ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Natura del rapporto giuridico e limiti all’efficacia nel tempo delle pronunce di incostituzionalità (nota a Cass., sez. I civ, 16 aprile 2025 n. 10057)
di Ludovico Di Benedetto e Fabio Conti[i]
Sommario: 1 - Sintesi del fatto; 2 - Il quadro normativo rilevante; 3.1 - I cardini della decisione: la natura del rapporto giuridico; 3.2 - Segue: i rapporti esauriti e i limiti all’efficacia temporale delle pronunce di incostituzionalità; 4 - Conclusioni: le peculiarità del rapporto depositeria-amministrazione.
1. Sintesi del fatto
La ricostruzione della vicenda sottesa alla pronuncia in commento passa per il collegamento di plurime pronunce del giudice ordinario.
Il contenzioso origina dal ricorso proposto dalla società privata per ottenere la differenza tra quanto liquidato dall’amministrazione prefettizia ai sensi dell’art. 38 del d.l. 269/2003[ii] e il maggior importo spettante applicando le tariffe di cui all’art. 12 del dpr 571/1982, ratione temporis applicabili a seguito della declaratoria di incostituzionalità del menzionato art. 38 (C. cost. n. 92 del 2013). Gli emolumenti derivano dall’attività di custodia dei veicoli sequestrati in via amministrativa a seguito di violazione del codice della strada svolta nel corso degli anni dalla ricorrente.
Questo primo giudizio si è concluso a sfavore del privato (ord. Trib. Roma n. 2834 del 2020), avendo l’organo giudicante ritenuto che il rapporto tra amministrazione e depositeria fosse esaurito in quanto non era stato avversato davanti al giudice amministrativo il provvedimento della prefettura; come tale rimaneva insensibile alla naturale efficacia retroattiva della pronuncia di incostituzionalità.
Proposto appello avverso la decisione di prima cure, il giudice di secondo grado (sent. App. Roma n. 3881 del 2024) ha statuito l’invalidità della precedente delibazione, decidendo a favore della società appellante. A parere del collegio, infatti, la relazione giuridica tra parte privata e soggetto pubblico - connotata da diritto-obbligo - non poteva dirsi esaurita, visto che, vertendosi in tema di quantificazione del pagamento di somme dovute per l’espletamento di un servizio pubblico, non avrebbe avuto alcun rilievo l’impugnazione della decisione amministrativa di cui all’art. 38. Di esaurimento del rapporto si sarebbe potuto allora parlare solo se fosse occorsa una res iudicata o una prescrizione estintiva decennale, entrambe assenti nella fattispecie de qua.
A questo punto, il contenzioso è proseguito innanzi alla Suprema Corte di cassazione con la pronuncia in analisi.
Il gravame mosso dalla parte pubblica è stato proposto attorno, ancora una volta, al tema della natura del rapporto giuridico e, di conseguenza, all’esaurimento del medesimo ai fini dell’efficacia della sentenza della Consulta. Ebbene, il supremo consesso di legittimità ha dato torto all’amministrazione, avallando il dictum di secondo grado. Secondo la Corte, il meccanismo congegnato dal legislatore con l’art. 38 del d.l. 269/2003 doveva ritenersi composto di due momenti, uno pubblicistico sull’an debeatur fissato dal provvedimento prefettizio, fondante interessi legittimi e dunque di competenza del giudice amministrativo, ma, per decorrenza dei termini, oramai insensibile a qualsiasi sopravvenienza, persino alla declaratoria di incostituzionalità; e uno privatistico sul quantum debeatur derivante dallo stesso art. 38, concernente un diritto di credito soggetto alla giurisdizione ordinaria e ancora permeabile alle pronunce della Corte costituzionale, in quanto non prescritto (né coperto da giudicato).
La pronuncia in parola si mostra quindi di primario interesse per comprendere la natura del rapporto incardinato sull’art. 38 cit. e per trattare del tema, caro al diritto costituzionale, dei limiti all’efficacia nel tempo delle sentenze del giudice delle leggi. Per una migliore analisi della fattispecie, merita un excursus la cornice normativa che fa da retroterra alla vicenda in oggetto; sarà così più agevole comprendere le tematiche connesse.
2. Il quadro normativo rilevante
Il diritto comune in materia di gestione dei beni mobili sequestrati in via amministrativa è fissato nel dpr 571/1982[iii]. In tema di autoveicoli, tale risalente testo trova oggi applicazione in ogni caso in cui, per qualsiasi ragione, non vi sia spazio per la normativa del codice della strada[iv].
A fronte della regola generale di cui all’art. 7 c. 1 del dpr 571/82, che prevede la custodia dei beni sequestrati presso l’ufficio cui appartiene l’organo sequestrante, le disposizioni successive, assecondando il principio derogatorio scolpito all’art. 7 c. 3, prescrivono l’individuazione di un soggetto pubblico o privato che assuma le vesti di custode ad hoc (art. 8 c. 1). È il prefetto territorialmente competente a procedere ad una ricognizione degli operatori che possono ricoprire quest’ultimo incarico, a cadenza annuale (art. 8 c. 2).
Il profilo attinente alle spese di custodia è regolato dagli artt. 11 e 12. Nel dettaglio, una volta che sia divenuto inoppugnabile il provvedimento di confisca oppure che sia disposta la restituzione del bene, il custode, con apposita istanza, può chiedere la liquidazione del quantum all’amministrazione prefettizia, che lo calcola sulla base delle tariffe fissate dal prefetto (e degli usi locali). È fatto comunque salvo il diritto di ripetizione di quanto pagato a danno del trasgressore (art. 11 c. 2).
Agli artt. 13, 14 e 16 si rinviene la disciplina della restituzione delle res[v], mentre all’art. 15 viene sancita la regola secondo cui, divenuto definitivo il provvedimento ablatorio, il bene sequestrato va alienato (o distrutto)[vi].
Col tempo, il meccanismo immaginato dal dpr 571/82, a causa della carenza di risorse e della lentezza delle procedure, ha portato ad un considerevole aumento dei veicoli depositati presso custodi privati, con corrispondente lievitazione degli oneri finanziari. Onde far fronte a questa emergenza e facilitare l’avvio del nuovo sistema eretto dal codice della strada, il legislatore è intervenuto, inaugurando la fase delle alienazioni straordinarie.
Con l’art. 38, commi 2 e seguenti, del d.l. 269/2003[vii] - da cui origina il nostro contenzioso - è stata costruita una procedura di alienazione coattiva ope legis dei veicoli sequestrati[viii] aventi precise caratteristiche indicate dal testo di legge. Nello specifico, il comma 2 delimita l’ambito applicativo oggettivo, prevedendo che la procedura coinvolga esclusivamente i mezzi sequestrati a seguito di violazione del codice della strada[ix], immatricolati da almeno 5 anni e collocati presso i depositi di cui al dpr del 1982 da almeno 2 anni[x], purché sprovvisti di interesse storico o collezionistico. Ebbene, tali mezzi sono ex lege alienati ai medesimi custodi, anche ai soli fini della rottamazione, secondo elenchi disposti su base provinciale dalle prefetture, persino se non sottoposti a confisca e carenti della documentazione sullo stato di conservazione. L’efficacia traslativa discende dalla notificazione al depositario.
Il quantum della cessione è calcolato dalle amministrazioni in modo cumulativo, tenuto conto delle condizioni di conservazione, del tipo di veicolo, degli eventuali oneri di rottamazione (comma 4), compensandolo con i costi di custodia che, per espressa eccezione legislativa (comma 6), sono rivisti in deroga (e a ribasso) delle tariffe di cui al dpr 571/82.
Come accennato in apertura di questo scritto, il sistema brevemente descritto è stato tuttavia colpito da censura di incostituzionalità, con la sentenza n. 92/2013. In sintesi, il giudice delle leggi ha radicato la pronuncia sul fatto che col decreto-legge richiamato si sia snaturata l’originaria relazione p.a.-custode, imponendo a quest’ultimo - in assenza del suo consenso - di rendersi cessionario dei veicoli, derogando per giunta in peius alle tariffe che regolavano il suo corrispettivo. L’intervento legislativo ha, in questo modo, frustrato l’aspettativa del privato, aggiungendo oneri non prevedibili ad un rapporto di durata e comportando, peraltro, una sperequazione tra rapporti di custodia che, in quanto concernenti veicoli immatricolati o detenuti da più tempo, rimangono assoggettati al regime del 1982 e quegli altri che, seppur esauriti, rientrando nella cornice applicativa delineata, sono regolati dal decreto del 2003. Sebbene sia dunque pacifico l’assunto che una norma retroattiva in materia extrapenale possa essere costituzionalmente legittima, nella specie difetta quel fondamentale requisito di ragionevolezza (art. 3 Cost.), declinato nei termini di un giusto bilanciamento tra le posizioni in gioco, che avrebbe reso immune da vizi la novella.
La normativa comune, fissata dal dpr 571/82, ha visto così ampliarsi il suo raggio di applicazione, essendo stata invalidata la norma speciale per opera del giudice delle leggi[xi]; di conseguenza, avrebbero dovuto applicarsi le tariffe custodiali ratione temporis vigenti di cui all’art. 12, al posto dei criteri di calcolo fissati dal ricordato art. 38 c. 6. Che è quanto poi domandato dall’attore nella fattispecie in commento[xii].
3.1. I cardini della decisione: la natura del rapporto giuridico
L’ordinanza in discorso poggia la sua delibazione su due ordini di ragioni, intimamente connessi: la natura privatistica del rapporto tra depositeria e amministrazione e il suo mancato esaurimento.
Partiamo dal primo segmento del ragionamento del collegio, ossia dalla natura del rapporto. Secondo la Cassazione, essa sarebbe identica sia che si versi nel sistema ordinario di gestione dei beni sequestrati fissato dall’art. 8 del dpr 571/1982, sia che si applichi il modello eccezionale di cui all’art. 38 del d.l. 269/2003. Questa equivalenza non pare convincente.
L’inquadramento giuridico della natura del rapporto che si instaura tra prefettura e custode in forza del sopra citato art. 8 non è invero operazione facile. Da un canto, troviamo i custodi che sono, testualmente, “obbligati” a conservare il mezzo e per la cui attività hanno diritto ad un compenso monetario; dall’altro l’ente pubblico che, in base al dato legislativo, “individua” e “riconosce” i soggetti a cui affidare la custodia. Sulla sola scorta del dato letterale, dunque, parrebbe che la prefettura sia chiamata ad emanare un provvedimento meramente accertativo; eppure, un’interpretazione sistematica e teleologica porta alla diversa conclusione che si tratti di atto costitutivo, della specie delle autorizzazioni. Difatti, con la sua attività, la prefettura amplia in senso favorevole la sfera giuridica dei custodi, conferendo loro la possibilità di essere coinvolti nel servizio di conservazione dei veicoli, su loro istanza e, dunque, sulla base di una loro precisa manifestazione di volontà; possibilità che in precedenza non potevano all’evidenza sfruttare, a causa di limiti giuridici.
A prescindere dalla natura ricognitiva o costitutiva dell’intervento pubblico, in ogni caso è certo che la relazione de quaè autoritativa; e anche l’ordinanza in commento è del medesimo avviso.
L’autorizzazione, più precisamente, si potrebbe atteggiare a precondizione di un rapporto paritetico tra p.a. e custode, fonte di reciproche obbligazioni di stampo negoziale (art. 1766 e ss. c.c.)[xiii], specialmente sul versante dei corrispettivi, ciò che avviene comunemente in materia di servizi pubblici. Giova peraltro rammentare che, come riconosce il giudice della nomofilachia, in C. cost. 92/2013 si parla di rapporto iure privatorum, derivante da un accordo contrattuale. È pur vero che i contratti della p.a. vanno formati per iscritto a pena di nullità (art. 1350 c.c. e artt. 16 e 17 r.d. 2440/23) e, nella fattispecie, manca un testo negoziale. Pertanto, si potrebbe pensare di inquadrare la situazione in un rapporto obbligatorio ex lege oppure in un contratto di fatto, che ripete la disciplina codicistica per il solo profilo della relazione bilaterale[xiv].
Pure su questo aspetto, dunque, al di là di queste ultime criticità, nella sostanza, il dictum della Cassazione pare assecondabile. Lo è meno quando applica lo stesso ragionamento in riferimento all’alienazione straordinaria di cui al d.l. del 2003.
In questa evenienza, a nostro avviso, il rapporto tra amministrazione e depositeria è unitario e integralmente attratto alla sfera del diritto pubblico, connotato, da un lato, da un potere autoritativo conferito dalla legge al fine di contrarre l’esposizione debitoria maturata negli anni (a mezzo dell’alienazione-compensazione), e, dall’altro, da un interesse legittimo della depositeria al corretto impiego del medesimo.
Qui, infatti, non si tratta più dell’espletamento di un servizio di interesse generale a cui fa da contraltare un diritto soggettivo di credito, ma di un’alienazione coattiva ope legis di certi beni a favore della depositeria che ne aveva assunto la custodia. L’autorizzazione di cui al dpr 571 cit. rimane sullo sfondo, come presupposto di fatto valido per individuare, in primo luogo, i soggetti destinatari dell’alienazione e, in secondo luogo, i veicoli da cedere; non assume invece alcun ruolo nel colorare la relazione alienante-alienatario.
Il provvedimento di liquidazione ex art. 38 è pedissequo adempimento della legge e possiede tutti i caratteri propri del provvedimento amministrativo idoneo a modificare situazioni giuridiche altrui, senza necessità di alcun consenso del destinatario.
Che i due contesti siano ben distinti, lo ammette espressamente il collegio giudicante, nel momento in cui qualifica come “innovazione”[xv] del rapporto l’intervento del legislatore del 2003: appunto, sostituzione legale della preesistente relazione quasi negoziale, con una nuova di matrice autoritativa. L’elemento discriminante tra le due sta in questo, che mentre nella prima il soggetto privato esprime la sua volontà di inserirsi nel circuito delle depositerie amministrative, formalizzando un’istanza che spetterà alla prefettura vagliare discrezionalmente; nella seconda, invece, questo non avviene: la depositeria - già autorizzata - non può evitare l’alienazione e i connessi pagamenti, se non avversando l’atto d’imperio davanti al giudice amministrativo, ciò che ha rappresentato peraltro l’elemento cruciale della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 38.
A quest’ultimo proposito, inoltre, non è affatto corretto ritenere, come fa l’ordinanza, che l’intervento della Consulta sia ricaduto “solo sulle disposizioni che trattavano del corrispettivo dell’alienazione al custode-acquirente”[xvi], dal momento che il dictum del giudice delle leggi, colpendo il comma 2 dell’art. 38, ha riguardato primariamente il meccanismo sostanziale di (imprevedibile e irragionevole) cessione coattiva e, solo in seconda battuta, il profilo del compenso.
Nemmeno pare convincente la scissione proposta dal giudice di legittimità tra la fase sull’an - pubblicistica - e quella sul quantum - privatistica. Questo distinguo è coerente se si guarda all’ordinaria relazione radicata sul dpr del 1982. Non lo è rispetto all’alienazione separata, dove il pagamento (di norma in compensazione col prezzo della cessione) è un tutt’uno, sia dal punto di vista formale che sostanziale, con l’alienazione. Elementi utili in tal senso si evincono dalla vicenda sottesa la sent. n. 8182 del 2023 del Consiglio di Stato, espressamente accantonata dalla Cassazione, sulla base dell’errore processuale di fondo della mancata eccezione di difetto di giurisdizione. Il Consiglio di Stato, in quel contenzioso originato dall’impugnativa del provvedimento prefettizio ex art. 38, ha negato la distinzione tra una potestà valutativa sull’an debeatur ed una sul quantum.
Il giudice amministrativo ha interpretato la normativa in materia come fonte di un unitario potere, da riversare in un solo atto provvedimentale, non scorporabile. Infatti, in quella sede, dichiarata annullata la statuizione della pubblica amministrazione, quest’ultima doveva riaprire l’intero procedimento valutativo.
Ora, secondo la teoria generale del diritto, il potere giuridico è da annoverare tra le posizioni soggettive[xvii]vantaggiose e dinamiche. Esso consiste nella capacità, riconosciuta necessariamente dalla legge[xviii] in capo ad un soggetto, di incidere unilateralmente sulla realtà normativa con un atto consapevole, creando, modificando o estinguendo situazioni giuridiche. Chi ne è titolare viene a trovarsi in una posizione di preminenza e può liberamente decidere di concretizzare il potere in certi comportamenti, i quali, una volta attuati, muteranno la situazione preesistente[xix]. Il bene sotteso al potere è proprio la modificazione della realtà giuridica.
Il potere trova il suo terreno d’elezione in un contrasto giuridico tra interessi. L’ordinamento conferisce primazia ad uno di essi non risolvendo direttamente il conflitto (come avviene per i diritti soggettivi) ma consentendo, tramite norme strumentali, ad un soggetto - il titolare del potere, appunto - di emanare un comando volto a comporre il dissidio.
I suoi caratteri tipici sono i seguenti: imprescrittibilità, non venendo meno col tempo (ma la legge potrebbe fissare un termine di decadenza); inalienabilità, non essendo deducibile in atti dispositivi; non tutelabilità giuridica, non essendo passibile di per sé di azioni giudiziali (persino di accertamento mero: art. 24 Cost.), potendo prescriversi, alienarsi o tutelarsi solo il diritto relativo ai singoli beni, giammai il potere come tale; e, quel che qui più rileva, unitarietà, dato lo scopo cui esso è servente[xx].
Si faccia infatti attenzione: la posizione di potestà è unica, pur essendo molteplici le forme concrete in cui si può inveterare. Semmai è la discrezionalità che, in base al disposto legislativo, può riguardare diverse sfaccettature dell’esercizio concreto del potere (an, quid, quando, quomodo), ma quest’ultimo rimarrà sempre un qualcosa di unitario.
Pertanto, laddove il Consiglio di Stato ha ripudiato la scissione tra un potere sul se ed un altro sul quanto, ha affermato cosa condivisibile e applicabile al presente caso, perché il potere costruito dalla legge è un tutt’uno ed è destinato ad un fine unico (nel caso di specie, il pagamento delle somme).
3.2. Segue: i rapporti esauriti e i limiti all’efficacia temporale delle pronunce di incostituzionalità
Il secondo perno della decisione in commento si appunta, come accennato, sul tema dell’efficacia temporale delle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale. La questione costituisce, sin dalla nascita della Corte costituzionale, un terreno di costante riflessione dottrinale[xxi] e di persistente problematicità ermeneutica anche nella più recente esperienza giurisprudenziale[xxii].
Un rapido excursus del quadro normativo permette di cogliere appieno la complessità sistemica del tema. L’art. 136 Cost. prevede che, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la disposizione colpita dalla pronuncia perda efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Una formulazione apparentemente chiara, ma che si è subito rivelata foriera di ambiguità interpretative: intesa in senso strettamente ex nunc, essa avrebbe impedito al giudice a quo di applicare la pronuncia della Corte ai rapporti ancora pendenti, determinando una frattura tra il sindacato costituzionale e la tutela effettiva delle situazioni soggettive. Ne sarebbe derivata, altresì, una grave disfunzione del sistema, disincentivando le parti a promuovere l’incidente di costituzionalità, poiché la norma dichiarata illegittima avrebbe continuato a produrre effetti sino alla formale caducazione.
