ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
DELITTI DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: OPINIONI A CONFRONTO
Il rapporto tra la criminalità organizzata e la criminalità economica è argomento tra i più spinosi ed attuali del nostro sistema penale, tanto da aver provocato negli ultimi anni più di un intervento legislativo.
Le connessioni esistenti tra le associazioni di tipo mafioso radicate in un territorio e gli esponenti delle pubbliche amministrazioni locali sono innegabili ed incontestate.
Ma dottrina ed operatori del diritto sembrano divisi nettamente tra chi ritiene che oggi per recidere questi legami occorra estendere la legislazione antimafia ai delitti contro la Pubblica Amministrazione, ritenendo questi reati come spia del controllo della cosa pubblica da parte delle cosche, e chi pone l’accento sulla necessità di tenere distinti nettamente le norme antimafia da quelle anticorruzione, per evitare un effetto indiretto di indebolimento dell’efficacia della lotta ai gruppi criminali, ritenendo che “se tutto è mafia niente è mafia”.
Giustizia Insieme ha affidato la riflessione su questo punto centrale dell’attività di contrasto alla criminalità a due esponenti di punta di due degli uffici di Procura più coinvolti storicamente in materia, anche al fine di verificare se i due corni della riflessione siano – e in che misura – influenzati dal contesto territoriale di appartenenza e dalla relativa storia criminale: Ida Teresi, Sostituto Procuratore della D.D.A. di Napoli e Maurizio de Lucia, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
Pubblichiamo oggi il primo dei due contributi.
La Redazione
Mafia, corruzione, impresa
di Ida Teresi
Sommario: 1. Premessa. Le spinte riformiste e le loro tesi - 2. I caratteri delle mafie secondo le più recenti indagini - 3. Le Relazioni delle Commissioni Parlamentari di inchiesta che hanno preceduto l’introduzione della fattispecie incriminatrice dell’associazione di stampo mafioso - 4. Conclusioni.
1. Premessa. Le spinte riformiste e le loro tesi
In quella fisiologica, e ciclicamente ricorrente, esigenza di rivalutazione critica di statuti normativi esistenti che connota la vita pubblica del nostro Paese risulta recentemente riproposta da più parti, sebbene con accenti e finalità diversificate, l’istanza di revisione dell’apparato legislativo destinato al contrasto e alla repressione dei delitti commessi da organizzazioni criminali di stampo mafioso e delle gravi condotte di lesione o messa in pericolo del corretto esercizio della funzione pubblica. Le questioni appaiono strettamente connesse, sia in considerazione delle caratteristiche intrinseche dei delitti contro la pubblica amministrazione - connotati, come i reati di mafia, da interesse comune alla segretezza del patto e intrinseca attitudine all’omertà - sia per il loro forte legame con i primi, che taluni tendono a sottovalutare ma che qui si vuole sostenere potersi ritenere strutturale.
Non può dirsi, invero, che si tratti di spinta riformista ascrivibile solo o prevalentemente a ragioni e colorazioni politiche, più o meno contingenti e/o connotate dagli specifici obiettivi programmatici della maggioranza parlamentare di turno; in quanto è da riconoscere una risalente e sempre vitale esigenza di rinnovata interpretazione e rielaborazione critica di tali apparati normativi, in ragione (quantomeno per i reati di criminalità organizzata) delle caratteristiche specifiche di quel complesso regolatorio di settore che ha le sue ragioni funzionali nella particolare struttura delle organizzazioni criminali di stampo mafioso ed è effettivamente qualificabile, nel suo insieme, in termini di sistema normativo di doppio binario.
Caratteristiche strutturali del fenomeno mafioso che hanno condotto, in primis, alla emanazione di una norma (l’art. 416 bis cod.pen.) che presenta in sé elementi di tipicità di necessitata ampiezza, e correlata problematicità: rispetto alla quale formulazione ci si interroga tuttora, di fronte alle tante e diversificate condotte astrattamente sussumibili, su quali siano effettivamente gli elementi di fattispecie e quali la loro ampiezza e funzione qualificatoria, quale l’applicabilità a contesti nuovi o apparentemente tali, quali le caratteristiche della condotta punibile, quale il rapporto tra violenza e corruzione e il loro rispettivo ruolo in termini di definizione del metodo e di forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo [1]. E hanno altresì prodotto il noto e travagliato percorso di ricerca nel sistema di una norma che consentisse di qualificare penalmente le condotte di coloro che forniscono un contributo causale effettivo e più o meno stabile alle organizzazioni mafiose pur non essendo intranei: pervenendosi, come noto, al riconoscimento dell’applicabilità della disciplina del concorso di persone nel reato anche ai reati associativi. Neppure può dirsi che sia una proposta di rinnovata analisi e rilettura del sistema da considerare infondata, poiché, nonostante gli indiscutibili risultati ottenuti in un trentennio di operatività della legislazione antimafia, criticità e insufficienze operative sono sicuramente da riconoscere, e da affrontare con laico realismo e attenta competenza. Può riconoscersi pertanto necessaria una costante verifica della adeguatezza ed efficacia del sistema regolatorio, in una visione costituzionalmente orientata (e da tempo imposta anche dalla normativa sovranazionale) che tenga conto della sussistenza di effettiva adeguatezza e proporzionalità tra gli strumenti repressivi e le condotte di danno e pericolo, nel doveroso bilanciamento tra beni ugualmente tutelati; ma risulta parimenti ineludibile, nel rispetto dei ruoli istituzionali, interrogarsi sul senso, sulla portata e sulle finalità di un apparato normativo che nasce su precise basi conoscitive e ricostruttive del fenomeno oggetto di regolamentazione, al fine di rinvenire eventuali ragioni che possano fungere da argine e contenimento rispetto a dannose derive riformiste, disattente o contraddittorie dal punto di vista tecnico e assiologico.
Preoccupazione che si manifesta nella sua pienezza a fronte di ipotesi di riforma che, operando su più fronti, inducono a ravvisare un complessivo possibile indebolimento degli strumenti di contrasto alle forme più pericolose di criminalità organizzata di stampo mafioso, che fondano la propria potenza criminale non soltanto sulla violenza ma soprattutto sul legame strutturale e funzionale con segmenti deviati della politica e della pubblica amministrazione, oltre che dell’economia: interventi demolitori sul concorso esterno in associazione mafiosa, ulteriore riduzione della possibilità di incriminare le più gravi condotte di abuso da parte di pubblici funzionari, revisione della estensione delle norme sulle intercettazioni per i reati di mafia ai più gravi reati contro la pubblica amministrazione, rappresentano un combinato disposto che rischia di minare, del tutto irragionevolmente, l’efficacia delle indagini senza apportare nessun reale beneficio in termini di garanzie; e a pagarne il conto, quanto mai salato se si pensa alla attuale crisi socio-economica e alle speranze assegnate agli interventi economico-finanziari del PNRR, sarebbe ancora una volta la collettività.
Non può pertanto lasciare indifferenti la proposta di intervenire sul concorso esterno in associazione mafiosa in ragione di asserite tensioni del principio di legalità o di imperativi sovranazionali che imporrebbero riassetti normativi in termini di tassatività e certezza del rischio di incriminazione: come se potesse parlarsi di un delitto davvero di origine giurisprudenziale, nel senso di fonte alternativa a quella di stretta legalità, mentre è noto trattarsi esattamente dell’applicazione di una norma (l’art. 110 cod.pen.) della legge italiana; e come se tale sussunzione non corrispondesse alla sentita esigenza, sempre presente fino a oggi negli interventi legislativi dell’ultimo trentennio, di non lasciare fuori dall’area del penalmente rilevante condotte umane assolutamente funzionali alle organizzazioni mafiose, seppur realizzate da soggetti non intranei.
Questione che appare in tutta la sua centralità soprattutto se posta in relazione alla contemporanea progressiva attività di selezione delle condotte da ritenere effettivamente di partecipazione all’associazione realizzata dalla giurisprudenza di legittimità per comprensibili istanze di rigore qualificatorio: poiché si rischia in tal modo da un lato la restrizione dei confini delle condotte associative e dall’altro l’esclusione della punibilità di soggetti che non è possibile qualificare né come intranei (proprio e anche alla luce del maggior rigore oggi operante nella ricostruzione astratta della condotta di partecipazione) né come concorrenti esterni; sebbene essi siano a disposizione del sodalizio e portatori di contributi causali spesso particolarmente qualificati, come accade per schiere di professionisti e di imprenditori.
Ancora, in occasione di proposte di riforma della normativa in materia di utilizzo del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione [2], viene sostenuta da alcuni la irragionevolezza della estensione (operata dalla l. 9 gennaio 2019 n. 3, dopo che già la riforma del 2017 ne aveva regolamentato l’uso per tutti i delitti che consentono le intercettazioni) delle norme applicabili alle indagini per delitti di mafia anche ai più gravi tra i reati di pubblica amministrazione; in particolare, sul presupposto delle affermate differenze sostanziali tra le due tipologie di delitti, si segnala da alcuni il potenziale di invasività del captatore informatico e la sua capacità di realizzare una intercettazione itinerante che troverebbe una giustificazione per la criminalità organizzata di stampo mafioso - attesi i caratteri propri di tali organizzazioni, protette da meccanismi di omertà, e in ragione della loro eccezionale pericolosità - mentre sarebbe strumento non assolutamente necessario e comunque sproporzionato per altri pur gravi reati [3].
La tesi, muovendo dal riconoscimento del carattere “totalizzante” dei delitti della “grande criminalità organizzata”, che presuppongono attività che si svolgono in permanenza e in tutti i luoghi frequentati dagli indiziati e rendono accettabile una compressione dei diritti più intensa di quella realizzabile nelle indagini per altri pur gravi reati, conclude nel ritenere che la “devastante invasione della sfera privata realizzata dal trojan ben può essere considerata un prezzo sproporzionato e non strettamente necessario nell’ambito di una società democratica per il contrasto ai reati amministrativi…" poiché “…la proporzione, che appare certamente ricorrente nel contrasto delle attività delittuose delle associazioni criminali, risulta socialmente e giuridicamente discutibile quando il trojan è usato per i reati comuni…” [4].
Occorre allora interrogarsi sui parametri fondamentali che appaiono sorreggere tali proposizioni, invero piuttosto assertive: in primo luogo, verificando se effettivamente i caratteri strutturali tipici dei delitti di mafia (“protezione” delle condotte e dei soggetti autori grazie a meccanismi di omertà, diffusività “ambientale”, eccezionale pericolosità e allarme sociale) non siano finalmente da riconoscere anche a delitti, quali la corruzione, intrinsecamente fondati sul comune interesse dei soggetti coinvolti a mantenere comportamenti omertosi; caratterizzati dalla medesima diffusività “ambientale” tipica del fenomeno mafioso, che può rendere difficile se non impossibile l’accertamento della condotta in assenza di strumenti di investigazione maggiormente invasivi; e di eccezionale pericolosità in quanto dannosi per il corretto funzionamento dello Stato e lesivi dei suoi beni e interessi fondamentali, quali la gestione delle risorse e delle finanze pubbliche, anche di fonte sovranazionale, la somministrazione ai cittadini di servizi pubblici essenziali, espressione minima di democrazia, e la garanzia di argini contro tensioni sociali che possano derivare dalla dissipazione di denaro pubblico.
Ma soprattutto, considerata la centralità dell’affermazione di una asserita differenza o lontananza tra delitti di mafia e delitti contro la pubblica amministrazione, può essere utile chiedersi se sia proprio così oppure se, all’opposto, l’intrinseca struttura delle organizzazioni di stampo mafioso abbia in sé, costituzionalmente, una quota indefettibile di attitudine ad avvalersi strumentalmente dei pubblici poteri per affermare il proprio metodo mafioso; se, ancora e oltre, definire il metodo soltanto in termini di violenza agita o evocata ma comunque espressa sia probabilmente frutto di una non indiscutibile interpretazione della norma e di un carente approfondimento delle ragioni storiche e politico-criminali della sua emanazione, nonché delle basi cognitive e ricostruttive del dato fattuale che ne hanno determinato la specifica formulazione.
In altre parole, la sfida appare proprio quella di rimettere in discussione le reali componenti del concetto di metodo mafioso, il ruolo da attribuire alla forza di intimidazione promanante dal vincolo nella ricostruzione della fattispecie, la stessa fenomenologia attraverso cui essa può manifestarsi, e il tasso di incidenza che su di essa hanno l’attitudine e l’esigenza di avvalersi di metodi corruttivi che appaiono essere un connotato indefettibile delle organizzazioni più strutturate e concorrono a determinare quello stato di soggezione che condiziona e orienta i comportamenti di chiunque si trovi ad avere occasioni o motivi di contatto o relazione con l’organizzazione, impedendone una effettiva libertà di autodeterminazione [5]. E, tutto questo, guardando in prima battuta a come le organizzazioni mafiose vivono e operano, oggi come nel passato.
In questo processo di verifica risulta indispensabile affidarsi in primo luogo ai documenti parlamentari, posto che indubbiamente nel secolo scorso la capacità di analizzare e rappresentare la mafia è stata espressa soprattutto dalla funzione parlamentare: fatto non soltanto fisiologico e doveroso, deve ritenersi, ma anche connesso all’arretratezza operativa e al deficit culturale che a lungo ha caratterizzato il sistema giudiziario del tempo; in particolare, il riferimento è alle Relazioni delle Commissioni Antimafia che hanno offerto la più approfondita ricostruzione del fenomeno mafioso prima che le nuove regole di diritto sostanziale e processuale offrissero finalmente alla magistratura gli strumenti per accertare anche in via giudiziaria dinamiche e caratteristiche operative di quei sodalizi, contribuendo a promuovere una più diffusa crescita culturale in termini di consapevolezza.
Ma ancora prima occorre rilevare che in senso contrario a quanto affermato dai sostenitori di esigenze riformiste/demolitorie depongono indubitabilmente le acquisizioni giudiziarie degli ultimi decenni [6] che descrivono sodalizi di stampo mafioso nei quali una componente fondamentale è rappresentata proprio da soggetti dediti con assoluta cautela comunicativa e spasmodica cura della riservatezza agli investimenti speculativi e al condizionamento delle pubbliche amministrazioni per conto dell’organizzazione e in suo favore [7]. Il che induce a ritenere che una strategia di contrasto davvero efficace non possa assolutamente prescindere dall’includere nel focus investigativo quei segmenti operativi, tanto più produttivi per l’organizzazione quanto insidiosi e nascosti.
Si dirà che intercettando gli affiliati, anche in modo invasivo, si potrà pur sempre giungere ai loro legami affaristici e politici; ma tale affermazione contrasta con il dato di realtà, emergente da decine di indagini che hanno consentito di accertare la raffinata strategia di occultamento dei soggetti, dei legami e degli affari più strategici per i sodalizi, e la possibilità di giungerne efficacemente alla ricostruzione partendo proprio da indagini di pubblica amministrazione o frode fiscale. Soprattutto, ci si chiede quali possano essere le ragioni tecniche e di politica criminale che conducano a rendere consapevolmente più ardua l’investigazione, ponendo ancora una volta lo Stato in condizioni di minorata difesa rispetto a condotte criminali di drammatico impatto socio-economico: se è vero, come è vero, che “il contrasto alle mafie, oggi caratterizzate da modelli imprenditoriali che alterano le dinamiche economiche, la libera concorrenza e l’ambiente, deve sempre più ispirarsi ad una migliore tutela della spesa pubblica…”[8].
Molte indagini condotte dalla procura partenopea [9], infatti, hanno consentito di pervenire finalmente al disvelamento dei rapporti più sensibili e fruttuosi per l’organizzazione, e parimenti più nascosti, soltanto mettendo in campo uno straordinario impegno investigativo [10], e relative risorse, per giungere - in tempi non brevi - a individuare quei soggetti particolarmente mimetizzati e protetti che hanno svolto a lungo una fondamentale opera di raccordo tra l’organizzazione, la pubblica amministrazione, il mondo dell’impresa: il tassello intermedio, dunque, a lungo nascosto, rappresenta lo scoglio maggiore per ottenere risultati investigativi positivi. Non è pertanto del tutto condivisibile l’idea che l’estensione degli strumenti operativi più efficaci ai delitti dei pubblici amministratori sarebbe comunque salvaguardata dalla sussistenza dell’aggravante mafiosa [11], quando riconoscibile, che renderebbe comunque applicabile il regime normativo più rigoroso, in quanto è proprio la difficoltà di individuazione dei soggetti che, intermediati da fiduciari a loro volta sapientemente nascosti, operano nella pubblica amministrazione e nell’economia a favore dell’organizzazione a rendere anche difficilmente applicabile l’aggravante mafiosa a fatti che (in assenza del disvelamento di quel segmento di intermediazione) potrebbero apparire delitti comuni.
