1. L’anno 2022 appena chiuso è stato, ragionevolmente parlano, un vero e proprio annus horribilis per il sistema penitenziario italiano posto che ben ottantaquattro detenuti hanno deciso di porre fine alla loro esistenza mediante suicidio.
Un numero tanto alto non si registrava dal 2000, anno in cui, per la prima volta, si è deciso di rendere pubblici i dati statistici su questo tragico fenomeno.[1]
Già solo questa circostanza non può non indurre l’operatore del diritto (specie coloro che operano a diretto contatto con la realtà penitenziaria) ad interrogarsi sulle cause del fenomeno e sui possibili rimedi.
Per discutere di suicidio in carcere non si può, peraltro, che prendere le mosse da considerazioni che ineriscono al suicidio come fenomeno generale e sociale.
2. Il suicidio è un evento plurideterminato, multifattoriale, legato a cause non soltanto psicologiche, ma, addirittura, anche a fattori biologici. Come tale, uno solo dei fattori predetti potrebbe, ad una analisi poco approfondita, essere individuato come causa dell’evento fatale, ma, in realtà, non si può mai parlare di stretta causalità in senso deterministico. Al più, il fattore maggiormente evidente rivestirà la natura di concausa.
Quel che accomuna tutti i gesti suicidari, ad una analisi, comunque, non approfondita, è lo psychache. il suicidio rientra nella molteplicità delle possibilità ontologiche dell’agire umano: trattasi di azione “intenzionale” paradossale, posto che il processo di significazione dell’atto a posteriori è negato dall’annullamento del proprio divenire. Il padre della branca della psichiatria che studia il fenomeno (suicidologia), E. S. Shneidman, descriveva il suicidio come un atto consapevole di autoannientamento derivante da uno stato di malessere generalizzato, lo psychache summenzionato, che sovrasta l’individuo, il quale, dinnanzi alla sofferenza in cui è imprigionato, considera il suicidio come la migliore, ove non l’unica soluzione. Lo psychache, per dirla in parole estremamente povere, è il dolore mentale o dell’anima che prova il suicida, che, giunto al termine di un processo di elevata sofferenza, decide di sopprimere proprio e soltanto quel dolore nell’unico modo che riesce ad intravvedere, vale a dire togliendosi la vita. Il suicidio, cioè, viene individuato come l’ultima risorsa a disposizione per far “tacere” il dolore dell’anima.
Il suicidio è, in sostanza, la maniera di por fine ad una esistenza divenuta intollerabile ed angosciante; peraltro, occorre sottolineare che la soglia di intollerabilità muta da soggetto a soggetto. Non va sottaciuto che, in molti casi, il suicidio giunge al termine di una esistenza connotata da altri “tentativi di fuga”, quali, solo a titolo esemplificativo, il ricorso all’uso smodato di alcool ovvero l’uso di sostanze stupefacenti.
3. Come si è detto nell’incipit di questa esposizione, nel 2022 ben 84 persone detenute si sono suicidate in carcere. Commisurando questi dati con quelli inerenti alla popolazione detenuta in generale, così come monitorata dal Ministero di Giustizia, si ha modo di verificare che nel 2022 ci sono stati circa 15,2 suicidi per 10.000 detenuti. Fuori dal carcere, nell’ambito della società libera, nel 2019 (ultimo anno per cui ci sono statistiche) in Italia i suicidi sono stati 0,71 ogni 10.000 abitanti: in altre parole, i suicidi sono circa 20 volte più diffusi in carcere rispetto alla popolazione generale.[2]
Ove il tasso della mortalità da suicidio della popolazione detenuta sia calcolato in maniera “grezza”, cioè in riferimento ad una popolazione “aperta”, si dovrebbe, a giudizio di chi scrive, tener conto della maggiore esposizione a rischio del detenuto.
