoché inevitabili due prime acquisizioni: la conversione della tutela di annullamento in tutela di accertamento dell’illegittimità richiede la domanda di parte; il solo interesse che è deducibile per evitare la chiusura della causa in rito, con sentenza di improcedibilità per dichiari la sopravvenuta carenza di interesse, ed è quello di natura risarcitoria.
5. La lettera della norma condiziona tuttavia l’interprete
Se i principi giocano la loro parte nella interpretazione dell’art. 34, comma 3, l’interprete (e anche il giudice[19]) è però inevitabilmente vincolato dal tenore testuale delle disposizioni del codice che non può essere stravolto[20].
Dalla lettera delle disposizioni del codice risultano allora alcuni punti fermi: laddove venga meno l’interesse all’annullamento (che per ragioni di fatto si riveli non più satisfattivo per il ricorrente) e però sussiste un interesse di natura risarcitoria, il processo non è necessariamente destinato a chiudersi con sentenza di rito. Il ricorrente può chiedere che il giudice accerti l’illegittimità/legittimità del provvedimento asseritamente lesivo e fonte di danno.
Alla conclusioni sopra raggiunte circa la portata dell’art. 34, comma 3 (necessità dell’istanza di parte sorretta da un interesse risarcitorio) un ulteriore dato, per così dire di segno negativo è ancora desumibile dal testo della norma: la prosecuzione del processo non è subordinata alla avvenuta proposizione della domanda di risarcimento danni (nello stesso o in separato giudizio) per la semplice ragione che detta condizione non è prevista dalla norma. Inoltre, laddove – su impulso di parte - il processo vada avanti, è previsto che il medesimo si concluda con una sentenza dichiarativa dell’illegittimità e non già di condanna al risarcimento dei danni. Ciò significa che la domanda di risarcimento non è stata proposta. Altrimenti, per il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il giudice sarebbe tenuto ad emettere sentenza di condanna al risarcimento e non già sentenza di accertamento dell’illegittimità.
Ancora la lettera dell’art. 34 comma 3, impone di escludere che un interesse qualsiasi sia sufficiente a sorreggere l’istanza alla sentenza di merito.
A detta opzione ermeneutica si oppone non solo il requisito della attualità e concretezza dell’interesse al ricorso[21] ma pure il disposto dell’art. 34, comma 3, che inequivocabilmente richiede che sia dedotto un “interesse risarcitorio” perché il processo prosegua, e dell’art. 35, comma 1, lett. c), che contempla la chiusura del processo con pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse quale possibile esito del ricorso. Quest’ultima norma risulterebbe svuotata di contenuto ove si ammettesse che il processo debba invece proseguire fino alla sentenza di merito a fronte di una mera dichiarazione della parte di voler intentare l’azione risarcitoria.
6. La sentenza della Plenaria non scioglie tutti i dubbi riguardanti l’interpretazione dell’art. 34, comma 3
La lettura aderente ai principi e al dato testuale dell’art. 34, comma 3, consente dunque di circoscrivere le possibili interpretazioni della disposizione controversa lasciando irrisolto un solo aspetto. Il punto che appare realmente incerto concerne l’espressione “interesse (ad una pronuncia dichiarativa dell’illegittimità) a fini risarcitori”. In particolare viene da chiedersi quali siano gli elementi che il ricorrente è tenuto a dedurre al fine di dimostrare detto interesse.
Sul significato e sul contenuto dello “interesse a fini risarcitori” la Plenaria invece non si sofferma in base all’assunto che a determinare l’obbligo del giudice di pronunciare nel merito sulla domanda è sufficiente la mera dichiarazione del ricorrente di avervi interesse.
Si tratta di una impostazione che però non è del tutto convincente. Rispetto ad essa restano a mio avviso valide le perplessità espresse dalla ordinanza di rimessione circa la coerenza dell’interpretazione che ritiene sufficiente la mera dichiarazione di interesse alla pronuncia con la costante lettura dell’art. 100 c.p.c. la quale postula l’attualità e la concretezza dell’interesse al ricorso.
