*Il contributo si inserisce nell’approfondimento del tema Carcere e detenzione. Precedenti contributi: Carcere e suicidi. Chacun de nous est concerné di Vincenzo Semeraro, Il 41 bis ‘oltre i pizzini’: riflessioni sulla sentenza della Cassazione nel caso Cospito di Angela Della Bella - Il regime differenziato dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, ontologia, problemi, prospettive (prima parte) di Carlo Renoldi - Il regime differenziato dell’art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, ontologia, problemi, prospettive (seconda parte) di Carlo Renoldi - Intervista di Giuseppe Amara a Gabriella Stramaccioni, già Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale - Il carcere visto da chi lo dirige di Carlo Berdini e Nicoletta Siliberti, sotto la voce della rivista Giustizia e pene.
Nel suo celebre saggio Stefano Rodotà descrive la proprietà privata come “Il terribile diritto” perché idoneo ad escludere chiunque altro dal rapporto con una cosa, ma non è difficile immaginare come possa essere ben più “terribile” il diritto penale e della procedura penale in quanto in grado di escludere una persona dai suoi affetti, dal suo lavoro, dalla sua vita.
All’interno del perimetro delle situazioni di cui si occupa l’avvocato penalista, l’incontro con le realtà detentive merita una riflessione peculiare.
Gianrico Carofiglio - scrittore, politico, ma anche ex magistrato di sorveglianza - descrive in maniera nitida e coinvolgente lo stato d’animo che lo pervase allorquando si trovò a dover decidere della sorte dei soggetti detenuti, raccontando la tensione che lo pervase, volta a cercare di restituire la libertà ad un numero di persone maggiore possibile.
Nonostante la dimensione carceraria non sia adeguatamente percepita dai non addetti ai lavori, il carcere resta, a buon ragione, un luogo terrificante nell’immaginario collettivo, tant’è che quando parlando al telefono con parenti o amici mi capita di dire “scusa ti richiamo, sto entrando in carcere” mi pare di cogliere un attimo di panico nel tono dell’interlocutore e cerco sempre di tranquillizzarlo immediatamente “tranquillo, tra un’ora dovrei essere fuori”.
Per ciò che attiene alla prospettiva dell’avvocato, quanto detto da Carofiglio è vero, ma non ancora sufficiente.
Il difensore rappresenta per il detenuto tante cose: il soggetto dal quale si attende una spiegazione sulle ragioni che hanno determinato la detenzione ed al quale si chiede di prevederne i tempi, i modi, i luoghi; la persona a cui raccontare le proprie ansie, paure, speranze, necessità; il primo contatto (a volte anche l’unico) con il mondo esterno; il mezzo attraverso il quale attivare i meccanismi della giustizia che possono portare alla fine della coazione inframuraria.
Esiste una differenza ontologica tra la custodia cautelare in carcere e la condizione del detenuto “definitivo”: nel primo caso l’arresto è stato naturalmente improvviso, spesso inaspettato, prevale il disorientamento e la necessità di sapere quanto durerà la privazione della libertà personale; nel secondo caso (salvo rare eccezioni) l’esecuzione della pena è stata prevista e se ne conosce l’entità, quanto meno formale.
In tutti i casi, però, il detenuto ha la “necessità” di vedere, o almeno sentire, il proprio difensore, quanto prima possibile dopo il suo ingresso in carcere. Ciò perché appunto, l’avvocato rappresenta “il braccio” o “la voce” attraverso il quale il soggetto in vinculis cerca di “lanciarsi” oltre i muri e le sbarre.
Mentre per il soggetto colpito dalla misura custodiale normalmente i primi temi da affrontare con il difensore riguardano la possibilità di sottoporsi ad interrogatorio di garanzia e la valutazione sul ricorso al Tribunale della Libertà, i condannati in via definitiva si concentrano, fin da subito, sulla tempistica necessaria ad ottenere benefici e/o misure alternative; anche nei casi in cui queste possibilità siano pacificamente lontane nel tempo, il ristretto sente il bisogno di avere un “piano” immediato per il suo futuro da recluso.
