ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Le vicende oggetto delle due sentenze: ricostruzione e categoria della ristrutturazione edilizia. – 2. Il progressivo ampliamento della nozione di ristrutturazione edilizia nel t.u. edilizia. – 3. Demo-ricostruzione e continuità sostanziale (oltre che temporale). – 4. Ripristino di edifici diruti: natura sostanziale di nuova costruzione e conseguenze. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Le vicende oggetto delle due sentenze: ricostruzione e categoria della ristrutturazione edilizia
Con due pronunce di pari data del gennaio 2023 Cassazione e Consiglio di Stato forniscono un’interpretazione della categoria di intervento edilizio della “ristrutturazione edilizia”[1] che ne circoscrive rigorosamente l’ambito di applicazione con riguardo, rispettivamente, alla demo-ricostruzione e al ripristino di edifici diruti.
Nella fattispecie affrontata dalla Cassazione viene in rilievo un permesso di costruire rilasciato per la demolizione di una casa colonica, costituita da due unità immobiliari e da alcuni annessi agricoli, con costruzione, in luogo delle predette strutture, di un complesso residenziale costituito da dieci villini in linea e un parcheggio a raso. La questione essenziale trattata, qui di interesse, attiene alla configurabilità o meno nella specie di un intervento di ristrutturazione edilizia, quale categoria di intervento massimo consentito nel piano di recupero ivi vigente. Risolvendo in senso negativo la questione, la Suprema Corte, pur prendendo atto dei ripetuti interventi del legislatore che hanno ampliato la nozione di ristrutturazione edilizia (su cui si darà conto infra), ritiene sia rimasta invariata “la ratio qualificante l'intervento edilizio, che, postulando la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, è comunque finalizzata al recupero del medesimo, pur con le ammesse modifiche di esso”. Tale essendo la finalità, non può essere ragionevolmente sussunto nella categoria della ristrutturazione edilizia un intervento che faccia scomparire ogni traccia della preesistenza; l’esito della trasformazione è più correttamente da qualificarsi come “nuova costruzione” e, peraltro, è di tale rilevanza sotto il profilo urbanistico da far ritenere integrati i presupposti della lottizzazione abusiva.
Nella fattispecie decisa dal Consiglio di Stato viene in rilievo un intervento di ripristino di un preesistente fabbricato abitativo integralmente demolito nel 1995 in quanto gravemente danneggiato dal sisma occorso in Campania negli anni ‘80. Nel 2014, a distanza di un ventennio dalla demolizione, i proprietari presentano un’istanza di permesso di costruire per realizzare un edificio fedele al preesistente, in ritenuta applicazione dell’art. 30, co. 1, lett. a), d.l. 21 giugno 2013 n. 69 (noto come decreto del fare), convertito nella l. 9 agosto 2013 n. 98, che, modificando e integrando l’art. 3 t.u. edilizia (d.P.R. n. 380/2001), ha incluso nella categoria della “ristrutturazione edilizia” la ricostruzione di edifici crollati o demoliti dei quali possa essere dimostrata la preesistente consistenza. Mentre la commissione edilizia integrata e il responsabile dell’ufficio del paesaggio del comune condividono la sussunzione nella predetta categoria di intervento – trattandosi di fedele ricostruzione di un documentabile fabbricato demolito –, in termini negativi si esprime la soprintendenza, competente sul progetto in ragione del vincolo paesaggistico gravante sull’intero territorio comunale. In particolare, l’amministrazione statale, rilevato che l’edificio non risulta più esistente dal 1995, motiva il proprio parere negativo in ragione del divieto di “qualsiasi intervento che comporti incremento dei volumi esistenti” sancito per la zona di riferimento dal piano territoriale paesistico approvato nel 2002.
Nel giudicare legittimo il diniego, il Consiglio di Stato fornisce una rigorosa interpretazione della disciplina dell’intervento del ripristino di edifici crollati o demoliti sotto due distinti profili: il presupposto del crollo o della demolizione della preesistenza deve essere successivo all’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 69/2013; sono comunque opponibili al progetto di intervento in questione le previsioni – come quelle urbanistiche e paesaggistiche – entrate in vigore successivamente alla demolizione o al crollo e che, come nella specie, non consentano la realizzazione di nuovi volumi o nuove costruzioni. Se l’interpretazione della irretroattività come riferita anche al verificarsi dei presupposti della fattispecie appare discutibile, il secondo principio, ampiamente argomentato dal Consiglio di Stato, consente di ricondurre a ragionevolezza una previsione normativa altrimenti idonea a incidere in modo imprevedibile e significativo sull’assetto del territorio e sulle scelte di pianificazione urbanistica.
2. Il progressivo ampliamento della nozione di ristrutturazione edilizia nel t.u. edilizia.
Le attuali definizioni delle diverse categorie di intervento edilizio – come noto, fondamentali ai fini della individuazione dei titoli abilitativi necessari e delle sanzioni in caso di abusi nonché ai fini della corretta lettura degli strumenti urbanistici che a tali categorie fanno riferimento nell’individuare gli interventi consentiti[2] – riprendono in parte quelle contenute nella l. n. 457/1978 che, nel disciplinare i neo-introdotti piani di recupero e gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, all’art. 31 definiva gli interventi di ristrutturazione edilizia come “quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, la eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti”.
La distinzione rispetto all’intervento di “nuova costruzione” rilevava all’epoca non tanto sotto il profilo del titolo edilizio necessario (comunque rappresentato dalla concessione edilizia ai sensi della l. n. 10/1977), quanto sotto il profilo dell’onerosità (beneficiando la ristrutturazione edilizia di un regime contributivo di favore), del diverso trattamento sanzionatorio previsto dalla l. 28 febbraio 1985, n. 47, e della disciplina urbanistica applicabile (alla ristrutturazione edilizia applicandosi quella della preesistenza legittima e non quella, eventualmente diversa, recata da norme di legge o di piano sopravvenute)[3].
La definizione di ristrutturazione edilizia era stata interpretata dalla giurisprudenza come comprensiva anche degli interventi consistenti nella demolizione e successiva ricostruzione di un fabbricato, a condizione che la ricostruzione fosse fedele – in termini di piena conformità di sagoma, volume e superficie tra il vecchio e il nuovo manufatto – e fosse effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione[4], dovendo altrimenti l’intervento essere qualificato come “nuova costruzione”. Identificata l’intenzione del legislatore nell’obiettivo di agevolare il recupero estetico e funzionale di manufatti che, in quanto già inseriti nel tessuto edilizio, non determinano per effetto dell’intervento un incremento del carico urbanistico dell’area interessata, la giurisprudenza ne faceva conseguire il principio secondo cui gli interventi di ristrutturazione edilizia soggiacciono alla normativa urbanistica sostanziale vigente all'epoca di realizzazione del manufatto oggetto di recupero (e non a quella, eventualmente diversa, vigente alla data della richiesta del titolo abilitativo necessario per il nuovo intervento).
La finalità di recupero non era contraddetta dalla possibilità – prevista in definizione – che l’intervento potesse portare a un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente e, quindi, integrare anche un’attività di trasformazione (tramite il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti): identificato nell’organismo preesistente l’elemento qualificante del recupero e della trasformazione, l’eventuale diversità – ancorché in ipotesi totale – non avrebbe potuto coincidere con la novità assoluta, risultando altrimenti integrata una nuova costruzione[5].
Così delimitata la nozione, essa era quindi reputata idonea ad accogliere – non per creazione giurisprudenziale, ma in ragione di una corretta interpretazione del tenore letterale e della finalità della disposizione di riferimento[6] – anche la demolizione e fedele ricostruzione, “specie quando ciò risulti più conveniente sotto il profilo tecnico ed economico”: la demolizione in tale caso identifica, infatti, “lo strumento necessario per la realizzazione del risultato finale, costituito dal pieno ripristino del manufatto”[7], vale a dire una sua preliminare modalità esecutiva.
Il t.u. edilizia, d.P.R. n. 380/2001, nella versione originaria dell’art. 3, co. 1, lett. d), riproponendo la definizione di ristrutturazione edilizia, vi includeva espressamente gli interventi “consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Come illustrato dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento, l’espressa inclusione della demo-ricostruzione tra gli interventi di ristrutturazione edilizia sottende l’adesione e il recepimento dell’elaborazione giurisprudenziale di cui si è riferito, e trova fondamento nell’essere il genus ristrutturazione edilizia una tipologia di intervento edilizio che “presuppone la preesistenza e la conservazione di un edificio, che si intende rinnovare o modernizzare”. Il tratto distintivo della ristrutturazione edilizia è rappresentato, quindi, dall’esistenza di una relazione di continuità tra l’edificio preesistente all’intervento e l’edificio che di questo sia il risultato.
A distanza di poco tempo, con il d.lgs. 27 dicembre 2002 n. 301, venivano parzialmente attenuati i tratti rigorosi della relazione di continuità, limitando i relativi parametri identificativi alla volumetria e alla sagoma (mentre veniva espunto il riferimento all’area di sedime e alle caratteristiche dei materiali e, significativamente, non veniva riproposto il più generale concetto di “fedele ricostruzione”). Peraltro, l’inserimento nella macrocategoria degli interventi di “recupero” – e, quindi, la coerenza a tale finalità – conduceva a ritenere, per esigenze di interpretazione logico-sistematica della nuova normativa, che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per evanescenza dei presupposti per inglobare interventi di trasformazione più correttamente qualificabili come “nuova costruzione”, dovesse comunque conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente[8] e che, ad esempio, l’eliminazione tra i referenti della continuità dell’area di sedime non aprisse la strada al posizionamento discrezionale della preesistenza nel lotto, se non addirittura in altro sito, ma consentisse modifiche dell’area di sedime nei limiti delle varianti non essenziali (per il riempimento della cui nozione l’art. 32 t.u. edilizia rinvia, come noto, alle definizioni delle leggi regionali)[9].
È del resto proprio in ragione di tale relazione di continuità – e della già intervenuta trasformazione del territorio[10] – che gli oneri di urbanizzazione corrisposti con riferimento alla preesistenza sono riconosciuti e portati a scomputo in caso di demo-ricostruzione[11].
Nell’elaborazione originaria del t.u., la relazione di continuità tra edificio preesistente demolito e quello risultante dalla ricostruzione richiedeva, inoltre, oltre al rispetto della volumetria, della sagoma e degli elementi distintivi, anche che le due operazioni avvenissero in un unico contesto temporale, senza soluzione di continuità: l’intervento, in definitiva, è unitario in quanto la demolizione è finalisticamente legata alla ricostruzione, è un mezzo per la sua realizzazione[12].
Su tale continuità temporale (o contestualità) ha poi inciso nel 2013 il già citato art. 30, co. 1, lett. a), d.l. n. 69/2013, convertito nella l. n. 98/2013, che ha ampliato la definizione della “ristrutturazione edilizia” includendovi gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, a condizione che sia possibile accertarne la preesistente consistenza[13].
Si tratta di interventi edilizi che in precedenza la giurisprudenza aveva qualificato come “nuova costruzione” in base alla combinata considerazione che un rudere ha perso, sia in termini strutturali che funzionali, i caratteri dell’entità urbanistico-edilizia originaria[14], mentre la preesistenza oggetto di intervento deve essere un organismo edilizio dotato di componenti essenziali – quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura – idonee ad assicurargli un minimo di consistenza (e a identificare un volume) e a farlo giudicare presente nella realtà materiale[15], in mancanza delle quali si identifica un’area non edificata[16].
La ricostruzione di ruderi – vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio nei termini predetti – veniva pertanto ricondotta nell’alveo della “nuova costruzione”, non rilevando in senso contrario la possibilità di risalire, attraverso complesse indagini tecniche, all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come tale[17].
In chiara rottura rispetto al sintetizzato orientamento giurisprudenziale, l’inclusione nel 2013 nella ristrutturazione dell’intervento consistente nella sola ricostruzione di quanto risulti già demolito o crollato comporta che il concetto di preesistenza non si basi più sull’esistenza attuale del manufatto (preesistenza materiale) ma sulla relativa documentazione (preesistenza documentale)[18].
Contestualmente, il decreto del fare ha eliminato – a eccezione degli “immobili sottoposti a vincoli ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42”[19] – la condizione, prima necessaria per l’inquadramento nella ristrutturazione edilizia della demo-ricostruzione, del rispetto della sagoma dell’edificio preesistente e, conseguenzialmente ma implicitamente, anche quella connessa all’area di sedime[20]. Il rispetto di tale condizione è stata direttamente non menzionata per la neo-introdotta fattispecie del ripristino di ruderi.
Demo-ricostruzione e ripristino sono “accomunati dalla medesima finalità di contenimento del consumo di suolo”[21]. Si legge, infatti, nella relazione al decreto del fare che: “Al fine di favorire la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente ed evitare ulteriore consumo del territorio, si agevolano gli interventi di ristrutturazione edilizia volti a ricostruire un edificio con il medesimo volume dell'edificio demolito, ma anche con sagoma diversa dal precedente, e si ricomprendono tra gli interventi di demolizione e ricostruzione classificati come interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”. La lettura della relazione è utile per comprendere la ratio dell’inserimento nella ristrutturazione edilizia, ancorché la relazione stessa si esprima in modo non preciso – per ciò che si dirà infra nel paragrafo 4 – nella parte in cui comprende gli interventi di ripristino in quelli di demo-ricostruzione: si tratta di sottospecie di ristrutturazione edilizia diverse, con conseguente non integrale sovrapponibilità del relativo regime giuridico, come verrà rilevato.
La novella ha quindi intaccato il requisito della continuità anche sotto il profilo sostanziale, consentendo di ricostruire una preesistenza con diversa sagoma e ponendo come unico limite quello della volumetria.
Si tratta in ogni caso di modifiche per effetto delle quali talune fattispecie sino ad allora rientranti nella nozione residuale di “nuova costruzione”, recata dall’art. 3, co. 1, lett. e) t.u. edilizia, sono state fatte “scivolare”[22] entro la diversa categoria della ristrutturazione edilizia.
La giurisprudenza, peraltro, si manteneva ostinatamente ferma nel richiedere una sostanziale continuità con l’edificio preesistente nelle caratteristiche planivolumetriche e architettoniche[23].