Viceversa, poter indagare su fatti di corruzione con gli strumenti intercettivi più efficaci rende maggiormente possibile il disvelamento del legame con il sodalizio, e dunque la possibilità di condurre indagini maggiormente produttive in tempi più brevi e con un più ragionevole impiego di risorse, partendo dal reato comune. E ciò, come prima detto, a tacere delle ragioni di politica criminale che fondano ex se la giustificazione di strumenti più efficaci per un delitto di eccezionale gravità e allarme sociale, e di difficilissimo accertamento, quale la corruzione.
Resta pertanto non ragionevole, né sufficientemente motivata, se non con affermazioni piuttosto apodittiche e astratte e prive di collegamento con la realtà fattuale, la scelta di indebolire anziché rafforzare la capacità di accertamento e di contrasto di tali fenomeni criminali da parte dell’Autorità giudiziaria.
2. I caratteri delle mafie secondo le più recenti indagini
Con un linguaggio che ritroviamo nelle pronunce giudiziarie che, all’esito delle indagini eseguite dalla Direzione distrettuale antimafia napoletana, hanno ricostruito già da qualche anno gli assetti attuali della criminalità organizzata campana, la Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia per il primo semestre del 2022 riconosceva la “tendenza rilevata ormai da diversi anni circa il generale inabissamento dell’azione delle consorterie più strutturate che hanno raggiunto un più basso profilo di esposizione e, come tale, particolarmente insidioso proprio in ragione dell’apparente e meno evidente pericolosità. Tale atteggiamento risulta sempre più diffuso in tutte le matrici mafiose in considerazione del vantaggio loro derivante dalla mimetizzazione nel tessuto sociale e dalla conseguente possibilità di continuare a condurre i propri affari illeciti in condizioni di relativa tranquillità senza destare le attenzioni degli inquirenti. La criminalità organizzata infatti preferisce agire con modalità silenziose, affinando e implementando la capacità d’infiltrazione del tessuto economico-produttivo anche avvalendosi delle complicità di imprenditori e professionisti, di esponenti delle istituzioni e della politica formalmente estranei ai sodalizi” [12].
L’accertamento giudiziario di questa capacità di inabissamento [13] e mimetizzazione, infatti, appare sicuramente uno dei risultati più importanti conseguiti negli ultimi anni dalle indagini e dai processi in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso; sicuramente in Campania, dove tale strategia è stata realizzata anche strumentalizzando opzioni “dissociative” volte a contenere di fatto il danno derivante dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e ottenere benefici (in primis evitare condanne all’ergastolo per gli omicidi, contestati nei provvedimenti cautelari e quindi confessati) senza tuttavia fornire nessun apporto all’accertamento delle reali dinamiche criminali dei grandi sodalizi, incentrate soprattutto sui rapporti con la politica e sui correlati grandi affari, che sono stati a lungo protetti da una fitta coltre [14]; ma, per quanto è possibile rilevare, ciò è accaduto anche nei sodalizi operativi in altre regioni italiane [15]. Non per nulla, del resto, la Relazione al Parlamento la indica quale caratteristica di tutte le consorterie criminali di stampo mafioso più “strutturate”.
E la questione non è da poco, ai fini che qui interessano, poiché induce a porsi alcune domande centrali, le cui risposte non potranno che condizionare la soluzione al quesito posto in premessa: se questa è la caratteristica strutturale degli attuali sodalizi mafiosi, quali ulteriori affermazioni in termini di ricostruzione del fenomeno mafioso è possibile inferirne? Quale, cioè, la connotazione propria di quelle strutture criminali che il Legislatore intende perseguire e contrastare, e con strumenti adeguati a coglierne la fenomenologia specifica? Quale, in termini strutturali e funzionali, il ruolo della politica e dell’economia?
Infine, quale corollario logico: se questa azione di ricostruzione dell’operatività propria delle organizzazioni di stampo mafioso è stata accertata grazie agli strumenti investigativi e processuali posti sinora a disposizione dell’autorità giudiziaria, per quali ragioni, in che limiti e a quali fini intervenire in direzione riformista su uno statuto normativo che ha dato i suoi frutti?
Probabilmente uno dei punti di partenza dovrebbe cogliersi proprio in quella che i giudici prima e il Ministro dell’Interno poi hanno definito “capacità di inabissamento e mimetizzazione”, che in sintesi descrive null’altro che quel carattere di segretezza che è proprio delle associazioni criminali, ma che in quelle di stampo mafioso si esprime nella spiccata attitudine a tenere riservati i rapporti, più preziosi per il sodalizio e pericolosi per la collettività, con il mondo della politica, della pubblica amministrazione, dell’imprenditoria: talvolta non individuabili neppure in termini di alterità ma di immedesimazione.
Mentre il braccio armato di queste organizzazioni, caratterizzato dai livelli bassi o intermedi di una manovalanza che rappresenta pur sempre uno dei fondamenti su cui si regge la struttura, si “espone” e “viene esposto” necessariamente (seppure, è chiaro, con tutte le cautele volte a contenere i danni derivanti da detenzioni e condanne), essendo dedito essenzialmente alla raccolta delle provviste necessarie a mantenere gli affiliati e le loro famiglie (attraverso le estorsioni e lo spaccio di stupefacenti; il mercato del falso o l’usura) oppure alla espansione o mantenimento dei “confini”, non soltanto territoriali, sottoposti al proprio controllo criminale (giungendo alla commissione di omicidi, gambizzazioni, e cc.dd. “stese”: atti plateali e violenti espressione quasi sempre di momenti di fibrillazione interna ed esterna e dunque di debolezza dei gruppi, cui le organizzazioni più strutturate ricorrono soltanto là dove strettamente necessario, sia perché ne hanno poco bisogno sia perché attraggono evidentemente le maggiori attenzioni delle autorità), esiste in quasi tutte le organizzazioni più radicate, e quantomeno in quelle aventi origine nel territorio campano, un livello più alto e nascosto composto da “quadri”, reggenti e capi, che, dedito ai grossi affari, regge le fila di una protettissima rete di professionisti e imprenditori, di pubblici amministratori e politici, talvolta essi stessi intranei talaltra asserviti al gruppo mafioso in funzione di reciproci vantaggi, o semplicemente concorrenti in specifici delitti di tipo affaristico [16].
E questo livello “alto” appare sicuramente quello maggiormente mimetizzato, in misura direttamente proporzionale da un lato ai benefici che apporta all’organizzazione, dall’altro ai danni che arreca alla collettività e al Paese. In esecuzione di una strategia [17] che ha dato certamente i suoi frutti - se è vero, come è vero, che negli ultimi trent’anni alcune delle organizzazioni campane, pur fortemente indebolite da processi e condanne, hanno mantenuto una preoccupante presenza nell’economia e nelle relazioni con la pubblica funzione - gli esponenti di vertice dei sodalizi più forti hanno intessuto e mantenuto nel tempo rapporti anche con i livelli più alti del potere economico e politico-amministrativo, di talché sono stati accertati giudizialmente gli interessi mafiosi non solo nei più disparati settori del medio o piccolo commercio (dalla vendita di abbigliamento a quella di altri beni di largo consumo; dai distributori di carburanti alla gestione di aree di servizio, di bar e ristoranti) ma anche in settori più strategici e storicamente più protetti da ingerenze esterne e bisognevoli di provvedimenti amministrativi favorevoli quali la commercializzazione del petrolio, la raccolta e il trattamento dei rifiuti, l’edilizia e i settori a essa connessi. Per non parlare del mercato immobiliare, anche di lusso, e della grande ricettività alberghiera [18].
Ebbene, la possibilità per i vertici dei sodalizi di stampo mafioso di sedere ai tavoli dove si decidono gli affari (sia pubblici che privati) più importanti deriva evidentemente non solo da contingenti capacità personali ma soprattutto da una “riserva di utili” e da un patrimonio operativo oggettivamente trasmissibile, costituito da un know-how oramai stabilmente acquisito dall’impresa mafiosa e da rapporti sensibili più che rodati.
Il che fa pensare alla ulteriore conseguente considerazione: non può essere recente l’acquisizione di questa professionalità che consente di muoversi con dimestichezza nella economia e nella politica, tale è elevato il livello raggiunto e tanto strategici sono i settori in cui i capitali mafiosi sono stati ammessi e immessi. Osservazione che peraltro riceve forte sostegno dalla analisi di ciò che la mafia, o le mafie, sono state da sempre, dalle loro origini: seppur con gli inevitabili (e per quei sodalizi assolutamente vitali) “adattamenti” alla evoluzione socio-economica e politica dei territori ove esse si sono nel tempo insediate.
Esiste infatti un pensiero abbastanza diffuso, non solo nella pubblicistica ma anche tra gli operatori del diritto, secondo il quale negli ultimi tempi la mafia si sarebbe evoluta in soggetto imprenditoriale, inserendosi molto spesso ai livelli più alti dell’economia, ed abbia pertanto - in misura direttamente proporzionale, considerata la complessità della moderna organizzazione sociale e la stretta correlazione tra impresa privata ed esercizio dei poteri pubblicistici - sempre più bisogno, oggi, non solo di professionisti, faccendieri o imprenditori collusi ma anche di pubblici amministratori infedeli più o meno stabilmente a disposizione dei sodalizi, se non addirittura a essi organici: soggetti qualificati o comunque titolari di poteri pubblici pronti a strumentalizzare le proprie funzioni, all’occorrenza, al fine di garantire il raggiungimento degli obbiettivi di pervasivo controllo dell’economia legale da parte delle organizzazioni mafiose.
Si tratta di una osservazione non infondata ma imprecisa sotto il profilo della sua collocazione temporale: la mafia ha sempre fatto impresa e ha sempre intessuto opportunistici e strumentali rapporti con il potere pubblico e con la pubblica amministrazione. La stessa ragione dell’inserimento nel codice penale della nuova fattispecie di cui all’art. 416 bis nel lontano 1982 (introdotto dall’art. 1 della legge n. 646 del 13 settembre 1982), infatti, risiedeva esattamente dalla necessità di criminalizzare quelle condotte che, per quanto prepotentemente capaci di attentare all’ordine pubblico ed economico e alterare profondamente il mercato, rischiavano di non essere sussumibili nel delitto associativo semplice; e ciò, essenzialmente, in quanto riferibili a contesti associativi non necessariamente connotati dal programma di commettere delitti e neppure indefettibilmente dediti a comportamenti apertamente violenti [19].
Occorreva in altri termini adottare strumenti in grado di fronteggiare strutture economiche e di potere orientate a occupare i mercati e stravolgerne le regole sfruttando la propria dote criminale e i profondi legami con la politica, soprattutto quella espressa dai centri decisionali locali ma anche sostenuta da quelli centrali; strutture capaci di ostacolare lo sviluppo di una moderna imprenditoria e occupare interi segmenti economici grazie alla combinazione tra forza mafiosa e finanziaria, e il sostegno insostituibile di esponenti politici e amministratori pubblici [20].
Non è pertanto del tutto esatto affermare che le attuali forme di manifestazione delle organizzazioni criminali abbiano assunto negli ultimi tempi caratteri più moderni e raffinati, lasciando da parte le armi o la coppola per indossare il doppiopetto: una lettura attenta dei dati storici ricavabili dalle fonti induce a conclusioni esattamente opposte e consente di affermare che la mafia ha sempre fondato il proprio potere sia sulla violenza, non sempre né necessariamente manifesta o agita, sia sul dialogo e talvolta la compenetrazione diffusa e asfissiante con i pubblici poteri, con il mondo dei professionisti e con i detentori della ricchezza (patrimoniale o imprenditoriale che fosse) del Paese. Quello che è più recente, invero, è l’accertamento giudiziario definitivo di tali caratteristiche, che deriva evidentemente da più fattori: una più raffinata capacità di ricostruzione fattuale in ambito giudiziario, frutto sicuramente di una maggiore professionalità e specializzazione acquisita nel tempo dalla magistratura italiana; una più matura consapevolezza pubblica, resa indispensabile anche dai traumi del tragico periodo stragista; e strumenti investigativi e processuali più efficaci, nel tempo approntati.
È stato possibile accertare, infatti, che importanti sodalizi campani hanno largamente beneficiato dell’occultamento dei rapporti con la politica e le istituzioni, mai oggetto di rivelazioni; del nascondimento e della implementazione delle risorse finanziarie, mai svelate, sfruttando nel tempo la disponibilità di ampi settori dell’impresa a fare affari con la forza economica e mafiosa della camorra vincente; della assoluta protezione della riservatezza di una nutrita schiera di soggetti, mai svelati, che per esperienza e attitudini avrebbero meglio potuto sviluppare nel tempo la manovra di diffusa infiltrazione nella politica e nell’economia; del legame strutturale con gli amministratori pubblici, risalente a una stagione (quella tra gli anni ‘80 e gli anni ’90) caratterizzata non soltanto da faide cruente ma anche e soprattutto da patti tra politica e camorra. Lasciando indietro alcuni capri espiatori.
Non è del resto di limitato rilievo il fatto che una delle vicende più oscure della storia del Paese [21], rappresentata dalla trattativa tra lo Stato e Raffale Cutolo per il rilascio dell’assessore ai lavori pubblici della Regione Campania Ciro Cirillo, democristiano, sequestrato dalle Brigate Rosse il 27 aprile 1981, abbia visto la discesa in campo di camorristi e loro referenti politici accanto a esponenti nazionali della forza politica in quel momento più forte, la Democrazia Cristiana, servizi segreti e apparati deviati dello Stato, al fine - comune a tutti - di convincere il capo della N.C.O., che aveva un sostanziale predominio nelle carceri, a intervenire sugli appartenenti alle Brigate Rosse detenuti affinché fosse restituita la libertà all’uomo politico, e soprattutto fosse impedito che lo stesso potesse svelare ai brigatisti i segreti del post-terremoto. Vale a dire del saccheggio del denaro pubblico a opera di una nutrita schiera di imprenditori e pubblici amministratori strettamente legati alla criminalità organizzata, campana e non solo.
3. Le Relazioni delle Commissioni Parlamentari di inchiesta che hanno preceduto l’introduzione della fattispecie incriminatrice dell’associazione di stampo mafioso
Nel corso della VI Legislatura il Parlamento italiano attraversò una fase di fondamentale importanza per lo studio e la ricostruzione dei caratteri peculiari delle organizzazioni mafiose, e per l’individuazione degli strumenti di contrasto; la lettura delle Relazioni di maggioranza e di minoranza che nel 1976 chiusero i lavori della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia fornisce un quadro estremamente istruttivo.
Il tema aveva invero impegnato il Parlamento già nelle precedenti legislature, ma l’impegno profuso in particolare negli anni Settanta condusse poi all’adozione della norma-cardine della legislazione antimafia; soprattutto, è da dire, grazie alle conclusioni raggiunte nel 1976 nella Relazione di minoranza [22] della quale furono artefici principali Pio La Torre e Cesare Terranova.
Ebbene, ciò che in primo luogo colpisce della Relazione di minoranza è la aperta e coraggiosa denuncia della volontà della maggioranza, chiaramente emergente dalla sua Relazione [23], di sterilizzare in qualche modo la portata dirompente degli accertamenti compiuti dalla Commissione affermando che la mafia di quegli anni si era evoluta verso forme di gangsterismo e banditismo, e che si era attenuata, grazie anche all’intervento dello Stato (con le indagini, le operazioni di polizia, le azioni dei prefetti) la sua storica propensione al condizionamento dei pubblici poteri e al controllo della economia. Addirittura, secondo la relazione del senatore Carraro, stava in qualche modo diradandosi anche la tendenza della popolazione ad assumere comportamenti omertosi, diffondendosi una maggiore fiducia verso lo Stato, che induceva anche a denunciare.
E in effetti il corposo documento della maggioranza, pur avendo affermato in premessa di non voler tanto proporre una ricostruzione storica del fenomeno mafioso quanto una analisi dei suoi connotati fondamentali, finalizzata a “tentare di individuare i modi più efficaci di una lotta decisa alla mafia”, si diffondeva poi in una approfondita rappresentazione storica (il capitolo primo veniva non per nulla intitolato “La Genesi della Mafia”) che, partendo dalle vicende dell’800, attraversava un paio di secoli di storia della Sicilia; e, pur evidenziando soprattutto il ruolo della violenza e dei fatti di sangue nell’agire mafioso, non aveva potuto comunque fare a meno di riconoscere la mano mafiosa in numerosi e vitali momenti della storia politica ed economico-sociale siciliana, impegnandosi nella descrizione dell’iniziale ruolo della mafia nella economia rurale, attraverso la difesa del latifondo, e del successivo sviluppo della sua presenza nella vita della regione durante il periodo della forte urbanizzazione, a partire dal dopoguerra.