Temi comuni a tutti i detenuti sono quelli che riguardano le autorizzazioni per i colloqui familiari, telefonici e visivi, e l’allocazione all’interno delle diverse sezioni dei penitenziari.
Al di là delle prime attività tecniche, l’aspetto più delicato per il difensore è la necessità di trovare le parole esatte per rendere ‘sopportabile’ la condizione di detenzione e spiegare puntualmente le possibilità esistenti e i tempi necessari per riacquistare la libertà.
È straordinariamente difficile riuscire a dare speranza, senza creare false illusioni, prospettare percorsi illustrando le possibilità di un esito favorevole, pur sapendo che in quasi tutti i casi il “risultato” dipende da molte variabili, non prevedibili anticipatamente.
Le storie, personali e giudiziarie, dei detenuti sono tutte ovviamente differenti e, allo stesso tempo, tutte segnate da alcuni attimi, alcuni stati d’animo che, immancabilmente, vanno a marchiare i soggetti che varcano le soglie del carcere.
D’altronde gli stessi istituti di pena hanno caratteristiche strutturali replicate in maniera identica da Sassari a Voghera, da Saluzzo a Catania: in un paese dove gli Ospedali, le Scuole, i Tribunali sono diversi dal punto di vista estetico ed edilizio anche all’interno dello stesso Comune, le Case Circondariali sono sorprendentemente simili in tutta Italia.
In particolare, dal punto di vista del difensore, le sale adibite ai colloqui con gli avvocati hanno dimensioni e collocazioni molto simili, così come immutabile pare l’aria di tensione che si respira all’interno.
Il mio dominus una volta mi disse che ero stato fortunato ad iniziare la professione dopo il 2003, perché altrimenti avrei sperimentato l’impossibilità di non fumare in carcere durante i colloqui con i detenuti: quegli spazi erano inondati dal fumo delle sigarette consumate dai reclusi, dagli avvocati e dagli agenti della Polizia Penitenziaria.
D’altronde, paradossalmente, il consumo di tabacco in carcere è direttamente proporzionale alla mancanza di “aria”.
In generale si fuma per passare il tempo, per allentare le tensione, per noia…tre segmenti che nella reclusione di susseguono ininterrottamente per le 24 ore quotidiane.
Tornando al rapporto tra il difensore e l’assistito detenuto quasi naturalmente si crea un legame diverso da quello che “fuori” regola i rapporti tra il professionista e il cliente.
La fiducia, elemento imprescindibile nell’incarico professionale, deve essere in questo caso massima, perché non solo quell’avvocato è la persona alla quale il ristretto sta mettendo in mano le sue possibilità di tornare in libertà, ma anche il soggetto al quale inevitabilmente dovrà riferire aspetti personalissimi della sua esistenza, non solo i guai giudiziari, ma anche gli eventuali problemi di salute e gli aspetti della propria vita affettiva.
Il ruolo del difensore è quindi certamente prettamente giuridico, ma quasi mai può limitarsi a questo.
La cura delle dinamiche processuali difficilmente può essere percorsa tralasciando aspetti più intimi del soggetto che ha commesso, o comunque è stato accusato di aver commesso, un reato che ha determinato la sua carcerazione.
Volendo provare a passare rapidamente in rassegna gli istituti che il difensore si trova a dover maneggiare in fase esecutiva e le principali problematiche connesse a tali istituti, è necessario prendere le mosse dalle misure alternative alla detenzione.
L’affidamento in prova ai servizi sociali rappresenta la misura più “ampia” e quindi la più “desiderata” di chi si trova ristretto.
Il soggetto ammesso al beneficio deve interfacciassi con l’UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) e rispettare le indicazioni fornite dalla Magistratura di Sorveglianza con il provvedimento applicativo con il quale spesso vengono previsti dei limiti alla libertà di movimento sul territorio nazionale.
