ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il decreto PNRR n. 19/2024 (ri)attribuisce rilevanza penale agli illeciti previsti dall’art. 18 D.lgs 276/2003
Il presente contributo costituisce il seguito de I rischi penali dell'interposizione illecita di manodopera di Chiara Giuntelli, apparso su questa Rivista il 4 marzo 2024.
Con la recente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Legge 2 marzo 2024 n. 19 recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (cd. DLPNRR-bis), le varie forme di somministrazione abusiva di manodopera, utilizzazione illecita, appalto e distacco illeciti contemplati all’art. 18 D.lgs 276/2003, fattispecie colpite dalla depenalizzazione ad opera del D.lgs n. 8/2016, tornano ad assumere rilevanza penale. Si tratta di una delle misure di prevenzione e contrasto al lavoro irregolare adottate in via di urgenza a seguito dei tragici fatti di Firenze che, unitamente ad altre disposizioni, mirano a rafforzare gli strumenti di tutela dei lavoratori nell’ambito delle esternalizzazioni.
La tutela penale era ormai da tempo riservata, dopo una precedente abrogazione, all’ipotesi di somministrazione fraudolenta di manodopera prevista dall’art. 38 - bis d.lgs n. 81/2015, oltre che ad alcune limitate fattispecie previste nell’art. 18 D.lgs 276/2003 e non interessate dalla depenalizzazione.
L’art. 29 del Decreto Legge 19/2024 interviene in maniera radicale sull’art. 18 riscrivendo gli illeciti contravvenzionali e potenziando il trattamento sanzionatorio, con la previsione di una pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, anche rispetto all’originaria formulazione del reato introdotto dall’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003 (legge Biagi).
Con specifico riguardo alla somministrazione abusiva di lavoro prevista al comma 1 dell’art. 18, l'esercizio non autorizzato delle attività di cui all’art. 4 comma 1 lettere a) e b) è ora punito con la pena dell'arresto fino a un mese o dell'ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro.
È stata reintrodotta, altresì, la rilevanza penale dell’esercizio abusivo senza scopo di lucro della attività di intermediazione di cui all’art. 4 comma 1 lett. c) per cui è prevista la pena dell’arresto fino a due mesi o dell’ammenda da euro 600 a euro 3.000.
Per quanto riguarda, invece, l'esercizio non autorizzato delle attività di cui all'articolo 4, comma 1, lettere d) ed e), la pena è dell’arresto fino a tre mesi o dell’ammenda da euro 900 ad euro 4.500; se tali attività sono esercitate senza scopo di lucro la pena è dell’arresto fino a quarantacinque giorni o dell’ammenda da euro 300 a euro 1.500.
Importanti novità riguardano anche il trattamento sanzionatorio previsto per l’utilizzatore, che ricorra alla somministrazione di manodopera da parte di soggetti non autorizzati o al di fuori dai limiti normativi previsti a cui, ai sensi dell’art. 18 comma 2, si applica la pena dell’arresto fino ad un mese o dell’ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione.
Anche gli appalti e distacchi irregolari sono nuovamente passibili di sanzione penale. È stato, infatti, modificato il comma 5 - bisdell’art. 18 che ora recita: “Nei casi di appalto privo dei requisiti di cui all'articolo 29, comma 1, e di distacco privo dei requisiti di cui all'articolo 30, comma 1, l'utilizzatore e il somministratore sono puniti con la pena dell'arresto fino a un mese o dell'ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione».
Il reato di somministrazione fraudolenta previsto dall’art. 38-bis D.Lgs. n. 81/2015, che si configura in tutti i casi in cui la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore, è stato abrogato ed inserito con la stessa formulazione al nuovo comma 5–ter dell’art. 18. È stata rafforzata, anche in questo caso, la previsione sanzionatoria con l’arresto sino a tre mesi o l’ammenda di euro 100 per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione.
Sono state, infine, introdotte due disposizioni che incidono sulle sanzioni. Ai sensi dell’art. 5-quater dell’art. 18 gli importi delle sanzioni previste da tale articolo sono aumentati del venti per cento ove, nei tre anni precedenti, il datore di lavoro sia stato destinatario di sanzioni penali per i medesimi illeciti, mentre il nuovo comma 5-quinquies prevede che l'importo delle sanzioni non può, in ogni caso, essere inferiore a euro 5.000 né superiore a euro 50.000.
Il Decreto PNRR apporta modifiche anche all’art. 29 D.lgs 276/2003 prevedendo che, al personale impiegato nell'appalto di opere o servizi e nell'eventuale subappalto è corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto. È prevista, inoltre, l'estensione della responsabilità solidale dell’utilizzatore che ricorra alla somministrazione nei casi di cui all’art. 18 comma 2 nonché ai casi di appalto e distacco di cui all’art. 18 comma 5-bis.
Dall’analisi del nuovo contesto normativo emerge, inequivocabilmente, da parte del governo una decisa marcia indietro rispetto al passato visto il sempre più crescente e preoccupante fenomeno del lavoro sommerso e irregolare mascherato sovente da appalti e distacchi illeciti che celano, in realtà, mere forniture di manodopera.
Gli effetti di questo censurabile malcostume esplicano effetti negativi anche sulla salute e sicurezza dei lavoratori come spesso la triste cronaca rivela. Un parallelo pacchetto di interventi riguarda il sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei mobili di cui all’art. 89 comma 1 lett. a) D.lgs 81/08 con l’introduzione della c.d. “patente a crediti” oltre ad altre misure volte a rafforzare l’attività di vigilanza degli organi competenti.
Sarà il tempo a stabilire se la minaccia della sanzione penale reintrodotta per le varie forme di interposizione illecita possa rappresentare un vero deterrente, dato che, stante la natura contravvenzionale delle “nuove” fattispecie criminose, la previsione della pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, può condurre all’estinzione del reato, o in sede amministrativa secondo quanto previsto dall’art. 15 D.lgs 124/2004 e artt. 20 e 21 D.lgs 758/1994, o in sede penale attraverso l’istituto dell’oblazione facoltativa ex art. 162 - bis c.p. qualora ricorrano le condizioni previste dalla norma.
Certamente più efficace appare l’inasprimento generalizzato del trattamento sanzionatorio dei reati rendendo decisamente più onerosa rispetto al passato la definizione economica degli stessi da parte del contravventore.
COMUNICATO
della Fondazione Vittorio Occorsio in vista del 25 aprile, alla luce della censura di Scurati
La Fondazione Vittorio Occorsio è nata per tutelare la memoria di Vittorio Occorsio, assassinato il 10 luglio 1976 da Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine Nuovo. La memoria di un Paese è innanzitutto corretta ricostruzione degli eventi storici. Su questo la FVO è impegnata in oltre 100 scuole in tutta Italia.
Già il 7 luglio 2023 la FVO, attraverso la prolusione del suo presidente del Comitato Scientifico, Giovanni Salvi, in occasione dell’anniversario dell’attentato e della Giornata conclusiva del Progetto Scuola, presso la Scuola Ufficiali dell’Arma, stigmatizzò l’assenza di reazioni istituzionali alla celebrazione della morte del Concutelli da parte di centinaia di camerati, con il saluto fascista e con il grido “presente”. L’onore del camerata Concutelli, scrivemmo allora, consistette nell’uccidere con una mitraglietta un uomo disarmato e nell’assassinare in carcere due testimoni delle stragi di Brescia e Bologna, per le quali sono stati condannati con sentenza definitiva esponenti neofascisti.