Non è allora da escludere che, al di là della mera dichiarazione di intenzione di parte ricorrente, la questione se in concreto sussiste o meno l’interesse a fini risarcitori dovrà essere affrontata nel processo al fine di decidere se questo debba (o meno) proseguire fino alla pronuncia di accertamento della legittimità/illegittimità dell’atto impugnato. Emblematica una sentenza del Consiglio di Giustizia amministrativa Regione Sicilia[22] di pochi giorni successiva alla pronuncia della Plenaria. Al fine di decidere della prosecuzione, o meno, del giudizio sino alla pronuncia di accertamento dell’illegittimità del provvedimento al fine della tutela risarcitoria per equivalente, i giudici siciliani sono andati oltre la dichiarazione resa dal ricorrente e si sono spinti ad accertare la concretezza dell’interesse risarcitorio verificando accuratamente la consistenza del danno lamentato e la riconducibilità del medesimo al provvedimento, asseritamente illegittimo.
Sul punto, vale allora la pena di ricordare le soluzioni offerte dalla giurisprudenza che sono raggruppabili in tre indirizzi distinti[23]: a) l’interesse alla pronuncia dichiarativa dell’illegittimità a fini risarcitori si concreta solo che il ricorrente dimostri che il pregiudizio subito presenta una consistenza economica così da giustificare la futura proposizione di una domanda risarcitoria; b) l’interesse ad una decisione nel merito, in luogo delle decisione di improcedibilità, sussiste se il ricorrente allega tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito, nesso di causalità, spettanza del bene della vita, elemento soggettivo, oltre al danno patrimoniale o non patrimoniale; c) l’interesse risarcitorio sussiste se il giudice accerta positivamente l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito (con la conseguenza –si precisa nell’ordinanza - che giudice potrebbe non esaminare affatto i profili di illegittimità del provvedimento in caso di accertata mancanza degli ulteriori elementi dell’illecito. La mancanza di ognuno di questi assumerebbe, infatti, valore assorbente).
Evidentemente è da scartare la posizione più estrema, sopra sintetizzata sub c), la quale incorre in una evidente confusione tra i profili relativi alla ammissibilità domanda che va valutata in astratto, sia pure alla luce degli elementi di fatto addotti dalla parte ricorrente, e quelli inerenti alla sua fondatezza/infondatezza nel merito[24].
Restano allora in campo le tesi sopra sintetizzate sub a) e sub b) che prospettano con diversa ampiezza l’onere di allegazione a carico della parte ricorrente: se, per dimostrare l’interesse risarcitorio, il ricorrente possa limitarsi ad affermare il pregiudizio di cui invoca il ristoro e la perdita che lamenta di aver subito o se debba invece allegare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito.
Un punto fermo è segnato dai principi sopra evocati e dai caratteri propri del processo amministrativo: una volta venuta meno l’utilità derivabile dall’annullamento, non è comunque sufficiente a sorreggere la prosecuzione del giudizio l’interesse alla legittimità, alla affermazione, cioè, di quella che è la soluzione conforme a diritto, così come non è sufficiente un interesse solo morale che potrebbe al limite coincidere con la mera soddisfazione di un sentimento di giustizia.
Per definire, poi, in positivo quando può parlarsi di “interesse risarcitorio” e la consistenza dell’onere di allegazione a carico del ricorrente qualche indicazione può essere tratta dalla giurisprudenza del giudice ordinario in tema di proponibilità della domanda di risarcimento. Si potrebbe, invero, obiettare che l’art. 34, comma 3 riferisce l’interesse risarcitorio alla proponibilità di una domanda di accertamento dell’illegittimità e non di risarcimento. Ma, quel che è certo è che l’onere di allegazione a carico di chi chiede l’accertamento della illegittimità, a fini risarcitori, non può essere più esteso di quello che incombe su chi propone una domanda di risarcimento danni.
Per la giurisprudenza del giudice ordinario, l’onere di allegazione a carico di chi propone una azione di risarcimento danni consiste nella indicazione analitica e rigorosa dei fatti materiali che egli assume essere stati fonte di danno e nella indicazione dei danni subiti. Così ad esempio è ritenuta insufficiente a radicare il potere/dovere del giudice di pronunciare sulla domanda l’abusata formula di stile consistente nella richiesta di risarcimento dei danni “subiti e subendi”. Questa è considerata come non apposta poiché non mette né il giudice, né il convenuto, in condizione di sapere di quale concreto pregiudizio si chieda il ristoro [25]. E’ vero pure che, nella giurisprudenza del giudice ordinario, la mancata indicazione del pregiudizio di cui in concreto si chiede il ristoro non è censurata tanto alla stregua dell’art. 100 c.p.c., e dunque non espone alla conseguenza di rendere la domanda inammissibile per carenza di interesse, quanto piuttosto alla stregua dell’art. 163 c.p.c... Restano comunque, a mio avviso, utilizzabili le indicazioni circa l’ampiezza dell’onere di allegazione a carico del ricorrente.