È noto, infatti, sin dagli anni ’40 del secolo scorso, che l’inserimento nella comunità detentiva provoca un “processo di erosione dell’individualità” a vantaggio di un progressivo adattamento alla comunità carceraria. La prisonizzazione, in altri termini, si identifica nell’assunzione delle abitudini, degli usi e dei costumi dell’esperienza carceraria da parte dell’individuo, attraverso un processo di assimilazione da parte del detenuto delle norme e dei valori che governano ogni aspetto della vita interna al penitenziario. Il soggetto abbandona il suo modo di essere, le sue cose, il suo stile di pensiero e comportamentale: abbandona, cioè, il modo di rappresentarsi a sé stesso ed agli altri e dovrà ridefinirsi, non solo rispetto a sé stesso, ma anche verso i nuovi compagni, lasciando spazio alla “discultura” (perdita dei valori che il soggetto aveva prima dell’internamento). Accanto allo sviluppo di nuovi modi di mangiare, di vestirsi, di parlare, di lavorare, si assiste alla divulgazione ed all’assunzione di ideologie diverse, spesso di tipo malavitoso e criminale.[3] La spersonalizzazione interviene quando si assimilano valori che governano ogni aspetto della vita dell'istituzione, abbandonando in tal modo la propria identità, in quanto è operato un vero e proprio inghiottimento del singolo in una realtà talmente forte e totalizzante, che non lascia scampo.[4][ Non bisogna dimenticare, infatti, che il carcere è tipicamente una istituzione totale, vale a dire il luogo in cui gruppi di persone risiedono e convivono per un significativo periodo di tempo. Le caratteristiche distintive dell’istituzione totale sono:
- l’allontanamento e l’esclusione dal resto della società dei soggetti istituzionalizzati;
- l’organizzazione formale e centralmente amministrata del luogo e delle sue dinamiche interne;
- il controllo operato dall’alto sui soggetti – membri.
Le modalità di accesso ad una istituzione totale sono fondamentalmente due:
a) la piena identificazione di un soggetto con le intenzioni e le finalità espresse dalla situazione comune, come nel caso dei luoghi di convivenza continua come i conventi e le caserme, in cui lo status di persona istituzionalizzata è dovuto a una scelta;
b) la costrizione derivante dall'essere considerato un soggetto pericoloso per la società, come nel caso delle carceri e dei manicomi, in cui lo status di persona istituzionalizzata è di fatto imposto.
“Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, i sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo”[5]
Con l’ingresso in carcere il soggetto perde il ruolo sociale che prima aveva, viene privato dei suoi effetti personali, di uno spazio personale, della capacità di decidere autonomamente; perde il contatto quotidiano con la famiglia e con gli amici ed inizia a pensare a cosa accade loro mentre lui è lì.
E la spersonalizzazione che è la maggiore tra le sindromi da prisonizzazione porta con sé un cascame psicopatologico di notevole rilievo. Gli esperti del settore, infatti, individuano altre sindromi da prisonizzazione. Cecilia Pecchioli scrive: “…Sindrome da Innocenza: che consiste nella negazione totale o parziale della propria responsabilità rispetto al reato e/o nella percezione della pena come troppo grave in relazione al reato stesso; in genere compaiono minimizzazione, razionalizzazione, proiezione.
- Sindrome dell’Amnistia o della Grazia: consistente nella convinzione, inadeguata rispetto alla situazione reale, di ottenere una riduzione del periodo di detenzione o addirittura una cancellazione della pena.
- Sindrome del Guerriero e del Giustiziere: che si verifica allorché la speranza di uscire viene sostituita con un’affermazione narcisistica di sé attraverso il controllo violento sugli altri o identificandosi con la giustizia, diventando il detenuto stesso giudice ed esecutore delle pene.
- Sindrome Persecutoria: le particolari condizioni della vita penitenziaria possono essere facilitatrici rispetto ad un atteggiamento di sospetto e/o senso di persecuzione da parte di altri detenuti, di agenti della Polizia penitenziaria o del sistema “giustiziario” in generale.”.
Il percorso degenerativo conseguente alla prisonizzazione può sinanco giungere alla acquisizione della Sindrome di Ganser. Sempre Pecchioli spiega: “…Questa patologia è la più tipica, anche se non così frequente ed esclusiva, del regime detentivo. Si tratta di una forma dissociativa caratterizzata da amnesia per il periodo nel quale si manifestano i sintomi. Si verifica una produzione volontaria di sintomi psicologici che tende al peggioramento quando il paziente è consapevole di essere osservato. Questi sintomi sono:
- risposte approssimative, alla rovescia o di traverso;
- alterazione degli stati di coscienza, stati sognanti o crepuscolari;
- sintomi somatici o di conversione;
- allucinazioni;
- amnesia dell’episodio;
- febbre tifoide o grave trauma emotivo.”.[6]
Non è chi non veda, dunque, come, solo per tali aspetti, la popolazione detenuta sia connotata dalla presenza di soggetti maggiormente esposti a rischio rispetto alla percentuale media di quelli della popolazione libera, il che induce a porre maggiore attenzione al dato statistico, che potrebbe non risultare pienamente rispondente a realtà, ed alla necessità assolutamente incombente dell’adozione di prassi che prevengano il fenomeno dei suicidi in carcere.
