L’interdittiva antimafia e il tempo “vuoto” tra controllo giudiziario e aggiornamento prefettizio (nota a TAR Calabria, Reggio Calabria, ord. 9 ottobre 2024, n 646).
di Renato Rolli e Vincenzo De Sensi
Sommario: 1. Premessa. 2 – La vicenda sottesa all’ordinanza e l’emersione del vulnus normativo - 3. Il controllo giudiziario antimafia: genesi, natura e tensioni sistemiche – 4. Il bilanciamento costituzionale e la questione di legittimità – 5. La rilevanza della questione e la motivazione del rinvio alla Corte Costituzionale– 6. Conclusioni.
1. Premessa
L’ordinanza n. 646/2024 del Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria, Sezione Staccata di Reggio Calabria, interviene in un contesto segnato da particolare complessità e delicatezza, caratterizzato da un profondo dialogo che coinvolge il giudice amministrativo, la normativa antimafia e i principi costituzionali. Ciò che, a modesto avviso di chi scrive, induce a ritenere quale necessario segnalare il provvedimento poc'anzi menzionato non è la sola circostanza che i giudici, con tale ordinanza, abbiano proceduto ad un’approfondita disamina dei rapporti insistenti tra l’informazione interdittiva antimafia e la misura del controllo giudiziario ex art. 34-bis d.lgs. 159/2011 (cosiddetto Codice Antimafia), ma soprattutto il fatto che con il provvedimento oggetto della presente nota sia stata sollevata, in via incidentale, una questione di legittimità costituzionale destinata ad avere un impatto sistemico.
Come si vedrà meglio a breve, l’elemento di maggiore rilievo che emerge dall’analisi dell’ordinanza oggetto del presente commento risiede, infatti, nell’individuazione di un vero e proprio “vuoto normativo” nel sistema della prevenzione antimafia. Tale “carenza normativa” si riferisce alla fase intercorrente tra la cessazione del controllo giudiziario, disposto dal Tribunale Sezione Misure di Prevenzione, e la conclusione del procedimento di aggiornamento prefettizio in materia di informazione antimafia ex art. 91, co. 5, cod. antimafia. Si tratta di un segmento temporale che, seppur potenzialmente di breve durata, riveste un ruolo cruciale da un punto di vista giuridico. In tale frangente, infatti, si determina l’automatica reviviscenza dell’interdittiva antimafia e, quindi, degli effetti della medesima, circostanza che ha quale conseguenza la perdita dei requisiti di moralità nonché di capacità contrattuale dell’impresa. Tale effetto viene a prodursi a prescindere dall’esito positivo con cui si è concluso il percorso “bonificante”, al quale si è dato seguito in ragione dell’adozione della misura di self cleaning, svoltosi sotto l’egida del tribunale penale.
L’assenza di un’esplicita previsione normativa in virtù della quale sarebbe consentito “congelare” gli effetti dell’interdittiva anche oltre il momento in cui vi è la scadenza della misura di vigilanza prescrittiva e, dunque, fino alla conclusione del procedimento di aggiornamento di cui l’art. 91, co. 5, d.lgs. 159/2011, è, secondo la posizione che emerge dall’ordinanza in esame, fonte di plurime criticità costituzionali nei termini, principalmente, del principio di uguaglianza, di quello di proporzionalità, della libertà d’impresa, del giusto procedimento e dell’effettività della tutela giurisdizionale. Da qui la decisione dei giudici amministrativi, i quali con tale pronuncia hanno fatto emergere, in maniera pienamente consapevole, la sussistenza di un delicato equilibrio tra la prevenzione delle infiltrazioni mafiose e la salvaguardia dei diritti fondamentali degli operatori economici, di rimettere la questione all’illustrissima Corte Costituzionale.
L’intervento del giudice calabrese, così come è facile comprendere alla luce dei numerosi interventi giurisprudenziali sul tema, si colloca in un contesto temporale caratterizzato da un singolare fermento interpretativo e legislativo in materia di interdittive antimafia. All’uopo emerge chiaramente l’esigenza di interrogarsi sempre di più sul rapporto insistente tra la legalità sostanziale e la tutela dei valori economici, al fine di giungere nel prevedere un’azione amministrativa che sia non solo efficace, ma anche più giusta e ragionevole.
2. La vicenda sottesa all’ordinanza e l’emersione del vulnus normativo
La vicenda oggetto dell’ordinanza del TAR Calabria pubblicata in data 28 ottobre 2024, prende le mosse dall’impugnazione proposta avverso l’informazione interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura di Reggio Calabria nei confronti di una società operante nel settore edilizio ed attiva su tutto il territorio nazionale. La società ricorrente, con sentenza emessa dai giudici amministrativi del Tribunale calabrese, si vede accolto il proprio ricorso. Tuttavia, avverso tale atto, con cui era stato disposto l’annullamento del provvedimento interdittivo, propone appello, dinanzi il Consiglio di Stato, l’Amministrazione dell’Interno. I giudici di palazzo Spada, quindi, accogliendo la domanda cautelare proposta, con ordinanza sospendono la sentenza impugnata con il conseguente ripristino degli effetti della misura interdittiva.
A seguito di ciò, la società ricorrente, in persona del suo legale rappresentante e per mezzo dei propri legali, richiede, ai sensi dell’art. 34-bis, co. 6, d.lgs. 159/2011, l’applicazione del controllo giudiziario[1].
A seguito della richiesta della società, il Tribunale di Reggio Calabria, Sezione Misure di Prevenzione, accertata la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge e sentiti i soggetti di cui al comma sesto del succitato articolo, ha accolto tale richiesta e, in conseguenza di ciò, disposto la misura del controllo giudiziario. Con l’ammissione della società alla misura di self cleaning di cui si discute, si è dato avvio ad un percorso di vigilanza in cui la società è stata sottoposta ad un’attività di monitoraggio svolta dall’amministratore giudiziario nominato dal Tribunale, al quale è attribuito il compito di supervisionare l’andamento societario e di accertare la trasparenza con cui opera la società medesima. D'altronde, è stato a più riprese precisato, tanto dalla Suprema Corte di Cassazione quanto dalla giurisprudenza amministrativa, che il controllo giudiziario ha quale obiettivo quello di mitigare gli effetti della prognosi infiltrativa e di effettuare una “bonifica” dell’impresa in odore di mafia [2]. In altri termini, tale misura ha quale finalità quella di affrancare la società da eventuali condizionamenti mafiosi, così come espresso dalla “Commissione Fiandaca”. Infatti, il controllo giudiziario ha quale obiettivo quello di consentire il “disinquinamento” mafioso delle società e di, al contempo, garantire una “continuità produttiva e gestionale” delle attività economiche [3].
