ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. La fornitura di materiali d’armamento tra guerra in Ucraina e occupazione armata di Israele - 2. L’offesa alla libertà di altri popoli come condotta materiale, estromessa dalla Costituzione - 3. Un’omissione e due contraddizioni nella giurisprudenza italiana sul difetto assoluto di giurisdizione - 4. La tesi giurisprudenziale dell’atto politico nella fornitura di materiali d’armamento e i suoi effetti “creativi” di un potere costituzionalmente escluso - 5. L’unicità costituzionale che sfugge alla giurisprudenza sull’atto politico - 6. L’espunzione, dal panorama cognitivo del giudice italiano, dell’art 15 CEDU - 7. Dall’atto amministrativo sindacabile alle nullità dei contratti - 8. L’incostituzionalità del Memorandum d’intesa e dell’Accordo di sicurezza fra Italia e Israele.
1. La fornitura di materiali d’armamento tra guerra in Ucraina e occupazione armata di Israele
La guerra in Ucraina, prima, e l’occupazione armata, incessantemente ingaggiata da Israele a Gaza e non solo, in particolare dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre del 2023, hanno riportato ad attualità un tema, persistentemente in ombra nei dibattiti sull’art. 11 della Costituzione[1]: quello del rapporto fra ripudio della guerra e giustiziabilità del potere, pubblico o privato, di fornitura di materiali d’armamento a Stati aggrediti o aggressori.
La riemersione ha investito una serie di interrogativi, originariamente incentrati sugli accadimenti ucraini[2].
Nello specifico, ci si è chiesti se l’invio di materiale d’armamento allo Stato europeo fosse costituzionalmente legittimo al cospetto degli articoli 10, primo comma, 11, 52, primo comma, e 78 della Costituzione italiana.
La risposta prevalente si è rivelata affermativa per sei ordini di considerazioni[3]:
i. l’invio è stato deliberato con appositi atti normativi, a partire dal d.l. n. 14/2022, convertito in l. n. 28/2022 e reiteratamente prorogato, in deroga alla disciplina generale, la l. n. 185/1990, che invece lo vieta in scenari di guerra o di conflitto armato;
ii. tale deroga sarebbe costituzionalmente ammissibile, grazie al combinato disposto fra art. 10, primo comma, Cost. e art. 11 Cost., che colloca il ripudio della guerra nella cornice del diritto internazionale generale e dello Statuto ONU, reso esecutivo in Italia dalla l. n. 848/1957;
iii. l’art. 11 Cost. non contiene un’esplicita dichiarazione di neutralità, a differenza di altri Stati, come Svizzera, Austria, Malta e Repubblica d’Irlanda;
iv. perciò esso non osta a che l’Italia invii propri mezzi in appoggio di uno Stato, vittima di aggressione in violazione del diritto internazionale generale e dell’art. 2, n. 4, dello Statuto ONU;
v. anche perché la fornitura di materiali d’armamento non viola neppure l’art. 52, primo comma, Cost., con costituendo intervento diretto di autodifesa collettiva, ai sensi dell’art. 51 dello Statuto ONU, attraverso l’impiego di forze armate italiane in guerre altrui;
vi. né comporta, per l’Italia, l’assunzione del ruolo di parte nel conflitto, difettando pure la deliberazione parlamentare di stato di guerra, richiesta dall’art. 78 Cost.
Questo itinerario di verifica non risulta mai percorso né proposto in tutta la storia delle forniture di materiali d’armamento a favore di Israele, Stato notoriamente in disaccordo con il diritto internazionale, sia generale che umanitario, neppure dopo che il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 19 luglio 2024, prima, e la risoluzione dell’Assemblea Generale del 19 settembre 2024, dopo, hanno rubricato le condotte materiali israeliane come illeciti permanenti di aggressione territoriale a Gerusalemme est, Cisgiordania e nella stessa striscia di Gaza, e come violazione dei diritti individuali e collettivi dei palestinesi, invitando gli Stati terzi dell’ONU a interrompere qualsiasi relazione di scambio con lo Stato occupante[4].
Se, in passato, le forniture ci sono sempre state, avallate dal Memorandum d’intesa fra Italia e Israele del 2003, reso esecutivo con la l. n. 94/2005, e dall’Accordo di Sicurezza del 1987, richiamato dall’art. 5 del Memorandum, oggi continuano ad esserci[5] sia perché i due accordi italo-israeliani non sono stati denunciati[6] sia perché i provvedimenti abilitativi dei poteri di fornitura non sono stati mai né sospesi né revocati, nonostante l’apposita previsione degli artt. 10 e 15 della citata l. n. 185/1990[7].
Mantenendo questa continuità, l’Italia ha agito e sta agendo in modalità totalmente contraria al caso ucraino: invece di approvare una normativa in deroga pur di giustificare le forniture di materiali d’armamento, essa mantiene in vigore la legislazione, disapplicandola sul fronte delle sospensioni e revoche in scenari di guerra o di conflitto armato per di più nell’accertato contrasto con il diritto internazionale e lo Statuto dell’ONU; invece di soddisfare le sei condizioni di costituzionalità, elencate come necessarie per supportare uno Stato aggredito, ne prescinde a vantaggio di uno Stato aggressore.