4. Rimandando a quanto osservato nell’incipit di questo scritto, il suicidio potrebbe essere prevenuto (le ragioni del corsivo saranno meglio esposte nel prosieguo) soltanto ponendo in essere una politica intesa a captare i “segnali di allarme” che il potenziale suicida lancia ai suoi interlocutori (cambio di abitudini di vita, aggressività, volontà di sistemare i propri affari non ancora chiusi, sbalzi di umore, attenzione focalizzata su temi come la morte ed, in particolare, il suicidio). I segnali predittivi di rischio, peraltro, sono indici deboli, che producono molti “falsi positivi”. Tanto è vero che, secondo quanto osservato dagli esperti di settore, più basso è considerato il rischio di suicidio per determinati soggetti o per certe categorie di soggetti, più elevata è l’effettiva possibilità che a suicidarsi siano proprio quei soggetti.
La verità è che, purtroppo, il suicidio è fenomeno che, ancora oggi, non si può prevedere con certezza, né prevenire in maniera altrettanto sicura.
Vero è che, per ciò che concerne lo specifico tema dei suicidi in carcere, appare assolutamente necessario e preminente preparare il personale penitenziario tutto a riconoscere i segnali di rischio predittivo di cui si è detto, tenendo conto delle situazioni maggiormente stressanti (quali, a titolo meramente esemplificativo ma non esaustivo, il momento dell’ingresso in carcere, la ricezione di notizie cattive provenienti dalla famiglia, gli sviluppi negativi delle vicende processuali cui sono soggetti i detenuti, ma, anche, il momento della dimissione dal carcere). Tutto ciò servirà, come detto, non tanto a prevedere con certezza il rischio suicidario, quanto ad intravvedere lo stesso, ma tale capacità di forseeability, in alcuni casi, può risultare decisiva.
5. Ricercare le possibili cause dei suicidi in carcere non può prescindere dalla disamina dei dati del terribile 2022. In questo anno si sono uccisi in carcere 84 detenuti, di cui 33 erano persone con fragilità sociali o personali ovvero affette da disagi psichici o senza fissa dimora; 49 di loro si sono uccisi nei primi sei mesi di detenzione, 21 nei primi tre mesi, 15 nei primi dieci giorni, 9 nelle prime 24 ore, 5 sarebbero stati scarcerati per fine pena entro un anno, 39 avevano pena residua da espiare inferiore ai tre anni, solo 4 di loro avevano una pena residua superiore ai tre anni ed uno doveva scontare 10 anni di reclusione. Le donne che si sono suicidate sono state 5 (le donne detenute rappresentano circa il 5% della popolazione penitenziaria, o cifra leggermente inferiore, e, pertanto, il dato appena menzionato deve indurre a riflessioni amare, posto che il totale delle detenute suicidatesi nel 2022 è pari a circa il 6% dei suicidi).
Tante le cause che possono essere individuate alla base di una scelta così totalizzante e definitiva.
Cecilia Pecchioli le elenca nella maniera che segue:
- Fuga: il soggetto, attentando alla propria vita, cerca di fuggire da una situazione percepita come insopportabile;
- Lutto: il soggetto attenta alla propria vita in conseguenza della perdita (reale o immaginaria) di un effettivo elemento della sua personalità o dell’ambiente circostante;
- Castigo: il soggetto attenta alla propria vita per espiare un errore o una colpa, reale o immaginaria;
- Delitto: il soggetto attenta alla propria vita per trascinare con sé, nella morte, un’altra persona;
- Vendetta: il soggetto attenta alla propria vita sia per provocare il rimorso altrui, sia per infliggere all’altro l’infamia della comunità;
- Richiesta e ricatto: il soggetto attenta alla propria vita per far pressione sull’altro, ricattandolo;
- Sacrificio e passaggio: il soggetto attenta alla propria vita per raggiungere un valore o una condizione percepita come superiore;
- Ordalia e gioco: il soggetto attenta alla propria vita per mettere in gioco sé stesso, e organizza una sorta di “sfida” al destino, in modo tale da rimettere la scelta tra la propria vita e la morte ad un’entità metafisica.[7]
La studiosa è molto attenta nella descrizione del significato del fenomeno suicidario, delineando anche le possibili cause alla base dello stesso sottese.