Dalla trattazione dei fatti di causa, così come descritti nella sentenza oggetto della presente nota, emerge che, in conformità a quella che ormai si presenta come la giurisprudenza amministrativa maggioritaria [4], il Tribunale, accolta favorevolmente la domanda di ammissione al controllo giudiziario, con ordinanza disponeva il giudizio di appello in attesa della conclusione del controllo giudiziario.
La società, quindi, dal momento che aveva richiesto ed ottenuto la misura di sorveglianza prescrittiva del controllo giudiziario, presenta istanza di iscrizione nella c.d. white list [5] alla Prefettura, la quale, verificato che non sussistano le cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 D.lgs. n. 159/2011 nonché, accertata l’assenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa ex art. 84 comma 3 Codice Antimafia, ha provveduto all’iscrizione della società nel suddetto elenco [6].
In ragione di ciò, la società prendeva parte alla procedura di gara bandita dall’Anas Toscana avete ad oggetto l’esecuzione di una serie di opere di attraversamento, risultandone vincitrice e procedendo, così, alla sottoscrizione del contratto d’appalto.
Tuttavia, a causa dell’inversione di tendenza manifestatasi in seno all’Adunanza Plenaria in materia di rapporti tra il giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia e il c.d. controllo giudiziario [7], il Consiglio di Stato giungeva nell’accogliere l’appello proposto dal Ministero dell’Interno e riformava integralmente la sentenza emessa in primo grado giungendo, quindi, nel confermare la preesistenza dei presupposti dell’informazione interdittiva antimafia.
Questa circostanza aveva indotto la stazione appaltante a dar avvio al procedimento per la risoluzione del contratto d’appalto dal momento che il ritorno in auge dell’informativa prefettizia di tipo interdittivo è causa di perdita dei requisiti di cui l’art. 80 del d.lgs. 50/2016 e determina, altresì, un’incapacità a contrarre [8].
La piena efficacia del contratto, però, veniva confermata fino al 15.07.2024, cioè fino alla data in cui era stato prorogato il controllo giudiziario.
Scaduta la misura di cui all’art. 34-bis cod. antimafia ed in ragion della reviviscenza degli effetti dell’interdittiva, il Direttore dei Lavori ordinava all’impresa di interrompere i lavori dal momento che la sussistenza di un’informazione interdittiva antimafia è causa di esclusione automatica dalla gara.
La società, dunque, veniva a trovarsi in una situazione paradossale. Nonostante il controllo giudiziario si fosse concluso con esito favorevole, in attesa che la Prefettura procedesse con l’aggiornamento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia, l’interdittiva originaria aveva riacquisito immediata efficacia. In ragione di ciò, come anzidetto, veniva a prodursi la perdita della capacità contrattuale dell’impresa, la quale ha subito la risoluzione del contratto d’appalto nonostante l’esito positivo del controllo giudiziario.
In ragione del ricorso proposto dalla società ricorrente si instaura un nuovo giudizio dinanzi al TAR. Con il motivo principale la società denuncia: violazione e falsa applicazione degli artt. 34 bis, 92 e 94 bis del d.lgs. n. 159/2011; violazione della ratio e della finalità dell’istituto del controllo giudiziario e dell’art. 42 Cost.; violazione dei principi di buon andamento, ragionevolezza, proporzionalità e non contraddizione; nonché, eccesso di potere.
Nell’ordinanza n. 646/2024, il TAR Calabria affronta, con un rigore sistematico degno di nota, il nodo interpretativo e costituzionale che insiste sulla disciplina dell’art. 34-bis, co. 7, del d.lgs. 159/2011. In particolare, i giudici amministrativi affermano che, in ragione di una carente previsione normativa espressa che regolamenti la questione della sospensione degli effetti dell’informazione interdittiva antimafia nel frangente temporale intercorrente tra la conclusione del controllo giudiziario e la rivalutazione da parte del Prefetto di cui il più volte citato art. 91, co. 5, cod. antimafia, non si rende possibile una interpretazione in chiave costituzionale dell’art. 34-bis, co. 7, cod. antimafia.
In altro modo, in ragione di un dato testuale così chiaro, incisivo e fermo [9], è preclusa qualsivoglia tipo di interpretazione che abbia quale fine quello di estendere l’effetto della sospensione dell’informazione interdittiva antimafia fino al momento in cui vi sarà la cessazione della misura prescrittiva del controllo giudiziario.
Dunque, in virtù dell’attuale formulazione legislativa, la cessazione del controllo giudiziario determina automaticamente la reviviscenza dell’interdittiva antimafia anche quando il procedimento di aggiornamento prefettizio è ancora in corso.
All’uopo, si ritiene opportuno richiamare la precisazione che i giudici amministrativi fanno in tema di controllo giudiziario con esito favorevole.
Secondo un consolidato indirizzo interpretativo, pertanto, l’esito positivo del controllo giudiziario non determina sic et simpliciter il superamento della misura interdittiva. Secondo i giudici del TAR del Lazio, infatti, “il giudizio in ordine alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione mafiosa, che è pertanto rimesso al Prefetto, il quale, una volta intervenuta la misura del controllo, potrebbe valutare l’esito positivo dello stesso, quale sopravvenienza rilevante ai fini dell’aggiornamento e della rivalutazione dell’interdittiva prefettizia, pur restando libero di confermare il provvedimento interdittivo originario”. [10]
In altri termini i giudici di Palazzo Spada si sono pronunciati affermando come “Le favorevoli conclusioni dell’amministratore giudiziario, e la conseguente chiusura del controllo giudiziario non sono … assimilabili ad un giudicato di accertamento”. [11]
Da tale meccanismo normativo, osservano i giudici amministrativi, emerge un palese contrasto con i principi cardine della ragionevolezza, proporzionalità e buona amministrazione. La mancata previsione della sospensione degli effetti dell’interdittiva anche in riferimento al lasso temporale successivo alla cessazione del controllo giudiziario e antecedente alla definizione del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co.5, cod. antimafia, produce effetti del tutto irragionevoli e, in alcuni casi, anche controproducenti rispetto ai fini perseguiti dalla legislazione in materia di prevenzione antimafia.