A conclusioni non dissimili conducono pure il quadro concettuale in tema di interesse a ricorrere elaborato da una copiosa giurisprudenza del giudice amministrativo e la casistica che da quella giurisprudenza emerge. E’ vero che l’elaborazione concettuale e casistica sono essenzialmente riferite all’azione di annullamento e l’utilità che la giurisprudenza predica come necessaria a radicare l’interesse a ricorrere è definita con riferimento all’esito della (eventuale) eliminazione dell’atto impugnato. E’ però significativo che nel caso della azione di annullamento, l’interesse a ricorrere si concreta non solo ove sia prospettata “una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente”, ma richiede pure che nei fatti risulti una “effettiva utilità dell’eventuale annullamento dell’atto impugnato”[26].
Allo stesso modo si potrebbe sostenere che l’effettiva utilità della pronuncia dichiarativa dell’illegittimità a fini risarcitori sussiste solo ove sia quanto meno dimostrato un danno riconducibile al provvedimento del quale si predica l’illegittimità.
7. Alcune (precarie) conclusioni
Da quanto sopra osservato è possibile trarre alcune conclusioni, che definirei, però, precarieperché non del tutto in linea con la massima della Plenaria.
L’interpretazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. coerente con i principi e con la lettera delle disposizioni del codice del processo sembra essere quella per la quale, divenuta “inutile” la tutela demolitoria a causa di sopravvenienze di fatto o di diritto, il giudice è tenuto tuttavia ad emettere sentenza di merito di accertamento della illegittimità del provvedimento su domanda del ricorrente[27] solo che questi deduca di avere subito un pregiudizio per effetto del provvedimento impugnato e che questo è astrattamente riparabile per equivalente monetario[28].
Un aspetto merita forse di essere ancora chiarito. Ci si potrebbe cioè chiedere se la domanda di risarcimento dei danni possa essere, in alternativa, proposta in via autonoma, in un successivo giudizio. La soluzione positiva è a mio avviso preferibile. Infatti la sentenza dichiarativa della carenza sopravvenuta resta una sentenza in rito e non può essere attribuito ad essa alcun contenuto di accertamento nel merito della fondatezza/infondatezza della pretesa. Con la conseguenza che l’autonoma domanda di risarcimento danni risulterà preclusa solo ove il giudice accerti la legittimità del provvedimento in origine impugnato, così escludendo l’ingiustizia del danno lamentato. Se, invece, il processo si chiude con la declaratoria di carenza sopravvenuta di interesse, la domanda di risarcimento danni potrà essere proposta successivamente nel rispetto del termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di mera improcedibilità del ricorso.
[1] Il T.a.r. Veneto, 27 agosto 2020, n.768, punto 10) della motivazione precisa che l’allegazione da parte del ricorrente di tutti i presupposti della domanda di risarcimento danni è necessaria per di consentire alle parti di contraddire sul punto e al giudice di formarsi in proposito un adeguato convincimento, non risultando a tal fine sufficiente la mera dichiarazione dell’intenzione di proporre una domanda per il ristoro dei danni subiti.
[2] Cons. Stato, Sez. V, 29 gennaio 2020, n. 727; Cons. Stato, Sez. V, 2 luglio 2020, n. 4253; Sez. V, 17 aprile 2020, n. 2447; Sez. VI, 4 maggio 2018, n. 2651; Sez. IV, 5 dicembre 2016, n. 5102; Sez. IV, 16 giugno 2015, n. 2979; Sez. V, 24 luglio 2014, n. 3939; Sez. IV, 13 marzo 2014, n. 1231; Sez. V, 14 dicembre 2011, n. 6539.