In questi giorni si assiste alla celebrazione a reti e testate unificate del “filosofo” Giovanni Gentile, che solo filosofo non fu ma ebbe invece un ruolo determinante nel rafforzamento del fascismo e persino nei rapporti della RSI con i nazisti, definendo Hitler il grande condottiero nelle cui mani era il destino d’Italia (discorso di apertura dell’Accademia d’Italia, marzo 1944). Nel 1931 si batté per l’imposizione del giuramento fascista a chiunque svolgesse una carica pubblica e dunque anche a tutti i docenti del Paese. Egli non spese una sola parola pubblica per l’abominio delle leggi razziali e della deportazione degli Ebrei italiani con la complicità fascista: scelse solo, tra i suoi amici e conoscenti, chi aiutare e chi lasciare al suo destino. Non una parola pubblica spese per i 600.000 italiani rastrellati e deportati dai nazisti, anzi ne spese per uno solo, il figlio.
Qualche giorno fa, sulla rete pubblica Rai 2 si è giunti fino al punto di definire vili assassini i partigiani che – a rischio della vita – eseguirono un’azione militare contro uno dei principali esponenti della dittatura fasci-nazista. Ricordiamo – la memoria! – che tra quei vili assassini vi era Teresa Mattei, di appena vent’anni, il cui fratello, arrestato e torturato, pur di non rivelare il nome dei suoi compagni si era suicidato nella cella. Teresa Mattei è una delle madri della nostra Costituzione.
Oggi leggiamo che è stato impedito ad Antonio Scurati, uno dei maggiori scrittori di Storia contemporanea, di leggere un monologo sull’assassinio di Matteotti, sulle stragi fasci-naziste e sulle necessità che il Governo rappresenti la Repubblica e la Costituzione nate dalla Resistenza.
Non possiamo tacere, perché nostro compito è coltivare la memoria di chi ha sacrificato la vita, da magistrato, per i valori della democrazia e dell’antifascismo, come Vittorio Occorsio.
Giovanni Salvi (Presidente Comitato Scientifico)
Eugenio Occorsio e Vittorio Occorsio (Fondatori)
Melina Decaro (Segretaria Generale)
Roma, 21 aprile 2024
La risposta unanime al nazifascismo da parte di coloro che lo avevano osteggiato e ne avevano subito la violenta oppressione fu la Resistenza. Un fenomeno complesso, ancora oggi tema di discussione e di confronto tra gli storici ma anche tra coloro che fanno fatica a riconoscere l’origine dell’Italia repubblicana sulla base della Costituzione frutto della guerra di liberazione partigiana antifascista.
In tutta l’Europa la Resistenza ebbe i suoi centri nelle città, nelle campagne, in tutti i luoghi dove fu possibile organizzare la lotta delle formazioni partigiane: dalla Iugoslavia alla Grecia, alla Polonia, alla Francia, all’Italia centro-settentrionale.
Dal punto di vista sociale si può dire che nei vari paesi europei furono attivi nella lotta per la liberazione operai, contadini, ceti piccolo borghesi, intellettuali, guidati per lo più dai partiti di sinistra che combattevano con la grande fiducia nel cambiamento e nella rinascita dopo la rovina della guerra. I comunisti, in modo particolare, guardavano all’Unione Sovietica come patria, di una rivoluzione realizzata, mentre la componente borghese della Resistenza italiana ebbe come modello e punto di riferimento gli anglo-americani.
L’Italia centro-settentrionale dopo l’8 settembre del 1943 visse la svolta più complessa e drammatica determinata dagli effetti degli ultimi eventi. Senza Badoglio e senza il re, essa fu occupata dai tedeschi che promossero la “rinascita” del fascismo e diedero vita ad un nuovo governo fantoccio manovrato secondo i dettami di Hitler.
Il governo neofascista nacque a Salò, il partito fascista si chiamò “repubblicano” e il nuovo regime prese il nome di Repubblica sociale italiana con le forze armate sotto il comando tedesco con funzione squisitamente antipartigiana.
L’Italia spaccata in due, tra regno del sud e repubblica di Salò visse le sue più gravi e intricate contraddizioni: da un lato la dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo monarchico e il riconoscimento di “cobelligeranza” da parte degli alleati; dall’altro i partiti antifascisti che dopo il congresso di Bari (gennaio 1944) non riconoscevano alcuna autorità al re e a Badoglio e chiedevano l’abdicazione del sovrano traditore e compromesso col fascismo. Tutto questo in attesa che la questione istituzionale fosse risolta a liberazione raggiunta da una Assemblea Costituente eletta a tale scopo.
Fu Togliatti, con la svolta di Salerno nel marzo del 1944, a superare l’impasse. In nome dell’unità nazionale furono riconosciuti gli anglo-americani e fu promossa la nascita di un nuovo governo Badoglio con la partecipazione dei partiti per poter combattere tutti uniti il nazifascismo, rinviando a guerra finita la questione “monarchia o repubblica”. Formatosi il nuovo governo, il re abdicò in favore del figlio Umberto e dopo la liberazione di Roma il 5 giugno del 1944 si dimise. A parte le quattro giornate gloriose della resistenza napoletana, il movimento di liberazione si sviluppò al massimo nell’Italia centro-settentrionale con i vari CLN e il CLNAI che ne era a capo con funzioni direttive e di coordinamento. Con l’accordo di dicembre del ‘44 gli alleati riconobbero il movimento partigiano e lo trasformarono in una vera e propria forza militare, il Corpo dei volontari della Libertà, con a capo il generale Cadorna e i vicecomandanti Longo comunista e Parri azionista.
In questa situazione i tedeschi inasprirono la rappresaglia, la vendetta, i crimini, con azioni efferate: bastino per tutte le Fosse Ardeatine e la strage di Marzabotto. Nonostante gli alleati avessero la chiara intenzione di limitare il contributo del movimento partigiano, popolare e democratico, solo al conseguimento della vittoria sui tedeschi, l’iniziativa della Resistenza reagì ad ogni forma di compromesso ed ebbe la forza di garantire una svolta irreversibile tra l’Italia prefascista e l’Italia contemporanea.
Come concorda gran parte della storiografia nella “primavera dei partigiani” le forze popolari hanno messo nel paese quelle radici profonde che erano mancate all’esperienza del Risorgimento e la lotta antifascista ha assunto quel significato di riappropriazione dal basso della nazione e della patria che era venuta meno nel corso dell’esperienza storica dell’Ottocento.
Il giorno conclusivo della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo ha dunque un valore assoluto che trascende il tempo, i governi, le posizioni di quelli che ancora oggi lo considerano, in pubblico o in privato, un evento divisivo.
Divisivo tra chi? Tra coloro che ancora non hanno fatto i conti col fascismo e quelli che hanno piena coscienza delle basi su cui è stata fondata e si fonda a tutt’oggi l’Italia repubblicana? Bisogna finalmente pretendere che le ombre siano dissipate, che i fantasmi di un passato tenebroso siano dispersi per sempre.
Ci possono e ci devono essere chiavi di lettura molteplici della Storia, purché non si trucchino i fatti!
Per ripetere una frase di Gesù Cristo: solo la verità rende liberi.
La pietà per i morti, anche per quelli che “morirono dalla parte sbagliata” non conosce confini, ma il giudizio storico non può non essere un giudizio di valore.
