“Allora, se fai il direttore hai due strade davanti a te: convincerti che lo stato presente sia immodificabile – ‘manca il personale, le strutture, i soldi, e si sa che può succedere di tutto …’ – o ricordare quali sono i tuoi doveri, le tue responsabilità e agire di conseguenza”
(L. Pagano, Il Direttore)
L’evoluzione del quadro normativo in materia penitenziaria, nel nostro Paese, a partire dal 1975, ci restituisce lo scenario complesso e contraddittorio di un sistema dell’esecuzione penale che, dopo aver visto l’introduzione di un ordinamento tra i più avanzati al mondo, subisce, con la nota sentenza “pilota” Torreggiani e altri c/ Italia del gennaio 2013, una condanna della Corte EDU per violazione sistematica del divieto di tortura stabilito dall’art. 3 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo; ebbene, tra il 1975 e il 2018 - l’anno degli interventi legislativi di attuazione della legge 103 del 2017 che ben si può considerare, assieme agli Stati Generali dell’esecuzione penale che la precedettero, effetto propulsivo diretto di quella spinta riformistica generata proprio dalla condanna della Corte di Strasburgo - plurimi interventi legislativi, talvolta non lontani da una certa schizofrenia normativa, hanno inciso l’ordinamento penitenziario trasformandolo, spesso in modo svilente, nel terreno di un perenne ed acerrimo confronto tra le istanze e le esigenze che un certo populismo penale e una certa deriva demagogica vorrebbero antitetiche e contrapposte, quella rieducativa e risocializzante da una parte, e quella della sicurezza sociale dall’altra.
Volgendo lo sguardo all’indietro, il nostro percorso non può che iniziare dalla riforma attuata con la Legge n. 354 del 26 luglio 1975 recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà”: la Costituzione, e - significativamente - l’articolo 27, valica i cancelli degli Istituti di pena, alla fine di un’attesa protrattasi dal 1948, periodo durante il quale rimase comunque in vigore il Regolamento “custodialistico” per gli Istituti di prevenzione e pena varato da Alfredo Rocco (R.D. 18 giugno 1931).
Si tratta, come noto, di un corpus organico di norme orientato al finalismo rieducativo della pena, pervaso dal principio del trattamento individualizzato e informato al rispetto della dignità umana, il cui manifesto può ben essere individuato nell’art. 1, co. 1, della stessa Legge n. 354 che pone al centro dell’intero sistema penitenziario l’individuo, centro di doveri ma anche di diritti il cui esercizio non può trovare ulteriore contenimento oltre a quello già fisiologicamente connesso allo stato in vinculis ed alle esigenze di ordine e sicurezza, perché l’esecuzione della pena, conformemente al senso di umanità costituzionalmente richiamato e nel rispetto della dignità delle persone ristrette, non si risolva in un surplus di sofferenza rispetto a quella derivante dalla limitazione della libertà personale imposta dalla condizione detentiva e non incida sul quel residuo di libertà risultante dall’esecuzione uti captivi che, secondo un arresto della Consulta «… è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la personalità individuale [della persona detenuta].»(Corte Cost., sent. n. 349/1993).
Nell’ottobre del 1986 viene varata la L. n. 663, c.d. “Legge Gozzini”, che si atteggia a naturale completamento della riforma del 1975, ovvero a suo più che significativo punto di approdo.
Il legislatore del 1986 cerca di completare, integrandolo, l’impalcato normativo del 1975 cercando di mediare tra l’esigenza di sicurezza e quella di progressiva e graduale proiezione extramuraria del trattamento penitenziario mediante le misure alternative alla detenzione previste dal Capo VI dell’O.p..
Secondo alcuni addetti ai lavori, la Gozzini segnò l’inizio di una storia diversa di costruzione ed apertura del carcere alla speranza, una storia che non fu quella di un’intuizione romantica o di una concessione indulgenzialistica, bensì quella di una determinata strategia di contrasto alla criminalità proprio attraverso l’introduzione delle misure alternative.
Arriviamo così alle riforme degli anni 90, figlie delle sfide lanciate allo Stato della criminalità organizzata. È la stagione dell’introduzione del reticolato di preclusioni ostative al godimento di benefici e misure alternative del c.d. “doppio binario penitenziario” (art. 4-bis, O.p.) e del regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis, co. 2, O.p..