Ed è probabilmente in risposta a tale rigore giurisprudenziale che il d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (decreto semplificazioni), convertito nella l. 11 settembre 2020 n. 120, ha espressamente incluso nella ristrutturazione edilizia gli interventi di demo-ricostruzione di edifici esistenti “con diversa sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, per l'applicazione della normativa sull'accessibilità, per l'istallazione di impianti tecnologici e per l'efficientamento energetico”; e consentito, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria, “anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”.
La riscrittura della definizione ha quindi specificato puntualmente i parametri la cui modifica non risulta rilevante, ammettendo espressamente che l’esito dell’intervento possa presentare “caratteristiche molto differenti”[24]. La finalità perseguita dalla novella del 2020 è dichiaratamente quella di “semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese, nonché di assicurare il recupero e la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di processi di rigenerazione urbana, decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo” (art. 10, co. 1, d.l. n. 76 cit.)[25].
Il rigore è stato invece conservato – e, anzi, accresciuto nei termini di una “fedele ricostruzione”[26] – nella definizione dei parametri qualificanti la continuità con riferimento agli “immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio” nonché innovativamente – ma con salvezza di diverse previsioni legislative e degli strumenti urbanistici – a quelli ubicati nelle zone omogenee A o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico: in tali casi, gli interventi di demo-ricostruzione e quelli di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono – nel testo del 2020 – interventi di ristrutturazione edilizia a condizione che siano mantenuti non solo la sagoma ma anche prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e che non siano previsti incrementi di volumetria.
L’interpretazione letterale di tale ultima previsione conduceva a ritenere applicabile – a fronte peraltro di una prassi di minore rigore seguita da alcune amministrazioni[27] – la clausola di salvaguardia non solo agli interventi su immobili gravati da specifico provvedimento di vincolo in quanto dotati di pregio intrinseco – e quindi sottoposti a specifica tutela come beni culturali ex art. 10 o bellezze paesaggistiche individue ai sensi delle lettere a e b dell’art. 136 d.lgs. n. 42/2004 – ma anche a tutti gli immobili insistenti su aree tutelate con vincolo paesaggistico ex lege ai sensi dell’art. 142 d.lgs. n. 42/2004 o come bellezze d’insieme ai sensi delle lettere c) e d) dell’art. 136 citato[28].
Sollecitato dall’esigenza pratica di rendere possibile applicare le agevolazioni sull’efficientamento energetico (si pensi al superbonus del 110%) – concesse per interventi al più inquadrabili nella ristrutturazione edilizia – anche agli interventi su immobili tutelati non ex se per caratteristiche intrinseche proprie ma in quanto inseriti in ambiti tutelati paesaggisticamente ex lege o come complessi più o meno estesi, il legislatore dell’urgenza è da ultimo intervenuto nuovamente ad ampliare l’ambito della ristrutturazione edilizia. Esclusivamente con riferimento alla speciale previsione relativa agli immobili tutelati, l’art. 28 d.l. 1 marzo 2022 n. 17 (decreto energia), convertito nella l. 27 aprile 2022 n. 34, e l’art. 14 d.l. 17 maggio 2022 n. 50 (decreto aiuti), convertito nella l. 14 luglio 2022, n. 91, hanno escluso dall’ambito applicativo della disposizione di maggior rigore, rispettivamente, gli edifici situati in aree vincolate paesaggisticamente ex lege ai sensi dell’art. 142 del Codice di settore e quelli situati in aree tutelate ai sensi degli artt. 136, co. 1, lett. c) e d) (vale a dire all’interno di “bellezze d’insieme”) del medesimo Codice[29].
3. Demo-ricostruzione e continuità sostanziale (oltre che temporale).
Come anticipato, nella fattispecie decisa dalla Cassazione l’intervento assentito con il permesso di costruire era funzionale non alla realizzazione di un organismo edilizio che, pur in ipotesi in tutto o in parte diverso dal precedente come consentito dall’art. 3, lett. d) t.u. edilizia, fosse “pur sempre identificabile con quest’ultimo” (rappresentato da una casa colonica e annessi agricoli), quanto piuttosto di plurimi e diversi organismi (quali le villette a schiera). Inoltre, la previsione in progetto di una strada e di parcheggi a raso è valsa a denotare, a giudizio della Suprema Corte, la predisposizione di un nuovo complesso residenziale, “distante dal criterio fondante della ristrutturazione”, la quale impone, per rispettare la ratio della categoria di intervento e la distinzione rispetto alla “nuova costruzione”, “un connubio materiale o comunque funzionale e identitario tra l’edificio originario e l’immobile frutto di ristrutturazione”[30].
Il ragionamento conduce la Cassazione a escludere dall’ambito della categoria della “ristrutturazione edilizia” la moltiplicazione da un unico edificio di plurime distinte strutture così come, per converso, l’assorbimento di plurimi immobili in un unico complesso edilizio[31].
Il necessario connubio tra preesistenza ed esito dell’intervento – e, quindi, la necessaria identificabilità del singolo immobile ristrutturato con il nuovo organismo realizzato – spiega perché esuli dalla nozione legislativamente fissata di ristrutturazione edilizia la demolizione di distinti immobili accessori con acquisizione della relativa volumetria all’immobile principale: difetta in tale caso la ricostruzione dell’edificio demolito; questo, anziché essere al più rinnovato o modificato nei termini consentiti dal t.u. edilizia, scompare, con mero acquisto all’immobile principale della relativa volumetria.
Si tratterebbe, in definitiva, di una demolizione a vantaggio di un diverso, nuovo, edificio.
La Suprema Corte desume la conferma della “ontologica necessità che l’intervento di ristrutturazione edilizia”, nonostante le ampie concessioni legislative in termini di diversità tra la struttura originaria e quella frutto di ristrutturazione, “non possa prescindere dal conservare traccia dell'immobile preesistente” dall’art. 10 del decreto semplificazioni (d.l. n. 76/2020): questo introduce le integrazioni e modifiche dell’art. 3, lett. d), t.u. edilizia spiegando come esse rispondano alle finalità “di semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese, nonché di assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di processi di rigenerazione urbana, decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo”.
Ma dalla stessa lettura dell’art. 3 t.u. edilizia risulta che la totale o parziale diversità ammessa riguarda qualità dell’edificio che ne producono la trasformazione senza però determinarne l’eliminazione: gli interventi di demo-ricostruzione sono testualmente “ricompresi” “nell’ambito” degli interventi di ristrutturazione edilizia e, quindi, devono preliminarmente essere coerenti con la definizione generale. L’insieme sistematico di opere deve pertanto essere rivolto non a cancellare ma a trasformare la struttura di riferimento, lasciando permanere un rapporto di continuità con l’organismo precedente (configurando, altrimenti, il progetto un’opera nuova, destinata a confluire negli “interventi di nuova costruzione”, “strutturalmente connotati dalla assenza di una preesistenza edilizia”).
In altri termini, rileva condivisibilmente la Cassazione, “con riguardo alla ristrutturazione non vi è spazio per nessun intervento che lasci scomparire ogni traccia del preesistente”[32].
4. Ripristino di edifici diruti: natura sostanziale di nuova costruzione e conseguenze.
In tema di ripristino e relativo regime giuridico, è necessario in primo luogo precisare i confini rispetto alla demo-ricostruzione, con cui il primo condivide l’essere una sottospecie dell’intervento di ristrutturazione edilizia. La distinzione rileva, ad esempio, allorquando permangano sul territorio tracce di una preesistenza (parti dei muri perimetrali, tracce di solaio, o altro) di cui l’intervento di ripristino implichi la preliminare rimozione e ha importanti implicazioni in merito al regime giuridico dell’intervento.
Si è ricordato che, per orientamento giurisprudenziale pacifico, esula dalla demo-ricostruzione species della ristrutturazione edilizia l’intervento che abbia ad oggetto un rudere di cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare. In particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali e privo di copertura e di strutture orizzontali non può essere riconosciuto come edificio – id estvolume – allo stato esistente[33].
Per sottrazione, il ripristino di edifici crollati o demoliti riguarda le ipotesi in cui ciò che resta della preesistenza sul territorio non abbia la predetta consistenza.
Così distinto dalla demo-ricostruzione, il ripristino pone una serie di ulteriori questioni interpretative[34], alcune delle quali non ancora risolte a distanza di un decennio dalla inclusione nella ristrutturazione edilizia, come la sentenza del Consiglio di Stato in commento dimostra.
Se sulla questione delle modalità di accertamento della preesistente consistenza la giurisprudenza è ampia e, salve alcune differenze sul grado di rigore della prova, pacifica, profili di maggiore incertezza riguardano le questioni: dell’eventuale rilievo da attribuire, ai fini della inclusione nella ristrutturazione edilizia, alla distinzione tra ruderi ed edifici del tutto inesistenti ma comprovabili a mezzo di documentazione certa; di un eventuale limite temporale entro cui sia possibile ricostruire un edificio crollato o demolito da tempo, potendo la disposizione dell’art. 3, co. 1, lett. d) t.u. edilizia, in mancanza di diverse testuali indicazioni, fondare pretese a riedificare immobili da tempo inesistenti ma la cui esistenza e consistenza sia possibile dimostrare tramite documentazione catastale, tecnica, iconografica ecc.; del rispetto delle distanze, degli standard e delle previsioni urbanistiche vigenti alla data dell’intervento di ripristino, in considerazione del fatto che nel dimensionamento degli strumenti urbanistici e nel calcolo degli standard gli edifici diruti non necessariamente sono presi in considerazione dal pianificatore, con conseguenti problematiche urbanistiche in caso di loro ripristino.
Nella fattispecie del ripristino di ruderi il legislatore compensa la continuità che si perde sul piano temporale tra demolizione (o crollo) e ricostruzione sancendo il limite del rispetto della “preesistente consistenza” del fabbricato demolito o crollato. La prova della preesistente consistenza strutturale e plano-volumetrica – che, come è evidente, grava sul soggetto interessato a intraprendere l’intervento[35] – è quindi elemento discretivo tra ristrutturazione e nuova costruzione[36].
Nel dettaglio, viene giudicata non sufficiente ai fini dell’inquadramento nella “ristrutturazione edilizia” la dimostrazione che un immobile sia esistito in un dato luogo e che attualmente risulti crollato, reputandosi necessario dimostrare, oltre all’an, il quantum (vale a dire l’esatta consistenza dell’immobile preesistente)[37].
Secondo parte della giurisprudenza, l’accertamento deve essere effettuato “con il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie ecc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente”[38].
Più nel dettaglio, l’utilizzo del termine “consistenza” è stato inteso come comprensivo di tutte le caratteristiche essenziali dell’edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, ecc.) o come “complessivo ingombro plani-volumetrico (altezza, sagoma, prospetto, estensione)”[39], con la conseguenza che la mancanza di dati certi relativamente anche a uno soltanto di questi elementi determina l’insussistenza del requisito richiesto dall’art. 3, co. 1, lett. d) t.u. edilizia[40]. È ulteriormente specificato che la verifica non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve basarsi su dati certi, completi e obiettivamente apprezzabili[41].
Esprime posizioni meno rigide quella giurisprudenza che ammette l’accertamento della preesistenza “anche in via deduttiva” e “anche in misura inferiore, ma [pur sempre: n.d.r.] comprovabile, rispetto a quanto assunto dagli interessati, ovvero optando, in presenza di più risultati possibili, motivatamente per quello più restrittivo”[42]. Quest’ultimo orientamento giurisprudenziale si declina poi nella affermata illegittimità del diniego di permesso o del riscontro negativo alla s.c.i.a. che siano motivati dalla sola mancata prova certa della consistenza da parte del privato[43].
In ogni caso, ai fini dell’accertamento viene in rilievo attualmente quanto previsto dal co. 1-bis dell’art. 9-bis t.u. edilizia[44], introdotto nel 2020 dal d.l. semplificazioni, non solo perché la preesistenza deve essere legittima, ma in quanto la dimostrazione dei parametri urbanistici ed edilizi dell’edificio da ripristinare può essere fornita attraverso pratiche edilizie precedenti, o per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, attraverso le informazioni catastali di primo impianto o altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti di archivio o altro dato, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, integrati, ove occorra, da indagini tecniche finalizzate a un – imprescindibile – calcolo della volumetria.
L’inserimento del ripristino tra gli interventi sull’esistente solleva poi la già anticipata questione della consistenza degli elementi superstiti della costruzione crollata o demolita, tema non trattato dalla giurisprudenza chiamata ad applicare la disciplina del t.u. edilizia precedente al decreto del fare in ragione della allora affermata equivalenza tra rudere ed edificio non più esistente[45].
Se il recupero e la riqualificazione del patrimonio edilizio e delle aree edificate esistenti si pongono, nell’intenzione del legislatore, come strumento per contenere il consumo di suolo connesso a nuove edificazioni, e se in ragione di tale finalità è stata progressivamente ampliata la categoria della ristrutturazione edilizia, si giustifica il rigore dell’orientamento giurisprudenziale che afferma la necessità, affinché il ripristino possa essere ricondotto alla categoria della ristrutturazione (e non a quella della nuova costruzione), che l’intervento “resti all’interno del confine semantico dettato dalla nozione di ‘trasformazione’ di un edificio preesistente”, alla quale non può logicamente essere ricondotto il caso in cui non residui alcuna traccia materiale del preesistente edificio. Per quanto progressivamente ampliato, il concetto di ristrutturazione non può, infatti, “ontologicamente prescindere quantomeno dall’apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione e che è rappresentato […] dalla ‘trasformazione’ di organismi edilizi, la quale presuppone che l’intervento si riferisca a una porzione di territorio a sua volta già compiutamente trasformata”[46].
La possibilità di ricostruire qualcosa che fisicamente non esiste stride, già a livello teorico, con il concetto di ristrutturazione: il ripristino di edifici, per integrare ristrutturazione, richiede, quindi, “l’esistenza almeno di un rudere o comunque di resti attestanti la passata presenza dell’edificio e comportanti un impegno di suolo ancora in essere, a prescindere dalla loro incapacità di rivelare la consistenza originaria dell'immobile, cui sia necessario pervenire attraverso un'indagine storico-tecnica” [47].
Si tratta di un limite della nozione di ristrutturazione edilizia che non trova riscontro in altra giurisprudenza che più genericamente collega la fattispecie “al caso di edificio che più non esiste, di cui però la consistenza originaria si può ricostruire” tramite un’indagine tecnica[48].