Se rimanessimo nell’ottica neo-hegeliana di stampo crociano, ovvero che il giudizio storico è di natura teoretica non pratica, allora dovremmo affermare che esso non assolve e non condanna, dunque giustifica. In tale ottica di perfetta identità tra reale e razionale dovremmo giustificare tutti i misfatti della Storia, dalla Crociate ai lager, alle dittature, ai genocidi… Lo stesso Benedetto Croce fu poi costretto ad assumersi la responsabilità del giudizio sul fascismo che per lungo tempo aveva “giustificato” come passaggio da sopportare in vista della rinascita di uno stato liberale forte.
Mai come oggi è tempo di prendere posizioni nette rispettando la lezione dei fatti. Le nuove generazioni hanno bisogno di chiarezza nella difesa delle nostre radici perché specialmente ai giovani spetta il compito di rinnovare e difendere libertà, giustizia e pace sociale in una fase storica in cui si accentuano i conflitti e si annunciano mostruosi scontri epocali.
(Immagine: Milano, tra la fine di aprile e l'inizio di maggio del 1945, fonte il Manifesto)
Sommario: 1. Premessa - 2. Gli arresti giurisprudenziali più recenti - 3. La quantificazione del provento da sottoporre a sequestro o confisca.
1. Premessa
L’esperienza giudiziaria più recente ha visto l’incremento delle contestazioni di riciclaggio e di reimpiego sia nei procedimenti di criminalità comune che in quelli di criminalità organizzata, anche di stampo mafioso, in ragione di un progressivo affinamento dell’azione di contrasto all’accumulazione di patrimoni illeciti e alla infiltrazione delle strutture criminali nella economia legale.
In particolare, l’impresa mafiosa rappresenta l’attuale paradigma delle forme più moderne e pericolose di operatività dei sodalizi, impegnando di conseguenza l’autorità giudiziaria - inquirente e giudicante - in uno sforzo di elaborazione di protocolli investigativi e modelli decisori maggiormente in grado di assicurare il perseguimento dell’obbiettivo, risalente quanto bisognevole di ammodernamento continuo, della sottrazione ai gruppi criminali delle ricchezze illecitamente accumulate e soprattutto del contrasto alle manovre criminali volte al condizionamento dei mercati e alla alterazione delle relazioni economiche attraverso l’immissione di capitali illeciti, cui si aggiunge talvolta anche l’utilizzo del metodo mafioso e della finalità agevolatrice delle attività dei sodalizi di stampo mafioso.
Nulla di nuovo, si potrebbe affermare, poiché nella operatività delle organizzazioni mafiose la leva economica e le finalità di accaparramento di ampi settori dell’economia, a fini di accumulazione di ricchezza e di implementazione del controllo delle attività d’impresa attraverso condotte lato sensu riciclatorie, rappresentano da sempre il cuore degli obbiettivi strategici dei gruppi più potenti e radicati.
Così come, sul versante del crimine economico comune, le condotte di riciclaggio e reimpiego offrono da tempo gli strumenti più efficaci per il perseguimento degli scopi di arricchimento illecito, di assicurazione delle provviste accumulate e di ulteriore locupletazione.
A fronte di tale quadro fattuale, lo sforzo della giurisdizione è non solo di tipo operativo ma anche di ricostruzione sistematica del quadro normativo di riferimento: e ciò soprattutto in tema di cautela reale, essendosi oramai da tempo compreso che il delitto non deve pagare e che gli strumenti ablativi offrono la risposta più efficace possibile a queste gravi forme di lesione degli interessi protetti dall’ordinamento, che investono non solo i patrimoni privati ma l’ordine economico e la corretta operatività dei mercati. In ultima analisi, l’economia del Paese.
Sequestri e confische, dunque, come forma insostituibile dell’azione di contrasto attraverso la predisposizione normativa di una ampia gamma di strumenti; non sempre – a dire il vero – sottoposti a una adeguata ricostruzione sistemica e razionale. Soprattutto, di pluriforme natura, collocazione operativa e funzione: penale e di prevenzione; di tipo preventivo/pertinenziale o per sproporzione.
In questa cornice si inserisce l’attuale dibattito sulla individuazione del quantum sequestrabile in caso di riciclaggio (ai sensi dell’art. 648 bis codice penale) o di reimpiego (ex art. 648 ter codice penale) di provviste finanziarie di provenienza illecita: tema particolarmente delicato sol se si pensi alle cronache giudiziarie degli ultimi tempi, che vedono una manovra investigativa sempre più attenta a colpire patrimoni e aziende coinvolti in vicende di crimine economico o economico-mafioso.
2. Gli arresti giurisprudenziali più recenti
Al fine di individuare criteri adeguati per quantificare la somma sequestrabile va riconosciuto che allo stato è sicuramente più avanzata la riflessione giurisprudenziale in materia di riciclaggio rispetto a quella affermatasi per i delitti di reimpiego; e vanno ricordate le nette differenze strutturali e funzionali delle due fattispecie[1].
La condotta di riciclaggio consiste infatti in attività di sostituzione/trasferimento finalizzate al mero occultamento della illecita provenienza di una determinata somma o di un determinato bene, mentre la seconda incrimina l’impiego di beni e di somme di denaro in attività a loro volta produttive di ulteriore guadagno: precisazione assolutamente necessaria nel momento in cui occorre verificare quale sia il profitto (o, in termini generali, il provento) della operazione delittuosa.
Poiché se è vero che il profitto del riciclaggio consiste nel risultato di occultamento (attraverso attività di sostituzione e trasferimento, o qualsiasi altra operazione finalizzata a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa) della somma (o del bene) che il produttore della provvista illecita affida al terzo, nel caso di reimpiego (in particolare di somme di denaro) il profitto consiste evidentemente nel risultato economico conseguito con l’investimento, potenzialmente (e da verificare in fatto) più elevato della somma investita: diversamente ragionando si opererebbe infatti una indebita assimilazione, in punto di sequestro, tra fattispecie assolutamente diverse che peraltro rappresentano esattamente il frutto di una volontà di incriminazione di condotte progressive nelle quali l’impiego in attività economiche o finanziarierappresenta uno step successivo e ulteriore rispetto a quello del loro mero nascondimento.
Quantificare il risultato economico del reimpiego “come se” si trattasse di una operazione di mero riciclaggio non è evidentemente corretto, pena una ingiustificata disparità di trattamento tra il semplice riciclatore (in ipotesi anche colui che abbia soltanto depositato la somma di provenienza illecita sul proprio conto corrente) e l’autore del reimpiego, che realizza una più complessa condotta caratterizzata dal reinvestimento in attività imprenditoriali, economiche e finanziarie le quali, se e in quanto producano (ulteriore) vantaggio economico, devono rappresentare il criterio di verifica e il parametro di quantificazione del profitto del reato.
Che tale debba essere l’impostazione per una corretta ricostruzione in diritto discende anche dall’analisi della giurisprudenza di legittimità che, intervenuta per la ipotesi di sequestro di somme in ipotesi di riciclaggio, ha fissato principi che consentono di risolvere anche la questione del sequestro di somme in caso di reimpiego.
In relazione al delitto di riciclaggio di provviste finanziarie, infatti, vale la pena in primo luogo rilevare che la più recente giurisprudenza di legittimità ha respinto l’orientamento per così dire restrittivo di cui alla sentenza Cass sez. II pen, n. 21820/22, relatore Mantovano[2], secondo la quale in caso di riciclaggio di somme potesse addirittura essere sequestrato soltanto lo stretto guadagno (del tutto eventuale e sicuramente inferiore alla somma riciclata) del riciclatore, inteso come “accrescimento” eventuale del patrimonio dell’autore della condotta riciclatoria, e non l’intera somma riciclata.