Venivano infatti analizzate le gesta, e i legami con il potere pubblico, di una mafia definita “agricola” a cui si riconosceva un ruolo fondamentale nel periodo pre- e post- unitario, durante le due guerre e nel periodo fascista; per poi passare in rassegna la c.d. mafia “urbana”, con la precisa indicazione di soggetti e vicende dimostrative della straordinaria capacità di adattamento dell’organizzazione rispetto alla evoluzione economica e socio politica: capacità che le aveva consentito non soltanto il mantenimento ma soprattutto il rafforzamento della sua infiltrazione negli assetti del potere pubblico e privato.
La Relazione dedicava invero una intera sezione alla questione “Mafia e potere pubblico”, giungendo ad ammettere che “si può dire senz’altro che le ricerche compiute hanno messo in luce molteplici anomalie di funzionamento dei vari organi della pubblica amministrazione, che hanno causato alla comunità gravi pregiudizi di ordine sociale, igienico, urbanistico ed economico, sotto le frequenti spinte di forze extra-legali che indubbiamente portano un’impronta di natura mafiosa”. Impronta mafiosa che la Relazione ritrovava in particolare negli “interventi comunali in materie di alto interesse sociale, in primo luogo in ordine allo sviluppo edilizio ed urbanistico delle città e dei centri più importanti della Sicilia occidentale…La gestione dei Comuni di qualche importanza della Sicilia occidentale è stata connotata da una serie frequente, anzi continua, di irregolarità amministrative di ogni genere…che per la natura più che per la quantità, e soprattutto per il contesto in cui si sono verificate, denunciano chiaramente, se non un’origine mafiosa, certamente il pericolo di un cedimento della pubblica amministrazione alle insidie, alle lusinghe, in una parola alla capacità di infiltrazione e di ricatto del potere mafioso in quegli anni presente con tutta la sua forza nei centri urbani presi in esame”.
“Irregolarità” sistematiche nel rilascio di licenze edilizie e di commercio e nella concessione di appalti: tra i tanti esempi - ricordava ancora la Relazione di maggioranza - dopo la frana di Agrigento del 1966 una commissione ministeriale di inchiesta accertò che “gli uomini di Agrigento hanno errato fortemente e pervicacemente …nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, interamente e coscientemente voluta, di atti di prevaricazione…di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento…”. Abusi, favoritismi e illeciti penali che mettevano in luce “come fosse sempre ampia la zona di permeabilità dei pubblici poteri alle azioni e ai tentativi di infiltrazione della mafia”.
Ancora la Relazione di maggioranza affermava “…ma fu in particolare a Palermo che l’accennato fenomeno assunse dimensioni per così dire visive, di tale evidenza cioè da non lasciare dubbi sull’insidiosa penetrazione mafiosa all’interno dell’apparato pubblico”, riconoscendosi che negli anni ’60 (e la Relazione, si ricorda, è del 1976) la gestione amministrativa del Comune raggiunse “vertici sconosciuti nell’inosservanza spregiudicata della legge”, con la “connivenza degli organi pubblici con gli ambienti mafiosi”; e che tutti gli abusi commessi e i favoritismi assicurati a tali ambienti andavano analizzati nel quadro delle vicende personali di colui che fu uno dei protagonisti della situazione di quegli anni a Palermo, Vito Ciancimino, cui la Relazione dedicava ampio spazio, per concludere che “il caso Ciancimino è stato l’espressione emblematica di un più vasto fenomeno che inquinò negli anni sessanta la vita politica e amministrativa siciliana, per effetto delle interessate confluenze e aggregazioni delle cosche mafiose e dei tentativi di recupero, ai fini elettorali o per giochi interni di partito, delle vecchie forze del blocco agrario o di uomini politici logorati dalla consuetudine con mondo mafioso…il successo di Ciancimino non si spiega come un fatto casuale…ma si comprende solo se visto nel quadro d’una situazione ampiamente compromessa da pericolose collusioni o da cedimenti non sempre comprensibili…”.
Tuttavia, teneva a precisare la Relazione, quasi ad anticipare le conclusioni che avrebbe di seguito offerto, “attualmente Ciancimino non fa nemmeno parte del consiglio comunale di Palermo…”, segnalando altresì che a carico dell’uomo politico pendessero diversi procedimenti penali per delitti contro la pubblica amministrazione. Ciancimino nell’angolo, dunque; e i rapporti tra mafia e politica nel dopo-Ciancimino in fase di evaporazione.
Non per nulla, infatti, nella parte finale la Relazione si diffondeva nella descrizione di una c.d. “quarta ondata mafiosa” dedicata al decennio che precedeva il 1976 (data della conclusione dei lavori della Commissione e del deposito della relazione stessa) per descrivere una mafia dedita in quella fase soprattutto a omicidi, stupefacenti, contrabbando.
Per tal via, di fatto contraddicendo quanto essa stessa aveva riconosciuto essere accaduto fin dalle origini e almeno fino a pochi anni prima, la maggioranza riusciva a concludere nel senso di una sostanziale sparizione di quei connotati peculiari del fenomeno mafioso poco prima descritti, per affermare “d’altra parte…la stessa delinquenza mafiosa tende a trasformarsi lentamente, ma in modo mano a mano accentuato, in una comune forma di delinquenza organizzata, non più connotata da requisiti tipici, pur priva di proprie caratterizzazioni, ma improntata soltanto a metodi di spietata violenza e di spregiudicata decisione…l’inserimento della mafia nella società urbana e industriale, la maggiore e più incisiva compressione che questa società necessariamente esercita sulle possibilità di aggregazione di un potere informale…infine, la lenta trasformazione della mafia verso forme di gangsterismo, hanno prodotto…una sensibile modificazione dei suoi rapporti con i poteri pubblici…e tende ad allentarsi (se non a scomparire) la presa che per tanto tempo la mafia ha avuto sull’apparato del potere formale.”
Dunque, mafia sempre più organizzazione criminale comune, basata sulla violenza e sul crimine di strada e non più sui rapporti con il potere pubblico; capacità in qualche modo autonoma della società urbana e industriale di ridurre gli spazi della prepotenza mafiosa e non più spasmodica ricerca di collegamento e supporto vicendevole tra mafia ed economia.
Ricostruzione chiaramente espressiva di un approccio negazionista e comunque consapevolmente e volutamente riduttivo dell’effettivo ruolo che in quel momento aveva la mafia, in Sicilia e non solo considerato lo stretto collegamento degli amministratori pubblici dell’isola con i centri decisionali romani. E volontà, neppure tanto nascosta, di frenare in qualche modo interventi normativi ben più efficaci.
I rapporti tra mafia e potere pubblico erano secondo la maggioranza evaporati in appena un quinquennio, più o meno per autonoma consunzione; tanto che la stessa Relazione affermava: “non è senza significato che gli ultimi anni, a differenza di quelli fino al 1970, non abbiano fatto registrare nelle città siciliane nessuno scandalo di qualche dimensione, che coinvolgesse insieme mafia e pubblici poteri. È un segno in più di una evoluzione nel senso indicato del fenomeno mafioso...”.
Dimenticava, la relazione di maggioranza, che Ciancimino era uomo della Democrazia Cristiana, l’uno e l’altra ancora saldamente al potere; che era rimasto nella carica di sindaco di Palermo fino al 1971; che era vicino a Salvo Lima, del quale (e dei relativi legami con la mafia) la relazione di maggioranza neppure parlava; che non era stato certamente messo nell’angolo dal partito, se è vero come è vero che soltanto la battaglia parlamentare della minoranza guidata da La Torre e da altri, e confluita nella relativa Relazione, fu in grado di far traballare ma non crollare il potere dell’ex sindaco di Palermo, che continuò anche negli anni successivi a essere tra i massimi esponenti della DC siciliana accanto a Salvo Lima, a capo della corrente andreottiana.
Una conclusione che determinò la forte, appassionata e indignata reazione della minoranza, che osteggiò fermamente tali tentativi con una accurata ricostruzione e documentazione di ciò che essa qualificò in termini di “compenetrazione” tra mafia e potere politico, viva e vitale più che mai, accusando che nel documento di maggioranza “pur affermando…che il dato caratteristico peculiare che distingue la mafia dalle altre forme di delinquenza organizzata è la “ricerca del collegamento con il potere politico”, si oscilla, nel seguito, tra la tesi sociologica della mafia come “potere informale” che occupa il vuoto di potere lasciato dallo Stato, e la realtà storica della compenetrazione fra il sistema di potere mafioso e l’apparato dello Stato. Si sfugge cioè al nodo centrale della questione: che tale compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)”.
Non un potere informale che si insinua negli spazi lasciati vuoti dal potere formale, ma un potere “compenetrato” in quello formale: la mafia è un fenomeno di classi dirigenti, affermava la Relazione La Torre. La compenetrazione tra mafia e potere politico aveva avuto fino ad allora, e per decenni, l’obiettivo di tenere a bada le classi subalterne, impedendo la modernizzazione e lo sviluppo democratico della regione.
E significativamente la Relazione di minoranza segnalava come a partire dagli anni ’60, con l’intensificarsi di un’azione di contrasto (espressa da parte della politica, e da inchieste giudiziarie), che passava anche attraverso la stessa istituzione di quella Commissione parlamentare, qualcosa stava cambiando: “prima del 1963 molti mafiosi ostentavano i loro rapporti con gli uomini politici e gli amministratori locali, e viceversa. La presenza dei mafiosi nei seggi elettorali era sfacciata e aggressiva. Oggi questi fatti vistosi di rapporti tra mafiosi e uomini politici si sono rarefatti”.
Ma, concludeva, ciò non consentiva di affermare che la mafia non esisteva più, né che i suoi rapporti con il potere pubblico e politico fossero stati definitivamente tagliati, né che la mafia si fosse trasformata in puro e semplice gangsterismo: sarebbe stato un grave errore, secondo la relazione La Torre-Terranova, se la Commissione avesse accolto le tesi della maggioranza, che miravano a ridurre il ruolo della corruzione come elemento strutturale esaltando soltanto le espressioni di violenza manifesta; ciò non avvenne, tanto che l’atto successivo fu la introduzione della norma che diede veste giuridica a quelle acquisizioni.
Infatti, il 31 marzo 1980 fu presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge che aveva quale primo firmatario proprio Pio La Torre, cui si aggiunsero poi le proposte di Virginio Rognoni; l’art. 416 bis del codice penale, come noto, fu quindi introdotto con la legge n. 646 del 13 settembre 1982. Pio La Torre era stato nel frattempo assassinato dalla mafia il 30 aprile dello stesso anno; Cesare Terranova il 25 settembre 1979.
4. Conclusioni
La Relazione La Torre-Terranova si oppose fermamente al tentativo di disconoscere le specificità del fenomeno mafioso, fondate sul rapporto strutturale col potere pubblico. Tanto la violenza quanto la corruzione, dunque, apparivano gli elementi peculiari e indefettibili dell’agire mafioso. Una diversa tesi avrebbe reso inutile l’introduzione della nuova norma: come la maggioranza parlamentare lasciò intendere quando affermò che la mafia era divenuta, sul finire di quegli anni ’70, una normale organizzazione criminale, soltanto particolarmente violenta e spregiudicata.
Piuttosto, l’intensificarsi di un’azione di inchiesta e contrasto aveva indotto a nuovi comportamenti: il nascondimento di rapporti in precedenza sfacciatamente ostentati. Cominciava, potremmo dire, quello che le sentenze di questi anni e la Relazione del Ministro dell’Interno del 2022, come segnalato in apertura, definivamo inabissamento: la accurata protezione dei rapporti più sensibili, quelli tra le organizzazioni criminali di stampo mafioso e i pubblici e privati poteri.
Il rischio di non comprendere e non agire adeguatamente fu evitato, allora, grazie alla coraggiosa attività di denuncia delle forze migliori del Paese.
[1] Davvero numerose le sentenze che, a dimostrazione di una riflessione che è sempre in atto, negli ultimi anni si sono interrogate su questioni nevralgiche eppure ancora non risolte; tra esse: le essenziali forme di manifestazione della condotta di partecipazione e la loro necessaria concretezza ed efficacia causale rispetto alla vita del sodalizio; il valore dell’affiliazione rituale; la definizione del metodo mafioso e il ruolo della violenza e della intimidazione, soprattutto in relazione a forme associative fortemente connotate da logiche corruttive; le nuove mafie, le mafie straniere, le mafie delocalizzate; i confini tra partecipazione e concorso esterno. Tra le tante, SS.UU. Penali n. 36958/21 del 27.5-11.10.21, imp. Modaffari; Sez. III pen. n. 2351/23 del 18.11.22-20.1.23, imp. Almanza; Sez. II pen, n. 31920/21 del 4.6-23.8.21, imp. Alampi; Sez. VI pen., n. 1162/22 del 14.10.21-13.1.22, imp. Di Matteo; Sez. VI pen., n. 14444/23 del 21.2-5.4.23, imp. Abubakar; Sez. II pen., n. 39774/22 del 7.5-20.10.22, imp. Aiello.
[2] Disegno di legge del Sen. Zanettin di Forza Italia, volto a introdurre “Modificazioni agli artt. 266 e 267 del codice di procedura penale e alla legge 9 gennaio 2019, n. 3 in materia di utilizzo del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione”. La Relazione della Commissione giustizia del Senato redatta al termine dell’indagine conoscitiva dal presidente Bongiorno e dai relatori Zanettin e Berrino, è stata approvata il 20 settembre scorso.
[3] Vedasi, ad esempio, Nello Rossi, Trojan Horse: tornare alla riforma Orlando? Il difficile equilibrio nell’impiego del captatore informatico, su Questione Giustizia, 28.12.22.
[4] Ancora Nello Rossi, nell’articolo riportato nella precedente nota.
[5] La vicenda di Mafia Capitale è nota. Diversi commentatori hanno ritenuto che con la decisione della VI sezione della Cassazione del 22 ottobre 2019, depositata il 12 giugno 2020, si sia giunti all’epilogo di un percorso rischioso di eccessiva dilatazione della fattispecie penale che avrebbe condotto alla possibilità di criminalizzare una mafia soltanto “giuridica”; e ciò soprattutto grazie alla identificazione dei caratteri fondamentali del metodo mafioso e della intimidazione, della c.d. “riserva di violenza” e della sua necessaria “esteriorizzazione” attraverso atti di violenza e minaccia effettivamente realizzati o comunque percepiti e idonei a imporre soggezione; del rapporto tra intimidazione e corruzione. Il tema appare invero troppo ampio per la limitatezza di questo scritto; ci sia consentito però di esprimere riserve sull’idea che si sia davvero messa la parola fine alla questione, con il definitivo preteso “riordino” degli aspetti applicativi della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., poiché è probabilmente necessario riflettere ulteriormente sul ruolo della corruzione all’interno della fattispecie incriminatrice, proprio e già dal punto di vista letterale, oltre che su quale fosse realmente la mafia che il Legislatore del 1982 aveva in mente, per averla analizzata e ricostruita, e intendeva perseguire.
[6] Nella sua audizione al Senato il 31 gennaio 2023 il Procuratore Nazionale Antimafia osservava: ..al piano dell’innalzamento delle garanzie attiene anche la questione dell’ulteriore delimitazione dell’impiego di alcune delle tecniche di indagine più invasive, come quelle legate all’impiego a fini di captazione del c.d. trojan…omissis…avverto la responsabilità di porre a disposizione delle valutazioni del Parlamento i dati di una ormai vasta e consolidata esperienza, i quali dimostrano…che l’efficacia reale dell’azione di contrasto della criminalità mafiosa dipende largamente dalla capacità di proiettare le indagini sui versanti nei quali operano le sue componenti più sofisticate e pericolose, perché deputate ai processi di reinvestimento speculativo, di condizionamento delle pubbliche amministrazioni...e di penetrazione profonda dei mercati d’impresa, a partire da quelli sui quali si riversano i maggiori flussi della spesa pubblica. Tali processi sono affidati non a uomini con la coppola sul capo e la lupara in spalla, ma al linguaggio, largamente praticato dal mercato e nel mercato, della frode fiscale e soprattutto della corruzione. Molte ed anche importanti indagini di mafia …sono originate da indagini avviate sul fronte del contrasto della corruzione e delle frodi fiscali; escluderle dal novero di quelle per le quali quelle tecniche investigative sono consentite sarebbe dunque scelta legittima ma destinata ad avere conseguenze pesantissime, non solo sul versante del contrasto della corruzione ma anche su terreno delle indagini di mafia…”; riportato da Giustizia Insieme, 3.2.23.