È a partire da questo periodo storico che sembrerà ancora più lapalissiana, nel nostro Paese, la scomposta fluttuazione degli indirizzi di politica penitenziaria tra spinte liberalizzanti e pressioni restrittive: questo stato di “perenne emergenza” avvilupperà, cannibalizzandoli, lo spirito dell’Ordinamento penitenziario del 1975 e la filosofia riformatrice del 1986, e si manifesterà in una spirale normativa segnata, a seconda delle circostanze di tempo, di spazio e di colore politico, da spinte progressiste e, al contempo, da spasmi di regresso culturale nel campo dell’esecuzione penale.
È il “carcere sottosopra”, quello che si converte nel “[…] contrario di quello che esigeva la Legge, di diritti e di doveri […]”, quello in cui agli operatori sembrava di essere guidati da un “[…] timoniere (il Direttore, NdR) di una nave il cui capitano ordinava di cambiare continuamente rotta e non aveva alcuna idea di quale porto andasse cercando.” [1]
Questo brevissimo excursus delle riforme dell’Ordinamento penitenziario non può non concludersi con il riferimento all’ultimo pacchetto di riforme introdotte, a seguito dell’esperienza degli Stati Generali dell’esecuzione penale, in attuazione della Legge n. 103/2017, dai D.lgs. 122, 123 e 124 del 2018.
Non può sottacersi che un filo conduttore pervade negativamente - ad avviso di chi scrive - i molteplici interventi legislativi intervenuti nel corso degli anni: l’inadeguatezza degli investimenti effettuati.
Si è infatti erroneamente ritenuto, come in tanti altri settori oggetto di normazione, che il semplice legiferare potesse costituire attività sufficiente ad imprimere una svolta riformatrice all’intero sistema.
Tale fallace considerazione è inevitabilmente sotto gli occhi di qualsiasi osservatore.
Il sistema è, infatti, al collasso per l’inadeguatezza degli strumenti imprescindibili per far funzionare il sistema penitenziario.
In particolare, vi è carenza di personale penitenziario (Direttori, Polizia penitenziaria ed operatori del trattamento), peraltro non adeguatamente formato.
Le insufficienti strutture penitenziarie versano in critiche condizioni edilizie e non risultano progettate in linea con le disposizioni normative (mancano spazi per le attività trattamentali).
Come invertire la rotta?
Ad avviso di chi scrive, occorre procedere ad un rapido e pragmatico cambio di passo adeguatamente supportato da consistenti investimenti, senza limitarsi ad effettuare continue analisi sulle cose da fare, che potrebbero sconfinare in un mero “accanimento diagnostico”, senza qualsivoglia ricaduta concreta e benefica sulla vita detentiva.
Si deve quindi rapidamente passare all’attuazione concreta di ciò che l’Ordinamento penitenziario - da tempo - prevede, per non determinare un tradimento del dettato costituzionale e normativo.
A questo proposito è stato osservato come “Questo ‘tradimento’ ha determinato il permanere di quello stridente e dilatato iato sistematico tra individualizzazione e differenziazione trattamentale che oramai da circa un trentennio caratterizza l’impianto dell’esecuzione penale nel nostro Paese e che, nella attuale configurazione normativa, sigla il punto di maggiore frizione tra l’intervento penale e la tensione rieducativa delle pene costituzionalmente evocata. Un ‘doppio binario’ che, tramite l’erosione delle più vistose e irragionevoli deviazioni dal modello ordinario, la ‘riforma tradita aveva provato a ridurre ad Costitutionem.”[2].
È impossibile, per chi scrive, non richiamare il “bilancio” sulla Legge penitenziaria del 1975 che Franco Bricola, oggi possiamo dire profeticamente, fa già nel 1977 quando registrò, rispetto alla stessa L. 354 “un’effettività di tipo rinnegante rispetto alle decantate prospettive del nuovo ordinamento cui si accompagnano preoccupanti linee di tendenza per l’avvenire.”[3].
Ma è lo stesso Bricola ad affermare che “un’effettività di tipo ‘rinnegante’ è di per sé innegabilmente connessa ad un tipo di normativa come quella penitenziaria che riguarda uno dei settori più esposti alle varie pratiche nelle quali, nello Stato di diritto, si realizza l’illegalità ufficiale attraverso la non applicazione e la manipolazione amministrativa delle norme”, offrendoci così la sponda per introdurre la figura di chi, nei corridoi delle sezioni e dei reparti detentivi teatro della applicazione di questa produzione normativa a due facce, fatta dell’alternarsi tra riforme e controriforme, ha lavorato e lavora, perché “il carcere è il posto dove il diritto si fa carne e sangue”, secondo la celebre definizione di Valerio Onida: parliamo del Direttore di Istituto penitenziario.