Posizione rimasta del tutto isolata, essendosi affermato il diverso orientamento che, richiamando anche decisioni precedenti e soprattutto guardando ai principi e alle finalità di cui alla Dec. 2001/500/GAI del 26.6.01 (Decisione Quadro del Consiglio concernente il riciclaggio di denaro e il sequestro degli strumenti e dei proventi del reato) e alla Direttiva 2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose), da considerare nel nostro ordinamento multilivello quali importanti punti di riferimento per l’interpretazione e l’applicazione della legge nazionale, ha statuito che in caso di riciclaggio che ha per oggetto somme di denaro il profitto è costituito “dall’intero ammontare delle somme che sono state ripulite attraverso le operazioni di riciclaggio compiute dall’imputato…il denaro di provenienza illecita viene sostituito con denaro pulito che può liberamente circolare…quindi, nel caso di riciclaggio il profitto coincide con il denaro derivante dal delitto presupposto, quindi con la ricchezza illecitamente conseguita dal reato presupposto, e non importa se poi il soggetto condannato per riciclaggio abbia goduto di questa somma solo in minima parte: il valore del profitto del primo reato si identifica col valore del secondo, cioè del riciclaggio” (così Cass. II sez. pen. n. 7503/22 relatore Di Pisa)[3].
Questa stessa pronuncia, poi, ha affrontato anche la questione dell’applicazione del principio solidaristico – secondo il quale al singolo può sequestrarsi anche l’intera somma profitto del delitto a prescindere dal ruolo di ciascuno dei concorrenti – alla fattispecie di riciclaggio, riconoscendo che se è vero che tale principio presuppone il concorso di più soggetti nel medesimo reato (cosa che non accade nei confronti dell’autore del reato presupposto, non punibile per riciclaggio), è anche vero che nel caso di riciclaggio all’autore del delitto presupposto la mancata contestazione del riciclaggio avviene soltanto in applicazione di una deroga normativa alla ordinaria operatività della norma sul concorso, mentre deve riconoscersi sussistente comunque un “concorso nell’illecito complessivo” fra l’autore del delitto presupposto e il riciclatore (ancora, Cass. II sez. pen. 7503/22 relatore Di Pisa). Anche per questo motivo, dunque, la somma da sequestrare deve essere l’intera somma “ripulita” e non soltanto l’eventuale guadagno specifico del riciclatore.
Peraltro, va detto per completezza, l’identificazione del soggetto (autore del delitto presupposto) che abbia affidato la provvista illecitamente prodotta a un terzo (estraneo al delitto presupposto) il quale abbia provveduto poi o a sostituirla/trasferirla oppure a impiegarla comporta oggi (a partire dal 2015, data della entrata in vigore della norma di cui all’art. 648 ter 1 c.p.) anche la contestazione al primo della condotta di autoriciclaggio: si completa così il quadro normativo che consente di parlare di “concorso nell’illecito complessivo”, individuandosi una categoria ricostruttiva utile anche sotto il profilo dell’applicazione del principio solidaristico oltre che per la quantificazione della somma illecita da sequestrare[4].
Infatti, l’applicazione del principio solidaristico a maggior ragione si imporrà nel caso di concorso tra l’auto-riciclatore e il reimpiegante (o il mero riciclatore), atteso che in questo caso abbiano addirittura il concorso di persone in una identica condotta delittuosa, seppure diversamente qualificata in capo ai due partecipi “in fatto” alla complessiva operazione illecita: un chiaro caso di “concorso nell’illecito complessivo”.
3. La quantificazione del provento da sottoporre a sequestro o confisca
Occorre allora verificare gli ulteriori parametri normativi utili per calcolare il quantum.
Ebbene, di estrema rilevanza appare anche la direttiva ermeneutica (richiamata ancora nella sentenza su indicata, Cass. II sez. pen. 7503/22 relatore Di Pisa) volta a valorizzare a questo fine la valutazione “in concreto” dell’operazione illecita di volta in volta realizzata; essa è stata ad esempio ribadita da Cass. II sez. pen n. 34218/20, relatore Sgadari, secondo la quale, ancora una volta in tema di profitto del riciclaggio, “la determinazione della misura del profitto è funzione direttamente correlata sia alla tipologia del delitto da cui discende il profitto, sia alla natura dei beni oggetto del delitto stesso, in quanto il vantaggio economico che può ritrarsi dalla commissione dei singoli reati dipende da variabili rappresentate dalla tipologia delle operazioni di fatto e giuridiche che si realizzano attraverso la commissione dei reati, dalla loro capacità di incidere sul valore e sulla concreta disponibilità di beni, diversamente incommerciabili o di valore di mercato inferiore…”; e per questo secondo la Cassazione “bisogna fare riferimento alle specifiche circostanze del caso concreto per stabilire l’entità del profitto del riciclaggio…”.
Principi che, applicati nel nostro caso, impongono una valutazione in concreto dei vantaggi conseguiti dai concorrenti attraverso le complesse operazioni commerciali di investimento in attività produttive o finanziarie. Vantaggi in concretoche devono tener conto delle specifiche attività economico-finanziarie realizzate in fatto.
Ancora più chiara è infine la posizione espressa nella sentenza n. 22053/23 della Cass. II sez. pen. relatrice Minutillo Turtur, che, intervenendo espressamente (ed è una delle pochissime, allo stato) sul tema del sequestro in caso di delitto di reimpiego, ha precisato in prima battuta che il sequestro/confisca ha ad oggetto “il valore del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dagli autori del reato, assolvendo in tal modo a una sostanziale funzione ripristinatoria della situazione economica modificata a seguito della commissione del reato” (come del resto già chiarito anche da Cass. SS.UU. n. 31617 del 26.6.15). Aggiungendo che, in caso di concorso, “tutti i rei rispondono per intero dei beni che costituiscono il prodotto del reato”; dunque, secondo il principio solidaristico, ciascuno risponde del “valore complessivo riferito a tutte le attività illecite ascritte al complessivo gruppo dei concorrenti a prescindere dal profitto di ciascuno dei concorrenti responsabili in concorso”. E chiarisce poi questa pronuncia, richiamando sul punto una granitica giurisprudenza, che certamente ciò non dovrà comportare duplicazioni, ma che esse saranno da risolvere nella fase esecutiva.
In applicazione di tali principi, ad esempio, in caso di investimento di somme di provenienza illecita, da parte dell’autore del delitto presupposto, in aziende appaltatrici formalmente intestate a un terzo (estraneo al delitto presupposto), per quantificare la somma da sequestrare dovrà farsi riferimento all’ammontare del valore degli appalti ottenuti dai rei (l’autoriciclatore, in concorso con il reimpiegante) attraverso la condotta illecita in contestazione, rappresentata da una complessa attività di partecipazione ad appalti attraverso ditte nelle quali sono confluiti – proprio per quegli affari – gli investimenti di provviste illecite: il sequestro delle sole somme investite corrisponderebbe infatti al quantum da sequestrare in caso di delitto di “mero” riciclaggio, mentre qualora non ci sia stata soltanto attività di sostituzione ma sia stato realizzato un investimento che abbia prodotto un ulteriore risultato economico attraverso l’impiego di quelle somme in attività produttive, dovrà essere sottoposto a sequestro quell’ulteriore illecito arricchimento, provento del delitto di reimpiego, rappresentato nel caso dal risultato economico complessivo dell’affare (ad esempio, il valore dell’appalto ottenuto).
[1] Sul tema, Giacomo Pestelli, Riflessioni critiche sulla riforma dei reati di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio, in Sistema Penale, 12/2021.