[7] La Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia per il primo semestre del 2022 segnala come “l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi, il 25 maggio 2022, nel suo intervento a conclusione della cerimonia organizzata a Milano nel trentennale dell’istituzione della DIA, ha riassunto le linee d’azione del Governo rispetto agli attuali format della criminalità organizzata, rimarcando che il contrasto alle mafie, oggi caratterizzate da modelli imprenditoriali che alterano le dinamiche economiche, la libera concorrenza e l’ambiente, deve sempre più ispirarsi ad una migliore tutela della spesa pubblica. Tale azione, prosegue, dovrà privilegiare la semplificazione delle procedure del sistema di contrasto alle infiltrazioni, il rafforzamento dei controlli e l’ampliamento di strumenti preventivi…”.
[8] Mario Draghi alla cerimonia per il trentennale della DIA a Milano, il 25 maggio 2022.
[9] Tra le altre, l’indagine denominata Petrolmafie che ha consentito di accertare ingenti investimenti della camorra napoletana e della ‘ndrangheta nel settore petrolifero, grazie anche a un accorto coordinamento investigativo tra le DDA di Napoli, Roma, Catanzaro e Reggio Calabria, coordinate dalla Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo.
[10] Il riferimento è ad esempio all’indagine denominata Morfeo che ha rivelato i risalenti e ingenti investimenti di un potentissimo clan campano nel settore degli appalti della Rete Ferroviaria Italiana e della TAV di Afragola e in quello della raccolta, di fatto monopolistica, di oli esausti in diverse regioni italiane, con l’apporto fondamentale di pubblici amministratori corrotti. Accertandosi ancora una volta il doppio assetto dell’organizzazione: i delitti “di strada” come spaccio, usura ed estorsioni affidati al braccio armato e militare, più esposto e pronto a sacrificarsi con arresti e condanne; gli affari più importanti affidati a mimetizzati intermediari, a contatto con i vertici, da un lato, e con imprenditori, professionisti e funzionari pubblici collusi, dall’altro.
[11] A tacere della attuale problematica connessa alla applicabilità del regime speciale delle intercettazioni per i delitti associativi anche ai delitti-fine aggravati dal metodo e/o dalla finalità agevolatrice, a seguito dei noti arresti giurisprudenziali relativi all’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 e ai recenti interventi del Legislatore.
[12] Così ancora la Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia per il primo semestre del 2022, indicata nella precedente nota.
[13] Sentenza della 5^ Sezione del Tribunale di Napoli del 9.3.2016, nr. 66727/10 RGNR sostanzialmente confermata dalla Corte di Appello di Napoli con sentenza nr. 4486/17 del 2.12.2019, che condannava numerosi esponenti del clan MOCCIA per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. con condotte a partire dal 2004 e fino al dicembre 2010. Il processo risultava originato dalle indagini che avevano portato all’emissione dell’ordinanza cautelare del 18.6.2010 del GIP del Tribunale di Napoli. Si riportano alcuni stralci della sentenza di I grado:“... È emersa altresì la struttura gerarchizzata di tali relazioni secondo una compartimentazione riservata e piramidale facente capo a soggetti posti tanto in alto da non essere in contatto con le vittime e addirittura con gli stessi usurai ed inaccessibile ai sodali con mansioni meramente esecutive o di mera assistenza esterna. I contatti tra questi ultimi ed i livelli intermedi e terminali dell’organizzazione sono stati infatti l’oggetto più difficile e discusso dell’accertamento penale ed è importante evidenziare fin da questo momento che per coglierlo sarà necessario non parcellizzare mai il singolo dato intercettivo ma collegarlo ogni volta alle altre emergenze captative parallele …Omissis… Una gestione realizzata con grande riservatezza attraverso la mediazione di pochi fidati soggetti che possono avvicinarlo direttamente… i collaboratori di giustizia li indicano metaforicamente con il nome di senatori …. in tal modo filtrando collegamenti altrimenti compromettenti per i vertici..Omissis…Si è potuto verificare al tempo stesso nel corso delle indagini che la famiglia MOCCIA mantiene un atteggiamento molto prudente e defilato rispetto alle attività più marcatamente delinquenziali e fa mostra di prendere le distanze almeno formalmente dai cd gruppi operativi… E’ una tecnica di inabissamento di cui tutti i collaboratori di giustizia hanno dato conferma e di cui il tenore di molte conversazioni oggetto di intercettazione da prova…”
[14] Il Gip di Napoli nella occ. n. 5/18 del 5.1.2018, p.p. 30350/13 RGNR operava una valutazione sulla dissociazione della famiglia mafiosa oggetto del procedimento, clan storicamente appartenente alla Nuova Famiglia, risultata vincente sulla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo:“…Proprio in quegli anni, peraltro, alterne vicende giudiziarie portavano all’uscita di scena di Moccia Angelo che, nel 1992, si costituiva presso la Casa Circondariale dell’Aquila perché, a suo dire, intenzionato “a chiudere i conti” con il passato. In particolare, il pentimento del Galasso e dello stesso Alfieri in uno alla preoccupazione per le possibili ripercussioni delle dichiarazioni di altri collaboratori, induceva i germani Moccia Angelo e Luigi (nel frattempo parimenti arrestato perché ritenuto anch’egli organico alla N.F.) ad intraprendere la strategia della “dissociazione”, raffinata iniziativa processuale volta a contemperare due esigenze apparentemente antitetiche: quella di una “negoziazione processuale” con l’autorità giudiziaria onde evitare la condanna all’ergastolo; quella di conservare, proteggere e mantenere un saldo legame criminale col sodalizio di appartenenza. I due indagati, resisi infatti conto della impossibilità di contrastare con operazioni di tipo militare l’apporto alle indagini fornito dai collaboratori di giustizia ed essendo consapevoli che le loro posizioni processuali (in particolare, quella di Angelo Moccia) fossero irrimediabilmente compromesse, si rendevano protagonisti di un’inedita ma lucidissima iniziativa processuale - quella della cd. “dissociazione” dalla criminalità organizzata - al fine di evitare la condanna all’ergastolo…omissis… accreditandosi come ex camorristi intenzionati a chiudere i conti “col passato”, si limitavano a confessare i propri reati, senza peraltro effettuare alcuna chiamata in correità nei confronti di terzi (a meno che non fossero collaboratori di giustizia ovvero persone decedute); e, così, Angelo riconosceva di aver assunto la gestione camorristica del circondario di Afragola e di aver partecipato agli omicidi...omissis…l’indagato non ha mai reciso i legami con il sodalizio di origine, mantenendoli anzi - anche nel nuovo millennio (quanto meno fino al 2013) - ai medesimi livelli di “eccellenza” del passato. Gli esiti delle indagini di cui al presente procedimento hanno infatti dimostrato che la “dissociazione” ed il successivo trasferimento a Roma hanno costituito solo un’astuta e lungimirante scelta criminale, con la quale l’indagato ha tentato di allentare la pressione investigativa delle forze dell’ordine nei propri confronti e, nel contempo, cercato di fornire una falsa immagine di affrancamento dai propri trascorsi criminali…”.
[15] Così ancora la Relazione del Ministro dell’Interno: “…‘ndrangheta che trova il suo punto di forza, da un lato, nella fedeltà alle origini e nella solida strutturazione su base familiare e, dall’altro, nella massima flessibilità ed intuito affaristico-finanziario che la proietta all’esterno della Regione di origine ed anche all’estero…La criminalità organizzata siciliana…continua ad annoverare tra le principali fonti di guadagno il traffico di stupefacenti, la gestione del giro di scommesse on line, le estorsioni declinate in tutte le loro forme e, con particolare riferimento alla zona di Palermo, la ricettazione e il riciclaggio di metalli preziosi - provento di rapine e furti - mediante la complicità di imprese commerciali del tipo “compro oro”. …In merito alla criminalità organizzata campana…si rileva un complesso sistema criminale permeato dall’operatività di storiche e consolidate compagini criminali e di aggregazioni dagli equilibri instabili che, non di rado, cercano di legittimarsi ricorrendo a metodi violenti per affermare il proprio controllo del territorio. Una criminalità sempre alla ricerca di nuove, migliori e più lucrose posizioni nei mercati illegali ma anche interessata alla espansione di una fitta rete di imprese. Le indagini hanno documentato la capacità, da parte dei sodalizi criminali di maggiore tradizione, di penetrare nell’alveo socio-economico-imprenditoriale riuscendo spesso a consolidare posizioni monopolistiche in interi settori così da incidere significativamente nel tessuto economico del territorio. Non si può più parlare, dunque, di una camorra parassitaria ma di sedimentate organizzazioni divenute esse stesse protagoniste di sofisticati processi finanziari, potendo contare su una propria classe imprenditoriale e riuscendo così a sfruttare spazi criminali offerti dalle “maglie larghe” di frange colluse della pubblica amministrazione. Proprio a causa di accertate infiltrazioni mafiose negli apparati amministrativi, con DPR del 28 febbraio 2022 è stato sciolto il Comune di Castellammare di Stabia (NA) ed il 10 giugno 2022 quello di San Giuseppe Vesuviano (NA)…la criminalità organizzata pugliese si manifesta, con articolazioni nei territori di Foggia, Bari e nel Salento, in continua evoluzione… La capacità di inserirsi nel settore imprenditoriale e nelle pubbliche Amministrazioni è stata comprovata dagli esiti dell’operazione “Levante”, conclusa dalla DIA unitamente alla Guardia di Finanza il 15 febbraio 2022, dalla quale emergono la presenza di un clan barese impegnato nel controllo delle aziende locali, nonché una serie di frodi fiscali, attività di riciclaggio e trasferimento fraudolento con riferimento anche al contrabbando di prodotti energetici…”
[16] Già nella richiesta di misura cautelare formulata nell’ambito del p.p. 9086/1992, instaurato a carico di Agizza Antonio + 101, la procura partenopea osservava che “la "politica della dissociazione", per alcuni mesi perseguita da alcuni dei più pericolosi settori della criminalità organizzata (e concretatasi soltanto nell'interrogatorio di Angelo Moccia allegato, oltre che nello spettacolare quanto strumentale rinvenimento delle armi abbandonate in Salerno) sembra essere l'espressione di un consapevole disegno di perpetuazione del potere criminale camorristico, attraverso forme di "negoziazione" con lo Stato ambigue e pericolose. Accanto all'evidente scopo di frenare gli effetti delle collaborazioni con la giustizia già in atto e di impedirne l'espansione, non può non scorgersi il raffinato disegno di: - lasciare intatta la rete di trame collusive per anni intessuta con rilevanti settori della pubblica amministrazione e delle istituzioni politiche, nulla rivelando su tali, invasivi versanti criminosi; - conservare ed anzi legittimare le ingenti risorse economiche accumulate dalle organizzazioni criminali, nulla ovviamente rivelando circa provenienza e canali di reinvestimento delle stesse; - tacere sui collegamenti operativi (al fine della realizzazione dei traffici delittuosi più vari) con altre organizzazioni non coinvolte dalla scelta della "dissociazione"; - continuare ad avvalersi del potere economico-criminale conseguito, dopo aver riconquistato nel volgere di pochi anni libertà personale e di relazioni grazie ai trattamenti premiali pretesi…”.
[17] Nella relazione sull’attività della Direzione distrettuale antimafia di Napoli indirizzata il 16 giugno 1997 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari si segnalava “…La “politica della dissociazione” - quale forma moderna ed ambigua della tradizionale omertà - appare logicamente espressione di un consapevole disegno di perpetuazione di un potere criminale camorristico, minacciato dall' efficacia dell’azione degli organi repressivi e di giustizia dello Stato. Accanto all'evidente scopo di frenare gli effetti delle collaborazioni con la giustizia già in atto e di impedirne l'espansione, non può non scorgersi il preciso disegno di:
- lasciare intatta la rete di trame collusive per anni intessuta con rilevanti settori della pubblica amministrazione e delle istituzioni politiche, nulla rivelando su tali versanti criminosi;
- conservare ed anzi legittimare le ingenti risorse economiche accumulate;
- occultare e potenziare le strutture destinate ai traffici illeciti di ogni natura (armi, droga, ecc.), tenendone i responsabili e le principali pedine fuori da ogni azione di contrasto;
- tacere sui collegamenti operativi (al fine della realizzazione dei traffici delittuosi più vari) con altre organizzazioni non coinvolte dalla scelta della “dissociazione” e non minacciate dalle indagini;
- individuare, all'interno dell'organizzazione, i soggetti meno “produttivi”, più deboli od esposti per caricare su di loro il peso di delitti ad altri membri dell'organizzazione ascrivibili;
- continuare ad avvalersi del potere economico - criminale conseguito, dopo aver riconquistato nel volgere di pochi anni libertà personale e di relazioni grazie ai trattamenti premiali pretesi, nonostante l'incredibile gravità ed efferatezza degli innumerevoli crimini commessi;
- ingolfare, in questo modo, l'intero meccanismo di contrasto e la già precaria macchina giudiziaria, conducendola su strade progettate dai capi più pericolosi dell'organizzazione, e distogliendole da versanti veramente incisivi.
La Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia della XIII Legislatura approvata nella seduta del 24.10.2000 condivideva la ricostruzione operata dall’ufficio napoletano.
[18] Si tratta delle indagini, concluse con condanne, nei confronti di clan storicamente operanti nella città e in parte della provincia di Napoli quali quelli confederati nella c.d. Alleanza di Secondigliano (Mallardo, Licciardi, Contini) o originariamente facenti parte, con i primi, della Nuova Famiglia, come il clan Moccia di Afragola, i clan Russo e Fabbrocino del vesuviano; ancora, il clan dei Casalesi. Tutti, con varie declinazioni, fortemente inseriti nella economia legale, non solo campana, anche ad altissimi livelli; e tuttora sostenuti da importanti referenti politico-amministrativi. Insomma, una camorra che almeno dalla fine dello scorso secolo non spara, salvo sia strettamente necessario, ma fa grandi affari.
[19] “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri…”: così la lettera della legge, all’art. 416 bis cod. pen. La forza di intimidazione derivante dal vincolo, per espressa disposizione normativa, non richiede una specifica manifestazione di violenza fisica; in secondo luogo, la violenza morale e comunque la capacità di coartazione che induce a comportamenti non liberi e condiziona la libertà di autodeterminazione di chi venga in rapporto col sodalizio può derivare non solo dal timore di subire violenza fisica ma anche dalla consapevolezza di un sistema corruttivo talmente esteso e radicato da apparire invincibile; d’altra parte, quella forza, per legge, è finalizzata alternativamente a commettere delitti o affari. Queste considerazioni appaiono non irrilevanti nella riflessione sulle vicende di “Mafia Capitale” e sui temi da quella posti; apparendo anche significativo che la decisione di disconoscerne la sussumibilità nel paradigma in contestazione (l’art. 416 bis, appunto) fa leva anche su una rilevazione in qualche modo “quantitativa” dei casi in cui i soggetti terzi abbiano dimostrato di subire la soggezione violenta del principale imputato, dimostrando di utilizzare come paradigma il condizionamento derivante dal timore, in sostanza, di violenza fisica: uno ma non l’unico elemento che può fondare, secondo la norma, la forza di intimidazione e la soggezione conseguente.
[20] Relazione alla proposta di legge 31 marzo 1980, on. La Torre, atto parlamentare, Camera dei Deputati, n. 1581.
[21] Merita di essere meglio conosciuta la monumentale sentenza-ordinanza del giudice istruttore Carlo Alemi emessa il 28 luglio 1988 nel procedimento n. 896/83 e altri riuniti.
[22] Legislatura VI - Disegni di legge e relazioni - Documenti. Relazione di minoranza dei deputati La Torre, Benedetti e Malagugini, dei senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano, Maffioleti e del deputato Terranova.
[23] Legislatura VI- Disegni di legge e relazioni- Documenti. Relazione di maggioranza del senatore Luigi Carraro.
[24] Vedasi pag. 214 e ss della Relazione di maggioranza, citata nella precedente nota.
[25] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 216
[26] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 217.
[27] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 237.
[28] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 256.
[29] La Relazione La Torre dava ampio spazio alla figura di Salvo Lima, i cui collegamenti con Cosa Nostra -quale referente politico dell’organizzazione- hanno agitato a lungo e condizionato significativamente la vita del Paese, costituendo peraltro parte significativa di molte delle ricostruzioni sui rapporti tra mafia e politica operate anche nelle relazioni delle Commissioni parlamentari d’inchiesta istituite negli anni successivi. E appare degno di nota il fatto che egli, come Ciancimino, sia stato sottoposto tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ‘70 a diversi procedimenti penali per reati contro la pubblica amministrazione (interesse privato in atti d’ufficio, peculato e falso ideologico, con relative richieste di autorizzazione a procedere avanzate al Parlamento, in cui sedeva come Deputato della Repubblica dal 1968): dato che acquista una sua rilevanza proprio nell’ambito della riflessione generale sulla natura e sui confini del rapporto tra mafia e pubblica amministrazione nella prospettiva dell’adozione di statuti normativi, oltre che protocolli investigativi, che tengano conto di tale stretta relazione.
[30] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 569.