[3] Cons. Stato, Sez. VI, 11 ottobre 2021, n. 6824; Sez. III, 4 febbraio 2021, n. 1059; Sez. II, 5 ottobre 2020, n. 5866; Sez. III, 22 luglio 2020, n. 4681; Sez. III, 29 gennaio 2020, n. 736; Sez. IV, 17 gennaio 2020, n. 418; Sez. III, 8 gennaio 2018, n. 5771; Sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1214; sez. IV, 18 agosto 2017, n. 4033; Sez. V, 15 marzo 2016, n. 1023; Sez. IV, 28 dicembre 2012, n. 6703)
[4] Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1214; e, forse, anche Cons. Stato, Sez. III, 29 gennaio 2020, n. 736
[5] In questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 18 maggio 2012, n. 2916 e 4 febbraio 2013, n. 646; Cons. Stato, sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3848; Cons. Stato, sez. V, 24 luglio 2014, n. 3939; Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2012, n. 5674, nonché Tar Milano, sez. III, 4 febbraio 2011, n. 353; sez. II, 4 novembre 2011, n. 2656; Tar Lazio, sez. III ter, 28 ottobre 2014, n. 10797; Tar Napoli, sez. VI, 23 ottobre 2014, n. 5460 e ancora Tar Milano, sez. II, 14 febbraio 2017, n. 621.
[6] Il rilievo che fa leva su esigenze di economia processuale per escludere la percorribilità di una pronuncia di accertamento dell’illegittimità che è l’argomento abbondantemente speso nell’ordinanza di rimessione non è del resto nuovo. In giurisprudenza, in particolare, per T.a.r. Lombardia, Brescia, 12 marzo 2013, n. 252 si rivela contrario al principio di economia processuale - e per logica conseguenza potrebbe confliggere anche col principio di ragionevole durata dei processi - un accertamento dell'illegittimità dell'atto compiuto in totale assenza della domanda risarcitoria. Aderisce, in dottrina, a questa impostazione g. invernici, I problemi applicativi dell’art. 34, comma 3 del codice del processo amministrativo inDir. Proc. Amm, 2013, 1320. Contra n.paolantonio, Commento al l’art. 34, in g.morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, 537 ss. il quale osserva, e il rilievo non è privo di buon senso, che, una volta istruita la domanda di annullamento ed emersa l’illegittimità degli atti gravati, costituirebbe inutile spreco di risorse giudiziarie rinviare ad un futuro autonomo giudizio risarcitorio anche la cognizione di questi aspetti. Alla critica aderisce pure m. silvestri, Sull’abolizione pretoria dell’art. 34, comma 3 c.p.a.cit, 1498.
[7] A breve distanza dai due noti precedenti, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 9 dicembre 2021, n. 22; Cons. Stato, Ad. Plen., 28 gennaio 2022, n.3.
[8] La massima è assolutamente costante, vedi nota successiva. Ma i precedenti in cui in concreto si è ravvisato un interesse solo “morale” alla decisione sono piuttosto rari. Un caso curioso è quello deciso dal T.a.r. Campania, Napoli, sez. I, 30 ottobre 1990, n. 552 in cui i giudici hanno ravvisato un interesse “morale” alla decisione del ricorso elettorale proposto da un candidato al consiglio regionale, primo dei non eletti, ancorché il medesimo fosse poi stato nominato consigliere regionale a causa del decesso di uno degli eletti della lista. A ben vedere poi, accanto all’interesse morale del candidato ad essere proclamato eletto in forza della manifestazione diretta della volontà popolare e non per il meccanismo indiretto del subentro, i giudici partenopei riconoscono anche qui peso, al fine di escludere la carenza sopravvenuta di interesse, al più concreto interesse materiale a godere dei benefici connessi alla carica (indennità, trattamento previdenziale ecc.) con effetto retroattivo dal momento dell'insediamento del nuovo consiglio regionale e non dal momento, necessariamente successivo, del suo subentro al consigliere deceduto.
[9] Cons. Stato sez. IV, 09/09/2009, n.5402; Cons. Stato sez. IV, 12/03/2009, n.1431; C.G.A. Sicilia, sez. giurisd., 21 settembre 2006, n. 530; C.d.S., Sez. IV, 22 novembre 2004, n. 7620.