Quest’ultimo orientamento estensivo, collegato alla laconicità del dato letterale che indica come oggetto di ripristino un edificio crollato o demolito senza richiedere espressamente elementi superstiti, è palesemente incoerente rispetto all’intenzione del legislatore (parimenti importante ex art. 12 preleggi) di “evitare l’ulteriore consumo di suolo, valorizzando le già intervenute trasformazioni edilizie del territorio”[49] e conduce a risultati ancora più irragionevoli ove si consideri che il t.u. edilizia non fornisce alcuna indicazione sull’ulteriore questione se esista un limite temporale oltre il quale non si possa risalire nel tempo per dimostrare l’insistenza su un’area di una preesistenza e la relativa consistenza.
I notevoli e imprevedibili effetti urbanistici nonché sul rispetto di vincoli sopravvenuti che l’eccessiva genericità della fattispecie potrebbe determinare sono, almeno in parte, attenuati grazie alla soluzione che il Consiglio di Stato nella sentenza in commento fornisce alla questione – riferibile anche al caso in cui tracce visibili della preesistenza permangano – del rilievo da riconoscere a sopravvenuti vincoli o norme di piani territoriali o urbanistici ostativi a nuove costruzioni o, comunque, impeditive del ripristino della preesistenza “come era” e “dove era”.
Come anticipato in premessa, nel caso trattato nella sentenza n. 616/2023 il privato aveva presentato il progetto di fedele ricostruzione dell’edificio, lesionato dal sisma del 1980 e demolito nel 1995, sul presupposto che la volumetria preesistente non si fosse mai estinta e, conseguentemente, l’intervento di ripristino progettato non realizzasse alcun nuovo volume vietato dal vigente piano territoriale paesistico.
Disattendendo le argomentazioni del privato, il giudice amministrativo rileva che quando la ricostruzione non segue “nel medesimo contesto temporale” alla demolizione o al crollo, sono “opponibili all’interessato le previsioni, entrate in vigore in epoca successiva alla demolizione o al crollo, che precludano la realizzazione, sul relativo fondo, di nuove costruzioni o di nuovi volumi”.
Per regola generale la demolizione di un edificio determina l’eliminazione, fisica e giuridica, della volumetria esistente, con la conseguenza che la ricostruzione dell’edificio è in linea di principio preclusa se, in epoca posteriore alla realizzazione della preesistenza, sono entrati in vigore nuovi strumenti di governo del territorio ostativi alla realizzazione di nuove costruzioni. A questa regola generale – spiega il Consiglio di Stato – fa eccezione, al ricorrere di determinate condizioni, il caso in cui la demolizione sia seguita, nell’ambito di un unitario intervento, dalla ricostruzione.
Invece, in caso di ripristino di un edificio crollato o demolito il legame di continuità – connotato, come visto, degli interventi di ristrutturazione –, non solo è più labile ma “viene ad esistenza solo a posteriori”, cioè a seguito della scelta del privato di ricostruire l’edificio crollato o demolito tempo prima: “fintanto che l’interessato non manifesta l’intenzione di procedere alla ricostruzione nella realtà fisica, il fabbricato non esiste più e quindi non può essere percepito come entità ‘virtualmente’ ancora presente”. Da ciò consegue che “le norme che, a vario titolo (urbanistiche, tutela del paesaggio, etc.), intervengono dopo la demolizione o il crollo dell’edificio, disciplinando l’uso del suolo in modo che la realizzazione di nuove costruzioni o di nuovi volumi non sia più consentita, devono ritenersi opponibili al proprietario del fondo, e quindi preclusive anche di interventi di ristrutturazione nel senso che qui si sta considerando, trattandosi di norme che legittimamente (e prima ancora logicamente) sono partite dalla considerazione del fondo come sgombro dai volumi che si intendono ricostruire, e sulla base di tale considerazione hanno espresso una scelta”[50].
Il principio per cui la ‘volumetria’ rinveniente dalla demolizione/crollo di un edificio non si “estingue” se seguita dalla ricostruzione e per cui, conseguentemente, la relativa ricostruzione non è nuova costruzione non è quindi applicabile allorquando la ricostruzione non sia programmata in un momento precedente alla demolizione – e quindi la seconda non sia modalità esecutiva della prima –, non essendovi in tale caso certezza circa il fatto che tale volumetria sarà “riutilizzata”.
Diversamente opinando, in difetto di specifiche norme urbanistiche disciplinanti tale situazione[51], il regime giuridico di un fondo sarebbe lasciato a “una situazione di incertezza giuridica che ridonderebbe sulla capacità dell’amministrazione di programmare correttamente l’uso del territorio”. Rileva condivisibilmente il Consiglio di Stato che in sede di pianificazione urbanistica l’amministrazione non sarebbe certa di poter ritenere la volumetria rinveniente da demolizioni/crolli quale volumetria ancora “impegnata” o esistente o, al contrario, non esistente e tale da poter essere eventualmente collocata altrove.
L’iter argomentativo conduce il Consiglio di Stato ad affermare che in caso di ripristino di edifici crollati – “in cui il legame di continuità tra l’edificio preesistente e quello ricostruito è fittizio, poiché frutto di una scelta assunta a posteriori, e anche perché l’edificio ricostruito non deve neppure essere totalmente fedele a quello preesistente (salvi i casi di ricostruzione in zona tutelata)” – “la volumetria rinveniente dalla demolizione o dal crollo di un edificio si estingue, salvo “rivivere” nel momento in cui il privato manifesta l’intenzione di utilizzarla nuovamente.
Badando alla sostanza dell’operazione, l’intervento integra, in realtà, una “nuova costruzione”, il cui inserimento da parte del legislatore nella categoria della ristrutturazione edilizia è finalizzata ad una semplificazione procedurale (potendo essere assentita anche con s.c.i.a.), a un alleggerimento contributivo, oltre che a rendere possibile l’accesso – come forma di incentivo per interventi che soddisfano anche l’interesse pubblico al contenimento dell’uso del suolo e alla riqualificazione – ai benefici fiscali e agli incentivi connessi ai bonus edilizi.
La natura sostanziale di nuova costruzione, a prescindere dall’eccezionale regime giuridico abilitante, implica però che “all’atto della sopravvenienza di nuove norme che precludano sul fondo la realizzazione di nuove costruzioni o di nuovi volumi, gli interventi di ristrutturazione in parola devono ritenersi preclusi, salvo che non siano specificamente fatti salvi dalle nuove norme”.
Se, quindi, dall’intervenuta demolizione o dal crollo dell’immobile non si può desumere una volontà del proprietario di abbandonare gli intenti edificatori di ricostruzione[52] (a meno che nelle more tra demolizione o crollo e pretesa di ripristino il sedime su cui insisteva l’edificio da ripristinare sia stato oggetto di diversa trasformazione urbanistica-edilizia[53]), al contempo, l’edificabilità del suolo – e quindi la possibilità di sfruttamento edificatorio – resta soggetta, come di regola accade in sede di nuova pianificazione o di variante per i residui di piano (cioè per le previsioni di trasformazione dello strumento urbanistico rimaste inattuate), a possibili sopravvenute diverse scelte di destinazione o di standard così come al sopravvenire di prescrizioni di vincolo più restrittive o in radice ostative all’edificazione[54].
In definitiva, l’esito del ripristino – seppure agevolato sul piano procedurale con l’inserimento nella categoria della ristrutturazione edilizia – costituisce comunque un novum, sulla base della distinzione tra volume esistente (demo-ricostruzione) e volume virtuale (edificio crollato e demolito).
Il ragionamento del Consiglio di Stato sulla opponibilità delle previsioni di piano o di vincolo sopravvenute non può non rilevare, per ragioni di coerenza, anche in merito alle distanze: venendo sostanzialmente in rilievo una nuova costruzione, e dunque un novum, a prescindere dal fatto che il progettato ripristino sia fedele o meno, non possono non trovare applicazione le distanze prescritte al momento della ricostruzione.
Né, in senso contrario, potrebbe sostenersi l’applicabilità al ripristino dell’art. 2-bis, co. 1-ter t.u. edilizia, in quanto norma eccezionale e derogatoria e dunque non suscettibile di applicazione analogica.
Il testo originario[55] dell’art. 2-bis, co. 1-ter t.u. edilizia, introdotto dal d.l. 18 aprile 2019 n. 32 (decreto sblocca cantieri), convertito in l. 14 giugno 2019 n. 55 confermava il principio generale dell’applicabilità a tutto ciò che identifica un novum delle distanze prescritte al momento dell’intervento di ristrutturazione. Disponeva, infatti, che “in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest'ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell'altezza massima di quest'ultimo”. Si trattava della positivizzazione del principio elaborato dalla giurisprudenza[56] per il quale la demo-ricostruzione di un edificio se effettuata con coincidenza di area di sedime e di sagoma si sarebbe sottratto al rispetto delle norme sulle distanze prescritte per le nuove costruzioni, mentre se effettuata senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime avrebbe rappresentato, quanto a collocazione fisica, un novum, soggetto come tale al rispetto (“indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione”) delle norme sulle distanze[57]. L’art. 9 n. 2 d.m. n. 1444/1968 riguarda, infatti, i “nuovi edifici” e non già gli edifici preesistenti[58].
Nuovamente rincorrendo esigenze manifestatesi nella pratica, il già citato decreto semplificazioni nel 2020 ha poi modificato la disposizione poiché le condizioni poste risultavano eccessivamente limitanti riducendo nei tessuti urbani consolidati le possibilità di operare significativi interventi di rigenerazione (come trasformazioni planivolumetriche necessarie per cambi di destinazione d’uso o per migliorare caratteristiche architettoniche o per usufruire di premialità volumetriche incentivanti nella ricostruzione). Il legislatore ha quindi introdotto una norma eccezionale e derogatoria rispetto al ricordato principio generale, riscrivendo il citato co. 1-ter che attualmente recita: “In ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici […] la ricostruzione è comunque consentita nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti” (senza più imporre la condizione della coincidenza di sedime, volume e altezza)[59].
Nel caso del ripristino (che, come illustrato, ha ad oggetto un volume virtuale) l’art. 2-bis, co. 1-ter, in quanto norma eccezionale ed espressamente riferita alla sola demo-ricostruzione, non può trovare applicazione e torna a vigere il principio generale che in riferimento a un novum – identificabile nella specie perché la volumetria si è estinta con la demolizione o il crollo, lasciando solo un potenziale edificatorio in termini di volume virtuale – considera opponibili le sopravvenienze[60].
Tale soluzione – nella consapevolezza che risulta probabilmente di eccessivo rigore qualora il ripristino sia fedele e contribuisca a riqualificare un’area su cui permangono tracce visibili (possibili fonti di degrado, di pericolo e di non uso di un suolo già trasformato) – consegue, in assenza di diverse specifiche indicazioni del legislatore, dalla natura sostanziale del ripristino quale nuova costruzione.
Tornando alla sentenza del Consiglio di Stato n. 616/2023, non altrettanto condivisibile è il secondo principio affermato: ricordato che le previsioni dell’art. 30 del decreto del fare trovano applicazione, come stabilito al co. 6 della medesima disposizione, “dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, il giudice interpreta l’irretroattività non solo nel senso che l’intervento di ripristino è ristrutturazione a partire da tale data, ma riferendola anche al momento di integrazione dei fatti presupposti dell’intervento: la nuova fattispecie di ristrutturazione edilizia troverebbe allora applicazione “se ed in quanto i fatti presupposti si siano inverati, tutti, nel vigore delle nuove disposizioni”, conducendo il giudicante alla conclusione che solo in relazione a edifici crollati o demoliti in epoca successiva all’entrata in vigore della l. n. 98/2013, di conversione del d.l. n. 69/2013, è possibile assentirne la ricostruzione (non contestuale) come ristrutturazione edilizia[61].
Sennonché, limitare l’applicazione della novella alle ipotesi in cui il crollo o la demolizione siano successivi al 21 agosto 2013 significa circoscriverne l’ambito oggettivo oltre che drasticamente anche irragionevolmente alla luce della ratio dell’integrazione operata nel 2013 “da individuare […] nel recupero al territorio e alla vita sociale di edifici, oggi diroccati, che non svolgono alcuna funzione se non quella negativa di danno al paesaggio ed alla sicurezza pubblica in considerazione, tra l’altro, dello stato precario in cui insistono e dell’assenza di manutenzione; ciò determina il recupero del suolo ed il risparmio del medesimo ma anche una maggiore percezione sociale di zone, anche disabitate e periferiche, ove questi edifici insistono”[62].
Il co. 6 dell’art. 30 del decreto del fare si limita, in realtà, a ribadire il principio generale per cui, a fronte dei plurimi interventi modificativi e integrativi delle disposizioni del t.u. edilizia, per verificare la rispondenza del concreto intervento edilizio al tipo normativo occorre di volta in volta individuare la norma vigente al momento del conseguimento del titolo edilizio[63].
5. Considerazioni conclusive.
I ripetuti interventi del legislatore di revisione della disciplina edilizia sottendono un intento non solo semplificatorio, con auspicati effetti favorevoli sugli investimenti, ma anche di maggiore sostenibilità ambientale, in collegamento con gli obiettivi di riduzione del consumo di suolo e di efficientamento energetico[64]. Sotto il primo profilo, è sufficiente ricordare che l’Agenda 2030 richiede un allineamento del consumo di suolo alla crescita demografica entro il 2030 (indicatore s.d.g. 11.3.1) e che l’Unione europea, a partire dalla comunicazione della Commissione del 2011 “Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse” ha posto agli Stati membri l’obiettivo di giungere nel 2050 a un saldo netto pari a zero del consumo di suolo (con applicazione del principio del “riciclo” anche al territorio e alla pianificazione territoriale ed urbanistica, poi tradottosi in una “gerarchia del consumo di suolo” da recepire nei piani comunali, indicata dalla Strategia europea del suolo per il 2030 approvata dalla Commissione europea il 17 novembre 2021). Sul piano della disciplina urbanistica, la rilevanza delle politiche del riuso e della rigenerazione urbana[65] dovrebbe condurre a stabilire che gli strumenti comunali di governo del territorio possano prevedere consumo di suolo esclusivamente nei casi in cui sia dimostrata l’impossibilità di riqualificare e rigenerare aree già edificate, mediante il riuso o la sostituzione di edilizia esistente inutilizzata o il recupero di aree dismesse.
