ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Qualche numero – 2. Una battaglia perduta – 3. Ritorna il ricatto sociale – 4. Un nuovo umanesimo per il lavoro?
Della tutela dei lavoratori è possibile trattare su molti versanti. Il convegno organizzato da AreaDG insieme con CGIL Liguria riannoda i fili del rapporto tra magistratura e sindacato dopo che la legislazione degli ultimi venti anni li ha visti meno impegnati che in passato in un dibattito comune, malgrado l’impegno rispettivo nel confronto sul piano giuridico ed economico in un momento di messa in discussione globale dei diritti di settore.
La discesa di questi diritti dal piano inclinato su cui sono stati collocati da almeno vent’anni ha condotto a risultati drammatici, così come testimoniano – ed è questa l’altra peculiarità dell’incontro genovese – le esperienze di giudici operanti nell’ambito penale. Lo sbigottimento manifestato dal magistrato, pure avvezzo al contatto con le vittime dei delitti più efferati, di fronte alle calamità che investono il mondo del lavoro è sintomatico di una realtà recondita, per quanto esposta allo sguardo comune.
1. Qualche numero[1]
L’occupazione generale in Italia è in crescita (+ 1,5% nel 2024 rispetto all’anno precedente; + 3,8% nell’arco 2019-24; nei primi due trimestri 2025 la tendenza è confermata, sebbene con una flessione tra aprile e giugno) grosso modo al pari di quanto avvenga in Germania, ma meno di quanto si registri in Francia o Spagna. Restiamo in ogni caso all’ultimo posto tra i Paesi U.E. per tasso di disoccupazione. Al di là di questo elemento comparativo, sono almeno cinque gli indici che illustrano la crisi italiana del lavoro.
La crescita del numero degli occupati continua a concentrarsi – attualmente all’80% - nella fascia d’età 50-64 anni; nel primo semestre 2025 questo aumento si è accentuato nel Mezzogiorno. Diminuisce per contro il tasso di disoccupazione in via progressiva nelle fasce più giovani. Aumentano gli occupati tra i laureati, ma il 35,9% dei laureati tra i 25 e i 34 anni risulta sovraistruito, adibito, cioè, a impieghi non adeguati al proprio titolo d’istruzione. Esiste quindi un problema sfaccettato di bassa occupazione giovanile, che si accompagna a un costante invecchiamento della forza lavoro e che impatta ancora più che in passato sul debito pensionistico.
L’aumento generico dell’occupazione si accompagna alla riduzione di quanto hanno smesso di cercare nuove opportunità. Ma nel 2024 è tornato a crescere il numero degli inattivi lontani dai circuiti tradizionali del mondo del lavoro. Ci si riferisce a chi abbia avuto esperienze lavorative in passato o abbia partecipato a concorsi pubblici o contattato agenzie private di intermediazione o somministrazione. Prosegue invece – e la tendenza è confermata anche dai dati più recenti (+ 104.000, pari all’1% nel trimestre aprile-giugno 2025) – la crescita di quanti hanno smesso di cercare lavoro o sono indisponibili a cercarlo. È un sintomo ulteriore della forbice crescente tra gruppi di popolazione.
Sul piano delle ore lavorate l’Italia si colloca all’estremità superiore (39 a settimana) della media UE (compresa tra 37,5 e 39). Il 10% dei lavoratori subordinati lavora però ben 49 ore a settimana; la media degli autonomi è 47. Si tratta di punte evidentemente inaccettabili, nella loro estensione, frutto di politiche industriali che nel tempo hanno reso diseguale anche il tempo lavorativo delle persone.
A fine 2024 è risultato inalterato anche il divario di genere. Le donne impiegate a tempo parziale superano per quasi il 10% gli uomini. Le lavoratrici subordinate percepiscono una retribuzione oraria mediamente inferiore del 5,6% a quella dei colleghi maschi; la differenza sale al 16% nel caso di lavoratrici laureate.
Ai quattro indici di diseguaglianza ricordati si aggiunge il dato sistemico più allarmante: la riduzione continua della produttività del lavoro in Italia. Nel periodo 2000-24 essa è scesa del 5,8%, mentre Germania, Francia e Spagna condividono una crescita compresa tra l’11 e il 12%. I lavoratori nel nostro Paese sono dunque tendenzialmente allocati in comparti a minore produttività; attualmente 1/3 dei nostri dipendenti è impiegato infatti nel settore alberghiero-ristorativo. Urgerebbe una loro ricollocazione in ambiti che garantiscano tassi più elevati in via diretta e immediata (settori tecnologici, industriali, manifatturieri) o almeno indiretta (settori dedicati a ricerca e innovazione) di produzione di ricchezza collettiva.
2. Una battaglia perduta
Non è difficile comprendere perché, nel quadro sintetizzato, le retribuzioni dei lavoratori italiani non abbiano avuto incrementi, nell’ultimo quarto di secolo, solo almeno paragonabili a quelle dei cittadini dei Paesi a economie comparabili; dopo essere calati addirittura del 7,5% tra il 2021 e il 2024, i nostri salari medi reali annui dovrebbero aumentare per la prima volta nel 2025. Il loro aumento nominale sarà tuttavia assorbito dall’inflazione prevista, sicché essi continueranno ad attestarsi intorno alla trentesima posizione della graduatoria OCSE[2].
Crescono le diseguaglianze, dunque, e non solo in Italia. Ma in Italia più che altrove manca un progetto complessivo di politiche attive, che non può essere basato su un unico strumento[3], ma che, in uno scenario sempre più composito di innovazioni e accelerazioni tecnologiche e di dinamiche antiche, richiede al contrario una rete di misure, di supporti e di soggetti.
I centri per l’impiego, così come attualmente concepiti, non sono la soluzione. Le assunzioni nell’attuale mercato del lavoro passano attraverso i percorsi più diversi e imprevedibili, spesso con soccorsi pubblici d’emergenza per aziende in crisi. Non è questa la vita per assicurare riqualificazione professionale e l’agognato bilanciamento tra “la flessibilità in uscita e la flessibilità in entrata”. Se siamo ancora qui a parlare di lavoro povero, contratti pirata e precarietà giovanile significa che stiamo attestando il fallimento di un disegno che compie ormai venticinque anni.
L’assunto secondo cui l’autonomia individuale nel contratto di lavoro sarebbe stata la chiave per ridare vitalità al mercato del lavoro[4] è venuto meno. La retorica fondata sul mito della flexicurity non ha più voce: non perché abbia messo da parte il suo strumentario argomentativo, ma perché non serve più. Il capitale e la finanza hanno vinto, il sogno dell’uguaglianza dei cittadini nel mondo del lavoro ha perduto.
3. Ritorna il ricatto sociale
Il diritto del lavoro dallo Statuto in poi si regge sulla premessa della disparità delle posizioni tra le parti del contratto. Il tentativo di riconoscere maggiori tutele ai lavori autonomi e parasubordinati, estendendovi alcune di quelle della subordinazione, nasce da una duplice valutazione: da un lato, la constatazione della debolezza di chi agisce in un mercato a concorrenzialità sfrenata e in una società con ridotta offerta di servizi (in cui l’autonomia è sovente apparenza esteriore), dall’altro lato la sopravalutazione dell’effettività dei diritti assicurati al prestatore subordinato.
Quando il part-time non è un’opzione, ma l’unica soluzione disponibile, quando la prestazione oraria è pagata 4-5 euro, quando si accettano turni settimanali comprensivi regolarmente di domenica e festivi e una sede lavorativa distante oltre un’ora dall’abitazione, quando basta un messaggio telefonico a cambiare l’organizzazione di una giornata o di una vita, quando gli ordini vengono da personaggi di cui non si comprendono ruolo e autorità, quando non esiste alcuna relazione, diretta o mediata, col datore di lavoro, le analisi economico-giuridiche non possono arrestarsi al mero dato contrattuale, che assume un significato formale, statistico, senza descrivere la realtà dell’individuo che vi è legato.
Eppure, sono queste le condizioni che il mercato oggi impone, senza margini di negoziato. Si assiste a una regressione culturale, prima che giuridica, che tollera, giustifica, persino motiva un ricatto che si pensava ormai superato e oggi si ripropone in una veste nuova, più cruda, forte della solitudine di un lavoratore che è sempre meno parte di una comunità, sia essa civica, politica o sindacale.
Si spiegano così i salari mortificanti, le professionalità generiche impiegate in produzioni che richiederebbero invece specializzazione ed esperienza, il rischio accettato talvolta senza nemmeno la consapevolezza, la rinuncia a denunciare lo sfruttamento, la vessazione, l’infortunio, la malattia.
4. Un nuovo umanesimo per il lavoro?
La domanda che ci poniamo è se ancora sia possibile credere in un lavoro a misura di uomo. Le parole che abbiamo ascoltato in questo incontro indicano una direzione. Dal segretario generale di Fillea-CGIL si è levato un monito: “torniamo a contrattare”. È rivolto non solo al sindacato, che deve riacquisire centralità nei luoghi di lavoro, ma a chiunque abbia un ruolo di responsabilità verso chi presta la propria opera, affinché non commetta l’errore di lasciarlo confinato ai margini delle scelte produttive.
Di questo tema si è occupata la professoressa Annamaria Donini, immaginando una via per ridare centralità all’individuo contro il ritorno di una logica di un arido scambio tra salario e prestazione lavorativa. Forse la strada sta nel coinvolgimento del lavoratore nell’attività dell’impresa, soluzione verosimilmente inevitabile per prevenire nuove forme di conflittualità sociale e che già conosce esperienze straniere notevoli, che, tuttavia, non appaiono immediatamente replicabili in Italia. Occorre dunque immaginazione e, prima di tutto, la volontà di ridare produttività al lavoro.
La centralità dell’essere umano passa attraverso la centralità del diritto. Un lavoro non mercificato va guardato non più soltanto con la lente dell’economista, ma anche (o, prima ancora) con quella del giurista.
Da anni gli allarmi documentati e appassionati del consigliere di Cassazione Bruno Giordano sulle cause dello sfruttamento e delle morti sul lavoro restano patrimonio di una minoranza. Il racconto commosso del consigliere del CSM Genantonio Chiarelli sulla propria esperienza giudiziaria nella vicenda simbolicamente ricondotta alla “Palazzina Laf” non suscita soltanto emozione. Se pensiamo che dietro la riforma costituzionale Meloni-Nordio v’è il disegno di una magistratura fiaccata e remissiva, sorge infatti anche lo sgomento per un futuro possibile nel quale i diritti dei più deboli non possano trovare la stessa tutela che fino a oggi hanno potuto chiedere e ottenere nelle aule giudiziarie.
Ritornano, vividi, gli ammonimenti della Corte costituzionale: di ieri, nel riconoscere, a proposito della compatibilità dell’art. 2118 c.c., il diritto al lavoro “quale fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel modo della libertà lavorativa”[5]; e di oggi, con le sentenze 194/2018 e 22/2024, le quali, nel ricondurre le astrattezze del Jobs Act ai valori e ai principi della nostra Carta fondamentale, hanno restituito centralità a una tutela giurisdizionale che sappia essere individualizzata ed effettiva.
Il testo raccoglie l’intervento introduttivo e le conclusioni svolti dall’autore al convegno “La tutela dei diritti dei lavoratori”, tenutosi a Genova il 9 ottobre 2025.
[1] I dati riportati in questo paragrafo sono tratti dai rapporti trimestrali Istat, consultati sino a quello del Secondo trimestre 2025 in www.istat.it.
[2] Cfr. l’Employment outlook 2025 dell’OCSE, in www.oecd.org.
[3] F. GIUBILEO, Politiche attive: l’offerta congrua non esiste, in www.lavoce.info, 16 novembre 2021.
[4] Cfr. P. ICHINO, Chi ha paura dell’autonomia individuale? in RGL, 1992, 1, I, 81; M. CORTI, Flessibilità e sicurezza dopo il jobs Act. La flexicurity italiana nell’ordinamento multilivello, Torino, Giappichelli, 2018, 83.
[5] Corte cost. 26 maggio 1965, n. 45.
Sommario: 1. La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2025 e l’ordinanza del Tribunale di Firenze del 15 ottobre 2025 - 2. Esiste il diritto all’aiuto al suicidio? - 3. Conclusioni.
1. La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2025 e l’ordinanza del Tribunale di Firenze del 15 ottobre 2025
Il Tribunale di Firenze, nell’ambito di un procedimento promosso in via d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c. con il quale si era chiesto dalla ricorrente accertarsi il proprio diritto alla autodeterminazione terapeutica mediante la somministrazione di un farmaco da parte di un terzo, con ordinanza del 30 aprile 2025 sollevava l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 579 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di colui che, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, attui materialmente la volontà suicidaria liberamente formatasi di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ritenga intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, quando la stessa persona, per impossibilità fisica in quanto priva dell’uso degli arti e per l’assenza di strumentazione idonea, non sia in grado di procedervi autonomamente o quando comunque le modalità alternative di autosomministrazione disponibili non siano dalla medesima accettate sulla base di una scelta motivata e non irragionevole. Evidenziava il giudice rimettente che il divieto posto dall’art. 579 c.p., nei casi in cui sussistessero tutte le garanzie previste per l’aiuto al suicidio, per l’assolutezza della sua portata, analogamente alla fattispecie di cui all’art. 580 c.p. vigente prima della sentenza n. 242 del 2019, comprimeva in modo sproporzionato il diritto di autodeterminazione del paziente e generava un’irragionevole disparità di trattamento giuridico tra le persone che siano fisicamente in grado di autosomministrarsi il farmaco e quelle deprivate di tale possibilità, e quindi in condizioni cliniche peggiori rispetto alle prime.