[31] Con la puntuale indicazione di fonti e documenti la Relazione di minoranza analizzava i principali momenti della storia siciliana, dal periodo post-unitario a quello fascista e fino al dopoguerra, costantemente segnati dal ruolo dei gruppi di potere mafioso; in questa ricostruzione, un momento epocale dei rapporti tra mafia, banditismo e Governo veniva indicato nella strage di Portella della Ginestra, avvenuta il primo maggio 1947 a opera di Salvatore Giuliano, la cui mano fu armata, secondo la Relazione, proprio dal blocco agrario, mafioso, che intendeva impedire l’affermazione dei partiti dei lavoratori che in quel momento avevano appena ottenuto la maggioranza nel Governo regionale. Quelle stesse forze politiche che avevano fatto gli interessi del blocco agrario, espressione di potere mafioso, avevano impedito per anni l’attuazione della riforma agraria introdotta con una legge del 1950, che avrebbe consentito un significativo sviluppo sociale. E, continuava la Relazione, il Governo si servì poi della mafia per eliminare il bandito Giuliano, che doveva essere preso morto perché non potesse parlare: la Democrazia Cristiana, dopo Portella, “cedette al ricatto del blocco agrario e anticipò in Sicilia la rottura dell’alleanza tra i grandi partiti di massa” (Relazione di minoranza, pagg. 573-575).
[32] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 581.
[33] “I cambiamenti anche profondi che sono intervenuti nel modo di essere della mafia non consentono comunque di affermare che essa abbia perduto la sua caratteristica originaria della incessante ricerca del collegamento con il potere politico”: così la Relazione di Minoranza a pag. 584.
[34] “Siamo rammaricati…di non essere riusciti a trovare un’intesa sulla relazione generale perché ci divide dal partito della Democrazia Cristiana il giudizio sulle responsabilità politiche nel sistema di potere mafioso in Siclia. Abbiamo voluto così sottolineare l’esigenza di voltare pagina nel modo di governare la Sicilia…”: Relazione di minoranza, pag. 609.
La violenza contro le donne, in qualsiasi forma sia declinata, dalla violenza domestica a quella sessuale, dal femminicidio allo stupro di guerra, colpisce tutti, è una cicatrice per le generazioni future, crea disgregazione sociale e rappresenta sempre una ferita indimenticabile per l’intera comunità umana, nazionale o internazionale che sia.
La pandemia ha scoperchiato il calderone bollente della violenza domestica che una normativa nazionale ancora troppo giovane e non sperimentata (1), insieme alle restrizioni imposte dal lockdown, non ha consentito di arginare adeguatamente.
Abbiamo scoperto che nella pandemia di tutti c’era una pandemia occulta che avevamo sempre avuto sotto gli occhi e che aveva fatto della casa, invece che un rifugio contro gli assalti del virus, un inferno in terra.
È stato il primo violento colpo all’Agenda 20/30 che aveva aperto grandi prospettive al raggiungimento, in concreto, del goal n. 5 della parità di genere, obiettivo trasversale che inglobava in sé l’impegno, assunto da gran parte degli Stati, a una lotta concreta contro ogni forma di discriminazione, politica, amministrativa, di leadership ma anche a ogni forma di violenza alla vita, alla sessualità e alla psiche delle donne, imponendo a tal fine regole di politica sociale e di diritto.
Il conflitto russo-ucraino, con le deportazioni di donne e bambini e con gli abusi e le violenze sessuali massificate contro le donne, ha inflitto il secondo colpo .
Ancora una volta, come per la pandemia, un evento del tutto imprevisto, come un conflitto nel cuore dell’Europa, ci ha costretti a riflessioni che già ci erano state offerte sia dalle cronache quotidiane di casa nostra sia dalle guerre, note o dimenticate, in corso o apparentemente cessati (nei territori della ex Jugoslavia, in Siria, Yemen, Sud Sudan, Darfur, Mali, Congo…impossibile citarli tutti), o dalle situazioni di conflitto civile come il Myanmar (ex Birmania) o l’Iran, che dimostrano come il corpo delle donne continui ad essere oggetto di brutale e inarrestabile violenza (2). E che le donne sono ancora protagoniste in negativo, sia nella vita sociale sia nei conflitti, dove la violenza contro le donne è stabilmente utilizzata per annientare un nemico e una comunità e dove la terra da sottomettere è associata alle sue donne da violare. Tanto che viene da chiedersi come si possano indagare a fondo gli eventi bellici e le loro conseguenze senza affrontarne la dimensione sessuale.
La “tematizzazione dell’informazione" (3) ci porta a concentrarci quasi esclusivamente sul conflitto in corso. Ma non possiamo dimenticare le afghane che continuano ad essere assoggettate ad un regime oppressivo che le ha escluse dalla vita pubblica, politica, dal lavoro e dall’istruzione, insomma dalla vita.
Né le donne iraniane il cui grido Donne Vita Libertà è stato se non annientato certamente represso nel sangue, nelle strade, nelle case e nelle carceri dove, dalle poche notizie che filtrano, l’abuso sessuale è, per le donne, la regola ordinaria di punizione prima della pena .
Anche i dati di casa nostra non sono di conforto.
Il trend crescente dei femminicidi è sconcertante. In aumento persino rispetto al 2021, definito un “anno di sangue”, ha raggiunto quota 100 nei primi 9 mesi del 2023, un numero drammaticamente simbolico di un fenomeno che non accenna ad arrestarsi e che è entrato di prepotenza nei nostri Tg, come dimostra il ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, ultima di una lunga lista di nomi che raccontano uno schema sempre uguale.
Affermare come ho letto da qualche parte, non ricordo dove (credo di aver rimosso) che il fenomeno è sempre esistito e che anzi le statistiche ci dicono che gli omicidi in Italia sono complessivamente diminuiti, significa non aver capito che i due fenomeni non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro, perché il femminicidio trova le sue radici nell’odio sessuale che spinge a violare e umiliare un altro corpo, nel senso di proprietà che assimila la donna ad un oggetto e nello stereotipo di genere che impone all’essere umano donna regole, convenzioni comportamentali e in fondo diritti diversi da quelli dell’essere umano uomo.
Il dato delle violenze sessuali, anche di gruppo, non lo è da meno visto che si registra una evidente crescita delle denunce passate dal decremento del 2020 –4497- verosimilmente causato dalla segregazione e dalle difficoltà di accedere alla giustizia, alle 5991 del 2022 (4).
Il fenomeno degli stupri di massa nelle guerre, la pagina più oscura e più oscurata della violenza di genere, pratica costante in tutti i conflitti e che spesso assume i connotati del genocidio, è un argomento solo apparentemente distante perché, come la violenza domestica, la violenza sessuale o il femminicidio, esprime lo stesso meccanismo di disprezzo per la vita e per i diritti umani in generale e per quelli delle donne in particolare (5).
E dunque evidente, com’è stato autorevolmente detto (6), che esiste una linea diretta tra la violenza contro le donne, l’oppressione, che può manifestarsi in ogni luogo, anche tra le mura domestiche o nelle relazioni cosiddette “d’amore” e i conflitti.
Il conflitto israelo-palestinese in corso non si sottrae a questa regola.
Ce lo racconta un’immagine cruda e simbolica anche se risalente (5) che mostra una donna completamente velata stesa a terra con le gambe aperte e con sul petto la scritta “Gaza”. Terra da conquistare, donne da violare.
Anche lì "l’inferno della punizione collettiva” (7) e la caccia all’uomo non risparmia donne e bambini, con violenze e abusi che collidono con il diritto umanitario e con i diritti sanciti per i civili dalla Quarta Convenzione di Ginevra, se è vero, come attestano i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – OIM che conta circa 11 mila morti civili di cui circa la metà bambini tra cui i neonati morti nelle incubatrici rimaste senza elettricità (8). Le madri che piangono i figli non sono solo palestinesi. La violenza contro di loro è trasversale.
Le madri del Women Wage Pace, arabe, israeliane e palestinesi, di religione cristiana, ebraica o musulmana, che, senza bandiere, avevano marciato insieme il 4 ottobre, prima dell’attacco del 7 ottobre, continuano a farlo e chiedono a tutte le donne del mondo di unirsi a loro per fermare la follia della guerra che uccide i loro figli (9) .
È stato detto (10) che così come la sfida morale cruciale dell’800 è stata l’abolizione dello schiavismo e nel '900 la battaglia contro il totalitarismo, l’epocale campagna di civiltà dei secoli a venire sarebbe stata la lotta per l’uguaglianza tra i sessi e la sconfitta della violenza contro le donne.
Anche se il quadro attuale non è confortante…c’è ancora domani(11). Tuttavia sperare in questo domani non deve lasciare inerti.
I campi in cui agire sono tanti. Migliorare la normativa a tutela contro la violenza alle donne con riforme effettivamente migliorative e non di mera bandiera (12) è certamente una strada importante da percorrere con convinzione.
Ma il primo essenziale passo è portare il problema nelle scuole cominciando dalle primarie e a seguire negli altri gradi dell’istruzione.
Educare le nuove generazioni al rispetto e alla valorizzazione delle differenze e della parità di genere in termini di linguaggio, espressioni, atteggiamenti è diventato un’emergenza sociale e strumento essenziale per la prevenzione e il contrasto di episodi sempre più frequenti ed aggressivi di violenza contro le donne. E anche per indagare il punto di vista degli uomini, come ancora non si sta facendo, per capire quali insicurezze, stereotipi e giochi di ruolo si nascondono dietro questi modelli relazionali malati.
Note
(1) Legge 25.7.2019 n. 69 nota come Codice Rosso.
(2) Emanuela Zuccalà, Le guerre delle donne, Prefazione di Emma Bonino. Ed Infinito 2021.
(3) Metodo di organizzazione del flusso dell’informazione e di valorizzazione e di visibilità di una specifica informazione alla quale si intende conferire una posizione dominante. La Comunicazione, dizionario di scienze e tecniche a cura di Franco Lever, Per Cesare Rivoltella e Adriano Zanacchi.
(4) Dati del Ministero dell’Interno - Dipartimento di Polizia Criminale. Non ancora disponibili i dati del 2023.
(5) Stupri di guerra e violenza di genere a cura di Simona Rocca Ed Ediesse.
(6) Antonio Guterres Segretario Generale ONU – Comunicato sulla guerra israelo-palestinese dopo l’attacco del 7 ottobre.
(7) Espressione utilizzata in un articolo del 13.11.2023 – Piattaforma on line Valigia Blu.
(8) Fonte ISPI- Istituto di Studi Politiche Internazionali – 13.11.2023.
(9) Benedetta Perilli – La Repubblica- 23.10.23.
(10) Half of the Sky – Nicholas Fristof e Sheryl Wudunn – Giornalisti- Premi Pulitzer per il giornalismo d’inchiesta - 1990.
(11) C’è ancora domani. Film di Paola Cortellesi. La storia di una violenza domestica sconfitta, almeno per un giorno, dal diritto di votare.
(12) Legge 122/2023.
Guardati, guardati bene. Non quell’osservare fugace, quel correre superficiale sulla pelle di quando ti fai la barba o ti conti le rughe più recenti. Guardati bene, guardati dentro, potresti avere delle sorprese.
Lo so che non sei stato tu, che pensi che chi fa certe cose è uno psicopatico, un reietto della società, uno squilibrato. Tu non lo faresti mai, tu sei innocente.
Forse è vero, non l’hai mai fatto e mai lo farai. Probabilmente chi ti ha educato quando eri un bambino ti ha detto no, con fermo e attento amore. È stata una fortuna quel no, e ora hai gli strumenti per capire qual è la differenza fra l’essere protettivo e l’essere proprietario, fra il rispetto e il possesso, fra un uomo e un bambino viziato.
Ma è sempre utile insinuarti con cura negli interstizi dell’anima: magari non incontrerai una parte nera e inconfessabile, il pensiero buio che presagisce un’azione orribile. Ma potresti trovare la complicità passiva, la testa che si gira dall’altra parte quando dovresti intervenire.
Inizia allora dal no che hai ricevuto: chiediti se sei stato altrettanto fermo e amorevole nel dirlo ai tuoi figli, ai tuoi amici, a tutti quelli che a te si affidano. Comunica quel no: ti è stato dato per tramandarlo, perché la civiltà e i doveri e i diritti non sono altro che un passaparola.
Se non hai mai avuto un no, indaga meglio nelle pieghe più recondite e domandati se ti sei mai sentito proprietario di un’altra persona, se hai mai formulato nel tuo pensiero la frase “la voglio, quindi deve essere mia”, se hai giudicato intollerabile l’abbandono. Questo è il bordo del precipizio: pensare di poterti rapportare a una possibile compagna della tua vita, o anche di un solo occasionale incontro, come se fosse una macchina nuova che vuoi avere o tenere a tuo piacimento, costi quel che costi. Non rapinerai mai la concessionaria che vende l’auto, non prenderai mai con la forza la donna che ti attrae: ma sei a un passo dal desiderio di farlo.
Potresti però non avere l’istinto del possesso, ma semplicemente provare invidia per quella donna che vive la propria felicità senza coinvolgerti e senza condividerla. Invidia della bellezza e dell’intelligenza, delle speranze giovani e delle serenità adulte, in un mondo in cui pensi di stare male perché non fai tuo ciò che gli altri hanno, non appari come gli altri appaiono.
Coltiva allora quel no che ti hanno insegnato o che più tardi ti hanno comunicato, fallo crescere e prosperare anche nella tua vita adulta, senza rinunciare ai sogni e ai desideri ma declinandoli solo con la frase “mi piacerebbe”.
Ma anche se hai ogni buon motivo per autoassolverti, se sei sicuro che mai ti ha sfiorato il pensiero del possesso e dell’invidia, questo non dovrà fermare la tua indagine interiore. Prova a contare quante volte da ragazzo, o anche da adulto, hai espresso con i tuoi amici propositi di conquista solo per fregiarti della vittoria; quante volte hai riso a battute sessiste per essere parte del gruppo; quante volte hai pensato, girandoti da un’altra parte, che la sopraffazione, la violenza anche minima, il controllo possessivo e ossessivo delle vite non fossero affar tuo.
Troverai là la tua colpa: aver pensato che tirandotene fuori avresti potuto sempre dire “io non l’ho fatto, io non lo farei mai”. Affinché non ci faccia provare vergogna ciò che tu vedi allo specchio, che io vedo nel mio specchio, non basta star fermi: si deve agire, una buona volta, aiutando e proteggendo chi ha bisogno, mettendoci alla pari con i desideri altrui.
Dicendo sempre a noi stessi e agli altri quel benedetto no, con fermo e attento amore.
* in copertina Egon Schiele, Autoritratto con camicia rigata, 1910
di Mario Serio
Sommario: 1. Il complesso sfondo delle vicende migratorie in una prospettiva globale - 2. La vicenda sottoposta all'esame della giustizia inglese - 3. Il giudizio davanti alla Supreme Court - 3.1. La rilevanza delle questioni dedotte - 3.2. Le dimensioni dell’intervento della Supreme Court - 3.3. Il quadro normativo nazionale ed internazionale - 3.4. Le questioni devolute alla cognizione della Supreme Court - 3.5. Le conclusioni della Supreme Court e la ratio decidendi della Sentenza - 4. Tratti conclusivi.
L'intensità e la frequenza dei flussi migratori globali ormai da tempo interpella il mondo politico e quello giuridico che si trovano, così, alla ricerca di misure che rendano, almeno nelle intenzioni, compatibili i fondamentali principii via via elaborati dal diritto internazionale, pattizio e consuetudinario, e dagli ordinamenti sovranazionali e nazionali con le esigenze in concreto manifestate dai singoli Stati. Si assiste, pertanto, alla proliferazione di soluzioni adottate a livello interno o negoziale interstatale le quali sempre più spesso sono sottoposte a rigorose e doverose verifiche giudiziali al fine, appunto, di controllare l'effettiva realizzazione del non semplice obiettivo di compatibilità prima ricordato: solo da tale positivo riscontro è possibile, infatti, affermare la legittimità di tali soluzioni. Il problema è certamente noto anche in Italia. Questa circostanza conferisce ancor maggiore interesse ad accadimenti che si sono di recente verificati in altri paesi ed hanno costituito oggetto di rilevanti interventi giurisprudenziali.
È il caso della severa ed ampiamente motivata pronuncia resa all'unanimità il 15 novembre 2023 dalla Supreme Court del Regno Unito a proposito dell'accordo dell'aprile 2022 tra il governo inglese e quello del Ruanda in materia di trattamento dei richiedenti asilo trasferiti dal territorio del primo a quello del secondo.