Sotto il secondo profilo, è sufficiente ricordare la strategia di ristrutturazione del parco nazionale di edifici residenziali e non residenziali, sia pubblici che privati, che l’art. 3-bis d.lgs. 192/2005 prevede – in recepimento di direttive europee – al fine di ottenere un patrimonio immobiliare decarbonizzato e ad alta efficienza energetica entro il 2050, facilitando la trasformazione degli edifici esistenti in edifici a energia quasi zero.
Le novità recate al t.u. edilizia con una sequenza quasi alluvionale di novelle sono senz’altro apprezzabili quanto a obiettivi sottesi, ma risultano, come le sentenze commentate dimostrano, fonte di problemi interpretativi, teorici e applicativi, e di conseguente incertezza per gli operatori e gli amministratori e, quindi, contenzioso. Il che ridonda sul grado di effettività delle stesse.
Le fattispecie oggetto delle recenti sentenze della Cassazione e del Consiglio di Stato evidenziano la necessità di una rivisitazione normativa delle definizioni degli interventi edilizi che torni a categorie generali e alla summa divisio tra interventi conservativi, trasformativi e di nuova costruzione, rifuggendo da un’eccessiva analiticità e fornendo, piuttosto, chiarezza sulla ratio identificativa e distintiva delle diverse categorie, sì che possa tale ratio orientare secondo ragionevolezza l’interprete e i professionisti dinanzi agli innumerevoli casi pratici. Come condivisibilmente rilevato dalla dottrina, l’eccessiva minuziosità delle definizioni non elimina quell’incertezza applicativa, generata dalla casistica, che è la causa stessa delle ripetute modifiche legislative, non raramente avendo anzi contribuito ad accrescere la divergenza delle interpretazioni[66].
L’incertezza delle definizioni si traduce in incertezza sui titoli abilitativi necessari e sul regime giuridico dell’intervento, esito aggravato dall’orientamento giurisprudenziale che qualifica come privo di titolo l’intervento realizzato o intrapreso sulla base di un titolo inidoneo (come una s.c.i.a. in luogo dell’istanza di permesso di costruire)[67].
Le pronunce commentate appaiono allora utili, nei termini illustrati, a ribadire, bloccando eccessive fughe in avanti incoerenti con gli stessi obiettivi di sostenibilità ambientale citati, che la demo-ricostruzione – in qualunque modalità essa si estrinsechi – non è attività costruttiva del “nuovo”, ma è relativa al recupero estetico e funzionale dell’“esistente”, come tale non fonte di ulteriore compromissione del territorio e di incremento del carico antropico, e a chiarire che il ripristino di un volume non più esistente identifica, nella sostanza, una “nuova costruzione” inserita in via eccezionale nella categoria di intervento minore a meri fini di semplificazione procedimentale e di consentire l’accesso a incentivi.
[1] Sulla ristrutturazione edilizia, tra i molti contributi, senza pretesa di esaustività: S. Antoniazzi, G. Leone, G. Maione, A. Parisi, Art. 3, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, 2015, 69 ss.; E. Mitzman, Art. 3, in S. Battini, L. Casini, G. Vesperini, C. Vitale (a cura di), Codice ipertestuale dell’edilizia e dell’urbanistica, Torino, 2013, 1096 ss..; C.P. Santacroce, Gli interventi di ristrutturazione edilizia (artt. 3 e 10 TUED), in Riv. giur. urb., 2014, 478; P. Tanda, La nuova disciplina dei titoli abilitativi in materia urbanistica: in particolare, gli interventi di ristrutturazione edilizia anche alla luce della l. 21 giugno 2017 n. 96, in Riv. giur. edil., 2017, 335; A. Calegari, L’evoluzione del concetto di ristrutturazione edilizia, tra esigenze di conservazione e volontà di promuovere la rigenerazione urbana, in Riv. giur. urb., 2022, 221.
[2] Sulla valenza trasversale rispetto all’intero impianto del corpus normativo rivestita dalla codificazione degli interventi edilizi, condizionando essa l’applicazione e l’interpretazione delle disposizioni in tema di titoli abilitativi, di contributo di costruzione e di regime sanzionatorio, tra i molti contributi: S. Antoniazzi, G. Leone, G. Maione, A. Parisi, Art. 3, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, 2015, 42; M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. giur. edil., 2022, 171.
[3] In argomento A. Calegari, L’evoluzione del concetto di ristrutturazione edilizia, cit., 222.
[4] Cons. Stato, Sez. V, 3 aprile 2000, n. 1906; Id., Sez. IV, 9 luglio 2010, n. 4462; Id., 5 ottobre 2010 n. 7310; Id., Sez. II, 18 maggio 2020, n. 3153.
[5] In argomento D. Foderini, La ristrutturazione edilizia mediante l'integrale demolizione e ricostruzione delle opere, in Riv. giur. edil., 2000, 65.
[6] D. Foderini, La ristrutturazione edilizia, cit..
[7] Cons. Stato, Sez. V, 3 aprile 2000, n. 1906, cit.; Id., Sez. IV, 28 luglio 2005, n. 4011.
[8] Cons. Stato, Sez. IV, 28 luglio 2005, n. 4011, cit..
[9] Circolare Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 7 agosto 2003 n. 4174, Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, come modificato e integrato dal decreto legislativo 27 dicembre 2002, n. 301. Chiarimenti interpretativi in ordine alla inclusione dell’intervento di demolizione e ricostruzione nella categoria della ristrutturazione edilizia.
[10] Ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 1847: la ristrutturazione edilizia “si distingue dalla nuova costruzione perché mentre quest’ultima presuppone una trasformazione del territorio, la ristrutturazione è invece caratterizzata dalla preesistenza di un manufatto, in quanto tale trasformazione vi è in precedenza già stata”.
[11] Cons. Stato, Sez. VI, 7 maggio 2015, n. 2294; Id., Sez. II, 18 maggio 2020, n. 3153.
[12] In argomento S. Antoniazzi, Ristrutturazione edilizia ed interventi di demolizione e ricostruzione dell'edificio preesistente: alcuni spunti di riflessione sulle caratteristiche essenziali, in Riv. giur. edil., 2005, 127.
[13] In argomento P. Urbani, La ristrutturazione edilizia leggera nel “decreto del fare”, in Urb. app., 2014, 631 ss.; A. Di Leo, Questioni pratiche (edilizie ed urbanistiche) relative alla ricostruzione di edifici, in tutto o in parte, crollati, in L’Ufficio tecnico, 2018, 3, 62 ss..
[14] Cons. Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2016, n. 5106.
[15] Cons. Stato, Sez. VI, 3 ottobre 2019, n. 6654.
[16] Cass. pen., Sez. III, 9 luglio 2018, n. 39340 e giurisprudenza ivi richiamata in senso adesivo; Id., 30 settembre 2014, n. 40342; Id., 23 gennaio 2007, n. 15054; Cons. Stato, Sez. V, 10 marzo 1997, n. 240; Id., Sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 735.
[17] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2016, n. 5106, cit., e i precedenti citati.
[18] Cfr. la nota Regione Lazio, Direzione regionale territorio, urbanistica, mobilità e rifiuti del 21 maggio 2015 n. 278103 ad oggetto Richiesta di parere in merito all'intervento di ripristino di un edificio alla luce delle modifiche apportate all'art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. 380/2001 da parte del d.l. 69/2013, come convertito dalla legge 98/2013, al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, cui ha fatto seguito la Nota del Ministero 24 dicembre 2015 n. 10911 e il parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, adunanza del 18 febbraio 2016, n. 3/2016, reperibili nel sito della Regione Lazio: “sembra quindi sancito il passaggio dalla preesistenza e consistenza comprovabile esclusivamente dall’esistenza materiale a quella comprovata a mezzo di fonti documentali in cui sia dimostrata preesistenza e consistenza dell'organismo edilizio, benché non più fisicamente individuabile nella sua volumetria, in base a documentazione dalla quale possano essere accertati con certezza i parametri edilizi essenziali”.
[19] In argomento, in relazione a quanto trattato infra nel testo, la giurisprudenza ha inteso l’uso del termine “vincoli” come riferito anche all’ipotesi in cui “il vincolo paesaggistico riguarda una zona e non un singolo immobile”: Cass. pen., Sez. III, 8 marzo 2016, n. 33043; così anche T.A.R. Sardegna, Sez. II, 5 dicembre 2017, n. 772 dove si legge: “vista la genericità della previsione, non possono operarsi distinzioni a seconda della fonte della natura del vincolo; ne consegue che [la previsione] si applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità non già assoluta ma solo relativa”.
[20] Il mancato riferimento all’identità di sagoma conduce a escludere anche l’esigenza che sia conservata un’identica area di sedime: T.A.R. Abruzzo, Pescara, 9 luglio 2015, n. 294 (n.a.); T.A.R. Piemonte, Sez. II, 15 novembre 2016, n. 1410 (in tale parte non riformata da Cons. Stato, Sez. IV, 12 ottobre 2017, n. 4728). Sulle modifiche recate dal decreto del fare, con particolare riferimento alla lettura combinata degli artt. 3 e 10 t.u. edilizia e alla conseguente individuazione del titolo edilizio necessario A. Calegari, Il permesso di costruire ordinario e convenzionato, cit., 500.
[21] TAR Lazio, Latina, Sez. I, 27 maggio 2022, n. 505.
[22] C.P. Santacroce, Gli interventi di ristrutturazione edilizia (artt. 3 e 10 TUED), cit., 489; E. Boscolo, Le novità in materia urbanistico-edilizia introdotte dall’art. 17 del decreto “Sblocca Italia”, in Urb. e app., 2015, 28.
[23] In argomento cfr. la Circolare congiunta del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero della funzione pubblica 2 dicembre 2020, avente ad oggetto Articolo 10 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120. Chiarimenti interpretativi.
[24] Circolare congiunta del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero della funzione pubblica 2 dicembre 2020, cit..
[25] Cfr. A. Calegari, L’evoluzione del concetto di ristrutturazione edilizia, tra esigenze di conservazione e volontà di promuovere la rigenerazione urbana, in Riv. giur. urb., 2022, 239 rileva che ci potrebbero comunque essere ostacoli di natura amministrativa o civile alla ricostruzione “dove era” e “come era”, come “ad esempio, il divieto di ricostruzione stabilito dagli artt. 16, 17 e 18 del Codice della strada (approvato con d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285), i quali operano in modo assoluto per qualunque forma di ricostruzione, indipendentemente dal fatto che la stessa possa essere qualificata come ristrutturazione edilizia o come nuova costruzione”; aggiunge che “la possibilità di qualificare qualunque forma di ricostruzione come ristrutturazione edilizia ha innanzi tutto una valenza classificatoria, che può avere importanti ripercussioni sul piano giuridico amministrativo, ma che non garantisce necessariamente l’ammissibilità dell’intervento sul piano urbanistico”; se è vero che le definizioni recate dall’art. 3 t.u. edilizia prevalgono su quelle regionali e locali, “sarà sempre possibile demolire e ricostruire tutte le volte in cui il piano ammetta la ristrutturazione. Ma il piano rimane comunque libero di stabilire che in certe zone o per certi edifici la demolizione e ricostruzione non sia possibile, allorquando le caratteristiche degli stessi impongano di mantenerne gli elementi costruttivi originali. In altre parole, la valenza dell’art. 3 è solo edilizia, non anche urbanistica. E la prova più evidente di ciò è data proprio dal già ricordato art. 3-bis, nella misura in cui esso assicura sempre la ristrutturazione conservativa, ma non fa altrettanto per la ristrutturazione ricostruttiva”.
[26] Così T.A.R. Campania, Sez. II, 10 gennaio 2022, n. 171.
[27] Si v., ad esempio, la nota Regione Liguria prot. 92712 del 13 marzo 2021, cui ha fatto seguito la richiesta da parte del Comune di Genova (nota 6 maggio 2021 prot. n. 164506) di parere al Ministero della cultura. L’ufficio legislativo del Ministero della cultura, con parere prot. 31477 del 21 settembre 2021, allegato alla circolare della Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio n. 38/2021, ha fornito della disposizione un’interpretazione rigorosa e conforme al tenore letterale. La diversa interpretazione era favorevole a circoscrivere il maggiore rigore agli interventi su immobili dotati di un intrinseco pregio, lasciando fuori quelli su immobili tutelati solo in quanto compresi in ambiti vincolati nel loro complesso.
[28] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 28 marzo 2022, n. 3486.
[29] La semplificazione non opera però sul piano procedurale, posto che l’art. 10 t.u. edilizia è stato contestualmente integrato nell’elenco delle fattispecie di ristrutturazione edilizia pesante con la previsione della necessità del permesso di costruire per gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino la demolizione e ricostruzione di edifici situati in aree tutelate ai sensi degli artt. 136, co. 1, lett. c) e d), e 142 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, o il ripristino di edifici, crollati o demoliti, situati nelle medesime aree, in entrambi i casi ove siano previste modifiche della sagoma o dei prospetti o del sedime o delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente oppure siano previsti incrementi di volumetria.
[30] In tale senso la giurisprudenza amministrativa evidenzia che “la ristrutturazione edilizia, quale intervento sul preesistente, non può fare a meno di una certa continuità con l’edificato pregresso”: T.A.R. Veneto Sez. II, 2 maggio 2022, n. 660, relativa a una fattispecie in cui un complessivo intervento analogo a quello oggetto della decisione della Cassazione è stato qualificato come “ristrutturazione urbanistica”; T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna Sez. II, 16 febbraio 2022, n. 183; Cons. Stato, Sez. II, 6 marzo 2020, n. 1641.
[31] In termini Cass. pen., Sez. III, 29 luglio 2020, n. 23010, ancorché rispetto a un quadro normativo non inclusivo ancora del citato d.l. n. 76/2020, ha ravvisato gli estremi della lottizzazione abusiva in una fattispecie analoga a quella decisa nella sentenza in commento, in cui l’intervento realizzato era consistito nella demolizione di diversi corpi di fabbrica (un fabbricato principale e tre ruderi annessi agricoli) e nella edificazione, al loro posto, di un unico immobile mediante accorpamento delle volumetrie espresse da quelli precedenti.