Con sentenza n. 132 del 2025[1] la Corte costituzionale dichiarava l’inammissibilità delle proposte questioni di costituzionalità dell’art. 579 c.p. per non avere il giudice a quo adeguatamente motivato circa la non reperibilità di strumenti di autosomministrazione del farmaco letale per persone affette, come la ricorrente, da sclerosi multipla primaria progressiva, così rendendo imprecisa la descrizione della fattispecie e quindi insufficiente la motivazione sulla rilevanza delle questioni poste. La Consulta riteneva insufficienti le indagini svolte da detto giudice, il quale si era limitato a prendere atto delle ricerche di mercato operate da una struttura operativa del Servizio sanitario regionale, ed evidenziava che le verifiche concernenti l’esistenza della strumentazione idonea e, in caso affermativo, la concreta disponibilità della stessa avrebbero richiesto il coinvolgimento di organismi specializzati operanti, col necessario grado di autorevolezza, a livello centrale, come, quanto meno, l’Istituto superiore di sanità, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale. Solo l’accertamento, a seguito di più approfondite indagini, della indisponibilità di una strumentazione compatibile con le condizioni di salute della ricorrente avrebbe consentito di scrutinare la legittimità costituzionale dell’art. 579 c.p., sulla base dei parametri indicati dalla stessa Corte nelle sentenze n. 242 del 2019 e n. 135 del 2024.
Dopo la riassunzione del giudizio il Tribunale, in esito al supplemento di istruttoria sollecitato dalla Consulta, con ordinanza del 15 ottobre 2025[2] accertava la reperibilità di strumentazioni con puntamento oculare utilizzabili in combinazione con una pompa infusionale, che sebbene non espressamente ideate per l’autosomministrazione del farmaco letale potevano essere adattate allo scopo, consentendo alle persone con gravi disabilità motorie di darsi la morte autoiniettandosi per via endovenosa detto farmaco. Rilevava altresì che la competente Commissione medica aveva verificato la sussistenza nella specie di tutte le condizioni prescritte dalle precedenti pronunzie della Corte costituzionale per dare luogo al suicidio assistito ed ordinava alla competente ASL di concludere entro 15 giorni la fase esecutiva della procedura di suicidio medicalmente assistito in conformità alle prescrizioni contenute nelle sentenze della Corte costituzionale n. 242 del 2019 e n. 132 del 2025 e quindi di mettere a disposizione della ricorrente i farmaci per la somministrazione per via endovenosa individuati dalla Commissione medica multisciplinare, di fornire la strumentazione utile alla autosomministrazione ovvero di mettere a disposizione, previa verifica della funzionalità, interazione e compatibilità dei dispositivi rispetto alle finalità della procedura e alle condizioni cliniche della paziente, una pompa infusionale con un sensore di comando attivabile mediante uno strumento di comunicazione per paziente tetraplegica, infine di mettere il farmaco e la strumentazione così individuata a disposizione del medico di fiducia, il quale avrebbe prestato la propria assistenza se e quando la ricorrente avesse deciso di procedere in tal senso.
È evidente l’impegno del giudicante nell’aderire alle indicazioni della Consulta, aprendosi alla sperimentazione di tecniche del tutto innovative, consistenti nell’utilizzazione di dispositivi diversi combinabili tra loro, ritenuti in grado di garantire l’autosomministrazione del farmaco ad un soggetto assolutamente privo della capacità di movimento, e quindi sollecitando soluzioni ancora inesplorate collegate agli sviluppi della scienza medica e della tecnologia.
Come risulta dall’esposizione che precede, la decisione di inammissibilità per difetto di motivazione della questione proposta con riguardo alla verifica della reperibilità della necessaria strumentazione aveva comportato che la Corte delle leggi evitasse di pronunciare sul merito della conformità a Costituzione dell’art. 579 c.p., della quale il giudice rimettente aveva dubitato. Dunque nessuna apertura o chiusura sul punto della punibilità senza eccezioni dell’omicidio del consenziente , ma ancora una volta una messa a fuoco delle condizioni previste per accedere al suicidio assistito, salva restando la possibilità di proporre nuovamente la questione di costituzionalità della norma disciplinante l’eutanasia attiva.
È evidente la torsione operata dalla Corte costituzionale nel ricondurre la questione all’art. 580 c.p. attraverso la sollecitazione ad approfondire la ricerca di soluzioni idonee a consentire il suicidio, piuttosto che l’omicidio della donna, e quindi la propensione a non uscire dall’area dell’aiuto al suicidio riportando la condotta del terzo nella sfera della non punibilità alle condizioni di cui alla propria sentenza n. 242 del 2019, piuttosto che entrare nel perimetro del più grave reato di omicidio del consenziente ed introdurre una analoga deroga all’applicazione dell’art. 579 c.p., dandosi carico del vulnus già emendato per l’aiuto al suicidio.
2. Esiste un diritto all’aiuto a morire?
Come è noto, una delle questioni più delicate, non chiarite in passato dalla Corte costituzionale, riguardava la configurabilità o meno del diritto, azionabile giudizialmente, ad essere aiutati a morire. Di un diritto siffatto nelle motivazioni del giudice delle leggi di cui alle pronunce n. 242 del 2019, 235 del 2024 e n. 66 del 2025 non vi è menzione, ed anzi pare doversi escludere l’esistenza, parlando esse solo di richiesta di aiuto e lasciando al medico la facoltà di esaudirla, così riducendo la possibilità di morire in modo conforme alle proprie scelte individuali tramite l’aiuto di terzi a mera libertà di esprimere una istanza non vincolante. Estremamente chiaro sul punto è il passaggio della sentenza n. 242 del 2019 in cui si afferma che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto da parte dei medici.
È appena il caso di notare che l’esclusione di un diritto di tale contenuto si contrappone nettamente al reiterato riconoscimento (già espresso nella sentenza della Corte di Cassazione n. 21748 del 2007 sul caso Englaro) del diritto del malato a rifiutare o interrompere tutte le cure, anche quando da tale rifiuto o da tale interruzione possa derivare la morte.
Peraltro nella specie la ricorrente aveva dato per scontata l’esistenza di un diritto siffatto, atteso che aveva chiesto in via cautelare che fosse accertato il proprio diritto fondamentale ad autodeterminarsi nelle scelte terapeutiche in materia di fine vita, nella sua declinazione del diritto di scegliere in modo libero, consapevole e informato, di procedere alla somministrazione del farmaco letale in modalità eteronoma e dunque da parte del personale sanitario, mentre la sua contestuale richiesta di sollevare la questione di costituzionalità dell’art. 579 c.p. era diretta ad ottenere l’affermazione di non punibilità del medico che la sostituisse nell’esercizio del suo diritto di porre termine alla propria vita.
Tenuto conto che la fattispecie in esame è ben diversa da quelle esaminate dal giudice delle leggi con le richiamate decisioni, in quanto non si tratta qui di un processo penale avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità dell’autore della condotta di aiuto, ma di un giudizio civile diretto a far valere un diritto di una persona in vita, è evidente che soltanto impostando la domanda ai sensi dell’art. 700 c.p.c. in termini di diritto a morire poteva ravvisarsi non solo la percorribilità della tutela cautelare urgente, ma anche l’incidentalità della questione di costituzionalità relativa alla norma penale ritenuta applicabile.
La Corte costituzionale ha sostanzialmente recepito tale impostazione, facendo in più punti riferimento al diritto di accedere alla procedura ed affermando nella parte conclusiva della motivazione che la persona rispetto alla quale sia stata positivamente verificata la sussistenza di tutte le condizioni indicate nella sentenza n. 242 del 2019 e precisate nella sentenza n. 135 del 2024 ha una situazione soggettiva tutelata, quale consequenziale proiezione della sua libertà di autodeterminazione, e segnatamente ha diritto di essere accompagnata dal Servizio sanitario nazionale nella procedura di suicidio medicalmente assistito, diritto che, secondo i principi che regolano il servizio, include il reperimento dei dispositivi idonei, laddove esistenti, e l’ausilio nel relativo impiego.
È evidente la rilevanza di tale enunciazione, che pur formulata nell’ambito di una pronuncia di inammissibilità per difetto di motivazione, e quindi estranea alla ratio decidendi, tende chiaramente a superare le precedenti posizioni in cui la Corte, ponendosi in una prospettiva esclusivamente penalistica, aveva depenalizzato a determinate condizioni la condotta di chi aiuta al suicidio, senza mai riconoscere un generale diritto di morire: si afferma qui per la prima volta il diritto giudizialmente azionabile di procedere al suicidio assistito, quale espressione della libertà di autodeterminazione, e si ha cura di garantirne l’effettività sancendo l’obbligo del SSN di operare per soddisfarlo.
È importante al riguardo puntualizzare che la Consulta ha affermato l’esistenza del diritto all’aiuto quale consequenziale proiezione della libertà di autodeterminazione, e non già il diritto di autodeterminazione assoluta nelle scelte di fine vita: appaiono pertanto non puntuali le critiche avanzate dai primi commentatori[3] per avere la stessa Corte prodotto uno “scivolamento” verso la violazione della dignità umana in nome dell’autodeterminazione.
Il riconoscimento di un diritto siffatto nel giudizio della Corte appare implicitamente confermato nei passaggi della motivazione in cui sono state rigettate le varie eccezioni di inammissibilità proposte dalle amministrazioni resistenti: il loro rigetto infatti muove dall’implicito presupposto che non fosse più in discussione l’esistenza di un diritto costituzionalmente garantito, ma solo le modalità di esplicazione di esso, e quindi la sua effettività.
Si era anche eccepita l’inammissibilità dell’azione cautelare in quanto funzionale unicamente alla proposizione della questione di costituzionalità, così da risolversi in una ficta lis: la Corte ha sul punto correttamente osservato che l’accertamento chiesto al Tribunale aveva ad oggetto il ruolo causale della condotta del terzo, ricondotto alla fattispecie di cui all’art. 579 c.p., norma censurata nell’incidente di costituzionalità, ma non si limitava ad esso, estendendosi a tutti gli altri requisiti di esercizio del diritto di autodeterminarsi, onde andava negato che l’oggetto del giudizio principale si esaurisse in quello dell’incidentale, con conseguente esclusione della natura fittizia dell’azione cautelare. Ha rilevato inoltre che solo per il tramite della declaratoria di incostituzionalità l’oggetto della domanda civile proposta avrebbe potuto essere conseguito: l’accertamento della illiceità penale o meno della condotta del terzo costituiva pertanto passaggio obbligato per la risoluzione della controversia di cui al giudizio principale.
E tuttavia la declaratoria della Corte sul diritto all’aiuto al suicidio, espressa nei termini innanzi riportati, offre non poche ragioni di perplessità: essa sembra tra l’altro confliggere con quanto nelle precedenti decisioni affermato dalla stessa Consulta in tema di cure palliative, lì dove aveva osservato che il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire un prerequisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente (ordinanza n. 207 del 2018 e sentenza n. 242 del 2019).
Le osservazioni che precedono non esimono dal rilievo, che anzi sollecitano, che ben più lineare sarebbe stato il percorso argomentativo della Corte se la medesima avesse preso atto dell’accertamento in fatto del giudice di merito circa la non disponibilità di strumentazioni utilizzabili dalla ricorrente ed avesse centrato il suo esame sulla conformità a Costituzione dell’art. 579 c.p., valutandone la legittimità sulla base degli stessi parametri che avevano condotto alla decisione di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. Per questa via non solo si sarebbe evitata l’accusa di trasformare la natura del giudizio costituzionale come giudizio sulla legittimità di una norma in qualcosa di diverso[4], ma si sarebbe anche posto rimedio a quella disparità di trattamento tra chi è in grado di darsi la morte con l’aiuto di terzi e chi, pur trovandosi nelle stesse condizioni richieste dal giudice delle leggi per rendere non punibile l’aiuto al suicidio, sia privo anche di quel minimo di autonomia che gli consentirebbe, premendo quel pulsante o iniettandosi quel farmaco, di percorrere l’ultimo tratto del cammino verso la fine.