1. Il complesso sfondo delle vicende migratorie in una prospettiva globale
La complessità, che si manifesta anche sotto forma di varietà spesso irriducibile ad unità, delle concrete situazioni, spaziali, climatiche, politiche, istituzionali che fanno capo alle persone in tutto il mondo è spesso la causa induttiva dei loro movimenti migratori alla ricerca di nuove e migliori condizioni che rendano le loro vite degne di essere vissute [1]. Si tratta di un contesto drammatico nel quale si collocano insieme vite umane, orientamenti politici, questioni giuridiche: la loro composizione riesce molto frequentemente ardua e combattuta. Avviene, così, che le soluzioni escogitate per la gestione dei movimenti nello spazio di consistenti gruppi di espatriati desiderosi di guardare per necessità ad altri angoli del pianeta auspicabilmente meno amari vengano perseguite mediante accordi negoziali tra due stati diretti ad assicurare, mediante sistemi di riconoscimento di costi rimborsabili e compensi, la ricollocazione di persone arrivate nel territorio del primo, generalmente più vasto ed economicamente sviluppato, in quello del secondo, generalmente privo di questi attributi.
Non mancano, tuttavia, esempi in cui il coordinamento tra i fattori inizialmente descritti, talora in vicendevole conflitto, avviene applicando la necessaria e soddisfacente ricerca dei criteri che più incisivamente lascino svettare la dignità della persona in virtù dei numerosi strumenti che la pluralità degli ordinamenti, nazionali, internazionali, transnazionali, è in grado di offrire. In altri termini, è il primato dei principii e delle regole giuridiche il mezzo più sicuro per governare fenomeni presenti su larga scala e con caratteristiche che di per sé possono suscitare divisioni e contrasti. Naturalmente, il ricorso alla via del diritto, di quel diritto che protegga il valore della persona, va effettuato con sapiente rigore in vista del reperimento degli strumenti adatti a risolvere i problemi connessi alla materia del trasferimento di esseri umani dal territorio di origine ad altri.
Un ottimo esempio di equilibrata ed attenta considerazione delle circostanze che circondavano un accordo intervenuto tra i governi del Regno Unito e del Ruanda in materia di richieste d'asilo è certamente costituito dalla sentenza resa lo scorso 15 novembre dalla UK Supreme Court [2] sul ricorso originariamente proposto davanti la Divisional Court della High Court da un gruppo di richiedenti asilo, in prevalenza medio-orientali, contro la decisione del governo inglese di giudicare inammissibili le loro richieste e di ricollocazione in Ruanda in esecuzione del citato accordo tra i due paesi della primavera del 2022.
2. La vicenda sottoposta all'esame della giustizia inglese
La controversia culminata nella sentenza della Supreme Court, che nel giro di alcuni mesi soltanto ha percorso tutti e tre i gradi di giudizio, nasce dall'azione proposta da alcuni cittadini stranieri che mirava alla dichiarazione di illegittimità, ed al conseguente annullamento, di una serie di provvedimenti dell'amministrazione britannica dell'interno (Home Office), che aveva dichiarato inammissibili le loro richieste di asilo e disposto al contempo la ricollocazione degli stessi in Ruanda in forza di un accordo del 13 aprile 2022 stipulato tra il governo inglese e quello del Ruanda denominato Migration and Economic Development Partnership (MEDP), integrato da un Memorandum of Understanding (MOU) e da due Note Verbali diplomatiche. La ragione della dichiarazione di inammissibilità della richiesta d'asilo era individuata nelle disposizioni comprese tra i paragrafi 345 A e D del regolamento in materia di immigrazioni (Immigration Rules), adottato in conformità all'Immigration Act del 1971. Tali disposizioni prevedono che le richieste di asilo vengano dichiarate inammissibili allorquando il loro autore avrebbe potuto rivolgerle ad un paese terzo sicuro ma non l'abbia fatto. In tal caso è nel potere dell'amministrazione provvedere al trasferimento della persona interessata ad un paese terzo sicuro che sia disposto ad accoglierla. In particolare, il paragrafo 345 B esige, ai fini della definizione di un paese terzo come sicuro (Safe third country), che lo stesso rispetti il principio di “non respingimento” (non refoulement) previsto dalla Convenzione ONU del 1951 sullo status di rifugiato (Convention on the status of refugees), integrata dal Protocollo del 1967. Esso implica il divieto di respingimento, diretto o indiretto, dei richiedenti asilo verso un paese in cui la loro vita o la loro libertà possa essere minacciata a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale, delle opinioni politiche; analogamente nel caso in cui i richiedenti corrano un rischio effettivo di essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Sulla base delle assicurazioni che il governo inglese aveva ricevuto da quello ruandese circa l'effettivo rispetto del divieto di respingimento appena illustrato il primo stabilì che il suo interlocutore rientrasse nella categoria dei paesi terzi sicuri e dispose in conseguenza il trasferimento nello stato africano dei richiedenti asilo la cui domanda era stata dichiarata inammissibile nel presupposto che avrebbe potuto essere formulata nei confronti di un paese terzo sicuro, quale il Ruanda, rispettoso del divieto in parola.
Su queste basi i cittadini stranieri, vistisi dichiarare inammissibili le richieste di asilo, percorsero la via giudiziaria davanti la Divisional Court [3] al congiunto fine di ottenere la dichiarazione di illegittimità delle politiche migratorie del Ruanda in quanto contrarie al diritto internazionale consuetudinario e pattizio nonché della decisione del governo inglese di trasferirli nello stato africano.
Al procedimento intervenne l'Alto Commissario per i rifugiati dell'ONU (UNHCR) depositando documenti e rapporti concernenti proprio le politiche migratorie del Ruanda accertate anche alla luce di recenti esperienze.
Con sentenza del 19 dicembre 2022 [4] la Divisional Court dichiarò che in linea di principio l'intera sequenza dell'accordo tra i due governi, dal suo sorgere fino alla fase esecutiva del trasferimento dei richiedenti asilo, non presentava profili di illegittimità; tuttavia furono riscontrate delle irregolarità formali in taluni dei singoli provvedimenti con conseguente rinvio degli atti alle autorità di provenienza per il riesame.
Su impugnazione degli originari ricorrenti la Court of Appeal, con una lungamente argomentata pronuncia a maggioranza del 29 giugno 2023 [5], dichiarò, in riforma della sentenza gravata, l'illegittimità della politica migratoria del Ruanda in quanto, alla stregua del materiale probatorio raccolto dalla Divisional Court, sussistevano solide ragioni per ritenere che vi fossero concreti rischi di un esame inappropriato delle domande di asilo da parte delle autorità di quel paese. Ciò comportava l'ulteriore, concreto rischio del respingimento e la connessa conseguenza che, in difetto della modificazione di tale politica, il trasferimento in Ruanda dei richiedenti asilo in Ruanda, avrebbe causato la violazione dell'articolo 6 dello Human Rights Act del 1998 inglese, traspositivo dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani che proibisce la tortura ed ogni trattamento inumano e degradante. Fu, al contrario respinta la tesi degli appellanti secondo cui nella fattispecie si sarebbe verificata anche la violazione della parte del diritto comunitario ancora in vigore nel Regno Unito (retained EU law) e segnatamente della direttiva 2005/85 che fissa gli standard minimi da applicare nei procedimenti relativi al conferimento ed alla revoca dello status di rifugiato in quanto, a differenza da quanto richiesto dagli articoli 25 e 27 [6] nessuno dei richiedenti asilo presentava alcun collegamento con il Ruanda.
La sentenza è stata impugnata dal governo inglese in via principale con riguardo alla statuizione dell'illegittimità della politica migratoria del Ruanda ed alle conseguenze ricadenti sull'accordo dell'aprile 2022. Anche i cittadini stranieri hanno impugnato la sentenza in via incidentale per quanto attiene al diniego di violazione del diritto comunitario.
La stessa Court of Appeal ha autorizzato il ricorso di tutte le parti davanti la Supreme Court in considerazione della rilevanza delle questioni sollevate.
3. Il giudizio davanti alla Supreme Court
3.1. La rilevanza delle questioni dedotte
Del tutto fondata si rivela l'opinione espressa dalla Court of Appeal circa la rilevanza delle questioni scaturenti dalla fattispecie che ha giustificato il fatto di investire la Supreme Court. Proprio il giudizio che quest'ultima ha formulato si rivela per la ricchezza e profondità degli argomenti sviluppati e, in special modo, per l'atteggiamento di apertura mentale che da esso traspare, consente di affermare che ci si trova dinanzi ad un'autentica pietra miliare della civiltà giuridica ad un livello globale, corrispondente all'estensione globale dei temi trattati. Molteplici sono gli aspetti che consentono di attribuire a quello in esame la patente di documento giudiziario fondativo di un promettente ordine concettuale da cui certamente trarrà ulteriore ed esemplare beneficio il dibattito sui rapporti trilaterali tra l'esercizio della libertà migratoria, gli interventi legislativi ed amministrativi nazionali (in ineliminabile e coerente rapporto con la normativa di derivazione internazionale e transnazionale), il conseguente ed altrettanto ineliminabile momento di controllo giurisdizionale. Ed infatti, come si vedrà, il tema centrale della sentenza della Supreme Court è stato proprio quello indirizzato alla chiara delimitazione della possibile area di intervento giudiziario sui provvedimenti amministrativi di diretta incidenza nella sfera delle libertà personali dei migranti richiedenti asilo. E la Corte di ultima istanza ha dissentito in modo profondo e sistematico dall'atteggiamento minimalistico e formalistico adottato dalla Divisional Court, auto-relegatasi ad un compito di semplice verifica della legittimità estrinseca degli atti di governo, così rinunciando alla più estesa e penetrante opera di sindacato dell'intrinseca razionalità e conformità al complesso apparato normativo di varia derivazione dei provvedimenti impugnati: attività diligentemente ed accuratamente posta in essere proprio dai supremi giudici inglesi attraverso ragionamenti certamente candidati a divenire prezioso modello da imitare ed esportare. Ed ancora, la sentenza ribalta la conservativa impostazione della Divisional Court per ciò che attiene alle fonti probatorie utilizzabili in procedimenti nei quali si controverta sugli indici sintomatici della legittimità dell'azione amministrativa ed include in termini molto netti atti ed indagini esterne alla giurisdizione domestica ma saldamente poste nel circuito istituzionale internazionale quale l'alto commissariato per i rifugiati istituito presso le nazioni unite. Ancora una volta esce sconfitto un modello di controllo giurisdizionale che sacrifica la cruda e drammatica effettività dei fenomeni giudici sottoposti al vaglio di legittimità/legalità al timido rispetto dei soli sintomi esterni di apprezzamento dei provvedimenti del potere esecutivo. Lungo la medesima linea la Supreme Court ha proceduto allorquando ha spinto il proprio esame anche al versante della compatibilità, con il sistema internazionalmente costruito della protezione dei richiedenti asilo, del complessivo aspetto istituzionale-economico-politico del paese ricevente (nella fattispecie il Ruanda), così ampliando il proprio sguardo. Questo è stato lasciato spaziare dall'accertamento del contenuto dell'accordo tra paese inviante e paese di destinazione alla verifica in concreto delle modalità di relativa esecuzione da parte di quest'ultimo. Ed infine, la pronuncia di ultimo grado ha il merito, spendibile anche in funzione didascalica, della ricognizione e del collegamento tra le plurime fonti, di rango e derivazione differente, operanti sul terreno della disciplina dei flussi migratori.
3.2. Le dimensioni dell’intervento della Supreme Court
Ciò premesso in punto di prospettazione del taglio generale e connotativo della sentenza, va anticipato che essa ha all'unanimità (con un'opinione redatta congiuntamente dal Presidente Lord Reed e da Lord Lloyd Jones, cui tutti gli altri 3 giudici hanno senza riserve aderito) rigettato il ricorso dell'amministrazione britannica dell'interno nonché, per ragioni di successione di leggi nel tempo conseguenti alla fuoriuscita del Regno Unito dall'Unione Europea, quello incidentale dei richiedenti asilo.
Va adesso seguito in maniera precisa l'articolato itinerario di pensiero della Supreme Court perché solo attraverso la sua razionale consequenzialità possono cogliersene significato ed effetti.
La Supreme Court ha immediatamente chiarito le dimensioni del proprio intervento, sottolineando che il suo esclusivo oggetto è quello di valutare l'intrinseca legittimità delle politiche migratorie adottate dal Ruanda in esecuzione dell'accordo con il governo inglese nonché dell'idoneità di questo a soddisfare i requisiti imposti dall'ordinamento internazionale in termini cogenti, pattizi, spontanei. Altrettanto limpido e rassicurante è il messaggio iniziale, di dichiarato rifiuto di ingresso a qualsiasi giudizio di natura politica e di rigetto di ogni possibile interpretazione in chiave politica della propria decisione [7]: avvertenza assolutamente insolita per una corte inglese di giustizia, evidentemente resa necessaria dall'incandescenza della discussione condotta sul delicato e divisivo tema che non improbabilmente risente degli accenti che in altri evoluti ordinamenti dell'occidente del continente europeo sono esplosi a riguardo di provvedimenti ed orientamenti giurisprudenziali di impatto sulla (discutibile ortodossia della) disciplina dei fenomeni migratori.
Il perno della controversia riguarda, in ultima e sintetica analisi, l'osservanza nell'accordo negoziale tra i governi del Regno Unito e del Ruanda, del fondamentale principio di non respingimento, noto nella comunità internazionale come del non-refoulement. La declinazione di tale principio è stata in primo luogo effettuata sulla falsariga delle già sommariamente richiamate disposizioni interne [8] le quali, nel definire la nozione di paese terzo sicuro cui poter inviare richiedenti asilo, pongono i seguenti requisiti, necessariamente oggetto di riscontro giudiziale: a) che la vita e la libertà del richiedente asilo non sia minacciata, nel paese terzo, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale o dell'espressione di opinioni politiche; b) che venga rispettato nel paese terzo il principio del non-refoulement in conformità alla convenzione ONU sui rifugiati del 1951; c) che nel paese terzo venga rispettato il divieto di trasferimento ad altro paese e non venga violato il diritto di libertà dalla tortura e da trattamenti crudeli, inumani e degradanti sancito dal diritto internazionale; d) che ai richiedenti asilo venga riconosciuto dal paese terzo il diritto ad ottenere lo status di rifugiato e, nel caso di accertamento di tale condizione, a ricevere protezione in conformità alla Convenzione del 1951.
Nella declamata cornice di queste regole il governo inglese stipulò con quello ruandese nell'aprile 2022 il Migration and Development Partnership (MEDP), integrato da un Memorandum of Understanding (MOU) e da due note verbali diplomatiche riguardanti il procedimento di asilo di singoli richiedenti e l'accoglienza e l'alloggio dei richiedenti asilo trasferiti nello stato ricevente: di entrambi i documenti la Supreme Court nega la riconducibilità a fonti di diritto internazionale. Ai sensi del paragrafo 9 del MOU il governo del Ruanda ha assunto l'impegno “a trattare ogni richiedente asilo, e a gestire il relativo procedimento, in conformità alla Convenzione sui rifugiati, alle norme interne in materia di immigrazione, ai criteri internazionale ed interni, incluse le norme internazionali ed interne in materia di diritti umani nonché, ma non in maniera tale da escludere l'applicazione di altre norme, quelle rivolte ad assicurare protezione dai trattamenti inumani e degradanti ed a proibire il refoulement”, ossia il respingimento verso paesi terzi non sicuri. All'interno del Memorandum era anche inserita una previsione [9] secondo cui il governo ruandese avrebbe potuto trasferire in un paese in cui avessero diritto di risiedere i richiedenti asilo ai quali fosse negata la condizione di rifugiato e che fossero privi della necessità di protezione o di base giuridica per permanere in quel paese.
3.3. Il quadro normativo nazionale ed internazionale
Così descritto il tessuto negoziale su cui si fonda l'accordo dell'aprile 2022 la sentenza esplora nitidamente il campo delle plurime disposizioni ad esso applicabili. In primo luogo, annovera l'art.33 (1) della Convenzione sui rifugiati del 1951 che vieta ad ogni stato contraente di espellere o respingere in qualunque forma un rifugiato verso le frontiere di paesi in cui la vita o la libertà di questo sarebbero messe in pericolo a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle opinioni politiche. Questa fondamentale disposizione è già stata interpretata estensivamente dalla giurisprudenza inglese nel senso di impedire non soltanto il trasferimento diretto verso un paese terzo nel quale il rifugiato possa temere di essere perseguitato ma anche quello indiretto attuato attraverso un paese terzo di transito [10]. In materie rilevanti ai fini della soluzione del caso in questione l'ONU è intervenuta con The United Nations International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR) del 1966, accordo cui aderirono 173 stati, che riafferma il principio dell'obbligatorietà per le parti stipulanti del rispetto del divieto di respingimento di richiedenti asilo verso paese che presentino i rischi paventati dalla Convenzione del 1951. Principio analogo fu espresso dalla United Nations Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment del 1984 (UNCAT) che vieta agli stati aderenti l'espulsione, il respingimento o l'estradizione verso stati nei quali sia concreto il rischio che la persona possa essere soggetta a tortura.