[32] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16 dicembre 2008, n. 6214: la trasformazione di due manufatti agricoli in villa a uso residenziale, con accorpamento di volumi e parziale spostamento dell’area di sedime, esula dalla nozione di ristrutturazione. Si tratta di decisione formulata in un quadro giuridico più restrittivo rispetto a quello vigente a seguito della novella del 2020, ma utile laddove ribadisce la ratio della disciplina della ristrutturazione e la necessaria correlazione tra edificio demolito e quello ricostruito: “ciò che distingue […] gli interventi di tipo manutentivo e conservativo da quelli di ristrutturazione è, indubbiamente, il carattere innovativo di quest’ultima in ordine all’edificio preesistente; ciò che contraddistingue, però, la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un “insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita”. Analogamente Cass. pen., Sez. III, 29 luglio 2020, n. 23010.
[33] Cons. Stato, Sez. II, 20 dicembre 2019, n. 8634.
[34] Alcune di queste questioni vennero sottoposte già all’indomani della novella introdotta dal decreto del fare dalla Regione Lazio nella richiesta di parere 21 maggio 2015 n. 278103 al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, già citata.
[35] Cons. Stato, Sez. IV, 27 settembre 2017, n. 4516.
[36] T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 18 dicembre 2020, n. 530; Cons. Stato, Sez. IV, 19 marzo 2018, n. 1725; Id., Sez. V, 15 marzo 2016, n. 1025.
[37] In argomento C.P. Santacroce, Gli interventi di ristrutturazione edilizia, cit., 498.
[38] Cass. pen., Sez. III, 9 luglio 2018, n. 39340 e giurisprudenza ivi richiamata in senso adesivo.
[39] Cons. Stato, Sez. IV, 17 febbraio 2023, n. 1681.
[40] Cfr. T.A.R. Toscana, Sez. I, 16 maggio 2017, n. 692, che ha escluso la prova della consistenza della preesistenza in un caso in cui “l’unica possibile testimonianza della sua esistenza fisica” era “una ripresa fotografica aerea risalente al 1956 (di cui non si conosce la scala) dalla quale, però, non è dato evincere altro che la probabile pianta dell’edificio”.
[41] Cass. pen., Sez. III, 9 luglio 2018, n. 39340, cit. (“l’accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d) non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza”); Id., 8 ottobre 2015, n. 45147.
[42] Cons. Stato, Sez. IV, 27 settembre 2017, n. 4516.
[43] Cons. Stato, Sez. IV, 27 settembre 2017, n. 4516: “Ciò non significa che incombe sulla pubblica amministrazione l’onere di comprovare detta consistenza (ponendosi tale onere, come è evidente, a carico dell’istante), ma, al tempo stesso, non risulta coerente con la tutela delle facultates agendi del proprietario e con le disposizioni in tema di ristrutturazione edilizia (art. 3, lett. c), DPR n. 380/2001), il diniego di una istanza volta ad ottenere il permesso di costruire per ristrutturazione edilizia attesa la “impossibilità” di definire la preesistente consistenza del manufatto. E ciò in presenza, come nel caso di specie, di riscontro dell’esistenza del fabbricato in catasto, di atti di compravendita del medesimo e di una pluralità di rilievi fotografici, che possono condurre, anche in via deduttiva, a stabilire la più volte citata consistenza (anche in misura inferiore, ma comprovabile, rispetto a quanto assunto dagli interessati, ovvero optando, in presenza di più risultati possibili, motivatamente per quello più restrittivo). Nel caso di specie, dunque, a fronte della documentazione prodotta dagli interessati […], non può condividersi la sentenza impugnata, laddove essa assume un difetto di allegazione probatoria, anche in giudizio, da parte dei ricorrenti. Al contrario, deve concludersi per la sussistenza del vizio di difetto di istruttoria nel quale è incorsa l’amministrazione e che rende illegittimo il diniego del permesso di costruire”.
[44] Su cui M. Sollini, L’accertamento documentale dello stato legittimo dell’immobile, quale presupposto indefettibile di identificazione della sua destinazione d’uso giuridicamente rilevante, in Riv. giur. urb., 2022, 268 ss..
[45] Così T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. III, 26 maggio 2020, n. 631.
[46] T.A.R. Veneto, Sez. II, 28 febbraio 2023, n. 278, relativa a una fattispecie in cui, al momento della presentazione dell’istanza di permesso di costruire, il capannone – oggetto del progettato intervento di ripristino – era già stato interamente demolito (previa presentazione di una s.c.i.a. da parte del precedente proprietario); T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. III, 6 settembre 2021, n. 1151; Id., 28 dicembre 2020, n. 1737, relativa a una fattispecie in cui si chiedeva di ripristinare un immobile demolito a seguito di un evento franoso (immobile, tra l’altro, già ricostruito in assenza di titolo in altra sede con conseguente – eseguito – ordine di demolizione) e in cui il T.A.R. ha rilevato che per effetto della intervenuta demolizione “è certamente venuto meno l’impegno di suolo ascrivibile al bene e la connessa trasformazione del territorio”; Id., 26 maggio 2020, n. 631; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 7 novembre 2017, n. 5234.
[47] T.A.R. Veneto, Sez. II, 28 febbraio 2023, n. 278.
[48] T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 18 gennaio 2023, n. 79; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 2 agosto 2021, n. 1875.
[49] T.A.R. Campania, Sez. II, 10 gennaio 2022, n. 171.
[50] In termini non dissimili, seppure non altrettanto ampiamente argomentati, Cons. Stato, Sez. IV, 25 gennaio 2023, n. 847: “l’attuale concetto normativo di ristrutturazione edilizia contenuto nel testo unico dell’edilizia, che in precedenza postulava la preesistenza di un organismo dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, consente oggi di porre in essere interventi di ristrutturazione edilizia anche sui ruderi, a condizione che il proprietario sia in grado di dimostrarne la consistenza originaria. Ciò tuttavia non implica che gli stessi ruderi siano suscettibili di ricostruzione a prescindere dalle previsioni della disciplina urbanistica di zona, né può ritenersi venuta meno la potestà del pianificatore comunale di operare scelte che, alla luce del peculiare contesto territoriale dell'area di protezione, escludono interventi volti al ricupero di strutture edilizie ormai non più riconoscibili”.
[51] La pianificazione urbanistica dovrebbe quindi tenere in adeguata considerazione le cubature virtuali in sede di ricognizione dell’esistente e in sede di disciplina integrativa degli interventi di ricostruzione. In argomento, però, cfr. T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 21 marzo 2022, n. 278 che giudica illegittima la prescrizione contenuta nel regolamento urbanistico edilizio comunale della prova della insistenza dell’edificio nella Carta tecnica comunale usata come base di riferimento del piano strutturale comunale, sul rilievo che l’art. 3 del t.u. edilizia si limita a richiedere la dimostrazione della preesistente consistenza “che può essere fornita con qualunque mezzo idoneo e utile”.
[52] T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 2 agosto 2021, n. 1875, cit. In argomento B. Graziosi, Appunti sulla demolizione edilizia “abdicativa”, in Urb. e app., 2015, 1122, che nel trattare il tema del patrimonio edilizio marginale, insuscettibile di qualsiasi utilizzazione, e per il quale il proprietario può optare per la demolizione, rileva (nota 3) che “La demolizione “mera” che conserva la proprietà dell’area scoperta non comporta, evidentemente, perdita dello ius aedificandi laddove questo sia riconosciuto dalle norme urbanistiche vigenti […]. Ne deriva che se - e quando - lo strumento vigente consentisse, nell’ambito urbanistico relativo, la ristrutturazione, l’edificio legittimamente demolito potrebbe “ricomparire” […]. Demolizione cui consegue volumetria “a credito”.
[53] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 7 novembre 2017, n. 5234 (che risulta appellata) sulla possibilità di qualificare come ristrutturazione edilizia un intervento caratterizzato dall'assenza fisica e materiale di ogni traccia del fabbricato preesistente, demolito per l’instabilità statica conseguente al sisma degli anni ’80, e la cui area di insistenza è stata sottoposta a trasformazione edilizia e urbanistica in quanto destinata a parcheggio all'aperto con pavimentazione regolarmente assentita: “L’area […] un tempo (quasi quarant’anni or sono) occupata dal fabbricato, è stata sottoposta ad una trasformazione rilevante sul piano urbanistico ed edilizio che ha reciso ogni rapporto di continuità con la preesistenza e ciò preclude la stessa configurabilità di un intervento di “ristrutturazione” in quanto, sia la presenza di una qualche traccia materiale della preesistenza sia la continuità (valutati congiuntamente o anche solo disgiuntamente) costituiscono il nucleo imprescindibile degli interventi di ricostruzione”; “Ogni opzione interpretativa di segno diverso determinerebbe un pregiudizio grave all’ordinato sviluppo del territorio ed alla tutela del relativo assetto, travalicando ogni limite di ragionevolezza ed esigibilità la pretesa di una considerazione di simili fattispecie (consistenze e cubature – che hanno perduto i caratteri dell’entità urbanistica ed edilizia – non solo radicalmente inesistenti ma “abbandonate” dagli interessati che hanno impresso una diversa destinazione al terreno) nell’attività di pianificazione, con evidenti implicazioni anche sul piano della legittimità costituzionale”.
[54] In senso analogo, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, in un parere del 2016 (citato nella nota 18), ha precisato che la ricostruzione non può che avvenire nel rispetto dei vincoli normativi o pianificatori vigenti: quindi, dei vincoli apposti sull’area interessata dalle normative urbanistiche ed edilizie locali (n.t.a. di strumenti urbanistici comunali e sovracomunali, regolamenti edilizi) e dei vincoli introdotti da strumenti pianificatori di settore (ambientali, idraulici, idrogeologici, paesaggistici ecc.), delle fasce di rispetto, ecc..
[55] Su cui si v. Cons. Stato, Sez. IV, 16 ottobre 2020, n. 6282.
[56] Cons. Stato, Sez. IV, 12 ottobre 2017, n. 4728; Id., 14 settembre 2017, n. 4337; Cass. pen., Sez. III, 6 dicembre 2018, n. 11505.
[57] N. Millefiori, Il dibattito sulla sentenza 70/2020 della Corte Costituzionale, in Pausania.it, 9 giugno 2020.
[58] Cons. Stato, Sez. IV, 14 settembre 2017, n. 4337; Id., 9 luglio 2010, n. 4462.
[59] Sul co. 1-ter dell’art. 2-bis t.u. edilizia e, in particolare, sulle ragioni sottese alla introduzione e successiva modificazione, si v. A. Giusti, Deroghe agli standard e volumetrie premiali nella disciplina dell’art. 2-bis del Testo unico dell’edilizia, in Riv. giur. urb., 2022, 263 ss.; A. Calegari, L’evoluzione del concetto di ristrutturazione edilizia, cit., 242.
[60] La distinzione tra demo-ricostruzione e ripristino non è quindi destinata a essere superata in quanto, tra gli altri profili rilevanti, l'art. 2-bis, co. 1-ter, t.u. edilizia si riferisce solo alla prima. Per T.A.R. Campania, Sez. II, 10 gennaio 2022, n. 171, “l’indirizzo tradizionale, secondo cui per aversi ristrutturazione edilizia sarebbe comunque necessaria la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle componenti essenziali - murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura - idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza (così da determinare lo scorrimento nella diversa categoria delle “nuove costruzioni” degli interventi di ricostruzione di “ruderi”, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell'edificio), sembra destinato al superamento, alla luce della inequivocabile equiparazione normativa tra “demolizione e ricostruzione” e “ripristino di edifici crollati e demoliti”, ovviamente purché anche di questi sia rinvenibile traccia ed accertabile l’originaria consistenza con un'indagine tecnica”.
[61] In senso contrario, non attribuisce rilievo all’epoca a cui risalga il crollo o la demolizione della preesistenza, ex multis: T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 6 luglio 2020, n. 517 (non appellata): “Il vincolo della intellegibilità delle caratteristiche del fabbricato demolito non include […] alcun limite in relazione alla maggiore o minore risalenza nel tempo dell’intervento di demolizione”; il caso deciso riguarda un intervento di ricostruzione di un edificio demolito negli anni ‘50 “la cui consistenza è evincibile sia dallo stato dei luoghi (conformazione della corte e segni presenti sulla muratura del fabbricato adiacente) sia dalle mappe del cessato catasto fabbricati, dal N.C.U.E. vigente e dalle schede catastali risalenti all’anno 1994. Da tali elementi è possibile rilevare la consistenza planimetrica del fabbricato originario”; “La documentazione fotografica storica […] è invece idonea ad attestarne la consistenza volumetrica e le caratteristiche costruttive”. Risulta quindi accertata la consistenza della preesistenza e il T.A.R. rileva che: “La qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione scatta […] ove sia impossibile l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura), attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, circostanza che qui non si verifica. Il fabbricato previsto ha infatti una sagoma, un ingombro ed un impatto che risultano nella sostanza del tutto coincidenti con la situazione pregressa”. Nel medesimo senso T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 2 agosto 2021, n. 1875, che, con riferimento a un edificio demolito nel 2007 e quindi prima dell’entrata in vigore della norma, afferma: “Ciò che rileva ai fini dell’applicabilità della normativa di cui al d.l. n. 69/2013 è l’epoca di svolgimento del procedimento amministrativo di formazione del titolo abilitativo e non il momento in cui è avvenuto il crollo o la demolizione dell’edificio oggetto di ricostruzione”
[62] Cons. Stato, Sez. IV, 17 gennaio 2023, n. 541.
[63] Il principio è affermato, ad esempio, in Cons. Stato, Sez. IV, 12 ottobre 2017, n. 4728.
[64] In argomento E. Boscolo, Le novità in materia urbanistico-edilizia introdotte dall’art. 17 del decreto “Sblocca Italia”, cit., 26 ss..
[65] Sulla rigenerazione urbana cfr., in particolare, A. Giusti, La rigenerazione urbana tra consolidamento dei paradigmi e nuove contingenze, in Dir. amm., 2021, 439; Id., La rigenerazione urbana. Temi, questioni e approcci nell’urbanistica di nuova generazione, Napoli, 2018; G. Guzzardo, La rigenerazione urbana, in P. Stella Richter (a cura di), Verso leggi regionali di quarta generazione, Milano, 2019, 179.