3. Conclusioni
Da quanto innanzi esposto appare in evidenza la necessità e l’urgenza che il Parlamento definisca in termini chiari la situazione giuridica del soggetto che chiede di essere aiutato a morire, dandosi anche carico, in tesi, di garantire l’effettività della tutela e l’esigibilità del diritto attraverso una puntuale disciplina dell’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario, istituto sommariamente evocato dalla Corte costituzionale nelle precedenti decisioni. Sono invero evidenti le ricadute che una generalizzata utilizzazione di essa, senza alcuna indicazione sui soggetti, sui tempi e le modalità della sua manifestazione e sulla necessità di predisporre alternative all’interno della struttura sanitaria, potrebbe produrre, rimettendo sostanzialmente nelle mani dei medici l’esercizio del diritto. Purtroppo il testo unificato dei vari disegni di legge attualmente all’esame delle Commissioni Giustizia e Sanità del Senato si distingue per le sue scelte al ribasso rispetto alle indicazioni della Corte delle leggi: esso non solo si muove su un piano incompatibile con il riconoscimento del diritto ad essere aiutato a morire, ma finisce anche per escludere il SSN dal procedimento per accedere al suicidio medicalmente assistito, così lasciando al settore privato la gestione di un settore così delicato.
Eppure la Corte costituzionale aveva riconosciuto al SSN il compito di accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali di liceità dell’accesso alla procedura, oltre che di verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze (così la sentenza n. 242 del 2019), in tal modo attribuendo alla struttura pubblica un ruolo primario e indefettibile.
[1] Annotata da BECCHI, Un commento alla sentenza n. 132 della Corte costituzionale nel giudizio di legittimità dell’art. 579 del Codice penale e una proposta alternativa, in forumcostituzionale.it, 20 agosto 2025; FARRI e AIROMA, Fine vita: la Corte costituzionale smentisce se stessa? in centrostudilivatino.it, 13 agosto 2025.
[2] Per una prima analisi del provvedimento v. GALLO, Fine vita, competenze e Costituzione: nota all’ordinanza del tribunale di Firenze nel caso “ Libera”, in giurisprudenzapenale.com, 22 ottobre 2025.
[3] Cfr. PIERGENTILI, RUGGERI e VARI, Verso l’introduzione dell’eutanasia ope iudicis? (Note minime a margine di un ‘abnorme questione di legittimità costituzionale) , in dirittifondamentali.it, 29 maggio 2025.
[4] Così FARRI e AIROMA, loc.cit.
L’interdittiva antimafia e il tempo “vuoto” tra controllo giudiziario e aggiornamento prefettizio (nota a TAR Calabria, Reggio Calabria, ord. 9 ottobre 2024, n 646).
di Renato Rolli e Vincenzo De Sensi
Sommario: 1. Premessa. 2 – La vicenda sottesa all’ordinanza e l’emersione del vulnus normativo - 3. Il controllo giudiziario antimafia: genesi, natura e tensioni sistemiche – 4. Il bilanciamento costituzionale e la questione di legittimità – 5. La rilevanza della questione e la motivazione del rinvio alla Corte Costituzionale– 6. Conclusioni.
1. Premessa
L’ordinanza n. 646/2024 del Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria, Sezione Staccata di Reggio Calabria, interviene in un contesto segnato da particolare complessità e delicatezza, caratterizzato da un profondo dialogo che coinvolge il giudice amministrativo, la normativa antimafia e i principi costituzionali. Ciò che, a modesto avviso di chi scrive, induce a ritenere quale necessario segnalare il provvedimento poc'anzi menzionato non è la sola circostanza che i giudici, con tale ordinanza, abbiano proceduto ad un’approfondita disamina dei rapporti insistenti tra l’informazione interdittiva antimafia e la misura del controllo giudiziario ex art. 34-bis d.lgs. 159/2011 (cosiddetto Codice Antimafia), ma soprattutto il fatto che con il provvedimento oggetto della presente nota sia stata sollevata, in via incidentale, una questione di legittimità costituzionale destinata ad avere un impatto sistemico.
Come si vedrà meglio a breve, l’elemento di maggiore rilievo che emerge dall’analisi dell’ordinanza oggetto del presente commento risiede, infatti, nell’individuazione di un vero e proprio “vuoto normativo” nel sistema della prevenzione antimafia. Tale “carenza normativa” si riferisce alla fase intercorrente tra la cessazione del controllo giudiziario, disposto dal Tribunale Sezione Misure di Prevenzione, e la conclusione del procedimento di aggiornamento prefettizio in materia di informazione antimafia ex art. 91, co. 5, cod. antimafia. Si tratta di un segmento temporale che, seppur potenzialmente di breve durata, riveste un ruolo cruciale da un punto di vista giuridico. In tale frangente, infatti, si determina l’automatica reviviscenza dell’interdittiva antimafia e, quindi, degli effetti della medesima, circostanza che ha quale conseguenza la perdita dei requisiti di moralità nonché di capacità contrattuale dell’impresa. Tale effetto viene a prodursi a prescindere dall’esito positivo con cui si è concluso il percorso “bonificante”, al quale si è dato seguito in ragione dell’adozione della misura di self cleaning, svoltosi sotto l’egida del tribunale penale.
L’assenza di un’esplicita previsione normativa in virtù della quale sarebbe consentito “congelare” gli effetti dell’interdittiva anche oltre il momento in cui vi è la scadenza della misura di vigilanza prescrittiva e, dunque, fino alla conclusione del procedimento di aggiornamento di cui l’art. 91, co. 5, d.lgs. 159/2011, è, secondo la posizione che emerge dall’ordinanza in esame, fonte di plurime criticità costituzionali nei termini, principalmente, del principio di uguaglianza, di quello di proporzionalità, della libertà d’impresa, del giusto procedimento e dell’effettività della tutela giurisdizionale. Da qui la decisione dei giudici amministrativi, i quali con tale pronuncia hanno fatto emergere, in maniera pienamente consapevole, la sussistenza di un delicato equilibrio tra la prevenzione delle infiltrazioni mafiose e la salvaguardia dei diritti fondamentali degli operatori economici, di rimettere la questione all’illustrissima Corte Costituzionale.
L’intervento del giudice calabrese, così come è facile comprendere alla luce dei numerosi interventi giurisprudenziali sul tema, si colloca in un contesto temporale caratterizzato da un singolare fermento interpretativo e legislativo in materia di interdittive antimafia. All’uopo emerge chiaramente l’esigenza di interrogarsi sempre di più sul rapporto insistente tra la legalità sostanziale e la tutela dei valori economici, al fine di giungere nel prevedere un’azione amministrativa che sia non solo efficace, ma anche più giusta e ragionevole.
2. La vicenda sottesa all’ordinanza e l’emersione del vulnus normativo
La vicenda oggetto dell’ordinanza del TAR Calabria pubblicata in data 28 ottobre 2024, prende le mosse dall’impugnazione proposta avverso l’informazione interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura di Reggio Calabria nei confronti di una società operante nel settore edilizio ed attiva su tutto il territorio nazionale. La società ricorrente, con sentenza emessa dai giudici amministrativi del Tribunale calabrese, si vede accolto il proprio ricorso. Tuttavia, avverso tale atto, con cui era stato disposto l’annullamento del provvedimento interdittivo, propone appello, dinanzi il Consiglio di Stato, l’Amministrazione dell’Interno. I giudici di palazzo Spada, quindi, accogliendo la domanda cautelare proposta, con ordinanza sospendono la sentenza impugnata con il conseguente ripristino degli effetti della misura interdittiva.
A seguito di ciò, la società ricorrente, in persona del suo legale rappresentante e per mezzo dei propri legali, richiede, ai sensi dell’art. 34-bis, co. 6, d.lgs. 159/2011, l’applicazione del controllo giudiziario[1].
A seguito della richiesta della società, il Tribunale di Reggio Calabria, Sezione Misure di Prevenzione, accertata la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge e sentiti i soggetti di cui al comma sesto del succitato articolo, ha accolto tale richiesta e, in conseguenza di ciò, disposto la misura del controllo giudiziario. Con l’ammissione della società alla misura di self cleaning di cui si discute, si è dato avvio ad un percorso di vigilanza in cui la società è stata sottoposta ad un’attività di monitoraggio svolta dall’amministratore giudiziario nominato dal Tribunale, al quale è attribuito il compito di supervisionare l’andamento societario e di accertare la trasparenza con cui opera la società medesima. D'altronde, è stato a più riprese precisato, tanto dalla Suprema Corte di Cassazione quanto dalla giurisprudenza amministrativa, che il controllo giudiziario ha quale obiettivo quello di mitigare gli effetti della prognosi infiltrativa e di effettuare una “bonifica” dell’impresa in odore di mafia [2]. In altri termini, tale misura ha quale finalità quella di affrancare la società da eventuali condizionamenti mafiosi, così come espresso dalla “Commissione Fiandaca”. Infatti, il controllo giudiziario ha quale obiettivo quello di consentire il “disinquinamento” mafioso delle società e di, al contempo, garantire una “continuità produttiva e gestionale” delle attività economiche [3].
Dalla trattazione dei fatti di causa, così come descritti nella sentenza oggetto della presente nota, emerge che, in conformità a quella che ormai si presenta come la giurisprudenza amministrativa maggioritaria [4], il Tribunale, accolta favorevolmente la domanda di ammissione al controllo giudiziario, con ordinanza disponeva il giudizio di appello in attesa della conclusione del controllo giudiziario.
La società, quindi, dal momento che aveva richiesto ed ottenuto la misura di sorveglianza prescrittiva del controllo giudiziario, presenta istanza di iscrizione nella c.d. white list [5] alla Prefettura, la quale, verificato che non sussistano le cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 D.lgs. n. 159/2011 nonché, accertata l’assenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa ex art. 84 comma 3 Codice Antimafia, ha provveduto all’iscrizione della società nel suddetto elenco [6].
In ragione di ciò, la società prendeva parte alla procedura di gara bandita dall’Anas Toscana avete ad oggetto l’esecuzione di una serie di opere di attraversamento, risultandone vincitrice e procedendo, così, alla sottoscrizione del contratto d’appalto.
Tuttavia, a causa dell’inversione di tendenza manifestatasi in seno all’Adunanza Plenaria in materia di rapporti tra il giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia e il c.d. controllo giudiziario [7], il Consiglio di Stato giungeva nell’accogliere l’appello proposto dal Ministero dell’Interno e riformava integralmente la sentenza emessa in primo grado giungendo, quindi, nel confermare la preesistenza dei presupposti dell’informazione interdittiva antimafia.
Questa circostanza aveva indotto la stazione appaltante a dar avvio al procedimento per la risoluzione del contratto d’appalto dal momento che il ritorno in auge dell’informativa prefettizia di tipo interdittivo è causa di perdita dei requisiti di cui l’art. 80 del d.lgs. 50/2016 e determina, altresì, un’incapacità a contrarre [8].
La piena efficacia del contratto, però, veniva confermata fino al 15.07.2024, cioè fino alla data in cui era stato prorogato il controllo giudiziario.
Scaduta la misura di cui all’art. 34-bis cod. antimafia ed in ragion della reviviscenza degli effetti dell’interdittiva, il Direttore dei Lavori ordinava all’impresa di interrompere i lavori dal momento che la sussistenza di un’informazione interdittiva antimafia è causa di esclusione automatica dalla gara.
La società, dunque, veniva a trovarsi in una situazione paradossale. Nonostante il controllo giudiziario si fosse concluso con esito favorevole, in attesa che la Prefettura procedesse con l’aggiornamento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia, l’interdittiva originaria aveva riacquisito immediata efficacia. In ragione di ciò, come anzidetto, veniva a prodursi la perdita della capacità contrattuale dell’impresa, la quale ha subito la risoluzione del contratto d’appalto nonostante l’esito positivo del controllo giudiziario.
In ragione del ricorso proposto dalla società ricorrente si instaura un nuovo giudizio dinanzi al TAR. Con il motivo principale la società denuncia: violazione e falsa applicazione degli artt. 34 bis, 92 e 94 bis del d.lgs. n. 159/2011; violazione della ratio e della finalità dell’istituto del controllo giudiziario e dell’art. 42 Cost.; violazione dei principi di buon andamento, ragionevolezza, proporzionalità e non contraddizione; nonché, eccesso di potere.
Nell’ordinanza n. 646/2024, il TAR Calabria affronta, con un rigore sistematico degno di nota, il nodo interpretativo e costituzionale che insiste sulla disciplina dell’art. 34-bis, co. 7, del d.lgs. 159/2011. In particolare, i giudici amministrativi affermano che, in ragione di una carente previsione normativa espressa che regolamenti la questione della sospensione degli effetti dell’informazione interdittiva antimafia nel frangente temporale intercorrente tra la conclusione del controllo giudiziario e la rivalutazione da parte del Prefetto di cui il più volte citato art. 91, co. 5, cod. antimafia, non si rende possibile una interpretazione in chiave costituzionale dell’art. 34-bis, co. 7, cod. antimafia.