In gioco, ancora una volta, è la conformità con l’art. 11 Cost.
2. L’offesa alla libertà di altri popoli come condotta materiale, estromessa dalla Costituzione
Il significato della disposizione è stato ampiamente scandagliato dalla dottrina italiana[8]; molto meno dalla giurisprudenza.
L’enfasi è costantemente ricaduta, come conferma la discussione sull’Ucraina, sul “ripudio” della guerra, in quanto imperativo categorico di decisione[9].
Da tale angolo di visuale, come si accennerà, l’imperativo è stato qualificato “sostanziale” rispetto a quello, definito “procedurale”, desumibile dall’art. 78 Cost.: ossia dell’accettazione della guerra quale “stato” di fatto prodotto sempre e solo da altri, mai dall’Italia, e, per l’Italia, riconoscibile esclusivamente da parte del Parlamento con apposita deliberazione[10].
Gli enunciati dell’art. 11 Cost., nondimeno, non si esauriscono a questo. Accanto all’imperativo della decisione di “ripudio”, la disposizione produce anche una norma performativa delle condotte materiali, riguardanti i rapporti con la libertà.
Detto altrimenti, e come osservato da una risalente attenta dottrina[11], mentre è «sacro dovere del cittadino» la “difesa” della propria patria (art. 52, primo comma, Cost.)[12], l’ “offesa” dell’altrui libertà è condotta materiale, inequivocabilmente estromessa dal panorama costituzionale sia nelle relazioni interindividuali interne allo Stato, per contrasto con il principio solidaristico dell’art. 2 Cost., sia in quelle esterne allo Stato e coinvolgenti altri popoli, per divieto dell’art. 11 Cost.
Non a caso, la Corte costituzionale ha erto l’estromissione della condotta offensiva della libertà altrui a valore costitutivo dello Stato di diritto italiano, riassunto dal neminem laedere (Corte cost. sent. n. 16/1992).
Così proiettato, l’art. 11 Cost. si coniuga con l’art. 2 Cost. e con l’art. 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, in forza del quale «ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati», delineando una situazione soggettiva universale, ossia propria di qualsiasi essere umano, che consiste nell’obbligo di “non offendere” le libertà altrui, sia di individui che di popoli, e nel riflesso diritto a “non essere offeso” come individuo o “altro” popolo[13].
Ora, le situazioni soggettive universali sono pacificamente giustiziabili. Se, per l’Ucraina, esse non emergono compromesse dai materiali d’armamento, visto che il loro invio mira a difenderle contro l’aggressione altrui, lo stesso non può certo dirsi per gli individui e il popolo aggrediti da Israele, Stato destinatario di quegli invii italiani malgrado la violazione del diritto internazionale e dello Statuto ONU.
Di qui, l’insorgenza delle esigenze di giustiziabilità.
Le risposte giurisprudenziali, ad oggi pervenute, appaiono insoddisfacenti e sbrigative. Piuttosto che entrare nella scansione dettagliata dai complessi accadimenti e delle loro ricadute costituzionali sull’art. 11 Cost., esse si sono arroccate nel proclamare l’insindacabilità del potere di fornitura di materiali d’armamento per difetto assoluto di giurisdizione, senza distinzioni di contesto e replicando pedissequamente una costante omissione e due ricorrenti contraddizioni, presenti in precedenti giurisprudenziali totalmente estranei al fenomeno in discussione.
La sintesi di siffatto ordito si rintraccia nella requisitoria della Procura Generale della Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, per il Ricorso RG n. 1683/2025[14], dove addirittura Ucraina e Israele, Stato aggredito e Stato aggressore, vengono parificati e, con essi, annacquate l’osservanza o meno del diritto internazionale e dello Statuto dell’ONU, escludendo responsabilità dei poteri e tutela delle situazioni giuridiche tutelabili in nome di una “materia”, le relazioni internazionali, ignota al testo dell’art. 11 Cost., dove, al contrario, l’unica “materia” trattata è quella della «risoluzione delle controversie internazionali», tutt’altro che “libera nei fini” poiché finalizzata esclusivamente alla pace.
Si deve, allora, verificare perché l’omissione e le contraddizioni giurisprudenziali sul difetto assoluto di giurisdizione abbiano potuto portare a questo.
3. Un’omissione e due contraddizioni nella giurisprudenza italiana sul difetto assoluto di giurisdizione
Partiamo dalla costante omissione.