[66] G. Pagliari, Le recenti novelle relative alla definizione degli interventi sul patrimonio edilizio esistente, in Riv. giur. urb., 2022, 203: “sembra auspicabile che ci si fermi al “genus” e non si introducano le “species”: prospettiva non certo immediata, perché inscindibilmente connessa ad una revisione della impostazione della legislazione in materia urbanistico-edilizia, che soffre in maniera evidentissima di un’esasperata ed esasperante analiticità, sempre più inattuale e causa di ineffettività delle normative stesse”.
[67] Tra le più recenti T.A.R. Lombardia, Sez. II, 9 gennaio 2023, n. 120. In dottrina M.A. Sandulli, Edilizia, cit.; Id., Il regime dei titoli abilitativi edilizi tra semplificazione e contraddizioni, in Riv. giur. ed., 2013, 301.
*Il contributo si inserisce nell’approfondimento del tema Carcere e detenzione. Precedenti contributi: Carcere e suicidi. Chacun de nous est concerné di Vincenzo Semeraro, Il 41 bis ‘oltre i pizzini’: riflessioni sulla sentenza della Cassazione nel caso Cospito di Angela Della Bella - Il regime differenziato dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, ontologia, problemi, prospettive (prima parte) di Carlo Renoldi - Il regime differenziato dell’art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, ontologia, problemi, prospettive (seconda parte) di Carlo Renoldi - Intervista di Giuseppe Amara a Gabriella Stramaccioni, già Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale - Il carcere visto da chi lo dirige di Carlo Berdini e Nicoletta Siliberti, sotto la voce della rivista Giustizia e pene.
Nel suo celebre saggio Stefano Rodotà descrive la proprietà privata come “Il terribile diritto” perché idoneo ad escludere chiunque altro dal rapporto con una cosa, ma non è difficile immaginare come possa essere ben più “terribile” il diritto penale e della procedura penale in quanto in grado di escludere una persona dai suoi affetti, dal suo lavoro, dalla sua vita.
All’interno del perimetro delle situazioni di cui si occupa l’avvocato penalista, l’incontro con le realtà detentive merita una riflessione peculiare.
Gianrico Carofiglio - scrittore, politico, ma anche ex magistrato di sorveglianza - descrive in maniera nitida e coinvolgente lo stato d’animo che lo pervase allorquando si trovò a dover decidere della sorte dei soggetti detenuti, raccontando la tensione che lo pervase, volta a cercare di restituire la libertà ad un numero di persone maggiore possibile.
Nonostante la dimensione carceraria non sia adeguatamente percepita dai non addetti ai lavori, il carcere resta, a buon ragione, un luogo terrificante nell’immaginario collettivo, tant’è che quando parlando al telefono con parenti o amici mi capita di dire “scusa ti richiamo, sto entrando in carcere” mi pare di cogliere un attimo di panico nel tono dell’interlocutore e cerco sempre di tranquillizzarlo immediatamente “tranquillo, tra un’ora dovrei essere fuori”.
Per ciò che attiene alla prospettiva dell’avvocato, quanto detto da Carofiglio è vero, ma non ancora sufficiente.
Il difensore rappresenta per il detenuto tante cose: il soggetto dal quale si attende una spiegazione sulle ragioni che hanno determinato la detenzione ed al quale si chiede di prevederne i tempi, i modi, i luoghi; la persona a cui raccontare le proprie ansie, paure, speranze, necessità; il primo contatto (a volte anche l’unico) con il mondo esterno; il mezzo attraverso il quale attivare i meccanismi della giustizia che possono portare alla fine della coazione inframuraria.
Esiste una differenza ontologica tra la custodia cautelare in carcere e la condizione del detenuto “definitivo”: nel primo caso l’arresto è stato naturalmente improvviso, spesso inaspettato, prevale il disorientamento e la necessità di sapere quanto durerà la privazione della libertà personale; nel secondo caso (salvo rare eccezioni) l’esecuzione della pena è stata prevista e se ne conosce l’entità, quanto meno formale.
In tutti i casi, però, il detenuto ha la “necessità” di vedere, o almeno sentire, il proprio difensore, quanto prima possibile dopo il suo ingresso in carcere. Ciò perché appunto, l’avvocato rappresenta “il braccio” o “la voce” attraverso il quale il soggetto in vinculis cerca di “lanciarsi” oltre i muri e le sbarre.
Mentre per il soggetto colpito dalla misura custodiale normalmente i primi temi da affrontare con il difensore riguardano la possibilità di sottoporsi ad interrogatorio di garanzia e la valutazione sul ricorso al Tribunale della Libertà, i condannati in via definitiva si concentrano, fin da subito, sulla tempistica necessaria ad ottenere benefici e/o misure alternative; anche nei casi in cui queste possibilità siano pacificamente lontane nel tempo, il ristretto sente il bisogno di avere un “piano” immediato per il suo futuro da recluso.
Temi comuni a tutti i detenuti sono quelli che riguardano le autorizzazioni per i colloqui familiari, telefonici e visivi, e l’allocazione all’interno delle diverse sezioni dei penitenziari.
Al di là delle prime attività tecniche, l’aspetto più delicato per il difensore è la necessità di trovare le parole esatte per rendere ‘sopportabile’ la condizione di detenzione e spiegare puntualmente le possibilità esistenti e i tempi necessari per riacquistare la libertà.
È straordinariamente difficile riuscire a dare speranza, senza creare false illusioni, prospettare percorsi illustrando le possibilità di un esito favorevole, pur sapendo che in quasi tutti i casi il “risultato” dipende da molte variabili, non prevedibili anticipatamente.
Le storie, personali e giudiziarie, dei detenuti sono tutte ovviamente differenti e, allo stesso tempo, tutte segnate da alcuni attimi, alcuni stati d’animo che, immancabilmente, vanno a marchiare i soggetti che varcano le soglie del carcere.
D’altronde gli stessi istituti di pena hanno caratteristiche strutturali replicate in maniera identica da Sassari a Voghera, da Saluzzo a Catania: in un paese dove gli Ospedali, le Scuole, i Tribunali sono diversi dal punto di vista estetico ed edilizio anche all’interno dello stesso Comune, le Case Circondariali sono sorprendentemente simili in tutta Italia.
In particolare, dal punto di vista del difensore, le sale adibite ai colloqui con gli avvocati hanno dimensioni e collocazioni molto simili, così come immutabile pare l’aria di tensione che si respira all’interno.
Il mio dominus una volta mi disse che ero stato fortunato ad iniziare la professione dopo il 2003, perché altrimenti avrei sperimentato l’impossibilità di non fumare in carcere durante i colloqui con i detenuti: quegli spazi erano inondati dal fumo delle sigarette consumate dai reclusi, dagli avvocati e dagli agenti della Polizia Penitenziaria.
D’altronde, paradossalmente, il consumo di tabacco in carcere è direttamente proporzionale alla mancanza di “aria”.
In generale si fuma per passare il tempo, per allentare le tensione, per noia…tre segmenti che nella reclusione di susseguono ininterrottamente per le 24 ore quotidiane.
Tornando al rapporto tra il difensore e l’assistito detenuto quasi naturalmente si crea un legame diverso da quello che “fuori” regola i rapporti tra il professionista e il cliente.
La fiducia, elemento imprescindibile nell’incarico professionale, deve essere in questo caso massima, perché non solo quell’avvocato è la persona alla quale il ristretto sta mettendo in mano le sue possibilità di tornare in libertà, ma anche il soggetto al quale inevitabilmente dovrà riferire aspetti personalissimi della sua esistenza, non solo i guai giudiziari, ma anche gli eventuali problemi di salute e gli aspetti della propria vita affettiva.
Il ruolo del difensore è quindi certamente prettamente giuridico, ma quasi mai può limitarsi a questo.
La cura delle dinamiche processuali difficilmente può essere percorsa tralasciando aspetti più intimi del soggetto che ha commesso, o comunque è stato accusato di aver commesso, un reato che ha determinato la sua carcerazione.
Volendo provare a passare rapidamente in rassegna gli istituti che il difensore si trova a dover maneggiare in fase esecutiva e le principali problematiche connesse a tali istituti, è necessario prendere le mosse dalle misure alternative alla detenzione.
L’affidamento in prova ai servizi sociali rappresenta la misura più “ampia” e quindi la più “desiderata” di chi si trova ristretto.
Il soggetto ammesso al beneficio deve interfacciassi con l’UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) e rispettare le indicazioni fornite dalla Magistratura di Sorveglianza con il provvedimento applicativo con il quale spesso vengono previsti dei limiti alla libertà di movimento sul territorio nazionale.
La casistica riscontrabile facilmente nelle aula di Giustizia vuole che un requisito quasi imprenscindibile, per ambire all’affidamento in prova, sia l’esistenza di una possibilità lavorativa.
Questa misura alternativa può essere concessa a chi debba espiare fino 4 anni di reclusione, anche come residuo di maggior pena (personalmente ho sempre trovato singolare il fatto che non si cerchi di riacquistare la libertà per poter, poi, lavorare, ma si debba andare alla ricerca di un lavoro per poter tornare liberi).
Invece, la detenzione domiciliare (equivalente degli arresti domiciliari in fase esecutiva) può essere concessa - salvo situazioni particolari legate allo stato di salute, all’età o altre condizioni personali del condannato - solo a chi abbia un residuo di pena inferiore a due anni.
Proprio il confronto tra i limiti edittali per la concessione delle diverse misure alternative alla detenzione dovrà, a parere di chi scrive, essere oggetto di una nuova valutazione “attualizzata” alla luce della Riforma c.d. Cartabia.
Invero, desta perplessità il fatto che la detenzione domiciliare (misura più restrittiva rispetto all’affidamento in prova) possa trovare applicazione, ancora oggi, solo per pene non superiori a due anni.
La novità con la quale è necessario confrontarsi è rappresentata dalle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, oggi previste dall’art. 20 bis c.p. che elenca: 1) semilibertà sostitutiva; 2) detenzione domiciliare sostitutiva; 3) lavoro di pubblica utilità sostitutivo; 4) pena pecuniaria sostitutiva.
Volendo semplificare oltremodo, si può dire che queste sanzioni consentono una anticipazione della pena governata dallo stesso giudice del merito. In tal modo vi è la possibilità di “scontare” il debito con la giustizia, attraverso misure diverse della detenzione carceraria, senza attendare i tempi della fase esecutiva.
Tuttavia, in questa fase, la detenzione domiciliare sostitutiva può essere concessa in caso di condanna fino 4 anni, così creando una disparità “per fase” rispetto al limite di 2 anni previsto dal comma 1 bis dell’art. 47 ter O.P.
La semilibertà, che attualmente trova applicazione modesta nel sistema penitenziario, è anch’essa connessa all’esigenza di svolgere un’attività lavorativa (o istruttiva o comunque utile al reinserimento sociale) all’esterno del carcere, terminata la quale il detenuto fa rientro nell’istituto di pena, in sezioni “dedicate” ai c.d. semi-liberi.
La possibilità di svolgere un lavoro fuori dalle mura è raggiungibile anche attraverso l’art. 21 (c.d. “esterno”) O.P.
Le possibilità di lavorare all’interno delle Case Circondariali sono, invece, ancora molto ridotte e si sostanziano in progetti - spesso molto positivi e apprezzati - che non raggiungono un’applicazione sistemica omogenea sul territorio nazionale.
Al contrario di quanto si può pensare, la quasi totalità dei detenuti agogna la possibilità di prestare attività lavoratore: per far passare le interminabili giornate da internati, per guadagnare qualcosa e pesare meno sul nucleo familiare, per “mettersi alla prova” e dare conto di meritare la possibilità di tornare in libertà.
Per la generalità dei detenuti residuano attività di ausilio alla vita detentiva. Le figure dello “spesino”, del “portavitto” e il “lavorante di sezione” o ”scopino” (le cui mansioni facilmente intuibili) sono presenti in tutti gli Istituti di Pena.
Un capitolo a parte merita la situazione del tossicodipendente, per il quale il DPR 309/90 dispone, agli artt. 90 e 94, rispettivamente: 1) la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena detentiva per 5 anni in presenza di un programma terapeutico e socio-riabilitativo; 2) l’affidamento in prova al servizio sociale (per pene fino a 6 anni) per intraprendere o proseguire l’attività terapeutica.
La pena detentiva inflitta può essere anche differita per motivi di salute.
Gli artt. 146 e 147 c.p. regolano il differimento obbligatorio o facoltativo in caso di grave infermità fisica.
Con le stesse norme viene anche disciplinata la situazione della condannata, madre di prole inferiore a tre anni.
I detenuti possono beneficiare di permessi per gravi motivi familiari (art. 30 O.P.) e permessi premio (art. 30 ter O.P.).
Quest’ultimi, in particolare, rappresentano un “assaggio” di libertà, attraverso il quale la persona ristretta comincia a riprendere contatto con il mondo esterno.
I permessi per gravi motivi familiari sono, invece, purtroppo dettati da eventi tragici e la difficoltà per il difensore sta nel riuscire a portare tempestivamente a conoscenza del Magistrato di Sorveglianza la situazione che riguarda un familiare dell’assistito-detenuto, documentandola in maniera idonea.
La gradualità del ritorno alla vita senza restrizioni è in molti casi necessaria, specie dopo detenzioni di durata consistente. Ciò perché il passaggio dal “microcosmo” carcerario alla “bolgia del mondo fuori” causa non di rado sfasamento e ansia, tanto che spesso l’ex detenuto, divenuto libero, ha difficoltà ad orientarsi negli spazi non più limitati che si (ri)trova ad affrontare.
Tutta la materia dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione trova, poi, un limite nell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario con la quale il legislatore ha inteso porre dei limiti per i condannati per taluni reati.
L’ostatività dettata con tale norma rappresenta in molti casi un muro invalicabile contro il quale si scontrano le aspettative dei condannati ristretti e gli sforzi del difensore.
La rigidità dell’art. 4 bis O.P. rende la gestione della fase esecutiva assai più complessa rispetto a quella cautelare in fase di merito, durante la quale i limiti alla concessione di misure meno afflittive rispetto alla custodia in carcere sono certamente minori e più agevolmente superabili.