In altro modo, in ragione di un dato testuale così chiaro, incisivo e fermo [9], è preclusa qualsivoglia tipo di interpretazione che abbia quale fine quello di estendere l’effetto della sospensione dell’informazione interdittiva antimafia fino al momento in cui vi sarà la cessazione della misura prescrittiva del controllo giudiziario.
Dunque, in virtù dell’attuale formulazione legislativa, la cessazione del controllo giudiziario determina automaticamente la reviviscenza dell’interdittiva antimafia anche quando il procedimento di aggiornamento prefettizio è ancora in corso.
All’uopo, si ritiene opportuno richiamare la precisazione che i giudici amministrativi fanno in tema di controllo giudiziario con esito favorevole.
Secondo un consolidato indirizzo interpretativo, pertanto, l’esito positivo del controllo giudiziario non determina sic et simpliciter il superamento della misura interdittiva. Secondo i giudici del TAR del Lazio, infatti, “il giudizio in ordine alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione mafiosa, che è pertanto rimesso al Prefetto, il quale, una volta intervenuta la misura del controllo, potrebbe valutare l’esito positivo dello stesso, quale sopravvenienza rilevante ai fini dell’aggiornamento e della rivalutazione dell’interdittiva prefettizia, pur restando libero di confermare il provvedimento interdittivo originario”. [10]
In altri termini i giudici di Palazzo Spada si sono pronunciati affermando come “Le favorevoli conclusioni dell’amministratore giudiziario, e la conseguente chiusura del controllo giudiziario non sono … assimilabili ad un giudicato di accertamento”. [11]
Da tale meccanismo normativo, osservano i giudici amministrativi, emerge un palese contrasto con i principi cardine della ragionevolezza, proporzionalità e buona amministrazione. La mancata previsione della sospensione degli effetti dell’interdittiva anche in riferimento al lasso temporale successivo alla cessazione del controllo giudiziario e antecedente alla definizione del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co.5, cod. antimafia, produce effetti del tutto irragionevoli e, in alcuni casi, anche controproducenti rispetto ai fini perseguiti dalla legislazione in materia di prevenzione antimafia.
Infatti, la società, per quanto abbia dimostrato, alla luce di quanto emerge dalla relazione del controllore, di essersi concretamente ed in maniera effettiva dissociata da ogni influenza criminale grazie alla “funzione bonificante” che svolge il controllo giudiziario, si trova nuovamente ad essere esposta ai paralizzanti effetti prodotti dalla misura interdittiva. In altri termini, se, nonostante la bonifica dei condizionamenti, prodottasi quale effetto realizzato dall’istituto del controllo giudiziario, si facessero ricadere su un’impresa, evidentemente ormai bonificata, gli stessi pregiudizi che il ricorso al controllo giudiziario, quale misura di prevenzione collaborativa, tende scongiurare [12] verrebbe vanificata la funzione stessa della misura prevista all’art. 34-bis cod. antimafia.
Appare evidente come un tale assetto normativo disincentiva il ricorso alla misura del controllo giudiziario che si pone, oltre che come strumento di bonifica, anche come mezzo di prevenzione dell’infiltrazione mafiosa in gradi di operare senza causare un’eccessiva e ingiustificata limitazione della libertà d’impresa e del diritto al lavoro [13].
I giudici amministrativi, con l’ordinanza oggetto della presente nota, sollevano questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, co. 7, nella parte in cui non prevede la sospensione degli effetti dell’interdittiva antimafia nella fase ricompresa tra la cessazione del controllo giudiziario e la definizione del procedimento di rivalutazione da parte della Prefettura del quadro istruttorio da cui emergevano gli elementi in forza dei quali l’autorità prefettizia ha paventato un condizionamento mafioso.
Le norme costituzionali invocate dai giudici amministrativi e che, sempre secondo gli stessi, sono contrastate dal co.7 dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 159/2011, sono gli articoli 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117, co. 1. Cost., quest’ultimo per violazione degli artt. 6, 8 e 13 della CEDU e art.1 del primo protocollo addizionale.
Il giudice rimettente ritiene, in conclusione, che una tale lacuna normativa non possa essere in alcun modo colmata facendo ricorso all’interpretazione senza che ciò comporti un’eccessiva, e per questo non consentita, manipolazione della stessa disposizione normativa. Da tale circostanza, quindi, emerge la necessità, per i giudici amministrativi, di rimettere la questione alla Corte Costituzionale, la quale è chiamata a valutare la conformità alle disposizioni costituzionali della norma nella parte in cui non disciplina in alcun modo la fase che si pone post conclusione del controllo giudiziario.
3. Il controllo giudiziario antimafia: genesi, natura e tensioni sistemiche
Con il decorrere degli anni la criminalità organizzata di stampo mafioso è mutata, si è passati da una mafia che faceva della violenza il suo principale strumento di affermazione ad una mafia perlopiù silente che opera nel mercato legale camuffandosi dietro realtà imprenditoriali apparentemente sane.
Nel corso degli ultimi anni il legislatore si è posto come obiettivo quello di impedire o neutralizzare l’infiltrazione mafiosa senza necessariamente ricorrere all’adozione di misure interdittive, al fine, così, di tutelare la sicurezza e la trasparenza negli appalti pubblici e al contempo evitare un eccessivo sacrificio del diritto costituzionale d’impresa.
Il chiaro obiettivo del legislatore è stato, quindi, quello di abbandonare quell’approccio tradizionale di tipo repressivo-punitivo e introdurre strumenti di vigilanza e preventivi capaci di operare a seconda del grado di infiltrazione mafiosa, garantendo così una bonifica dell’attività imprenditoriale interessata senza che questo comporti la sottoposizione dell’impresa ad una condizione tale che le impedisce di proseguire nello svolgimento delle sue attività [14].
Da quanto fin qui detto, si comprende la ratio della legge n. 161 del 17 ottobre 2017 con cui è stato riformato l’impianto del Codice Antimafia. Con al disposizione appena citata, infatti, sono stati introdotti nuovi strumenti di tipo non ablativo al fine di arginare in maniera più efficace il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nel tessuto economico-imprenditoriale.
Senza timore di smentita alcuna è possibile affermare che la novità di maggiore rilievo è quella attinente all’introduzione dell’art. 34-bis e, dunque, dell’istituto del controllo giudiziario.
Con l’istituto del controllo giudiziario, ne è un esempio la vicenda che attiene l’ordinanza oggetto della presente nota, è stata riconosciuta al soggetto attinto da un provvedimento interditttivo antimafia la facoltà di presentare un’istanza al Tribunale e richiedere l’applicazione del controllo giudiziario. La ragione per cui un’impresa dovrebbe agire in tal senso sta nel fatto che con l’applicazione della misura più tenue, prevista dall’art. 34-bis, la società conserva la propria capacità operativa e, dunque, la possibilità di contrarre nonché la libertà di operare sul mercato.
Con la riforma del 2017, dunque, il legislatore ha voluto predisporre un sistema a carattere gradualistico, con la previsione di diversi istituti a cui è possibile ricorrere in ragione del livello di contaminazione mafiosa che contraddistingue il soggetto economico.
In particolare, il controllo giudiziario rappresenta tra questi lo strumento meno invasivo dal momento che, attraverso il ricorso allo stesso, non si determina alcun spossessamento gestorio in capo all’impresa interessata.
Tale misura, dunque, si applica ad imprese che si trovano in una condizione di assoggettamento ovvero che agevolano consorterie malavitose e che, attraverso tale strumento, possono essere “bonificate” dalla contaminazione mafiosa. Imprese, a cui viene consentito di proseguire nello svolgimento della loro attività economica così da permettere che vengano garantiti quei livelli occupazionali che invece verrebbero meno nel caso in cui si procedesse con l’applicazione di misure ben più invasive.
In virtù di quanto disposto dall’art. 34-bis del Cod. antimafia [15], vi sono due diverse forme di controllo giudiziario. La prima, meno invasiva, consiste nell’imporre un obbligo di comunicazione concernente una serie di atti tassativamente previsti al co. 2 lettera a) [16] della succitata disposizione normativa.
La seconda forma di controllo giudiziario, invece, viene usualmente definita come la più invasiva. All’uopo, la lettera b) [17] dell’articolo in esame prevede che venga nominato un amministratore giudiziario, il quale è chiamato a riferire in maniera periodica gli esiti raggiunti a seguito dell’esercizio dell’attività di controllo.
Da un’analisi, seppur veloce ma necessaria ai fini di una corretta comprensione della sentenza in commento, dell’istituto del controllo giudiziario emerge come la funzione primaria di tale strumento si quella di “bonificare” l’impresa da qualsivoglia tipo di condizionamento mafioso.
L’elemento di principale novità di tale istituto è quello di garantire la continuità operativa del soggetto economico al fine di meglio tutelare la libertà d’iniziativa economica nonché il diritto al lavoro, valori entrambi costituzionalmente garantiti (rispettivamente artt. 41 e 4 Cost.).
Il controllo giudiziario di cui fin qui si è detto è quello comunemente noto come controllo giudiziario ordinario. Difatti, l’art. 34-bis del Cod. antimafia, prevede un’ulteriore forma di controllo richiedibile da parte di quelle imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva.
Ai sensi del co. 6 dell’art. 34-bis, infatti, le imprese già interdette che abbiano proceduto nel proporre impugnazione avverso il provvedimento prefettizio hanno la possibilità di richiedere l’applicazione della misura del controllo giudiziario [18]. I presupposti per muovere tale richiesta al Tribunale competente per le misure di prevenzione sono quindi: l’emissione nei confronti della società richiedente di un provvedimento interdittivo antimafia, l’atto di impugnazione dello stesso e il parere emesso dal procuratore della DDA competente e quello del prefetto che ha emesso l’atto interdittivo. Questo “tipo” di controllo giudiziario è quello comunemente noto come controllo giudiziario volontario o a “domanda dell’impresa”.
Nella sua struttura applicativa, quindi, il controllo giudiziario è connotato da una durata limitata durante la quale l’impresa conserva la propria operatività sotto la supervisione di amministratori giudiziari. La sua finalità, dunque, è favorire, mediante un affiancamento temporaneo, il recupero della piena affidabilità dell’impresa e la successiva riammissione nel circuito degli appalti pubblici, previa rivalutazione da parte dell’autorità prefettizia.
Importante questione oggetto di dibattito e su cui, a modesto avviso di chi scrive è necessario, seppure brevemente, soffermarsi al fine di una piena comprensione del tema oggetto della ordinanza in nota, è quella circa la sussistenza di un rapporto di autonomia o di un sistema di interferenze tra il procedimento prevenzionale a cui si dà seguito con la richiesta del controllo giudiziario volontario, ex art. 34-bis, co.6, e il procedimento che si svolge dinanzi al G.A. in ragione dell’avvenuto ricorso avverso l’interdittiva antimafia.
La più recente giurisprudenza amministrativa [19] è tesa a sostenere che l’applicazione del controllo giudiziario non produce la sola sospensione degli effetti del provvedimento interdittivo ma anche la sospensione del giudizio che si svolge dinanzi al G.A. avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento prefettizio. In tal modo, si giungerebbe nell’evitare una sovrapposizione tra il giudizio che si svolge in sede penale e quello che ha luogo in sede amministrativa.
Tale posizione, è quella a cui giungono i giudici che sono stati chiamati ad intervenire sulla vicenda in esame. Infatti, così come emerge dai fatti di causa, in considerazione della pendenza della misura del controllo giudiziario vi era stata la conseguente sospensione degli effetti dell’interdittiva e del giudizio d’appello, anch’esso sospeso in via conseguenziale in attesa della conclusione del controllo giudiziario.
Il problema si sposterebbe, quindi, al momento in cui cessa il periodo di controllo giudiziario. Alla luce del dato testuale sembrerebbe che, a seguito della conclusione del controllo giudiziario, la misura interdittiva riprenderebbe ad essere efficace. Tuttavia, l’opinione maggiormente condivisibile è quella secondo cui il Prefetto dovrebbe obbligatoriamente procedere ad una rivalutazione del quadro indiziario per poi, se ne sussistono i presupposti, confermare la misura interdittiva.
Questo tema rappresenta lo snodo in cui si innesta una delle principali tensioni sistemiche in materia di interdittiva antimafia e che viene evidenziato nell’ordinanza in commento. Di ciò è causa la mancanza di una previsione che regolamenti espressamente e in maniera chiara la questione inerente gli effetti del’'interdittiva nella fase successiva alla cessazione del controllo giudiziario e prima che venga definito il procedimento di aggiornamento di cui l’art. 91, co. 5, Codice antimafia.
A sommesso avviso di chi scrive, l’assenza di una disciplina esplicita sul punto rischia di vanificare il percorso di risanamento a cui si tende con il ricorso allo strumento del controllo giudiziario, disincentivando, al contempo, l’utilizzo dello stesso istituto in quanto appare aver perso la sua originaria funzione.
Non può ritenersi in dubbio, quindi, che tale disfunzione normativa viene a porsi in frizione con lo spirito collaborativo che ispira l’istituto del controllo giudiziario, il quale, al fine di poter assolvere effettivamente la funzione che le è riconosciuta, necessita di un apparato normativo coerente e in grado di assicurare continuità nonché coerenza tra le varie fasi che scandiscono l’intervento pubblico sull’impresa.