La casistica riscontrabile facilmente nelle aula di Giustizia vuole che un requisito quasi imprenscindibile, per ambire all’affidamento in prova, sia l’esistenza di una possibilità lavorativa.
Questa misura alternativa può essere concessa a chi debba espiare fino 4 anni di reclusione, anche come residuo di maggior pena (personalmente ho sempre trovato singolare il fatto che non si cerchi di riacquistare la libertà per poter, poi, lavorare, ma si debba andare alla ricerca di un lavoro per poter tornare liberi).
Invece, la detenzione domiciliare (equivalente degli arresti domiciliari in fase esecutiva) può essere concessa - salvo situazioni particolari legate allo stato di salute, all’età o altre condizioni personali del condannato - solo a chi abbia un residuo di pena inferiore a due anni.
Proprio il confronto tra i limiti edittali per la concessione delle diverse misure alternative alla detenzione dovrà, a parere di chi scrive, essere oggetto di una nuova valutazione “attualizzata” alla luce della Riforma c.d. Cartabia.
Invero, desta perplessità il fatto che la detenzione domiciliare (misura più restrittiva rispetto all’affidamento in prova) possa trovare applicazione, ancora oggi, solo per pene non superiori a due anni.
La novità con la quale è necessario confrontarsi è rappresentata dalle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, oggi previste dall’art. 20 bis c.p. che elenca: 1) semilibertà sostitutiva; 2) detenzione domiciliare sostitutiva; 3) lavoro di pubblica utilità sostitutivo; 4) pena pecuniaria sostitutiva.
Volendo semplificare oltremodo, si può dire che queste sanzioni consentono una anticipazione della pena governata dallo stesso giudice del merito. In tal modo vi è la possibilità di “scontare” il debito con la giustizia, attraverso misure diverse della detenzione carceraria, senza attendare i tempi della fase esecutiva.
Tuttavia, in questa fase, la detenzione domiciliare sostitutiva può essere concessa in caso di condanna fino 4 anni, così creando una disparità “per fase” rispetto al limite di 2 anni previsto dal comma 1 bis dell’art. 47 ter O.P.
La semilibertà, che attualmente trova applicazione modesta nel sistema penitenziario, è anch’essa connessa all’esigenza di svolgere un’attività lavorativa (o istruttiva o comunque utile al reinserimento sociale) all’esterno del carcere, terminata la quale il detenuto fa rientro nell’istituto di pena, in sezioni “dedicate” ai c.d. semi-liberi.
La possibilità di svolgere un lavoro fuori dalle mura è raggiungibile anche attraverso l’art. 21 (c.d. “esterno”) O.P.
Le possibilità di lavorare all’interno delle Case Circondariali sono, invece, ancora molto ridotte e si sostanziano in progetti - spesso molto positivi e apprezzati - che non raggiungono un’applicazione sistemica omogenea sul territorio nazionale.
Al contrario di quanto si può pensare, la quasi totalità dei detenuti agogna la possibilità di prestare attività lavoratore: per far passare le interminabili giornate da internati, per guadagnare qualcosa e pesare meno sul nucleo familiare, per “mettersi alla prova” e dare conto di meritare la possibilità di tornare in libertà.
Per la generalità dei detenuti residuano attività di ausilio alla vita detentiva. Le figure dello “spesino”, del “portavitto” e il “lavorante di sezione” o ”scopino” (le cui mansioni facilmente intuibili) sono presenti in tutti gli Istituti di Pena.
Un capitolo a parte merita la situazione del tossicodipendente, per il quale il DPR 309/90 dispone, agli artt. 90 e 94, rispettivamente: 1) la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena detentiva per 5 anni in presenza di un programma terapeutico e socio-riabilitativo; 2) l’affidamento in prova al servizio sociale (per pene fino a 6 anni) per intraprendere o proseguire l’attività terapeutica.
La pena detentiva inflitta può essere anche differita per motivi di salute.
Gli artt. 146 e 147 c.p. regolano il differimento obbligatorio o facoltativo in caso di grave infermità fisica.
