ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Legittimazione del creditore-cessionario ad agire in via esecutiva per crediti deteriorati acquistati in blocco. La cessione dei crediti come componente di un titolo esecutivo complesso
Mettiamo a disposizione delle lettrici e dei lettori questo provvedimento del Tribunale di Brindisi, che sperimenta un’innovativa ricostruzione della cessione dei crediti in blocco dei crediti deteriorati, fenomeno di rilievo anche penale, per le sue possibili interferenze con fenomeni di riciclaggio del denaro di provenienza illecita da parte della criminalità organizzata.
La quaestio iuris attiene all'idoneità o meno della negoziazione massiva dei crediti a radicare la legittimazione all'esecuzione immobiliare del creditore-cessionario, evidenziando come la stessa possa essere inquadrata quale componente di un titolo esecutivo complesso e a formazione progressiva.
Coerentemente con tali premesse ricostruttive, essa dovrebbe rispettare le forme che, in virtù del chiaro disposto dell’art. 474 c.p.c., consentono l’azionabilità di un qualunque titolo esecutivo. Ragione per cui dovrebbe essere rivestita della forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata e ciò a pena di nullità.
Il provvedimento si sofferma, altresì, su una tematica di particolare attualità e logicamente pregiudiziale, ovvero quella relativa all’ammissibilità di un titolo esecutivo c.d. complesso di formazione stragiudiziale. Vi si evidenzia come non vi siano preclusioni logiche o giuridiche perché il titolo esecutivo si concretizzi in una successione di atti giuridici, convergenti a delineare il contenuto dell’obbligo.
D’altronde, nell’ipotesi di titoli esecutivi di formazione giudiziale, per principio interpretativo consolidato, in dottrina, si ritiene che, nell’ipotesi che un’ordinanza o una sentenza venga riformata, a fronte della successione delle regole di giudizio avutasi con riguardo ai rapporti fra le parti, ciascuna consacrata da un diverso titolo giudiziale, il titolo legittimante all’esecuzione non rimanga necessariamente quello originario e ciò in quanto la suddetta pluralità di atti di natura giudiziaria concorre nel delineare la regolamentazione del diritto di procedere in executivis dell’opposta.
Orbene, una conclusione diversa, ovvero che diversificasse, per le due ipotesi (titoli giudiziali, da un lato e titoli stragiudiziali, dall’altra) la logica di ricostruzione del titolo, si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., oltre che con quello di ragionevolezza che, nato dall’alveo proprio del primo, ha finito per acquisire autonomia operativa e valenza generale.
Concorso a diverso titolo nel medesimo fatto storico: nota a Cass. Sez. Un. 11.7.2024 n. 27727.
di Giusy Alessandra Annunziata
È possibile la diversificazione dei titoli di reato tra chi abbia partecipato alla realizzazione di un medesimo fatto storico? In particolare, è ammissibile che quest’ultimo venga imputato a norma del comma primo o del comma quarto dell’art. 73 D.P.R. 309/1990 a un concorrente, e a norma del comma quinto del medesimo articolo a un altro concorrente? Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 27727 dell’11 luglio 2024, hanno risposto affermativamente. Sebbene il recente approdo non sembri a prima lettura “rivoluzionario”, conviene esaminare la “querelle” tornando al momento in cui tutto è cambiato, ovvero al decreto legge del 23 dicembre 2013, n. 146, quando il comma quinto dell’art. 73 T.U. Stup. è diventato un reato autonomo.
Sommario: 1. Breve excursus sul comma quinto dell’art. 73 D.P.R. 309/1990: non più circostanza attenuante ma reato autonomo - 2. Concorso di norme o concorso di reati? Le Sezioni Unite n. 51063/2018 - 3. Il concorso di persone a diverso titolo nel medesimo fatto storico: l’orientamento a favore e l’orientamento contrario - 4. La memoria dell’Avvocato Generale - 5. Le Sezioni Unite n. 27727 dell’11 luglio 2024 - 6. Conclusioni.
1. Breve excursus sul comma quinto dell’art. 73 D.P.R. 309/1990: non più circostanza attenuante ma reato autonomo.
Con la legge n. 162 del 26 giugno 1990 (più nota come Iervolino-Vassalli), il legislatore ha introdotto, per la prima volta, un’inedita fattispecie, finalizzata ad attenuare il trattamento sanzionatorio previsto per le condotte descritte nei commi precedenti del medesimo articolo. Nella sua prima formulazione, infatti, il comma 5 dell’art. 71 (poi divenuto comma 5 dell’art. 73, nel testo unico n. 309/1990), prevedeva che: “Quando, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 2.582 (lire cinque milioni) a euro 25.822 (lire cinquanta milioni) se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’articolo 14, ovvero le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 (lire due milioni) a euro 10.329 (lire venti milioni) se si tratta di sostanze di cui alle tabelle II e IV”.
La nuova fattispecie è stata considerata una circostanza attenuante a effetto speciale, e non una fattispecie autonoma di reato, sin dalle sue prime interpretazioni[1]. Il legislatore ha confermato, poi, tale orientamento, eliminando ogni dubbio con la modifica del testo della lettera h) dell’art. 381 c.p.p., introdotta con il d.l. n. 247/1991, convertito in l. n. 314/1991, che espressamente ne definiva la natura circostanziale ai fini dell’esclusione dell’arresto obbligatorio in flagranza[2].
Con l’entrata in vigore della legge (Fini-Giovanardi) n. 49/2006, la disciplina della lieve entità ha subito importanti modifiche, ma la sua natura giuridica è rimasta invariata.
Tutto cambia, invece, con il d.l. n. 146 del 2013, convertito in l. n. 10 del 2014, mediante il quale la lieve entità ha assunto natura di fattispecie penale autonoma. A seguito di tale intervento, la norma così prevedeva: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000”.
Fino a quando la lieve entità era considerata una circostanza oggettiva a effetto speciale, non si ponevano dubbi circa la possibilità di applicare la stessa solo ad alcuni concorrenti nel medesimo fatto storico, in base alle qualità soggettive degli stessi e in base al rilievo della loro condotta rispetto alla realizzazione della fattispecie di reato. Tanto in virtù del principio consolidato in base al quale attenuanti e diminuenti possono avere riconoscimento differenziato tra coimputati a seconda della specifica posizione personale, senza determinare alcuna disparità di trattamento. Spetta al giudice, infatti, verificare la sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge e riconoscerle, in presenza dei relativi presupposti, in favore della persona che le invoca[3].
Occorre precisare che la novella nasce dall’esigenza del legislatore italiano di adeguarsi ai dettami della sentenza della Corte EDU “Torreggiani e altri c. Italia”[4], che prescriveva l’adozione di incisive riforme per ridurre la presenza, fra la popolazione carceraria, dei soggetti tossicodipendenti, spesso detenuti a seguito della commissione di reati in materia di stupefacenti di contenuta gravità, assicurando migliori condizioni di vita penitenziaria. Per tale via, infatti, si consente, nel rispetto dei principi di cui all’art. 27 Cost., l’accesso a riti speciali e a forme di espiazione extramurarie a coloro che abbiano commesso reati connotati da minima offensività. Si attribuisce al giudice la possibilità di effettuare un giudizio complessivo che tenga conto sia delle circostanze che accomunano il soggetto agente agli altri concorrenti nel medesimo fatto storico, sia di quelle che lo differenziano dagli stessi, sottraendo tale giudizio al bilanciamento ex art. 69, comma 4, c.p.,
L’art. 73, comma 5, del T.U. Stup. (D.P.R. n. 309/1990), attualmente dispone: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a cinque anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329. Chiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da euro 2.500 a euro 10.329, quando la condotta assume caratteri di non occasionalità”.
A conferma della qualificazione del comma quinto come fattispecie autonoma di reato, si pone, innanzi tutto, la relazione di accompagnamento alla legge di conversione che mette in evidenza come si tratti di una fattispecie corredata da un proprio peculiare e autonomo trattamento sanzionatorio[5]. Inoltre, l’art. 2 del decreto del 2013 testualmente recita: “Modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. Delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità”, sottolineandone la natura di “delitto” autonomo, appunto. Se non fosse una fattispecie autonoma di reato, non si spiegherebbe, peraltro, l’“incipit” della norma che impone una clausola di riserva relativamente indeterminata (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato…”). Come evidenziato a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità, anche la tecnica di formulazione della norma può costituire un indice ermeneutico in tal senso. Si tratta, infatti, di una norma che prevede, non solo un autonomo trattamento sanzionatorio, ma anche una propria circostanza attenuante (la “non occasionalità”). Oltre al fatto che il ricorso alla locuzione “chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo”, in sostituzione della previgente “quando…i fatti previsti dal presente articolo”, rivela una chiara scelta del legislatore nel voler qualificare il comma quinto come un’autonoma fattispecie di reato.
Al momento della conversione del decreto legge n. 146/2016, peraltro, si modificarono anche altre norme, contenenti autonome fattispecie di reato, estranee al 73, comma 5, T.U. Stup. La legge di conversione, infatti, ha provveduto anche alla modifica della predetta lettera h dell’art. 380 c.p.p., sostituendo il riferimento alla “circostanza” di cui all’art. 73, comma 5, T.U. Stup., con quello ai “delitti” previsti dalla medesima disposizione. È stato aggiunto analogo riferimento anche nell’art. 19, comma 5, D.P.R. 448/1988, in materia di condizioni per l’applicabilità delle misure cautelari agli imputati minorenni[6].
Descritta la natura di fattispecie autonoma di reato dell’art. 73, comma 5, T.U. Stup.[7], si è posto il problema di valutare se sia possibile che più concorrenti nel medesimo fatto storico possano rispondere a diverso titolo di reato, ovvero a norma del comma primo o quarto, alcuni, e a norma del comma quinto, altri. La questione non è di poco conto se solo si considerino le conseguenze in punto di trattamento sanzionatorio: il minimo edittale previsto dalle ipotesi dei commi 1 e 4 dell’art. 73 (rispettivamente sei e due anni di reclusione, a seconda che si tratti di droghe c.d. “pesanti” o “leggere”) e quello, sensibilmente più mite, previsto dalla ipotesi “lieve” del comma 5 (sei mesi di reclusione)[8].
Rilevanti conseguenze, inoltre, si verificano in ordine al termine di prescrizione del reato, ridotto di quasi due terzi e al regime di applicabilità delle misure precautelari e cautelari.
2. Concorso di norme o concorso di reati? Le Sezioni Unite n. 51063/2018.
Occorre brevemente delineare, a questo punto, i rapporti che sussistono tra le fattispecie di cui al comma primo e al comma quarto dell’art. 73, T.U. Stup., e la fattispecie di lieve entità, così come delineati dalle Sezioni Unite con sentenza n. 51063 del 9 novembre 2018.
Con ordinanza n. 23547/2018 era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione: “se la diversità di sostanze stupefacenti, a prescindere dal dato quantitativo, osti alla configurabilità dell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990 e, in caso negativo, se tale reato possa concorrere con le fattispecie previste ai commi 1 e 4 del medesimo art. 73 d.P.R. cit.”.
Nella motivazione di questa importante sentenza, si provvede, innanzi tutto, a specificare che il comma quinto dell’art. 73, T.U. Stup., concorre con ognuno dei primi quattro commi del medesimo articolo. Si tratta, tuttavia, di un concorso solo apparente di norme posto che “il suddetto comma 5, isolando…una specifica classe di fatti (quelli comunque tipici, ma di lieve entità), si pone in rapporto di specialità unilaterale con le altre disposizioni menzionate, essendo indiscutibile che, qualora dovesse venire meno, i medesimi fatti tornerebbero a ricadere nell’ambito di incriminazione di queste ultime”.
A proposito della clausola di riserva espressa, che sembra sovvertire il criterio della prevalenza della fattispecie unilateralmente speciale, unico criterio pacificamente condiviso in giurisprudenza, rendendo apparentemente sempre inapplicabile il comma 5 dell'art. 73 in favore delle norme "generali" contenute nei precedenti commi del medesimo articolo, le Sezioni Unite precisano che occorre valorizzare la volontà del legislatore storico e la sua scelta di trasformare la fattispecie da circostanza attenuante in reato autonomo, al fine di garantire una più effettiva ed espansiva applicazione del più temperato regime sanzionatorio previsto per i fatti di lieve entità.
Tanto consente di ritenere che, qualora il legislatore, nel configurare una fattispecie come speciale rispetto ad altre più gravi, preveda altresì una clausola di riserva relativamente indeterminata, intende far operare i due criteri su piani distinti, ovvero sottrarre la relazione di specialità all'ambito di operatività della clausola di riserva. Si può, dunque, concludere che la suddetta clausola sia stata introdotta per “disciplinare l'eventuale o futuro concorso con altre fattispecie più gravi, ma diverse da quelle contenute nell'art. 73 T.U. STUP., con le quali già si instaura una relazione di genere a specie”[9].
A proposito del primo quesito posto dall’ordinanza di rimessione, la Cassazione ha precisato che la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all'art. 73, comma 5, .T.U. Stup., in quanto, coerentemente con l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, “è necessario procedere ad una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla suddetta disposizione al fine di determinare la lieve entità del fatto”.