4. Il bilanciamento costituzionale e la questione di legittimità
L’ordinanza n. 646/2024 si colloca in un punto nevralgico di quella braca del diritto amministrativo cosiddetto antimafia. In particolare, ci si riferisce a quel terreno di incontro, che diviene poi di scontro, tra le misure interdittive e i principi costituzionali. Storicamente le informazioni antimafia, infatti, sono appare come istituti non facilmente ammissibili alla luce dell’ordinamento costituzionale [20].
Il TAR Calabria, sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, d.lgs. 159/2011, contesta, innanzitutto, la compatibilità del meccanismo normativo vigente con una serie di principi sanciti della Carta Fondamentale.
L’effetto automatico di reviviscenza dell’interdittiva antimafia al termine del controllo giudiziario – pur in assenza di fatti nuovi e in pendenza del procedimento di aggiornamento – comporta, secondo i giudici remittenti, un’irragionevole compressione del diritto d’impresa, vanificando la funzione riabilitativa della misura giudiziaria.
In particolare, viene in rilievo la lesione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), nella misura in cui si produce una disparità di trattamento tra imprese che subiscono un trattamento peggiorativo rispetto a chi non abbia mai intrapreso il percorso collaborativo del controllo giudiziario.
De iure condito, il principio di uguaglianza verrebbe violato dal momento che situazioni sostanzialmente identiche soggiacciono ad un trattamento disomogeneo. Infatti, l’impresa sottoposta a controllo giudiziario viene a trovarsi in una condizione deteriore rispetto all’impresa, anch’essa interdetta e quindi in identica condizione di fatto, che, non essendo ricorsa allo strumento di cui l’art. 34-bis del Cod. antimafia, è nella condizione di poter immediatamente contrastare il provvedimento prefettizio con gli strumenti previsti dalla disciplina in materia.
La condizione di disparità, per meglio precisare, viene a crearsi dal momento che la società che non agisce nelle forme del controllo giudiziario c.d. preventivo ha la possibilità di proporre ricorso dinanzi al TAR competente e richiedere la tutela cautelare che, se accolta, consentirà di inibire con efficacia retroattiva [21] gli effetti dell’interdittiva, tra cui quelli che producono la condizione di incapacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione. L’impresa che ha richiesto ed ottenuto l’applicazione della misura del controllo giudiziario, invece, subirà inevitabilmente gli effetti pregiudizievoli prodotti dalla reviviscenza dell’interdittiva antimafia a seguito della cessazione del controllo giudiziario. Tali effetti permarranno fino alla conclusione del procedimento di riesame dal momento che il provvedimento è stato, come nel caso in esame, oggetto di un giudicato negativo emesso dai giudici di primo grado e quindi non è ulteriormente impugnabile né tantomeno è possibile richiedere nuovamente l’ammissione al controllo giudiziario difettando il presupposto dell’avvenuta contestazione in sede giurisdizionale dell’atto che dispone la misura interdittiva.
L’impresa che ha richiesto ed ottenuto il controllo giudiziario viene quindi a trovarsi in un limbo, a subire irrimediabilmente il ripristino degli effetti di un’interdittiva non più sospesa per sopravvenuta cessazione del controllo giudiziario con la conseguente automatica risoluzione del rapporto contrattuale già posti in essere, come nel caso in esame, o la inevitabile esclusione dalla procedura di gara in fase di aggiudicazione.
All’uopo, è incontestabile il dato secondo cui per evitare la concretizzazione di una così palese condizione di disuguaglianza sarebbe necessario estendere l’effetto sospensivo fino alla definizione da parte della Prefettura del procedimento di aggiornamento.
A ciò si aggiunge la violazione degli artt. 24 e 113 Cost., per l’inefficacia, o per meglio dire assoluta assenza, della tutela giurisdizionale che viene svuotata di significato se, alla cessazione della misura “curativa” e temporanea del controllo, segue il ripristino automatico degli effetti della misura interdittiva.
Così come emerge dall’analisi dell’attuale disciplina in materia, infatti, è preclusa la possibilità di ricorrere a qualsivoglia tipo di rimedio contro il ripristino degli effetti dell’interdittiva. Causa di ciò è la mancata previsione di strumenti difensivi di contrasto al fenomeno dell’automatica reviviscenza dell’interdittiva, il ché produce un del tutto ingiustificato sacrificio del diritto di difesa di cui l’art. 24 Cost. nonché di quello alla tutela giurisdizionale ex art. 113 della Costituzione.
Secondo i giudici remittenti, inoltre, tale situazione si pone in condizione di “insanabile attrito” con gli artt. 13, 8 e 6 CEDU. Rispetto al primo [22], infatti, esso sarebbe violato del momento che non verrebbe garantito un ricorso attraverso cui ottenere l’esame di una “doglianza difendibile”, così come definita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo [23]. A cascata, dunque, sono violati l’art. 8 CEDU in materia di rispetto della vita umana e familiare; il 6, il quale riconosce il diritto ad un equo processo; e l’art. 1 del primo protocollo addizionale alla Convenzione che dispone in materia di tutela di beni privati e proprietà.
Ancora, l’art. 41 Cost. è richiamato quale parametro violato, nella parte in cui l’automatismo normativo incide irragionevolmente sulla libertà economica, determinando una paralisi dell’attività imprenditoriale che può ritenersi tanto più ingiustificata nel caso, come quello in esame, in cui il controllo giudiziario abbia avuto esito favorevole. Infatti, per quanto ciò non possa determinare sic et simpliciter il superamento dell’interdittiva, non può revocarsi in dubbio che per la definizione del procedimento di aggiornamento debba esservi la previa acquisizione della relazione predisposta dal controllore giudiziario a conclusione dell’attività svolta [24].
Il TAR rinvia infine all’art. 97 Cost., nella sua proiezione di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa, evidenziando come l’attuale sistema incentivi un’applicazione meramente formale delle misure del tutto scollegata da quelli che sono i criteri che devono sempre guidare l’azione pubblica, vale a dire quelli di ragionevolezza, logicità e proporzionalità.
È del tutto illogico e irragionevole, infatti, non prevedere, quindi negare, che gli effetti dell’interdittiva rimangano sospesi anche dopo l’avvenuta cessazione del controllo giudiziario e, dunque, per tutto il frangente temporale necessario per la definizione del procedimento di aggiornamento. Tale affermazione dei giudici remittenti, a sommesso avviso di chi scrive del tutto condivisibile, emerge in ragione di quelle che sono le finalità, quindi la ratio stessa, dell’istituto del controllo giudiziario che, come più ampiamente già detto, ha la funzione di consentire all’impresa interdetta di “liberarsi” di ciò che aveva indotto l’autorità prefettizia a ritenere sussistente una permeabilità ed ingerenza mafiosa.
Così come ampiamente affermato dai giudici amministrativi, la funzione principale dello strumento di cui si è chiamati inevitabilmente a discorrere, in ragione del tema affrontato nell’ordinanza in commento, è quella di risanare l’impresa e consentire alla medesima di proseguire nello svolgimento, seppur in maniera “assistita”, delle sue attività economiche [25].
All’uopo, la finalità della misura del controllo giudiziario è, dunque, profondamente differente da quella della informativa antimafia. Quest’ultima, infatti, ha quale scopo quello di prevenire il rischio di infiltrazione mafiosa e giammai quello di risanare l’impresa interessata [26].
Esplicitando meglio ciò in cui risiede quello che i giudici definiscono come “un vero e proprio corto circuito normativo”, è innegabile che l’applicazione della normativa, così come avvenuto nel caso di specie, è causa di una ingiustificata violazione di quelle stesse finalità che hanno indotto il legislatore ad introdurre lo strumento del controllo giudiziario. L’interruzione della sospensione della misura interdittiva, e dunque la reviviscenza dei suoi effetti tra cui quello dell’incapacità di contrarre o di proseguire nei rapporti con la PA, espone l’impresa a tutte quelle conseguenze pregiudizievoli che erano state scongiurate con il ricorso alla misura del controllo giudiziario. L’irragionevolezza della disciplina sottoposta al vaglio dei giudici della Corte Costituzionale si rende palese soprattutto quando gli effetti dell’interdittiva cessano di essere sospesi nonostante l’esito favorevole del controllo che, seppur non in termini di assoluta certezza, è un elemento che preannuncia un possibile positivo apprezzamento del Prefetto il quale potrà emettere un’informativa di tipo liberatorio in ragione del fatto che si sia effettivamente concretizzata quella funzione bonificante tipica della misura di cui all’art. 34.bis Cod. antimafia.
Tuttavia, nonostante la successiva emissione di un provvedimento di informazione liberatoria, la reviviscenza dell’interdittiva e dei sui effetti può produrre conseguenze per l’impresa a volte irrimediabili. La risoluzione di contratti in corso di esecuzione o l’impossibilità di partecipare a bandi di gara, a causa della conclusione del periodo di sottoposizione a controllo giudiziario, sono elementi che incidono sulla capacità economico-produttiva dell’impresa, sulla sua forza lavoro e sull’esistenza della stessa. Da ciò, quindi, emerge chiaramente anche la violazione dei canoni di proporzionalità, economicità ed efficienza, tutti riconducibili nella cornice di cui l’art. 97 Cost.
Il bilanciamento a cui è chiamata la Corte costituzionale non si esaurisce, dunque, nel confronto tra libertà economiche e tutela dell’ordine pubblico. L’intervento del giudice amministrativo rimettente, infatti, chiama in causa la necessità di una coerenza sistemica tra i diversi strumenti dell’ordinamento. Non è ragionevole, né tantomeno coerente con i principi costituzionali, che il controllo giudiziario venga neutralizzato, poiché di questo si tratta empiricamente, nella sua efficacia a causa dell’inerzia della procedura di aggiornamento prefettizio.
Si tratta dunque di una questione che tocca il cuore stesso del modello di prevenzione antimafia così come previsto dal legislatore; un sistema che deve sapersi fondare non solo su automatismi sanzionatori ma anche su logiche di incentivo alla legalità in coerenza con i principi di giustizia sostanziale e finalismo rieducativo, che si proiettano – mutatis mutandis – anche nel contesto delle misure amministrative ad effetto afflittivo.
5. La rilevanza della questione e la motivazione del rinvio alla Corte Costituzionale
Nel segmento conclusivo dell’ordinanza n. 646/2024, i giudici del TAR Calabria articolano con notevole accuratezza il percorso argomentativo volto a sorreggere la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011. Si tratta, com’è noto, della parte dell’ordinanza in cui la funzione del giudice amministrativo non è più (o meglio, non è solo) quella di decidere il caso concreto, bensì è anche quella di operare una valutazione riguardo la necessità e l’adeguatezza del sindacato costituzionale.
Sotto il profilo della rilevanza, infatti, i giudici affermano in modo netto e chiaro che il giudizio principale non può proseguire senza una pronuncia della Corte costituzionale, atteso che l’efficacia dell’interdittiva antimafia oggetto di gravame risulta fondamentalmente ricollegata all’effetto di “reviviscenza automatica” previsto dalla norma censurata. In mancanza di una declaratoria di illegittimità costituzionale, l’effetto preclusivo dell’interdittiva permane e impedisce al Collegio di adottare una decisione favorevole all’impresa ricorrente. Non vi è, dunque, alcun margine per una interpretazione costituzionalmente orientata che superi il dato testuale.
La motivazione della non manifesta infondatezza si dispiega, invece, lungo due direttrici fondamentali. Da un lato, si sottolinea l’irragionevolezza del meccanismo in esame, nella parte in cui prevede la riespansione dell’interdittiva nonostante l’esito positivo con cui si è concluso il controllo giudiziario pur in mancanza di fatti nuovi e in pendenza di aggiornamento. La misura, per come oggi strutturata, rischia infatti di punire proprio quelle imprese che hanno intrapreso un percorso di risanamento introducendo indirettamente un effetto dissuasivo e disincentivante che si pone in tensione con la finalità stessa della norma.
Dall’altro lato, i giudici evidenziano il vulnus che il sistema produce rispetto ai principi di libertà economica (art. 41 Cost.), si uguaglianza (art. 3 Cost.), nonché del diritto di difesa (artt. 24 e 113 Cost.) e del buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.). L’assenza di una rivalutazione concreta da parte dell’amministrazione e la mancanza di un termine certo entro cui definire il procedimento di aggiornamento dell’interdittiva determinano una forma di sospensione indeterminata della capacità giuridica dell’impresa, in contrasto con i più elementari principi del giusto procedimento.
Interessante, infine, il richiamo al diritto sovranazionale. Questo ulteriore profilo argomentativo conferisce alla questione di legittimità un respiro più ampio, in linea con la tendenza attuale della Corte costituzionale ad accogliere istanze di dialogo tra fonti, soprattutto laddove la legislazione interna si dimostri incapace di bilanciare equamente le esigenze di sicurezza e le libertà fondamentali.