Quel che è certo, a parere di chi scrive, è che, pur avendo ben presente la multifattorialità del fenomeno, quel che sembra accomunare i vari casi verificatisi, per lo meno attingendo alle fonti costituite dalle cronache locali e, pertanto, conservando un margine di dubbio sulla attendibilità delle stesse, è la disperazione per il sentirsi inghiottito in un gorgo dal quale non si vede uscita, anche quando il cosiddetto fine pena è vicino. Chi scrive ha avuto modo di prendere personale cognizione del caso di suicidio di una ragazza poco più che ventisettenne, detenuta in espiazione di condanna definitiva, che si era trovata a fare nuovo ingresso in carcere dopo essere stata affidata ad una comunità terapeutica per un programma di disintossicazione e riabilitazione sociale. La ragazza si era sottratta volontariamente al programma concordato, fuggendo dalla comunità, e la misura alternativa era stata revocata. Poco tempo prima della scarcerazione per fine pena, nel periodo prenatalizio (ed anche questo dato, a giudizio di chi scrive, è elemento assai significativo) la ragazza aveva avuto un colloquio telefonico con la madre, che le aveva comunicato la sua intenzione di non avere più rapporti con lei. Poche ore dopo la telefonata, la ragazza ha posto prematuramente fine alla sua vita.
Il tempo trascorso in carcere viene vissuto come tempo vuoto, sottratto ad ogni iniziativa che possa riempire di significato anche quella porzione di vita da trascorrere nella limitazione della libertà personale. Il lavoro cosiddetto domestico, alle dipendenze, cioè, della Amministrazione penitenziaria (addetto alle pulizie di sezione, addetto alla M. O. F., addetto alla cucina, addetto alla distribuzione del vitto) non è qualificante e viene vissuto solo come mezzo per procurarsi denaro da inviare, nella migliore delle ipotesi, ai familiari in difficoltà economiche.
La limitazione degli spazi per vivere l’affettività incide in maniera molto negativa sul dolore psichico che prova la persona detenuta (non a caso, da più parti, dopo la terribile estate del 2022, che ha fatto registrare un’accelerazione dei suicidi in carcere, si è invocata la possibilità di interventi, normativi od anche soltanto rimessi alla discrezionalità della Amministrazione penitenziaria, come previsto dai vigenti regolamenti, volti ad aumentare il numero delle telefonate che i detenuti possono fare ai loro familiari).
E, ultimo ma non ultimo, sembra possa incidere positivamente sul piano della prevenzione del fenomeno in esame l’adozione, da parte del personale penitenziario, ed in special modo della Polizia penitenziaria, di un approccio diverso, che ponga l’accento sulla necessità di una comunicazione basata su un linguaggio meno “assertivo” e più “empatico”, il che consentirebbe, a parere di chi scrive, alla Polizia penitenziaria di creare un diverso spazio di ascolto e di svolgere appieno quel ruolo di partecipazione all’opera di rieducazione del condannato, che, in una al dovere di mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti di pena, il secondo comma dell’art. 5 della legge 15 novembre 1990, n. 395, attribuisce al Corpo.
Quindi, dopo ogni evento suicidario occorre porre in essere tutta una serie di comportamenti definibili come azioni di postvention, intesi, cioè, ad evitare fenomeni di contagio psicotico. In fondo, i compagni di detenzione del suicida sono, spesso, legati allo stesso da sentimenti di comunanza, il che fa di loro dei survivors nei confronti dei quali debbono sperimentarsi appositi interventi di psicoterapia per meglio consentire “l’elaborazione del lutto”. Il suicidio induce alla contemplazione della dimensione personale e sociale del dolore. Il fenomeno, inoltre, ha anche una dimensione sociale ed il “lutto” non può che essere collettivo.