[2] La decisione aveva ad oggetto la confisca operata nei confronti di imputato di riciclaggio, e affermava che “una cosa è il prodotto, il profitto o il prezzo che l’autore del riciclaggio trae dal reato che ha commesso e altra e differente cosa è il bene riciclato. Nei confronti del riciclatore può essere disposta la confisca esclusivamente del prodotto, del profitto e del prezzo che egli ha tratto dal reato di riciclaggio che ha consumato, mentre nei confronti del “riciclante” può essere disposta la confisca del bene riciclato, sempre che ne sussistano i presupposti”: si escludeva pertanto la possibilità di sequestrare e confiscare l’intera somma riciclata poiché essa non poteva essere considerata “prodotto, profitto o prezzo” del riciclaggio; dunque, fuori dalla rilevanza penale del delitto di riciclaggio. E nel motivare tale esclusione si introduceva una figura del tutto originale, quella del “riciclante”, non perseguibile per il delitto di riciclaggio ma che avrebbe potuto autonomamente subire la confisca della somma riciclata “sempre che ne sussistessero i presupposti”. Dunque, è da interpretarsi, soltanto come provento del delitto presupposto; e dunque soltanto in quell’eventuale procedimento, a carico dell’autore del delitto presupposto: per usura, estorsione, narcotraffico, o per qualsiasi altro delitto produttivo di somme di denaro. Giungendosi però in tal modo ad affermare che in un procedimento per riciclaggio di una somma di denaro di provenienza illecita non si potrebbe sequestrare la somma riciclata.
[3] Precisava la sentenza che “appare difficile sostenere, quindi, che il denaro ripulito nella disponibilità del riciclatore non possa farsi rientrare nella nozione di profitto del reato o quanto meno di prodotto del reato nell’accezione che di tali categorie dà la giurisprudenza. Posto che il cuore del disvalore del delitto di riciclaggio risiede nell’immettere nel circuito economico somme illecitamente acquisite, la somma ripulita passata nelle mani del riciclatore, ove non ritenuto quale vero e proprio profitto, si configura quanto meno quale risultato empirico dell’esecuzione criminosa…si tratta del frutto diretto dell’attività criminosa, ossia del risultato ottenuto direttamente dalla attività illecita. Nel caso di riciclaggio che ha per oggetto somme di denaro, il profitto del reato o comunque il prodotto del reato è quindi l’intero ammontare delle somme che sono state ripulite”.
[4]In ordine alla tematica del rapporto fra autoriciclaggio e riciclaggio (ovvero reimpiego) si ricordano glki arresti giurisprudenziali più recenti: Cass II sez. pen, n. 17235/18, relatore Beltrani: “In tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell'autore del reato - presupposto delle condotte indicate dall'art. 648-ter.1 cod.pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo questo configurabile solo nei confronti dell'intraneus”. Cass. VI sez. pen., n. 3608/18, relatore Agliastro: “In tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell'autore del reato-presupposto delle condotte indicate dall'art. 648-ter.1 cod.pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo quest'ultimo configurabile solo nei confronti dell' "intraneus". (Fattispecie in cui l'imputata aveva versato su un libretto di deposito di una cooperativa di consumo, e poi prelevato mediante assegni, denaro provento dell'attività concussiva attuata dal marito). Dunque, alla luce della attuale ricostruzione sistematica delle norme incriminatrici appare corretto contestare, in ordine alla medesima imputazione in fatto (avente ad oggetto le complesse operazioni economiche e finanziarie di volta in volta accertate, alle quali abbiano partecipato il “produttore” del reddito illecito e il terzo “reimpiegante”) il delitto di autoriciclaggio ai soggetti che abbiano prodotto le provviste illecite attraverso la commissione dei delitti presupposti (associazione per delinquere, estorsione, usura, narcotraffico, etc) e il delitto di reimpiego a carico del terzo estraneo che abbia contribuito consapevolmente al reinvestimento in attività produttive e di impresa.
(Immagine: "L'avarizia. Scena ambientata nel Banco di San Giorgio di Genova", miniatura tratta dal Trattato sui sette vizi, (1330-1340 circa), British Library, Londra)
Lo scritto riprende alcuni dei temi trattati nel corso della relazione tenuta al convegno sul tema “Diritto d'amore” tenutosi a Roma nei giorni 25, 26 e 27 gennaio 2024 organizzato dall'Associazione Cammino. Si tratta della terza di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno. Si veda Diritto d'amore e responsabilità civile di Alessandra Cordiano, Diritto, biodiritto e amore di Roberto Giovanni Conti.
Diritti d'amore e rapporti familiari[1]
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. Amore e diritto: un rapporto di indifferenza reciproca. Il contributo del pensiero di tre grandi Maestri: Stefano Rodotà, Angelo Falzea e Cesare Massimo Bianca- 2. La famiglia quale isola che il diritto può lambire soltanto. La rilevanza dell'amore e l'irrilevanza del diritto. - 3. La rivoluzione copernicana della progressiva rilevanza dell'amore nei rapporti di famiglia. Dall'amore al diritto d'amore. Prima tappa: La Riforma della filiazione. - 4. Seconda tappa: la giurisprudenza: i danni da deprivazione affettiva e il riconoscimento di nuove forme di genitorialità non di sangue - 5. Terza tappa: la riforma della giustizia familiare e minorile: la rilevanza dei “fatti di sentimento disvalore”: la nuova disciplina della violenza domestica e di genere. - 6. L'unità della famiglia nella complessità dei modelli. L'amore quale ponte che collega tutti gli isolotti della famiglia. - 7. Riflessioni conclusive: l'amore quale strumento di attuazione dei diritti fondamentali dei componenti della comunità familiare.
1. Amore e diritto: un rapporto di indifferenza reciproca. Il contributo del pensiero di tre grandi Maestri: Stefano Rodotà, Angelo Falzea e Cesare Massimo Bianca
Amore e diritto sono stati per molto tempo considerati due estranei, legati da un rapporto di indifferenza reciproca. L'irruenza dell'amore, della passione, dei sentimenti e delle emozioni sono stati oggetto di studio da parte delle discipline psicologiche e sociologiche ma sono stati trascurati per molto tempo dalle discipline giuridiche. Il diritto e il rigore della scienza giuridica hanno così manifestato una tradizionale ritrosìa ad occuparsi dell'amore e in generale dei fatti di sentimenti, fenomeni lasciati al mondo del costume e dell'etica, ma estranei alle speculazioni giuridiche. Questa certezza ha cominciato a vacillare quando Maestri autorevoli si sono posti l'interrogativo in ordine all'attribuzione di una qualche rilevanza giuridica all'amore e alla dimensione affettiva, così aprendo un dibattito[2] che ancora non si è esaurito e la cui suggestione cercherò di dimostrare nelle pagine che seguono. Il sentiero aperto dai Maestri è stato poi definito dal legislatore e dalla giurisprudenza che, soprattutto nel settore del diritto di famiglia, hanno disegnato una parabola evolutiva che ha visto il passaggio da una stagione di totale indifferenza verso i fatti di sentimento alla stagione attuale nella quale la dimensione affettiva svolge un ruolo decisivo nel nuovo paradigma del diritto di famiglia e delle persone, con importanti corollari applicativi.