Da qui la necessità di un ripensamento sistematico sulla portata temporale delle decisioni di accoglimento. Tale esigenza trovò risposta nell’interpretazione evolutiva dell’art. 136 Cost., operata per il tramite dell’art. 30 c. 3 l. n. 87/1953, il quale stabilisce che le norme dichiarate incostituzionali “non possono avere applicazione” dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Con tale precisazione, il legislatore ha consentito una lettura sostanzialmente ex tunc dell’efficacia della pronuncia ablativa, restituendo coerenza sistemica al sindacato di costituzionalità, concepito non come fonte di innovazione normativa ma quale strumento di rimozione di norme invalide sin dall’origine.
Il rapporto tra l’art. 30 c. 3 della legge del 1953 e l’art. 136 della Costituzione è stato oggetto, fin dagli albori, di numerosi arresti della Corte costituzionale[xxiii], che hanno affrontato in profondità la più ampia questione dell’efficacia temporale delle pronunce di illegittimità costituzionale, riconducendo sin dall’origine la declaratoria di accoglimento al modello concettuale della decisione di annullamento. Al contempo, il giudice delle leggi ha più volte sottolineato la distinzione strutturale tra l’abrogazione e la dichiarazione di incostituzionalità: mentre la prima - evento ordinamentale fisiologico - determina la cessazione della vigenza della norma solo a partire dall’entrata in vigore della norma abrogante; la seconda - vicenda ordinamentale patologica - incide direttamente sull’esistenza giuridica della norma sin dall’origine, determinandone la cessazione di efficacia ex tunc, ma con effetti giuridici che decorrono dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza. Da tale premessa la giurisprudenza costituzionale ha desunto la possibilità che la pronuncia incida anche su rapporti giuridici sorti anteriormente, salvo i limiti rappresentati dal giudicato, dalle eccezioni previste dalla legge e dalle situazioni giuridiche ormai consolidate e divenute intangibili.
A partire dagli anni Sessanta, infatti, sia la giurisprudenza costituzionale[xxiv] che quella di merito[xxv] hanno progressivamente elaborato il concetto di rapporto esaurito, individuandolo quale imprescindibile limite alla retroattività delle pronunce di accoglimento. Con tale espressione si fa riferimento a quelle situazioni giuridiche, sorte sotto la vigenza della norma dichiarata incostituzionale, che si sono consolidate per effetto di eventi ai quali l’ordinamento riconosce efficacia definitiva. Rientrano in questa categoria, a titolo esemplificativo, le decisioni giudiziarie passate in giudicato, i provvedimenti amministrativi non più impugnabili, il completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, nonché il decorso dei termini di prescrizione o decadenza, che impediscono l’esercizio di qualsiasi azione o rimedio. La ratio di tale impostazione risiede nell’esigenza di salvaguardare la stabilità e la certezza del diritto, evitando che la declaratoria di illegittimità costituzionale possa incidere retroattivamente su situazioni ormai cristallizzate e sottratte a ogni ulteriore contestazione. Tale principio opera in modo generale e trasversale: nessuna decisione di accoglimento della Consulta può incidere su situazioni ormai definite e concluse prima della pubblicazione della pronuncia stessa.
Sul piano sistematico, pertanto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale produce effetti retroattivi, ma in modo temperato e circoscritto, senza compromettere gli assetti giuridici divenuti irrevocabili. In tal modo si realizza in concreto il limite dei rapporti esauriti, quale strumento di bilanciamento tra l’esigenza di rimuovere dall’ordinamento le norme contrarie alla Costituzione e la necessità di preservare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici consolidati.
Per completezza, va rilevato come, nel tempo, la dottrina[xxvi] abbia iniziato a manifestare crescente perplessità verso una rigida applicazione del principio di retroattività delle sentenze di accoglimento, prospettando l’esigenza di una graduazione degli effetti temporali in funzione di un più attento bilanciamento tra i valori costituzionali coinvolti. In tale ottica, si è sostenuto che la retroattività non debba essere intesa come regola assoluta e inderogabile, ma piuttosto come principio suscettibile di modulazioni finalizzate a garantire la massima tutela dell’ordinamento costituzionale violato, senza ledere in modo irreparabile altri principi di pari rango. Il dibattito si è intensificato con le pronunce nn. 10 e 70 del 2015 della Corte costituzionale. Con la prima[xxvii], la Corte ha riconosciuto espressamente la possibilità di limitare gli effetti retroattivi della propria decisione, in quanto necessaria per evitare la compromissione irreparabile di diritti o valori costituzionali concorrenti. Di segno opposto la sentenza n. 70[xxviii], con la quale la declaratoria di illegittimità è stata pronunciata senza modulazioni, con effetti integralmente retroattivi ex tunc.
In tale contesto teorico e giurisprudenziale si colloca l’ordinanza qui in commento, che rappresenta un’importante occasione di verifica concreta del perimetro applicativo del principio di retroattività delle decisioni di illegittimità costituzionale, nonché del valore sistemico attribuito alla categoria dei rapporti esauriti. La Suprema Corte, pur consapevole della natura eccezionale della disciplina dettata dall’art. 38 del d.l. n. 269/2003, ritiene che la declaratoria di incostituzionalità contenuta nella sentenza n. 92/2013 della Corte costituzionale abbia riaperto la possibilità per il depositario di agire in giudizio al fine di ottenere la differenza tra quanto percepito sulla base del regime forfettario e quanto sarebbe spettato in base alle tariffe ordinarie. Tale ricostruzione si fonda sulla qualificazione del credito vantato dal custode come diritto soggettivo perfetto e, in quanto tale, non intaccato dal decorso del tempo né dalla mancata impugnazione del provvedimento amministrativo di liquidazione. Tuttavia, un simile approccio solleva non pochi interrogativi, specie se confrontato con l’elaborazione giurisprudenziale consolidata in tema di rapporti esauriti, così come esaminata nell’ambito di questo paragrafo. La Corte costituzionale ha infatti ripetutamente chiarito che l’effetto retroattivo della pronuncia di illegittimità costituzionale, pur avendo natura generale, incontra precisi limiti di ordine sistemico e assiologico, fra i quali assume rilievo primario la salvaguardia delle situazioni giuridiche divenute intangibili o comunque della stabilizzazione degli effetti giuridici prodotti. Nel caso di specie, la vicenda si caratterizzava per la presenza di un decreto prefettizio che aveva formalmente liquidato il compenso e la cui esecuzione, mediante integrale pagamento, risultava già avvenuta da parte dell’amministrazione, in un momento anteriore rispetto alla pubblicazione della sentenza n. 92/2013. Tali circostanze, alla luce dei principi elaborati dalla Corte costituzionale, sembrerebbero integrare una tipica ipotesi di rapporto esaurito, insuscettibile di essere riaperto a seguito della pronuncia di incostituzionalità, proprio in virtù dell’esigenza di garantire certezza e stabilità all’ordinamento. L’ordinanza in analisi, pur animata dall’intento di assicurare un pieno ristoro a favore della depositeria sembra così ridimensionare la funzione garantistica del principio dei rapporti esauriti, finendo per attribuire alla pronuncia costituzionale un’efficacia espansiva tale da incidere su situazioni giuridiche ormai definite e, fino ad allora, non più contestate. In questa prospettiva, l’arresto della Cassazione sollecita una riflessione più ampia sul ruolo della Corte costituzionale come custode della legalità sostanziale e sul margine di discrezionalità interpretativa spettante ai giudici comuni nell’individuare il punto di equilibrio tra effettività del sindacato costituzionale e garanzia della certezza del diritto. Si conferma quanto ancora aperta e complessa sia la questione dell’efficacia temporale delle sentenze ablative e, in particolare, del difficile bilanciamento tra il principio di retroattività e la stabilità dei rapporti giuridici che il concetto di esaurimento intende tutelare. Essa richiama, in ultima analisi, la necessità di un uso ponderato e coerente di questo principio, onde evitare che il ripristino della legalità costituzionale si traduca paradossalmente in una lesione dell’affidamento legittimo e dell’ordine giuridico già stabilizzato.
4. Conclusioni: le peculiarità del rapporto depositeria-amministrazione
A questo punto possiamo sintetizzare la motivazione della decisione qui in oggetto, al fine di chiarire l’iter logico-argomentativo seguito dalla Corte di cassazione e proporre alcune conclusioni.
L’ordinanza ribadisce diffusamente la qualificazione del credito vantato dal custode come diritto soggettivo perfetto, richiamandosi espressamente alla sentenza della Corte costituzionale n. 92/2013. Tale impostazione, per quanto condivisibile sotto il profilo della tutela della posizione delle depositerie, le cui prerogative erano state significativamente alterate dall’introduzione della disciplina eccezionale di cui al d.l. n. 269/2003, suscita tuttavia alcune riserve nella sua automatica estensione alla distinta pretesa creditoria relativa alla “corretta determinazione del compenso” - per riprendere le parole della stessa Corte di cassazione[xxix]. Come già rimarcato, il provvedimento prefettizio di alienazione straordinaria, adottato ai sensi dell’art. 38 del d.l. n. 269/2003, presenta i tratti tipici dell’atto amministrativo autoritativo. In questa ottica, quindi, la posizione della depositeria si configura quale interesse legittimo volto a pretendere il corretto esercizio del potere discrezionale attribuito all’amministrazione. Indissolubilmente collegata a tale fase è, però, anche quella della liquidazione delle spese di custodia. La separazione operata dall’ordinanza tra la fase di alienazione (ritenuta eventualmente esaurita per mancata impugnazione) e quella della determinazione del compenso appare difficilmente sostenibile: la disciplina speciale dell’art. 38 configura infatti un procedimento unitario, caratterizzato da un nesso funzionale inscindibile tra l’esercizio del potere amministrativo volto alla cessione coattiva dei veicoli e la contestuale definizione dell’importo spettante al custode, come peraltro sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa più avveduta[xxx].
Ancor più rilevante è il principio, ribadito dal Consiglio di Stato, secondo cui non è ammissibile scindere artificialmente il procedimento di individuazione dei veicoli oggetto di alienazione da quello concernente la determinazione del corrispettivo spettante al custode: entrambi i profili devono essere esaminati congiuntamente e decisi contestualmente, in quanto il potere pubblico è uno solo. Ne consegue che, laddove risulti perfezionato il procedimento di alienazione e sia stato adottato il decreto prefettizio contenente anche la determinazione del compenso dovuto, il rapporto giuridico deve ritenersi integralmente esaurito. Tanto più in presenza di un pagamento effettuato dall’amministrazione in esecuzione del decreto stesso, elemento che assume rilevanza dirimente ai fini della qualificazione del rapporto come definitivamente estinto.
Da ultimo, si rende opportuna una considerazione in merito alle tempistiche. Alla luce delle argomentazioni fin qui esposte, il procedimento previsto dall’art. 38 del d.l. 269/2003 fa sorgere il diritto di credito del depositario esclusivamente al momento della conclusione dell’intero procedimento, con l’una fase che presuppone necessariamente l’esaurimento dell’altra.
Ad avviso di chi scrive, si tratta dell’unico diritto di credito (diritto soggettivo perfetto) suscettibile di prescrizione in assenza di impugnazione del decreto prefettizio di liquidazione.
Nel caso in esame, considerato che l’atto non è stato oggetto di impugnazione e che il compenso liquidato è stato integralmente corrisposto prima della pubblicazione della sentenza del giudice delle leggi, seppur secondo i criteri forfettari allora vigenti, il rapporto tra la depositeria e l’amministrazione deve ritenersi definitivamente estinto, senza ulteriori obblighi o pretese reciproche.
Argomentare, come fa il giudice di legittimità, che la titolarità di un diritto soggettivo perfetto consenta alla depositeria di esigere la differenza tra quanto percepito in via forfettaria e quanto sarebbe spettato secondo la disciplina ordinaria, rappresenta una posizione senz’altro autorevole, ma che merita di essere attentamente valutata alla luce del principio di certezza del diritto. Quest’ultimo, come chiarito dalla Corte costituzionale nell’interpretazione sistematica dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87/1953[xxxi], impone di considerare preclusa l’incidenza retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale sui rapporti ormai esauriti. In tale prospettiva, la posizione adottata dalla Suprema Corte rischia di attenuare il valore garantistico di tale limite, il cui presidio è essenziale per assicurare la stabilità e l’affidamento nei rapporti giuridici consolidati.
[i] Ferma la progettazione comune, i paragrafi 1, 2 e 3.1 sono opera di Ludovico Di Benedetto, i 3.2 e 4 di Fabio Conti.
[ii] Su cui si rinvia subito infra, al paragrafo successivo.
[iii] Il decreto è stato varato quando era ancora vigente la precedente regolamentazione organica di cui al dpr 393/1959 (recante il testo unico delle norme sulla circolazione stradale), che tuttavia non prefigurava sanzioni reali; il referente normativo del potere cautelare amministrativo andava infatti rinvenuto all’esterno di questa cornice e, precisamente, nei commi 2 e 3 dell’art. 13 l. 689/1981.
[iv] Le disposizioni codicistiche di nostro interesse si rinvengono negli artt. 213 e 214 bis. Ogniqualvolta sia prescritta la sanzione della confisca del veicolo, l’organo accertatore ne dispone il sequestro a fini cautelari. Le successive norme si appuntano sulle modalità gestorie del mezzo, onde garantirne un’adeguata conservazione, preferibilmente, non onerosa per la p.a., incentrandosi sull’obbligo di custodia in capo al medesimo trasgressore oppure, se non possibile, al custode-acquirente, selezionato all’esito di una gara pubblica.
[v] Qualora l’avente diritto non ritiri la cosa entro sei mesi da quando l’atto che ne dispone la restituzione è divenuto inoppugnabile, l’amministrazione ne ordina la vendita e accantona le somme così ricavate (art. 16). Questa norma, tuttavia, dovrebbe oggi ritenersi abrogata, dal momento che per i veicoli abbandonati esiste una disciplina speciale di cui al dpr 189/2001, che vede coinvolto in prima battuta il demanio.
[vi] Ovviamente il denaro ottenuto dalla vendita va devoluto all’erario. Se il bene sequestrato è di interesse storico o artistico può essere acquisito al patrimonio indisponibile dello Stato (art. 15 c. 3); ai commi successivi viene dettagliata la sorte di altre tipologie di beni che qui possiamo tralasciare. In base al successivo art. 17, le procedure di alienazione seguono la disciplina della contabilità di Stato (cfr. r.d. 2440/1923).
Nel complesso, pertanto, le differenze rispetto al meccanismo delineato dal codice della strada sono lampanti: alla gara competitiva, si sostituisce una valutazione imperativa e discrezionale del prefetto nel selezionare i depositi; all’accordo negoziale, la fissazione unilaterale amministrativa delle tariffe; all’unicità dell’aggiudicatario, la pluralità delle depositerie. Comunque, resta inteso che, in ogni caso in cui non si raggiunga, nel contesto provinciale, la sottoscrizione del contratto ex art. 214 bis cds, o questo per qualsiasi causa risulti inefficace, la disciplina a cui fare riferimento resta quella del dpr ricordato.
[vii] Convertito con modifiche nella l. 326/2003.
[viii] Compresi quelli fermati e confiscati. La sequenza ivi delineata prevale pure sulle procedure speciali di alienazione eccezionalmente attivate dalle singole prefetture e si applica al loro posto (comma 10).
[ix] Assieme a quelli non alienati per la mancanza di acquirenti.
[x] Rispetto al 30 settembre 2003.
[xi] Cfr. Amoroso G., Parodi G., Il giudizio costituzionale, Milano, 2020, 455 e ss. e Celotto A., Modugno F., La giustizia costituzionale, in Modugno F. (a cura di), Diritto pubblico, Torino, 2016, 754 e ss.
[xii] Il legislatore, al fine di evitare un aggravio della finanza pubblica, si è nuovamente attivato, sfruttando lo stesso istituto dell’alienazione straordinaria, ma, memore del dictum della Consulta, vi ha apportato alcuni correttivi (cfr. l. 147/2013, art. 1 commi 444 e seguenti). Il nuovo procedimento ha un ambito di applicazione quasi equipollente a quello del 2003 (veicoli sequestrati, fermati, confiscati o non alienati per mancanza di acquirenti giacenti in deposito da almeno 2 anni, stavolta anche se di interesse storico-collezionistico), mentre è del tutto identico il meccanismo giuridico (alienazione massiva al custode).
Gli aspetti innovativi sono rappresentati dal coinvolgimento del proprietario (comma 445) e dal ruolo del custode (comma 446). Infatti, sotto il primo versante, redatto e pubblicato ad opera della prefettura l’elenco dei mezzi nelle condizioni descritte, il titolare del bene ha l’onere di ritirarlo entro 60 giorni dalla pubblicazione del menzionato elenco, pagando contestualmente il compenso al custode.
In riferimento al secondo profilo, decorso inutilmente il termine per il ritiro, la prefettura invia una proposta contrattuale di alienazione cumulativa al custode con valenza transattiva (gli artt. 1965 e ss. c.c. sono espressamente richiamati), che può essere accettata o meno, salvaguardando dunque la posizione della controparte; con essa, viene fissato il corrispettivo della cessione, considerando il tipo e le condizioni del veicolo e gli oneri di rottamazione, al netto di quanto dovuto al privato per il servizio di custodia (comma 447).
[xiii] Da ciò scaturiscono conseguenze giuridiche di sicuro rilievo. Sul versante del diritto pubblico, per esempio, la relazione p.a.-custode potrebbe essere formalizzata in un accordo sostitutivo ex art. 11 l. 241/90. Sul fronte civilistico, troveranno applicazione le regole codicistiche sul rapporto contrattuale (in primis, le norme sulla responsabilità - artt. 1218 e ss. c.c.). Per approfondimenti, sia concesso rimandare a Natoli U., I contratti reali, Milano, 1975, passim, e a Majello U., Custodia e deposito, Napoli,1958, passim.
[xiv] Bianca C. M., Diritto civile. I contratti, Milano, 2019, 29 e ss.; Irti N., Scambi senza accordo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, II, 1998, 347 e ss.; Angelici C., voce Rapporti contrattuali di fatto, in Enciclopedia giuridica Treccani, XXV, Roma, 1991, 8 e ss.
[xv] Punto 4 dell’ordinanza.
[xvi] Punto 8.1. Tralasciamo l’ambiguo riferimento al custode-acquirente, figura, come indicato in nota, avulsa dal contesto di cui discorriamo.
[xvii] L’idea del potere come situazione giuridica è prevalente: Cerri A., voce Potere e potestà, in Enciclopedia giuridica, XVI, Roma, 1998, 1 e Romano A., Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, 118. Altri però lo ritengono concetto avulso da quella categoria, definendolo ora come forza giuridica ordinamentale - Miele G., Potere, diritto soggettivo e interesse, in Rivista di diritto commerciale, I, 1944, 116 - ora come fattispecie normativa dinamica - Guarino G., Potere giuridico e diritto soggettivo, Napoli, 1990, 249.
Si è consapevoli del dibattito circa la distinzione tra posizioni e situazioni soggettive (si vedano per esempio Scoca F. G., L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 448 e Giannini M. S., Diritto amministrativo, Milano, 1970, 65), ma qui, per evitare di appesantire la trattazione, si preferisce superare il tema ed usare le due espressioni come sinonimi.