Appare opportuno evidenziare che nell’Ordinamento penitenziario non esiste una norma che disciplini l’attività del Direttore penitenziario. Il più compiuto riferimento è l’art. 3 del Regolamento di esecuzione (D.P.R. 230/2000) ove si legge, altresì, al secondo comma, che il Direttore esercita i poteri di organizzazione, coordinamento e controllo delle attività dell’Istituto
È possibile distinguere sostanzialmente la sua attività in tre macro-settori: amministrazione del personale civile e di quello di Polizia penitenziaria, governo della popolazione detenuta o internata e gestione amministrativo-contabile dei servizi dell’Istituto; egli, oltre a essere il superiore gerarchico di tutto il personale d’Istituto, esercita un’essenziale funzione di dialogo col territorio di riferimento, di relazione e di apertura del carcere all’esterno, di propulsione dei progetti che coinvolgono la struttura ai fini dell’esercizio del proprio mandato istituzionale di recupero e risocializzazione della popolazione, ma anche di coordinamento e controllo di tutti gli operatori penitenziari, non solo di quelli direttamente dipendenti dall’Amministrazione penitenziaria ma anche di quelli esterni, per esempio volontari e professionisti esperti ex art. 80, O.p..
La dottrina ha fornito negli anni molteplici e suggestive rappresentazioni del Direttore d’Istituto.
Scorriamone una brevissima rassegna.
“La figura del direttore si chiarisce e si configura sostanzialmente e formalmente come quella di un sollecitatore di interessi, di interventi, di azioni e di attività molteplici.” (I. Sturniolo, Rassegna penitenziaria e criminologica, 1983).
“Il Direttore di Istituto penitenziario costituisce l’essenziale centro di guida e di governo nell’esecuzione delle sanzioni penali nonché nell’attuazione della custodia cautelare” (in Canepa–Merlo, “Manuale di Diritto Penitenziario”, Ed. Giuffrè, 2002).
“C’è un unico regista a cui è affidata la sceneggiatura della vita quotidiana del carcere: il Direttore. … Il Direttore è il vertice della piramide carceraria; da lui dipendono le risposte a tutte le domande possibili che salgono e scendono i gradini della scala gerarchica e basta una sua sigla a esentare chiunque da responsabilità. … potrebbe essere il motore del cambiamento. Invece è uno dei principali responsabili dell’immobilismo perpetuo.” (L. Castellano e D. Stasio, Diritti e Castighi, Ed. il Saggiatore, 2009).
“Qualche anno fa, in un dibattito pubblico mi capitò di essere definito un amministratore delle sofferenze … con il tempo ho riflettuto su quella frase, giungendo alla conclusione che descrivesse bene una delle percezioni, forse la prevalente, che da fuori si ha degli effetti dell’azione organizzativa portata avanti all’interno della struttura penitenziaria che, con le sue scelte, modalità, procedure, limiti e sinergie di vario genere, influenza la qualità e la sostanza della vita detentiva delle persone che le vengono affidate”. (P. Buffa, Prigioni. Amministrare la sofferenza, Ed. Gruppo Abele, 2013).
Ma chi è, oggi, il Direttore, come si muove nel complesso – e a tratti, come si è visto, estremamente contraddittorio – contesto normativo in cui opera ed esercita il suo ruolo?
Possiamo dire che il Direttore d’Istituto penitenziario sia chiamato, nell’attuale quadro istituzionale, ad esercitare una leadership che è essa stessa veicolo di quello che potrebbe essere, in potenza, un cambiamento talmente importante da mettere in discussione il rigido modello iper-razionale della vecchia burocrazia meccanica weberiana che tanto sembra aver permeato e permeare ancor oggi l’Amministrazione del sistema penitenziario italiano.
A questi “vecchi” schemi di pensiero e di azione, i nuovi Dirigenti, i Dirigenti “pluralisti”[4] della metafora organizzativa di Gareth Morgan, sostituiscono strumenti e modelli che non sono quelli tradizionali del ‘comando’ ma che si identificano con la capacità di dialogare, di mediare, di sanzionare ove occorra, di controllare e al tempo stesso di persuadere e ottenere consenso anche attraverso il riconoscimento della rappresentatività di interessi divergenti (che tanto caratterizzano la vita all’interno di un penitenziario, attraversandolo costantemente, e che si esaltano nei dualismi tipici del carcere), di dedicarsi alla difesa dell’integrità istituzionale ed alla composizione dei conflitti.