Venendo, poi, alle precisazioni circa il rapporto tra il comma quinto e i precedenti commi, in particolare modo il comma primo e il comma quarto, del medesimo articolo, le Sezioni Unite hanno messo in evidenza come, successivamente alle modifiche introdotte con la l. del 2014, l’art. 73 T.U. Stup., si atteggia a norma mista cumulativa in quanto è una disposizione che prevede più norme incriminatrici autonome cui corrispondono distinte fattispecie di reato.
Ognuno dei primi cinque commi, invece, contiene una norma a più fattispecie, atteso che, in ciascuno di essi, vengono tipizzate modalità alternative di realizzazione di un medesimo reato[10]. Il fatto, poi, di prevedere autonome norme incriminatrici non esclude una possibile interferenza tra le stesse che andrà risolta alla luce del principio di specialità. Il rapporto tra il comma primo e il comma quarto del medesimo articolo, invece, in ragione della specialità reciproca e bilaterale che li caratterizza, sarà sempre ricondotto al concorso di reati, anche nel caso in cui le diverse fattispecie venissero poste in atto con un’unica condotta.
Le condotte consumate in contesti diversi e non aventi per oggetto il medesimo quantitativo di stupefacente o di una sua partizione, realizzano fatti autonomi. Pertanto, qualora uno degli stessi possa essere qualificato di lieve entità, i reati rispettivamente integrati concorrono e, sussistendone i presupposti, possono essere unificati ai fini e ai sensi dell'art. 81 c.p., anche a prescindere dalla omogeneità o eterogeneità delle sostanze che ne costituiscono l'oggetto. La consumazione in tempi diversi, ma in unico contesto di più condotte tipiche, inevitabilmente diverse tra loro, in riferimento al medesimo oggetto materiale, inteso nella sua identità naturalistica, integra invece un unico fatto di reato, atteso che quelle contenute nei commi 1 e 4 dell'art. 73 T.U. Stup. sono norme miste alternative. La loro eventuale convergenza con la disposizione del comma 5 sull'unico fatto configurabile determina, poi, un concorso apparente tra norme incriminatrici che deve essere risolto in favore di quest'ultimo, qualora il fatto medesimo venga ritenuto di lieve entità.
Occorre, da ultimo, precisare, quanto all’applicabilità del comma quinto dell’art. 73, T.U. Stup., che lo stesso “prevede un'unica figura di reato, alternativamente integrata dalla consumazione di una delle condotte tipizzate, quale che sia la classificazione tabellare dello stupefacente che ne costituisce l'oggetto. La detenzione nel medesimo contesto di sostanze stupefacenti tabellarmente eterogenee, qualificabile nel suo complesso come fatto di lieve entità ai sensi dell'art. 73, comma 5, del d. P.R. n. 309 del 1990, integra un unico reato e non una pluralità di reati in concorso tra loro”.
3. Il concorso di persone a diverso titolo nel medesimo fatto storico: l’orientamento a favore e l’orientamento contrario.
Fatte queste doverose premesse e ripercorsa la giurisprudenza che costituisce lo sfondo su cui si innesta la sentenza a Sezioni Unite dell’11 luglio 2024, è d’uopo dar conto dei principali orientamenti formatisi in materia.
La questione della configurabilità, a fronte di un medesimo fatto di reato in materia di traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, di un concorso di persone con titoli differenziati, trae origine dalla ricostruzione dogmatica del concorso eventuale di persone nel reato nonché dalla natura unitaria o differenziata del fatto di reato realizzato plurisoggettivamente.
A proposito della diversità materiale delle singole condotte poste in essere dai concorrenti nel medesimo reato, sono stati elaborati due principali modelli di disciplina dell’istituto del concorso eventuale di persone nel reato.
A giudizio dei sostenitori del primo orientamento e in adesione alla teoria della così detta “fattispecie plurisoggettiva eventuale”, si è ritenuto che l’ordinamento giuridico debba affiancare alle singole fattispecie di reato mono-soggettive, un’autonoma e distinta fattispecie plurisoggettiva per ciascuno dei concorrenti nel medesimo fatto storico, data dalla combinazione delle norme di parte speciale con quelle sul concorso di persone nel reato. Dette fattispecie hanno in comune il medesimo accadimento materiale e si differenziano, però, per l’atteggiamento psichico, che è quello proprio del singolo compartecipe, e per taluni caratteri estrinseci che attengono solo alla condotta dell’un compartecipe e non anche dell’altro.
Sarebbe, dunque, possibile, sostenendo questa tesi, ascrivere il medesimo fatto storico, a un concorrente, a norma del comma primo o quarto dell’art. 73, T.U. Stup., e, a un altro, a norma del comma quinto del medesimo articolo, laddove, tenuto conto dei mezzi, della quantità di sostanza stupefacente, delle modalità e delle circostanze dell’azione, il contesto complessivo nel quale si colloca la condotta risulti essere differente per ciascuno dei correi[11].
L’art. 110 c.p. svolgerebbe, per tale via, una funzione meramente disciplinatoria e non incriminatrice, essendo le condotte dei singoli concorrenti già, di per sé, tipiche. Tanto consentirebbe di calibrare l’imputazione sulla persona del colpevole e non sul fatto tipico del concorso, nel rispetto dei principi di cui all’art. 27, comma 1, Cost.
A conferma di ciò si richiama, innanzi tutto, l’orientamento di legittimità sull’art. 112, ultimo comma, c.p., in cui la Suprema Corte ha sostenuto che, non specificando il predetto articolo le ragioni per cui un concorrente non è imputabile o non è punibile, sembra ammettere la configurabilità del concorso di persone anche in caso di non punibilità relativa, ovvero nel caso di una punibilità per un titolo diverso di reato che, insieme a quello degli altri concorrenti, contribuisce a determinare l’offesa tipica[12].
Inoltre, anche gli artt. 116 e 117 c.p. confermerebbero tali assunti, ammettendo una diversificazione dei titoli al di fuori dell’ambito di applicazione degli stessi. Le disposizioni di tali articoli, infatti, hanno la funzione di “aggravare” la responsabilità per uno o più concorrenti, in deroga al principio di colpevolezza. La giurisprudenza, tuttavia, ha evidenziato che detta disciplina, da un lato, non può comportare una “parificazione” in mitius a vantaggio di uno dei concorrenti, né, dall’altro, può “parificare” la responsabilità in peius per taluni di essi. L’effetto “parificatorio” generato dall’art. 117 c.p., infatti, vale solo per le ipotesi dallo stesso contemplate, ovvero solo quando il concorrente, così detto extraneus, non abbia la consapevolezza delle condizioni o delle qualità personali di quello intraneus, o dei rapporti fra questi e l’offeso. Quando il mutamento del titolo di reato è dovuto, invece, a circostanze diverse rispetto a quelle evidenziate, la parificazione della responsabilità tra i diversi concorrenti non può aversi, né ai sensi dell’art. 110 c.p., né ai sensi dell’art. 117 c.p. Sarà semmai applicabile, in presenza dei presupposti ivi indicati, l’art. 116 c.p. Quest’ultimo, peraltro, ugualmente produce l’effetto “parificatorio” solo nelle ipotesi espressamente previste. Al di fuori di esse, dunque, sussiste una naturale e possibile differenziazione dei titoli di reato per i concorrenti nel medesimo fatto storico[13].
Inoltre, quanto all’ipotesi di cui all’art. 73, comma 5, non potrebbe comunque operare il criterio di “parificazione” fissato dall'art. 117 c. p., perché la differenziazione tra i reati dipende non dalle condizioni o dalle qualità personali del colpevole, o dai rapporti fra il colpevole e l'offeso, bensì dai mezzi, dalle modalità e dalle circostanze dell'azione. Senza considerare, inoltre, che l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 116 c. p. non è automatica, ma richiede, appunto, l'accertamento, in concreto, dei relativi presupposti.
In ultimo, a sostegno del predetto orientamento, si richiamano le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità in una sentenza del 2018 sul neonato reato di autoriciclaggio. All’indomani, infatti, dell’introduzione della predetta fattispecie penale nel nostro ordinamento, con l. n. 186 del 2014, si era posta la questione del tipo di reato contestabile all’extraneus che avesse posto in essere una condotta sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 648bis c.p., in concorso con l’autore del delitto presupposto. In tale ipotesi, la Suprema Corte aveva concluso nel senso che fosse configurabile una responsabilità a diverso titolo di reato tra più concorrenti nel medesimo fatto storico[14].
Per di più, se non si condividesse la predetta differenziazione di responsabilità, si concluderebbe per equiparare le condotte dei singoli correi, in senso sfavorevole per alcuni di essi.
L’orientamento opposto, invece, non ritiene condivisibili tali assunti in quanto lo stesso codice penale aderisce al modello unitario del fatto tipico. Nell’art. 110 c.p., infatti, si fa riferimento a “medesimo reato” facendo salvo solo quanto previsto dalle disposizioni degli articoli seguenti.[15]
D’altronde, dal punto di vista storico, anche la Relazione del Guardasigilli sul progetto del Codice Rocco sembra andare in tal senso dal momento in cui sottolinea che “(…) Il criterio di un’eguale responsabilità per tutte le persone, che sono concorse nel reato, è in diretta dipendenza del principio che si è accolto nel regolare il concorso di cause nella produzione dell’evento, principio in forza del quale tutte le condizioni, che concorrono a produrre l’evento, son cause di esso (…) Sussiste bensì un’ulteriore specificazione della scientia maleficii [del concorrente] in rapporto alle diverse specie di reato, commesso da più persone, ma tale specificazione è imposta dal carattere unitario conferito dalla legge al titolo del reato, di cui i vari partecipi sono chiamati a rispondere. È indiscutibile, infatti, che, per aversi l'istituto del concorso, è necessario che tutti rispondano dello stesso reato (…). Si è anzi autorizzati a formulare il principio generale che la scientia maleficii debba atteggiarsi, per la necessità di tener ferma l’unità del reato commesso dai partecipi, in relazione all’elemento psicologico del reato, di cui i partecipi debbono rispondere: dolo nel reato doloso, colpa nel reato colposo, volontarietà nelle contravvenzioni”[16].
A conferma di tale orientamento, si richiamano proprio le disposizioni seguenti rispetto all’art. 110 c.p., ovvero gli artt. 116 e 117 c.p. richiamati anche dall’opposta tesi. Questi ultimi, infatti, in quanto norme eccezionali, confermano che la regola generale è quella della parificazione della responsabilità dei singoli concorrenti nel medesimo fatto storico[17].
Per di più, si evidenzia che la fattispecie di lieve entità discende da un giudizio obiettivo e globale della fattispecie realizzata dai correi, che non può portare a differenziazioni in base a elementi estrinseci rispetto alle singole condotte o in base all’elemento psicologico.
D’altronde, sottolineano ancora i sostenitori di questo orientamento, che, condividendo l’opposta tesi, si produrrebbe un effetto parificatorio non solo verso l’alto ma anche verso il basso. È tutta una questione, dunque, di valutazione case by case che, tra l’altro, può essere effettuata anche semplicemente differenziando il trattamento sanzionatorio, alla luce dei canoni di cui agli artt. 113 e 114 c.p. che espressamente lo consentono[18].
4. La memoria dell’Avvocato Generale.
A favore della necessaria diversificazione dei titoli di reato, si è espresso anche l’Avvocato Generale della Corte di Cassazione[19]. Tanto allorquando la ricostruzione delle rispettive condotte, il contesto complessivo nel quale esse si collocano, nonché il grado di offensività concreta da esse apprezzabile, rivelino inequivoci caratteri differenziali tali da giustificare una diversa qualificazione del titolo di reato in capo ai concorrenti.
Si evidenzia, infatti, che l’argomento storico, per quanto significativo, non può svolgere un ruolo di supremazia dal punto di vista interpretativo. A distanza di quasi cento anni, occorre verificare se le affermazioni contenute nella Relazione del Guardasigilli siano, tuttora, espressione del tempo e dell’evoluzione del diritto. Il richiamo è al “‘valore’ della colpevolezza, [ed alla] sua insostituibilità (…) come essenziale requisito subiettivo (minimo) d'imputazione uno specifico rapporto tra soggetto (…) e fatto considerato nel suo disvalore antigiuridico”, nonché al principio di concreta offensività, che si pone “come criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice (…) nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto”[20].
È necessario, allora, chiedersi che cosa si deve intendere per unità del reato alla luce dei suddetti principi. Questa “può variamente essere concepita, e precisamente: a) come “eguale punibilità estesa a tutti i concorrenti (sia per quanto riguarda l’an che il quantum della pena)”; b) come eguale “titolo di responsabilità (sub specie di elemento soggettivo doloso, colposo, preterintenzionale)”; c) come “identità del nomen iuris della fattispecie attribuita ai colpevoli” (…) o, che dir si voglia, come unità (del titolo) del reato (“unità della qualificazione giuridica”), ancorché eventualmente con diverso titolo di imputazione; d) come unità, infine, di concorso nel fatto: limitata, cioè “all'esigenza che i partecipi contribuiscano alla stessa offesa tipica sotto un profilo essenzialmente causale, senza che ciò comporti alcuna conseguenza in ordine alla punibilità, al titolo di reato e alla forma dell'elemento psicologico” (…)”.