[xviii] La stretta tipicità dei poteri è riconosciuta da tempo dalla dottrina. Per tutti, Santi Romano, Poteri. Potestà, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1983, 198: “i poteri non esistono se non per disposizione del diritto oggettivo”. Tale carattere trova fondamento sul piano sostanziale, nel principio generale di eccezionalità dell’autotutela privata, desumibile dai vari esempi disseminati nel codice civile e nelle fattispecie penali della “ragion fattasi” con violenza sulle persone o sulle cose (artt. 392 e 393 c.p., inseriti al Libro II nel Titolo III sui reati contro l’amministrazione della giustizia); sul piano processuale, nell’art. 2908 c.c., che fissa la tipicità delle azioni costitutive.
[xix] Modugno F., Diritto pubblico, Torino, 2017, 614.
[xx] Su quest’ultimo punto si traggono preziosi elementi da Romano S., Poteri. Potestà, op. cit., 190.
[xxi] Calamandrei P., L’illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, Padova, 1950, passim; Esposito C., Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia, in Esposito C., La Costituzione italiana, Padova, 1954, passim; Ruotolo M., La dimensione temporale dell’invalidità della legge, Padova, 2000, passim.
[xxii] C. cost. nn. 10/2015, 70/2015, 178/2015 e 1/2014.
[xxiii] Ex multis, C. cost. nn. 127/1966, 58/1967 e 49/1970.
[xxiv] Cfr. decisioni della nota precedente.
[xxv] Cass. 22.6.1963, in Giurisprudenza Italiana, I, 1963, 1386; Cass. n. 2577/1971, in Foro italiano, I, 1971, 2148.
[xxvi] Modugno F., Considerazioni sul tema, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere, Milano, 1989, 23; Luciani M., Il dissolvimento della retroattività. Una questione fondamentale del diritto intertemporale nella prospettiva delle vicende delle leggi di incentivazione economica, in Giurisprudenza italiana, IV, 2007, 1832.
[xxvii] Pronunciata in materia tributaria, la sentenza esclude la retroattività dell’incostituzionalità per la grave menomazione dell’equilibrio di bilancio che ne sarebbe discesa (art. 81 Cost.).
[xxviii] In tema di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici.
[xxix] Punto 10 dell’ordinanza.
[xxx] Cons. St., Sez. III, n. 8182/2023, già citata nel corpo, e n. 6257/2022.
[xxxi] Corte Cost. n. 49/1970, 26/1969, n. 58/1967, n. 127/1966. Queste sono sentenze molto eterogenee per materia, ma in tutte la Corte sottolinea l’esigenza che vi sia una salvaguardia del principio della certezza del diritto.
Sommario: 1. Gli affari con Israele e la tesi del Lawfare. 2. Alcune recenti iniziative sui rapporti di affari con Israele per le insidie del Lawfare “inverso”. 3. Illecito permanente e nullità dei rapporti di affari.
1. Gli affari con Israele e la tesi del Lawfare
È possibile fare affari con uno Stato che viola sistematicamente il diritto internazionale (generale, pattizio e umanitario) ed è addirittura sotto accertamento giudiziale per crimini di guerra, contro l’umanità e persino per genocidio?
Stando alla storia delle sanzioni internazionali e nazionali, si dovrebbe senza indugio rispondere di no (del resto, basti pensare alla vicenda degli embarghi verso il Sud Africa dell’apartheid)[1].
Ci si riferisce, però, a Israele, verso il quale queste sanzioni non sembra che siano utilizzate.
Tutto parte dal Parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2024 (case 186), dove, per la prima volta, sono delineati gli obblighi degli Stati terzi, aderenti all’ONU, nell’agire per non aiutare un altro Stato, per l’appunto Israele, autore di illeciti internazionali. Secondo il ragionamento della Corte (paragrafi 273-283), tali obblighi sarebbero sostanziali, quindi non eludibili per “buona fede” nelle relazioni internazionali, e comunque vincolanti nel porre fine a violazioni di norme di ius cogens. Ne deriverebbe il dovere di sospensione o interruzione di qualsiasi affare con quello Stato.
Questo inedito enunciato è stato letto in due modi totalmente contrapposti.
Da un lato, esso è considerato coerente con il diritto internazionale generale e con la stessa tradizione giuridica del secondo Dopoguerra, risultando comprovato, per di più, da innumerevoli accertamenti delle condotte israeliane nel negare ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione, legittimando forme di apartheid, occupando e colonizzando territori estranei alla sua sovranità, violando le regole umanitarie negli attacchi militari e nell’occupazione territoriale, per di più non da oggi ma dal 1967, dunque nella modalità dell’ “illecito continuato e permanente”[2].
Dall’altro, secondo i difensori di Israele, a partire dagli USA, il parere sarebbe privo di efficacia non solo perché non vincolante, ma soprattutto perché arbitrario, in quanto manifestazione di Lawfare[3]. Detto altrimenti, le denunce a carico dello Stato ebraico certificherebbero un “uso strumentale del diritto come arma” (appunto Lawfare), nelle modalità originariamente teorizzate e – tuttora – praticate paradossalmente dagli USA, e successivamente fatte proprie dalla Cina con la formula equivalente “falu zahn”[4], ovvero come guerra asimmetrica (nelle aule di giustizia o nei consessi internazionali), per colpire “legalmente” – senza ricorrere alla violenza e alla forza militare – paesi le cui decisioni, ancorché democraticamente assunte, contrasterebbero con interessi dominanti a livello mondiale. Contro Israele, il Lawfare sarebbe mosso dall’interesse a negarne il “diritto di esistere”, negazione comprovata dalla provenienza delle più recenti iniziative, attivate da nemici “storici” dell’ebraismo (rectius, del sionismo), come il Sud Africa, il Nicaragua e soprattutto l’Iran, quest’ultimo notoriamente favorevole ad Hamas, Hezbollah e Houthi[5]. Al contrario, proprio a causa della manifesta strumentalizzazione Lawfare, la condotta israeliana, in particolare dopo gli attacchi terroristici dell’ottobre 2023, rappresenterebbe una “legittima difesa” consapevolmente sproporzionata e non conforme al diritto “degli altri”, ma resa necessaria dalla “sopravvivenza” dello Stato nell’accerchiamento mediorientale dei suoi nemici. In proposito, un giornalista italiano, convinto assertore della tesi, ha evocato una storica formula di Golda Meir, che sinterizzerebbe l’assunto: «vi perdoneremo perché ci avete uccisi, ma non vi perdoneremo perché ci avete costretti a uccidere i vostri figli»[6]. La “necessità” – ancorché sproporzionata – prevarrebbe sulla “legalità”.
Ora, certamente il Lawfare nasce come strumentalizzazione del diritto, in primis internazionale, da parte di uno o più Stati, contro le decisioni democraticamente assunte da un altro Stato. E, in effetti, Israele è uno Stato, le cui decisioni sono votate democraticamente. Da ultimo, per esempio, l’annessione della Cisgiordania è stata democraticamente deliberata a larghissima maggioranza dalla Knesset, il parlamento israeliano.
Alcuni ineludibili dettagli, però, sfuggono alla tesi del Lawfare a danno di Israele.
Sono tre.
In primo luogo, lo Stato “vittima” del Lawfare deve essere caratterizzato, oltre che dal decidere democraticamente, anche da quello di rispettare il diritto e le relazioni internazionali con tutti gli altri Stati, inclusi i suoi “nemici” (si pensi al Brasile della Presidente eletta Dilma Rousseff e ai suoi rapporti con gli USA nella promozione, del tutto legale, dei BRICS, ostacolata poi dalle vicende giudiziarie che hanno colpito la sua maggioranza, rivelatesi in gran parte infondate, costruite ad arte e sollecitate da interessi, soprattutto statunitensi, contrapposti ai BRICS[7]).
Rispetto a tale requisito, Israele è uno Stato democratico “a metà”, non solo per la sua matrice religiosa, che comunque permea di sé il diritto e le sue figurazioni giuridiche alimentando inevitabilmente asimmetrie fra ebrei e musulmani[8], ma soprattutto perché esso esplicitamente rifiuta l’apertura al diritto internazionale, in primis umanitario e di pace, quale parametro integrativo della legittimità delle proprie azioni, riconoscendosi, così, in un costituzionalismo denominato “di esclusione” (per il dato di escludere, dallo spettro della legittimità e della tutela dei diritti umani, i parametri internazionali umanitari e di pace verso altri soggetti diversi dagli ebrei)[9].
In secondo luogo, il Lawfare si attiva in contesti di pace e non invece di conflitto (dove entrano in gioco lo ius in bello e lo ius ad bellum), ancor meno se risalente e cronico come quello israelo-palestinese, segnato da complessità giuridiche internazionali senza pari nel panorama mondiale[10].
In terzo luogo e infine, il Lawfare si fonda sulla violazione del principio di proporzionalità nelle proprie azioni a danno degli altri, non certo nel suo contrario, vale a dire nella rivendicazione del rispetto della proporzionalità a garanzia di tutti, come esattamente fanno, non da oggi, le Istituzioni ONU nei confronti di Israele. Di fatto, è Israele che viola il principio di proporzionalità, tra l’altro evocando costrutti paradossali come quello della legittima difesa necessariamente fondata sulla “legittima sproporzione” per annientare il nemico (categoria di matrice nazista, inventata – come noto - da Albert Speer[11]).
2. Alcune recenti iniziative sui rapporti di affari con Israele per le inside del Lawfare “inverso”
In definitiva, sul piano della semantica e della comparazione costituzionali, la tesi del Lawfare appare molto debole, se non inconsistente.
Questo spiega perché, dopo quella decisione del 2024 della Corte Internazionale di Giustizia, la doppia tesi della legittimità delle condotte israeliane in Palestina e a Gaza, e della natura Lawfare delle misure contro di esse, emerga sempre meno convincente sia in dottrina[12] che in giurisprudenza[13].
Particolarmente interessante, in merito, è il dibattito in Olanda e in Norvegia.
Nel febbraio 2024, la Corte d’Appello dell’Aja ha ordinato al Governo olandese di interrompere l’esportazione di componenti dell’aereo F-35 verso Israele, a seguito di un reclamo presentato da tre ONG. Questa decisione è stata impugnata dinanzi alla Corte Suprema olandese, che ha esaminato il caso il 6 settembre 2024 ed è ancora pendente. A seguito della sentenza dell’Alta Corte, tuttavia, le autorità olandesi hanno sospeso le esportazioni dirette a Israele[14]. I ricorrenti, però, hanno intentato, dopo il parere della Corte Internazionale, una nuova causa, sostenendo che il Governo olandese stesse in realtà eludendo la sentenza, attraverso una tipica “triangolazione” contrattuale, cioè inviando quelle componenti dell’F-35 negli Stati Uniti, a loro volta impegnati a destinarle comunque a Israele. Anche questo secondo caso risulta ancora pendente.
La vicenda è emblematica, nella misura in cui mette in luce un processo decisionale esattamente inverso alla tesi del Lawfare a danno di Israele: si elude, strumentalizzandolo, il diritto nazionale e internazionale, nella riscontrata modalità della “triangolazione” contrattuale, non contro Israele, bensì a suo favore e a discapito delle misure o sanzioni, indicate dalle autorità internazionali competenti.
Non a caso, un tal genere di logica da Lawfare “inverso” è stato denunciato da diversi esperti ONU perché espressivo del potenziale sovvertimento dell’ordine giuridico internazionale, esautorandolo nella sua funzione addirittura di ius cogens oltre che di parametro condiviso di “buona fede” nelle condotte statali[15].
La medesima preoccupazione di Lawfare “inverso” ha spinto il più grande e ricco Fondo sovrano del mondo, quello norvegese, a vendere le sue quote di Caterpillar, nota azienda statunitense di mezzi da costruzione, escludendola pure dai propri investimenti, per il fatto di fornire, sempre in “triangolazione” contrattuale, i suoi prodotti e servizi a Israele nella demolizione degli edifici di Gaza e della Cisgiordania[16].
Sulla medesima linea di preoccupazione, infine, si sono mossi i 209 diplomatici europei, che hanno scritto ai Leader UE affinché decidano finalmente di sospendere tutti i rapporti di affari con Israele, in forza dell’art. 2 dell’Accordo di associazione tra UE e Israele del 2000, dove si richiede il permanente rispetto dei diritti umani in tutti i contesti, condizione evidentemente non rispettata con gli illeciti permanenti accertati dall’ONU[17].
Nel dettaglio, la richiesta diplomatica invita a sospendere o revocare unilateralmente:
- le licenze di esportazione di armi verso Israele;
- il finanziamento di progetti cofinanziati a livello nazionale che coinvolgono entità israeliane;
- gli accordi di ricerca congiunta con istituzioni e organismi di ricerca israeliani;
- il commercio di beni e servizi con gli insediamenti illegali;
- i collegamenti societari con entità operanti negli insediamenti illegali;
- l’uso dello spazio aereo europeo per navi e aerei militari israeliani;
- i centri dati e le piattaforme, con sede in Europa, utilizzate da Israele[18].
3. Illecito permanente e nullità dei rapporti di affari
In effetti, è una circostanza molto rara, nel panorama del diritto internazionale, quella di uno Stato che opera in modalità di “illecito continuato e permanente”. Conviene spiegarlo sinteticamente. Nel diritto internazionale, tra i quattro crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione non sussiste né c.d. “gerarchia” né c.d. “esclusività”. Che cosa significa? Lo spiegano le Convenzioni in materia e le Corti internazionali che le hanno applicate[19]. Ma indirettamente lo ha spiegato anche la Corte costituzionale italiana nella famosa sentenza n. 238/2014, riferita alla Germania per i suoi crimini nazisti[20].
In breve, vuol dire tre cose.
- L’assenza di “gerarchia” implica che nessuno di questi crimini detiene una precostituita maggiore rilevanza o priorità punitiva rispetto agli altri, dato che tutti, anche se singolarmente considerati, identificano “i più gravi illeciti in assoluto” per la comunità internazionale, offendendo, tutti, la dignità del genere umano.
- L’assenza di “esclusività”, invece, comporta che ogni singolo atto dello Stato e ogni singola condotta dei suoi organi e agenti (inclusi i militari) può costituire elemento contemporaneamente identificativo di più di uno dei quattro crimini internazionali, senza che l’accertamento di un tipo (per es. il crimine di aggressione) implichi l’esclusione dell’altro (per es. il genocidio).
- Infine, questi due caratteri possono coesistere con la commissione di altri illeciti internazionali, dalla semplice violazione del diritto internazionale pattizio e generale all’occupazione illegale, alla violazione sistematica di specifici diritti umani.
Ecco allora che, se, nel tempo, le condotte di uno Stato maturano come “cumulo” di tutti questi illeciti internazionali, quello Stato finisce col versare in una situazione di “illecito continuato e permanente”.
Israele detiene siffatto non invidiabile primato.
Di qui, la puntualizzazione della domanda di apertura: è possibile intrattenere relazioni di profitto con l’autore di un “illecito continuato e permanente”?
Per Governo e imprese italiane, la risposta alla domanda è: sì, si possono, anzi si devono fare affari con Israele, perché, ha testualmente spiegato la Presidente del Consiglio dei Ministri, in questo modo si «mantiene il dialogo» per una soluzione dei problemi su Gaza[21].
Dunque, in nome del “dialogo”, risultano confermati e non invece sospesi, men che meno revocati, gli accordi di cooperazione internazionale, a contenuto commerciale e militare, fra Italia e Stato israeliano, a partire dal Memorandum d’intesa, ratificato con la l. n. 95/2005[22], per risalire all’Accordo di sicurezza, del 1987, mai ratificato con legge e tenuto segreto per oltre vent’anni[23], e giungere a quello di Pubblica sicurezza, ratificato con la l. n. 86/2017, tutti – tra l’altro – produttivi di oneri a carico della finanza pubblica, come testualmente si deduce dai loro contenuti.
Allo stesso modo, come spiegato sempre dal Governo in sede parlamentare[24], restano in vita i contratti privati di fornitura di prestazioni, militati e non, fra imprese italiane e israeliane, con la sola (inconcludente) misura di non promuoverne di nuovi.
Insomma: con uno Stato che versa in una condotta di “illecito continuato e permanente”, nulla cambia rispetto al passato.
E tutto questo con buona pace di una specifica disposizione di legge, l’art. 1, comma 6, della l. n. 185/1990, con cui si vieta «l’esportazione ed il transito di materiali di armamento ai Paesi in stato di conflitto armato, la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione, e verso i Paesi i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo», dove, si badi bene, per “materiali d’armamento” si intende qualsiasi tipo di prestazione negoziale (di diritto pubblico o privato), utile appunto ad “armare” ossia a confezionare strumenti e modalità di offesa militare: quindi, anche attività come cessione di know-how, formazione tecnologica, scambio di buone pratiche, esercitazioni ecc… Insomma tutto.
Eppure quell’art. 1 evoca l’art. 11 della Costituzione, il quale, a sua volta, nel ripudiare la guerra, ripudia anche l’offesa alla libertà degli altri popoli, offesa in corso in Palestina e Gaza con l’ “illecito continuato e permanente” di Israele.
Ma niente: il “dialogo” con Israele si pone al di sopra della Costituzione. Il che, se può aver qualche margine di ammissibilità per uno Stato sovrano, diventa incomprensibile per le imprese private, il cui statuto giuridico non è certo quello di “dialogare” bensì di fare profitti.
Stando così le cose, però, tre domande si pongono all’attenzione.
La prima: perché lo stesso trattamento di “dialogo”, da parte di Governo e imprese italiane, non è stato offerto anche alla Russia, altro Stato agente in violazione deliberata del diritto internazionale? Su questo, nessuno ha fornito risposte, sicché l’enigma resta.
L’enigma, poi, si infittisce con la seconda domanda: nella vicenda dell’Ucraina, la fornitura di materiali d’armamento al Governo di Kiev ha funzionato allo stesso modo? Qui la risposta è no ed è paradossale, se non surreale, nel suo contenuto. In quella vicenda, difatti, Governo e imprese, per aiutare lo Stato aggredito, hanno richiesto un’apposita normativa in “deroga” alla citata l. n. 185/1990 (che impedisce affari commerciali in contesti di conflitto e violazione dell’art. 11 Cost.), procedendo, come noto, con il d.l. n. 14/2022, convertito in l. n. 28/2022, dove – tra l’altro – le prestazioni contrattuali sono state tassativamente identificate in quelle «non letali» e di «sola protezione». Ecco il surreale: per un verso, nei confronti di uno Stato aggredito e non incriminato di alcun “illecito continuativo e permanente” (come l’Ucraina), si provvede a fare affari, ma con apposita legge di deroga e nei limiti delle forniture “non letali”; per l’altro verso, nei riguardi di uno Stato aggressore incriminato addirittura di “illecito continuato e permanente” (come Israele), si continua a fare affari senza apposita legge di deroga e senza vincoli di “sola protezione” e di usi “non letali”, in nome del … dialogo con … l’aggressore.
La terza domanda diventa ineludibile: fare affari con uno Stato incriminato di “illeciti continuati e permanenti” è legittimo nell’ordinamento giuridico internazionale e in quello nazionale italiano?
Prima di rispondere a questa domanda, è necessaria una precisazione. Nella vicenda di Israele a Gaza, si sta consumando una sorta di “sostituzione” delle categorie giuridiche. Come accennato, Israele sostiene di esercitare un legittimo diritto di difesa nei confronti di Hamas, qualificato “gruppo terroristico” a seguito degli attacchi subiti il 7 ottobre 2023. Tel Aviv, in sintesi, dichiara di operare in un contesto non di “guerra fra Stati” né di “aggressione territoriale”, bensì di “guerra al terrorismo”, legittimante l’invasione militare di Gaza. Eppure la fattispecie della “guerra al terrorismo” non esiste nel diritto internazionale: è una “invenzione” degli USA, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001.