Il diritto convenzionale europeo risultante dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani del 1950 a propria volta vieta all'articolo 3 l'espulsione di richiedenti asilo verso paesi nei quali possano affrontare il pericolo di respingimento diretto o indiretto verso il paese d'origine [11]. E la giurisprudenza di Strasburgo si è mostrata preoccupata di porre al centro della propria indagine in merito all'esatta applicazione dell'articolo 3 appena citato la possibilità per il richiedente asilo di accedere a una adeguata procedura nel paese terzo ricevente [12].
Di grande rilievo è la circostanza che l'articolo 6 dello Human Rights Act inglese del 1998 abbia espressamente e letteralmente recepito l'articolo 3 della CEDU.
La Supreme Court ha per completezza osservato che il principio del non-refoulement concorre alla formazione del diritto internazionale consuetudinario, così vincolando tutti gli stati. Ed infatti, la Dichiarazione degli stati contraenti della Convenzione del 1951 ed aderenti al collegato Protocollo del 1967 sottoscritta nel 2001 [13] racchiude nel suo quarto “considerando” premesso al Preambolo il riconoscimento della continua rilevanza e resistenza del regime internazionale dei diritti e dei principi relativi alla protezione dei rifugiati, “incluso quello basilare del non-refoulement inglobato nel diritto internazionale consuetudinario. Questo importante riconoscimento rende il principio ius cogens per tutti gli stati della comunità internazionale e contribuisce, quindi, a disegnarne il peso vincolante anche per il Regno Unito. Tale ordinamento ha, a propria volta, posto in essere coerenti ed univoche misure normative sempre facenti perno sul principio del non-refoulement. In questo filone trova spazio, ad esempio, la sezione 2 dell'Asylum and Immigration Appeals Act del 1993 che dispone nel senso che nessuna delle disposizioni contenute nelle Immigration Rules, corollario dell'Immigration Act del 1971 possa ammettere pratiche contrarie alla Convenzione del 1951. Analogamente, la sezione 82 (1) del Nationality, Immigration and Asylum Act del 2002, in combinato disposto con la successiva sezione 82(2), conferisce ai richiedenti asilo la facoltà di appellare le decisioni governative che si pongano in contrasto con la Convenzione ONU, con il logicamente incluso inglobamento del divieto di respingimento. Ed infine, il paragrafo 17 dell'allegato 3 all'Asylum and Immigration (Treatment of claimants) Act del 2004, consente al segretario di Stato di certificare che il paese terzo cui inviare un richiedente asilo possa definirsi “sicuro” solo laddove la sua vita e la sua libertà non siano messe a repentaglio per ragioni razziali, religiose, politiche o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale.
Sulla scorta del quadro normativo così individuato, la sentenza procede all'esame delle questioni devolute alla sua cognizione (di una soltanto delle quali, quella relativa al ricorso incidentale fondato su una norma comunitaria non più in vigore dopo il 31 dicembre 2020 [14], e, pertanto, rigettato non è necessario in questa sede occuparsi).
3.4. Le questioni devolute alla cognizione della Supreme Court
Non considerando adesso, per le ragioni spiegate in chiusura del paragrafo precedente, l'oggetto del ricorso incidentale, la Supreme Court ha concentrato la propria attenzione sulla questione basilare attorno alla quale ruota la propria sentenza, ossia l'effettiva osservanza nella fattispecie del cardine dell'intero sistema planetario di trattamento dei richiedenti asilo, il non-refoulement principle. Per pervenire alla decisione sul punto, che in realtà investiva l'intera materia sviluppata nel ricorso del governo inglese contro la pronuncia per sé negativa della Court of Appeal, i giudici supremi suddividono in tre sotto-temi, di cui si andrà fornendo illustrazione, la complessiva materia, sapendovi dare una risposta unitaria ed armoniosa.
Si è già preannunciato che il vero obiettivo della pronuncia è stato quello di rispondere alle censure sollevate dal governo contro la decisione di secondo grado ponendola costantemente a raffronto, in termini di aderenza ad un idoneo percorso argomentativo ed al nugolo dei poteri esercitabili in materia dall'autorità giudiziaria, con quella della Divisional Court che aveva, al contrario, sancito la legittimità dell'operato del governativo e, per diretta e meccanica conseguenza, quella del sistema operante in Ruanda in materia di protezione dei rifugiati richiedenti asilo.
Ed invero, il primo quesito cui la Supreme Court si è assegnata il compito di dare risposta è stato quello sull'esattezza del metodo utilizzato in primo grado, e rovesciato in appello, di accertamento dell'esistenza del rischio del respingimento dei richiedenti asilo da parte del Ruanda.
Seguendo un ormai consolidato approccio sistematico alla definizione del proprio ufficio decisorio, ed in sostanza assolvendo la propria funzione al tempo stesso nomofilattica e di sindacato costituzionale e, più in particolare interpretando nel modo più proficuo il proprio ruolo di garante della rule of law, epicentro del Constitutional Act del 2005, la sentenza fissa il modello di riferimento cui ancorarsi. E lo individua, a dimostrazione del proprio incontaminato animo europeista in senso lato, in una sentenza della Corte EDU in un caso di estradizione del 1989 che riguardava proprio il Regno Unito [15]. La regula iuris consacrata fu che il dovere degli stati contraenti, nascente dal citato articolo 3 della Convenzione del 1950, di non sottoporre alcuno a tortura o a trattamenti inumani e degradanti si accompagna al correlato obbligo di non trasferimento verso stati rispetto ai quali si presentino fondate ragioni per ritenere attuale e concreto il rischio che ivi si pratichino maltrattamenti.
Del massimo interesse sul piano del legal reasoning è la conseguenza che la Supreme Court trae da quella che, provenendo dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, ben si assesta tra i precetti di diritto positivo. Ed infatti, i giudici supremi rinvengono nel caso Soering un sicuro elemento che giustifica l'affermazione secondo cui il test da applicare per verificare l'effettiva osservanza del principio proibitivo dei respingimenti di richiedenti asilo non può che essere quello, ignorato dalla Divisional Court e, all'opposto fatto giustamente proprio dalla Court of Appeal, che impone al Giudice di appurare e decidere direttamente e sulla base di un proprio, autonomo metro di giudizio se la fattispecie esibisca dati concreti che consentano di affermare che il trasferimento del richiedente asilo dal Regno Unito ad un altro stato (nella specie il Ruanda) esponga la persona ad un reale rischio di maltrattamenti. Viene ulteriormente affermata l'assoluta insufficienza al riguardo del metodo che aveva indotto i primi giudici ad assolvere l'operato governativo da ogni ombra sospetta di illegittimità, ovvero l'esistenza di assicurazioni dallo stesso fornite, ed a propria volta frutto di garanzie puramente verbali date dal governo del Ruanda, circa la conformità al diritto internazionale delle politiche in materia di immigrazione praticate in quel paese. Resta, così, platealmente bocciato l'atteggiamento remissivo e rinunciatario della Divisional Court, tenutasi prudentemente ai margini del merito della questione centrale vertente sull'assenza o presenza di rischi concreti circa il rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo. Severa è la censura rivolta ai primi giudici, cui si è imputato di essersi accontentati di valutare la ragionevolezza del giudizio governativo classificatorio del Ruanda come paese terzo sicuro e di aver abdicato alla propria inerente prerogativa di ergersi a giudice dei duri fatti e non solo degli atti ufficiali. È il metodo di giudizio a costituire il vizio motivazionale che intacca la prima sentenza, pronunciata in carenza assoluta di un controllo giudiziale intrinseco dell'effettivo rispetto del principio del non-refoulement. E, come si vedrà, la Supreme Court non si è sottratta all'impresa, omogenea rispetto al principio di diritto enunciato, di desumere dall'ampio materiale probatorio a disposizione le ragioni di un convincimento contrario alla legittimità dell'intera operazione di delocalizzazione umana senza particolari scrupoli giuridici realizzata dal governo britannico. La automatica conclusione è stata quella di ratifica del contrario e corretto atteggiamento assunto dalla Court of Appeal, assuntasi la responsabilità di dire la propria parola sulla presenza del rischio della violazione della Convenzione ONU del 1951 insito nell'accordo con il Ruanda.
Il secondo sotto-tema, derivante dalla questione essenziale relativa alla stretta osservanza, nell'intero accordo negoziale, del principio proibitivo del respingimento, consiste nel giudicare della correttezza della riforma, da parte della Court of Appeal, della statuizione principale della Divisional Court. La risposta positiva è in misura chiarissima il logico effetto del ragionamento appena illustrato.
Alla critica di fondo imperniata sulla concezione riduttiva dell'intervento giudiziale se ne aggiunge altra non meno abrasiva, rivolta a sottolineare la povertà del metodo adibito alla valutazione delle risultanze probatorie in atti. Lacuna, questa, a propria volta traente origine dalla trascurata valorizzazione dell'orientamento della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo in uno specifico passaggio della sentenza Ilias c.Ungheria del 2019. In esso il giudice europeo indica in modo stentoreo i criteri ai quali è tenuto ad attenersi lo stato contraente che intenda trasferire ad uno stato terzo i richiedenti asilo che si trovino nel proprio territorio. Sul primo stato incombe il dovere di esaminare approfonditamente la questione della sussistenza di un rischio effettivo che lo stato terzo ricevente possa negare accesso ai richiedenti asilo ad una procedura adeguata che li protegga dal grave pericolo del respingimento. E tale esame deve essere compiuto mediante la scrupolosa analisi delle modalità di funzionamento in concreto, nel paese terzo ricevente, del sistema di riconoscimento del diritto di asilo, tenendo conto delle eventuali carenze segnalate da organismi internazionali quali l'alto commissariato dell'ONU per i rifugiati ed avendo, altresì, riguardo a tutte le circostanze rilevanti note al momento. Questa osservazione fa giustizia del duplice errore addebitato dalla Supreme Court ai giudici di primo grado. Questi, infatti, non avrebbero, innanzitutto, potuto accontentarsi delle assicurazioni date dal governo ruandese a quello britannico circa l'effettivo rispetto dei divieti derivanti dalla Convenzione del 1951 in materia di respingimento. Ancora una volta è la giurisprudenza di Strasburgo il faro che orienta il ragionamento della Supreme Court. Ed infatti, in una sentenza del 2015 [16] la Corte EDU affermò che il peso da attribuire alle assicurazioni dello stato ricevente dipende volta per volta dalle circostanze concrete, così escludendone il valore assoluto. Indirizzo confermato da una sentenza del 2021 del medesimo organo giudicante inglese, ossia la Supreme Court [17], che sottolineò la necessità che i giudici chiamati a pronunciarsi su una richiesta di estradizione delibino accuratamente la sufficienza delle garanzie dello stato richiedente l'estradizione circa l'insussistenza di rischi di maltrattamenti alla luce di tutte le specifiche circostanze del caso e senza alcun automatismo. A questa stregua si è rivelato erroneo e carente il ragionamento seguito dalla Divisional Court che omise di considerare la concreta situazione del Ruanda con riguardo a lacune di sistema riscontrabili negli organi competenti ed alle procedure utilizzate per decidere sulle domande di asilo. Ancor più manchevole ed apodittico è apparso agli occhi della Supreme Court il passaggio motivazionale di primo grado fondato sul credito accordato, al fine di asseverare le assicurazioni del governo ruandese, alla competenza ed all'esperienza degli incaricati del governo inglese chiamati a pronunciarsi su di esse. E ciò perché non può essere delegato ad altri organi il giudizio, proprio della corte giudicante, circa l'insussistenza del concreto rischio della violazione del non-refoulement principle. Viene a questo proposito richiamato un caso-guida venuto all'esame della House of Lords nel 2001 [18] che, con l'opinione di Lord Hoffmann, affermò che, nell'ipotesi in cui la deportazione di un cittadino straniero in un altro paese comporti il rischio che gli vengano inflitte torture, è cedevole anche l'interesse inglese alla propria sicurezza nazionale ed è necessario che il governo metta in campo soluzioni alternative al trasferimento all'estero.
Il secondo, altrettanto decisivo nell'economia della ratio decidendi della Supreme Court, errore commesso dalla Divisional Court ed analiticamente censurato anche dalla Court of Appeal è caduto sulla sostanziale pretermissione dei più significativi ed inequivocabili elementi probatori presenti in atti che cospiravano a favore della conclusione che le concrete circostanze lasciavano con certezza emergere la presenza del rischio reale che il trasferimento dal Regno Unito al Ruanda di cittadini richiedenti asilo si sarebbe risolto nell'inosservanza del divieto di respingimento. Con acribia la Supreme Court effettua l'elenco di tali elementi, in larga parte tratti da rapporti dell'UNHCR [19] ed altrettanto largamente trascurati dalla Divisional Court, qui di seguito sommariamente riportati. Innanzitutto, in un recente passato il governo ruandese aveva mancato di adempiere le assicurazioni date a quello israeliano in relazione ad un accordo per il trasferimento dal secondo al primo di richiedenti asilo. Vi è poi un’esperienza molto allarmante di casi di respingimenti compiuti in violazione del diritto internazionale da parte del governo ruandese nonché di gravi manchevolezze nel sistema di amministrazione delle domande di asilo rivelatosi privo di garanzie circa l'adozione di decisioni motivate a livello governativo: d'altra parte, non vi è evidenza di un solo caso di ricorso giurisdizionale contro una decisione di rigetto delle domande d'asilo. Ad aggravare le omissioni appena ricordate è stato l'atteggiamento sprezzante dei primi giudici verso la preziosa opera informativa dell'UNHCR, sistematicamente ignorata ed altezzosamente sottovalutata in quanto priva di un particolare peso (“carries no special weight”). L'atteggiamento è stato pesantemente criticato dalla Supreme Court che, oltre a ricordare l'importanza delle circostanze di cui i rapporti dell'organismo danno conto, ha voluto corrispondere un tributo al ruolo da esso svolto, definito da un precedente della stessa Supreme Court come il “titolare di un ufficio rispettato a livello internazionale e detentore di elevati livelli di conoscenza e competenza che eccedono quelli di cui ordinariamente è dotata una corte di giustizia” [20]: sotto questo profilo è stato reputato ammissibile l'intervento in giudizio (una sorta di amicus curiae) dell'UNHCR, teso a riaffermare il principio per cui i richiedenti asilo hanno il diritto di vedere esaminate le proprie domande nel territorio dello stato in cui approdano o di quello che abbia giurisdizione nei loro confronti.
La somma di questi motivi ha portato la Supreme Court a concludere, quanto al secondo profilo del motivo principale di ricorso, che non meritava censure la decisione della Court of Appeal, la quale, come detto, aveva riformato quella di primo grado, autrice della serie di errori censurati.
Il terzo profilo del fondamentale tema incentrato sul rischio che i richiedenti asilo trasferiti in Ruanda potessero veder violato il non-refoulement principle ha riguardo alla esattezza della statuizione della Court of Appeal, di riforma di quella della Divisional Court che aveva escluso l'esistenza di fondati motivi per ritenere la sussistenza di tale rischio. Le osservazioni precedenti in punto di criteri di giudizio e di sostanza probatoria orientano ancora una volta in senso affermativo la risposta volta a confermare la correttezza della sentenza di secondo grado impugnata dal governo inglese.