È evidente che solo l’ultimo di tali significati è compatibile con un’interpretazione diversificata dei titoli di reato. La prima delle soluzioni indicate è da scartare in quanto esclusa dalle norme di diritto positivo e dai principi basilari della moderna civiltà penalistica, primi fra tutti quello di colpevolezza e della modulazione personalizzata della pena. La seconda è ugualmente da ripudiare poiché tale concezione di unitarietà è stata definitivamente abbandonata dalla giurisprudenza maggioritaria[21]. La terza concezione di unità obbliga al confronto con gli artt. 116 e 117 c.p. che, in quanto richiamati da entrambi gli orientamenti, non risultano essere comunque dirimenti. È indubbio, pertanto, come le disposizioni in questione rappresentino acuta deroga rispetto a caposaldi di garanzia del diritto penale, quale colpevolezza ed offensività in concreto, fino a costituire un vulnus intollerabile in un sistema penale ispirato ai valori costituzionali più sopra richiamati. In conseguenza, è ben difficile ipotizzare l’estensione di tali ipotesi eccezionali o, peggio, edificare addirittura una regola sulla base di tali eccezioni. Tra l’altro, l’art. 117 c.p. non potrebbe comunque essere applicato alla fattispecie di concorso in esame che si colloca al di fuori di tutte le ipotesi ivi previste. Né, tantomeno, conclude l’Avvocato Generale, potrebbe essere richiamato l’art. 116 c.p. visto che, nel caso di specie, non si discute di concorrenti anomali.
Tali assunti non sarebbero, peraltro, messi in dubbio da una recente sentenza delle Sezioni Unite[22]. Quest’ultima, sulla scia dei precedenti maggioritari, ha affermato che, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio; qualora il terzo agente - seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 c. p. nella previsione dell'art. 393 stesso codice - inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c. p.
Conclusione, questa, legittimata dal doppio presupposto che il reato di cui agli artt. 392 e 393 c.p. non sono ‘di mano propria’, ma solo ‘reati propri’ e che la loro differenza rispetto all’estorsione è tracciata dal diverso confine dell’elemento soggettivo, non già da quello della materialità del fatto, pur se caratterizzati da una materialità “non esattamente sovrapponibile”. Per contro, “risulta determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio. Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l'interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.
In questa ipotesi specifica, l’art. 110 c.p. continua a svolgere la sua funzione tipizzante. Ben diverso è il caso in cui, sotto l’art. 110 c.p., vengano in rilievo due diverse condotte tipiche quali quelle delineate nei commi 1 e 4 dell’art. 73 T.U. Stup. e comma 5 della medesima disposizione, tra le quali esiste, ab origine, una diversità materiale di condotta e, dunque, una tipizzazione ontologicamente autonoma di fattispecie e che dunque non abbisognano del legame concorsuale per ‘ottenere’ reciproca qualificazione normativa.
5. Le Sezioni Unite n. 27727 dell’11 luglio 2024.
Nella sentenza a Sezioni Unite dell’11 luglio 2024, n. 27727, la Corte Suprema, dopo aver ripercorso gli orientamenti più sopra esaminati, ha messo in chiaro, sin da subito, un concetto fondamentale ovvero che la concezione monistica del concorso di persone non è messa in dubbio in quanto il dettato legislativo e l’argomento storico non ammettono argomentazioni contrarie. Pur tuttavia, la nozione di “concorso” non è conclusa e implica un concetto di relazione che va riempito con un preciso termine di riferimento, individuato dal legislatore nel “reato”, come confermano sia l’art. 110 c.p. sia le disposizioni successive allo stesso che parlano di “cooperazione nel delitto”, di “commettere un reato”, di “reato commesso” etc.
Tali concetti vanno, però, coniugati con la moderna lettura dei principi di colpevolezza e di offensività alla luce anche dei più recenti approdi della Corte Costituzionale. Tanto sembra andare nella direzione di una maggiore personalizzazione della responsabilità penale.
A questo punto, occorre, però, calare tali considerazioni nel contesto della normativa di riferimento e, in particolare, dell’art. 73, comma 5, T.U. Stup., che ha subito svariate modifiche, come si è visto, nel corso degli anni. Il problema, infatti, sorge nel momento in cui, è bene ricordarlo, il comma quinto diventa un’autonoma fattispecie di reato[23].
A tal proposito, la Cassazione specifica che la soluzione alla questione deve tener conto dei caratteri strutturali dell’art. 73, considerato che lo stesso disciplina ben 22 diverse condotte, tra loro alternative, come specificato nella sentenza del 2018 precedentemente esaminata. Dunque, posto che, in caso di realizzazione da parte dello stesso soggetto di più condotte tra quelle alternativamente delineate dall’art. 73 T.U. Stup., prevale quella che contiene logicamente le altre, a diverse conclusioni si deve pervenire allorquando le diverse e alternative condotte siano poste in essere da plurimi soggetti concorrenti.
Sul punto la giurisprudenza consolidata riconosce la possibilità di una diversa qualificazione giuridica delle condotte dei concorrenti[24]. Il reale perimetro del contrasto concerne, invece, quelle ipotesi, come quella in esame, in cui la contestazione ponga a carico dei concorrenti, spesso in termini generici, la medesima condotta tipica.
A tal proposito, le Sezioni Unite concludono nel senso che, in relazione al delitto di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. Stup., il medesimo fatto ascritto a diversi imputati può essere contestualmente suscettibile di qualificazioni giuridiche diverse, quando, all’esito di una valutazione complessiva, emerga che le condotte di alcuni compartecipi esprimono un diverso grado di disvalore oggettivo e soggettivo. Dunque, quando il contributo fornito da uno dei coimputati si caratterizza per mezzi, modalità e/o altre circostanze, rivelatore di un più tenue livello di offesa ai beni giuridici protetti, per lui solo potrà intervenire la derubricazione del fatto nell’ipotesi lieve di cui all’art. 73, comma 5, T.U. Stup.
Detta affermazione, peraltro, non mette in discussione la persistente validità, in termini sistematici generali, della concezione unitaria del reato concorsuale, in quanto le norme di cui al primo e al quarto comma, da un lato, e quella di cui al quinto comma dell’art. 73, dall’altro, si pongono tra loro in rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p., nel senso che le prime due hanno carattere di norma generale e la terza di norma speciale.
Dunque, qualora il medesimo fatto, contestato a diversi imputati in concorso tra loro, contenga elementi tali da fare ritenere integrata solo per taluni la fattispecie di cui all’art. 73 comma 5, T.U. Stup. e per altri quella di cui all’art. 73, comma 1, T.U. Stup., si versa al di fuori di un’ipotesi di concorso nel medesimo reato, essendosi in presenza di due reati diversi legati tra loro da un rapporto di specialità nei termini appena ricordati.
Occorre, infine, esaminare quali, tra gli elementi tipici specializzanti presenti nella fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, T.U. Stup., possono essere valutati in senso diversificato per i concorrenti nel medesimo fatto.
Non hanno rilievo in tal senso “quantità e qualità delle sostanze”, normalmente uguali per tutti i concorrenti; sono valorizzabili, invece: “mezzi, modalità e circostanze dell’azione”.
Sotto tale profilo la Corte ha affermato che potranno essere adeguatamente considerate le finalità dell’attività delittuosa, ad esempio una cessione occasionale, ovvero lo stato di tossicodipendenza del reo che si ponga in “rapporto diretto” con la condotta. Al contrario, l’aspetto relativo alla tossicodipendenza non dovrebbe assumere pregnante rilievo in presenza di sistematiche cessioni operate in favore di un indiscriminato novero di acquirenti[25].
Sono stati, invece, ritenuti del tutto irrilevanti e non valorizzabili l’eventuale comportamento collaborativo serbato post delictum[26] e i precedenti penali dell’imputato[27], che non afferiscono all’azione la cui “lievità” si intende apprezzare, a meno che non si evidenzi un collegamento oggettivo tra i fatti criminosi per i quali la persona è già stata condannata con sentenza irrevocabile e quelli oggetto del nuovo giudizio.
Potrà e dovrà essere valutato, invece, se l’attività di spaccio sia stata svolta in un contesto di tipo organizzato. A diverse conclusioni, si dovrà e si potrà pervenire in relazione a quei soggetti che, pur consapevoli della natura organizzata dell’attività delittuosa, non abbiano fatto parte dell’associazione ex art. 74 T.U. Stup., tenuto anche conto del numero di volte in cui ciascun imputato ha partecipato a tali condotte[28].
6. Conclusioni.
La “trepidante” attesa per la decisione con cui le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi in tema di unitarietà o differenziabilità del reato plurisoggettivo, è stata forse tradita dalla sostanziale riaffermazione della posizione tradizionalmente invalsa.
Chi sperava nella risoluzione dell’annoso e intenso dibattito, generato dall’istituto in esame non può che restare deluso dalla sentenza in commento, modulata (e non poteva d’altronde essere altrimenti) solo ed esclusivamente sulle fattispecie delineate dal T.U. Stup., rimesse all’esame delle Sezioni Unite.
Non risulta vulnerata la lettura unitaria del reato plurisoggettivo che, anzi, trova nuova linfa e conferma in una sentenza che non risolve le divergenze ermeneutiche sedimentatesi nel tempo.
Non può peraltro non evidenziarsi l’intrinseca contraddittorietà di una soluzione che, da un lato, proponga di mantenere l’ideale monistico del reato plurisoggettivo e, dall’altro, consenta, nonostante ciò, di differenziare i titoli di reato dei concorrenti nel medesimo fatto storico. Delle due, l’una: o si ritiene che l’argomento letterale e quello storico svolgano un ruolo assorbente, unificando le fattispecie concorsuali sotto tutti i punti di vista, sia in melius che in peius; o si propende per la soluzione opposta, consentendo, tra le altre cose, la diversificazione dei titoli di reato in nome dei principi di colpevolezza e di offensività.
La sentenza in esame, dunque, sembra rispondere più a logiche di politica criminale; quelle stesse che, nel lontano 2013, ispirarono il legislatore a considerare il comma quinto come una fattispecie autonoma di reato, per adeguarsi ai dettami della sentenza Torreggiani.
D’altronde, a sommesso avviso della scrivente, gli stessi presupposti da cui traggono origine i principi di diritto appaiono precari, atteso che le stesse Sezioni Unite ritengono che la trasformazione della fattispecie del quinto comma da circostanza attenuante oggettiva a effetto speciale a titolo autonomo di reato operata dal legislatore del 2013, sembrerebbe maggiormente calibrata sull’ipotesi della realizzazione monosoggettiva che non sulla eventualità che la condotta tipica sia frutto di un’attività in concorso ponendo, pertanto, problemi di compatibilità con la disciplina del concorso di persone nel reato.
Non a caso la sentenza conclude quasi con un invito a una migliore formulazione dei capi di imputazione: trovandosi in ipotesi di specialità, infatti, si esorbita dal contesto di concorso nel reato.
Per tutte le considerazioni sin qui esposte non sembra che il principio affermato dalle Sezioni Unite essere generalizzato oltre alle fattispecie espressamente esaminate nel caso di specie, né la si può ritenere risolutiva rispetto al dibattito che al quesito stesso era sotteso, prevedibilmente destinato ad un ulteriore e più decisivo approfondimento.
[1] Ex multis: Cass. Sez. Un. n. 9148/1991, secondo cui la norma configura una circostanza attenuante a effetto speciale, e non un titolo autonomo di reato, essendo correlata a elementi (quali i mezzi, la modalità, le circostanze dell’azione, la qualità e la quantità delle sostanze) che non mutano, nell’obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi commi dell’articolo, ma attribuiscono a esse una minore valenza offensiva.; Cass. Sez. Un. n. 17/2000; Cass., n. 4240/1997, in cui si affermava a chiare lettere che il comma quinto dell’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 “era, pacificamente, una circostanza attenuante (oggettiva e ad effetto speciale) e non era una norma incriminatrice autonoma, con la conseguenza di entrare nel giudizio di bilanciamento”; Cass. Sez. Un., n. 35737/2010 in cui si confermava che “il D.P.R. n. 309 del 1990. art. 73, comma 5, configura una circostanza ad effetto speciale e non un reato autonomo, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Suprema Corte, essendo correlata ad elementi (i mezzi, la modalità, le circostanze dell'azione, la qualità e quantità delle sostanze) che non mutano, nell'obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi commi dell'articolo, ma attribuiscono ad esse una minore valenza offensiva”.
[2] Vedi Insolera, Spangher e altri, “I reati in materia di stupefacenti” (2019), p. 281, in cui si mette in evidenza come la ratio del comma 5 Art. 73 T.U. Stup. consistesse “nella necessità di garantire ragionevolezza all'impianto sanzionatorio delle norme destinate a reprimere il traffico illecito di sostanze stupefacenti”.