Infatti, la società, per quanto abbia dimostrato, alla luce di quanto emerge dalla relazione del controllore, di essersi concretamente ed in maniera effettiva dissociata da ogni influenza criminale grazie alla “funzione bonificante” che svolge il controllo giudiziario, si trova nuovamente ad essere esposta ai paralizzanti effetti prodotti dalla misura interdittiva. In altri termini, se, nonostante la bonifica dei condizionamenti, prodottasi quale effetto realizzato dall’istituto del controllo giudiziario, si facessero ricadere su un’impresa, evidentemente ormai bonificata, gli stessi pregiudizi che il ricorso al controllo giudiziario, quale misura di prevenzione collaborativa, tende scongiurare [12] verrebbe vanificata la funzione stessa della misura prevista all’art. 34-bis cod. antimafia.
Appare evidente come un tale assetto normativo disincentiva il ricorso alla misura del controllo giudiziario che si pone, oltre che come strumento di bonifica, anche come mezzo di prevenzione dell’infiltrazione mafiosa in gradi di operare senza causare un’eccessiva e ingiustificata limitazione della libertà d’impresa e del diritto al lavoro [13].
I giudici amministrativi, con l’ordinanza oggetto della presente nota, sollevano questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, co. 7, nella parte in cui non prevede la sospensione degli effetti dell’interdittiva antimafia nella fase ricompresa tra la cessazione del controllo giudiziario e la definizione del procedimento di rivalutazione da parte della Prefettura del quadro istruttorio da cui emergevano gli elementi in forza dei quali l’autorità prefettizia ha paventato un condizionamento mafioso.
Le norme costituzionali invocate dai giudici amministrativi e che, sempre secondo gli stessi, sono contrastate dal co.7 dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 159/2011, sono gli articoli 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117, co. 1. Cost., quest’ultimo per violazione degli artt. 6, 8 e 13 della CEDU e art.1 del primo protocollo addizionale.
Il giudice rimettente ritiene, in conclusione, che una tale lacuna normativa non possa essere in alcun modo colmata facendo ricorso all’interpretazione senza che ciò comporti un’eccessiva, e per questo non consentita, manipolazione della stessa disposizione normativa. Da tale circostanza, quindi, emerge la necessità, per i giudici amministrativi, di rimettere la questione alla Corte Costituzionale, la quale è chiamata a valutare la conformità alle disposizioni costituzionali della norma nella parte in cui non disciplina in alcun modo la fase che si pone post conclusione del controllo giudiziario.
3. Il controllo giudiziario antimafia: genesi, natura e tensioni sistemiche
Con il decorrere degli anni la criminalità organizzata di stampo mafioso è mutata, si è passati da una mafia che faceva della violenza il suo principale strumento di affermazione ad una mafia perlopiù silente che opera nel mercato legale camuffandosi dietro realtà imprenditoriali apparentemente sane.
Nel corso degli ultimi anni il legislatore si è posto come obiettivo quello di impedire o neutralizzare l’infiltrazione mafiosa senza necessariamente ricorrere all’adozione di misure interdittive, al fine, così, di tutelare la sicurezza e la trasparenza negli appalti pubblici e al contempo evitare un eccessivo sacrificio del diritto costituzionale d’impresa.
Il chiaro obiettivo del legislatore è stato, quindi, quello di abbandonare quell’approccio tradizionale di tipo repressivo-punitivo e introdurre strumenti di vigilanza e preventivi capaci di operare a seconda del grado di infiltrazione mafiosa, garantendo così una bonifica dell’attività imprenditoriale interessata senza che questo comporti la sottoposizione dell’impresa ad una condizione tale che le impedisce di proseguire nello svolgimento delle sue attività [14].
Da quanto fin qui detto, si comprende la ratio della legge n. 161 del 17 ottobre 2017 con cui è stato riformato l’impianto del Codice Antimafia. Con al disposizione appena citata, infatti, sono stati introdotti nuovi strumenti di tipo non ablativo al fine di arginare in maniera più efficace il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nel tessuto economico-imprenditoriale.
Senza timore di smentita alcuna è possibile affermare che la novità di maggiore rilievo è quella attinente all’introduzione dell’art. 34-bis e, dunque, dell’istituto del controllo giudiziario.
Con l’istituto del controllo giudiziario, ne è un esempio la vicenda che attiene l’ordinanza oggetto della presente nota, è stata riconosciuta al soggetto attinto da un provvedimento interditttivo antimafia la facoltà di presentare un’istanza al Tribunale e richiedere l’applicazione del controllo giudiziario. La ragione per cui un’impresa dovrebbe agire in tal senso sta nel fatto che con l’applicazione della misura più tenue, prevista dall’art. 34-bis, la società conserva la propria capacità operativa e, dunque, la possibilità di contrarre nonché la libertà di operare sul mercato.
Con la riforma del 2017, dunque, il legislatore ha voluto predisporre un sistema a carattere gradualistico, con la previsione di diversi istituti a cui è possibile ricorrere in ragione del livello di contaminazione mafiosa che contraddistingue il soggetto economico.
In particolare, il controllo giudiziario rappresenta tra questi lo strumento meno invasivo dal momento che, attraverso il ricorso allo stesso, non si determina alcun spossessamento gestorio in capo all’impresa interessata.