Il primo Maestro che si è occupato della rilevanza dei fatti di sentimento è stato Angelo Falzea, il quale, nell'ambito di una trattazione di teoria generale dedicata ai fatti giuridici e ai loro effetti, ha collocato i fatti di sentimento tra i fatti di coscienza, contrapponendoli ai fatti di volontà[3]. Non potendomi soffermare nel dettaglio nel fascino di quelle pagine, è utile ricordare che nel pensiero del Maestro, la rilevanza dei fatti di sentimento passa attraverso l'accoglimento di una metodologia che, secondo l'insegnamento di Jhering, affida allo scopo e quindi all'interesse lo strumento per scandagliare la realtà giuridica e il suo divenire[4]. Questa lettura consente al Maestro di selezionare quei soli fatti di sentimento che si siano tradotti in valori dell'ordinamento, e quindi in definitiva in interessi, la cui meritevolezza è accolta dalla coscienza sociale. Angelo Falzea teorizza così una trilogia dei fatti di sentimento che vede la distinzione tra sentimenti-valori, sentimenti-disvalori e sentimenti neutri. Quanto quella triologia fosse anticipatrice della rilevanza dei fatti di sentimento, cercherò di dimostrarlo nelle pagine che seguono.
Il secondo Maestro che in tempi recenti ha dato un contributo significativo alla teorizzazione di una certa rilevanza dell'amore per il diritto è stato Stefano Rodotà. Nel volume Diritto d'amore[5], è già il titolo che evidenzia un'indagine storica volta ad esplorare gli spazi di contiguità tra amore e diritto. L'indagine si incentra prevalentemente sull'amore nelle relazioni affettive di coppia e rappresenta un utile strumento per studiare e analizzare il fenomeno del superamento della famiglia matrimoniale e dell'affermarsi di nuove famiglie.
Il terzo Maestro che ha dato un contributo significativo all'oggetto di questa indagine è stato Cesare Massimo Bianca. Quella che ho voluto indicare come la sua vera e propria 'missione' nel diritto di famiglia[6] si è svolta sia in qualità di studioso che in qualità di legislatore per affermare il principio di uguaglianza e di giustizia nel diritto di famiglia. La rilevanza dell'amore nel diritto di famiglia, espressa prevalentemente nell'analisi del rapporto verticale genitori-figli, e del rapporto ascendenti-nipoti, è stata affermata attraverso il riconoscimento del principio di uguaglianza e del principio di giustizia. Questa teorizzazione ha acquistato la massima concretezza quando il diritto all'assistenza morale è stato riconosciuto come uno dei diritti fondamentali del figlio, che ne compongono lo statuto ai sensi dell'art. 315-bis del codice civile, introdotto dalla Riforma della filiazione. L'amore è diventato così uno dei diritti fondamentali del figlio che arricchisce e completa la relazione genitori-figli.
2. La famiglia quale isola che il diritto può lambire soltanto. La rilevanza dell'amore e l'irrilevanza del diritto
I rapporti familiari e in generale il diritto di famiglia sono stati il campo di elezione per sperimentare l'ambito di rilevanza dell'amore. In una prima stagione che vedeva con sospetto l'intervento del diritto nelle questioni familiari, la dimensione ontologicamente affettiva dei rapporti familiari è stata la giustificazione per legittimare l'estraneità della famiglia all'intervento del diritto e la considerazione, ormai da tempo superata, del diritto di famiglia quale diritto residuale, con funzione ancillare rispetto al diritto civile. Al riguardo Carlo Arturo Jemolo così emblematicamente si esprimeva: “la famiglia è un'isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto...rocca sull'onda ed il granito che costituisce la sua base appartiene al mondo degli affetti, agl'istinti primi, alla morale, alla religione, non al mondo del diritto”[7]. I rapporti familiari intrisi della dimensione affettiva erano per questa ragione rapporti giuridici spuri, che poco avevano a che fare con i rapporti giuridici veri e propri. I corollari di questa impostazione erano tanti. Tra questi, l'impossibilità di concepire veri e propri obblighi giuridici tra i familiari e di conseguenza l'impossibilità di ravvisare una responsabilità per violazione degli stessi. Solo in tempi recenti ha trovato riconoscimento la responsabilità endofamiliare, quale diretta conseguenza del riconoscimento di veri e propri diritti familiari, la cui violazione determina, secondo i principi generali, l'insorgenza dell'obbligo di risarcimento del danno. Anche il tema della violenza domestica e degli abusi familiari ha trovato riconoscimento solo in tempi recenti quando si è stabilita una netta linea di distinzione tra conflitto e abuso familiare.
3. La rivoluzione copernicana della progressiva rilevanza dell'amore nei rapporti di famiglia. Dall'amore al diritto d'amore. Prima tappa: La Riforma della filiazione
La parabola evolutiva della progressiva rilevanza dell'amore nel mondo del diritto e in particolare del diritto di famiglia si è svolta nell'arco dell'ultimo settantennio e ha visto la partecipazione della dottrina, del legislatore e della giurisprudenza, che hanno delineato un itinerario concettuale con risvolti significativi e tecnici. Una prima e significativa tappa è stata la Riforma della filiazione del 2012 e 2013. Con questa Riforma che ha raggiunto il significativo traguardo dell'applicazione del principio di uguaglianza e quindi della giustizia al rapporto di filiazione, per la prima volta è stato codificato il diritto all'amore del figlio nei confronti dei genitori. L'art. 315-bis del codice civile prevede oggi espressamente il diritto del figlio all'assistenza morale, diritto che avrebbe dovuto essere chiamato “diritto all'amore”[8], anche se alla fine il contenuto è equivalente. Il diritto all'amore del figlio nei confronti del genitore si collega significativamente ad altri diritti, tra i quali il diritto a mantenere rapporti significativi con i parenti e con il diritto ad essere ascoltato. Il diritto all'ascolto, soprattutto l'ascolto in famiglia, diventa “un modo in cui si realizza l'assistenza morale”[9] del figlio. Nella Riforma della filiazione la rilevanza dei fatti di sentimento è stata completata dalla modificazione dei termini di prescrizione delle azioni di stato, che ha determinato la conferma del riconoscimento di un diritto alla stabilizzazione degli affetti, a prescindere dalla esistenza di un legame di sangue. L'introduzione di un termine tombale di 5 anni per l'esercizio delle azioni di rimozione dello stato filiale è infatti diretta ad evitare che l'esercizio delle azioni di disconoscimento o di impugnazione per difetto di veridicità, anche se fondate, possano pregiudicare la stabilità della relazione affettiva già consolidata. Il diritto alla continuità affettiva era stato già riconosciuto dal legislatore con la legge del 2015[10], che ha consentito di convertire situazioni di affidamento in adozione quando è in gioco la tutela e la conservazione di una valida relazione affettiva.
4. Seconda tappa: la giurisprudenza: i danni da deprivazione affettiva e il riconoscimento di nuove forme di genitorialità non di sangue
Una seconda tappa importante è stata compiuta ad opera della giurisprudenza che ha operato in due significativi versanti. Il primo è stato quello del riconoscimento del danno da deprivazione affettiva nel rapporto genitori-figli, riconoscimento che riecheggia la trattazione di Angelo Falzea, il quale aveva individuato un'area di rilevanza dei danni affettivi. Il danno da deprivazione affettiva, che rappresenta un sottotipo del danno endofamiliare, riconosciuto in una prima decisione della Corte di Cassazione del 2000[11], e da decisioni successive, oggi viene qualificato come ipotesi di illecito omissivo permanente che “determina un'inevitabile e insanabile ferita di quei diritti fondamentali nascenti dal rapporto di filiazione, che trovano nella Carta costituzionale (in particolare, negli artt. 2 e 30) e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un livello assoluto di riconoscimento”[12]. Il diritto del figlio all'amore da parte dei propri genitori è una pretesa azionabile in giudizio, la cui violazione determina l'obbligo del risarcimento del danno. Le riflessioni sulla incoercibilità dell'amore, se ancora valida nei rapporti di coppia, si rivela inadeguata con riferimento al rapporto genitori-figli. Come la dottrina illuminata ha più volte ribadito “tra gli interessi essenziali del minore si pone infatti in primo piano l'interesse a ricevere quella carica affettiva di cui l'essere umano non può fare a meno nel tempo della sua formazione”[13].