6. In conclusione, tutto l’apparato statuale impegnato nell’esecuzione della pena detentiva, in diversi ruoli e con diversi compiti, ha l’obbligo morale, prima ancora che giuridico, di impedire che il tragico record dell’anno 2022 non venga superato, dovendosi, anzi, ognuno per ciò che gli compete attivarsi per impedire, nei limiti del possibile, il ripetersi di tragici fatti come quelli dell’anno appena passato.
L’Amministrazione penitenziaria, specificamente il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha emanato apposita circolare, datata 8 agosto 2022, diretta a delineare le nuove linee della policy per la prevenzione del fenomeno dei suicidi in carcere, con particolare attenzione alla individuazione dei soggetti a rischio e degli interventi di sostegno nei confronti degli stessi.
Val la pena, peraltro, di sottolineare come un quadro operativo realmente efficace non può che prevedere anche (e soprattutto) un adeguamento dell’organico del personale, specie di quello delle Aree Giuridico – Pedagogiche degli istituti di pena, ed intese con le U. L. S. S. competenti per l’aumento del monte ore di psicologi e psichiatri che operano in istituto di pena.
Ma anche altri organi debbono intervenire, Magistratura, specie quella di Sorveglianza, ed Avvocatura.
Ed anche le amministrazioni locali giocano un ruolo fondamentale, posto che le stesse possono fornire occasioni di lavoro all’esterno, sicuramente più qualificante di quello domestico e tale da meglio riempire di contenuto il tempo dell’esecuzione della pena, ed anche di sistemazioni logistico – abitative per coloro che, pur meritevoli di misura alternativa alla detenzione, della stessa non possono fruire perché privi di stabile dimora.
Occorre, poi, che vengano istituiti i Consigli di Aiuto Sociale, organismi previsti dall’articolo 74 dell’ordinamento penitenziario con compiti precipui e fondamentali nell’assistenza penitenziaria e post – penitenziaria.
Il sistema dell’esecuzione penale deve essere informato alla rieducazione del condannato, come insegna l’art. 27, secondo comma, della Costituzione. Rieducazione non può che significare restituzione alla società di un individuo consapevole di sé, dei propri doveri, nei confronti delle istituzioni e dei consociati, e dei propri diritti. È in questa consapevolezza che matura la personalità nel “nuovo” cui deve tendere l’esecuzione della pena o, più correttamente, delle pene. Non sembra dubbio, pertanto, che ogni volta che un detenuto si suicida (i motivi che conducono all’estremo gesto sono i più numerosi, come già detto) un soggetto che poteva e doveva essere restituito alla società ed ai suoi affetti “rieducato” viene meno; con esso viene meno, in tutta evidenza, lo scopo della pena, se non altro in quel singolo caso. E, dunque, il sistema, che dovrebbe reinserire, fallisce in maniera eclatante.
È per questo motivo che chi scrive si è preso la licenza di citare, nel sottotitolo di questo testo, parafrasandole, le parole della Canzone del Maggio. Ogni volta che un detenuto muore suicida, anche se noi ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti.
[1] “Il 2022 è stato l’anno con il maggior tasso di suicidi nelle carceri italiane” v. https://servicematica.com/il-2022-e-stato-lanno-con-il-maggior-tasso-di-suicidi-nelle-carceri-italiane/
[2] Occorre, poi, tener conto della circostanza che non è dato sapere, con precisione, se la percentuale di mortalità da suicidio sia calcolata in maniera “grezza” od in altro modo. Infatti, ove il tasso percentuale di mortalità da suicidio sia un tasso “grezzo” dovrebbe essere calcolato, se rapportato ad una popolazione “aperta” (con ricambio frequente di membri che la compongono, così come il carcere), tenendo conto della media dei soggetti esposti a fattori di rischio, numero che aumenta in maniera esponenziale rispetto a quello della popolazione libera.
[3] Donald Clemmer, La comunità carceraria, in Carcere e società liberale, Giappichelli, 1997
[4] Sindrome di prisonizzazione, su scirokko.it URL
[5] Francesco Ceraudo, La sessualità in carcere: aspetti psicologici, comportamentali ed ambientali su http://www.ristretti.it/areestudio/affetti/documenti/ceraudo.htm URL
[6] Cecilia Pecchioli, La sindrome del carcerato in https://ceciliapecchioli.it/giuridica/la-sindrome-del-carcerato/ URL
[7] Cecilia Pecchioli, La sindrome del carcerato, cit.