Non soggiace ai limiti dell’art. 4 bis il beneficio dalla liberazione anticipata, con il quale il condannato che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione può usufruire di una riduzione di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata.
Questa norma è probabilmente alla base del dibattito (molto mediatico) sulla differenza tra pena inflitta e pena “effettiva”.
La percezione di fastidio che si riscontra in molti casi circa lo “sconto” applicato sulla condanna non tiene conto della necessarietà della previsione contenuta nell’art. 54 O.P.
Premesso che, realmente, il requisito per guadagnare la liberazione anticipata non è tanto la partecipazione ad attività che quasi mai esistono in carcere, quanto il corretto comportamento inframurario (che si traduce nell’assenza di richiami e sanzioni), ciò non toglie che la vita carceraria sarebbe assai peggiore senza una disposizione di tal sorta.
Ciò sia perché, effettivamente, la rieducazione passa ragionevolmente anche dal sapersi comportare “dentro” prima che fuori dal carcere, ma anche perché i conflitti, la litigiosità, la conflittualità che “in cattività” sono fisiologici, trovano un fortissimo deterrente nella volontà di evitare comportamenti che possono determinare la negazione della liberazione anticipata.
Residua, poi, l’istituito della liberazione condizionale (art. 176 c.p.) concedibile al condannato che abbia espiato almeno 30 mesi e almeno metà dalla propria condanna, nel caso in cui lo stesso abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.
Nella realtà (forse per la naturale ritrosia a valutare come “sicuro” il ravvedimento dell’essere umano) tale istituto è rimasto quasi esclusivamente una previsione codicistica che non trova applicazione concreta.
Di recente introduzione (2014) è l’art. 35 ter O.P. che, sulla scorta di ripetuti richiami da parte degli Organi Comunitari, ha introdotto dei rimedi risarcitori per la detenzione in condizione “disumana e degradante”.
Le condizioni disagiate in cui versano le carceri italiane, afflitte anche da atavico sovraffollamento, hanno determinato numerose condanne all’Italia per il suo sistema carcerario.
La soluzione italiana (o all’italiana) è consistita, non nel rimediare alle carenze degli edifici penitenziari, ma nel concedere a chi viene detenuto in maniera (ancora) non adeguata un risarcimento.
Tale ristoro può essere pecuniario per chi ha già finito espiare la pena, oppure può consistere in uno sconto di pena (1 giorno per 10 giorni di detenzione “degradante”).
Anche in questo caso la prassi applicativa ha tradito al ribasso le aspettative (legittime visto quanto indicato dalle pronunce di condanna dell’Italia), limitando il riconoscimento del risarcimento al numero di persone detenute in relazione alle dimensioni delle celle.
Dopo questa rapidissima (e necessariamente estremamente superficiale) panoramica fin qui compiuta rispetto agli strumenti giuridici con il quale si cimenta il difensore del detenuto, per chiudere, ma anche per alleggerire la lettura del contributo, provo a riportare alcuni passaggi (a volte esilaranti, a volte drammatici) di conversazioni o lettere ricevute dal carcere durante questi anni di professione:
- (detenuto senza tetto, con problemi di alcol-dipendenza) “…le devo dire che tutto sommato sto bene. Ho mangiato, ho dormito, mi sento in forma…mi sento che potrei lavorare anche…3 ore al giorno!”;
- (lettera da un detenuto accusato di reati in materia di droga con compendio accusatorio tutto basato su intercettazioni telefoniche) “avvocato, questo processo ha mille orecchie, perché hanno ascoltato miliardi di intercettazioni, ma non ha occhi, perché non hanno voluto vedere l’evidenza delle cose!… E comunque Forza Juve!!”;
- (lettera di un detenuto dopo udienza di discussione) “Gentilissimo avvocato, per prima cosa vi scrivo per dirvi che il giorno 11, il giorno del processo, sono rimasto come un cretino. Forse sentendo tutti quei nomi a cui venivo accostato, di persone che non ho mai conosciuto, sono rimasto scioccato. Avvocato sono rimasto molto contento dal discorso che gli avete fatto alla Corte. Vi faccio i miei complimenti e speriamo che otteniamo quello che abbiamo chiesto”;
- (il più classico dei telegrammi) “Avvocato ho urgente bisogno di parlare con voi”;
- (lettera di assistito in procinto di cambiare difensore) “Ciao Roberto come stai? Spero che hai passato buone ferie tu e famiglia. Ti volevo ringraziare per il lavoro svolto nei miei confronti, ma purtroppo a causa di problemi finanziari non sono in grado di mantenere la mia parola…”;
- (telegramma da un detenuto appena trasferito) “Egr. Avvocato la informo che sono stato trasferito presso la casa circondariale di … Vi prego di avvisare i miei familiari e di venirmi a trovare appena possibile”;
- (lettera da un detenuto straniero in attesa di giudizio) “…Sono convinto che mi fai uscire di qua e torno libero. Ancora grazie per tutto che hai fatto per me e se è possibile mandami una lettera per capire come andrà il mio problema, male o bene”;
- (detenuto in attesa di novità) “Avvocato qui è sempre tutto fermo”;
- (detenuto con gravi problemi di salute) “Carissimo Roberto, perdonami se ti scrivo in stampatello, ma il Parkinson male si accosta al corsivo…”;
- (recidiva) “Buongiorno Avvocato, sono Maria e come puoi vedere dall’indirizzo sulla busta mi trovo nuovamente in carcere”;
- (detenuto con problemi di tossicodipendenza e aspirazioni da avvocato) “…In attesa di sue notizie, io ripongo ancora molta fiducia e stima nei suoi confronti. Si ricordi oltretutto che c’è una sentenza di Cassazione che dice che una persona che sta facendo un programma al SERT non può essere rimessa in carcere, per lo più senza aver commesso nessun crimine!”;
- (per chiudere) “Avvocato se gentilmente potete dire a mia mamma se nel pacco che mi deve mandare lunedì può mettere: 2 pacchi di caramelle Rossana, 1 confezione di lievito, 2 felpe senza cappuccio, 1 paio di scarpe da ginnastica per correre (adidas o nike) e invece i farmi il vaglia da 100 euro me lo fa da 50”.
Oggi 25 aprile è la festa della resistenza, della liberazione dell’Italia dal fascismo.
Sono passati 78 anni dal 25 aprile del 1945, ma il tempo non attenua il dovere di onorare i caduti per la libertà e festeggiare il giorno della liberazione.
E poi il 25 aprile è anche la festa della memoria.
E’ il giorno in cui la storia va riraccontata perché permanga la consapevolezza della notte nera che attraversò l’Italia nel ventennio fascista perché la storia non si ripeta.
Quello della vigilanza è un impegno da non tralasciare perché nulla è ineluttabile negli snodi della storia.
La storia avrebbe potuto avere un corso diverso se, ad esempio, dopo l’omicidio del deputato Giacomo Matteotti ci fosse stata una maggiore consapevolezza di quello che stava realmente accadendo in Italia, oppure, se in altro crocicchio fondamentale, prima della marcia su Roma, il re avesse firmato lo stato di assedio deliberato dal parlamento.
Ma la vita dei popoli si intreccia indissolubilmente con quella degli uomini e come essa dipende da accidenti incontrollabili ovvero da incidenti controllabili, ma controllati male.
Nei romanzi storici di Antonio Scurati (“M” il figlio del secolo, sull’ascesa di Benito Mussolini, “M” l’uomo della Provvidenza, sulla politica liberticida fascista, Gli ultimi giorni dell’Europa, sulla fine del nazifascismo), l’autore ad ogni pagina, lascia il lettore con il fiato sospeso perché riesce a renderlo consapevole, come raramente accade, che la storia avrebbe potuto assumere un corso diverso.
La scelta della storia al bivio cruciale dipende, più di quanto non si consideri, dalle scelte umane.
E’ fondamentale allora essere presenti e partecipi alla res pubblica, attenti all’esercizio dei diritti civici per i quali i martiri del fascismo e i partigiani – che oggi onoriamo- hanno offerto la propria vita.
Oggi dobbiamo ricordarci che l’antipolitica, il populismo, il rifiuto dalla partecipazione che culmina nell’astensione dall’esercizio dell’elettorato attivo, mettono sempre fortemente a rischio la democrazia.
Non bisogna dunque dare mai per scontati i diritti riacquistati con il sangue dei caduti per la resistenza.
Evocative sono, sotto tale profilo, le parole di Pietro Nenni in risposta a una domanda di Oriana Fallaci nel corso di un’intervista del 1971. Alla domanda in ordine ai rischi del ripetersi della storia Nenni rispose: <<Lei mi ricorda quanti, nella crisi 1920-22, dicevano: “Ma tu prendi troppo sul serio quel Mussolini! Dev’essere perché sei stato in galera con lui. Ma come vuoi che un tipo simile possa assumere il potere? Manca l’uomo per realizzare una dittatura in Italia!”. Cosa significa “manca l’uomo”? Non c’è mica bisogno di un tipo eccezionale per farne un simbolo di una situazione! Basta un esaltato qualsiasi, uno stravagante ritenuto innocuo, un vanitoso in cerca di successo. Mussolini, del resto, cos’era nel 1920 e anche nel 1921 e ’22? Aveva preso quattromila voti nelle elezioni del 1919: quattromila voti a Milano, la città che praticamente dominava dal 1913, quand’era divenuto direttore dell’“Avanti!”. Era pronto a scappare in Svizzera, credeva più in questa ipotesi che in quella di recarsi a Roma per formare un governo. E invece si recò a Roma. Come io temevo. Perché sapevo che quando gli avventurieri, anzi i “condottieri”, agiscono in una società malata, tutto diventa possibile. Sicché è da incoscienti sorridere e dire dov’è-oggi-un-Mussolini, dov’è-oggi-un-Hitler. Lo si inventa un Mussolini, lo si inventa un Hitler. E per inventarlo bastano cento giornali che quotidianamente dicano “è un grand’uomo”, un papa che dichiari “è l’uomo della provvidenza”, magari un Churchill che affermi “è il primo dietro il quale sento una volontà italiana”. Come accadde per Mussolini.
A quel tempo non conoscevamo il fascismo ed ora lo conosciamo fin troppo, né siamo disposti a subirlo una seconda volta. Però v’è un punto che presenta forti analogie tra l’Italia del ’71 e l’Italia del ’22: quello che prospettai al Senato quando ricordai che a perderci, nel 1922, non fu la forza offensiva del fascismo. Fu la debolezza della classe politica dirigente. Furono le divisioni meschine che smembravano gli uomini politici in gelosie, ripicchi, attese. Nessuno credeva alla minaccia. Ciascuno aspettava. Giolitti aspettava a Vichy, meditando non si sa bene cosa. Forse la tremenda frase di Cromwell: “Bisogna che le cose vadano peggio perché si possa sperare che vadano meglio”>>.
Ecco il perché dell’importanza della memoria e la necessità, sempre impellente, di stringersi attorno alla nostra Costituzione perché, per usare le parole di Elly Schlein, “l'antifascismo è la nostra costituzione”, il prodotto della resistenza e dello stesso antifascismo dei padri costituenti.
Il fil rouge dell’antifascismo che tiene insieme gli articoli in cui si snoda la Costituzione, inizia con l’articolo 1 L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo e prosegue La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2). Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale (art. 3) Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge (art. 8). L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli (art. 11). La libertà personale è inviolabile (art. 13). Il domicilio è inviolabile ( art. 14) La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili ( art. 15) Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi ( art. 16). I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente ( art. 17). I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente ( art. 18) Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa (art. 19) Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative (art. 20).Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure (art. 21). Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica della cittadinanza (art. 22). L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento (art. 33). E’ riconosciuto il diritto di sciopero (art.40). Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49).
Se ci si sofferma con attenzione su ciascuno dei principi appena richiamati in questa rapida rassegna non è difficile scorgere come, ciascuno di essi, abbia la propria ragione d’essere in quanto antitesi ad altrettante leggi fasciste e lo scopo di impedire per il futuro l’introduzione di provvedimenti legislativi di analogo tenore.
Gran parte dei diritti inviolabili elencati può forse far sorridere i giovani di oggi tanto sembrano scontati. Ad esempio, possono sembrare inutili gli art. 8, 19 e 20 per chi non sa delle leggi razziali emanate tra il 1938 e il 1945 le quali contenevano svariati divieti per i cittadini italiani ebrei tra i quali: l’impedimento ad insegnare o a frequentare scuole e università, la proibizione a contrarre matrimonio con cittadini non ebrei, a possedere aziende importanti per la difesa nazionale o aziende, terreni fabbricati che superassero certe dimensioni, a prestare servizio alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, civili e militari, o ad iscriversi agli albi professionali. Possono apparire pleonastici gli articoli dal 13 al 18 per quelli che non conoscono le leggi speciali di polizia contenute nel Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza Regio Decreto n. 1848/1926 o le leggi c. d. “fascistissime”, secondo la nomenclatura dallo stesso regime, emanate tra il 1925 e il 1926, che trasformarono l'ordinamento giuridico del Regno d’Italia in un regime totalitario. Oppure l’articolo 21 per chi non conosce la legge n. 2307del 31 dicembre 1925 in tema di controllo e censura della stampa.
La vigilanza è essenziale soprattutto nelle contingenze in cui si sottovaluta l’importanza di ricordare che la nostra costituzione è antifascista oppure quando si assumono atteggiamenti retorici che ghettizzano, anche solo a parole, talune categorie di cittadini. Ci si riferisce all’atteggiamento di alcuni politici italiani in tema di diritti di genere, stigmatizzato dal Parlamento Europeo che forse non ha avuto in Italia la dovuta risonanza. E’ dei giorni scorsi, infatti, la ferma condanna ricevuta dall’Italia da parte dell’Europarlamento per la diffusione di retorica anti-diritti, anti-gender e anti-Lgbtq da parte di alcuni influenti leader politici e governi nell'Ue. L’emendamento approvato è del seguente tenore "l'Europarlamento esprime preoccupazione per gli attuali movimenti retorici anti-diritti, anti-gender e anti-Lgbtq a livello globale, alimentati da alcuni leader politici e religiosi in tutto il mondo, anche nell'Ue; ritiene che tali movimenti ostacolino notevolmente gli sforzi volti a conseguire la depenalizzazione universale dell'omosessualità e dell'identità transgender, in quanto legittimano la retorica secondo cui le persone Lgbtq sono un'ideologia anziché esseri umani; condanna fermamente la diffusione di tale retorica da parte di alcuni influenti leader politici e governi nell'Ue, come nel caso di Ungheria, Polonia e Italia".