Tale misura, dunque, si applica ad imprese che si trovano in una condizione di assoggettamento ovvero che agevolano consorterie malavitose e che, attraverso tale strumento, possono essere “bonificate” dalla contaminazione mafiosa. Imprese, a cui viene consentito di proseguire nello svolgimento della loro attività economica così da permettere che vengano garantiti quei livelli occupazionali che invece verrebbero meno nel caso in cui si procedesse con l’applicazione di misure ben più invasive.
In virtù di quanto disposto dall’art. 34-bis del Cod. antimafia [15], vi sono due diverse forme di controllo giudiziario. La prima, meno invasiva, consiste nell’imporre un obbligo di comunicazione concernente una serie di atti tassativamente previsti al co. 2 lettera a) [16] della succitata disposizione normativa.
La seconda forma di controllo giudiziario, invece, viene usualmente definita come la più invasiva. All’uopo, la lettera b) [17] dell’articolo in esame prevede che venga nominato un amministratore giudiziario, il quale è chiamato a riferire in maniera periodica gli esiti raggiunti a seguito dell’esercizio dell’attività di controllo.
Da un’analisi, seppur veloce ma necessaria ai fini di una corretta comprensione della sentenza in commento, dell’istituto del controllo giudiziario emerge come la funzione primaria di tale strumento si quella di “bonificare” l’impresa da qualsivoglia tipo di condizionamento mafioso.
L’elemento di principale novità di tale istituto è quello di garantire la continuità operativa del soggetto economico al fine di meglio tutelare la libertà d’iniziativa economica nonché il diritto al lavoro, valori entrambi costituzionalmente garantiti (rispettivamente artt. 41 e 4 Cost.).
Il controllo giudiziario di cui fin qui si è detto è quello comunemente noto come controllo giudiziario ordinario. Difatti, l’art. 34-bis del Cod. antimafia, prevede un’ulteriore forma di controllo richiedibile da parte di quelle imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva.
Ai sensi del co. 6 dell’art. 34-bis, infatti, le imprese già interdette che abbiano proceduto nel proporre impugnazione avverso il provvedimento prefettizio hanno la possibilità di richiedere l’applicazione della misura del controllo giudiziario [18]. I presupposti per muovere tale richiesta al Tribunale competente per le misure di prevenzione sono quindi: l’emissione nei confronti della società richiedente di un provvedimento interdittivo antimafia, l’atto di impugnazione dello stesso e il parere emesso dal procuratore della DDA competente e quello del prefetto che ha emesso l’atto interdittivo. Questo “tipo” di controllo giudiziario è quello comunemente noto come controllo giudiziario volontario o a “domanda dell’impresa”.
Nella sua struttura applicativa, quindi, il controllo giudiziario è connotato da una durata limitata durante la quale l’impresa conserva la propria operatività sotto la supervisione di amministratori giudiziari. La sua finalità, dunque, è favorire, mediante un affiancamento temporaneo, il recupero della piena affidabilità dell’impresa e la successiva riammissione nel circuito degli appalti pubblici, previa rivalutazione da parte dell’autorità prefettizia.
Importante questione oggetto di dibattito e su cui, a modesto avviso di chi scrive è necessario, seppure brevemente, soffermarsi al fine di una piena comprensione del tema oggetto della ordinanza in nota, è quella circa la sussistenza di un rapporto di autonomia o di un sistema di interferenze tra il procedimento prevenzionale a cui si dà seguito con la richiesta del controllo giudiziario volontario, ex art. 34-bis, co.6, e il procedimento che si svolge dinanzi al G.A. in ragione dell’avvenuto ricorso avverso l’interdittiva antimafia.
La più recente giurisprudenza amministrativa [19] è tesa a sostenere che l’applicazione del controllo giudiziario non produce la sola sospensione degli effetti del provvedimento interdittivo ma anche la sospensione del giudizio che si svolge dinanzi al G.A. avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento prefettizio. In tal modo, si giungerebbe nell’evitare una sovrapposizione tra il giudizio che si svolge in sede penale e quello che ha luogo in sede amministrativa.
Tale posizione, è quella a cui giungono i giudici che sono stati chiamati ad intervenire sulla vicenda in esame. Infatti, così come emerge dai fatti di causa, in considerazione della pendenza della misura del controllo giudiziario vi era stata la conseguente sospensione degli effetti dell’interdittiva e del giudizio d’appello, anch’esso sospeso in via conseguenziale in attesa della conclusione del controllo giudiziario.
Il problema si sposterebbe, quindi, al momento in cui cessa il periodo di controllo giudiziario. Alla luce del dato testuale sembrerebbe che, a seguito della conclusione del controllo giudiziario, la misura interdittiva riprenderebbe ad essere efficace. Tuttavia, l’opinione maggiormente condivisibile è quella secondo cui il Prefetto dovrebbe obbligatoriamente procedere ad una rivalutazione del quadro indiziario per poi, se ne sussistono i presupposti, confermare la misura interdittiva.
Questo tema rappresenta lo snodo in cui si innesta una delle principali tensioni sistemiche in materia di interdittiva antimafia e che viene evidenziato nell’ordinanza in commento. Di ciò è causa la mancanza di una previsione che regolamenti espressamente e in maniera chiara la questione inerente gli effetti del’'interdittiva nella fase successiva alla cessazione del controllo giudiziario e prima che venga definito il procedimento di aggiornamento di cui l’art. 91, co. 5, Codice antimafia.
A sommesso avviso di chi scrive, l’assenza di una disciplina esplicita sul punto rischia di vanificare il percorso di risanamento a cui si tende con il ricorso allo strumento del controllo giudiziario, disincentivando, al contempo, l’utilizzo dello stesso istituto in quanto appare aver perso la sua originaria funzione.
Non può ritenersi in dubbio, quindi, che tale disfunzione normativa viene a porsi in frizione con lo spirito collaborativo che ispira l’istituto del controllo giudiziario, il quale, al fine di poter assolvere effettivamente la funzione che le è riconosciuta, necessita di un apparato normativo coerente e in grado di assicurare continuità nonché coerenza tra le varie fasi che scandiscono l’intervento pubblico sull’impresa.