[10] Cons. Stato,, sez. V, 28 giugno 2004, n. 4756, nell’escludere che la revoca ex nunc dell’ordinanza sindacale di sospensione della licenza per l’esercizio dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande determini l’improcedibilità del ricorso per ragioni di rito residuando invece l’interesse alla declaratoria di illegittimità fin dall’origine dell’atto impugnato a fini risarcitori, ribadisce “pertanto il giudice deve di volta in volta verificare le concrete conseguenze del nuovo atto sul rapporto preesistente, al fine di stabilire se, nonostante il suo sopravvenire, l'eventuale sentenza di accoglimento del gravame, a prescindere dal suo contenuto eliminatorio del provvedimento impugnato, possa - o meno - comportare ulteriori effetti conformativi, ripristinatori o anche solo propedeutici a future azioni rivolte al risarcimento del danno. Merita, pertanto, di essere precisato che la concreta individuazione dei casi di sopravvenuta carenza d'interesse al ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo precludendo la disamina del merito della controversia, dev'essere condotta secondo criteri assai rigorosi”.
[11] La tesi favorevole alla conversione anche d’ufficio della domanda di annullamento osserva invero che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato è comunque contenuto nel petitum di annullamento come un antecedente necessario: “siccome il più contiene il meno, il giudice limita d’ufficio la sua pronuncia ad un contenuto di accertamento dell’illegittimità, in relazione alla pretesa risarcitoria, giacché manca l’interesse all’annullamento ma sussiste l’interesse ai fini risarcitori”, così tra le tante Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817.
[12] Anche su questo punto la giurisprudenza è assolutamente costante: C.d.S., sez. IV, 21 agosto 2003, n. 4699; T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 26 aprile 2006, n. 1066.
[13] Per G.D. Comporti, Una battuta d’arresto per gli annullamenti a geometria variabile, in Giur.it. 2015, 1695, il potere di accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato ai soli fini risarcitori prevista dall’art. 34, 3 comma, c.p.a.va necessariamente coniugato con il principio della domanda e con il corollario del principio dispositivo in ordine alla prova dei fatti posti a fondamento della stessa
[14] La tesi della convertibilità d’ufficio non resiste ad una lettura orientata al principio della domanda il quale implica altresì quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato così m. silvestri, Sull’abolizione pretoria dell’art. 34, comma 3 c.p.a.. Ovvero dell’irrisarcibilità del danno per lesione del diritto all’istruzione, in Dir. Proc. Amm., 2017, 1505.
[15] Che la giurisprudenza più risalente muova dal presupposto della necessità di una previa pronuncia sull’illegittimità dell’atto ai fini della successiva proposizione della domanda di risarcimento risulta da C.d.S., sez. V 27.12. 2010 n. 9395. In una fattispecie nella quale era stata impugnata la delibera di organizzazione di reparto ospedaliero che aveva di fatto asseritamente provocato il demansionamento del ricorrente ed era poi nelle more del giudizio sopravvenuto il collocamento a riposo del ricorrente, il Consiglio di Stato ritiene che “l’appellante conservi un interesse attuale all’annullamento del provvedimento impugnato (pur se di natura organizzatoria), anche in seguito al suo collocamento in pensione, perché il mancato apprezzamento della legittimità o meno dello stesso (essendo di ostacolo all’apprezzamento della ingiustizia del danno o della illiceità della condotta tenuta dall'Amministrazione) frustrerebbe comunque il suo interesse strumentale a dimostrare il danno al suo prestigio professionale subito nel corso della sua attività fintantoché l’atto impugnato ha spiegato i suoi effetti, al fine di ottenerne, anche in separata sede, il risarcimento”.
[16] La tesi, semplicemente etichettata come “risalente” nella ordinanza 945, non è in effetti neppure esaminata.
[17] Per C.d.S., sez. IV, 30 marzo 2021, n. 3669, il rischio insito nella accettazione dell’idea della sufficienza di un mero interesse morale alla decisione è quello di trasformare quella amministrativa in una sorta di giurisdizione di diritto oggettivo e sul punto rinvia a C.d.S., Ad. plen., n. 1 del 28 gennaio 2015 e Sez. V, 27 marzo 2015, n. 1603.
[18] C.d.S. sez. VI, 11 ottobre 2021, n. 6824 e T.a.r. Campania, Salerno, 28 febbraio 2022, n. 582.