Con le stesse norme viene anche disciplinata la situazione della condannata, madre di prole inferiore a tre anni.
I detenuti possono beneficiare di permessi per gravi motivi familiari (art. 30 O.P.) e permessi premio (art. 30 ter O.P.).
Quest’ultimi, in particolare, rappresentano un “assaggio” di libertà, attraverso il quale la persona ristretta comincia a riprendere contatto con il mondo esterno.
I permessi per gravi motivi familiari sono, invece, purtroppo dettati da eventi tragici e la difficoltà per il difensore sta nel riuscire a portare tempestivamente a conoscenza del Magistrato di Sorveglianza la situazione che riguarda un familiare dell’assistito-detenuto, documentandola in maniera idonea.
La gradualità del ritorno alla vita senza restrizioni è in molti casi necessaria, specie dopo detenzioni di durata consistente. Ciò perché il passaggio dal “microcosmo” carcerario alla “bolgia del mondo fuori” causa non di rado sfasamento e ansia, tanto che spesso l’ex detenuto, divenuto libero, ha difficoltà ad orientarsi negli spazi non più limitati che si (ri)trova ad affrontare.
Tutta la materia dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione trova, poi, un limite nell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario con la quale il legislatore ha inteso porre dei limiti per i condannati per taluni reati.
L’ostatività dettata con tale norma rappresenta in molti casi un muro invalicabile contro il quale si scontrano le aspettative dei condannati ristretti e gli sforzi del difensore.
La rigidità dell’art. 4 bis O.P. rende la gestione della fase esecutiva assai più complessa rispetto a quella cautelare in fase di merito, durante la quale i limiti alla concessione di misure meno afflittive rispetto alla custodia in carcere sono certamente minori e più agevolmente superabili.
Non soggiace ai limiti dell’art. 4 bis il beneficio dalla liberazione anticipata, con il quale il condannato che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione può usufruire di una riduzione di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata.
Questa norma è probabilmente alla base del dibattito (molto mediatico) sulla differenza tra pena inflitta e pena “effettiva”.
La percezione di fastidio che si riscontra in molti casi circa lo “sconto” applicato sulla condanna non tiene conto della necessarietà della previsione contenuta nell’art. 54 O.P.
Premesso che, realmente, il requisito per guadagnare la liberazione anticipata non è tanto la partecipazione ad attività che quasi mai esistono in carcere, quanto il corretto comportamento inframurario (che si traduce nell’assenza di richiami e sanzioni), ciò non toglie che la vita carceraria sarebbe assai peggiore senza una disposizione di tal sorta.
Ciò sia perché, effettivamente, la rieducazione passa ragionevolmente anche dal sapersi comportare “dentro” prima che fuori dal carcere, ma anche perché i conflitti, la litigiosità, la conflittualità che “in cattività” sono fisiologici, trovano un fortissimo deterrente nella volontà di evitare comportamenti che possono determinare la negazione della liberazione anticipata.
Residua, poi, l’istituito della liberazione condizionale (art. 176 c.p.) concedibile al condannato che abbia espiato almeno 30 mesi e almeno metà dalla propria condanna, nel caso in cui lo stesso abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.
Nella realtà (forse per la naturale ritrosia a valutare come “sicuro” il ravvedimento dell’essere umano) tale istituto è rimasto quasi esclusivamente una previsione codicistica che non trova applicazione concreta.
Di recente introduzione (2014) è l’art. 35 ter O.P. che, sulla scorta di ripetuti richiami da parte degli Organi Comunitari, ha introdotto dei rimedi risarcitori per la detenzione in condizione “disumana e degradante”.
Le condizioni disagiate in cui versano le carceri italiane, afflitte anche da atavico sovraffollamento, hanno determinato numerose condanne all’Italia per il suo sistema carcerario.
La soluzione italiana (o all’italiana) è consistita, non nel rimediare alle carenze degli edifici penitenziari, ma nel concedere a chi viene detenuto in maniera (ancora) non adeguata un risarcimento.