4. Il bilanciamento costituzionale e la questione di legittimità
L’ordinanza n. 646/2024 si colloca in un punto nevralgico di quella braca del diritto amministrativo cosiddetto antimafia. In particolare, ci si riferisce a quel terreno di incontro, che diviene poi di scontro, tra le misure interdittive e i principi costituzionali. Storicamente le informazioni antimafia, infatti, sono appare come istituti non facilmente ammissibili alla luce dell’ordinamento costituzionale [20].
Il TAR Calabria, sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, d.lgs. 159/2011, contesta, innanzitutto, la compatibilità del meccanismo normativo vigente con una serie di principi sanciti della Carta Fondamentale.
L’effetto automatico di reviviscenza dell’interdittiva antimafia al termine del controllo giudiziario – pur in assenza di fatti nuovi e in pendenza del procedimento di aggiornamento – comporta, secondo i giudici remittenti, un’irragionevole compressione del diritto d’impresa, vanificando la funzione riabilitativa della misura giudiziaria.
In particolare, viene in rilievo la lesione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), nella misura in cui si produce una disparità di trattamento tra imprese che subiscono un trattamento peggiorativo rispetto a chi non abbia mai intrapreso il percorso collaborativo del controllo giudiziario.
De iure condito, il principio di uguaglianza verrebbe violato dal momento che situazioni sostanzialmente identiche soggiacciono ad un trattamento disomogeneo. Infatti, l’impresa sottoposta a controllo giudiziario viene a trovarsi in una condizione deteriore rispetto all’impresa, anch’essa interdetta e quindi in identica condizione di fatto, che, non essendo ricorsa allo strumento di cui l’art. 34-bis del Cod. antimafia, è nella condizione di poter immediatamente contrastare il provvedimento prefettizio con gli strumenti previsti dalla disciplina in materia.
La condizione di disparità, per meglio precisare, viene a crearsi dal momento che la società che non agisce nelle forme del controllo giudiziario c.d. preventivo ha la possibilità di proporre ricorso dinanzi al TAR competente e richiedere la tutela cautelare che, se accolta, consentirà di inibire con efficacia retroattiva [21] gli effetti dell’interdittiva, tra cui quelli che producono la condizione di incapacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione. L’impresa che ha richiesto ed ottenuto l’applicazione della misura del controllo giudiziario, invece, subirà inevitabilmente gli effetti pregiudizievoli prodotti dalla reviviscenza dell’interdittiva antimafia a seguito della cessazione del controllo giudiziario. Tali effetti permarranno fino alla conclusione del procedimento di riesame dal momento che il provvedimento è stato, come nel caso in esame, oggetto di un giudicato negativo emesso dai giudici di primo grado e quindi non è ulteriormente impugnabile né tantomeno è possibile richiedere nuovamente l’ammissione al controllo giudiziario difettando il presupposto dell’avvenuta contestazione in sede giurisdizionale dell’atto che dispone la misura interdittiva.
L’impresa che ha richiesto ed ottenuto il controllo giudiziario viene quindi a trovarsi in un limbo, a subire irrimediabilmente il ripristino degli effetti di un’interdittiva non più sospesa per sopravvenuta cessazione del controllo giudiziario con la conseguente automatica risoluzione del rapporto contrattuale già posti in essere, come nel caso in esame, o la inevitabile esclusione dalla procedura di gara in fase di aggiudicazione.
All’uopo, è incontestabile il dato secondo cui per evitare la concretizzazione di una così palese condizione di disuguaglianza sarebbe necessario estendere l’effetto sospensivo fino alla definizione da parte della Prefettura del procedimento di aggiornamento.
A ciò si aggiunge la violazione degli artt. 24 e 113 Cost., per l’inefficacia, o per meglio dire assoluta assenza, della tutela giurisdizionale che viene svuotata di significato se, alla cessazione della misura “curativa” e temporanea del controllo, segue il ripristino automatico degli effetti della misura interdittiva.
Così come emerge dall’analisi dell’attuale disciplina in materia, infatti, è preclusa la possibilità di ricorrere a qualsivoglia tipo di rimedio contro il ripristino degli effetti dell’interdittiva. Causa di ciò è la mancata previsione di strumenti difensivi di contrasto al fenomeno dell’automatica reviviscenza dell’interdittiva, il ché produce un del tutto ingiustificato sacrificio del diritto di difesa di cui l’art. 24 Cost. nonché di quello alla tutela giurisdizionale ex art. 113 della Costituzione.
Secondo i giudici remittenti, inoltre, tale situazione si pone in condizione di “insanabile attrito” con gli artt. 13, 8 e 6 CEDU. Rispetto al primo [22], infatti, esso sarebbe violato del momento che non verrebbe garantito un ricorso attraverso cui ottenere l’esame di una “doglianza difendibile”, così come definita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo [23]. A cascata, dunque, sono violati l’art. 8 CEDU in materia di rispetto della vita umana e familiare; il 6, il quale riconosce il diritto ad un equo processo; e l’art. 1 del primo protocollo addizionale alla Convenzione che dispone in materia di tutela di beni privati e proprietà.
Ancora, l’art. 41 Cost. è richiamato quale parametro violato, nella parte in cui l’automatismo normativo incide irragionevolmente sulla libertà economica, determinando una paralisi dell’attività imprenditoriale che può ritenersi tanto più ingiustificata nel caso, come quello in esame, in cui il controllo giudiziario abbia avuto esito favorevole. Infatti, per quanto ciò non possa determinare sic et simpliciter il superamento dell’interdittiva, non può revocarsi in dubbio che per la definizione del procedimento di aggiornamento debba esservi la previa acquisizione della relazione predisposta dal controllore giudiziario a conclusione dell’attività svolta [24].
Il TAR rinvia infine all’art. 97 Cost., nella sua proiezione di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa, evidenziando come l’attuale sistema incentivi un’applicazione meramente formale delle misure del tutto scollegata da quelli che sono i criteri che devono sempre guidare l’azione pubblica, vale a dire quelli di ragionevolezza, logicità e proporzionalità.