L’ordinanza del TAR Calabria si presta dunque a costituire un momento di riflessione sull’effettiva razionalità del sistema delle misure di prevenzione amministrativa e sul ruolo che il diritto può giocare nel rendere coerente l’azione di contrasto alla criminalità con i principi dello Stato di diritto. Il punto critico individuato – la reviviscenza automatica dell’interdittiva alla cessazione del controllo giudiziario, in assenza di una previa rivalutazione prefettizia – mostra, nella sua rigidità, una frizione profonda con l’obiettivo riabilitativo che sorregge il modello collaborativo delineato dall’art. 34-bis.
A fronte di tale disallineamento, due sono le vie che si aprono all’interprete e al legislatore:
Una prima via è ermeneutica: si potrebbe valorizzare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, ritenendo che la reviviscenza dell’interdittiva sia condizionata all’effettivo completamento del procedimento prefettizio di riesame, da svolgersi entro un termine ragionevole, secondo i principi di buona fede e affidamento.
Una seconda via è legislativa: sarebbe auspicabile l’introduzione di una disciplina espressa che regoli la fase post-controllo, prevedendo che la cessazione della misura giudiziaria non comporti automaticamente il ripristino dell’interdittiva, ma che sia necessaria una nuova valutazione prefettizia motivata.
In tale prospettiva, i giudici calabresi si fanno carico anche di prospettare l’eventualità che la Corte costituzionale, ove ritenga fondata la questione, possa intervenire con una pronuncia di tipo additivo. Ciò avverrebbe attraverso l’introduzione, nella disposizione censurata, di una clausola che subordini la reviviscenza dell’interdittiva alla previa valutazione prefettizia, cioè che si estenda la sospensione dell’efficacia dell’interdittiva sino alla definizione del più volte richiamato procedimento di aggiornamento.
6. Conclusioni
L’ordinanza n. 646/2024 del TAR Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria, si colloca come un punto di snodo fondamentale nel dibattito giuridico relativo all’architettura delle misure di prevenzione antimafia e, in particolare, al meccanismo del controllo giudiziario ex art. 34-bis del d.lgs. 159/2011.
Il Collegio calabrese, con un impianto argomentativo articolato e sistemico, ha evidenziato come l’attuale formulazione normativa – nella parte in cui non prevede una sospensione degli effetti dell’interdittiva nel segmento temporale successivo alla cessazione del controllo giudiziario e antecedente alla conclusione del procedimento di aggiornamento prefettizio – determini una compressione irragionevole di una serie di diritti fondamentali dell’impresa che è stata sottoposta a controllo giudiziario.
La questione di legittimità costituzionale sollevata si fonda su un rilievo tecnico-giuridico di estrema rilevanza. L’automatismo della reviviscenza dell’interdittiva è infatti scollegato da qualsiasi valutazione prefettizia aggiornata all’esito del controllo giudiziario, elemento questo che, a sommesso avviso di chi scrive, rende inefficace l’intero percorso di risanamento incentivato dal ricorso alla misura del controllo giudiziario. Si tratta, dunque, di una criticità che incide direttamente sul principio di proporzionalità, sul diritto al lavoro, sulla libertà d’impresa e sull’effettività della tutela giurisdizionale, oltre a disincentivare, in modo contro-finalistico, il ricorso a un istituto che, per sua natura e per come evidenziato sopra, è collaborativo e bonificante.
In tale prospettiva, quindi, l’ordinanza in commento sollecita un intervento della Corte costituzionale che, secondo l’auspicio del Collegio remittente, potrebbe pronunciarsi in via additiva, introducendo una clausola che subordini l’effetto reviviscente dell’interdittiva a una previa rivalutazione prefettizia. Si tratterebbe, in tal senso, di un intervento che riequilibra l’intero sistema, senza compromettere la finalità preventiva, ma garantendo una maggiore aderenza ai principi di ragionevolezza, proporzionalità e giusto procedimento.
L’analisi della questione affrontata dal TAR Calabria richiama la necessità, più volte avvertita anche nella dottrina e nella giurisprudenza di merito, di superare un approccio rigidamente formalistico al diritto amministrativo antimafia. È tempo di concepire le misure di prevenzione non più come strumenti implacabili, ma come strumenti funzionali al risanamento e alla legalità sostanziale, in linea con la vocazione rieducativa che si proietta, ormai in modo trasversale, su ogni settore dell’ordinamento.
In conclusione, l’ordinanza n. 646/2024 non si limita a sollevare una questione interpretativa, ma si fa portavoce di una riflessione sistemica più ampia, che chiama in causa la tenuta complessiva della disciplina in materia di prevenzione amministrativa rispetto ai parametri costituzionali e sovrannazionali. Essa impone tanto all’interprete, quanto al legislatore e al giudice delle leggi di interrogarsi nuovamente sull’equilibrio tra sicurezza e libertà, tra difesa dell’ordine pubblico e promozione dell’iniziativa economica legittima, nella consapevolezza che ogni automatismo normativo, se privo di margini valutativi e motivazionali, rischia di generare diseguaglianze sistemiche e lesioni non emendabili di diritti fondamentali.
[1] In materia di controllo giudiziario volontario si rinvia a C. VISCONTI, Il controllo giudiziario “volontario”, in G. Amarelli e S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto all’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Torino, Giappichelli Editore, 2019.
[2] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 28 gennaio 2021, n. 24678; nonché Cass. pen. Sez. II. 31 maggio 2021, n. 21412. Per quanto attiene la giurisprudenza amministrativa, invece: cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2024, n. 3266; nonché Cons. Stato, Sez. III, 25 luglio 2022, n. 6566.
[3] Cfr. G. FIANDACA, Proposte di intervento in materia di criminalità organizzata, in www.penale-contemporaneo.it., 12 febbraio 2014.
[4] Sul punto si veda Cons. Stato, sez. III, 10 maggio 2019, ord. n. 4873; e 10 luglio 2019, ord. n. 5482.
[5] Definibili come un elenco istituito presso le Prefetture al quale devono registrarsi le imprese che lavorano nei settori considerati ad alto rischio di infiltrazione mafiosa.
[6] Per un approfondimento sul tema delle c.d. white list, si veda V. MONTARULI, La White list nella legislazione antimafia, in diritto.it, 11/2012; E. BORBONE, White list: quadro attuale e possibili sviluppi, Altalex, 11/2012.
[7] Sul punto si richiami per tutti la decisione del Cons. Stato, A.P., 13 febbraio 2023, n.7, Pres. Maruotti, Est. Franconiero, in cui si legge che: ”la pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione né del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva, né delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese previste dall’art. 32, comma 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, per il completamento dell’esecuzione dei contratti stipulati con la pubblica amministrazione dall’impresa destinataria un’informazione antimafia interdittiva”.
[8] Sul tema degli effetti dell’interdittiva antimafia si veda M. MAZZAMMUTO, Profili di documentazione amministrativa antimafia, in Giustamm, 2016.
[9] Il primo periodo del co.7, art. 34-bis, cod. antimafia recita: “Il provvedimento che dispone l'amministrazione giudiziaria prevista dall'articolo 34 o il controllo giudiziario ai sensi del presente articolo sospende il termine di cui all'articolo 92, comma 2, nonché gli effetti di cui all'articolo 94”.
[10] Tar Lazio sent. n.15775 del 2023.
[11] Cons. St., sez. II, 16 giugno 2022, n. 4912.
[12] Sulla funzione delle misure di prevenzione collaborativa si rimanda a V. M. VULCANO, Le modifiche del decreto-legge n. 152/2021 al codice antimafia: il legislatore punta sulla prevenzione amministrativa e sulla compliance 231 ma non risolve i nodi del controllo giudiziario, in Giurisprudenza penale, 2021.
[13] R. DI MARIA, A. AMORE, Effetti “inibitori” della interdittiva antimafia e bilanciamento fra principi costituzionali: alcune questioni di legittimità dedotte in una recente ordinanza di rimessione alla Consulta, in Federalismi, n. 12, 2021.
[14] D’ANGELO G., VARRASO G., Il decreto legge n. 152/2021 e le modifiche in tema di documentazione antimafia e prevenzione collaborativa, in Sistema Penale, 1° agosto 202.
[15] Introdotto dall’art. 11 comma 1, legge n. 161/2017.
[16] La lettera a) dell’art. 24-bis del Cod. Antimafia prevede: “Il controllo giudiziario è adottato dal tribunale per un periodo non inferiore a un anno e non superiore a tre anni. Con il provvedimento che lo dispone, il tribunale può:
a) imporre nei confronti di chi ha la proprietà, l'uso o l'amministrazione dei beni e delle aziende di cui al comma 1 l'obbligo di comunicare al questore e al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, ovvero del luogo in cui si trovano i beni se si tratta di residenti all'estero, ovvero della sede legale se si tratta di un'impresa, gli atti di disposizione, di acquisto o di pagamento effettuati, gli atti di pagamento ricevuti, gli incarichi professionali, di amministrazione o di gestione fiduciaria ricevuti e gli altri atti o contratti indicati dal tribunale, di valore non inferiore a euro 7.000 o del valore superiore stabilito dal tribunale in relazione al reddito della persona o al patrimonio e al volume d'affari dell'impresa. Tale obbligo deve essere assolto entro dieci giorni dal compimento dell'atto e comunque entro il 31 gennaio di ogni anno per gli atti posti in essere nell'anno precedente;”.
[17] La disposizione normativa richiamata prevede letteralmente: “nominare un giudice delegato e un amministratore giudiziario, il quale riferisce periodicamente, almeno bimestralmente, gli esiti dell'attività di controllo al giudice delegato e al pubblico ministero”.
[18] Per completezza si riporta il testo del co.6, il quale recita: “Le imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva ai sensi dell'articolo 84, comma 4, che abbiano proposto l'impugnazione del relativo provvedimento del prefetto, possono richiedere al tribunale competente per le misure di prevenzione l'applicazione del controllo giudiziario di cui alla lettera b) del comma 2 del presente articolo. Il tribunale, sentiti il procuratore distrettuale competente, il prefetto che ha adottato l'informazione antimafia interdittiva nonché gli altri soggetti interessati, nelle forme di cui all'articolo 127 del codice di procedura penale, accoglie la richiesta, ove ne ricorrano i presupposti; successivamente, anche sulla base della relazione dell'amministratore giudiziario, può revocare il controllo giudiziario e, ove ne ricorrano i presupposti, disporre altre misure di prevenzione patrimoniali.”
[19] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 10 maggio 2019, ord. n. 4873; e 10 luglio 2019, ord. n. 5482.
[20] Per un approfondimento sul punto si rimanda a: M. CERESA GASTALDO, Misure di prevenzione e pericolosità sociale: l'incolmabile deficit di legalità della giurisdizione senza fatto, in Diritto penale contemporaneo, 2015; F.G. SCOCA, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in Giustamm, 2018.
[21] Sul punto TAR Reggio Calabria, sent. n. 789/2021.
[22] L’art. 13 CEDU recita: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.
[23] Boyle e Rice contro Regno Unito, nonché Maurice contro Francia.
[24] Sul punto Cons. St., sent. n. 4912/2022.
[25] In tema Cons. St., sent. n. 2515/2024.
[26] I giudici di Palazzo Spada con sentenza n. 7 del 2023 hanno precisato che “l’interdittiva svolge la sua funzione preventiva rispetto alla penetrazione nell’economia delle organizzazioni di stampo mafioso”.
La decisione emessa il 17 ottobre 2025 dalla Pre‑Trial Chamber I della Corte Penale Internazionale (ICC‑01/11‑209) segna un precedente di rilievo nei rapporti tra l’Italia e la Corte.
La Camera, presieduta dalla giudice Iulia Antoanella Motoc e composta dalle giudici Reine Adélaïde Sophie Alapini‑Gansou e María del Socorro Flores Liera, ha dichiarato l’Italia « non conforme ai sensi dell'articolo 87(7) dello Statuto di Romanon» per non aver dato esecuzione alla richiesta di arresto e consegna del cittadino libico Osama Elmasry, detto Almasri Njeem. L’episodio trae origine dall’arresto avvenuto a Torino il 19 gennaio 2025, seguito, pochi giorni dopo, dal rimpatrio del sospettato in Libia.
Secondo la Corte, tale condotta «ha impedito alla Corte di esercitare un potere importante e una funzione fondamentale, vale a dire garantire la presenza dell'indagato dinanzi alla Corte». Il documento ricostruisce in modo dettagliato la sequenza procedurale: il mandato di cattura era stato emesso il 18 gennaio 2025 nell’ambito della “Situation in Libya”, aperta nel 2011 su deferimento del Consiglio di Sicurezza ONU. L’Italia, destinataria della richiesta di arresto provvisorio ai sensi dell’articolo 92 dello Statuto, aveva proceduto all’arresto ma, anziché avviare la procedura di consegna, aveva disposto il ritorno del soggetto a Tripoli senza previa consultazione con la Corte. La Camera sottolinea che «l'Italia non ha comunicato alla Corte né le sue preoccupazioni né eventuali ostacoli giuridici interni, prima di restituire il signor Njeem», in violazione dell’articolo 97 dello Statuto, che impone allo Stato richiesto di consultarsi con la Corte «senza ritardo» qualora emergano difficoltà nell’esecuzione della cooperazione.