Un secondo e significativo versante racchiude una gamma di interventi della giurisprudenza che in vari settori attribuiscono rilevanza ai rapporti affettivi. Un primo significativo àmbito è quello della genitorialità sociale, genitorialità che individua relazioni che prescindono dal legame biologico e si caratterizzano per la dimensione prevalentemente affettiva. Tra queste è ricompresa la relazione che si instaura tra il figlio del coniuge o del partner, con il quale si convive e si condivide una vita familiare. L'emersione di queste relazioni affettive non di sangue è stato accelerato dal fenomeno delle famiglie ricomposte. La giurisprudenza ha riconosciuto al riguardo rilevanza anche ai nonni sociali[14]. Queste relazioni, che operano sul piano del fatto, non sono irrilevanti per il diritto. Anche quando non si decida di convertire la situazione di fatto in situazione giuridica, attraverso l'adozione in casi particolari, deve rilevarsi che la convivenza stabile fa nascere un obbligo minimale di solidarietà e di accoglienza, oltre che di rispetto reciproco. Così deve condividersi il pensiero della dottrina che ha affermato che “famiglia costituzionalmente tutelata è anche il legame affettivo che si costituisce di fatto tra un minore e un estraneo che lo accoglie presso di sé come un figlio”[15]. La stessa dottrina fa al riguardo l'esempio del legame affettivo che nella famiglia ricomposta o rinnovata si crea tra il minore e il convivente del genitore[16]. Altro àmbito applicativo in cui si è assistito alla emersione della rilevanza delle relazioni affettive è stato quello della genitorialità cd di intenzione, termine riferito ai soggetti che, pur non essendo genitori biologici, hanno condiviso con il genitore biologico un progetto genitoriale. Nella discussa problematica dei nati da maternità surrogata o da PMA fatte all'estero, l'esistenza e il controllo in ordine alla esistenza di un legame affettivo autentico con il nato hanno portato la nostra Corte di Cassazione a sezioni unite a rifiutare l'automatismo della trascrizione e ad affidare al giudice tale controllo[17]. La rilevanza delle relazioni affettive di fatto è stato di recente affermato anche da parte della Corte costituzionale[18] chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'art. 27, 3° co l. adoz., là dove non consente di valutare in concreto se sia nell'interesse del minore interrompere le relazioni con la famiglia di origine. La distinzione operata dalla Corte tra rapporti giuridici e rapporti affettivi di fatto non ha impedito di far emergere la rilevanza di un principio di conservazione della continuità affettiva, che si è dispiegato nel sistema attraverso vari istituti, tra i quali l'adozione mite e che consente di affermare che la recisione con la famiglia di origine, sia da ritenersi, con riferimento ai rapporti affettivi di fatto, una presunzione juris tantum, che attende la verifica in ordine alla realizzazione in concreto dell'interesse del minore[19].
5. Terza tappa: la riforma della giustizia familiare e minorile: la rilevanza dei “fatti di sentimento disvalore”: la nuova disciplina della violenza domestica e di genere
La terza tappa è stata la recente Riforma della giustizia familiare e minorile[20] che, introducendo un’apposita sezione dedicata alla violenza domestica e di genere, ha dato rilevanza ai fatti di sentimento-disvalore secondo la lettura di Angelo Falzea. I fatti di sentimento rilevano anche quando essi si traducono in un disvalore dell'ordinamento come ci insegnava il Maestro. La Riforma della giustizia familiare e minorile ha applicato questo insegnamento. La violenza domestica non è più nascosta dietro le pieghe del rapporto conflittuale. Di essa si chiede l'emersione e ciò determina l'applicazione di precise regole giuridiche, regole che sono poste a presidio della vittima e degli altri familiari. Il minore che non vuole incontrare il genitore deve essere prontamente ascoltato dal giudice, al fine di indagare se il rifiuto è giustificato da fatti di violenze e di abusi. Il genitore o il marito violento deve essere allontanato dalla casa familiare, secondo la disciplina degli ordini di protezione, già introdotti nel 2001, la cui disciplina è stata confermata nella recente Riforma. L'allegazione o la prova di fatti di violenza impedisce di iniziare un'attività di mediazione familiare e richiede che sia interrotta, ove già iniziata, al fine di evitare che la vittima sia costretta ad incontrare l'autore della violenza.
6. L'unità della famiglia nella complessità dei modelli. L'amore quale ponte che collega tutti gli isolotti della famiglia Ai tasselli di questo mosaico deve esserne aggiunto un altro che assume un significativo valore sistematico nel dibattito sulla pluralità dei modelli familiari e sull'incertezza in ordine all'esistenza di una nozione unitaria di famiglia. Il turbinìo dell'avvento di nuove famiglie e di nuovi modelli di genitorialità ha infatti destabilizzato a tal punto l'interprete che taluno ha parlato di morte della famiglia e comunque della difficoltà di ricercare un minimo comune denominatore che possa qualificare tutte le relazioni come familiari, anche nella diversità dei modelli. Questo comune denominatore è stato individuato proprio nell'esistenza di una relazione affettiva stabile, elemento questo che rappresenta l'humus dei rapporti orizzontali di coppia e dei rapporti verticali genitori-figli. E' stato infatti simbolicamente affermato da parte di Cesare Massimo Bianca in uno dei suoi ultimi scritti che, di fronte ai pericoli di disgregazione della nozione di famiglia, “identificata la famiglia nel legame affettivo di coppia, di filiazione e di stretta parentela, deve dirsi piuttosto che la famiglia è una e una è la nozione di famiglia. Vari sono i modelli familiari e varia la loro disciplina, ma unico il valore sociale del vincolo affettivo che in essa si realizza”[21]. La forza dirompente di questa affermazione ha proiettato i disagi dell'interprete in una dimensione di effettività che, lungi dall'essere irrealistica, si pone in perfetta linea di assonanza con il diritto europeo e con l'art. 8 della Cedu che, nel riconoscere il diritto alla vita familiare, non pone differenze tra i diversi modelli familiari, tutti deputati al riconoscimento di alcuni diritti, pur nella diversità. La molteplicità dei modelli viene ricondotta ad unità ed è proprio la dimensione affettiva, un tempo irrilevante, che diventa l'elemento aggregante. Come mi è capitato di scrivere in un recente saggio in via di pubblicazione, riprendendo la nota metafora di Carlo Arturo Jemolo, il legame affettivo è il ponte che collega tutti i vari isolotti che compongono l'arcipelago familiare[22]. Tale riflessione assume poi un altro valore sistematico molto importante, non solo ai fini del dibattito in ordine alla distinzione/assimilazione dei vari modelli familiari, ma anche al fine di individuare un corpo di diritti che si applicano trasversalmente a tutte le famiglie, indipendentemente dalla disciplina dei distinti modelli. Si tratta di un dibattito ancora aperto che si proietta secondo alcuni verso uno scenario di totale assimilazione e secondo altri di selezione di alcuni diritti che devono essere applicati trasversalmente ai vari e tanti modelli familiari. Con riferimento al diritto al riconoscimento della propria prestazione lavorativa, proprio di recente la Corte di Cassazione a sezioni unite[23] ha sollevato il problema della legittimità costituzionale delle norme relative all'impresa familiare, là dove non prevedono uguali diritti del coniuge e del convivente.