È del tutto illogico e irragionevole, infatti, non prevedere, quindi negare, che gli effetti dell’interdittiva rimangano sospesi anche dopo l’avvenuta cessazione del controllo giudiziario e, dunque, per tutto il frangente temporale necessario per la definizione del procedimento di aggiornamento. Tale affermazione dei giudici remittenti, a sommesso avviso di chi scrive del tutto condivisibile, emerge in ragione di quelle che sono le finalità, quindi la ratio stessa, dell’istituto del controllo giudiziario che, come più ampiamente già detto, ha la funzione di consentire all’impresa interdetta di “liberarsi” di ciò che aveva indotto l’autorità prefettizia a ritenere sussistente una permeabilità ed ingerenza mafiosa.
Così come ampiamente affermato dai giudici amministrativi, la funzione principale dello strumento di cui si è chiamati inevitabilmente a discorrere, in ragione del tema affrontato nell’ordinanza in commento, è quella di risanare l’impresa e consentire alla medesima di proseguire nello svolgimento, seppur in maniera “assistita”, delle sue attività economiche [25].
All’uopo, la finalità della misura del controllo giudiziario è, dunque, profondamente differente da quella della informativa antimafia. Quest’ultima, infatti, ha quale scopo quello di prevenire il rischio di infiltrazione mafiosa e giammai quello di risanare l’impresa interessata [26].
Esplicitando meglio ciò in cui risiede quello che i giudici definiscono come “un vero e proprio corto circuito normativo”, è innegabile che l’applicazione della normativa, così come avvenuto nel caso di specie, è causa di una ingiustificata violazione di quelle stesse finalità che hanno indotto il legislatore ad introdurre lo strumento del controllo giudiziario. L’interruzione della sospensione della misura interdittiva, e dunque la reviviscenza dei suoi effetti tra cui quello dell’incapacità di contrarre o di proseguire nei rapporti con la PA, espone l’impresa a tutte quelle conseguenze pregiudizievoli che erano state scongiurate con il ricorso alla misura del controllo giudiziario. L’irragionevolezza della disciplina sottoposta al vaglio dei giudici della Corte Costituzionale si rende palese soprattutto quando gli effetti dell’interdittiva cessano di essere sospesi nonostante l’esito favorevole del controllo che, seppur non in termini di assoluta certezza, è un elemento che preannuncia un possibile positivo apprezzamento del Prefetto il quale potrà emettere un’informativa di tipo liberatorio in ragione del fatto che si sia effettivamente concretizzata quella funzione bonificante tipica della misura di cui all’art. 34.bis Cod. antimafia.
Tuttavia, nonostante la successiva emissione di un provvedimento di informazione liberatoria, la reviviscenza dell’interdittiva e dei sui effetti può produrre conseguenze per l’impresa a volte irrimediabili. La risoluzione di contratti in corso di esecuzione o l’impossibilità di partecipare a bandi di gara, a causa della conclusione del periodo di sottoposizione a controllo giudiziario, sono elementi che incidono sulla capacità economico-produttiva dell’impresa, sulla sua forza lavoro e sull’esistenza della stessa. Da ciò, quindi, emerge chiaramente anche la violazione dei canoni di proporzionalità, economicità ed efficienza, tutti riconducibili nella cornice di cui l’art. 97 Cost.
Il bilanciamento a cui è chiamata la Corte costituzionale non si esaurisce, dunque, nel confronto tra libertà economiche e tutela dell’ordine pubblico. L’intervento del giudice amministrativo rimettente, infatti, chiama in causa la necessità di una coerenza sistemica tra i diversi strumenti dell’ordinamento. Non è ragionevole, né tantomeno coerente con i principi costituzionali, che il controllo giudiziario venga neutralizzato, poiché di questo si tratta empiricamente, nella sua efficacia a causa dell’inerzia della procedura di aggiornamento prefettizio.
Si tratta dunque di una questione che tocca il cuore stesso del modello di prevenzione antimafia così come previsto dal legislatore; un sistema che deve sapersi fondare non solo su automatismi sanzionatori ma anche su logiche di incentivo alla legalità in coerenza con i principi di giustizia sostanziale e finalismo rieducativo, che si proiettano – mutatis mutandis – anche nel contesto delle misure amministrative ad effetto afflittivo.
5. La rilevanza della questione e la motivazione del rinvio alla Corte Costituzionale
Nel segmento conclusivo dell’ordinanza n. 646/2024, i giudici del TAR Calabria articolano con notevole accuratezza il percorso argomentativo volto a sorreggere la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011. Si tratta, com’è noto, della parte dell’ordinanza in cui la funzione del giudice amministrativo non è più (o meglio, non è solo) quella di decidere il caso concreto, bensì è anche quella di operare una valutazione riguardo la necessità e l’adeguatezza del sindacato costituzionale.
Sotto il profilo della rilevanza, infatti, i giudici affermano in modo netto e chiaro che il giudizio principale non può proseguire senza una pronuncia della Corte costituzionale, atteso che l’efficacia dell’interdittiva antimafia oggetto di gravame risulta fondamentalmente ricollegata all’effetto di “reviviscenza automatica” previsto dalla norma censurata. In mancanza di una declaratoria di illegittimità costituzionale, l’effetto preclusivo dell’interdittiva permane e impedisce al Collegio di adottare una decisione favorevole all’impresa ricorrente. Non vi è, dunque, alcun margine per una interpretazione costituzionalmente orientata che superi il dato testuale.
La motivazione della non manifesta infondatezza si dispiega, invece, lungo due direttrici fondamentali. Da un lato, si sottolinea l’irragionevolezza del meccanismo in esame, nella parte in cui prevede la riespansione dell’interdittiva nonostante l’esito positivo con cui si è concluso il controllo giudiziario pur in mancanza di fatti nuovi e in pendenza di aggiornamento. La misura, per come oggi strutturata, rischia infatti di punire proprio quelle imprese che hanno intrapreso un percorso di risanamento introducendo indirettamente un effetto dissuasivo e disincentivante che si pone in tensione con la finalità stessa della norma.
Dall’altro lato, i giudici evidenziano il vulnus che il sistema produce rispetto ai principi di libertà economica (art. 41 Cost.), si uguaglianza (art. 3 Cost.), nonché del diritto di difesa (artt. 24 e 113 Cost.) e del buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.). L’assenza di una rivalutazione concreta da parte dell’amministrazione e la mancanza di un termine certo entro cui definire il procedimento di aggiornamento dell’interdittiva determinano una forma di sospensione indeterminata della capacità giuridica dell’impresa, in contrasto con i più elementari principi del giusto procedimento.