[3] Cass. n. 10233/1987; Cass. n. 3866/1977.
[4] Corte EDU, 8.1.2013 (ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09; 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10), Torreggiani e altri c. Italia.
[5] Si legge, infatti, testualmente: “a fronte di ipotesi di allarme sociale generalmente contenuto, quali, a titolo esemplificativo, quelle riconducibili al cosiddetto ‘piccolo spaccio di strada’, che, in base all’esperienza giudiziaria, nella maggior parte dei casi è praticato dagli stessi consumatori, si ritiene ragionevole e conforme al principio di proporzionalità della pena, prevedere una fattispecie di reato con una disciplina sanzionatoria autonoma rispetto alle ipotesi tipizzate nei primi quattro commi dell’art. 73 del Testo Unico”.
[6] È bene, peraltro, ricordare che, nelle more della conversione in legge del suddetto decreto, la Corte Costituzionale (sent. n. 32/2014) ha dichiarato l’incostituzionalità, per eccesso di delega, della legge Fini-Giovanardi, facendo tornare in vigore la previgente normativa contenuta nella l. n. 162/1990 (l. Iervolino-Vassalli). Per l’effetto, è stata ripristinata la differenziazione tra le cd. droghe leggere e le cd. droghe pesanti precedentemente eliminata con l. n. 49 del 2006, di conversione del d.l. n. 272 del 2005.
[7] Ex plurimis, sentt. Cass. n. 11110/2014; n. 5143/2014; n. 9892/2014; n. 36078/2017; n. 30238/2017.
[8] A. Morelli, “Diversi titoli di reato per un medesimo fatto concorsuale? Il rompicapo della disciplina del concorso eventuale di persone nel reato: osservazioni a margine di Cass., Sez. III, ord. n. 20563 del 12 maggio 2022”, in Archivio Penale n. 1 del 2023, p. 3.
[9] Le riflessioni sin qui svolte sul comma quinto dell’art. 73 T.U. Stup. sono state, poi, interamente riprese e condivise dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27727/2024.
[10] Tanto viene confermato dalla giurisprudenza di legittimità che esclude la configurabilità di una pluralità di reati nel caso di realizzazione da parte dello stesso agente, nel medesimo contesto e con riguardo allo stesso oggetto materiale, di più condotte tra quelle descritte dalle singole disposizioni (Cass. n. 9477/2009; n. 7404/2015; n. 22549/2017).
[11] Cass. n. 16598/2020; n. 2157/2018; n. 20234/2022; n. 19626/2021 in cui si era concluso che lo stesso fatto storico, integrante le ipotesi di cui all’art. 73 cit., poteva essere declinato ai sensi del comma primo, per un concorrente, e qualificato invece in termini di fatto di lieve entità, per altro concorrente, valorizzando il contesto in cui quest’ultimo operava, l’occasionalità della condotta rispetto a quella professionale dell’altro, la rilevanza del suo contributo nell’economia complessiva del fatto.
[12] Cass. n. 2157/2018.
[13] Cass. n. 7624/1981 e n. 3557/1965.
[14] Cass. n. 17245/2018, in cui si diceva che “l’art. 648ter.1 c.p. prevede e punisce come reato unicamente le condotte poste in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo-presupposto, in precedenza non previste e non punite come reato. Diversamente,…., le condotte concorsuali poste in essere da terzi estranei per agevolare la condotta di autoriciclaggio posta in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo presupposto, …., conservano rilevanza penale quale fatto di compartecipazione previsto e punito dall’art. 648bis c.p. più gravemente di quanto non avverrebbe in applicazione delle norme sul concorso di persone nel reato, ex artt. 110 e 117 c.p. e art. 648ter.1 c.p.”.
[15] Cass. n. 30233/2021; n. 34413/2019; n. 13898/2020 in cui la Corte ha specificato che non era possibile la diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto storico sul mero presupposto che, in relazione a taluni correi, il singolo episodio si iscriva in un programma criminoso di stampo associativo come reato-fine.
[16] Relazione, cit., in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, I, 1929, pp. 165 e 171.
[17] Cass. n. 37732/2022 e n. 7098/2022.
[18] Cass. n. 34413/2019.
[19] Memoria P.G. della Corte di Cass. per l’ud. del 14.12.2023 in proc. Rg. n. 27140/2023.
[20] Corte cost., n. 364/1988 e n. 207/2023.
[21] “Non sussistono preclusioni, né normative né concettuali, alla riconducibilità dell'istituto del c.d. concorso doloso al delitto colposo al combinato disposto dell'art. 110 cod. pen. e delle singole norme incriminatrici di parte speciale che vengono, di volta in volta, in questione con riferimento all'illecito colposo. Ed invero il dolo dell'atto di concorso di persone nel reato ai sensi dell'art. 110 cod. pen. assume come oggetto la condotta tenuta e la sua connessione con quella degli altri compartecipi e come proprio contenuto strutturale la coscienza e volontà di contribuire alla realizzazione del fatto di reato. Non è necessario il c.d. previo concerto dato che il concorso può instaurarsi senza alcuna determinazione preventiva e la volontà di concorrere può essere anche unilaterale. L'autonomia della posizione di ciascun concorrente rende, dunque, ammissibile il concorso doloso nel delitto colposo. Ed invero, posto che l'esecutore della fattispecie monosoggettiva può anche agire senza dolo, senza con ciò escludere la responsabilità degli altri concorrenti, ne deriva a fortiori che può agire con colpa. Si tratta di una partecipazione non solo causalmente rilevante ma anche tipica rispetto agli eventi concreti previsti dal combinato disposto dell'art. 110 cod. pen. con le norme di parte speciale” (cfr. sent. Cass. 7032/2019).
[22] Cass. Sez. Un., n. 29541/2020.
[23] A tal riguardo, le Sezioni Unite specificano che si tratta dell’unica ipotesi di lieve entità trattata come fattispecie autonoma di reato. Gli artt. art. 648, co. 4, c. p., l’art. 5 della legge 2 ottobre 1967, n. 895, gli artt. 609-bis co. 3 c. p., 311 c. p., 323-bis c. p., vengono, invece, qualificati come fattispecie circostanziali.
[24] “Soccorre la natura di reato a più condotte tipiche in cui si sostanzia l’ipotesi delittuosa disciplinata dall’art. 73 T.U. stup., cosicché si può ritenere possibile individuare distinti reati quante volte le differenti azioni tipiche (acquisto, trasporto, detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale. Solo in questo caso sarà possibile attribuire alle condotte poste in essere dai coimputati nell’ambito di un medesimo contesto una diversa qualificazione giuridica” (Cass. n. 30233/2021). E, nello stesso solco, Cass. n. 6648/2022, Pintore non mass., afferma che “è possibile individuare distinti reati quante volte le differenti azioni tipiche (acquisto, trasporto, detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale”. Conseguenzialmente, come afferma Cass. 22212/2021, Comes, non mass, “la condotta del venditore, soggetto dotato di maggiori contatti e canali di approvvigionamento, il quale svolge professionalmente e reiteratamente la sua attività, può essere ritenuta più grave, mentre quella dell’acquirente, in quanto limitata a quantitativi singoli, più sporadica nel tempo e sganciata da stabili rapporti con i grandi canali di approvvigionamento della criminalità organizzata, può essere qualificata di minore gravità”.
[25] Cass. n. 16028/2018, secondo cui “lo stato di tossicodipendente può rilevare sole se si accerti che lo spaccio non ha dimensioni ragguardevoli, sì da fare apparire verosimile che l’imputato ne destini i proventi all’acquisto di droga per uso personale”; Cass. n. 44697/2013.
[26] Cass. n. 3616/2018.
[27] Cass. n. 13120/2020.
[28] Aceto A., “Stupefacenti: lo stesso fatto può essere qualificato lieve per un imputato ed escluso per l’altro”, in www.ilquotidianogiuridico.it, 2024.
Il linguaggio tra diritto e psicologia. Incontro tra giuristi e psicologi giuridico-forensi [1]
Sommario: 1. Introduzione. Diritto e Psicologia: linguaggi diversi o epistemologie diverse? (A cura di Giuliana Mazzoni) – 2. Le parole del diritto e quelle della psicologia. (A cura di Santo Di Nuovo) – 3. Capacità di intendere e di volere e la criptica nozione di ‘discernimento’. (A cura di Vania Patanè) - 4. L’idoneità a rendere testimonianza. (A cura di Antonietta Curci) – 5. Il danno non patrimoniale. Il danno psichico e il nesso causale. (A cura di Ugo Salanitro) – 6. Modello giuridico e cognitivo del dolo eventuale. (A cura di Giuseppe Sartori) – 7. Esigenze della regolazione giuridica e concetti della psicologia. (A cura di Angelo Costanzo).
1.Introduzione. Diritto e Psicologia: linguaggi diversi o epistemologie diverse? (A cura di Giuliana Mazzoni)
La relazione tra psicologia e diritto è sempre esistita ed è implicitamente intrinseca alla natura e all’oggetto delle due discipline. Mi riferisco al fatto che, se ben si osserva, entrambe si occupano dell’essere umano e dei suoi comportamenti. La psicologia da una lato ha come oggetto lo studio dell’uomo, di cui descrive e spiega, oggi con una molteplicità di dati di ricerca sperimentale, i meccanismi di funzionamento. Partendo dall’osservazione del comportamento individuale e collettivo crea modelli teorici che permettono non solo di spiegare ma anche di predire il comportamento in situazioni che abbiano premesse ben specificate. D’altro canto, anche il diritto, sia pure con obiettivi diversi, fa necessariamente riferimento al comportamento umano (sia individuale sia collettivo), per normarne la accettabilità morale/etica e sociale. Entrambe le discipline presentano quindi la necessita’ di conoscere il principi di funzionamento che sottostanno il comportamento dell’uomo. Similmente, è propria anche di entrambe le discipline una valutazione sia implicita che esplicita sul che cosa si intenda con ‘normalità’ (normalità di un comportamento), e sulla sua accettabilità morale/etica e sociale. Non si parla qui solo del comportamento di pericolosità sociale, ad esempio, ma anche dei tanti comportamenti che possono creare ad una qualche livello nocumento o danno al soggetto, ad altri individui, e a cose.
Questa relazione tra le due discipline è implicitamente assunta e tacitamente accettata, ma viene raramente esplicitata. È vero che il diritto si deve confrontare con una molteplicità di discipline, dalla filosofia alle varie discipline scientifiche che con il diritto interagiscono, e oggi con l’intelligenza artificiale. Tuttavia ritengo importante che anche in questo ambito disciplinare la comprensione di come si debba concettualizzare, e comprendere, il comportamento umano individuale e collettivo diventi oggetto di una riflessione più meno occasionale e maggiormente basata sulle risultanze della ricerca psicologica. Pare, all’occhio dello psicologo, che nel diritto si assuma una concezione relativamente ingenua dell’essere umano e del suo funzionamento, che non tiene conto da quanto si è arrivati a conoscere grazie ai più di cento anni di ricerca sperimentale in psicologia. L’impressione è che diritto e psicologia appartengano a due mondi completamente diversi, con concezioni profondamente diverse dell’essere umano. Si ipotizza che questo possa essere dovuto al fatto che le due discipline hanno fatto propri approcci epistemologici e conoscitivi molto distanti tra loro, l’uno razionale/logico/argomentativo (diritto), l’altro sperimentale (psicologia).
Il convegno che ha dato origine a questo scritto, tenutosi a Catania nel Settembre 2024, è nato proprio come momento di dialogo aperto e costruttivo tra le due discipline sul modo di concepire alcuni costrutti teorici a cavallo tra diritto e psicologia. Il tentativo fatto è quello di iniziare a discutere sul significato rispettivamente attribuito a termini presenti nel diritto (quali idoneità a rendere testimonianza, capacita’ di intendere e volere, danno, dolo), che pero’ hanno importanti valenze e significati psicologici, e rispetto ai quali la scienza psicologica molto ha detto. Questi termini sono impiegati con connotazioni e denotazioni spesso assai diverse nelle due discipline, e ritengo che un chairimento sui differenti modi di intendere possa rappresentare un buon punto di partenza per un avvicinamento anche concettuale tra diritto e psicologia. Mi auguro che questo tentativo si sviluppi in uno scambio piu’ frequente sul significato attribuito a termini presenti e frequentemente impiegati nella giurisprudenza (es nelle norme e nelle sentenze), quali personalità, memoria, attitudine, volontà, intenzione, minore, vittima, comportamento aggressivo, ecc ecc.
I contributi che seguono chiariscono, in modo alternato da parte di giuristi e psicologi, il punto di vista dell’una e dell’altra disciplina. L’augurio e la speranza è che questi contenuti siano oggetto di riflessione, e che da questo articolo possano nascere commenti costruttivi che portino ad un avvicinamento fruttuoso tra psicologia e diritto.
2. Le parole del diritto e quelle della psicologia. (A cura di Santo Di Nuovo)
Nel mio intervento accenno ad alcune ‘parole’ che sia il diritto che la psicologia usano ma con accezioni diverse e potenzialmente contrastanti.