Ciononostante, il costrutto lessicale ha coinvolto pure l’Unione europea e, in particolare la Francia.
La UE ha messo al bando Hamas come “gruppo terroristico”, con connesse sanzioni economiche nei suoi riguardi. A sua volta, il Presidente francese Macron, subito dopo il 7 ottobre 2023, ha fatto di più: ha equiparato il governo di Hamas, a Gaza, con lo Stato islamico dell’ISIS (Daesh), tra Iraq e Siria.
Israele, in continuità con la sua visione del Lawfare, si è appropriata di tali classificazioni “a-legali”, producendo un cortocircuito giuridico, i cui effetti devastanti riempiono la cronaca di questi ultimi mesi.
In primo luogo, gli inquadramenti euro-americani, come accennato, non sono in nulla conformi al diritto internazionale, alla luce di un importante risoluzione della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 (case 131), in cui l’autorità giurisdizionale ONU aveva chiarito che, se uno Stato ha il diritto e il dovere di rispondere ad atti di violenza contro la sua popolazione civile (quali sono stati gli attacchi del 7 ottobre), le misure adottate «devono comunque rimanere conformi al diritto internazionale» (§ 141 della risoluzione), in particolare con l’art. 48 del Protocollo I della Convenzione di Ginevra del 1977, secondo cui «allo scopo di assicurare il rispetto e la protezione della popolazione civile e dei beni di carattere civile, le Parti in conflitto dovranno fare, in ogni momento, distinzione fra la popolazione civile e i combattenti, nonché fra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari, e, di conseguenza, dirigere le operazioni soltanto contro obiettivi militari»: il che vuol dire non inventarsi “guerre” non previste dal diritto, come quella “al terrorismo”.
In secondo luogo, la parificazione di Hamas al Daesh ha fatto venir meno la prevista distinzione fra civili e militari, sicché chiunque dipenda da Hamas, per esempio come semplice funzionario di una sua struttura amministrativa, finisce con l’essere rubricato quale “terrorista”. Non a caso, Israele, nel contesto di Gaza, utilizza volutamente un’altra formula linguistica, sconosciuta al diritto internazionale, quella di “militante di Hamas”, per dar concretezza a siffatta corrispondenza e annichilendo alla radice la differenza tra civile e militare (considerato che, in assenza di certezza sul parametro precostituito di definizione, chiunque può assurgere a “militante” di Hamas).
In terzo luogo, con questa confusione, le sanzioni europee contro Hamas si sono tradotte in uno stigma su Gaza a favore di Israele, mettendo in difficoltà le cancellerie europee nel modificare questo regime sanzionatorio, per estenderlo allo Stato che viola il diritto internazionale.
In questo scenario, l’Italia ha ritenuto implicitamente di riconoscersi nelle qualificazioni unilaterali della vicenda di Gaza, con Hamas terrorista e Israele vittima, ignorando, in tal modo, il diritto internazionale[25].
Non a caso, dopo il vertice dei Ministri degli Esteri europei del 29 agosto 2025 sullo stato di carestia a Gaza, anch’esso denunciato dall’ONU[26], il Governo ha annunciato l’introduzione di sanzioni non contro Israele né contro il Governo o i suoi ministri, bensì contro i coloni “violenti” [27]: categoria assai indeterminata – quella dei coloni “violenti” – di cui non si comprende nulla di come sarà individuata, sulla base di quali parametri (italiani? israeliani?), a seguito di quali condotte (in Israele, in Cisgiordania, altrove?) e sulla base di quali accertamenti (per mezzo delle autorità israeliane o di un corpo internazionale?), dato anche il numero infimo di controlli e procedimenti israeliani a carico per l’appunto dei coloni[28].
Lo hanno fatto anche le imprese private italiane, in particolare Leonardo Spa[29], che continua a inserire Israele tra i “paesi normali”, ossia rispettosi del diritto e dei diritti, con cui fare affari.
C’è un piccolo particolare, però.
Non solo Israele versa, proprio in base al diritto internazionale, in una condotta, come accennato, di “illecito continuato e permanente”, ma il diritto che viola rientra nello ius cogens non derogabile né dagli Stati né dai privati, perché risalente al 1945: si tratta dello ius cogens del mantenimento della pace e del rispetto del genere umano.
Pertanto, è mai possibile fare affari nella violazione dello ius cogens? Evidentemente no.
Lo si desume dagli artt. 53 e 27 della Convenzione di Vienna sulla interpretazione dei trattati, del 1969: qualsiasi accordo, sia internazionale che di diritto interno, che miri a eludere lo ius cogens è nullo ab initio. Questo vale per gli accordi tra Italia e Israele ma vale anche per i contratti di diritto privato delle imprese, dato che lo ius cogens corrisponde alla “norme imperative”, indicate per la nullità dei contratti dagli artt. 1418 e 1419 Cod. civ., e a quelle “ad applicazione necessaria”, previste dalla disciplina dei contratti internazionali (cfr., per es., l’art. 16 della l. n. 218/1995, e l’art. 9 del Regolamento UE c.d. “Roma I”).
Nullo ab initio sta a indicare che, di fronte allo ius cogens, non vale neppure il principio del tempus regit actum ossia della considerazione del “quando” l’accordo o il contratto è stato stipulato o ha prodotto i suoi effetti, rispetto alla violazione appunto dello ius cogens.
D’altra parte, se la condotta israeliana versa in un “illecito continuato e permanente”, risalente addirittura al 1967, non c’è “quando” successivo che possa giustificare la violazione italiana dello ius cogens. A maggior ragione neppure la citata l. n. 185/1990 può fungere da “cappello protettivo” degli affari con Israele, risultando comunque successiva al 1967.
La nullità ab initio colpisce inesorabilmente tutto: causa, motivi ed effetti di accordi e contratti.
Ma allora come si spiega che l’Italia continui a fare affari con Israele?
Invero, la risposta è molto semplice e, in parte, già fornita. Per quanto concerne lo Stato, esso elude lo ius cogens attraverso l’uso di categorie non presenti nel diritto internazionale (nel senso di dire che si “dialoga con” – rectius, si aiuta – Israele perché porta avanti una legittima “guerra al terrorismo”). Per quanto concerne le imprese, esse eludono lo ius cogens attraverso il classico stratagemma delle “scatole cinesi”, del tutto simile alla richiamata “triangolazione” contrattuale denunciata in Olanda come Lawfare “inverso”: un’impresa italiana fa un contratto con un contraente intermedio che, a sua volta, fa il contratto con Israele e le sue imprese, per portare a compimento gli affari di quella italiana; il contraente intermedio può coincidere con un’impresa controllata da quella italiana (nel caso, per esempio, di gruppi societari) oppure in un’impresa straniera non israeliana (per esempio, francese), vincolata a corrispondere o condividere parte dei suoi profitti, di derivazione israeliana, con quella italiana.
Esistono rimedi contro queste elusioni? Si, tanto a livello internazionale che nazionale.
A livello internazionale valgono i richiami al “concorso” degli Stati agli illeciti e persino ai crimini di altri Stati, di cui ha fatto cenno la decisione della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2024. A livello nazionale italiano, entrano in gioco, oltre agli artt. dal 1418 al 1421 Cod. civ., gli artt. 1343 e 1344 Cod. civ. secondo cui tutti i contratti che eludono lo ius cogens sono illeciti sia nella “causa” (che è quella di fare affari con uno Stato che consuma “illeciti continuati e permanenti”) sia nella “frode alla legge” (dato che la modalità contrattuale delle “scatole cinesi” diventa il «mezzo per eludere l’applicazione della norma imperativa»)[30].
Se il rimedio internazionale può essere attivato solo dagli Stati, quello nazionale sulla nullità, invece, può essere promosso da qualsiasi soggetto che abbia “interesse” a far rispettare quello ius cogens, ovvero da qualsiasi essere umano. Scenari futuri di azione contro questi contratti nulli sembrano prefigurarsi anche in Italia, come minimo per tre ragioni:
- perché – sia detto a conclusione – l’Italia si riconosce nel “ripudio” non solo della guerra ma anche dell’offesa alla libertà di altri popoli (art. 11 Cost.) e gli illeciti israeliani consistono in un’offesa alla libertà di un altro popolo;
- perché l’Italia si riconosce nel diritto umano alla pace[31], ignoto al costituzionalismo israeliano;
- e la pace è il “bene della vita” che tutti hanno il dovere di far salvaguardare in tutte le sedi, anche davanti ai tribunali.
[1] Cfr. G. Felbermayr, A. Kirilakha, C. Syropoulos, E. Yalcin e Y.V. Yotov, The Global Sanctions Data Base (Gsdb); H. Attia e J. Grauvogel, International Sanctions Termination, 1990–2018: Introducing the IST dataset, in Journal of Peace Research, 60 (4), 2022, 709-719.
[2] Cfr., per il quadro d’insieme, UN, The question of Palestine.
[3] In Italia, l’ipotesi del Lawfare è sostenuta da D. Elber, Due pesi e due misure: il diritto internazionale e Israele, Livorno, Belfiore, 2020. Per un utile inquadramento delle implicazioni connesse all’utilizzo di questa categoria giuridico-morale, si v. E. Loefflad, The United States, Israel, and the Affective Lives of Moral Injury A Genealogy of Lawfare’s Emotional Presuppositions, in Athena. Critical Inquiries in Law, Philosophy and Globalization, 5(1), 1–55.
[4] O.F. Kittrie, Lawfare: law as a weapon of war, New York, Oxford Univ. Press, 2016.
[5] S. Saeidi, Iran’s Hezbollah and Citizenship Politics: The Surprises of Islamization Projects in Post-2009 Iran, in Women and the Islamic Republic: How Gendered Citizenship Conditions the Iranian State, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2022, 163-188; T. Juneau, Iran’s policy towards the Houthis in Yemen: a limited return on a modest investment, in International Affairs, 92 (3), 2016, 647-663; E. Skare, Iran, Hamas, and Islamic Jihad: A marriage of convenience, in European Council of Foreign Relations, 18 dicembre 2023.
[6] Si tratta di Giuliano Ferrara, in un editoriale de Il Foglio del 28 agosto 2025, riprodotto da Adriano Sofri nella sua pagina FB.
[7] V. Vegh Weiss, What does Lawfare mean in Latin America? A new framework for understanding the criminalization of progressive political leaders, in Punishment & Society, 2023, 25(4), 909–933.
[8] Cfr. in merito, A. Perrilli, Laicità “non-occidentali”. Tradizioni religione e costruzione della sfera pubblica in Israele e Turchia, Bologna, Bologna Univ. Press, 2025.
[9] Cfr. M. Masri, The Dynamics of Exclusionary Constitutionalism, London, Hart, 2017.
[10] Cfr. N. Erakat, Justice for Some: Law and the Question of Palestine, Stanford, Stanford Univ. Press, 2019.
[11] Cfr. A. Speer, Lo Stato schiavo. La presa di potere delle SS, trad. it., Milano, Mondadori, 1985.
[12] Cfr., in Italia, M. Carducci, I contratti italiani di vendita d’armi a Israele sono nulli?, in www.LaCostituzione.info, 9 aprile 2024.
[13] J. Hartmann, L. Köhne, V. Widdig, Arms Exports and Access to Justice: Enforcing International Law through Domestic Courts, in EJIL: Talk!, 25 ottobre 2024.
[14] Si v. il sito https://opiniojuris.org/.
[15] Cfr. UN experts warn international order on a knife’s edge, urge States to comply with ICJ Advisory Opinion, in https://www.ohchr.org/en/statements-and-speeches/2024, 18 settembre 2024.
[16] Norges Bank, Decisions on exclusion, 25 agosto 2025.
[17] Cfr. CEPS, Open Letter Calling for immediate implementation of EU measures against Israel’s unlawful actions in Gaza & the West Bank, in https://www.ceps.eu/, 26 agosto 2025. Sulla vicenda dell’Accordo UE-Israele, cfr. M. Gatti, La mancata sospensione dell’Accordo di cooperazione UE-Israele, in SidiBlog, 30 giugno 2025.
[18] La traduzione in italiano delle richieste si legge in Pressenza. International Press Agency, del 28 agosto 2025.
[19] Cfr. K.J. Heller et al. (eds), The Oxford Handbook of International Criminal Law, Oxford, Oxford Academic, 2020.
[20] In particolare, nei passaggi della decisione, che collegano ius cogens, rispetto della dignità della persona umana e inammissibilità di qualsiasi crimine internazionale come fattispecie insindacabile e non giustiziabile.
[21] Cfr. Camera dei Deputati, Respinta mozione opposizioni su cooperazione militare con Israele, 17 luglio 2025.
[22] Cfr. i commenti di Action for Peace e di Manlio Dinucci in Jura gentium (La questione palestinese, a cura di F. Ciafaloni, C. Nachira), 2005.
[23] Cfr. L’accordo di collaborazione militare tra Italia e Israele finalmente pubblico grazie ad un’azione legale, 2 agosto 2025.
[24] Cfr., per esempio, Camera dei Deputati, atto n. 491 del 7 maggio 2025.
[25] Se leggano le difese dell’Avvocatura dello Stato a giustificazione del mancato seguito italiano al parere della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2024, nel giudizio amministrativo intentato da un avvocato contro il Governo (cfr. la documentazione in Comitato per la Difesa del Diritto Internazionale in Palestina).
[26] Cfr. IPC, Famine confirmed in Gaza Governorate, projected to expand, 15 agosto 2025.
[27] Cfr. M. Cremonesi, A. Logroscino, Israele, la mossa del Governo italiano: «Sanzioni contro i coloni violenti», ne Il Corriere della Sera, 30 agosto 2025.
[28] J. Sharon, NGO says only 6% of police probes of settler violence it was party to ended in charges, in The Times of Israel, 22 gennaio 2024.
[29] Cfr. Leonardo, Diritti umani (contenente Codice etico e Carta dei valori di Gruppo).
[30] Cfr. S. Pagliantini (a cura di), Le forme della nullità, Torino, Giappichelli, 2009.
[31] A. Papisca, La pace come diritto umano fondamentale, in Pace, Diritti dell’Uomo, Diritti dei Popoli, 1(1), 1987, 37-43.
Immagine: foto di Daniel Maleck Lewy via Wikimedia Commons.
Audizione informale in relazione al Disegno di legge di Conversione del decreto-legge 8 agosto 2025, n.117, recante misure urgenti in materia di giustizia
Al Signor Presidente della II Commissione Giustizia della Camera dei Deputati
Il D.L. n.117, pur contenendo anche norme totalmente condivisibili, è tardivo, viene dopo una lunga inerzia ministeriale, e non consentirà di raggiungere l’obiettivo PNRR della riduzione del DT.
Vi sono provvedimenti del tutto condivisibili come l’estensione dell’utilizzo dei giudici di pace nei Tribunali, la proroga della permanenza dei giudici ausiliari nelle Corti di Appello oltre ad altre proroghe e l’aumento di organico della magistratura di sorveglianza.
E vanno sempre sottolineati i risultati che il PNRR ha raggiunto con il probabile raggiungimento di alcuni importanti obiettivi come la riduzione del 25 % del DT penale e l’abbattimento dell’arretrato civile.
Ma per il DT civile siamo arrivati in poco più di quattro anni alla riduzione del 20,1 % e vi è un dato sulla riduzione delle pendenze relativo al I trimestre 2025 non incoraggiante (-0,4 %), oltre al fatto che siamo a fronte, dopo anni di calo, di un aumento delle sopravvenienze.
Questo delinea la drammaticità del quadro e la totale insufficienza delle misure proposte nel D.L.
Avremmo bisogno di un calo delle pendenze o di un aumento delle definizioni di circa 200000 procedimenti (ovvero di quasi il 20 %) e pensare di sopperire solo con trasferimenti e applicazioni di magistrati in servizio è perdente.
Bisognerebbe pensare a interventi immediati di abbattimento delle pendenze. Se possibile ricorrendo a risorse dall’esterno.
Difatti puntare fondamentalmente su trasferimenti e applicazioni da uffici virtuosi ad altri in difficoltà rischia di risolversi in una partita di giro con guadagni per gli uni e perdite per gli altri. Non solo, ma si trascura che applicazioni e trasferimenti in un nuovo ufficio richiedono dei tempi di avvio che ridurranno ulteriormente l’efficacia dell’intervento.
Gli interventi proposti sono limitati ed insufficienti come i 50 magistrati del massimario applicati alle udienze civili della Cassazione ed i 20 trasferiti nelle Corti di Appello “critiche”.
Anche la misura simbolicamente più efficace, che pure, come vedremo, presenta moltissime controindicazioni, ovvero l'applicazione da remoto di 500 magistrati che continuando ad essere assegnati nei loro uffici di appartenenza, dovrebbero scrivere altre 50 sentenze civili a testa, porterebbe, se rispettati gli standard, a 25000 definizioni in più (o massimo 50000 se tutti riuscissero a farsi assegnare altri 50 procedimenti), del tutto insufficienti.
Va anche sottolineata l’infelice formulazione dell’art.3 comma 6 che prevede che al magistrato che esaurisca in anticipo il “pacchetto” di 50 procedimenti civili possa essere dato unicamente un altro pacchetto di 50 procedimenti civili, quando invece sarebbe opportuno prevedere, per questi magistrati particolarmente produttivi, una graduazione, con assegnazione di un numero minore di procedimenti concordato con lo stesso magistrato, prevedendo un’indennità proporzionata al surplus definito. Altrimenti è facile prevedere che ben pochi daranno questa disponibilità.
Questa nuova forma di applicazione ha una serie di risvolti estremamente pericolosi, aprendo una nuova frontiera nel processo civile, in cui concetti e principi anche costituzionali come il giudice naturale, la competenza territoriale, l'udienza in presenza, la stessa qualità dei provvedimenti verrebbero superati ed abbandonati per introdurre un insidiosissimo lavoro a cottimo (giustamente appena abbandonato per i giudici di pace). Una normativa emergenziale che, come ci insegna l’esperienza, tende a stabilizzarsi e a stravolgere il processo civile.
La concessione di poteri straordinari ai capi degli uffici per derogare alle norme e per pigiare sull'acceleratore della produttività rivela una visione organizzativa autoritaria e perdente: sappiamo che l'organizzazione vincente è quella che coinvolge, basata su regole condivise. Anche l’idea che derogare ai carichi esigibili possa portare ad un aumento delle definizioni è valida solo teoricamente, dato che l’esperienza ci insegna come già oggi questi limiti vengano abitualmente superati.
La ristrutturazione del tirocinio dei nuovi magistrati non solo è del tutto irrazionale (6 mesi nelle Corti di Appello civili ed uno solo in Procura), ma è sostanzialmente ininfluente ai fini della produttività dell'ufficio. Del resto il tirocinio, come dice la parola stessa, serve per formare e preparare alle funzioni giudiziarie, non per dare ausilio agli uffici giudiziari.
Il CSM nella sua delibera del 16 luglio 2025 aveva suggerito alcune misure che si sarebbero rivelate molto efficaci: la stabilizzazione degli oltre 8000 funzionari UPP ( di cui, in assenza di prospettive, sta continuando l’esodo ai danni degli uffici), il ricorso a magistrati civili in pensione, l’estinzione dei giudizi tributari (quasi il 50% del carico civile della Cassazione) aventi ad oggetto i debiti compresi nella dichiarazione di definizione agevolata, il riscontro in sede amministrativa alle domande di riconoscimento della cittadinanza provenienti da discendenti di emigrati italiani (il 5,5 % delle sopravvenienze nel 2024), la rivalutazione in sede amministrativa dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale sopravvenuti in epoca successiva al provvedimento di diniego impugnato in giudizio (il 6,8 %).