Interessante, infine, il richiamo al diritto sovranazionale. Questo ulteriore profilo argomentativo conferisce alla questione di legittimità un respiro più ampio, in linea con la tendenza attuale della Corte costituzionale ad accogliere istanze di dialogo tra fonti, soprattutto laddove la legislazione interna si dimostri incapace di bilanciare equamente le esigenze di sicurezza e le libertà fondamentali.
L’ordinanza del TAR Calabria si presta dunque a costituire un momento di riflessione sull’effettiva razionalità del sistema delle misure di prevenzione amministrativa e sul ruolo che il diritto può giocare nel rendere coerente l’azione di contrasto alla criminalità con i principi dello Stato di diritto. Il punto critico individuato – la reviviscenza automatica dell’interdittiva alla cessazione del controllo giudiziario, in assenza di una previa rivalutazione prefettizia – mostra, nella sua rigidità, una frizione profonda con l’obiettivo riabilitativo che sorregge il modello collaborativo delineato dall’art. 34-bis.
A fronte di tale disallineamento, due sono le vie che si aprono all’interprete e al legislatore:
Una prima via è ermeneutica: si potrebbe valorizzare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, ritenendo che la reviviscenza dell’interdittiva sia condizionata all’effettivo completamento del procedimento prefettizio di riesame, da svolgersi entro un termine ragionevole, secondo i principi di buona fede e affidamento.
Una seconda via è legislativa: sarebbe auspicabile l’introduzione di una disciplina espressa che regoli la fase post-controllo, prevedendo che la cessazione della misura giudiziaria non comporti automaticamente il ripristino dell’interdittiva, ma che sia necessaria una nuova valutazione prefettizia motivata.
In tale prospettiva, i giudici calabresi si fanno carico anche di prospettare l’eventualità che la Corte costituzionale, ove ritenga fondata la questione, possa intervenire con una pronuncia di tipo additivo. Ciò avverrebbe attraverso l’introduzione, nella disposizione censurata, di una clausola che subordini la reviviscenza dell’interdittiva alla previa valutazione prefettizia, cioè che si estenda la sospensione dell’efficacia dell’interdittiva sino alla definizione del più volte richiamato procedimento di aggiornamento.
6. Conclusioni
L’ordinanza n. 646/2024 del TAR Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria, si colloca come un punto di snodo fondamentale nel dibattito giuridico relativo all’architettura delle misure di prevenzione antimafia e, in particolare, al meccanismo del controllo giudiziario ex art. 34-bis del d.lgs. 159/2011.
Il Collegio calabrese, con un impianto argomentativo articolato e sistemico, ha evidenziato come l’attuale formulazione normativa – nella parte in cui non prevede una sospensione degli effetti dell’interdittiva nel segmento temporale successivo alla cessazione del controllo giudiziario e antecedente alla conclusione del procedimento di aggiornamento prefettizio – determini una compressione irragionevole di una serie di diritti fondamentali dell’impresa che è stata sottoposta a controllo giudiziario.
La questione di legittimità costituzionale sollevata si fonda su un rilievo tecnico-giuridico di estrema rilevanza. L’automatismo della reviviscenza dell’interdittiva è infatti scollegato da qualsiasi valutazione prefettizia aggiornata all’esito del controllo giudiziario, elemento questo che, a sommesso avviso di chi scrive, rende inefficace l’intero percorso di risanamento incentivato dal ricorso alla misura del controllo giudiziario. Si tratta, dunque, di una criticità che incide direttamente sul principio di proporzionalità, sul diritto al lavoro, sulla libertà d’impresa e sull’effettività della tutela giurisdizionale, oltre a disincentivare, in modo contro-finalistico, il ricorso a un istituto che, per sua natura e per come evidenziato sopra, è collaborativo e bonificante.
In tale prospettiva, quindi, l’ordinanza in commento sollecita un intervento della Corte costituzionale che, secondo l’auspicio del Collegio remittente, potrebbe pronunciarsi in via additiva, introducendo una clausola che subordini l’effetto reviviscente dell’interdittiva a una previa rivalutazione prefettizia. Si tratterebbe, in tal senso, di un intervento che riequilibra l’intero sistema, senza compromettere la finalità preventiva, ma garantendo una maggiore aderenza ai principi di ragionevolezza, proporzionalità e giusto procedimento.
L’analisi della questione affrontata dal TAR Calabria richiama la necessità, più volte avvertita anche nella dottrina e nella giurisprudenza di merito, di superare un approccio rigidamente formalistico al diritto amministrativo antimafia. È tempo di concepire le misure di prevenzione non più come strumenti implacabili, ma come strumenti funzionali al risanamento e alla legalità sostanziale, in linea con la vocazione rieducativa che si proietta, ormai in modo trasversale, su ogni settore dell’ordinamento.
In conclusione, l’ordinanza n. 646/2024 non si limita a sollevare una questione interpretativa, ma si fa portavoce di una riflessione sistemica più ampia, che chiama in causa la tenuta complessiva della disciplina in materia di prevenzione amministrativa rispetto ai parametri costituzionali e sovrannazionali. Essa impone tanto all’interprete, quanto al legislatore e al giudice delle leggi di interrogarsi nuovamente sull’equilibrio tra sicurezza e libertà, tra difesa dell’ordine pubblico e promozione dell’iniziativa economica legittima, nella consapevolezza che ogni automatismo normativo, se privo di margini valutativi e motivazionali, rischia di generare diseguaglianze sistemiche e lesioni non emendabili di diritti fondamentali.
[1] In materia di controllo giudiziario volontario si rinvia a C. VISCONTI, Il controllo giudiziario “volontario”, in G. Amarelli e S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto all’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Torino, Giappichelli Editore, 2019.