Responsabilità - Nell’accessione giuridica la responsabilità è il fondamento per l’imputabilità, l’attribuzione di colpa, la retribuzione della pena. Colpa e pena vanno attribuite a chi dell’atto deviante è dichiarato responsabile. Su questa base, la legge definisce la “irresponsabilità” del minorenne infraquattordicenne; fra i 14 e i 18 anni perché si ammetta la responsabilità richiede di dimostrare che il minore sia ‘capace di intendere e volere’. Al contrario, dopo i 18 anni va dimostrata l’incapacità per eludere la responsabilità del reo.
In termini psicologici, la responsabilità invece è considerata non un presupposto, ma una meta: far diventare le persone “responsabili” dei propri atti è un obiettivo educativo (e rieducativo). La responsabilità è collegata alla maturità e alla moralità, che non è più, come nel bambino piccolo, un insieme di prescrizioni e di divieti imposti dall’esterno, ma diviene autonoma, in quanto parte del Sé.
Nel sistema giuridico italiano si ammette che la capacità di intendere e volere (e quindi la responsabilità) può essere ridotta o del tutto annullata, da fattori diversi, attribuibili a fonti di incapacità relativa in generale al soggetto, stabilizzate nella sua personalità e quindi persistenti nel tempo (“infermità psichica”) oppure a fonti pertinenti alla specifica azione. La dichiarazione di incapacità parziale è una mediazione tra i due “linguaggi”: le categorie (giuridiche) in cui le persone vengono inserite si intersecano con altre categorie (comportamentali) che aggiungono al giudizio la dimensione della complessità tipiche delle scienze sociali.
Capacità e conseguente responsabilità vanno soppesati di volta in volta in relazione al soggetto in esame, al tipo di atto commesso, al contesto relazionale coinvolto al momento dell’atto medesimo. Il rischio è che nella valutazione giuridica della responsabilità si innestino elementi di idiograficità e di incertezza, possibili divergenze – anche radicali – tra giudici diversi, e questo mina il principio di nomoteticità dell’ordinamento giudiziario.
Pericolosità - Il codice penale distingue il reato commesso (come ‘sintomo’ di devianza in atto) e il reato potenziale (cioè la probabilità di commetterlo) definito come “attitudine alla reiterazione di fatti socialmente allarmanti”, tale da meritare interventi di prevenzione speciale, mediante neutralizzazione o riabilitazione della persona pericolosa.
Le misure di sicurezza – dalla libertà vigilata al trattamento sanitario obbligatorio, indipendenti o aggiuntive alla pena – sono mirate a far tornare (o diventare) la persona socialmente responsabile: obiettivo psicologico ed educativo.
In realtà a questa accezione psicosociale si sostituisce spesso l’accezione che vede le misure di sicurezza nei confronti della persona pericolosa come intervento di “difesa sociale” (peraltro per tempi non definibili a priori).
Tra il sorvegliare e punire di cui parlava Foucault si opta solo per il primo, o si abbina il primo al secondo. La sorveglianza e il controllo sono concetti psicosociali, che però intersecano il diritto, con esiti spesso discutibili.
Danno psichico – Si tratta di una alterazione delle abitudini di vita personale e relazionale che, anche senza patologie medicalmente accertabili (danno biologico), configura un danno non patrimoniale. In casi di danno psichico – derivante da il mobbing, stalking, stress lavoro correlato – va dimostrato il legame causale diretto tra l’evento che causa il danno e la conseguenza che sconvolge la vita del danneggiato: e questo richiede mezzi di prova anche psicologici che dimostrano spesso l’intervento di fattori multicausali.
Il contrasto fra il linguaggio giuridico e quello psicologico deriva da un piano epistemologico: la psicologia immette nel diritto nozioni complesse e non riducibili a causalità lineari, perché reazioni e controreazioni (feedbacks) comportano una causalità circolare o multi-fattoriale, che introduce nelle procedure giudiziarie non certezze ma ulteriori dubbi.
3. Capacità di intendere e di volere e la criptica nozione di ‘discernimento’. (A cura di Vania Patanè)
1. L’imputabilità è la prima condizione per esprimere la disapprovazione soggettiva del fatto tipico e antigiuridico commesso dall’agente e l’ipotesi della libertà di scelta è il presupposto logico dello stesso diritto penale. Tuttavia, parte della dottrina penalistica è portata a negare l’esistenza di una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio: si parla, piuttosto, di una libertà “relativa” o “condizionata” che presenta graduazioni diverse in funzione del livello di intensità dei condizionamenti, anche di natura inconscia, che il soggetto subisce prima di agire: quanto più forte è la spinta dei motivi, degli impulsi, degli istinti, tanto più difficile risulta lo sforzo di sottoporli al potere di autocontrollo. Secondo tale prospettiva, la libertà del volere andrebbe assunta, quindi, non come dato ontologico, scientificamente dimostrabile, ma come contenuto di un’aspettativa giuridico-sociale.
2. Il limite dell’imputabilità è fissato al compimento del quattordicesimo anno. Si tratta di una scelta di politica criminale, sicuramente arbitraria per la sua convenzionalità e la categoria dell’imputabilità minorile sconta tutte le possibili contraddizioni e ambiguità presenti in un giudizio penale fortemente individualizzato, oltre che le difficoltà di convergenza tra un’interpretazione motivazionale del comportamento, propria del codice psicologico, e una valutazione normativa, propria, invece, del paradigma giuridico. Questo rende discrezionale, in misura abnorme, tutto il percorso valutativo, consegnando alle opzioni culturali di ogni singolo magistrato il compito di definire in concreto il significato della capacità, gli ambiti di indagine e le relative metodiche di accertamento. Si utilizzano sempre più i contributi della psicologia dell’età evolutiva, secondo la quale il processo di maturazione non progredisce allo stesso modo rispetto a tutti i comportamenti dello stesso individuo nello stesso periodo, potendo progredire rispetto a determinati schemi comportamentali e ritardare rispetto ad altri, determinando l’esistenza di diversi e differenti livelli di maturità nello stesso individuo e nella stessa fase o stadio di sviluppo.
Attualmente, la responsabilità penale del minore ultraquattordicenne risulta subordinata al concreto accertamento della capacità di intendere e di volere. Invece, il codice Zanardelli poneva il “discernimento” (coscienza del carattere immorale e antigiuridico del fatto) quale condizione necessaria per l’imputabilità del minore a partire dal nono anno di età. In realtà, nonostante le buone intenzioni, la giurisprudenza e la dottrina, individuando nel concetto di maturità il nucleo essenziale della capacità di intendere e di volere del minore (e quindi della sua imputabilità), hanno, di fatto, riportato la situazione alla stessa indeterminatezza che connotava il concetto di discernimento vigente il codice Zanardelli. Concetto, peraltro, ripreso dalla recente l. n. 70 del 2024, che, modificando l’art. 25 del R.D.l. n. 1404 del 1934, prevede la possibilità di applicare misure rieducative, al minorenne che «dia manifeste prove di irregolarità nella condotta o nel carattere, ovvero tiene condotte aggressive…» financo a minori infra-dodicenni, se capaci di discernimento, senza, tuttavia, chiarire il significato preciso da attribuire a tale nozione.
3. Anche l’applicazione di una misura di sicurezza al minore non imputabile ma socialmente pericoloso è radicato non sulla responsabilità ma sulla pericolosità sociale, ossia su opinabili valutazioni prognostiche, fondate, paradossalmente, sulle stesse circostanze indicate nell’art.133 c.p. La conseguenza ha del paradossale, per soggetti non imputabili, come gli infra-quattordicenni, per i quali il giudizio di pericolosità sociale va fondato su quegli stessi elementi che rilevano per la pena e per la sua quantificazione, cioè per quella stessa sanzione penale per la quale sono ritenuti incapaci.
4. L’idoneità a rendere testimonianza. (A cura di Antonietta Curci)
Da tempo la psicologia scientifica ha abbandonato l’idea che la memoria sia un archivio ordinato e fedele degli eventi, anzi è soggetta a varie forme di errori a causa della sua natura ricostruttiva e non riproduttiva. Schachter (2022) definisce questi errori i “sette peccati” della memoria, tre di omissione e quattro di commissione. Gli errori di omissione comprendono la transitorietà, la distrazione e il blocco; gli errori di commissione riguardano l’errata attribuzione, l’effetto bias e credenze, la credenza nella persistenza dei ricordi traumatici e la suggestionabilità[2].
I testimoni di un processo sono chiamati a rievocare esperienze spesso stressanti, a limite traumatiche, in un contesto altamente formalizzato e potenzialmente ostile. La capacità mnestica di un teste è, dunque, un tema di grande rilevanza per la ricerca e le applicazioni forensi. Negli anni Ottanta, si sviluppò negli Stati Uniti un dibattito sull’accuratezza dei ricordi traumatici, che va sotto il nome di memory wars. Da una parte, alcuni ricercatori ritenevano che i traumi producano ricordi indelebili, al punto da lasciare una cicatrice nei tessuti cerebrali; all’altro, utilizzando il paradigma lost-in-the-mall (Loftus e Pickrell, 1995), altri studiosi hanno dimostrato che è possibile impiantare falsi ricordi. Gli studi più recenti sulla memoria autobiografica mostrano come i processi di memoria siano costruttivi e ricostruttivi, in quanto condizionati dalla moltitudine di fattori che intervengono a livello di codifica e di recupero (Conway e Loveday, 2015). L’esperto chiamato a valutare l’idoneità di una persona vulnerabile (es., minore, anziano, persona con disabilità ecc.) deve, pertanto, considerare la sua capacità mnestica declinata su due fronti, “l’attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità” (Cass. Pen., Sez. III, n. 8962/1997).
L’esperto, quindi, dovrà ricorrere al proprio bagaglio di conoscenze scientifiche al fine di indagare: a) le capacità cognitive generali del testimone, valutandone la competenza (o l’accuratezza) che riguarda il rapporto tra ciò che è successo e ciò che si ritiene sia successo (realtà oggettiva vs realtà soggettiva); b) la credibilità clinica, che riguarda il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e la motivazione a dichiararlo (realtà soggettiva vs realtà riferita). In questo senso, come anche definito dalle Linee Guida Nazionali per l’Ascolto del Minore Testimone (2010), la valutazione si focalizza sull’accertamento delle capacità cognitive “generali”, come memoria, attenzione, capacità di comprensione e di espressione linguistica, source monitoring, capacità di discriminare realtà e fantasia, verosimile da non verosimile, livello di maturità psico-affettiva ecc.; riguarda, tuttavia, anche le capacità “specifiche”, che corrispondono alle abilità di “organizzare e riferire un ricordo in relazione alla complessità narrativa e semantica delle tematiche in discussione ed all’eventuale presenza di influenze suggestive, interne o esterne, che possono avere agito” . Ciò che il consulente non può fare è estendere la sua valutazione al terreno della decisione giudiziaria ed esprimersi sulla credibilità del teste intesa come attendibilità rispetto ai fatti reato. La scienza cognitiva può supportare la decisione, ma il giudizio finale resta ai giudici. L’intervento dell’esperto può, in certa misura, contribuire alla formazione di quelle “massime di esperienza” (nel caso specifico psicologica) che il giudice usa per fondare il suo convincimento. Ciò che resta imprescindibile è la corretta formazione scientifica dei consulenti, che non si perda nel contrasto tra posizioni o scuole di pensiero, ma che sia in grado di fornire un contributo utile, onesto e oggettivo al giusto processo.
5. Il danno non patrimoniale. Il danno psichico e il nesso causale. (A cura di Ugo Salanitro)
Va preliminarmente osservato che non vi è impermeabilità tra il diritto e le altre culture, essendo anzi usuale che il diritto assuma nozioni e categorie tratte da altri settori della conoscenza. Tuttavia, la trasmissione non è necessitata e richiede un processo di mediazione, giacché il diritto ha la specifica funzione di risolvere conflitti di interessi, per cui non bisogna stupirsi che il giurista adotti una visione diversa del concetto utilizzato dai processi di conoscenza della realtà diffusi in ambito scientifico e sociale.
Nella sfera del danno psichico, gli psicologi tendono a sostenere che i modelli causali utilizzati dai giuristi non siano appropriati perché caratterizzati da un nesso lineare, inidoneo a leggere le tecniche di concatenazione che spiegano le conseguenze dei traumi sulle condizioni mentali delle vittime, le quali sarebbero piuttosto caratterizzate da un andamento circolare, in cui assume rilevanza la predisposizione naturale. In questa prospettiva, anche quando svolgono attività di consulenza in ambito forense, gli psicologi sembrano essere più attratti dall’idea, che percepiscono più vicina ai modelli di ragionamento scientifico, secondo la quale il danno andrebbe risarcito in modo proporzionale al contributo causale e si sorprendono nel costatare che la maggioranza dei giuristi propende per la tesi secondo la quale, anche in caso di concausa naturale, debba ricadere per intero sull’autore del fatto illecito la responsabilità risarcitoria (all or nothing rule).