La decisione evidenzia inoltre che le autorità italiane, dopo la comunicazione iniziale dell’arresto, «hanno cessato la loro comunicazione con la Corte poco dopo averle notificato l'arresto del signor Njeem». Tale silenzio, accompagnato dall’immediata esecuzione del volo di rimpatrio, ha reso impossibile qualsiasi interlocuzione istituzionale. Particolare rilievo assume la parte motivazionale in cui la Camera respinge le giustificazioni addotte dal Governo italiano, fondate sulla legge n. 237 del 2012 di attuazione dello Statuto di Roma. La Corte afferma con chiarezza che «L’Italia è tenuta a garantire che tale legislazione sia in vigore e che eventuali ostacoli previsti dal diritto interno siano gestiti dall’Italia e non giustifichino la non conformità.». In altri termini, il principio di supremazia degli obblighi internazionali impedisce di invocare lacune o vincoli del diritto interno per sottrarsi all’esecuzione di un mandato internazionale. La difesa italiana aveva inoltre richiamato un presunto «richiesta concorrente di estradizione» da parte della Libia, sostenendo che ciò avrebbe imposto al Ministro della Giustizia di valutare la priorità tra le richieste.
La Camera ha tuttavia constatato che «L’Italia non ha notificato alla Corte di aver ricevuto una richiesta dalla Libia, in quanto era tenuta a farlo», e che nessuna delle procedure previste dall’articolo 90 dello Statuto era stata rispettata. La decisione affronta poi l’argomento secondo cui il mandato d’arresto conteneva errori materiali; la Corte precisa che si trattava solo di «piccoli errori di stesura che non hanno influito sulla validità del mandato di arresto» e che l’Italia «non può, in buona fede, mettere in discussione la validità di una decisione emessa in conformità al quadro giuridico della Corte semplicemente perché la decisione non è stata unanime».
Un ulteriore profilo riguarda la decisione del Ministro dell’Interno di procedere all’espulsione per motivi di sicurezza. L’Italia ha affermato che il provvedimento era «necessario per motivi di ordine pubblico e di sicurezza nazionale» e ha evocato un possibile stato di necessità ai sensi dell’articolo 25 del progetto sugli illeciti internazionali della Commissione di diritto internazionale. La Corte ha respinto tale argomento, osservando che «le questioni di diritto interno non possono essere invocate da uno Stato Parte per giustificare la non conformità». Nel punto 54, la Camera formula la propria conclusione con parole di singolare severità: «L'Italia non ha agito con la dovuta diligenza e non ha utilizzato tutti i mezzi ragionevoli a sua disposizione per ottemperare alla richiesta di cooperazione». Tale omissione – aggiunge la Corte – ha avuto l’effetto di impedire all’organo giudicante di esercitare le funzioni previste dallo Statuto. Pur avendo accertato la violazione, la maggioranza dei giudici (con un’opinione parzialmente dissenziente della giudice Flores Liera) ha scelto di non procedere immediatamente al deferimento della questione all’Assemblea degli Stati Parte o al Consiglio di Sicurezza, «ritenendo opportuno ricevere ulteriori informazioni su eventuali procedimenti nazionali rilevanti riguardanti la mancata conformità dell'Italia». La decisione evidenzia anche un elemento di prudenza istituzionale: la Camera riconosce che si trattava della «È la prima volta che la Corte chiede all'Italia di collaborare all'arresto e alla consegna di un sospettato.», circostanza che, pur non costituendo una giustificazione, viene considerata nella valutazione della gravità dell’inadempimento.
Da un punto di vista sistematico, la pronuncia riafferma l’obbligo generale di cooperazione sancito dagli articoli 86 e 87 dello Statuto e consolida la giurisprudenza della Corte in materia di non‑compliance, già delineata nei casi *Al‑Bashir* (Sudan/Jordan) e *Kenyatta* (Kenya).
La Camera ribadisce che l’inadempimento di uno Stato Parte non è un mero infortunio procedurale, ma una condotta che mina la capacità stessa della Corte di assicurare l’effettività della giustizia penale internazionale. Dal punto di vista del diritto interno, la vicenda pone interrogativi rilevanti sulla compatibilità tra la disciplina italiana di cooperazione giudiziaria e le previsioni dello Statuto di Roma. La Corte d’Appello di Roma, nel dichiarare illegittimo l’arresto, aveva di fatto negato efficacia diretta al mandato della CPI, ma la decisione dell’Aia rovescia tale impostazione, riaffermando la primazia dell’obbligo di cooperazione su qualsiasi riserva di giurisdizione interna.
Sotto il profilo politico‑istituzionale, la decisione assume una portata simbolica notevole: per la prima volta, uno Stato fondatore dello Statuto di Roma viene formalmente dichiarato inadempiente ai sensi dell’articolo 87 (7). La Corte chiede all’Italia un riesame complessivo delle proprie procedure interne e un rafforzamento della formazione e del coordinamento tra Ministeri e autorità giudiziarie nell’attuazione delle richieste della Corte. Come sottolineato nella parte finale del provvedimento, «L'Italia non ha rispettato i suoi obblighi internazionali ai sensi dello Statuto, impedendo alla Corte di esercitare le sue funzioni e i suoi poteri ai sensi dello Statuto.».
Si tratta di un monito chiaro: la credibilità del sistema di giustizia internazionale dipende dalla leale collaborazione degli Stati che ne fanno parte. Nel suo insieme, la decisione del 17 ottobre 2025 rappresenta dunque un precedente di grande rilevanza giuridica e diplomatica. Essa ribadisce che la cooperazione con la Corte Penale Internazionale non è una facoltà politica, bensì un obbligo giuridico vincolante, la cui violazione comporta una responsabilità internazionale piena. Per l’Italia, Paese da sempre in prima linea nella promozione del diritto internazionale penale, questa vicenda impone una riflessione profonda sul rapporto tra sovranità nazionale, legalità costituzionale e obblighi internazionali di giustizia.
Per questi motivi la Corte penale internazionale ha invitato l'Italia a fornire informazioni su eventuali procedimenti interni pertinenti al presente caso, nonché un'indicazione dell'impatto che tali procedimenti potrebbero avere sulla futura cooperazione dell'Italia con la Corte nell'esecuzione delle richieste di cooperazione per l'arresto e la consegna di sospettati, entro venerdì 31 ottobre 2025.
La decisione emessa il 17 ottobre 2025 dalla Pre‑Trial Chamber I della Corte Penale Internazionale (ICC‑01/11‑209) si può scaricare in calce o a questo link
Sul tema, si vedano anche:
Un volo di stato chiude il caso Almasri? di Lavinia Parsi
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga di Marcello Basilico
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA di Marcello Basilico
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Terza puntata: Io sono questo di Marcello Basilico
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Quarta puntata: Toccata e... volo in Europa di Marcello Basilico
Io, Osama Elmasry "Njeem" - Quinta puntata: Balbettare sul diritto internazionale di Marcello Basilico
L’articolo analizza la recente sentenza del Consiglio di Stato n. 7839/2025, che ha accolto il ricorso proposto da ASGI e Cittadinanzattiva contro il Decreto del Ministro dell’Interno del 4 marzo 2024, relativo al capitolato d’appalto per la gestione dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). La decisione, in continuità con la sentenza della Corte Costituzionale n. 96/2025, rappresenta un passo significativo nel riconoscimento dei limiti costituzionali e dei diritti fondamentali delle persone trattenute nelle strutture in oggetto.
La pronuncia evidenzia, in particolare, le gravi criticità nella tutela della salute e nella prevenzione del rischio suicidario all’interno dei CPR, richiamando l’obbligo dell’amministrazione di conformarsi alla Direttiva Lamorgese del 2022 e di garantire valutazioni mediche adeguate e continue. I dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e del Comitato europeo per la prevenzione della tortura confermano un quadro di sofferenza psicofisica e disomogeneità applicativa sul territorio nazionale.
Il Consiglio di Stato riafferma che, pur non essendo strutture penitenziarie, i CPR devono assicurare il pieno rispetto dei principi costituzionali di tutela della libertà personale (art. 13 Cost.) e del diritto alla salute (art. 32 Cost.). La decisione, unitamente al monito contenuto nella citata pronuncia della Corte Costituzionale, sottolinea l’importanza di una riforma sostanziale del sistema di detenzione amministrativa in Italia e segna un momento di svolta nel rapporto tra politiche migratorie e diritti fondamentali, soprattutto in un quadro politico europeo che sta ampliando la possibilità di prevedere il trattenimento amministrativo anche nel processo di esternalizzazione delle frontiere.
Sommario: 1. La pronuncia 96/2025 della Corte Costituzionale – 2. Il Capitolato d’appalto per i CPR e la Direttiva Lamorgese – 3. La Sentenza del Consiglio di Stato n. 07839/2025 - Le osservazioni del Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti e del Comitato Europeo per la Prevenzione della tortura – 5. Implicazioni e prime risposte giurisprudenziali.
1. La pronuncia 96/2025 della Corte Costituzionale
Nel corso di quest’anno sono già due le pronunce che affrontano tematiche delicate legate alla detenzione amministrativa nei Centri Per il Rimpatrio.
La prima è la sentenza n. 96/2025 della Corte Costituzionale[1], richiamata anche dal Consiglio di Stato nel provvedimento qui analizzato, la quale, è stata interpellata dalle ordinanze del Giudice di pace di Roma che “espongono che il trattenimento nel CPR determina uno stato di restrizione della libertà personale secondo modalità e procedimenti non disciplinati da una normativa di rango primario, in violazione della riserva assoluta di legge prevista dall’art. 13, secondo comma, Cost., della riserva rinforzata di legge di cui all’art. 10, secondo comma, Cost., nonché del principio di eguaglianza (art. 3 Cost., unitamente agli artt. 2, 13, 24, 25, primo comma, e 111, primo comma, Cost.)... Inoltre, la legge ometterebbe di individuare l’autorità giudiziaria competente al controllo di legalità dei «modi» di privazione della libertà personale, parimenti oggetto di riserva assoluta di legge, con ripercussioni sul diritto di difesa e sulla tutela del diritto alla salute dei soggetti in stato di detenzione amministrativa e sul principio di eguaglianza, ove la situazione degli stranieri trattenuti sia comparata con quella dei detenuti, cui si applica la disciplina dell’ordinamento penitenziario.”.
La Corte Costituzionale pur dichiarando le questioni di legittimità costituzionale inammissibili per la necessità di un intervento legislativo organico, ha riconosciuto un vulnus nella gestione dei CPR, stabilendo che l'attuale disciplina non rispetta la riserva assoluta di legge (Art. 13 Cost.), in quanto le modalità concrete di restrizione della libertà sono demandate a regolamenti e direttive ministeriali.
La Corte, dunque, nell’affermare l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata afferma: "È appena il caso di rilevare che il richiamo nell’art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, all’art. 21, comma 8, del d.P.R. n. 394 del 1999 non soddisfa, in alcun modo, la riserva assoluta di cui all’art. 13, secondo comma, Cost. La disposizione richiamata, infatti, non solo non è un atto con forza e valore di legge, ma a sua volta prevede che «[l]e disposizioni occorrenti per la regolare convivenza all’interno del centro, comprese le misure strettamente indispensabili per garantire l’incolumità delle persone, nonché quelle occorrenti per disciplinare le modalità di erogazione dei servizi predisposti per le esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale e le modalità di svolgimento delle visite, sono adottate dal prefetto, sentito il questore, in attuazione delle disposizioni recate nel decreto di costituzione del centro e delle direttive impartite dal Ministro dell’interno per assicurare la rispondenza delle modalità di trattenimento alle finalità di cui all’articolo 14, comma 2, del testo unico». Rimettendo, pertanto, pressoché l’intera disciplina della materia a norme regolamentari e a provvedimenti amministrativi discrezionali, il legislatore è venuto meno all’obbligo positivo di disciplinare con legge i «modi» di limitazione della libertà personale, eludendo la funzione di garanzia che la riserva assoluta di legge svolge in relazione alla libertà personale nell’art. 13, secondo comma, Cost.”.
La motivazione passa in rassegna anche la normativa europea rilevando che anche le direttive UE in materia di trattenimento non forniscono una normativa completa e dettagliata che limiti la discrezionalità dell'amministrazione. In particolare, manca una disciplina puntuale su come devono essere erogati i servizi essenziali (cura, assistenza, promozione umana e sociale, visite) durante il trattenimento, al fine di tutelare i diritti fondamentali delle persone soggette a tali misure restrittive. Tutto questo nonostante l’Europa stia non solo aprendo le possibilità di trattenimento, anche nelle procedure di frontiera ma pensi sempre più alla esternalizzazione delle frontiere.