[19] Vi è tutto un recente filone giurisprudenziale, maturato con riferimento alla questione della appellabilità o meno del decreto presidenziale monocratico, per il quale è lo stesso art. 101, secondo comma, della Costituzione, ai sensi del quale “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, a sancire la prevalenza della interpretazione testuale al cospetto d’una preclara formulazione della normativa applicabile, in tal senso Cons. Stato, sez. IV, decreto 29 aprile 2022, n. 1962 in questa Rivistacon nota di M. Sforna, Tutela cautelare monocratica. Il Consiglio di Stato torna ad affermare l’inappellabilità del decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a. e ancora Cons. Stato, sez. IV decreto 4 luglio 2022, n. 3114. Ammonisce F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in questa Rivista 28 febbraio 2022 che pure nell’esercizio della nomofilachia il giudice resta sub lege e dunque necessariamente ancorato al dato testuale della norma..
[20] Che l’interprete non possa prescindere dal dato letterale è più volte sottolineato dalla stessa Plenaria n. 8/22.
[21] Sul quale correttamente richiama l’attenzione l’ordinanza di rimessione alla Plenaria. Ma in tal senso, vedi già in dottrina m. silvestri, Sull’abolizione pretoria dell’art. 34, comma 3 c.p.a., cit., 1509 il quale osserva che la tesi per la quale sarebbe sufficiente a proseguire il giudizio per l’accertamento dell’illegittimità la mera intenzione della parte di voler intentare l’azione risarcitoria elude, in qualche modo, elude la stessa esigenza da sempre predicata di un interesse concreto ed attuale al ricorso.
[22] C.g.a., sez. giur., 21 luglio 2022, n. 851.
[23] E correttamente individuati dalla ordinanza di rimessione.
[24] La verifica dell’interesse a ricorrere prescinde del tutto dall’accertamento effettivo della sussistenza della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio. Su questi aspetti, M. Clarich, Manuale di giustizia amministrativa, Bologna, 2021, 170.
[25] Così Cass. civ. 30 giugno 2015, n. 13328 in Resp. Civ. e previdenza, 2015, 1990. La sentenza enuncia il principio con riferimento ad un caso di responsabilità medica nel quale la ricorrente pretendeva di vedersi risarciti i costi di un intervento chirurgico resosi necessario a seguito delle cure sbagliate assumendo che detta pretesa fosse implicita nella richiesta di risarcimento dei danni “subiti e subendi”. Per la Suprema Corte una domanda così formulata deve ritenersi tamquam non esset per la sua genericità e quindi il giudice investito della decisione non solo non può, ma anzi non deve esprimersi in merito. In termini, vedi ancora Cass. civ., 18 gennaio 2012, n. 691, ove la massima secondo la quale “le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta in tesi colpevole della controparte (...), ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l'attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, e ciò a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo”; Cass. civ., 18 gennaio 2012, n. 69; Cass. civ., 13 maggio 2011, n. 10527; Cass. Sez. Un. civ., 17 giugno 2004, n. 11353; Trib. Roma, sez. VI, 31 gennaio 2018, n. 2415; T.a.r., Lazio, sez. IIIquater, 5 giugno 2019, n. 7217.
[26] Cons. Stato, Ad. plen. n. 4/2018, punto 16.8; ribadito da Cons. Stato, Ad. plen., n. 22/2021, punto 5
[27] Probabilmente l’istanza andrebbe notificata poiché comunque determina una modifica del thema decidendum, se non si condivide la tesi per la quale la domanda di accertamento dell’illegittimità è “compresa” per continenza in quella di annullamento. Posizione questa condivisa dalla giurisprudenza “risalente” e che – come già detto – giustificherebbe la conclusione della convertibilità d’ufficio.
[28] Ristretto l’onere di allegazione a carico del ricorrente alla affermazione di aver subito un danno risarcibile per equivalente monetario e alla descrizione della perdita subita, si osserverà forse che il filtro dell’”interesse risarcitorio” non opera una selezione adeguata con il rischio che il processo sia portato avanti fino alla sentenza di accertamento della legittimità/illegittimità a meri fini esplorativi. Ma all’argomento che fa leva su esigenze di economia processuale non può accordarsi un peso decisivo come correttamente rilevato dalla Plenaria in commento.