In realtà, l’idea di una causalità proporzionale non è legata al mondo della psicologia ed è stata accolta in passato non solo dalla dottrina giuridica, ma anche dalla giurisprudenza di legittimità, sino a essere ripresa da ultimo dalla Cassazione con la sentenza 16 gennaio 2009, n. 975. Oggi, tuttavia, è considerata superata, essendo consolidata (ad esempio, Cass. 24 febbraio 2023, n. 5737) la diversa visione, che affonda le radici nella tradizione, di chi nega che il concorso di una causa naturale possa essere rilevante ai fini della riduzione del risarcimento: visione che trae argomento dagli artt. 1227 e 2055 c.c., i quali sono interpretati quali espressioni di una policy che intende risolvere, a favore del primo, il conflitto tra l’interesse del danneggiato incolpevole a ottenere l’integrale risarcimento del danno e l’interesse del danneggiante, al quale è imputato l’illecito, a non assumere un carico di responsabilità superiore al suo apporto causale.
È rimasto isolato anche il tentativo di tenere conto del contributo della concausa naturale in sede di determinazione del danno, avvalendosi dei poteri equitativi del giudice ai sensi dell’art. 1226 c.c., nel caso deciso da Cass. 29 febbraio 2016, n. 3893: soluzione che può ritenersi corretta, ma che avrebbe meritato altra argomentazione, poiché si discuteva di una forma di asfissia prenatale provocata da errore medico e produttiva di lesioni cerebrali che incidevano sulla condizione di un neonato già affetto da sindrome di Down. Proprio con riferimento a questa vicenda, infatti, si sarebbe potuto tenere conto che la giurisprudenza e una parte della dottrina articolano il nesso causale in due segmenti con diversi sistemi di regole: oltre al nesso tra il fatto illecito e la lesione, si rinviene una connessione tra la lesione e le conseguenze risarcibili. È in quest’ultima sfera che la giurisprudenza più recente, a partire da Cass. 11 novembre 2019, n. 28986, ha attribuito rilevanza alla preesistenza di una menomazione, sottraendo al danno, calcolato sulla condizione finale della vittima, la quota di risarcimento riferibile alla situazione preesistente.
Tuttavia, non è da questa giurisprudenza che, almeno di regola, si possono trarre argomenti per una riduzione delle conseguenze risarcitorie del danno psichico. Diverso tipo di problema ricorre, infatti, nel caso in cui il danno psichico sia stato provocato da un intervento traumatico illecito che si evolve a causa della predisposizione naturale della vittima: qui non assume rilievo, almeno in via tipica, il nesso causale tra lesione e conseguenza dannosa sulla vita di relazione, ricadendo, piuttosto, tale fatto nel segmento della concatenazione tra illecito e lesione, soggetto, come si è illustrato, alla regola all or nothing.
6. Modello giuridico e cognitivo del dolo eventuale. (A cura di Giuseppe Sartori)
Il dolo eventuale richiede che l'agente, pur non volendo direttamente l'evento, accetti il rischio che esso si verifichi come conseguenza della sua condotta. La sentenza Tyssengroup ha introdotto la teoria del bilanciamento, dove l'agente, dopo aver valutato gli interessi in gioco, accetta consapevolmente l'evento dannoso come prezzo per raggiungere il proprio scopo. La prova del dolo eventuale è indiziaria ed è basata su una serie di fattori come: 1) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa, 2) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente, 3) la durata e la ripetizione dell'azione, 3)il comportamento successivo al fatto, 4) la probabilità di verificazione dell'evento e infine 5) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione.
La sentenza Thyssenkrupp ha quindi spostato l'attenzione dal concetto di "accettazione del rischio" a quello di "accettazione dell'evento", richiedendo una maggiore attenzione alla volontà dell'agente e al suo effettivo processo decisionale. Il dolo eventuale ha come suo elemento centrale la “rappresentazione” delle possibili delle alternative, rappresentazione che è alla base della valutazione della probabilità delle conseguenze.
Le ricerche cognitive rilevanti per il dolo eventuale.
Gli studi cognitivi sfidano la presunzione di razionalità implicita nelle teorie giuridiche del dolo eventuale. Daniel Kahneman ha introdotto i concetti di Sistema 1 e Sistema 2 per spiegare le modalità di pensiero umano. Il Sistema 1 è rapido, automatico e intuitivo, mentre il Sistema 2 è lento, deliberato e analitico. La teoria dell'azione ragionata (TRA) spiega come le decisioni senza pressione temporale siano basate su valutazioni ponderate delle conseguenze e può essere vista come il corrispondente scientifico della teoria del bilanciamento adottata dalla sentenza Thyssenkrupp. Entrambe le teorie (giuridica e scientifica) presuppongono un agente razionale che valuta le conseguenze delle proprie azioni nel caso di decisioni senza pressione temporale. Il modello Tyssengroup, quindi, si può dire abbia una base scientifica quando si applica a processi decisionali che ricadono nell’alveo del sistema 2.
Tuttavia, in situazioni di emergenza o sotto pressione temporale, il cervello tende a usare strategie decisionali semplificate e impulsive (Sistema 1) , mettendo in discussione la capacità del diritto penale di valutare correttamente la volontà e l'intenzionalità dell'agente. Il Sistema 1 è rapido, automatico e intuitivo. Opera in modo inconscio e istintivo, permettendo di prendere decisioni immediate senza un grande sforzo cognitivo. Questo sistema si basa su euristiche, cioè scorciatoie mentali che ci aiutano a navigare nel mondo quotidiano. Ad esempio, riconoscere un volto familiare o reagire rapidamente a un pericolo sono compiti tipici del Sistema 1 così come ogni situazione in cui si reagisce d’impulso ad un pericolo. Tuttavia, proprio per la sua natura automatica, il Sistema 1 può essere soggetto a bias e errori di giudizio. Le scienze cognitive evidenziano come le decisioni umane siano spesso influenzate da fattori emotivi e irrazionali, aprendo nuove sfide per l'accertamento del dolo eventuale e suggerendo un approccio più integrato che tenga conto della complessità dei processi decisionali umani. In breve, quando la decisione avviene sotto pressione temporale, si dimostra empiricamente che manca la rappresentazione delle conseguenze e la loro valutazione del rischio rendendo così empiricamente inapplicabile il modello Thyssenkrupp.
Il contributo delle scienze cognitive alla comprensione del dolo eventuale offre una prospettiva innovativa, sfidando i modelli giuridici razionali. Questo apre nuove opportunità per sviluppare criteri più sofisticati per distinguere tra dolo eventuale e colpa cosciente, promuovendo un approccio ancorato ai dati empirici e scientifici disponibili.
7. Esigenze della regolazione giuridica e concetti della psicologia. (A cura di Angelo Costanzo)
Il linguaggio giuridico si serve sia del linguaggio comune, sia del linguaggio scientifico, sia di propri termini tecnici. Tuttavia, permane una differenza di obiettivi fra la conoscenza (o la terapia) e la regolazione giuridica delle condotte. Accade anche che, utilizzando termini dei quali andrebbe valutata la corrispondenza alle categorie scientifiche, il diritto produca ambiguità o che una condotta sia collocabile in due quadri di riferimento (non teorie compiute) auto-consistenti ma fra loro incompatibili[3].
Una ambiguità è produttiva, se viene risolta. Ma può anche mantenersi essere tollerata e preservata per evitare il palesarsi di incompatibilità disturbanti che richiedano scelte che non si è in grado di affrontare[4].
Del resto, se saperi diversi possono comprendere solo l’oggetto al quale i loro strumenti consentono di accedere, può fra loro stabilirsi un dialogo effettivo, individuando una lingua-franca (o lingua-ponte) per il diritto e le scienze della mente, come strumento di comunicazione tra soggetti di differente lingua-madre dotato di accettabile precisione?
Questo strumento dovrebbe privilegiare la direzione (i termini, i concetti) che va dal diritto alle scienze della mente o la direzione contraria? Chi ne ha proposto l’adozione ha ritenuto che dovrebbe basarsi su concetti neuroscientifici. Ma, presumibilmente, altre branche delle scienze della mente potrebbero proporre soluzioni. Differenti.
In ogni caso, se dei concetti giuridici non risultano abbastanza specifici da consentire una appropriata traduzione in termini dotati di significato per gli scienziati, allora gli esperti non devono fornire ai giuristi e loro opinioni sulla scorta di tali concetti.
In questi ambiti, ci si deve accontentare di una sorta di pidgin (il linguaggio che si forma mescolando lingue di popolazioni differenti, a seguito di migrazioni, colonizzazioni, commerci), che conduce a mere ipotesi su ciò che l’altra parte intendere significare, con rischi per l’adeguato trattamento dei casi giuridici[5].
Anche se non è auspicabile che la definizione dei presupposti della regolazione giuridica rimanga impermeabile alla evoluzione delle conoscenze, il legislatore e i suoi interpreti non sono tenuti a mutare le proprie categorie, perché, nel frattempo vanno emergendo nuove (non sempre consolidate) acquisizioni scientifiche[6].
Intanto, le valutazioni derivanti approccio scientifico a volte entrano surrettiziamente nei processi, travestite da massime di esperienza, con l’uso (più o meno appropriato) di termini mutuati dalle scienze della mente per introdurre opzioni soggettive, facendo leva sulla ambiguità dei significati e sulla facile traducibilità dei concetti utilizzati dallo psicologo in conoscenze diffuse (ma non per questo a tutti comuni).
Invece, le conoscenze specialistiche degli esperti non dovrebbero entrare nei processi per vie surrettizie e neanche attraverso le perizie e le consulenze in sé (che sono solo atti dei periti e dei consulenti), ma acquisite tramite l’esame degli esperti nel contraddittorio tra le parti, con il metodo dialettico, nella linea del razionalismo dialettico che informa la nostra cultura giuridica e che raccomanda di non trascurare i diversi apporti delle scienze e, al contempo, le conoscenze comuni.
[1] Incontro promosso dalla sezione di Psicologia Sperimentale della Associazione Italiana di Psicologia Sperimentale (AIP) e il Centro di ricerca sulla giustizia dei minori e della famiglia “Enzo Zappalà” dell’Università di Catania e svoltosi il 26 settembre 2024 presso il Dipartimento di Giurisprudenza.
[2] Riferimenti bibliografici: Conway, M. A. e Loveday, C. (2015). Remembering, imagining, false memories & personal meanings. Consciousness and Cognition, 33, 574-581.
Loftus, E. F. e Pickrell, J. E. (1995). The formation of false memories. Psychiatric Annals, 25(12), 720-725.
Schacter, D. L. (2022). The seven sins of memory: An update. Memory, 30(1), 37-42.
[3] G. Lolli, Ambiguità. Un viaggio fra letteratura e matematica, Bologna, Il Mulino, 2017, p. 22, 88, 146, 183 ss., 195 ss, 203.
[4] S. Argentieri, L’ambiguità, Torino, Einaudi, 2008, pp.100-113.
[5] J. W. Buckholtz -V. Reyna- C. Slobogin, A Neuro-Legal Lingua Franca: Bridging Law and Neuroscience on the Issue of Self-Control, Working Paper Number 16-32, in: Mental Health Law & Policy Journal.
[6] B., Magro, Scienze e scienza penale. L’integrazione tra saperi incommensurabili nella ricerca di un linguaggio comune, in: Archivio penale, 2019, n, 1, pp. 1-37.
Il bilancio sociale della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo
di Antonello Ardituro
Sommario: 1. Il bilancio sociale come espressione di buona prassi organizzativa degli uffici giudiziari - 2. La prefazione del Procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo - 3. La nota metodologica dell’Università Federico II - 4. La struttura del bilancio sociale della DNA.
1. Il bilancio sociale come espressione di buona prassi organizzativa degli uffici giudiziari.
Il 6 dicembre 2024 il Procuratore nazionale Giovanni Melillo ha presentato il bilancio sociale della Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo, riferito al periodo dal 1° luglio 2022 al 30 giugno 2024.
Per la prima volta, dai tempi della sua istituzione, la DNA pubblica un documento che consente di conoscere, con poche descrizioni e molti numeri, un ufficio requirente unico nell’ordinamento giudiziario italiano, che continua ad essere oggetto di interesse ed aspirazione emulativa in numerosi ordinamenti stranieri.
La visionaria intuizione del 1991 di Giovanni Falcone, magistrato a cui è dedicata la sala riunioni della sede di via Giulia a Roma, luogo ideale e fisico ove si realizza la funzione di impulso e coordinamento investigativo declinata dall’art. 371-bis c.p.p., costituisce un modello avanzato e moderno, che la lettura delle pagine del bilancio sociale restituisce in forma immediata e comprensibile tanto agli operatori del diritto, quanto ai cittadini, a cui il documento si rivolge quale strumento di responsabilità, trasparenza e, con termine appropriato, accountability[1].
Il bilancio di responsabilità sociale è considerato una brassi organizzativa, già oggetto del progetto PON 2007-2013 del Ministero della Giustizia, ed individuato come uno dei trentatré modelli di buone prassi dal Consiglio Superiore della Magistratura[2].