Anche per questo quadro politico istituzionale è di fondamentale importanza la conclusione della Consulta che si traduce in un monito diretto al fine di legiferare con urgenza su una materia sempre più in espansione nel quadro europeo delle politiche migratorie: " Spetta, dunque, al legislatore adottare una disciplina che assicuri un’adeguata base legale alle enunciate istanze, tanto più urgente in considerazione della centralità della libertà personale nel disegno costituzionale".
2. Il Capitolato d’appalto per i CPR e la Direttiva Lamorgese
Le strutture di detenzione amministrativa, ex art. 14 D.lgs. 142/2015, centri per il rimpatrio o CPR attivi sul territorio sono dieci al momento: Torino, Milano, Gorizia, Roma, Bari, Brindisi, Macomer (NU), Palazzo San Gervasio (PZ), Pian del Lago (CL) e Trapani. Dette strutture sono gestite da enti gestori che partecipano ai bandi di gara indetti dalle Prefetture competenti per le aree dove incidono geograficamente. Tali bandi richiamato appunto il capitolato d’appalto approvato con Decreto Ministeriale 4 marzo 2024. Il capitolato definisce gli standard minimi in termini di beni e servizi da erogare ma anche il monte ore delle figure professionali e degli operatori e operatrici che devono essere presenti nelle strutture in base agli scaglioni di capienza delle stesse. È proprio il capitolato e le garanzie in esso richiamate ad essere contestato nella sentenza del consiglio di Stato che andremo a esaminare. Al quadro costituito dal Decreto ministeriale con cui è stato adottato il capitolato d’appalto per le strutture di trattenimento, si aggiunge la Direttiva del Ministro dell'Interno Luciana Lamorgese del 19 maggio 2022 che è stata concepita per bilanciare l'esigenza di assicurare l'effettività delle espulsioni con l'obbligo inderogabile di salvaguardare la salute delle persone trattenute nei CPR, imponendo tra le altre misure, una valutazione sanitaria al momento dell'ingresso, per accertare l’assenza di patologie incompatibili con la vita in comunità ristretta (es. malattie infettive contagiose, gravi disturbi psichiatrici, patologie acute o cronico-degenerative che non possano ricevere cure adeguate). La visita deve attestare la compatibilità delle condizioni di salute o vulnerabilità. Viene effettuato uno screening medico completo per valutare lo stato di salute generale, eventuali vulnerabilità e la necessità di visite specialistiche. Particolare attenzione dovrebbe essere dedicata alla ricerca di segni di traumi o esiti di torture. La Direttiva, insomma, ha istituito l'obbligo di un meccanismo di controllo preventivo e continuo, richiedendo anche che le strutture sanitarie siano in grado di effettuare tali visite anche in orario notturno e/o festivo, e di assicurare che la documentazione clinica sia sempre completa e accessibile al responsabile sanitario del CPR.
Per fare ciò è previsto, come allegato alle convenzioni che legano enti gestori e Prefetture competenti, di stipulare specifici protocolli d'intesa con le aziende sanitarie locali e gli enti gestori aggiudicatari di bandi per la gestione dei CPR. Questi protocolli devono garantire che ogni persona trattenuta sia sottoposta a una visita medica approfondita prima del trattenimento e dunque dell’ingresso nei centri di detenzione. Lo scopo è duplice: accertare l'assenza di patologie che rendano il trattenimento incompatibile con la salute individuale, e prevenire la diffusione di malattie contagiose. In particolare, dunque il protocollo sanitario deve escludere dal trattenimento le persone che presentino: malattie infettive pericolose per la comunità, patologie acute o cronico-degenerative che non possano ricevere cure adeguate in un ambiente di comunità ristretta e disturbi psichiatrici che risultino incompatibili con la permanenza nel CPR.
Questo però non si traduce in un’applicazione omogenea a livello nazionale, in quanto il personale delle aziende sanitarie che verifica le condizioni di salute e dunque certifica la compatibilità con la vita ristretta non svolge formazioni ad hoc sul tema della detenzione amministrativa e le implicazioni della stessa sul benessere psico-fisico delle persone. Infatti, quello che spesso emerge è una disomogeneità nella formulazione dei certificati stessi di compatibilità con la vita ristretta per cui in alcune aree vengono valutati aspetti che altrove non sono presi in considerazione. Basti pensare che alcune patologie psichiatriche o episodi di disagio psichico transitorio, in persone detenute in strutture penitenziarie, viene affrontato attraverso terapie farmacologie e supporto psicologico grazie al personale del servizio sanitario che opera nelle carceri. Una volta concluso il percorso in carcere, però, e trasferita la persona nei CPR per eseguire la misura del rimpatrio, la prosecuzione della terapia e del percorso terapeutico passa dalla competenza e gestione del servizio sanitario a quello privato del medico, professionista a partita iva, dell’ente gestore. Anche la valutazione stessa sulla compatibilità del trattenimento al mutare delle condizioni delle persone trattenute è a discrezione e su sollecitazione dell’ente gestore privato che può richiedere visite di follow-up esterne con le aziende sanitarie locali.
3. La Sentenza del Consiglio di Stato n. 07839/2025
"Nelle more dell’indispensabile intervento del legislatore, le Amministrazioni competenti sono chiamate ad un attento esame della situazione fattuale nei Centri, affinché la riformulazione delle disposizioni impugnate del capitolato possa tener conto di ogni elemento rilevante, nella prospettiva di garantire livelli di assistenza socio-sanitaria in linea con le previsioni costituzionali e sovranazionali. Anche la direttiva del Ministro dell’Interno del 19.05.2022 (c.d. Lamorgese) dovrà essere seguita scrupolosamente, superando le attuali discrasie di cui sopra si è dato conto".
La recente decisione del Consiglio di Stato n. 07839/2025[2] accoglie il ricorso presentato dall'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione (ASGI) e da Cittadinanzattiva APS contro il Decreto del Ministro dell'Interno del 4 marzo 2024[3], che aveva approvato lo schema di capitolato d'appalto per la gestione dei CPR. La sentenza affronta tematiche importanti ed estremamente tecniche riguardanti gli standard sanitari e le misure poste in essere nella gestione dei CPR per la prevenzione del rischio suicidiario all’interno.
Le associazioni ricorrenti avevano, infatti, impugnato il capitolato d'appalto contestando le previsioni relative all'assistenza sanitaria e al personale medico-sanitario ritenute insufficienti. Il ricorso era basato sulla presunta violazione dell’articolo 13 e dell’articolo 32 della Costituzione, denunciando in sostanza un'insufficiente tutela per le persone con vulnerabilità psichica o sottoposte a trattamento farmacologico, l'inadeguatezza del monte ore del personale medico, e la grave mancanza di un piano anti suicidiario e di procedure specifiche di osservazione all’ingresso nella struttura. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio aveva precedentemente respinto il ricorso, rifiutando di equiparare gli standard dei CPR a quelli delle strutture carcerarie ai fini della predisposizione di misure anti suicidiarie.
Nella sua pronuncia, il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso riconoscendo la necessità di rendere il capitolato contestato più coerente con le disposizioni previste dalla direttiva ministeriale Lamorgese, in particolare:
È molto interessante notare che il Consiglio di Stato, proprio in ragione delle disomogeneità territoriali e della peculiarità della gestione di strutture di detenzione a soggetti privati attraverso bandi di gara, richiami in sentenza l’importanza dell’utilizzo dello strumento di governance menzionato dal D.lgs. 142/2015 e cioè il Tavolo di Coordinamento nazionale insediato presso il Ministero dell’Interno – Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione. Il Tavolo, ai sensi dell’art. 29, comma 3, cit., è ordinariamente composto da rappresentanti del Ministero dell’Interno, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, delle Regioni, dell’Unione delle province d’Italia (UPI) e dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI), ed è integrato, in sede di programmazione delle misure di integrazione degli stranieri (tra l’altro anche con riferimento all’accesso all’assistenza sanitaria), con un rappresentante del Ministro delegato alle pari opportunità, un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), un rappresentante della Commissione nazionale per il diritto di asilo e, “a seconda delle materie trattate, con rappresentanti delle altre amministrazioni o altri soggetti interessati". Proprio su questo aspetto il Consiglio di Stato menziona la strutturale assenza e allo stesso tempo l’importanza e la strategicità di includere al Tavolo anche il Garante Nazionale dei diritti dei Detenuti e il Ministero della Salute come esperti e fondamentali osservatori sul tema dell’assistenza sanitaria nelle strutture detentive, anche amministrative appunto.
4. Le osservazioni del Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti e del Comitato Europeo per la Prevenzione della tortura
La decisione del Consiglio di Stato arriva in un contesto di allarme costante sulla condizione psicofisica delle persone trattenute nei CPR, confermato anche dai recenti rapporti relativi a visite condotte da autorità di garanzia. I dati e rilievi del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti (pubblicati a Dicembre 2024[4]), successivi alle visite condotte nei CPR di Palazzo San Gervasio (PZ) e Bari, hanno infatti evidenziato una situazione di grave criticità che corrobora le tesi alla base del ricorso. Per quanto riguarda il CPR di Palazzo San Gervasio, ad esempio, il Garante riporta che tra gennaio e dicembre 2024, il registro degli eventi critici ha registrato un totale di 120 segnalazioni, tra cui 53 eventi di protesta (inclusi danneggiamenti e incendi), 42 atti vandalici e ben 5 episodi di autolesionismo, oltre a 1 decesso. Tali dati mettono in luce la forte sofferenza psicologica delle persone trattenute, che era stata alla base della denuncia di un "eccesso di potere per illogicità e difetto di istruttoria" nel capitolato.
La sentenza menziona infatti poi, oltre ai report del Garante Nazionale dei detenuti, il recente Rapporto del Comitato europeo per Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti o Pene Inumane o Degradanti (CPT) del Consiglio d'Europa, pubblicato a dicembre 2024[5] e relativo alle visite ad hoc in Italia, condotte dal 2 al 12 aprile 2024, per esaminare il trattamento e le condizioni di detenzione dei cittadini stranieri trattenuti nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). La delegazione ha visitato quattro dei dieci CPR attivi al momento in Italia: Gradisca d’Isonzo, Milano, Palazzo San Gervasio e Roma (Ponte Galeria). È interessante che proprio rispetto al tema della tutela della salute il CTP sottolinea l’importanza e la necessità di uniformare e migliorare la valutazione dell’idoneità alla detenzione e lo screening medico oltre all'adozione di protocolli clinici per la prevenzione dell'autolesionismo e del suicidio, e per la gestione degli scioperi della fame.
5. Implicazioni e prime risposte giurisprudenziali
Resta dunque da attendere quali saranno le risposte del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Ministero dell’Interno, considerato che la riforma dovrà mirare specificamente a elevare gli standard di assistenza sanitaria, in particolare per le vulnerabilità psichiatriche, e a introdurre un piano di prevenzione del rischio suicidario e protocolli di osservazione adeguati. Di fatto, il Consiglio di Stato ha stabilito che le strutture di detenzione amministrativa, pur non essendo strutture penitenziarie, non possono derogare al principio di tutela della salute individuale e collettiva (Art. 32 Cost.) e devono garantire condizioni che non si risolvano in trattamenti inumani o degradanti. L'attuazione delle modifiche imposte si prospetta come un passo decisivo verso il miglioramento nella gestione di strutture detentive da sempre oggetto di campagne elettorali e risultati politici, non solo in Italia ma in tutta l’Europa.
Nel frattempo, la Corte d’Appello di Torino ha disposto la liberazione di un richiedente asilo trattenuto in un CPR, riconoscendo che le condizioni sanitarie di questa tipologia di strutture non garantiscono una tutela adeguata. La Corte ha richiamato la sentenza oggetto del presente articolo e ha ritenuto che “le condizioni di salute del trattenuto non ne consentono la permanenza all’interno del centro di permanenza per il rimpatrio”, ordinandone la cessazione immediata del trattenimento.
A questo punto la domanda rispetto alle convalide dei trattenimenti è: Quid interea fiet?
[1] https://www.cortecostituzionale.it/scheda-pronuncia/2025/96
[2] https://mdp.giustizia-amministrativa.it/visualizza/?nodeRef=&schema=cds&nrg=202503857&nomeFile=202507839_11.html&subDir=Provvedimenti
[3] https://www.interno.gov.it/it/amministrazione-trasparente/disposizioni-generali/atti-generali/atti-amministrativi-generali/decreti-direttive-e-altri-documenti/decreto-schema-capitolato-gara-appalto-fornitura-beni-e-servizi-relativi-alla-gestione-e-funzionamento-dei-centri-accoglienza
[4]https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/page/it/rapporto_sulle_visite_effettuate_ai_cpr_di_palazzo_san_gervasio_e_di_bari_il_12_e_il_13_dicembre_2024?contentId=RPT36644
[5] https://rm.coe.int/1680b2c7e7
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