Tale ristoro può essere pecuniario per chi ha già finito espiare la pena, oppure può consistere in uno sconto di pena (1 giorno per 10 giorni di detenzione “degradante”).
Anche in questo caso la prassi applicativa ha tradito al ribasso le aspettative (legittime visto quanto indicato dalle pronunce di condanna dell’Italia), limitando il riconoscimento del risarcimento al numero di persone detenute in relazione alle dimensioni delle celle.
Dopo questa rapidissima (e necessariamente estremamente superficiale) panoramica fin qui compiuta rispetto agli strumenti giuridici con il quale si cimenta il difensore del detenuto, per chiudere, ma anche per alleggerire la lettura del contributo, provo a riportare alcuni passaggi (a volte esilaranti, a volte drammatici) di conversazioni o lettere ricevute dal carcere durante questi anni di professione:
- (detenuto senza tetto, con problemi di alcol-dipendenza) “…le devo dire che tutto sommato sto bene. Ho mangiato, ho dormito, mi sento in forma…mi sento che potrei lavorare anche…3 ore al giorno!”;
- (lettera da un detenuto accusato di reati in materia di droga con compendio accusatorio tutto basato su intercettazioni telefoniche) “avvocato, questo processo ha mille orecchie, perché hanno ascoltato miliardi di intercettazioni, ma non ha occhi, perché non hanno voluto vedere l’evidenza delle cose!… E comunque Forza Juve!!”;
- (lettera di un detenuto dopo udienza di discussione) “Gentilissimo avvocato, per prima cosa vi scrivo per dirvi che il giorno 11, il giorno del processo, sono rimasto come un cretino. Forse sentendo tutti quei nomi a cui venivo accostato, di persone che non ho mai conosciuto, sono rimasto scioccato. Avvocato sono rimasto molto contento dal discorso che gli avete fatto alla Corte. Vi faccio i miei complimenti e speriamo che otteniamo quello che abbiamo chiesto”;
- (il più classico dei telegrammi) “Avvocato ho urgente bisogno di parlare con voi”;
- (lettera di assistito in procinto di cambiare difensore) “Ciao Roberto come stai? Spero che hai passato buone ferie tu e famiglia. Ti volevo ringraziare per il lavoro svolto nei miei confronti, ma purtroppo a causa di problemi finanziari non sono in grado di mantenere la mia parola…”;
- (telegramma da un detenuto appena trasferito) “Egr. Avvocato la informo che sono stato trasferito presso la casa circondariale di … Vi prego di avvisare i miei familiari e di venirmi a trovare appena possibile”;
- (lettera da un detenuto straniero in attesa di giudizio) “…Sono convinto che mi fai uscire di qua e torno libero. Ancora grazie per tutto che hai fatto per me e se è possibile mandami una lettera per capire come andrà il mio problema, male o bene”;
- (detenuto in attesa di novità) “Avvocato qui è sempre tutto fermo”;
- (detenuto con gravi problemi di salute) “Carissimo Roberto, perdonami se ti scrivo in stampatello, ma il Parkinson male si accosta al corsivo…”;
- (recidiva) “Buongiorno Avvocato, sono Maria e come puoi vedere dall’indirizzo sulla busta mi trovo nuovamente in carcere”;
- (detenuto con problemi di tossicodipendenza e aspirazioni da avvocato) “…In attesa di sue notizie, io ripongo ancora molta fiducia e stima nei suoi confronti. Si ricordi oltretutto che c’è una sentenza di Cassazione che dice che una persona che sta facendo un programma al SERT non può essere rimessa in carcere, per lo più senza aver commesso nessun crimine!”;
- (per chiudere) “Avvocato se gentilmente potete dire a mia mamma se nel pacco che mi deve mandare lunedì può mettere: 2 pacchi di caramelle Rossana, 1 confezione di lievito, 2 felpe senza cappuccio, 1 paio di scarpe da ginnastica per correre (adidas o nike) e invece i farmi il vaglia da 100 euro me lo fa da 50”.