Non si capisce la rinuncia ad intervenire sui procedimenti tributari ed in tema di cittadinanza e protezione internazionale che da soli potevano ridurre di oltre 100000 procedimenti le pendenze, dando una fortissima spinta alla riduzione del DT.
Si tratta quindi di misure pacificamente insufficienti che più che coinvolgere e responsabilizzare sembrano voler spostare la responsabilità da un Ministero, finora in larga parte inerte, sul PNRR agli uffici giudiziari.
Ci vuole più responsabilità e più coraggio con un'ottica di coinvolgimento e di sinergia con tutti i soggetti che operano nella giustizia.
Roma, 11 settembre 2025
Il testo dell’audizione in larga parte riprende l’articolo “Le misure insufficienti introdotte nel sistema giustizia” pubblicato il 12 agosto 2025 dal Sole 24 ore
Sommario: 1. Spigolature sul tema - 2. Scienza matematica e scientia giuridica. Prove di dialogo - 2.1. AI e verità - 3. Formazione del giurista nell’era dell’intelligenza artificiale. Un nuovo alfabeto fra contenuti innovativi e modelli di formazione giudiziaria - 4. La formazione del giurista nell’era dell’intelligenza artificiale - 4.1. L’albero della formazione dei magistrati in tema di AI: a) che cosa dovrebbe sapere un giurista? - 4.2. Segue: b) con chi dovrebbe essere formato? - 5. Conclusioni (in progress).
1. Spigolature sul tema
Nel cuore del dibattito contemporaneo sull’intelligenza artificiale si colloca un interrogativo cruciale: può l’IA sostituire o replicare il giudizio umano all’interno del sistema giustizia? Ed ancora, quale posto può occupare l’AI senza alterarne l’equilibrio costituzionale, etico ed epistemologico?
Nel panorama di queste domande, sempre più incalzanti tanto quanto lo sono le risposte da più parti proposte, si collocano, da angolazioni diverse ma sorprendentemente convergenti, studiosi di campi apparentemente distanti: matematici, costituzionalisti, comparatisti, magistrati.
Impossibile, ovviamente, dare conto di tutte le opinioni in campo ed invece “umanamente possibile” provare a selezionare, sulla base di scelte valutative “umane” e non basate sulla logica algoritmica, alcune voci dotate di un grado di persuasività e comprensibilità tali da consentire una riflessione, peraltro, assolutamente aperta e ben lontana dall’essere risolutiva e conclusa.
Assai utile, dunque, partire da un portatore di saperi altri che il giurista, oggi più che mai, sente il bisogno di coinvolgere in quanto portatore di conoscenze che sarà “costretto” a maneggiare con cura e attenzione.
Il matematico Alfio Quarteroni, nel corso di uno degli incontri programmati dalla SSM con i MOT di Accademici dei Lincei, forte di una lunga esperienza nel calcolo scientifico e nella modellazione, ha delineato la distinzione tra algoritmi deterministici — tipici della tradizione matematica classica — e algoritmi adattivi, che caratterizzano l’IA moderna. Questi ultimi non seguono una logica pienamente prevedibile e non sono governati da istruzioni trasparenti, ma si sviluppano per correlazione statistica e addestramento empirico.
Eppure, osserva Quarteroni, per quanto l’IA possa emulare il linguaggio umano, essa non possiede alcuna consapevolezza, intenzionalità o senso del valore. È, in altri termini, una potenza senza coscienza: può suggerire, accelerare, ordinare; non può comprendere né decidere in senso etico o giuridico.
Il professor Quarteroni sostiene però che l’intelligenza artificiale possa rafforzare la scienza tradizionale, fondata su teoria, esperimento e simulazione, senza sostituirla. Questo approccio, chiamato scientific machine learning valorizza l’apprendimento dai dati all’interno di cornici teoriche ed “umane” consolidate.
Traslando questa idea al campo del diritto, il matematico propone una via intermedia tra una fiducia ingenua nell’efficienza dell’IA e un rifiuto rigido, legato alla sua mancanza di umanità.
In definitiva, una proposta di integrazione costruttiva in cui la scienza del diritto fornisce la cornice normativa entro cui l’IA dovrebbe operare, vincolata da principi, valori e logiche argomentative. Gli algoritmi giuridici possono aiutare a organizzare precedenti, individuare pattern o simulare scenari, ma non devono sostituire il giudizio umano, che rimane centrale. Il giurista ha così un ruolo fondamentale come interprete consapevole, capace di comprendere la logica algoritmica senza smarrire la profondità del sapere giuridico. In questo modo il diritto non diventa – e non può diventare - automatico, ma aumenta la sua capacità di essere sagomato ai bisogni, tarato sulle necessità, completo nei suoi percorsi decisionali. In una parola, più informato ed efficace, senza tuttavia perdere la sua dimensione umana.
Questo rilievo, proveniente da uno “scienziato non giurista” sembra trovare sponda nelle riflessioni giuridiche più avvertite sul ruolo dell’IA nel diritto.
Luciano Violante[1], affrontando il tema delle sfide democratiche della digitalizzazione, ha più volte ragionato sul rischio di una “società della scatola nera”, in cui le decisioni algoritmiche sfuggono al controllo democratico e rendono opachi i criteri di imputazione e responsabilità. Per contrastare questa deriva Violante propone di trasformare le “black box” in “glass box”. La digitalizzazione non è paragonabile alle precedenti rivoluzioni tecnologiche, entrando nel cuore della coscienza collettiva e così modificando la formazione delle opinioni, i processi cognitivi e perfino le relazioni sociali. La metafora della black box descrive dunque il pericolo di un potere algoritmico opaco: «through machine learning, data matching and automatic profiling, black boxes process large amounts of information, understand text, recognize images and connect the dots». Tali sistemi non sono neutri, poiché «an algorithm designer conveys his beliefs in the algorithm he creates, and so his beliefs become reality». In questo senso, la scatola nera rappresenta non solo l’incomprensibilità tecnica dell’algoritmo, ma anche la sua capacità di trasmettere, senza trasparenza, i pregiudizi e le visioni del mondo di chi l’ha costruito. Il rischio concreto è dunque che decisioni fondamentali per i diritti delle persone vengano prese sulla base di processi non verificabili, sottratti al controllo democratico e alla possibilità di contestazione. Per questo si afferma la necessità di passare dalle black boxes alle glass boxes, affinché «algorithmic decision-making needs to be fully transparent and individuals should have the right to challenge decisions made by an algorithm». La trasparenza diventa quindi una condizione essenziale per preservare la dignità dell’uomo e il ruolo del diritto: solo se gli algoritmi sono spiegabili e accessibili, l’individuo può rivendicare i propri diritti e la giurisdizione può esercitare il suo controllo. Da qui la sfida alla quale sono chiamati gli “umanisti”, volta a difendere la centralità dell’essere umano rispetto alla macchina, riaffermare il primato della responsabilità e del giudizio, garantire che l’uso dell’intelligenza artificiale sia sempre accompagnato da «transparent criteria in algorithmic design, digital education, the protection of the freedom to decide for oneself». La “black box” diventa così la metafora del pericolo maggiore della società digitale: l’oscurità decisionale che priva l’individuo della sua capacità di comprendere e di scegliere, e che rende urgente una nuova alfabetizzazione digitale e un quadro di regole volto a restituire all’uomo il dominio sulla tecnologia.
Da quell’immagine occorre allontanarsi, trasformandola in una scatola di vetro riempita di sistemi trasparenti ed auditabili. Terminologia, quest’ultima, assolutamente nuova per un giurista ma capace di rendere chiara l’esigenza di conoscere in quale modo l’algoritmo giunge ad una conclusione, quali dati utilizza e quali scarta e quali meccanismi di controllo offre rispetto alle soluzioni dispensate e mantenute in una cornice di legalità costituzionale.
In un ulteriore contributo[2] è sempre Violante a delineare con chiarezza la centralità del giudice come presidio di responsabilità e di garanzia costituzionale di fronte all’irrompere dell’intelligenza artificiale nei processi decisionali. L’autore sottolinea che “nessuna decisione che riguardi l’essere umano può essere presa in via definitiva dalla IA”, affermando un principio che delimita lo spazio dell’algoritmo e riafferma l’irrinunciabile competenza dell’autorità giudiziaria. La decisione, infatti, non è mera applicazione di regole tecniche, ma assunzione di responsabilità nei confronti delle conseguenze che essa produce. Per questo Violante richiama l’idea che “a chi cagiona dolore non dev’essere garantita la neutralità rispetto alle conseguenze della sua scelta. È un principio che appartiene all’umano prima che al giuridico o al tecnologico”, rimarcando come la funzione giudiziaria non possa essere delegata ad apparati privi di coscienza morale. L’IA, inoltre, trasforma i processi cognitivi e i circuiti del pensiero giuridico, perché “la formazione del pensiero si modifica” e la cultura dovrà imparare a “utilizzare in questa direzione gli strumenti digitali, anche nella nuova forma delle concatenazioni del pensiero”. Il compito del giudice diviene allora duplice: da un lato, saper usare le potenzialità del digitale come strumento di conoscenza; dall’altro, preservare la trasparenza e la legittimazione democratica delle decisioni, in quanto “il potere in democrazia dev’essere moralmente accettabile e non può essere invisibile. Un potere opaco non è moralmente accettabile”. In definitiva, il giudice si conferma custode della dignità della persona e garante dei diritti fondamentali, assicurando che la “Civiltà Digitale” resti, come afferma Violante, “una condizione umana caratterizzata dal dominio dell’uomo sulla tecnica digitale” e non il contrario.
In sintonia con le riflessioni di Violante, Oreste Pollicino[3] ha parlato ripetutamente di costituzionalismo digitale e del rischio che il potere computazionale, se non costituzionalizzato, rischierebbe di diventare un “Leviatano tecnocratico”[4], in cui la regola si dissolve nel comando, e il diritto perde la sua funzione deliberativa. Pollicino, forte della matrice costituzionale dei suoi studi e delle influenze prodotte da uno dei suo Maestri- Antonio Ruggeri – non poteva che porre al centro della riflessione la tenuta dei canoni costituzionali- fra i quali quello che lo riassume può forse indentificarsi con il personalismo – rispetto all’avvento dell’algoritmo e dell’IA. La digitalizzazione e l’IA che la prima preannuncia, secondo Violante e Pollicino sollevano dunque nuove questioni in materia di diritti umani, come la protezione della privacy, la libertà di espressione e il diritto all'informazione ed il rischio della disinformazione, oltre a quello della discriminazione algoritmica[5].
Il rischio riguarda dunque anche la salvaguardia della rule of law, oggi sottoposto a una pressione senza precedenti, visto che le grandi piattaforme digitali, pur essendo soggetti privati, esercitano di fatto funzioni pubbliche — dalla moderazione dell’informazione alla definizione delle libertà d’espressione. Queste piattaforme non rispondono affatto a logiche democratiche ma algoritmiche ed espressione così di chi le ha raccolte oltreché spesso opache[6]. È dunque cruciale garantire che i diritti fondamentali siano rispettati anche nel contesto digitale, attraverso una combinazione di regolamentazione normativa, educazione e responsabilità delle aziende tecnologiche.
All’analisi degli studiosi appena ricordati[7] si affianca quella di Andrea Simoncini, anch’essa centrata sul rapporto tra intelligenza artificiale e diritto costituzionale[8]. L'IA non rappresenterebbe solo una questione tecnica o normativa, ma una vera e propria trasformazione antropologica capace di incidere profondamente sull'architettura costituzionale. Afferma Simoncini che “Quando la decisione va ad incidere su posizioni giuridiche soggettive non potrà mai (dunque, neppure nel caso di amministrazione vincolata) essere sostituita tout court da un algoritmo, perché una decisione del genere non consentirebbe l’esercizio del più elementare diritto che ogni persona ha quando viene toccata dal potere pubblico: comprenderne le ragioni per poterle contestare in punto di fatto e di diritto”[9]. Da qui la necessità di una riflessione profonda su come adattare i principi costituzionali per preservare la dignità e i diritti della persona nell'era digitale, ponendo l’attenzione sul fatto che le potenzialità dell'IA nel migliorare l'efficienza del sistema giudiziario possono recare al loro interno una più o meno avvertita riduzione della discrezionalità e dell'umanità del giudicare.
Proprio l'opacità e la mancanza di accountability degli algoritmi possano minare la trasparenza e la responsabilità, principi fondamentali dello Stato di diritto.
La civilistica italiana non ha mancato di occuparsi del tema. Nel saggio Diritto, algoritmo, predittività[10], Nicolò Lipari mette in guardia dal ricondurre la decisione giudiziale alla mera esecuzione di un algoritmo, ricordando che il diritto contemporaneo è scienza pratica: non discende solo da norme astratte, ma si concreta nel caso, nell’argomentazione e nel bilanciamento di principi – in primis la ragionevolezza e l’eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost. L’algoritmo, pur utile come ausilio (ad esempio per individuare precedenti o incoerenze), incorpora precomprensioni, opera su correlazioni storiche del passato e difetta della valutazione in termini di ragionevolezza che sta, invece, alla base del giudicare. Ragioni, queste, che rendono insostituibile l’apporto del giudice, al quale spetta armonizzare norme, principi e realtà sociale. La predittività potrebbe, secondo Lipari, trovare terreno più favorevole nella giustizia tributaria[11], dove le fattispecie sono spesso seriali e i dati oggettivabili, ma il passaggio dalla tecnica per fattispecie alla tecnica per principi rende impossibile comprimere la decisione nella binarietà del calcolo. In definitiva, l’intelligenza artificiale può contribuire a una giustizia aumentata solo se resta strumento e non soggetto, lasciando al giudice l’ultima parola e preservando la dimensione umana, storica ed emotiva del giudicare.
Anche Giovanni Comandè, parlando di “normatività algoritmica” per descrivere l’effetto pervasivo degli automatismi digitali, porta l’attenzione sul fatto che, se l’algoritmo diventa il filtro attraverso cui passa ogni valutazione di rischio, danno o colpevolezza, vi è un concreto rischio di piegare la funzione giurisdizionale a una logica performativa, al punto che il diritto non produrrebbe più giustizia, ma riproduce pattern. Da qui la necessità, per Comandè, di riaffermare la centralità della “spiegabilità” del diritto (e della giustizia) e della discrezionalità, rinnovando — anche alla luce della trasformazione tecnologica — la stessa architettura della responsabilità civile.
Ecco, ancora una volta, una nuova convergenza fra diversi saperi, quello scientifico matematico e quello della scientia juris.
La spiegabilità algoritmica secondo Comandè costituisce un diritto fondamentale con radici nell’art. 8 CEDU (vita privata) e nell’art. 22 GDPR (divieto di decisioni automatizzate senza supervisione umana significativa) - «Senza spiegabilità, non c’è giustizia. La motivazione algoritmica deve poter essere decodificata, verificata e criticata.»
Comandè sottolinea che ogni sistema decisionale basato su IA dovrebbe essere auditabile, contestabile e trasparente. L’opacità tecnica non può mai giustificare la sottrazione al controllo giuridico/giudiziario. La motivazione algoritmica deve essere sottoposta a standard giuridici, non solo ingegneristici.
Giovanna De Minico, per parte sua[12], muove dalla premessa che il giudice debba restare “indifferente a ordini, direttive o indicazioni, dettati o suggeriti da altri poteri dello Stato” e non può trasformarsi in un mero “rubber stamp” dell’esito algoritmico, poiché il “coinvolgimento umano consiste, non in un semplice gesto simbolico, ma in un controllo significativo” dotato di competenza e autorità per modificare la decisione automatizzata. La motivazione non può ridursi a una tautologia (“l’amministrazione ha deciso così, perché l’algoritmo ha deciso così”), ma deve “spiegare in termini chiari e comprensibili le ragioni per cui ha condiviso il risultato della macchina”. De Minico ammette un ruolo ausiliario dell’IA — “la macchina è un ausilio necessario o utile al giudice?” — nella fase istruttoria e nell’analisi probatoria, ma esclude che essa possa sostituire la decisione, prerogativa insopprimibile dell’uomo. Avverte inoltre che l’algoritmo “può fornire l’illusione di una ‘verità’ oggettiva e neutrale”, ma questa “verità” è “un prodotto dei dati che l’allenano, della loro qualità, completezza e imparzialità”, con il rischio che il giudice la assuma come un “dato certo” anziché come una tesi da verificare e sottoporre a critica. Un ulteriore argomento è di ostacolo all’ingresso nel processo dell’algoritmo decidente: la “riserva di nomofilachia alla Corte di Cassazione”. Questo tipo di algoritmo “comprometterebbe il fair play competitivo rispetto alla Corte Suprema perché la sostituirebbe di fatto nell’interpretazione unitaria del diritto” e, sdoppiando gli attori della nomofilachia, avrebbe un “effetto paralizzante sulla riforma del processo civile del 2006”, che intendeva rafforzare il ruolo uniformante della Cassazione. Ciò conferma, conclude l’autrice, “l’assoluta estraneità dell’intelligenza artificiale alla funzione di nomofilachia”, che deve restare di esclusiva competenza del giudice di ultima istanza.
In parallelo[13], De Minico richiama un analogo “nesso tra potere politico/responsabilità” e indica un’“insuperabile linea di confine” oltre la quale l’IA non deve spingersi, poiché il “policy maker” resta “l’esclusivo titolare del potere di scegliere tra gli interessi pubblici rilevanti”, senza delegare alla macchina la graduazione dei valori o la decisione finale. Anche qui si ammette l’uso dell’IA per “analizzare e sintetizzare i dati” ovvero “offrire scenari alternativi” che il decisore possa valutare, ma si ribadisce che la scelta conclusiva, specie se implica un bilanciamento tra diritti fondamentali, deve restare ancorata alla responsabilità politica e alla consapevolezza umana così come, in ambito giudiziario, la decisione deve restare ancorata alla responsabilità del giudice.
Sul versante amministrativo e senza soluzione di continuità rispetto alle opinioni sinteticamente raccolte, attente al piano costituzionale, si pone quella del Consigliere di Stato Giovanni Gallone.
Il concetto di "riserva di umanità" elaborato da Gallone[14] si riferisce alla necessità di preservare un ambito decisionale esclusivamente umano all'interno delle funzioni amministrative, esistendo limiti etici e giuridici invalicabili che richiedono l'intervento della persona[15], soprattutto quando le decisioni amministrative incidono significativamente sui diritti e sulla dignità delle persone. La "riserva di umanità", agganciata al modello costituzionale sagomato sulla centralità della persona umana,[16] si configura dunque come un principio fondamentale che delimita l'uso dell'automazione nelle decisioni pubbliche, assicurando che la tecnologia rimanga uno strumento al servizio della persona e non un fine in sé.