Il Consiglio ha evidenziato come le buone prassi organizzative siano innanzitutto espressione coerente di principi costituzionali come quelli del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.), declinato anche sotto il profilo della trasparenza e della rendicontazione, e della collaborazione attiva fra le istituzioni, prime fra tutte quelle giudiziarie ed il Ministro della Giustizia, chiamato dall’art. 110 Cost. ad organizzare i servizi; esse sono altresì declinazione della qualità dell’azione giudiziaria, come evincibile dal vincolo costituzionale del giusto processo e della ragionevole durata (art. 111 Cost.), in particolare con riferimento alle attività degli uffici di Procura, alle prese con l’esigenza di assicurare, pur con risorse limitate, una adeguata risposta all’imponente richiesta di giustizia della collettività, per concretizzare il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.).
Il Bilancio sociale si inserisce in questo quadro di riferimento, come documento di rappresentazione dell’azione dell’Ufficio che esponga, con lo strumento principale dei numeri e delle statistiche, il flusso organizzativo che trae origine dalle risorse disponibili e, passando per l’azione delle diverse articolazioni dell’ufficio, giunge a determinati risultati, consentendo altresì, nel corso stesso della sua redazione e ad una sua lettura attenta, di scorgere criticità, ambiti di miglioramento gestionale ed organizzativo, inefficienze cui porre rimedio.
Esso, caratterizzato dal principio di volontarietà, non essendo imposto da alcuna norma o prescrizione, fonda la sua capacità rappresentativa e la sua stessa autorevolezza di documento di rendicontazione nel rigore del metodo utilizzato, rispetto al quale il contributo di studiosi di accountability colma le carenze che generalmente caratterizzano in questi ambiti il mondo giudiziario.
Invero, per una corretta applicazione metodologica, le fonti di riferimento più immediate cui far riferimento sono il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 17 febbraio 2006, contenente la “Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica sulla rendicontazione sociale nelle amministrazioni pubbliche”, ed il documento che definisce lo standard di rendicontazione sociale nel settore pubblico elaborato nel 2005 dall’Associazione nazionale per la ricerca scientifica sul Bilancio Sociale (cd. GBS)[3].
Si tratta di fonti non immediatamente riferibili al contesto giudiziario, che ne è sostanzialmente privo, ma che costituiscono riferimenti imprescindibili per l’elaborazione e l’attuazione di un metodo che rispetti indicazioni scientificamente riconosciute.
La direttiva del Ministro della Funzione pubblica delinea un percorso, con indicazioni e linee guida che possono, assumendo i dovuti accorgimenti, orientare agevolmente il processo di redazione del bilancio sociale di un ufficio giudiziario[4].
Particolarmente significativo risulta il riferimento ad alcuni elementi che caratterizzano il bilancio sociale: la volontarietà; la resa del conto degli impegni, dei risultati e degli effetti sociali prodotti; l'individuazione e la costruzione di un dialogo con i portatori d'interesse; la necessità di una nota metodologica, con la quale si chiariscono finalità e contenuti del documento e si fornisce ogni altra informazione utile a contestualizzarne la funzione; il coinvolgimento della struttura di governo ed organizzativa, con la costituzione uno specifico gruppo di coordinamento che presiede le fasi del processo; l’integrazione strutturale del processo di realizzazione del bilancio sociale con le attività di programmazione e controllo, in quanto utile al loro miglioramento[5].
Allo stesso modo, lo standard di rendicontazione sociale nel settore pubblico del gruppo di studio GBS indica le finalità del bilancio sociale, che deve concorrere a: promuovere e migliorare il processo interattivo di comunicazione non auto-referenziale; esporre gli obiettivi di miglioramento ed innovazione; fornire agli organi di governo elementi per la definizione delle strategie e contribuire allo sviluppo della responsabilità sociale; fornire a tutti gli stakeholder un quadro complessivo delle performance economiche e sociali al fine di consentire loro di formarsi un giudizio motivato sul comportamento dell’organizzazione[6]. È consigliata una relazione sociale, che “deve consentire alle diverse categorie di stakeholder la valutazione dei risultati raggiunti nel perseguimento della propria missione, e la valutazione degli impatti generati sul territorio e sul benessere della collettività di riferimento. Deve inoltre consentire la valutazione del processo di rendicontazione, relativamente all’affidabilità, alla rilevanza ed all’attendibilità delle informazioni fornite, alla coerenza dei criteri di selezione e di rappresentazione dei risultati e alla partecipazione di soggetti esterni alla valutazione dei risultati medesimi”.
Il bilancio sociale della Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo è stato redatto nell’ambito di tali indicazioni, attraverso un metodo di lavoro che ha visto un ampio coinvolgimento di personale di magistratura, amministrativo e di polizia giudiziaria ed il contributo di numerose articolazioni dell’ufficio[7], e si popone di essere uno stabile strumento di accountability, finalizzato altresì a costituire occasione di riflessione interna per la programmazione, l’organizzazione e l’attuazione di un governo trasparente ed ampiamente partecipato della mission dell’ufficio, costituita dalle funzioni di impulso e coordinamento investigativo del Procuratore nazionale.
2. La prefazione del Procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo.
La prefazione del Procuratore nazionale spiega in poche righe il senso dell’iniziativa, lo spirito ad essa sottesa e la funzione del bilancio sociale della DNA:
L’idea del bilancio sociale muove dalla consapevolezza che la trasparenza dell’organizzazione e la conoscenza delle prassi di un ufficio giudiziario sono elementi essenziali della partecipazione democratica all’amministrazione della giustizia. La diffusione di informazioni qualificate e verificabili sulle attività degli uffici giudiziari partecipa significativamente alla preservazione della fiducia dei cittadini nello Stato. Dunque, l’informazione pubblica su una struttura così delicata e complessa quale la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo è alla base dell’affidamento sociale nel corretto ed efficace esercizio delle sue funzioni e nella trasparenza dell’organizzazione giudiziaria complessivamente interessata dalla sua azione. Come ovvio, i dati le informazioni suscettivi di pubblicazione non possono attenere ai contenuti dell’attività della DNA riferiti a materie oggetto di segreto investigativo.
Il lavoro contiene però informazioni, dati, rappresentazioni grafiche e brevi note esplicative che consentono tanto al cittadino che al lettore qualificato di comprendere meglio la funzione e le scelte della DNA nella promozione e nel coordinamento delle indagini in materia di criminalità organizzata, terrorismo e criminalità cibernetica, nel solco della formidabile idea di Giovanni Falcone.
Questa prima edizione riflette il lavoro svolto e i risultati conseguiti nel biennio dal 1° luglio 2022 al 30 giugno 2024 e mira a dar conto del processo di profonda riorganizzazione in atto, esponendo i risultati raggiunti e le modalità di impiego delle risorse, non solo rifuggendo da ogni rappresentazione enfatica e autocelebrativa, ma facendo emergere, col metodo della rappresentazione per numeri, le perduranti criticità e le difficoltà non superate. Con la presentazione e diffusione di questa edizione, l’esperienza di lavoro del biennio si offre a divenire oggetto ed insieme strumento di una discussione aperta fra gli operatori della giustizia e pubblica con i cittadini.
3. La nota metodologica dell’Università Federico II.
La lettura della nota metodologica, interamente redatta dall’Università, consente di apprezzare ulteriormente i “motivi di fondo della rendicontazione sociale” e “lo standard adottato ed il processo di rendicontazione”, che si riportano l’uno di seguito all’altro:
Secondo dati del Ministero della Giustizia, riferiti al periodo 2015-2022, solo 46 Procure della Repubblica su 140 (33%) e 28 Tribunali su 140 (20%) hanno realizzato un’iniziativa di rendicontazione sociale. Negli Uffici di secondo grado le percentuali sono del 41% per le Corti d’Appello (12 su 29) e del 45% (13 su 29) per le Procure Generali. A ciò deve aggiungersi che si tratta non di rado di esperienze spot, non continuative, quasi mai inserite nella struttura e nei sistemi aziendali degli Uffici giudiziari. Il presente bilancio sociale rappresenta l’esito di un processo e, ancor prima, di una maturata consapevolezza della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, di dare conto della propria attività in modo da riflettere una immagine di Ufficio meno enigmatica e maggiormente fedele alla effettività del quotidiano operato nel contrasto ai più articolati fenomeni di criminalità organizzata, terrorismo e cybercrime. Si tratta anche di un esercizio di introspezione che sembra il naturale coronamento di un più ampio processo di ristrutturazione organizzativa, avviato, in una chiave di semplificazione e innovazione, con l’insediamento del nuovo Procuratore nazionale.
Con questa iniziativa, la DNA intende sia aprirsi alla cittadinanza sia collocarsi lungo il sentiero dello sviluppo sostenibile tracciato dall’Agenda ONU 2030, da un lato ricercando forme innovative di coinvolgimento dei principali interlocutori e dall’altro inscrivendo il complesso agire investigati- vo in una cornice più larga di obiettivi e targets di sostenibilità. In riferimento all’imperativo della sostenibilità, è interessante notare che il presente bilancio contempli sia l’azione di intima riflessione della DNA circa il proprio operato (come l’Ufficio si vede al cospetto dello “specchio della sostenibilità” rappresentato dall’Agenda ONU 2030: Parte Quarta, Paragrafo 4.3) sia come la sua azione – sempre in termini di obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) – è vista dagli stakeholders (Parte Quinta, Paragrafi 5.3 e 5.4).
Sebbene non soggetta all’obbligo di rendicontare socialmente, la DNA ha scelto, pertanto, volontariamente di predisporre il presente bilancio, certificando il punto di inizio di un processo di accountability che si appresta a divenire parte integrante della sua cultura organizzativa.
----- Questo bilancio sociale, il primo nella storia della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, si riferisce al periodo 1° luglio 2022 – 30 giugno 2024 ed è stato redatto considerando la Direttiva Baccini della Presidenza del Consiglio dei ministri del 2006 e lo standard GBS (2013) per la rendicontazione sociale nel settore pubblico, con i dovuti adattamenti in funzione della specifica realtà. La redazione del documento ha visto, in forza di apposita Convenzione Quadro, il contributo dell’Università degli Studi Napoli “Federico II” che ha fornito soprattutto un supporto di ordine metodologico, oltre ad alcuni spunti di riflessione resi necessari dall’evoluzione del processo di reporting.
Al fine di permettere la comparabilità dei dati, è stata condotta – ove possibile – un’analisi per semestri (il secondo semestre del 2022, i due del 2023 e il primo semestre del 2024). Il bilancio sociale è stato sottoposto ad un esame critico da parte di soggetto terzo indipendente. L’analisi è stata svolta secondo quanto indicato nella Nota di commento di esperto e studioso esterno al processo di rendicontazione, inclusa nel presente documento. La selezione degli aspetti da considerare e dei contenuti da rendicontare è stata effettuata attraverso un’attenta analisi delle tematiche rilevanti per la DNA.
Nel dettaglio, il processo di redazione del bilancio si è sviluppato nei seguenti step operativi:
• fase di innesco: necessaria per creare commitment interno e delineare le caratteristiche essenziali del bilancio sociale. In questa prima fase si è costituito il gruppo responsabile della rendicontazione che ha, sin da subito, definito un piano di azione da seguire;
• fase di engagement: rivolta all’individuazione degli stakeholders, secondo criteri di priorità, e alla strutturazione di un dialogo promosso con gli strumenti dell’intervista e del questionario;
• fase di definizione: relativa alla selezione delle tematiche rilevanti e alla loro rendicontazione;
• fase di elaborazione: finalizzata alla raccolta dei dati e alla loro elaborazione statistica e di rappresentazione grafico-tabellare;
• fase di composizione del report: stesura del documento di bilancio, seguita da una discussione prodromica alla sua approvazione.
… Le fonti da cui sono tratti i dati e le informazioni oggetto di elaborazione sono principalmente interne alla DNA. Quando si è fatto affidamento a fonti esterne, è stato puntualmente segnalato.
4. La struttura del bilancio sociale della DNA
Il bilancio sociale è strutturato in cinque parti, per complessivi 16 capitoli.
La Parte Prima inquadra il contesto di riferimento e offre alcuni fondamentali connotati identitari dell’Ufficio; ricorda le origini e l’evoluzione del sistema di contrasto alla criminalità organizzata e l’evoluzione del quadro normativo, con l’introduzione delle nuove competenze in materia di terrorismo (d.l. n. 7 del 18 febbraio 2015, convertito con modificazioni dalla legge n. 43 del 17 aprile 2015) e criminalità cibernetica (d.l. n.105 del 2023, convertito con modificazioni dalla legge n. 137 del 9 ottobre 2023, a cui la successiva legge n. 90 del 28 giugno 2024 ha esteso l’applicabilità di gran parte delle regole processuali proprie dei procedimenti per delitti di mafia e di terrorismo).