Ulteriori e probanti elementi vengono portati a suffragio della tesi dell'alto grado di pericolo di attentato ai diritti umani dei richiedenti asilo nel caso di trasferimento in Ruanda. Si ricorda, a tal proposito, che la recente esperienza dimostra che il Ruanda è stato teatro di spaventosi periodi di violenza, solo in parte superati da successivi progressi in campo economico e sociale. Tuttavia, la corte non giudica questi ultimi idonei a superare il negativo impatto dei precedenti. Viene sottolineato che curiosamente era stata la stessa Divisional Court, seppur in diversa composizione, a definire in un caso del 2017 [21] il Ruanda come un paese che “ha istigato, in tempi molto recenti, omicidi politici, inducendo la polizia inglese ad avvertire cittadini ruandesi abitanti nel Regno Unito dell'esistenza di piani credibili, messi in opera dal governo, per ucciderli”. È anche accertato ormai che il Ruanda mantiene sì una politica di porte aperte nei confronti di rifugiati provenienti da paesi in cui alti sono i conflitti civili (quali la Repubblica democratica del Congo e la Repubblica del Burundi) senza, tuttavia, di norma definire positivamente le domande di asilo. È altrettanto noto, come fatto risaltare nella prima citata sentenza del 2017 della Divisional Court, il timore di una scarsa indipendenza del potere giudiziario (nonché, perfino, dell'avvocatura) da quello esecutivo: il che mette a repentaglio la possibilità di un vaglio autonomo in sede giurisdizionale delle domande di asilo respinte nella fase amministrativa. Le statistiche dimostrano che in tale fase si è registrato il 100% di rigetti delle domande. Ed ancora, i rapporti dell'alto commissariato danno contezza di prassi di refoulement adottate nel paese, tanto da aver indotto uno dei giudici di maggioranza della Court of Appeal, Underhill, a descrivere, nella migliore delle ipotesi, come insufficiente la cultura del rispetto, da parte delle autorità governative ruandesi competenti in materia di immigrazione [22], degli obblighi internazionalmente assunti: mentre, nella peggiore delle ipotesi quella politica viene definita come improntata al deliberato disprezzo verso tali obblighi. Né, al momento della sottoscrizione dell'accordo o in epoca successiva, l'autorità governativa inglese si è in alcun modo curata di indagare circa le prassi di respingimento vigenti nel paese dell'altro contraente, come criticamente messo in rilievo in un inascoltato rapporto stilato da un'autorità indipendente inglese, l'Independent Advisory Group on Country Information (IAGCI) [23]. Si desume, altresì, dai rapporti dell'UNHCR l'assoluta mancanza di preparazione professionale dei funzionari statali incaricati di trattare le pratiche di asilo: ciò che fa temere che non sia possibile modificare, almeno nel breve periodo, le prassi del passato. Né, si osserva dalla Supreme Court, i funzionari del governo inglese sembrano essersi minimamente curati, prima di esprimersi sull'incipiente accordo, di verificare se l'analogo accordo stipulato con Israele avesse dato luogo-come in effetti era avvenuto-a patenti violazioni della Convenzione del 1951 a causa del mancato rispetto dei diritti dei richiedenti asilo.
3.5. Le conclusioni della Supreme Court e la ratio decidendi della Sentenza
Al termine di una minuziosissima analisi delle circostanze emergenti dall'imponente compendio probatorio le conclusioni cui perviene la Supreme Court si fondono in modo coeso e danno vita ad una convincente e congrua ratio decidendi. Questa gira, dall'inizio alla fine della lunga sentenza, attorno al presupposto basilare ai fini della decisione del caso, ossia il pieno potere-dovere dell'autorità giudiziaria inglese di sottoporre a stringente scrutinio l'attività posta in essere dagli organi del potere esecutivo nella doverosa prospettiva di verificarne rispondenza e coerenza con i principii fondamentali consegnati da norme internazionali ed interne, nonché dallo stesso common law inteso nella sua origine e formazione giurisprudenziale. In questo completo rovesciamento dell'ottica dalla quale guardare al caso risiede il completo rigetto dell'ingiustificata autolimitazione impostasi dalla Divisional Court, solo attenta al controllo esteriore e formale della legittimità dei provvedimenti in discussione. Questo atteggiamento contraddittorio rispetto alla pienezza della propria funzione ha condotto i giudici di primo grado ad ergere a piattaforma di valutazione della legittimità dei provvedimenti impugnati, non la ricca ed obiettiva evidenza probatoria sgorgante dagli atti ma, la semplice messe di interessate assicurazioni fornite dal governo del Ruanda (a favore del quale, come sostegno finanziario dell'accordo era stata stanziata dal governo inglese per il 2022 l'ingente somma di 140 milioni di sterline) circa la compatibilità del proprio sistema istituzionale considerato nel suo complesso con gli obblighi internazionali in materia di diritti umani e di divieto di respingimento implicati dalla gravità del caso. Ancora una volta è netta e radicale la cesura rispetto a questa posizione tanto della Court of Appeal a maggioranza quanto della Supreme Court all'unanimità, pronunciatesi concordemente nel senso della ineludibile esigenza di esaminare ogni elemento acquisito al processo onde giudicare del thema decidendum. E questo era unicamente costituito non dalla esistenza della buona fede del governo ruandese nel concludere l'accordo ma dalla sua obiettiva-tale perché deducibile da dati obiettivi-capacità di adempiere le obbligazioni assunte, prima e fondamentale tra esse quella di rispettare il divieto di respingimento. La ponderata valutazione delle circostanze, condotta senza aprioristici dinieghi di rilevanza ad alcuna fonte di conoscenza, ha portato a ritenere che sia ancora inadeguata la percezione in Ruanda dell'efficacia cogente ed inderogabile di principii fondamentali stabiliti dalla Convenzione ONU del 1951, quale quello del non-refoulement. È risultata altrettanto chiara la necessità, avallata dallo sbrigativo trattamento di rifugiati richiedenti asilo medio-orientali ed afghani, che rimarchevoli modifiche di sistema vengano apportate prima che si possa nutrire fiducia nell'osservanza incondizionata di tali principii. Non poteva, pertanto, concepirsi conclusione diversa da quella fatta propria dalla Supreme Court secondo cui sono affiorati rilevanti e fondati motivi per ritenere che ricorra un reale rischio che le istanze dei richiedenti asilo possano non essere decise in Ruanda in modo appropriato e che essi possano essere esposti al rischio di essere respinti, in forma diretta o indiretta, verso i loro paesi d'origine nei quali concreto è il pericolo della sottoposizione a trattamenti vietati dalle norme internazionali.
4. Tratti conclusivi
Il terreno delle considerazioni finali è sparso di argomenti eterogenei ma non per questo inadatti a restituire l'immagine di un filo conduttore comune al discorso fin qui svolto.
Il tema dei flussi migratori, per la sua incidenza globale e per la sensibilità nei suoi confronti mostrata in ogni parte del mondo ampiamente dimostrata dal mondo politico-istituzionale, ha frequentemente aguzzato la fantasia dei decisori nazionali sbrigliandola in direzioni spesso avventurose ed immeditate come il caso inglese, tutt'altro che unico in Europa, prova. L'accentramento di decisioni così delicate nelle mani del solo potere esecutivo trascurando l'interlocuzione parlamentare (è proprio il caso inglese a lasciar auspicare che diverso debba essere il percorso da seguire in casi di accordi internazionali di siffatta portata), oltre a menomare la possibilità di un controllo pubblico diffuso sull'attività del governo, aumenta in modo rimarchevole la possibilità di dar luogo ad istruttorie affrettate, superficiali, carenti (imperdonabili appaiono, nel modo in cui sono state stigmatizzate dalla Supreme Court, ad esempio, le mancate indagini da parte dei funzionari governativi circa i comportamenti tenuti dal Ruanda in occasione di precedenti accordi e sullo stato generale delle garanzie democratiche indipendentemente dalle auto-certificazioni). Altra spia della cautela che avrebbe dovuto circondare l'intera operazione poi cassata dalla Supreme Court andava individuata nella disparità di consistenza economica dei due paesi contraenti, destinata ad incrementare il desiderio di concludere ad ogni costo l'accordo da parte del paese più debole in vista del corrispettivo conseguibile.
Ma insieme a questi messaggi che suggeriscono grande prudenza e ponderazione nel trattare la materia dei diritti dei migranti e le connesse obbligazioni degli stati operanti nello scenario internazionale non è difficile cogliere note rosee ed incoraggianti.
Invero, ove, seppur soltanto per (sterile) esercizio dialettico, dovesse dubitarsi dell'esistenza di un robustissimo telaio costituzionale nel diritto inglese, a dispetto della consolidata formazione di una inviolabile costituzione materiale, la vicenda cui è dedicata la presente ricerca presterebbe uno strumento potente ed incontrovertibile di rassicurazione. Ed infatti, volendo, e forse dovendo, elevare la vicenda stessa ad un piano conformativo e descrittivo dei caratteri dell'ordinamento inglese, viene da considerare che la sentenza della Supreme Court costituisce la più limpida e persuasiva esemplificazione e spiegazione della tanto spesso invocata (non sempre e non da tutti con pieno controllo concettuale) rule of law. Essa, epitome delle molteplici forme di manifestazione dello stato di diritto ordinatamente articolato secondo la divisione dei poteri, vive e si incarna nell'esempio fornito dall'esercizio quotidiano dei poteri stessi e dal loro coordinamento. Dicevano che, nell'impedire la sopraffazione di uno ad opera dell'altro, al contempo esige che ciascuno si esplichi senza timori o costrizioni in modo pieno. Ed è, pertanto, un segnale di vitalità di uno stato di diritto che il potere giudiziario non si lasci imprigionare dall'utilitaristica tentazione del quieto vivere e rinunci alle proprie funzioni di custode e promotore, attraverso l'espressione delle proprie decisioni, della legalità. E ciò anche a costo di esibire con motivata pronuncia l'illegittimità dell'agire governativo. In questo senso l'esempio che proviene da una indomita Supreme Court potrebbe sperabilmente rivelarsi contagioso e capace di valicare i confini nazionali.
[1] Sul carattere fondamentale ed antico del diritto di emigrare v.Ferrajoli, Crisi del diritto e dei diritti nell'età della globalizzazione in Questione Giustizia del 20 novembre 2023. Il testo riproduce l'intervento svolto dall'Autore al XXIV congresso di Magistratura Democratica, svoltosi a Napoli tra il 9 e l'11 novembre 2023.
[2] (2023) UKSC 42.
[3] Organo in composizione collegiale della High Court competente, tra l'altro, in materia di impugnazione, attraverso lo speciale procedimento della judicial review di atti e provvedimenti dell'autorità amministrativa.
[4] (2022) EWHC 320 (Admin.).
[5] (2023) EWCA Civ 745.
[6] Le due norme consentono il trasferimento dei richiedenti asilo in un paese terzo sicuro nella sola ipotesi della ricorrenza di un collegamento degli stessi con tale paese.
[7] Vale la pena riportare nel testo originale il passaggio per la sua forza persuasiva: “The court is not concerned with the political debate surrounding the policy, and nothing in this judgment should be regarded as supporting or opposing any political view of the issues”.
[8] Paragrafo 345 B delle Immigration Rules del 2016 emanate in omaggio alla previsione dell'Immigration Act 1971.
[9] Paragrafo 10.4.
[10] R v Secretary of State for the Home Department, Ex p Bugdaycay (1987) AC 532.
[11] Principio applicato dalla Corte EDU nel caso MSS c Belgio e Grecia del 2011 relativo al trasferimento di un richiedente asilo verso un paese in cui era transitato.
[12] Ilias v Hungary del 2019.
[13] Declaration of States Parties to the 1951 Convention and/or its 1967 Protocol Relating to the Status of Refugees (documento ONU 2001/09).
[14] In virtù delle previsioni del paragrafo 6 (1) dell'allegato 1 all'Immigration and Social Security Co-ordination (EU Wirhdrawal) Act 2020, caparbiamente propugnato dal governo di Boris Johnson in attuazione del procedimento conseguente al voto referendario del 23 giugno 2016.
[15] Soering c Regno Unito (1989).
[16] Othman c. Regno Unito. Il caso riguardava la deportazione in Giordania di un cittadino richiedente asilo nel Regno Unito e la sufficienza delle garanzie fornite dal paese di destinazione in ordine all'assenza di concreti rischi di maltrattamenti.
[17] Zabolotnyi v la Mateszalka District Court, Hungary (2021) UKSC 14 attinente alla sufficienza delle garanzie offerte dal governo ungherese ricevente sull'inesistenza del concreto rischio che l'estradizione del ricorrente non lo avrebbe esposto a maltrattamenti. È notevole il fatto che redattore della sentenza fu Lord Lloyd Jones, co-estensore con Lord Reed, di quella qui commentata.
[18] Secretary of State for the Home Department v Rehman (2001) UKHL 47. Il principio, illustrato nel testo, fu poi seguito dalla Supreme Court 20 anni dopo in R (Begum) v Special Immigration Appeals Commission (2021) UKSC 7. La sentenza resa in quest'ultimo caso, in cui si riaffermava l'infungibilità della valutazione giudiziale in ordine alla possibile violazione da parte dell'autorità governativa degli obblighi internazionalmente assunti in base all'articolo 6 dello Human Rights Act 1998 (che traspose nel diritto inglese il divieto di tortura sancito dall'articolo 3 della CEDU), fu redatta da Lord Reed, coestensore di quella odierna.
[19] La stessa Supreme Court ha riconosciuto quanto considerevolmente autorevoli siano i rapporti dell'alto Commissariato ONU definiti unici ed ineguagliabili nel caso IA (Iran) v Secretary of State for the Home department (2014) UKSC 6.
[20] Così si espresse, citando le parole usate nel primo grado di quel procedimento dal giudice Sedley, Lord Kerr in R (EM(Eritrea) v Secretary of State for the Home Department (2014) UKSC 12.
[21] Government of Rwanda v Nteziryayo (2017) 191 EWHC (Admin).
[22] Il Directorate General of Immigration and Emigration in Rwanda (DGIE)
[23] In tale rapporto sono menzionate le numerose falle registrate nel sistema amministrativo, di cui viene denunciata la mancanza di trasparenza, che regola le procedure per l'esame delle domande di asilo.
Recensione di Ilaria Buonaguro
Sulle colline di Tivoli, alla fine di un sentiero sterrato, incastonata fra gli alberi di ulivo c’è una casa di pietra. Lì, dopo la “curva del regresso” che costringeva il treno a vapore ad arrancare e a tornare verso Roma e che, oggi, altro non è che un’ennesima curva in salita da vincere scalando la marcia e facendo fare qualche giro in più al motore.
Una casa che è crocevia di storie diverse, ma che parlano tutte la lingua comune della solitudine. Ed è rifugio per chi passa e per chi resta. Per chi passa - Irene, fotografa romana trentottenne cresciuta in una famiglia algida del quartiere Prati, alimentando il gusto di negare soddisfazioni alla madre e imparando a sfuggire l’amore. Per chi resta - Adelia, una donna italo-portoghese di settant’anni che in quella casa, ereditata dal nonno materno, ha dato inizio a una nuova vita. E Osias, un ragazzo congolese diciannovenne arrivato in Italia grazie ad un’organizzazione umanitaria, con un futuro tutto da costruire rincorrendo sogni e stelle studiando astrofisica, eppure col ricordo ancora vivido della morte negli occhi e nel cuore. E che condivide con Adelia quella casa, perché un giorno, nel Villaggio dove Adelia lavorava e Osias era un groviglio di silenzi in un mare di dolori taciuti, l’empatia dei loro sguardi li ha uniti più del sangue.
Nella torrida estate del 2007 il desiderio di accoglienza di Adelia, il bisogno di affetto di Osias e l’esigenza di scappare di Irene si attraggono come poli opposti di un magnete. Istinti primordiali che agiscono come forze di un determinismo perfetto, dando vita ad un incontro che Adelia, Osias e Irene sanno riconoscere e trasformare in qualcosa di nuovo e di più grande.
Le storie dei tre protagonisti, narrate alternativamente in prima o in terza persona, prendono corpo attraverso prospettive diverse, intervallate da una voce “fuori campo” che, insinuandosi tra i capitoli, segue l’incedere del romanzo e dialoga talvolta con i personaggi, talvolta con il lettore, altre volte con lo scrittore stesso, instaurando rapporti diretti che trascendono il foglio di carta.
In quel luogo isolato, lontano da Roma tanto basta per vederla accendersi di luci all’orizzonte quando cala la sera, le resistenze di Irene scemano di giorno in giorno, tra l’esuberanza di Adelia e la presenza discreta di Osias, sottofondo di fado portoghesi e profumo, avvolgente, di biscotti allo zenzero appena sfornati.
Il rito di ritrovarsi ogni sera attorno allo stesso tavolo fa il resto, creando un’intimità familiare capace di abbattere le ultime fragili barriere. Attraverso la condivisione del proprio vissuto, Adelia, Osias e Irene si spogliano finalmente del proprio dolore, scoprendosi meno soli e trovando il coraggio di affrontare le proprie incertezze e le proprie paure.
In quella calda sera di luglio le fiamme - che hanno segnato traumaticamente il trascorso dei tre protagonisti - tornano a bruciare, ma questa volta con un significato diverso. Il fuoco che divampa non è più distruzione e fine, ma metafora di catarsi e cambiamento. E la fuga a cui costringe insieme Adelia, Osias e Irene non è più solo istinto di sopravvivenza ma slancio verso un futuro finalmente libero dalle ombre troppo lunghe di un passato ingombrante.
Attraverso una scrittura intima ma ritmata, l’autrice di Icarezenzero ci ricorda l’importanza e il senso profondo degli incontri, incastri di vite che il destino ci propone continuamente, ma il cui significato e valore sta a noi saper cogliere e saper alimentare. Per poter acquisire nuove consapevolezze, per far nascere un legame, per riuscire a lasciarsi il passato alle spalle e trovare la forza di cambiare. Per scrivere, ancora, l’inizio di una nuova storia.
(Silvia Filippi, Icarezenzero, Pluriversum Edizioni, Ferrara, 2022).
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