Un tentativo di unire mondi diversi in una prospettiva di dialogo sta alla base del libro Decidere con l’IA. Intelligenze artificiali e naturali nel diritto, in cui Amedeo Santosuosso e Giovanni Sartori esplorano le implicazioni dell’IA nel contesto giuridico, presentando un panorama che spazia dai sistemi predittivi alle reti neurali fino ai Large Language Models. Ragionando sul volume appena ricordato, Claudio Castelli[17] mette in evidenza come il libro offra una trattazione “ampia e approfondita” del rapporto tra intelligenze artificiali e decisione giuridica, mantenendo un equilibrio tra rigore tecnico e chiarezza espositiva. Castelli sottolinea la distinzione tracciata dagli autori tra decisione “composita” e decisione “complementare”: l’IA “può contribuire al processo decisionale, ne può essere un valido ausilio, ma non è complementare al decisore umano”. Richiama inoltre il nodo della spiegabilità, segnalando che “i sistemi che forniscono le prestazioni più elevate, ovvero le predizioni più accurate, sono più opachi”, con il conseguente rischio di ridurre la trasparenza. Secondo Castelli, Santosuosso e Sartor evidenziano come il ricorso all’IA possa stimolare una riflessione più profonda sull’atto del giudicare, ma ribadiscono che “il centro resta indiscutibilmente l’essere umano”: la formazione del giurista è imprescindibile, perché solo un decisore consapevole può governare l’uso dell’IA senza rinunciare alla propria autonomia critica.
2. Scienza matematica e scientia giuridica. Prove di dialogo
Tornando a Quarteroni, l’autorevole matematico propone dunque un paradigma integrativo dove l’IA, purché a monte caratterizzata dalla “spiegabilità” delle sue conclusioni, diventi un supporto intelligente e non un sostituto, della conoscenza teorica. Nel diritto, ad esempio, l’IA può offrire assistenza nell’analisi di casistica giurisprudenziale o nella previsione di esiti legali, ma non può sostituirsi al giudizio umano, che rimane insostituibile per responsabilità, etica[18] e capacità di spiegazione. La diagnosi di una grave malattia ed i rimedi per fronteggiarla non potranno che essere fatti dal medico, ci dice Quarteroni, ma le sue valutazioni e conclusioni non potranno che svolgersi sulla base di dati, conoscenze e valutazioni che l’IA gli ha fornito e che lo stesso elaborerà, personalizzerà, applicherà al caso concreto con una capacità di successo nell’esito finale grandemente superiore a quella che si sarebbe potuto immaginare “prima”. In questa prospettiva, l’approccio che il Prof. Quarteroni chiama machine learning scientifico – cioè, l’integrazione fra dati e teoria – rappresenta la chiave per una IA al servizio della scienza e della società, e in particolare per un utilizzo giuridicamente sostenibile e trasparente di questi strumenti.
Ho quindi trovato di particolare valore il fatto che il concetto di spiegabilità si ritrova nelle corde dell’accademico matematico e dell’eticista[19] quanto dello scienziato del diritto -Simoncini[20], Comandè[21] - come elemento comune che fonda la “verità” del dato, nascente dall’AI quanto di quello prodotto dall’uomo nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Un concetto comune capace di “giustificare” sia il dato algoritmico che quello giurisprudenziale. Un dato che è nell’essenza stessa della giustizia, ha copertura costituzionale e governa la stessa rule of law. Un dato plurale, dunque, che compare tanto nella “scienza” - che scienza non è - algoritmica che in quella matematica e giuridica e senza il quale la prima e le seconde perdono la loro stessa essenza.
Claudio Castelli ha sostenuto con forza che l’IA debba entrare nel sistema giudiziario, ma senza mai sostituire il giudice. Nella visione proposta, ispirata da una cultura delle garanzie, l’IA può aiutare a prevedere la durata dei processi, a mappare gli orientamenti delle corti, a disincentivare contenziosi pretestuosi. Ma non deve mai essere percepita come un oracolo. La discrezionalità, la personalizzazione del giudizio e l’assunzione della responsabilità sono, per Castelli, insopprimibili. E lo stesso Castelli promuove come “ricetta” per aggiornare le mappe del diritto quella della Rete fra portatori di saperi diversi- giudici avvocati ingegneri scienziati tecnici, filosofi, eticisti-. Sul concetto di fare rete si proverà a tornare nl prosieguo, apparendo centrale per affrontare il tema della “formazione”.
Da qui la centralità della formazione dei giuristi, al tempo stesso strumento idoneo a diffondere in maniera ramificata le conoscenze del nuovo, in modo da costruire nuove professionalità capaci di interagire criticamente con le tecnologie emergenti, ma anche di sfruttarne appieno le potenzialità.
Dunque, IA non come nemico del diritto né come suo destino ineludibile, ma come ricerca del discernimento che la nuova tecnologia trasformativa impone al diritto senza volerlo modificare nei suoi contenuti, semmai rendendolo coerente ad un sistema che ha un significativo bisogno tanto di efficienza che di “effettività” e che, dunque, richiede di essere disciplinato, interpretato e valutato alla luce dei princìpi fondamentali. Una prospettiva, questa, che non intende amputare la giurisdizione dal proprio ruolo di elemento pensante e portante del sistema giustizia, ma che ne fa al tempo stesso uno dei soggetti maggiormente responsabili, unitamente agli altri attori istituzionali, della tenuta della democrazia e dello Stato di diritto.
Si deve poi ad Antoine Garapon una lucida riflessione[22] sulla spasmodica ricerca, tutta del tempo presente, di una certezza “nel” diritto che, ormai impossibile da ricercare nell’ambito del tessuto normativo, si immagina finalmente possibile attraverso la sostituzione dell’algoritmo al linguaggio che “per le sue caratteristiche intrinseche, contrasta con il non spazio del calcolo”[23].
2.1. AI e verità
Sono queste le ragioni che hanno dunque portato all’affermazione di un paradigma che tende a sostituire la decisione giudiziaria, fondata sulla razionalità e sull’argomentazione, con un calcolo algoritmico basato su indicatori numerici. Questa “despazializzazione” della giustizia, osserva Garapon, trasforma il giudizio in un procedimento tecnico, strutturato in passaggi di misurazione e sistematizzazione dei dati, spesso opachi e accessibili solo agli esperti, annullando “il momento di interpretazione del diritto, che richiede a volte di rinvenire quale fosse l’intenzione del legislatore e la finalità perseguita” [24]. Il risultato è un sapere “esoterico” e poco contestabile, in cui la logica formale copre e cristallizza le premesse valoriali preesistenti che hanno dato forma all’algoritmo.
Esempi come il software COMPAS, usato in alcuni Stati USA per valutare la probabilità di recidiva, mostrano come il giudizio si riduca a un conteggio di punti pro/contro, spostando l’attenzione dalla valutazione del fatto passato alla prevenzione di rischi futuri. Questo rischia di modificare il ruolo del giudice, privilegiando competenze di risk assessment rispetto alla conoscenza giuridica, e favorendo processi di standardizzazione simili al “tipo normativo d’autore”. Più in generale, la digitalizzazione ha contribuito a una rivoluzione culturale che ha indebolito lo spazio fisico come riferimento della vita civile, marginalizzato il momento politico nella produzione normativa e spersonalizzato l’amministrazione della giustizia, esaltando la tecnica come soluzione rassicurante alle ansie sociali. Siamo dunque al tramonto della figura di giudice dubbioso, alla ricerca della soluzione adeguata al caso al termine di un percorso complicato, incerto, di ricerca della verità? L’AI risponde al dubbio finale che assillava il giurista “pre AI” – sarà “davvero vero”? - che si poneva o che si sarebbe dovuto porre - secondo Bobbio[25]? Abbiamo finalmente trovato l’antidoto, con l’uso pur accorto e magari ben addestrato dell’AI nell’ambito della giustizia, la soluzione finale rispetto alle incertezze prodotte da orientamenti ondivaghi della giurisprudenza di legittimità? Abbiamo dunque trovato il rimedio all'incerta nomofilachia con la certezza dell’AI?
Buffa, forse, ma pericolosa quest’ultima provocazione e magari bene accetta a chi con varie rime sollecita e attende l’eliminazione di quella “ambiguità” del vertice più volte stigmatizzata- anche se da altri forse molto più perspicuamente intesa- , pronto magari a cavalcare l’onda dell’AI per depotenziare la funzione giurisdizionale nella sua essenza, a ben vedere messa a repentaglio non già solo per la Cassazione, ma per l’intero sistema di tutela giurisdizionale, ormai solo apparentemente nelle mani dei giudici di merito, sempre più dominato, in realtà della predittività dell’AI.
Il discorso è estremamente delicato e tocca, al fondo, in generale il ruolo della giurisdizione[26] e, in particolare, della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, tutto imbastito su una trama di complessità del diritto sulla quale altre volte abbiamo provato a riflettere[27] e che si pone agli antipodi di un’idea di giurisdizione affidata alla predittività artificiale, quasi che la stagione che si aprirà innanzi al futuro della società sarà e non potrà che essere quella della nomofilachia algoritmica.
Un ragionare, minato già sul nascere dalla consapevolezza che i sistemi di AI generano spesso falsi filoni giurisprudenziali che lo rendono su quel versante assolutamente poco affidabile, aprendo peraltro le porte a questioni di alta complessità in ordine ai profili di responsabilità dei soggetti che fruiscono di tali informazioni introiettandole nell’attività giudiziaria. Temi, questi ultimi, rispetto ai quali l’intera comunità dei giuristi non potrà che prospettare i rischi altissimi in termini di credibilità dei ruoli ricoperti. Una posizione, però, che sembrerebbe doversi orientare verso un'opposizione “ragionevole” a ciò che potrebbe snaturare il sistema giudiziario senza chiudersi, invece, alle opportunità di incremento dell’indipendenza che l’AI potrebbe offrire[28]. Un’opposizione netta dovrà orientarsi verso chi pensa all’AI come grimaldello capace di mettere a repentaglio l’essenza stessa della Rule of law, appunto intimamente legata all’umanità della decisione, alla spiegabilità della soluzione adottata, per l’appunto sempre e comunque sagomata in ragione della specificità del caso. Il che, ovviamente, non vuol dire affatto chiudersi nella torre d’avorio, ma semmai offrire anche alla Suprema Corte di cassazione gli strumenti che possano renderne la funzione sempre più orientata verso standard di conoscibilità ed effettività capaci di alimentare quel valore della certezza del diritto dal quale non è dato ormai più prescindere[29].
È dunque questo il contesto che si apre innanzi a chi istituzionalmente ha il compito di “formare” i magistrati su tematiche, come già accennato, variamente conosciute, variamente utilizzate e variamente considerate come utili, pericolose, dannose per il futuro stesso del sistema giustizia. Una responsabilità ancora più elevata se si considera il tema dell’immagine e della forma assunta dalla giurisdizione a seconda del “modello” di AI che si intende ammettere e giustificare.
3. Formazione del giurista nell’era dell’intelligenza artificiale. Un nuovo alfabeto fra contenuti innovativi e modelli di formazione giudiziaria.
L'integrazione dell'intelligenza artificiale nel sistema giuridico non è più una prospettiva futura, ma una necessità avvertita come presente.
Tuttavia, perché questa transizione sia effettiva e rispettosa dei valori fondamentali dello Stato di diritto, il giurista deve dotarsi di nuovi strumenti, sia concettuali che pratici, aprendosi ad una serie di sfide.
Tra questa, la prima, particolarmente rilevante guardando al settore giustizia, è quella del “divario generazionale”. Scrive Violante[30]: “While the digital world often remains inaccessible to older generations, digital technology is often misused by younger generations. Education, however, can help seniors learn basic digital skills and teach young people to use digital technology responsibly”. Questo, peraltro, non significa orientare gli sforzi verso la creazione di una nuova professionalità di giudice informatico, ma semplicemente diffondere un nuovo alfabeto in modo da rendere il giurista capace di dialogare con l'intelligenza artificiale senza subirla.
Pochi sono fin qui i contributi sul “come” organizzare questa formazione che, occorre chiarire fin dall’inizio, coinvolge i fenomeni della digitalizzazione e quelli dell’AI in una prospettiva di complementarità che, tuttavia, occorre tenere ben distinti.
La digitalizzazione consiste nella trasformazione delle procedure e degli atti in formato digitale, con strumenti come il fascicolo telematico, le notifiche elettroniche o le banche dati giurisprudenziali. Tema che, particolarmente approfondito ormai da tempo sul piano interno, ha notevole impatto sulle relazioni fra ordinamenti nazionali diversi e che è orientato a realizzare un’efficiente organizzazione del lavoro senza incidere sulla funzione di giudicare.
L’intelligenza artificiale, invece, non si limita a gestire dati, ma li interpreta e li elabora attraverso algoritmi capaci di influenzare il processo nel quale si forma la decisione giudiziaria, secondo gradi e forme variabili che giungono ai sistemi di giustizia predittiva e coinvolgono i software di valutazione del rischio.
Sul primo versante, quello della digitalizzazione, la complessità sul piano formativo è forse più limitata per due ordini di ragioni. Per un verso, infatti, ci si muove su territori prevalentemente normati a livello legislativo – interno e di diritto UE - o regolamentati attraverso strumenti nazionali o sovranazionali. E sul campo la diffusione di tali conoscenze è già in atto spedita, progressiva e costante[31].
Decisamente diverso appare il discorso sull’IA.
La diversità nasce dall’assenza, a monte, di un quadro normativo definito sul tema dell’AI e sulle regole di approccio relative al come, con chi e con quali scansioni temporali organizzare la formazione dei magistrati.
Questa incertezza si riscontra nel testo del d.d.l. italiano sull’intelligenza artificiale - S. 1146 "Disposizioni e deleghe al Governo in materia di intelligenza artificiale" - approvato in seconda lettura al Senato il 25 giugno 2025 e al vaglio della Camera.
Rileva, per quel che qui interessa, l’art.14, c.4, a cui tenore “Il Ministro della giustizia, nell'elaborazione delle linee programmatiche sulla formazione dei magistrati di cui all'articolo 12, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26, promuove attività didattiche sul tema dell'intelligenza artificiale e sugli impieghi dei sistemi di intelligenza artificiale nell'attività giudiziaria, finalizzate alla formazione digitale di base e avanzata, all'acquisizione e alla condivisione di competenze digitali, nonché alla sensibilizzazione sui benefici e rischi, anche nel quadro regolatorio di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo. Per le medesime finalità di cui al primo periodo, il Ministro cura altresì la formazione del personale amministrativo.”
Il testo normativo in discussione ha, responsabilmente, cura di distinguere la formazione dei magistrati da quella del personale amministrativo. Quanto alla prima, che qui ha più rilievo, usa il verbo promuovere.
Basta scorrere il vocabolario Treccani per cogliere le diverse, ma comunque affini, portate di senso del sostantivo “promozione” qui attribuito al Ministero della Giustizia, comprese fra il far avanzare, far progredire ed il favorire, dare impulso o più semplicemente proporre, dare l’avvio, dare l’inizio, ma anche sollecitare, spingere, stimolare, fare in modo che qualcosa aumenti d’intensità.
Il riferimento normativo, interno al ricordato art.14, c.4, all’art.12, c.1 lett. a) del d.lgs. n.26/2006 sta, del resto, a significare che la SSM ha piena autonomia nell’individuazione della programmazione didattica, ma al contempo elabora la propria proposta “tenendo conto delle linee programmatiche sulla formazione pervenute dal Consiglio superiore della magistratura e dal Ministro della giustizia”. Una sinergia ed una cooperazione che negli anni si sono rivelate assai fruttuose, muovendosi sul crinale, bidirezionale, dell’autonomia e della collaborazione.
Ma il punto è, come già detto, che il testo del d.d.l. IA non è ancora legge e, dunque, che le Linee programmatiche sull’IA 2024 del CSM hanno soltanto sfiorato il tema, dichiarando espressamente che “L'utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale come strumento di supporto l'argomento dell'uso del lavoro del settore giudiziario merita un approfondimento, seppure si trovi tuttora in uno stato di sviluppo embrionale.” -pag.9-.
Nello stesso documento “Si suggerisce la creazione di cicli formativi sull'Intelligenza Artificiale nei vari settori dell'ordinamento e, in particolare, sull'I.A. nell'organizzazione giudiziaria e nel lavoro giudiziario, con il coinvolgimento del Consiglio Superiore della Magistratura e della CEPEJ. Si aggiunge, poi, che il possibile percorso formativo dedicato all'Introduzione all'Intelligenza Artificiale dovrebbe mirare a “fornire una base di conoscenza sui principi cardini dell'intelligenza artificiale (IA) e sulle sue applicazioni pratiche in contesti pubblici e privati, al fine di promuovere sessioni di interlocuzione critiche e informate sulle opportunità e rischi offerti dall'utilizzo di tali tecnologie”. Si suggerisce l'adozione della seguente ripartizione di argomenti 1. Introduzione all'intelligenza artificiale: esposizione dei concetti base dell'intelligenza artificiale, dei principali algoritmi e tecnologie; 2. Linee guida nazionali dell'IA e applicazioni quotidiane: rappresentazione della strategia nazionale per l'intelligenza artificiale e delle ulteriori linee guida di indirizzo. Analisi delle principali applicazioni nel mondo pubblico e privato; 3. Etica nell'utilizzo dell'IA: esplorazione dei possibili problemi di carattere etico dell'IA (es. bias nei dati), con esposizione e discussione su casi pratici”.
Sembra dunque opportuno indirizzare i progetti formativi a:
Si tratta di aspetti che riflettono le preoccupazioni, già sopra esposte dalla dottrina e di recente esteriorizzate nel Rapporto dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali (FRA) del 2025[32] e nelle opinioni nn.3 e 6 del 14 dicembre 2020[33], ove sono stati segnalati i rischi sistemici legati alla necessità di garantire un accesso effettivo e consapevole alla giustizia rispetto a controversie in cui vengono in gioco l’uso di sistemi di intelligenza artificiale, i c.d. bias algoritmici, la sorveglianza opaca, le discriminazioni di genere ed etnia, la mancata trasparenza dei processi decisionali automatizzati.
Per tale motivo la protezione dei diritti non può essere rinviata a una verifica a posteriori degli effetti prodotti dalla tecnologia ma deve, piuttosto, essere coessenziale allo sviluppo degli strumenti digitali. Occorre dunque esaminare le principali risposte normative e istituzionali anche a livello sovranazionale, volte a garantire il rispetto dello Stato di diritto anche nell’ambiente digitale e alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
4. La formazione del giurista nell’era dell’intelligenza artificiale
Secondo un sondaggio esposto da un docente inglese ad un corso organizzato dalla SSM per i giovani magistrati europei da poco concluso a Castel Capuano, nel Regno Unito il 73% dei magistrati non usa l’AI nella sua attività ma…il 27% sì!
Si tratta di un dato sul quale riflettere al fine di garantire, da parte della formazione, standard di conoscenza capaci di salvaguardare il canone dell’eguaglianza in favore dell’utenza.
Se la trasformazione digitale e l’ingresso pervasivo dell’intelligenza artificiale nei processi sociali, amministrativi e giurisdizionali pongono interrogativi radicali sul ruolo e sulle competenze del giurista contemporaneo, occorre affrontare consapevolmente questa transizione e dunque “progettare” un modello formativo che, nella cornice delle linee fondamentali già esposte, risponda in modo articolato a tre domande fondamentali: 1.che cosa deve sapere un giurista sull’IA e su quali contenuti vada orientata la formazione[34]; 2. come deve essere formato;3. con quali partner collaborare alla sua formazione.