Ma, soprattutto, ad avviso di chi scrive, la centralità del Direttore d’Istituto va cercata nella sua fondamentale funzione di snodo tra il livello, il mondo, dei principi e quello delle regole[5]: è questo il campo in cui possiamo scegliere di scendere o che possiamo scegliere di guardare, immobili, dall’avamposto tetragono della nostra scrivania; è questa la sfida che possiamo – necessariamente negoziando – assumerci la responsabilità di portare avanti nei nostri Istituti e che consiste nel farsi interpreti del contesto e nell’elaborare un messaggio normativo diverso, appunto, da quello meccanico e binario delle ‘regole/norme’.
In un contesto organizzativo così peculiare come quello penitenziario, il cui livello di imprevedibilità è direttamente proporzionale alla varietà e imponderabilità del comportamento umano che quotidianamente la stessa istituzione deve gestire e governare, infatti, solo una reductio ai principi può consentire ai Direttori decisioni tempestive, scelte autonome e flessibili, adatte ad affrontare criticità improvvise con speditezza ed efficienza in cui questo processo ‘creativo’ posto in essere dal vertice organizzativo, ben lontano da una discrezionalità arbitraria e abusante, è intrinsecamente congiunto ad una legalità generale che è appunto quella della regole la somma delle quali è presupposto, giuridico e deontologico, per la realizzazione, nella attività quotidiana dei principi di cui parliamo.
È questo switch che ci consente di realizzare, nella misura più ampia possibile - compatibilmente con le possibilità giuridiche e di fatto offerte dalla materia e dal contesto, guardando agli elementi tecnici, economici, strutturali dei problemi che siamo chiamati a risolvere ed ai flussi di dati e informazioni a disposizione - nella nostra operatività quotidiana, nella pratica della vita di Istituto, il mandato che la Costituzione ha affidato all’Amministrazione penitenziaria; è principalmente attraverso questo nuovo modello decisionale che possiamo orientarci con una bussola che ci metta a disposizione dei criteri che ci consentano di comprendere quale comportamento adottare rispetto a determinate e specifiche problematiche
È qui, in questa funzione di snodo tra principi e regole che, con ogni probabilità, risiede la centralità del ruolo di Direttore di Istituto.
E la realizzazione più plasticamente compiuta e moderna di questa funzione appare, ad avviso di chi scrive, quella degli strumenti di programmazione che oggi consentono, a cascata, a tutte le strutture penitenziarie - a livello centrale/dipartimentale, territoriale/regionale e di singolo Istituto - di perseguire gli obiettivi in cui devono sostanziarsi gli indirizzi di politica giudiziaria e penitenziaria. Parliamo, rispettivamente, del Documento di progettazione generale, dei Documenti programmatici territoriali e del Progetto d’Istituto (il documento “politico” della Direzione, quello che traccia la sua rotta); è proprio nella capacità di progettare, infatti, che, con ogni probabilità, si esalta il nostro ruolo dirigenziale che, diversamente, rischierebbe di soffocare in meri tentativi di risoluzione di problemi particolari e contingenti - talvolta bagatellari - e di appiattirsi in una gestione del amministrativa del quotidiano senza afflato e senza ambizione.
È questa, forse, la più grande sfida che, confutando le rigidità di un sistema che vorremmo ormai superato e - finalmente! - contraddicendolo, ci attende.
[1] L. Pagano, Il Direttore, Milano, Zolfo, 2020, pagg. 198 e 201
[2] F. Siracusano, “Cronaca di una morte annunciata”: l’insopprimibile fascino degli automatismi preclusivi penitenziari e le linee portanti della “riforma tradita”, in Archivio Penale n. 3, settembre-ottobre 2019
[3] F. Bricola, Introduzione a Il carcere ‘riformato’, Bologna, Il Mulino, 1977, pagg. 9-10
[4] P. Buffa, Prigioni, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2013
[5] C. Sarzotti, Il campo giuridico del penitenziario: appunti per una ricostruzione, in Diritto come questione sociale, Torino, Giappichelli, 2010.