Pone l’accento sul ruolo centrale della Banca Dati, prevista dall’art. 117-bis comma 2-bis c.p.p., intesa come il motore dell’attività di coordinamento investigativo della DNA e delle Procure Distrettuali e della quale il 5 febbraio 2023 è stato sottoscritto dal Procuratore nazionale e dai Procuratori distrettuali il primo Regolamento unitario; cita il fondamentale progetto in corso di complessiva reingegnerizzazione della Banca dati, elaborato grazie ad un gruppo di lavoro che ha coinvolto, oltre ai competenti uffici del Ministero della Giustizia, esperti della Banca d’Italia, del Consorzio interuniversitario nazionale per l’informatica (CINI), dell’Università Federico II, e finanziato, in ragione del suo rilievo strategico nel contesto della sicurezza nazionale, con fondi europei nella disponibilità del Ministero dell’Interno.
Approfondisce, poi, le innovazioni organizzative e tecnologiche, per dar conto del profondo processo di rinnovamento operato ed in corso, “in corrispondenza ad obiettive istanze di rafforzamento delle relazioni collaborative con le Procure distrettuali e della stessa effettività delle sue attribuzioni processuali e al programmatico ripudio di ogni visione sovraordinata e autoreferenziale del ruolo del coordinamento investigativo nazionale”. Un intero capitolo è dedicato alla Sicurezza e funzionalità tecnologica, nel quale sono presentati i progetti di innovazione messi in atto anche a seguito delle verifiche eseguite nel quadro dell’ispezione straordinaria richiesta dal Procuratore nazionale nel luglio 2022, e volti a perseguire un’azione di consolidamento infrastrutturale dei sistemi informativi, nonché un’azione di costante monitoraggio dei flussi di dati e informazioni rilevanti per garantire la loro sicurezza e l’integrità, nonché la correttezza e la trasparenza delle attività di raccolta ed elaborazione.
La Parte Seconda presenta i profili organizzativi e le risorse (umane, finanziarie e tecnologiche) dell’Ufficio, descrivendone l’articolazione in sezioni (Cosa nostra, Camorra, ‘Ndrangheta, Mafie pugliesi, Nuove mafie, Terrorismo), servizi (Cooperazione internazionale, Segnalazione operazioni finanziarie sospette, Ordinamento penitenziario collaboratori e testimoni di giustizia, Misure di prevenzione, Risorse tecnologiche flussi e sicurezza), e numerosi gruppi di lavoro, sia interni all’Ufficio che, declinando il metodo di lavoro condiviso con le Procure Distrettuali, anche in ambito organizzativo, attraverso l’attuazione di gruppi di lavoro congiunti. Illustra la complessa struttura amministrativa, essa stessa oggetto di profonda revisione per effetto della costante collaborazione fra Procuratore nazionale e Dirigente Amministrativo, e descrive numericamente le risorse a disposizione.
La Parte Terza compendia i principali dati rappresentativi dell’azione svolta dalla Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo, fra cui quelli relativi alle attività di impulso e coordinamento investigativo, come le riunioni di coordinamento e le missioni di collegamento presso le Procure Distrettuali; le informazioni relative ai detenuti in regime di 41-bis legge ordinamento penitenziario, ai collaboratori di giustizia, ed al trattamento delle procedure per i benefici premiali dei detenuti per delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis e comma 3-quater, c.p.p. (art. 4-bis o.p.); i dati relativi alle attività di contrasto patrimoniale, fra cui in particolare i flussi relativi alla gestione delle segnalazioni finanziarie di operazioni sospette, il cui servizio è stato radicalmente riorganizzato; le informazioni sulle numerose e qualificate attività di cooperazione internazionale.
La pubblicazione del numero dei procedimenti iscritti nel periodo di riferimento per i delitti di cui agli artt. 416 -bis c.p., 74 dpr 309/90, 270 c.p., 270-bis c.p., 600 c.p., 601 c.p., 602 c.p., consente di avere immediata percezione del grande lavoro compiuto dalle Procure Distrettuali e della costante necessità di assicurare l’effettività del coordinamento investigativo della DNA, in settori criminali fisiologicamente esondanti dagli angusti limiti delle competenze territoriali interne e finanche nazionali.
La Parte Quarta si sforza di dare contezza di alcune performance realizzative dell’Ufficio in chiave sociale, ambientale, culturale e di sostenibilità. Non irrilevante il processo di ristrutturazione edilizia della sede e di ammodernamento degli impianti energetici, in corso grazie alle risorse del PNRR, e quello di incisiva e progressiva dematerializzazione dei fascicoli e delle partiche ammnistrative, attraverso l’adozione di un protocollo informatico e la digitalizzazione dei documenti.
Sotto il profilo culturale si descrive il recupero della parte artistica della sede, in particolare attraverso il restauro della Loggia sita al primo piano e dedicata a Pier Luigi Vigna, il restauro delle arcate rinascimentali e delle superfici in marmo, il richiamo alle opere di altissimo valore storico-artistico nazionale, messe a disposizione dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e dalla Direzione Generale dei Musei del Ministero della cultura.
La Parte Quinta, a cura dell’Università degli studi di Napoli Federico II, contempla gli esiti del processo di mappatura degli stakeholders, interni ed esterni, le cui aspettative e percezioni sono state stimolate attraverso la realizzazione e somministrazione di un questionario. Si tratta di un doveroso coinvolgimento della comunità interna ed esterna all’ufficio che restituisce interessanti ed utili spunti di riflessione.
In Appendice è riportata una “Nota di commento al bilancio sociale”, a cura della Prof.ssa Lara Tarquinio, Ordinario di Economia Aziendale - Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio”, Presidente del Comitato Scientifico del GBS, professionista estranea al lavoro svolto, che riflette sulle caratteristiche del documento pubblicato e non manca di esprimere alcune raccomandazioni e suggerimenti di sviluppo futuro del bilancio sociale della Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo.
[1] Il bilancio sociale della DNA è stato curato da un gruppo di lavoro, composto da magistrati, personale amministrativo e di polizia giudiziaria coordinato, oltre che dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo, dall’autore di questo articolo Antonio Ardituro, collaboratore del PNA nelle attività dell’Ufficio Risorse tecnologiche, flussi e statistica, dalla dirigente amministrativa Marta Costantino, dal prof. Paolo Ricci, ordinario di Public Accountability dell’Università degli studi Federico II di Napoli, e dal dott. Pietro Pavone, Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche della medesima università.
[2] Con delibera del 7 luglio 2016, il Consiglio Superiore della Magistratura pubblicò il primo manuale ricognitivo delle buone prassi degli uffici giudiziari; nel manuale, il Bilancio di responsabilità sociale è indicato come modello n. 4 della Macroarea n.1, nell’ambito della più generale categoria della governance collettiva.
[3] L’Associazione nazionale per la ricerca scientifica sul Bilancio Sociale è stata istituita nell’ottobre del 2001 e dichiara la sua missione nello “sviluppo e diffusione della ricerca scientifica inerente al bilancio di sostenibilità e ai diversi aspetti attinenti alla sua rappresentazione”, rivolgendo, attraverso la partecipazione di accademici e professionisti, la sua azione verso il mondo delle imprese, della pubblica amministrazione e del terzo settore. Ha pubblicato un primo documento nel 2001, relativo allo standard GBS per la redazione del bilancio sociale delle imprese, poi aggiornato con la versione 2013, nel rispetto delle indicazioni assunte dalla commissione Europea per un modello di rendicontazione di responsabilità sociale per le imprese dell’UE. Nel 2005 ha pubblicato un documento sul bilancio sociale nel settore pubblico.
[4] Ne indica la strada la stessa definizione proposta: Il bilancio sociale è definibile come il documento, da realizzare con cadenza periodica, nel quale l'amministrazione riferisce, a beneficio di tutti i suoi interlocutori privati e pubblici, le scelte operate, le attività svolte e i servizi resi, dando conto delle risorse a tal fine utilizzate, descrivendo i suoi processi decisionali ed operativi. … Il bilancio sociale serve a rendere conto ai cittadini in modo trasparente e chiaro di cosa fa l'amministrazione per loro. Rispetto al bilancio tradizionale, che riporta dati economico-finanziari difficilmente comprensibili dal cittadino, il bilancio sociale deve dunque rendere trasparenti e comprensibili le priorità e gli obiettivi dell'amministrazione, gli interventi realizzati e programmati, e i risultati raggiunti.
[5] Secondo la direttiva, il bilancio sociale, dopo una presentazione iniziale del documento ed una nota metodologica sul processo di rendicontazione, contiene informazioni relative ai seguenti ambiti: Valori di riferimento, visione e programma dell'amministrazione, con cui l'amministrazione esplicita la propria identità attraverso i valori, la missione e la visione che orientano la sua azione, chiarisce gli indirizzi che intende perseguire e le priorità di intervento; l'amministrazione rende conto del proprio operato nelle diverse aree di intervento e dei risultati conseguiti in relazione agli obiettivi dichiarati; risorse disponibili e utilizzate: l'amministrazione da conto delle risorse utilizzate, delle azioni poste in essere e dei risultati conseguiti con la loro gestione.
[6] In particolare, ciò significa dare conto dell’identità e del sistema di valori e della loro declinazione nelle scelte, nei comportamenti gestionali nonché nei risultati e negli effetti, indicando lo scenario e il contesto di riferimento, il sistema di governance e l’assetto organizzativo; i principi e i valori di riferimento che ispirano la missione, gli obiettivi e i comportamenti; le strategie e le politiche.
[7] Si tratta di un metodo di lavoro, ulteriormente affinato e consolidato, già sperimentato in due edizioni del bilancio sociale della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli: le edizioni 2018-2019 e 2020-2021 pubblicate dall’allora Procuratore Melillo, con la medesima collaborazione dell’Università Federico II di Napoli.
Diamanti di Ferzan Özpetek
Recensione di Dino Petralia
Una lunga tavola imbandita con sapore di scampagnata apre l’ultimo lavoro di Özpetek, per chiudersi poi allo stesso modo in un balzo temporale che corre tra una didascalica riunione del regista con i suoi attori e un pranzo comunitario in bilico tra celebrazione e dopolavoro. Nel mezzo una trama esteticamente perfetta, calibrata su un acquerello caratteriale pressoché tutto al femminile, dove le pulsazioni esistenziali di ogni protagonista ruotano in un girotondo di accadimenti familiari di potenza e riscatto intorno ad un binomio anch’esso al femminile, le sorelle Alberta e Gabriella Canova, titolari di una sartoria romana specializzata in costumi di cinema e teatro; donne entrambe lacerate da un abisso sentimentale a diverso titolo responsabile di un dolore immanente e virale.
Non è necessario vedersi quando ci si vuole bene, è il manifesto esistenziale che Özpetek proietta sull’intera sequenza filmica, frammentandolo nel racconto delle difficoltà relazionali del figlio adolescente della capo sarta Nina, nel riconoscente amore della modista Paola verso il compagno turco da tempo lontano e sublimato al centro nell’ormai eterna assenza di Amelia, figlia di Gabriella, morta in un incidente stradale, e nell’irrisolto legame parigino tra Alberta, indurita dal vuoto sentimentale, e l’imprenditore Cavani. Una frammentazione emotivamente ricercata e pulviscolare, quella del regista, non solo di privazioni e dolore, ma anche di riscatti e rinascite di donne, in cui a far da contraltare si muovono figure maschili violente e meschine, ridicole e comunque perdenti, ma ancor peggio sorde e cieche del loro intorno. Ma di quel proclama altrettanto vero è tuttavia anche il contrario; ed è lo stesso regista a rimarcarlo nell’esaltazione della solidale comunità artigianale della sartoria e del microcosmo affettivo, intriso di bisogno di vicinanza, proprio delle due sorelle. Una prossimità ancora una volta tutta al femminile, espressione di una potenza dominante pronta a deflagrare, capace di scardinare il disagio e neutralizzare il tormento, a patto di una soluzione eticamente risolutrice, benefica e pacificante, o pronta ad esplodere tra le pieghe di un talento nascosto, tanto sorprendente quanto provvidenziale, quello di Beatrice, nipote post sessantottina della ricamatrice Eleonora, svelatasi geniale modista. Quella stessa vicinanza conviviale, anticipata in esordio e magnificata alla fine, risolutiva pure dell’eterna frizione tra teatro e cinema, impersonata dalle due rispettive primedonne, che fa da sfondo nel contemporaneo impiego delle sarte di Casa Canova nella realizzazione dei distinti costumi di scena.
E quanto ai costumi, azzeccata allegoria del raffinato scenario esistenziale, è la realizzazione dell’abito della protagonista del film curato dalla premiata ma rabbiosa costumista Bianca Vega a campeggiare nel finale; un costume volutamente ricco e sontuoso, destinato a simboleggiare, così riepilogando e sintetizzando i passaggi rivoluzionari di ogni singola artigiana e delle loro titolari, come in un collier di diamanti, l’importanza e la preziosità del riscatto femminile, qui celebrato da Özpetek in forma di primato.
Difficile distinguere infine il tratto recitativo del ricco cast di note e provette attrici, valendo per tutte la menzione dell’ottima prova di Vanessa Scalera (l’isterica Vega) e di Mara Venier (la cuoca Silvana), entrambe assai versate in ruoli complessi per sguardi e coloriture di quella umanità di donna, travolgente e protettiva, loro imposta dal copione.
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