Questo modello si innesta in modo coerente con l’attuale struttura della formazione dei magistrati italiani, articolata sul piano interno in una formazione (iniziale e permanente) centrale, gestita dalla Scuola Superiore della Magistratura con il fondamentale supporto della formazione decentrata, attraverso i formatori distrettuali[35]. La sinergia tra questi livelli consentirebbe di declinare un’offerta formativa sull’IA che sia allo stesso tempo unitaria nei principi e adattabile alle specificità locali in termini numerici e logistici, capace di combinare teoria e pratica, innovazione e salvaguardia dei valori costituzionali. Il tutto creando vitale e continua sinergia fra le strutture decentrate ed i magistrati MAGRIF-Magistrato di Riferimento per l’Innovazione e l’Informatica- statutariamente chiamati ad intercettare le necessità dell’ufficio giudiziario in tema di informatizzazione, innovazione tecnologica e ad elaborare proposte in collaborazione con i RID (Referenti distrettuali per l’innovazione) e con la dirigenza dei singoli uffici anche per individuare buone prassi.
Ma anche su questo versante è necessario che il progetto formativo offra ai formatori decentrati opportunità di crescita sul piano delle conoscenze in tema di AI e, dunque, investa sul piano della formazione dei formatori in maniera specifica, anche attraverso l’organizzazione di attività formative specifiche (corso HELP, di cui si dirà appresso) direttamente orientate a “formare” chi è chiamato ad organizzare progetti formativi su scale distrettuale.
Sul piano internazionale, per converso, la SSM partecipa con grande dinamismo alla Rete di formazione europea dei magistrati, al cui interno è stato di recente istituito un settore specificamente dedicato alla digitalizzazione della giustizia ed è partner di numerosi progetti internazionali con altre scuole di magistratura e istituzioni universitarie impegnate a vario titolo nella formazione dei magistrati. Luoghi, questi ultimi, nei quali il tema dell’AI è sempre più al centro delle attività di formazione.
I progetti finanziati dalla Commissione europea ai quali ha partecipato con successo la SSM- progetti EnJita 3, Split e Trust AI- possono infatti rafforzare la dimensione comparata e sovranazionale dei contenuti formativi sull’IA, favorendo un allineamento tra standard nazionali ed europei in ambito etico, giuridico e tecnologico e lavorando ancora una volta con un’ottica improntata a “fare rete” in una direzione rivolta a condividere esperienze.
Il giurista nostrano dovrebbe per questo essere messo in condizione di formarsi in prospettiva comparata e globale, per cogliere le dinamiche transnazionali dell’IA e del diritto. In questa prospettiva andrebbe sviluppata la comparazione tra modelli normativi all’avanguardia in materia: USA, Cina[36], Europa (capostipite sul tema della tutela dei diritti fondamentali).
Accanto a questa prospettiva è necessario approfondire gli standard etici e la conoscenza delle linee guida in materia (Commissione Europea, CEPEJ, Consiglio d’Europa).
A titolo meramente esemplificativo, può qui ricordarsi la banca dati Resource Centre on Cyberjustice and AI della CEPEJ[37], ove sono documentati i sistemi di intelligenza artificiale e gli strumenti digitali già utilizzati o in fase di sviluppo nei diversi ordinamenti giudiziari europei, descrivendone caratteristiche tecniche, ambiti di applicazione, soggetti responsabili e stato di avanzamento. La sua utilità per la formazione sembra evidente se si guarda alla possibilità di offrire ai magistrati e agli operatori della giustizia una visione comparata e aggiornata delle tecnologie applicate alla giurisdizione, distinguendo tra esperienze consolidate e sperimentali, in modo da favorire un apprendimento in progress e comparato. Ciò nella prospettiva di assimilazione, da parte dei magistrati, di un complesso intreccio di trasformazioni che non li veda passivi fruitori di sistemi non pienamente conosciuti, ma invece protagonisti principali, capaci di valutare rischi e opportunità dei vari sistemi e promuovere lo scambio di esperienze.
Per altro verso, l’European Cyberjustice Network[38], istituito sempre dalla CEPEJ nel 2021, conferma ancora una volta la necessità di fare rete, non potendosi affrontare la trasformazione digitale della giustizia con una prospettiva domestica. Favorendo lo scambio di esperienze, la circolazione di buone pratiche e il confronto con partner istituzionali e accademici di altri Paesi, l’ECN conferma come solo attraverso la cooperazione multilivello improntata a fiducia reciproca sia possibile sviluppare strumenti realmente efficaci, legittimi e coerenti con i principi comuni dello Stato di diritto. Una formazione dedicata anche alle piattaforme e reti appena ricordate e sviluppate all’interno del CEPEJ si dimostra allora fondamentale per la preparazione del giurista, consentendo non solo di conoscere le tecnologie più avanzate applicate alla giustizia, ma anche di comprendere i contesti europei in cui esse si sviluppano, le reti di cooperazione che ne favoriscono la diffusione e i principi comuni che ne orientano l’uso. Una formazione così non solo tecnica, ma invece capace di far maturare una consapevolezza comparata e multilivello, indispensabile a chi esercita funzioni giurisdizionali in un sistema sempre più interconnesso.
Né di minore valenza appare la “Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi”, adottata dalla CEPEJ nel 2018, ove il giudice è posto al centro del rapporto tra giurisdizione e innovazione tecnologica. Se è indubbio che gli strumenti di IA possano contribuire ad accrescere efficienza e qualità, “è essenziale assicurare che essi non minino le garanzie del diritto di accesso a un giudice e del diritto a un equo processo [...] Essi dovrebbero essere utilizzati anche con il dovuto rispetto per i principi dello stato di diritto e dell’indipendenza dei giudici nel loro processo decisionale” (p. 8).
Questa centralità del giudiziario si riflette anche nell’uso quotidiano delle tecnologie, visto che secondo la Carta “i professionisti della giustizia dovrebbero essere in grado, in qualsiasi momento, di rivedere le decisioni giudiziarie e i dati utilizzati per produrre un risultato e continuare ad avere la possibilità di non essere necessariamente vincolati a esso alla luce delle caratteristiche specifiche di tale caso concreto” (p. 13). Affinché il controllo giudiziario sia effettivo occorre, dunque, un’adeguata formazione, per cui “dovrebbero essere previsti programmi di alfabetizzazione informatica, destinati agli utilizzatori, e dibattiti che coinvolgano i professionisti della giustizia” (p. 13).
Sono queste le ragioni per cui nella Carta etica del 2018 si sottolinea che, lungi dall’essere un mero strumento di efficienza, l’IA deve “rafforzare le garanzie dello stato di diritto, nonché la qualità della giustizia pubblica” (p. 15), in un quadro in cui il giudice resta il garante supremo dei diritti e l’IA un supporto subordinato al rispetto della rule of law.
Proprio in questa prospettiva di respiro non ridotto al piano nazionale, assumono particolare rilevanza le strategie di diffusione della cultura dei diritti fondamentali all’interno del progetto HELP costituito presso il Consiglio d’Europa.
Un esempio significativo di networking formativo è appunto rappresentato dal corso HELP su Intelligenza Artificiale e Diritti Fondamentali, sviluppato dal Consiglio d’Europa[39]. Importare ed utilizzare, con i necessari adattamenti, tale corso nel sistema di formazione giudiziaria italiano significa predisporre un percorso che, pur mantenendo il format generale HELP, sia calibrato sulle esigenze concrete dei magistrati italiani. Questo adattamento non è soltanto contenutistico, ma anche metodologico, poiché la previsione della nomina di un tutor appositamente scelto consente infatti di accompagnare i partecipanti, guidandoli nell’applicazione pratica dei principi e degli strumenti appresi, attraverso un percorso misto, nel quale la struttura generale del corso Help viene arricchita in relazione alla specifica realtà dei partecipanti nazionali.
In tal modo, lo sviluppo in materia di formazione giudiziaria a livello europeo può e deve trovare un punto di raccordo con il sistema nazionale, garantendo non solo il trasferimento di conoscenze, ma anche la loro effettiva integrazione nel contesto giuridico interno.
Ecco, quindi, la “rete” nella quale la SSM potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo di rilievo per la magistratura e per il Paese.
4.1. L’albero della formazione dei magistrati in tema di AI: a) che cosa dovrebbe sapere un giurista?
Ricapitolando e provando a seguire il ragionamento logico che sta alla base di un ideale albero della formazione sull’AI[40], il giurista/magistrato dovrebbe poter acquisire conoscenze su diversi assi tematici, distribuiti tra formazione iniziale e permanente centrale e livello distrettuale.
Quanto alla formazione curata in sede centrale andrebbero sviluppati i seguenti temi:1) quadro normativo di riferimento[41], etica[42] e diritti fondamentali: rischi per l’autonomia decisionale, non discriminazione algoritmica, privacy, trasparenza, controllo umano;2) sistemi di AI e loro comprensione; 3) logica giuridica versus logica computazionale[43]: differenze epistemologiche, limiti della giustizia predittiva, ambiguità e valori;4) modelli comparati e linee guida internazionali. Tali temi andrebbero poi restituiti a livello di formazione decentrata- in sinergia con MAGRIF e RID-, lasciando alle singole formazioni decentrate l’autonomia sull’approfondimento di singoli aspetti affrontati a livello centrale e soprattutto le fasi laboratoriali tese a favorire lo sviluppo e l’apprendimento pratico delle nuove tecnologie, degli strumenti e delle pratiche operative, anche per verificare i rischi dell’uso dell’AI, i bias sistemici e le buone pratiche di uso dell’IA.
Il tutto per rafforzare la cultura dei diritti nel contesto digitale e fornire ai magistrati strumenti critici per valutare la compatibilità costituzionale e convenzionale dell’impiego dell’AI, in una prospettiva di bilanciamento tra innovazione e tutela della persona.
Seguendo questo percorso, la formazione sul piano delle fonti passerà poi, necessariamente, per la verifica dell’integrazione fra fonti sovranazionali e nazionali in materia dovendosi verificare, appena sarà varato in via definitiva il testo normativo interno sull’AI, in che misura gli spazi regolati sul piano domestico si pongano in armonia o in discontinuità con i parametri europei, rappresentati non solo dai Regolamenti citati, ma anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
La formazione andrebbe dunque pensata come un percorso ibrido, esperienziale e progressivo.
Un primo livello -centrale- dovrebbe privilegiare eventi con una didattica integrata e workshop orientati a sviluppare tematiche di taglio etico-normativo, prevedendo eventualmente delle restituzioni a livello decentrato, previa individuazione delle strutture formative capaci di indirizzarsi ad un numero rilevante di magistrati, investite del compito di predisporre, con piena autonomia, i iniziative di restituzione/ripetizione di corsi organizzati a livello centrale, con modulazioni eventualmente peculiari in relazione alle singole realtà territoriali. Il naturale dinamismo che caratterizza le formazioni distrettuali potrebbe così fare rete con le iniziative centrali, sperimentando laboratori pratici, simulazioni processuali con strumenti di IA e riflessioni condivise sull’impatto effettivo dei sistemi nei vari settori della giurisdizione.
Questi due livelli andrebbero realizzati con una didattica integrata che combini teoria, casi studio, laboratori e simulazioni, affiancando un sistema di monitoraggio e valutazione continuativa per verificare l’applicazione delle conoscenze a problemi complessi anche a distanza dai seminari organizzati.
Il sistema di rilevazione utilizzato in ambito EJTN, basato su piattaforme interattive come Mentimeter, potrebbe (e forse dovrebbe) essere agevolmente esportato presso la Scuola Superiore della Magistratura anche per i corsi dedicati all’intelligenza artificiale.
Tale strumento sembra prestarsi in modo equilibrato[44] a testare il grado di conoscenza di nozioni tecniche rispetto alle quali la maggior parte dei magistrati non possiede una formazione di base, consentendo di effettuare una misurazione oggettiva delle competenze iniziali e finali dei partecipanti. Attraverso un questionario somministrato in apertura e in chiusura del corso, composto da domande a risposta multipla o quiz strutturati sugli argomenti trattati, è possibile rilevare da parte degli esperti e relatori in tempo reale il livello di apprendimento, visualizzare i dati in forma aggregata durante la sessione e successivamente esportarli per elaborazioni statistiche che, oltre a calcolare l’incremento medio delle conoscenze, includono la rilevazione delle percentuali di risposte corrette e non corrette sia nel pre-test che nel post-test. L’analisi dei feedback raccolti offrirebbe alla Scuola superiore un patrimonio informativo prezioso per calibrare l’offerta futura e per orientarla in modo sempre più aderente alle esigenze reali della giurisdizione, in coerenza con il suo ruolo di presidio della rule of law. Infatti, in termini più generali, la misurazione dell’offerta formativa deve rappresentare un punto cruciale, poiché un sistema di valutazione quanto più accurato consente di verificare non solo la qualità metodologica e contenutistica dei programmi, ma anche la loro capacità di incidere realmente sulle competenze dei magistrati. La misurazione diventa allora uno strumento per rendere la formazione accountable, pienamente responsabile rispetto agli obiettivi di tutela dei diritti fondamentali e di rafforzamento delle garanzie dello Stato di diritto.
4.2. Segue: b) con chi dovrebbe essere formato il magistrato?
Anche su questo aspetto il modello da seguire dovrebbe procedere con il sistema della rete integrata, in modo da coinvolgere a diversi livelli, giuristi- giudici, avvocati, notai- informatici, filosofi ed eticisti da affiancare ad esperti del settore tecnologico (ingegneri, sviluppatori, data scientist).
A queste professionalità, come già accennato, andrebbero affiancati altri attori istituzionali e regolatori (CSM, Ministero Giustizia, Garante Privacy, Commissione Europea, Ordini professionali, Osservatori della giustizia, OCSCE) insieme agli enti strategici nazionali come -Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) e l'Agenzia per l'Italia Digitale (AgID), con cui sarebbe fondamentale, sulla scia delle prospettive tratteggiate da Castelli, avviare collaborazioni periodiche per integrare nei percorsi formativi comuni temi legati alla sicurezza informatica, alla protezione dei dati, all'interoperabilità dei sistemi e alla qualità dei servizi digitali pubblici, in un'ottica di sinergia tra innovazione tecnologica e tutela giuridica[45].
5. Conclusioni (in progress)
La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa del 2024 sopra richiamata afferma che l’uso dell’IA deve restare pienamente coerente con i diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto (art. 1). Per altro verso, le disposizioni su trasparenza, responsabilità, ricorsi effettivi e indipendenza giudiziaria (artt. 4–7) mostrano che senza magistrati adeguatamente formati tali principi rischiano di restare astratti. La formazione giudiziaria diventa, dunque, strumento indispensabile per rendere effettivo lo Stato di diritto di fronte alle sfide poste dall’intelligenza artificiale.
Al termine di questa riflessione sembra davvero confermata la necessità di fornire a chi si impegna nella produzione del diritto e a chi si occupa della sua applicazione gli strumenti intellettuali necessari per mantenere il controllo della situazione in fieri e utilizzare proficuamente gli apporti della intelligenza artificiale[46].
La proposta che pare possibile delineare mettendo insieme i tasselli (tanti) qui sommariamente utilizzati intende offrire una possibile prospettiva metodologica sul piano organizzativo della formazione dei magistrati in tema di AI, volta ad immaginare una vera e propria cabina di regia alimentata dai diversi protagonisti che istituzionalmente hanno a cuore il tema dell’AI nel sistema giustizia che raccolga i contributi di tutti gli attori interessati, valorizzi le esperienze già maturate anche solo in via sperimentale, attivi sinergie con organismi nazionali e sovranazionali mettendo a profitto i progetti internazionali già in corso e quelli da intraprendere, moltiplichi le opportunità di formazione anche in sinergia con l’Avvocatura[47] e favorisca una cooperazione strutturata fra livelli centrali e decentrati delle strutture di formazione della SSM.
Tutto questo in modo che possa procedersi gradualmente e progressivamente ad un sistema formativo che riguardi al contempo i formatori dei formatori ed i magistrati tutti e, in generale, il sistema Giustizia.
Lo sviluppo di un progetto formativo sull’AI dovrebbe dunque fondarsi sull’idea di “fare squadra”, pure suggerita di recente da uno dei massimi studiosi della materia anche sul piano etico[48]. Pensare di poter prescindere da queste forme di dialogo, confronto e cooperazione, interna ed esterna, preferendo fragili personalismi sarebbe al tempo stesso velleitario e scarsamente orientato ad una logica di condivisione delle problematiche molteplici che si aprono innanzi agli operatori ed a chi è chiamato a governare l’eventuale utilizzo dei sistemi di AI nel settore della giustizia.
Questo sembra essere l’(unico) orizzonte solido, al cui interno potere realizzare un luogo di dialogo e di coordinamento in grado di dare credibilità e autorevolezza ad ogni progetto di formazione sul tema che possa risultare effettivo e credibile.
In questo modo la formazione giudiziaria sull’intelligenza artificiale potrà svilupparsi come percorso di alto profilo, capace di coniugare innovazione tecnologica, tutela della rule of law e dei diritti fondamentali, insieme a responsabilità istituzionali degli Enti coinvolti.
Per altro verso, ogni iniziativa di formazione dei magistrati sull’intelligenza artificiale di lungo orizzonte dovrebbe potersi fondare su un quadro normativo definito e integrato che, come si è visto, allo stato è ancora non ben definito, sia quanto alle competenze che ai limiti degli strumenti di AI in ambito giudiziario.
È questo l’elemento di partenza che oggi manca sul piano nazionale, mentre a livello europeo l’orizzonte è stato segnato dal già ricordato Regolamento (UE) 2024/1689, che impone obblighi specifici per i sistemi di IA ad alto rischio. L’assenza di una cornice chiara e definita sul piano delle competenze in materia di formazione dei magistrati e, ancora prima, sulle caratteristiche dei sistemi di AI in ambito giustizia, affiancata all’assenza di una normativa di recepimento del quadro UE suggerisce, dunque, prudenza rispetto a progetti formativi di lungo respiro e, dunque ad oggi difficilmente in grado di orientare la prassi.
C’è ancora tempo, dunque, per mettere a punto una strategia cooperativa diretta ad integrare e meglio orientare le scelte di politica formativa in tema di AI, in modo che l’innovazione tecnologica sia messa al servizio del sistema giustizia e all’interno di una cornice complessiva della programmazione annuale e pluriennale.
[1] L. Violante, Human rights in the digital society, in https://www.pass.va/en/publications/studia-selecta/studia_selecta_07_pass/violante.html.
[2] L. Violante, Diritto e potere nell’era digitale. Cybersociety, cybercommunity, cyberstate, cyberspace: tredici tesi, in Biolaw Journal n.1/2022 ,145 ss.
[3] O. Pollicino, Di cosa parliamo quando parliamo di costituzionalismo digitale?”, in Quaderni Costituzionali n. 3/2023.
[4] Intervista di J. Paoletti a Oreste Pollicino, l’Intelligenza Artificiale e il rischio di un Leviatano chiamato Tecnocrazia, 29 aprile 2025, in https://www.iaic.it/news/oreste-pollicino-lintelligenza-artificiale-e-il-rischio-di-un-leviatano-chiamato-tecnocrazia/
[5] O. Pollicino, Digital Private Powers Exercising Public Functions: The Constitutional Paradox in the Digital Age and its Possible Solutions, https://www.echr.coe.int/documents/d/echr/Intervention_20210415_Pollicino_Rule_of_Law_ENG.
[6] T. Groppi, Alle frontiere dello stato costituzionale: innovazione tecnologica e intelligenza artificiale, in Consultaonline, 28 settembre 2020, 675, spec. 678 e 679.
[7] O. Pollicino, P. Dunn, Intelligenza artificiale e democrazia, Opportunità e rischi di disinformazione e discriminazione, Bocconi University, 2024.