7. Riflessioni conclusive: l'amore quale strumento di attuazione dei diritti fondamentali dei componenti della comunità familiare
A questo punto è possibile cercare di trarre delle riflessioni conclusive alla luce della parabola evolutiva che ha scandito le varie stagioni del diritto di famiglia. L'affetto non è più, come affermava Jemolo, l'elemento che legittima l'esclusione della giuridicità dei rapporti familiari. Al contrario, l'affetto è una componente essenziale della riconosciuta giuridicità dei rapporti familiari. L'isola è stata invasa dal diritto e l'affetto è il ponte che collega i vari isolotti dell'arcipelago. L'indagine che ho cercato sinteticamente di illustrare mostra l'impossibilità di continuare a predicare l'irrilevanza dell'amore per il diritto. In questa nuova dimensione di alleanza tra l'amore il diritto, l'amore esce dall'area della istintività, della passione e quindi della precarietà e diventa un impegno costante verso l'altro in cui l'amore è lo strumento di realizzazione di altri diritti fondamentali dell'uomo, primo tra tutti il principio della dignità umana[24]. L'amore che emerge dal nuovo diritto di famiglia è rispetto, empatia, armonia, intimità, protezione, partecipazione, condivisione, pazienza, sopportazione, dialogo, complicità, solidarietà e tanto tanto altro.... E' nella realizzazione dei diritti fondamentali di rispetto della persona umana che deve essere individuata l'essenza della relazione affettiva e solo allora la famiglia diventa il luogo ideale per la realizzazione del principio della dignità umana.
[1]Il testo del saggio è la rielaborazione della Relazione tenuta al Convegno: “Diritto d'amore” tenutosi a Roma nei giorni 25, 26 e 27 gennaio 2024 organizzato dall'Associazione Cammino, in occasione del XXV anno dalla sua fondazione. Dedico la mia relazione e il mio saggio al ricordo indelebile di mio Padre, che con la Sua opera di legislatore ha consentito all'amore di diventare diritto.
[2]In passato sulla rilevanza dei fatti di sentimento per il diritto è stata affermata da M. PARADISO, La comunità familiare, Milano, 1984, 32 e ss.; F. GAZZONI, Amore e diritto ovverosia i diritti dell'amore, Napoli, 1994, 3, il quale rileva che “il diritto ha difficoltà a regolamentare i c.d fatti di sentimento, non solo per motivi di lessico giuridico, ma anche perchè le vicende che coinvolgono sentimenti (e non patrimoni) sono per loro natura ambigue ed oscure, in particolare per quel che riguarda i fatti d'amore”. Sulla rilevanza dei fatti di sentimento per il diritto, oltre ai Maestri cui faccio riferimento in questo saggio, v. N. LIPARI, Famiglia (evoluzione dei modelli), in Enc dir. I tematici: La famiglia, Milano, 2022, 417 e spec. 435: “A meno di non voler ridurre la famiglia ad un indice puramente formale... si deve prendere atto che oggi il modello sociale prevalente individua la famiglia non in una convivenza purchessia, ma in un progetto di vita comune peculiari indici affettivi ed esistenziali, nell'ottica di una tendenziale stabilità”. P. SPAZIANI, Diritto e sentimento: le ragioni di un ritorno al principio di effettività, in Giustiziainsieme, 6 maggio 2020; nell'ambito del diritto di famiglia, v. M. BIANCA, Il diritto del minore all'amore dei nonni, in Studi in onore di Cesare Massimo Bianca, II, Milano, 2006, 117 e ss e più di recente, Una rilettura dei fatti di sentimento di Angelo Falzea alla luce dell'attuale stagione del diritto di famiglia, in G. D'AMICO- A. GORASSINI (a cura di), Angelo Falzea, Napoli, 2023, 463 e ss.
[3]A. FALZEA, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, II, Milano, 1997, 437 e s
[4]V. A. FALZEA, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, cit., 437 e ss.
[5]S. RODOTA', Diritto d'amore, Roma-Bari, 2015.
[6]V. M. BIANCA, Il diritto di famiglia e la missione del giurista. L'insegnamento di mio padre Cesare Massimo Bianca, in Familia, 2021, 125 e ss.
[7]Così testualmente, C.A. JEMOLO, in Ann. Sem. Giur. Università Catania, III, 1948-1949, 38.
[8]Cesare Massimo Bianca, allora Presidente della Commissione incaricata di redigere la Riforma della filiazione, aveva proposto di inserire la dicitura “diritto all'amore”, ma in sede parlamentare la tradizionale ritrosìa per coniugare amore e diritto portò a rifiutare quella soluzione e a preferire quella di “diritto all'assistenza morale”, da ritenersi tuttavia equipollente. Il termine “diritto all'amore” intitola un paragrafo del Trattato di Diritto di famiglia: C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, 7° ed., Milano, 2023, 380 e ss.
[9]C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, op. cit., 385.
[10]V. L. 19 ottobre 2015, n. 173, Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affidamento familiare.
[11]V. C. n. 7713 del 2000.
[12]Così testualmente in una recente ordinanza sul danno da deprivazione affettiva: C. 13 aprile 2023, n. 9930.
[13]Così testualmente C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, op. cit., 381.
[14]C. 25 luglio 2018, n. 19780: “Il diritto degli ascendenti di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni deve essere riconosciuto non solo ai soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile dalla quale il minore trae beneficio”.
[15]Così testualmente C.M. BIANCA, C.M. BIANCA, Famiglia è la famiglia fondata sull'affetto coniugale e sull'affetto filiale, in U. SALANITRO (a cura di), Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle Riforme, Atti del Convegno 27-29 settembre 2018 dedicato a Tommaso Auletta, Pisa, 2019, 125.
[16]C.M. BIANCA, Famiglia è la famiglia fondata sull'affetto coniugale e sull'affetto filiale, in U. SALANITRO (a cura di), Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle Riforme, Atti del Convegno 27-29 settembre 2018 dedicato a Tommaso Auletta, cit., 125, nt. 20.
[17] C. Sez Un. 30 dicembre 2022, n. 38162.
[18] Corte Cost. n. 183 del 2023
[19]Sia consentito al riguardo un rinvio a M. BIANCA, Verso la costruzione di un diritto di famiglia in concreto (Nota a Corte Cost. 183/2023, in Giustiziainsieme 6 novembre 2023.
[20]V. Mirzia BIANCA- F. DANOVI, ( a cura di), La nuova giustizia familiare e minorile. Commento alla l. 26 novembre 2021 e al d.lgs. 10 ottobre 2022, in Le nuove leggi civili commentate 2023, n. 4 e 5.
[21]C.M. BIANCA, Famiglia è la famiglia fondata sull'affetto coniugale e sull'affetto filiale, in U. SALANITRO (a cura di), Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle Riforme, Atti del Convegno 27-29 settembre 2018 dedicato a Tommaso Auletta, cit., 122-3.
[22]M. BIANCA, La penisola dei figli nell'arcipelago delle famiglie, saggio destinato agli scritti in onore di M. SESTA.
[23] V. C. n. 1900 del 18 gennaio 2024.
[24]Su questo principio si vedano i bellissimi scritti di G. LUCCIOLI e da ultimo Dignità della persona e fine della vita, Bari, 2022.
(Immagine: Marc Chagall, Les amoureux de Vence, 1957, collezione privata)
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