[2] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 28 gennaio 2021, n. 24678; nonché Cass. pen. Sez. II. 31 maggio 2021, n. 21412. Per quanto attiene la giurisprudenza amministrativa, invece: cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2024, n. 3266; nonché Cons. Stato, Sez. III, 25 luglio 2022, n. 6566.
[3] Cfr. G. FIANDACA, Proposte di intervento in materia di criminalità organizzata, in www.penale-contemporaneo.it., 12 febbraio 2014.
[4] Sul punto si veda Cons. Stato, sez. III, 10 maggio 2019, ord. n. 4873; e 10 luglio 2019, ord. n. 5482.
[5] Definibili come un elenco istituito presso le Prefetture al quale devono registrarsi le imprese che lavorano nei settori considerati ad alto rischio di infiltrazione mafiosa.
[6] Per un approfondimento sul tema delle c.d. white list, si veda V. MONTARULI, La White list nella legislazione antimafia, in diritto.it, 11/2012; E. BORBONE, White list: quadro attuale e possibili sviluppi, Altalex, 11/2012.
[7] Sul punto si richiami per tutti la decisione del Cons. Stato, A.P., 13 febbraio 2023, n.7, Pres. Maruotti, Est. Franconiero, in cui si legge che: ”la pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione né del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva, né delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese previste dall’art. 32, comma 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, per il completamento dell’esecuzione dei contratti stipulati con la pubblica amministrazione dall’impresa destinataria un’informazione antimafia interdittiva”.
[8] Sul tema degli effetti dell’interdittiva antimafia si veda M. MAZZAMMUTO, Profili di documentazione amministrativa antimafia, in Giustamm, 2016.
[9] Il primo periodo del co.7, art. 34-bis, cod. antimafia recita: “Il provvedimento che dispone l'amministrazione giudiziaria prevista dall'articolo 34 o il controllo giudiziario ai sensi del presente articolo sospende il termine di cui all'articolo 92, comma 2, nonché gli effetti di cui all'articolo 94”.
[10] Tar Lazio sent. n.15775 del 2023.
[11] Cons. St., sez. II, 16 giugno 2022, n. 4912.
[12] Sulla funzione delle misure di prevenzione collaborativa si rimanda a V. M. VULCANO, Le modifiche del decreto-legge n. 152/2021 al codice antimafia: il legislatore punta sulla prevenzione amministrativa e sulla compliance 231 ma non risolve i nodi del controllo giudiziario, in Giurisprudenza penale, 2021.
[13] R. DI MARIA, A. AMORE, Effetti “inibitori” della interdittiva antimafia e bilanciamento fra principi costituzionali: alcune questioni di legittimità dedotte in una recente ordinanza di rimessione alla Consulta, in Federalismi, n. 12, 2021.
[14] D’ANGELO G., VARRASO G., Il decreto legge n. 152/2021 e le modifiche in tema di documentazione antimafia e prevenzione collaborativa, in Sistema Penale, 1° agosto 202.
[15] Introdotto dall’art. 11 comma 1, legge n. 161/2017.
[16] La lettera a) dell’art. 24-bis del Cod. Antimafia prevede: “Il controllo giudiziario è adottato dal tribunale per un periodo non inferiore a un anno e non superiore a tre anni. Con il provvedimento che lo dispone, il tribunale può:
a) imporre nei confronti di chi ha la proprietà, l'uso o l'amministrazione dei beni e delle aziende di cui al comma 1 l'obbligo di comunicare al questore e al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, ovvero del luogo in cui si trovano i beni se si tratta di residenti all'estero, ovvero della sede legale se si tratta di un'impresa, gli atti di disposizione, di acquisto o di pagamento effettuati, gli atti di pagamento ricevuti, gli incarichi professionali, di amministrazione o di gestione fiduciaria ricevuti e gli altri atti o contratti indicati dal tribunale, di valore non inferiore a euro 7.000 o del valore superiore stabilito dal tribunale in relazione al reddito della persona o al patrimonio e al volume d'affari dell'impresa. Tale obbligo deve essere assolto entro dieci giorni dal compimento dell'atto e comunque entro il 31 gennaio di ogni anno per gli atti posti in essere nell'anno precedente;”.
[17] La disposizione normativa richiamata prevede letteralmente: “nominare un giudice delegato e un amministratore giudiziario, il quale riferisce periodicamente, almeno bimestralmente, gli esiti dell'attività di controllo al giudice delegato e al pubblico ministero”.
[18] Per completezza si riporta il testo del co.6, il quale recita: “Le imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva ai sensi dell'articolo 84, comma 4, che abbiano proposto l'impugnazione del relativo provvedimento del prefetto, possono richiedere al tribunale competente per le misure di prevenzione l'applicazione del controllo giudiziario di cui alla lettera b) del comma 2 del presente articolo. Il tribunale, sentiti il procuratore distrettuale competente, il prefetto che ha adottato l'informazione antimafia interdittiva nonché gli altri soggetti interessati, nelle forme di cui all'articolo 127 del codice di procedura penale, accoglie la richiesta, ove ne ricorrano i presupposti; successivamente, anche sulla base della relazione dell'amministratore giudiziario, può revocare il controllo giudiziario e, ove ne ricorrano i presupposti, disporre altre misure di prevenzione patrimoniali.”
[19] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 10 maggio 2019, ord. n. 4873; e 10 luglio 2019, ord. n. 5482.
[20] Per un approfondimento sul punto si rimanda a: M. CERESA GASTALDO, Misure di prevenzione e pericolosità sociale: l'incolmabile deficit di legalità della giurisdizione senza fatto, in Diritto penale contemporaneo, 2015; F.G. SCOCA, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in Giustamm, 2018.
[21] Sul punto TAR Reggio Calabria, sent. n. 789/2021.
[22] L’art. 13 CEDU recita: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.
[23] Boyle e Rice contro Regno Unito, nonché Maurice contro Francia.
[24] Sul punto Cons. St., sent. n. 4912/2022.
[25] In tema Cons. St., sent. n. 2515/2024.
[26] I giudici di Palazzo Spada con sentenza n. 7 del 2023 hanno precisato che “l’interdittiva svolge la sua funzione preventiva rispetto alla penetrazione nell’economia delle organizzazioni di stampo mafioso”.