[8] A. Simoncini, Sovranità e potere nell’era digitale, in T. E. Frosini, O. Pollicino, E. Apa, M. Bassini (a cura di), Diritti e libertà in internet, Firenze, 2017, 20.
[9] A. Simoncini, Il linguaggio dell’intelligenza artificiale e la tutela costituzionale dei diritti, in Riv.AIC, 12 aprile 2023.
[10] N. Lipari, Diritto, algoritmo, predittività, in AA.VV., Giocare con altri dadi Giustizia e predittività dell’algoritmo, a cura di V. Mastroiacovo, Torino, 2024, 4 e ss.
[11] Sul punto, v. l’approfondito saggio di S. Dorigo, L'intelligenza artificiale e i suoi usi pratici nel diritto tributario: Amministrazione finanziaria e giudici, in S. Dorigo, R. Cordero Guerra, Fiscalità dell’economia digitale, Pisa, 2022, 192 ss.
[12] G. De Minico, Giustizia e intelligenza artificiale: un equilibrio mutevole”, Rivista AIC – Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 2/2024.
[13] G. De Minico, Un argine è necessario e riguarda il potere politico, Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2025
[14] G. Gallone Riserva di umanità e funzioni amministrative, Milano, 2023.
[15] Così anche R. D’Angiolella, Giustizia e intelligenza artificiale tra l’AI ACT e il disegno di legge italiano. L’insostituibilità del giudice, il metodo e l’argomentazione giuridica, in questa Rivista, 30 luglio 2025.
[16] G. Gallone. op. cit., 42.
[17] C. Castelli, Decidere con l’IA. Intelligenze artificiali e naturali nel diritto. Recensione al libro di A. Santosuosso e G. Sartori, Bologna, (Il Mulino, 2024), in Questionegiustizia. 23 maggio 2025.
[18] V., sul punto, M. Vallone, Spazio virtuale le garanzie di giurisdizione nella resilienza e nella difesa della sicurezza nazionale, Atti del convegno svolto nei giorni 11/12 ottobre 2024 in Roma, Palazzo della Farnesina, Prefazione, 14, in Quaderno della Rivista Trimestrale della Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, n.1/2025.
[19] P. Benanti, L’opacità della AI non ha precedenti, ma noi dobbiamo scrutarla, in Corrieredellasera, Sette, 18 luglio 2025. 12
[20] A. Simoncini, Il linguaggio dell’intelligenza artificiale e la tutela costituzionale dei diritti, Riv.AIC, n.2/2023, 12 aprile 2023, 31, a proposito della decisione algoritmica: La comprensibilità deve essere garantita, sia per i cittadini che per il giudice, in tutti gli aspetti: “dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti” (richiamando Cons. Stato, Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2770 n.d.r.)
[21] G. Comandè, Intelligenza artificiale e responsabilità tra "liability" e "accountability". Il carattere trasformativo dell’IA e il problema della responsabilità, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2019, 175 ss.
[22] A. Garapon, Le despazializzazione della giustizia, Milano, 2021.
[23] A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 148.
[24] A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 147.
[25] G. Zabrebelsky, Il dubbio e il dialogo. Il labirinto di Norberto Bobbio, Torino, 2024, 62.
[26] Nella Prefazione a Il ragionamento giuridico nell’era dell’intelligenza artificiale (AA.VV., a cura di S. Dorigo, Pisa 2020), il curatore del volume sottolinea come l’attività giurisdizionale non possa essere surrogata dall’automazione, poiché “l’interpretazione e l’applicazione delle norme giuridiche è da sempre un fenomeno umano: e questo perché le norme non sono mai chiare e quindi è sempre richiesto un quid pluris intellettuale per portarle ad esecuzione” -XVI-. Proprio l’ingresso dei sistemi intelligenti nei processi decisionali impone di chiarire se essi possano davvero supportare il ragionamento giuridico o se ne alterino “in modo decisivo il modo di essere” (ib.). Nello stesso volume, R. Köche, L’intelligenza artificiale a servizio della fiscalità: il sistema brasiliano di selezione doganale attraverso l’apprendimento automatico (SISAM) osserva che le decisioni della macchina non sono fondate soltanto su parametri giuridici, ma anche su criteri “politici ed economici” e che, pertanto, “la sua adeguatezza deve essere valutata sulla base di criteri di legittimità giuridica – altrimenti si supererebbero i limiti democratici” (P.340). In quest’ottica, il ruolo del giudice rimane imprescindibile: spetta a lui verificare la conformità delle scelte automatizzate ai parametri costituzionali e garantire che il controllo fiscale o amministrativo sia guidato dal rispetto della legge, “come ci si aspetta in uno Stato di Diritto” (P.342). L’autore mette in guardia, infine, rispetto all’illusione che l’intelligenza artificiale possa esaurire il compito ermeneutico: “esiste tuttavia una dimensione ermeneutica non trasponibile per l’intelligenza artificiale, una sorta di insufficienza semantica del processo decisionale” (p.342). Ne deriva che la giurisdizione non può essere ridotta a un calcolo probabilistico, e che la funzione del giudice – adeguatamente formato per comprendere opportunità e limiti degli strumenti tecnologici – resta centrale per salvaguardare il senso stesso del diritto nell’era digitale.
[27] V., volendo, R. Conti, Il mutamento del ruolo della Corte di cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle interpretazioni, in Consultaonline, 7 dicembre 2015; id., La Corte di cassazione e la sua funzione, in questa Rivista, 17 novembre 2018; id., Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista, 4 marzo 2021; id., La funzione nomofilattica delle Sezioni Unite civili vista dall’interno (con uno sguardo all’esterno), in questa Rivista, 11 gennaio 2024. V., ancora, Intervista di R.Conti a R. Rordorf, G. Luccioli, E. Lupo e G. Canzio sul tema “Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità, in questa Rivista, 19 giugno 2019.
[28] Cfr. V. Montani, Logica umana e applicazioni della razionalità artificiale. Intervista al Prof. Angelo Costanzo, in DIMT, https://www.dimt.it/news/logica-umana-e-applicazioni-della-razionalità-artificiale-intervista-al-prof-angelo-costanzo/: “l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, nelle sue varie forme e graduazioni, può influire positivamente sull’imparzialità del giudicante perché può ampliare il novero dei dati e delle prospettive da utilizzare per la decisione. Ma comporta anche il rischio di frenare, inibire, deviare o cristallizzare l’immaginazione logica e l’immaginazione etica che sono le sorgenti della imparzialità, intesa nel suo senso più pregnante di apertura – emancipati da pregiudiziali autolimitazioni intellettuali − alle diverse ragionevoli interpretazioni dei dati normativi e alle diverse non implausibili ricostruzioni dei fatti… La razionalità artificiale non è in grado di sostituire il giurista ma può aiutarlo quando tratta una quantità di dati superiore a quelli che un individuo umano può gestire.”
[29] V., sul punto, G. Amoroso, Riflessioni in tema di diritto vivente e intelligenza artificiale e di D. Micheletti, Algoritmi nomofilattici a confronto: ufficio del massimario vs. intelligenza artificiale, entrambi in AA.VV., Giocare con altri dadi Giustizia e predittività dell’algoritmo, a cura di V. Mastroiacovo, Torino, 2024, rispettivamente pagg.176 e 185.
[30] L. Violante, Human rights in the digital society, cit., sub arg.n.4.
[31] Si veda, sul punto, F. Di Vizio, Il ruolo della SSM nella formazione digitale dei magistrati e le prospettive di utilizzo dell’IA nell’attività giudiziaria. Relazione all’incontro annuale del CSM con i RID, Roma, Palazzo Bachelet, 5 giugno 2025, a quanto consta, inedito.
[32] https://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/fra-2025-fundamental-rights-report-2025_en.pdf
[33] https://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/fra-2020-artificial-intelligence_en.pdf
[34] In questa direzione si muove, a titolo meramente esemplificativo, la struttura della Formazione presso la Corte di Cassazione, promotrice di una iniziativa, calendata per il prossimo 30 settembre, sul tema della rilevanza dell’AI sull’attività giurisdizionale di merito e di legittimità- Gli strumenti dell'intelligenza artificiale e l'attività giudiziaria, in https: //www.cortedicassazione.it/page/it/gli_strumenti_dellintelligenza_artificiale_e_lattivita_giudiziaria?contentId=EVN46203.
[35] L’esperienza dimostra che proprio dalle sedi decentrate si siano sviluppate esperienze poi proiettate ed ampliata alla dimensione nazionale. Di recente, la formazione decentrata presso la Corte di appello di Cagliari ha organizzato un corso su Diritto e neuroscienze -31 marzo 2 aprile 2025, per cui v. il sito della SSM, parte materiali multimediali -. Tra queste, quella in corso a Catania sull’uso dell’intelligenza artificiale in ambito giudiziario si fonda su una serie di progetti sperimentali che vedono coinvolti diversi partner istituzionali. In tale contesto il Tribunale di Catania ha avviato con il Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica (CINI) una sperimentazione rivolta alla sezione civile-imprese, con l’obiettivo di applicare strumenti di analisi automatica e classificazione degli atti-v. B. L. Mazzei, Tribunale di Catania e Consorzio Cini per l’uso dell’AI nella giustizia, in Ilsole24ore, 26 maggio 2025, in https://www.ilsole24ore.com/art/tribunale-catania-e-consorzio-cini-l-uso-dell-ia-giustizia-AHCr05u?refresh_ce-. Parallelamente l’Università di Catania, insieme a diverse facoltà, partecipa al progetto nazionale del Ministero della Giustizia JUST-SMART, finalizzato a sviluppare modelli e strumenti digitali per migliorare l’organizzazione del lavoro giudiziario, la calendarizzazione delle udienze ed il monitoraggio dei carichi-v. https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/upp_dettaglio_macroarea_6#-. Ancora una volta, alla base di queste esperienze c’è l’idea di fare rete per costruire un solido scambio di esperienze tra tribunali, università e centri di ricerca, orientati in modo cooperativo ad integrare innovazione ed esigenze di migliore efficienza del sistema giudiziario, in coerenza con la rule of law.
[36] V. L. Violante, Diritto e potere nell’era digitale. Cybersociety, cybercommunity, cyberstate, cyberspace: tredici tesi, cit.: “Un esempio di Cyberstate è la Cina, il cui modello dovrebbe essere analizzato per individuare i rischi che la democrazia corre nel Cyberspace. Nel 2017 il Governo cinese ha pubblicato il “Piano di sviluppo dell'IA di nuova generazione per il 2030”, finalizzato ad assumere la leadership mondiale nel campo dell’AI entro il 2030. In questo documento, il governo cinese affermava che conquistare la posizione leader nella tecnologia dell’IA era fondamentale per affermare la posizione militare ed economica della Cina nel mondo. L’obiettivo, esposto nel documento, è incorporare nell'IA tutti gli aspetti della vita privata e pubblica, dell'industria, del commercio, della difesa e della sicurezza. La Cina ha usato l’AI per la competizione globale facendo leva soprattutto sull’enorme quantità di dati che i cittadini cinesi generano sia online che offline, alla luce del fatto che la società cinese si basa su Internet e sull’uso del cellulare per qualunque transazione, sia per acquisti online sia per dati offline come semplici pagamenti. Il Piano AI identificava 7 aree chiave dell’IA su cui la Cina intendeva esprimere la propria leadership: a) Sistemi di imaging medica per la diagnosi precoce di malattie; b)Intelligenza audio per il riconoscimento vocale; c) Veicoli intelligenti in grado di navigare autonomamente in scenari complessi; d) Traduzione linguistica in scenari multilingua; e) Robot di servizio in grado di sostituire gli esseri umani in settori come l'istruzione, l'assistenza e la pulizia; f) Veicoli aerei senza pilota; g) Riconoscimento delle immagini, comprensione e sintesi di video, con ricerca di immagini specifiche all'interno di un video e l'integrazione uomo-video. La Cina ha impegnato centinaia di miliardi di dollari per il successo di questo piano. I risultati conseguiti: n. 1 al mondo per numero di papers di ricerca e di documenti sull'IA più citati in tutto il mondo; n. 1 al mondo nei brevetti AI; n. 1 al mondo negli investimenti di capitale di rischio dell'IA; n. 2 al mondo per numero di aziende di intelligenza artificiale; n. 2 al mondo per più grande pool di tali enti. Nel 2021, un rapporto della Stanford University indica che i ricercatori cinesi di intelligenza artificiale vengono citati più di tutti gli altri.”
[37] https://www.coe.int/en/web/cepej/resource-centre-on-cyberjustice-and-ai.
[38] https://www.coe.int/en/web/cepej/european-cyberjustice-network.
[39] https://rm.coe.int/artifical-intelligence-course-brief-english/1680b0cfe8
[40] Non è inutile, rispetto alla prospettiva offerta nel paragrafo, il riferimento all’albero di Porfirio operato da A. Costanzo, Dal pre-conscio al diritto artificiale, in questa Rivista, 10 febbraio 2023.
[41] Sui primi aspetti rassegnati nel testo, particolare attenzione andrebbe riservata al Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale (AI Act), che ha introdotto obblighi di impatto sui diritti fondamentali per i sistemi ad alto rischio e al Digital Services Act (DSA), relativo ai doveri delle piattaforme nella rimozione dei contenuti illeciti. Centrale appare, poi, l’analisi della legislazione europea (e della relativa giurisprudenza della Corte di Giustizia UE) sulla disciplina dei dati personali e del loro utilizzo da parte dell’autorità giudiziaria nell’ambito dell’attività decisoria. Particolare attenzione andrebbe poi riservata alla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sull’intelligenza artificiale, i diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto, adottata il 17 maggio 2024 e firmata, a nome dell’Unione Europea, in base alla Decisione (UE) 2024/2218 del Consiglio. Tale Convenzione, prima nel suo genere, si propone come una piattaforma di base contenente un complesso di garanzie minime ed impone che ogni applicazione dell’AI rispetti criteri di trasparenza, tracciabilità, partecipazione, rimedi effettivi e supervisione umana, riaffermando che anche nel contesto tecnologico valgono le garanzie dello Stato di diritto.
[42] L’approfondimento sul piano etico e deontologico che riguarda l’approccio del giudiziario all’AI dovrebbe costituire un ulteriore momento di approfondimento, coinvolgendo l’autogoverno della magistratura (CSM) in una prospettiva volta a stimolare un quadro rispettoso dei diritti fondamentali in campo.
[43] A. Costanzo, Dal pre-conscio al diritto artificiale, cit.
[44] Sembra infatti complesso immaginare, allo stato, forme sicuramente più sofisticate di rilevazione della concreta efficacia dell’attività formativa sui partecipanti, tenuto conto del numero di incontri di formazione organizzati e dell’organizzazione dei seminari anche all’interno del sito della SSM. Sul punto il contenuto del Quaderno n.12 della SSM, Ten years of the Italian School for the Judiciary (2011-2021), in https://ssm-italia.eu/wp-content/uploads/2022/12/Ten-years-of-the-Italian-School-for-theJudiciary.pdf?utm_source=chatgpt.com
[45] Proprio la fluidità di questo scenario spiega l’interesse del volume Assessing the Impact of Artificial Intelligence Systems on Fundamental Rights, che si misura sul terreno ancora in movimento della necessità di garantire un controllo adeguato sui sistemi di IA ad alto rischio. Gli autori non si limitano a sottolineare l’urgenza della questione, ma elaborano una proposta concreta, il FRIAct, vale a dire un modello di Fundamental Rights Impact Assessment concepito per tradurre in pratica le prescrizioni dell’AI Act. Come viene precisato nel volume, «The study is grounded in the obligations set forth by Regulation (EU) 2024/1689, known as the Artificial Intelligence Act (AI Act), which emphasises the necessity of assessing and mitigating risks to fundamental rights», e il FRIAct «is a critical tool mandated by the AI Act for certain high-risk AI systems». Non si tratta, dunque, di un mero esercizio teorico, ma di un tentativo di dare attuazione concreta a un obbligo giuridico, colmando la distanza tra principi costituzionali e operatività quotidiana. Il meccanismo proposto si fonda su una duplice struttura: da un lato, un Questionario qualitativo che raccoglie informazioni sul contesto e sugli obiettivi del sistema di IA, sulle popolazioni interessate e sulle possibili implicazioni etiche e sociali; dall’altro, una Matrix capace di tradurre questi elementi in indicatori semi-quantitativi, valutando l’impatto in termini di gravità e probabilità di violazione dei diritti fondamentali. L’esito è la produzione di FRIAct Scores, utili per orientare gli enti e gli operatori che intendono utilizzare l’IA, consentendo loro di anticipare rischi e adottare adeguate misure di mitigazione. Trasferito nel settore giustizia, un simile schema mette in luce una duplice prospettiva di lavoro. Da una parte, è evidente che non si può parlare di formazione dei magistrati senza avere alle spalle una base normativa chiara e multilivello, che integri fonti interne e sovranazionali e che garantisca la coerenza delle prassi. Dall’altra, diventa indispensabile affiancare ai percorsi formativi momenti stabili di confronto, aperti a istituzioni europee, autorità regolatorie, enti nazionali e internazionali, associazioni e università: solo così la formazione dei magistrati potrà crescere non come iniziativa isolata, ma come processo condiviso e integrato.
[46] A. Costanzo, Dal pre-conscio al diritto artificiale , cit.
[47] Importanti le prospettive tracciate dal Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano- A. La Lumia, AI. La UE ha anche bisogno di tecnologie, Ilsole24ore, 22 agosto 2025-.
[48] P. Benanti, L’opacità della AI non ha precedenti, ma noi dobbiamo scrutarla, cit.
Le opinioni espresse sono personali e non impegnano l'Istituzione di appartenenza.
Immagine: Edward Steichen, Rodin, Il Pensiero, 1902, stampa da due negativi.
Il pianoforte e la sua musica sublime, governati dall’autrice senza l’azzardo di manovre imprecise e col gusto raffinato della coerenza ad una trama a tratti energica, delicata e ricca di passaggi teneri ed accurati, sono i protagonisti indiscussi di una storia d’amore e d’amicizia.
In quello spazio indefinito tra il punto in cui vanno in frantumi i sogni e quello in cui nasce il pianto c’è un limbo - ci avvisa Abbadessa - in cui l’irruzione di un’amicizia può ridare linfa ed entusiasmo al grigiore e alla solitudine esistenziale, grazie a quell’onestà vicendevolmente protettiva non di rado più feconda dell’amore, condizione turbolenta, quest’ultima, e intimamente contraddittoria per sua stessa natura. Tra le due donne, Franca, pianista accompagnatrice, e Cristiana, talento indiscusso e di sicuro successo in àmbito di danza classica, s’insinua Carlo, fascinoso e colto professore appassionato di musica. Ed è proprio in questa leggiadra competizione tra donne, entrambe attratte dall’uomo, dipinta dalla scrittrice con l’incanto di una sognatrice ad occhi aperti, che si coglie il messaggio di egemonia sentimentale dell’amicizia, capace quest’ultima di ergersi come forza sovrastante, pronta a sublimarsi in una sopravvivenza vincente e convincente sull’amore.
Una scrittura accorta, a momenti musicale come le sue citazioni, che disegna frammenti di un’esistenza in fondo appartenente a tutti e che nel confronto - nell’attrito - tra ragione e sentimento coglie il senso profondo dell’amicizia.
Emanuela E. Abbadessa, La suggeritrice, Neri Pozza, 2024.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.