Per usare le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “è importante tener viva la memoria di un periodo tra i più drammatici della nostra storia contribuendo in ampia misura a far conoscere e non dimenticare quanti hanno lottato per la difesa degli ideali di indipendenza e di libertà che permisero la liberazione dell'Italia dall'oppressione nazi-fascista".
Festeggiamo dunque questo 25 aprile del 2023 per onorare coloro che hanno sacrificato la propria vita affinché potesse essere scritta la nostra bella Costituzione antifascista!
Quando l’intelligenza artificiale incontra (e si scontra con) il diritto
Non ha generato molto entusiasmo il provvedimento1 con il quale, lo scorso 30 marzo 2023, il Garante per la protezione dei dati personali ha - in via di urgenza - provvisoriamente limitato il trattamento dei dati personali degli utilizzatori italiani di ChatGPT, di fatto determinando il blocco dell’operatività del servizio, sotto minaccia di sanzioni amministrative e penali (art. 170 del codice per il trattamento dei dati personali).
Il Garante della privacy italiano è stato, nel panorama internazionale, pioniere nell’imporre uno stop del chat-bot, attirandosi un bel po’ di critiche, talune delle quali probabilmente infondate, rispetto ad altre più sottili e pertinenti2.
Se le principali violazioni riscontrate dal Garante giustificavano evidentemente l’apertura di un’istruttoria (ad esempio l’assenza di verifica dell’età anagrafica degli utenti, che non impediva l’accesso alla piattaforma di minori di anni tredici, la mancata predisposizione di apposita informativa sulla raccolta e le finalità del trattamento dai personali, la inesistente possibilità di incidere sul trattamento mediante richiesta di rettifica, correzione, distruzione dei dati) altre obiezioni sono invece apparse, a taluni commentatori, come frutto di un approccio di tipo conservatore o meglio, figlio di un grande fraintendimento ma, forse, o piuttosto, pieno di problematicità inespressa.
Ci si riferisce alla parte del provvedimento in cui il Garante contesta agli sviluppatori “l’assenza di idonea base giuridica in relazione alla raccolta dei dati personali e al loro trattamento per scopo di addestramento degli algoritmi sottesi al funzionamento di ChatGPT”, e poi laddove rimarca la possibile inesattezza del trattamento, “in quanto le informazioni fornite da ChatGPT non sempre corrispondono al dato reale”.
Sotto tale profilo, ciò che il Garante sembra valutare criticamente costituisce proprio il cuore dei modelli di linguaggio di grandi dimensioni (LLM). Questi ultimi, tuttavia, non hanno lo scopo di garantire la "certezza del risultato" o la "esattezza della risposta" bensì quello, ben diverso, di imitare l’utilizzo del linguaggio umano restituendo all’interlocutore una risposta plausibile, coerente, aderente al testo, espressa in linguaggio naturale.3
In altre parole un “aggeggio” come ChatGPT non è un'enciclopedia da cui si possa tirare fuori un risultato scientificamente esatto ma è, per ora, un insieme di codici miranti ad intuire le ricorrenze statistiche insite negli elementi testuali introdotti dall’utente e consegnare risposte coerenti sulla base di un’analisi probabilistica (una previsione) basata su un'enorme massa di dati, che il sistema già conosce, ma di cui non comprende assolutamente il significato.4
Si tratta dunque di modelli statistici che scompongono il testo in “token” (non assimilabili a dati personali, costituendo meri frammenti di parole, di per sé privi di senso compiuto) e sono in grado di svolgere previsioni su quali elementi testuali potrebbero ricorrere, sulla base di parametri come la temperatura che “regola il livello di casualità e probabilità nella scelta del prossimo token da inserire nel testo”.5
All’aumentare della temperatura corrisponde un aumento dell’inaccuratezza e quindi di creatività del modello che sarà in grado di restituire output più stravaganti ma anche, magari, più innovativi e utili.
Mediante il dialogo con l’operatore il modello può perfezionare le risposte e dunque "auto apprendere" ma questo è esattamente un punto di forza dell’AI generativa e non, come il Garante lascerebbe credere, la sua debolezza. Paradossalmente, quindi, la prospettiva tradizionale di protezione giuridica del dato sembra confliggere con l' in sè dello strumento tecnologico che si nutre di input testuali, trasformati in token, lavorati e tradotti nuovamente in testo, migliorando di volta in volta il processo di apprendimento.
Non vi è dubbio che le “risposte inesatte” (inaccuratezza dell’Output) possano, sotto un diverso angolo visuale, distorcere la verità storica e produrre, se mal usate, disinformazione o anche rivelarsi lesive della onorabilità, identità personale di soggetti specifici così determinando l'insorgere di possibili contese (sono già note, ad esempio, iniziative legali promosse a causa di informazioni inveritiere diffuse dal Chatbot, come il caso del Sindaco australiano Brian Hood6).
Ciò che potrebbe derubricarsi ad “effetto collaterale” dell’impiego della intelligenza artificiale, è esattamente il motivo per cui diversi studiosi, filosofi e giuristi, lungi dal voler impedire lo sviluppo di simili tecnologie, affermano la necessità di un’appropriata disciplina normativa in grado di accompagnare il processo di “design”, cioè la fase progettuale, lo sviluppo (development) e l’utilizzo degli applicativi anziché limitarsi a concepire tardivamente rimedi e correttivi all’uso improprio della tecnologia.7
E' chiaro, insomma, che tra una visione problematica, prudente e un approccio innovatore e “fuori dalle regole” si coglie una certa distanza che deve in qualche modo essere colmata anche grazie all’indagine giuridica che suggerisce di inserire le nuove tecnologie e segnatamente quelle che fanno uso della intelligenza artificiale in una nuova cornice normativa che superi i confini nazionali, allo scopo di garantire il rispetto dei principi fondamentali di tutela della persona umana non solo con riferimento al trattamento dei dati.8
Cos’è allora che sorprende in positivo dell’intervento del Garante? Che in breve tempo gli opposti quanto (apparentemente) inconciliabili punti di partenza si sono riavvicinati ciascuna delle parti facendo dei passi verso l’altra. La sviluppatrice Open AI impegnandosi a prendere in considerazione ed elaborare soluzioni per risolvere i punti critici segnalati e il Garante preannunciando la sospensione dell’efficacia del provvedimento di limitazione provvisoria qualora le prescrizioni, dettate lo scorso 11 aprile, trovino attuazione.
Ma quali sono le prescrizioni dettate dal Garante?9 In estrema sintesi, pubblicare sul sito un Informativa che spieghi le modalità di trattamento, la logica del trattamento, i diritti spettanti agli interessati, nonché la previsione di uno strumento di "opposizione" e correzione o cancellazione dei dati eventualmente "inesatti" trattati (tanto sulla base del Regolamento generale sulla protezione dei dati, Reg UE 2016/679); modificare la base giuridica del trattamento dei dati eliminando il riferimento al "contratto" e assumendo viceversa il "consenso" o il "legittimo interesse"; nonché implementando uno strumento per il "diritto di opposizione al trattamento dei dati"; implementare strumenti di "age verification" che servano a bloccare l'accesso ad infra-tredicenni in assenza del consenso dei genitori. In ultimo promuovere una "campagna di informazione" presso la popolazione allo scopo di informare "le persone" sul fatto che i loro dati personali possono essere stati "raccolti" e "trattati" per l'addestramento "degli algoritmi", ecc.
Se questi punti saranno, come sembra, accettati e messi in opera dalla società sviluppatrice del software, il divieto dovrebbe, entro la fine di aprile 2023, venir meno e consentire la ripresa del servizio. Ma la difficile convivenza tra essere umano ed AI è soltanto all’inizio.
1 https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9870832
2 Nelle settimane successive al 30/3/23 anche altri paesi europei, come Francia, Spagna e Germania, hanno avviato istruttorie finalizzate a chiarire i punti di frizione tra il GDPR e il trattamento operato da OpenAi. Il Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB), ha poi deciso di lanciare una task force su ChatGpt: https://edpb.europa.eu/news/news/2023/edpb-resolves-dispute-transfers-meta-and-creates-task-force-chat-gpt_en
3 Su natura, funzionamento e limiti dei LLM v., su questa rivista, l’articolo di F. Pilla: Quali impatti avranno su di noi i Large Language Models e CHAT GPT ; vi sono molti articoli di divulgazione scientifica, tra questi, ad esempio: https://www.mlq.ai/what-is-a-large-language-model-llm/
4 Le contestazioni del Garante sotto questo aspetto denoterebbero una “una limitata comprensione della natura e del funzionamento dei modelli di intelligenza artificiale”, cfr. Giuseppe Vaciago e Gianluca Gilardi, Stop a ChatGPT, il Garante contesta "inaccuratezza" dell'output e trattamento dei dati personali; R. Pareschi, ChatGPT e il paradosso del censore.
5 https://ilariopanico.it/intelligenza-artificiale/temperatura-gpt-3-cos-e/
6 https://www.reuters.com/technology/australian-mayor-readies-worlds-first-defamation-lawsuit-over-chatgpt-content-2023-04-05/
7 Giuseppe D’Acquisto, Chatgpt e AI, regolamentare la responsabilità o l’efficienza è la prossima sfida ; Franco Pizzetti, ChatGpt: senza diritti siamo nudi davanti all’intelligenza artificiale-artificiale/ ; https://ilbolive.unipd.it/it/news/perche-chatgpt-ha-bisogno-regole; Federico Cabitza, Deus in machina? L’uso umano delle nuove macchine, tra dipendenza e responsabilità, Bompiani, 2021.
8 https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/pizzetti-chatgpt-senza-diritti-siamo-nudi-davanti-allintelligenza-artificiale/ ; cfr la proposta di regolamento del Parlamento europeo in tema di intelligenza artificiale (Artificial Intelligence Act), https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=celex:52021PC0206
9 https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9874702
È probabile che il ministro Nordio, tenuto conto della sua esperienza e della sua competenza, sia il primo ad essere consapevole dell’infondatezza dell’azione disciplinare da lui promossa nei confronti dei giudici della Corte di appello milanese che hanno sostituito la custodia cautelare in carcere dell’estradando Artem USS con gli arresti domiciliari assistiti da dispositivo elettronico di controllo (c.d. braccialetto). Decisione che costituirebbe, secondo l’incolpazione, «un comportamento connotato da grave ed inescusabile negligenza».
La normativa sugli illeciti disciplinari in verità censura “la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”. Se il Ministro riferisce genericamente la gravità ad un comportamento, anziché alla violazione della legge, come dovrebbe, è appunto perché, verosimilmente, è ben cosciente che una “violazione di legge” nel caso di specie non si può configurare in alcun modo, tanto meno nella sua forma grave e determinata da ignoranza o negligenza inescusabile: ci troviamo, infatti, dinanzi alla ordinaria opinabilità dei provvedimenti giudiziari.
L’addebito ministeriale ai giudici finisce per risolversi nell’asserita sottovalutazione dei dati a loro conoscenza. Un addebito che, quand’anche fondato, non potrebbe mai dar luogo a responsabilità disciplinare: questa, infatti, è espressamente esclusa per l’attività di «valutazione del fatto e delle prove» (art. 2 comma 2 d. lgs. n. 109 del 2006). E del resto sarebbe costituzionalmente inammissibile per violazione dell’indipendenza della magistratura un’opposta previsione, alla cui stregua il giudice risponderebbe di illecito disciplinare ogniqualvolta l’autorità politica dissentisse, a torto o a ragione, dal contenuto di un suo provvedimento. Prospettiva che, di certo, lo stesso Ministro non sarebbe disposto a sottoscrivere.
L’intrapresa azione disciplinare resta, dunque, un’inquietante forzatura. Né può certo bastare a giustificarla la circostanza che il titolare di via Arenula sia in buona fede convinto della giustezza dei suoi rilievi critici: la verità è che il Ministro avrebbe esondato dalle proprie prerogative anche qualora questi avessero fondamento.
D’altra parte, se davvero fossero censurabili le valutazioni che hanno indotto a ritenere sufficienti gli arresti domiciliari, il Ministro - privo, come ha ineccepibilmente chiarito, di un potere di impugnazione - avrebbe avuto già da mesi il dovere di agire disciplinarmente. O si vuole affermare che la censurabilità dei provvedimenti di un magistrato possa dipendere dalla condotta dell’imputato? Eppure nessuno può seriamente sostenere che, ove USS non si fosse sottratto agli arresti domiciliari, si sarebbe ugualmente intrapresa un’azione disciplinare.
Quest’ultima considerazione mette in luce l’estrema gravità della vicenda, che va persino oltre l’interferenza del potere politico nell’esercizio della discrezionalità giudiziaria, come pure è stato denunciato da più parti. La peculiarità del caso in esame risiede nella circostanza che l’addebito disciplinare non riguarda un provvedimento con cui si assolve o si condanna, bensì una decisione basata su una valutazione prognostica: che per fronteggiare il pericolo di fuga, cioè, non fosse necessario ricorrere alla custodia cautelare in carcere. Una decisione che, come tutte quelle di natura predittiva, sconta una fisiologica percentuale di errore. Se mai passasse il principio che il magistrato debba risponderne, si affermerebbe fatalmente una “giurisprudenza difensiva”. Nell’inevitabile margine di incertezza che connota ogni previsione, sarebbe comprensibilmente prudente adottare sempre la misura più restrittiva: a disporre o mantenere la custodia cautelare in carcere dell’imputato o a negare una misura alternativa al condannato, non si rischierebbe nulla. La preoccupazione disciplinare per i magistrati sarebbe così scongiurata, ma il prezzo pagato dall’ordinamento sarebbe altissimo: verrebbero lese irreparabilmente la presunzione di non colpevolezza dell’imputato (art. 27 comma 2 Cost.) e la presunzione di recuperabilità del condannato (art. 27 comma 3 Cost.), che nelle situazioni di dubbio dovrebbero orientare in direzione opposta, addossando il rischio dell’errore alla collettività e non all’individuo.
*pubblicato su l'Avvenire il 22.4.23
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