Essa investe l’assunto, tratto dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, secondo cui il difetto assoluto di giurisdizione insorgerebbe ogniqualvolta manchi, nell’ordinamento giuridico italiano, una disposizione normativa anche solo astrattamente idonea a delineare una situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela[15]. Siffatto argomentare si riconosce nel postulato della plausibilità, nel sistema costituzionale italiano, di “lacune strutturali” nella difesa della persona umana, che impedirebbero l’accesso al giudice. In tale prospettiva, per esempio, diritti umani su beni universali di sopravvivenza (come la pace o la stabilità del sistema climatico) sarebbero del tutto inconcepibili e non giustiziabili[16].
Si tratta, per l’appunto, di un postulato: come tale, non raccordato alla realtà effettuale[17] e, di riflesso, molto debole in termini di sistema delle fonti, solo a pensare al criterio ermeneutico dell’analogia[18], e debolissimo, poi, dal punto di vista costituzionale, tanto da non trovare appoggio né nella dottrina costituzionalistica maggioritaria né nella giurisprudenza della Corte costituzionale sull’art. 2 Cost. (dopo le aperture inaugurate con la sent. n. 215/1997[19]), e neppure in quella della Corte europea dei diritti umani, favorevole all’elasticità evolutiva degli enunciati CEDU[20].
Il postulato, inoltre, pretermette sempre – e in questo consiste l’omissione costante – il richiamo all’art. 15 CEDU, il quale offre, invece, l’unitaria chiave di lettura della normalità costituzionale, condivisa da tutti gli ordinamenti giuridici afferenti al Consiglio d’Europa, Italia inclusa. Secondo tale disposizione, infatti, si può derogare all’accesso al giudice solo in una situazione di “stato d’urgenza” e alle condizioni poste dalla CEDU stessa. Fuori di questo scenario, la norma astrattamente idonea per l’accesso al giudice esiste sempre, perché rintracciabile comunque nelle elastiche maglie della CEDU stessa (come incidentalmente ammesso, proprio con riguardo alle forniture di armamenti, nel caso “Tugar c. Italia”, di cui si farà cenno a breve), come anche delle Costituzioni e degli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale. Tant’è che i tentativi statali di sottrarsi alla suddetta normalità condivisa, persino attraverso disposizioni costituzionali, sono stati dichiarati in contrasto con la CEDU[21].
Per quanto riguarda le due ricorrenti contraddizioni, queste si riferiscono alla dogmatica del c.d. atto politico, categoria, com’è noto, galleggiante nell’ordinamento italiano, malgrado la sua matrice prerepubblicana e pre-costituzionale[22]. L’atto politico sarebbe insindacabile dal giudice, in forza, anche in questo caso, di tre postulati: la deferenza giudiziale verso la separazione dei poteri; la carenza assoluta, in capo al giudice, del potere di creare disposizioni normative, dovendo applicare solo quelle già prodotte; la “libertà dei fini” del potere da sottoporre a sindacato[23]. La prassi applicativa dei tre postulati ha generato contraddizioni su due fronti logici della decisione giudiziale: da un lato, lì dove la decisione, nel sostenere di non detenere poteri creativi di norme, ha creato comunque, con la declaratoria d’insorgenza dell’atto politico, fattispecie normative non esplicitate da disposizioni costituzionali o legislative; dall’altro, allorquando, nel denominare un potere “libero nel fine”, la decisione lo ha abilitato giudizialmente come implicito rispetto ai poteri e fini esplicitati dai testi normativi[24].
Queste singolarità sono diventate ancor più evidenti proprio nella giurisprudenza sul potere di fornitura di materiali d’armamento, generando non poche confusioni semantiche e concettuali.
Ci si riferisce, in particolare, a due decisioni:
- la pronuncia del T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 20 dicembre 2022, n. 17159, con cui si è statuita l’insindacabilità degli atti statali di fornitura di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore dell’Ucraina, aggredita dalla Russia;
- l’ordinanza cautelare del Tribunale civile di Roma (N.RG. 13556/2024), non sconfessata in sede di reclamo, che lo stesso difetto assoluto di giurisdizione ha dichiarato, con riguardo, però, alla fornitura di materiali d’armamento a Israele, Stato occupante (e aggressore) a Gaza e nei territori palestinesi occupati.
Nella prima, il giudice, in un ricorso per l’annullamento dei decreti interministeriali di attuazione della legislazione di invio di armamenti in Ucraina, sostiene di attenersi alla separazione dei poteri per tre ragioni:
- perché il potere di fornitura di materiali d’armamento apparterebbe alla “materia” delle relazioni internazionali, di cui i giudici nazionali non si occupano,
- perché per tale “materia” non sarebbe configurabile alcuna «situazione di interesse protetto»,
- perché è da escludere «che gli atti politici costituiscano un numero chiuso e predeterminato dal diritto positivo», sicché spetta solo alla giurisprudenza il compito di procedere alla loro individuazione «fatto salvo il solo rispetto delle norme e dei principi costituzionali».
Nella seconda, dove un avvocato palestinese ricorreva ex art. 700 Cod. proc. civ. nei confronti dello Stato italiano, per chiedere, tra le altre, l’imposizione del divieto di fornitura di armamenti a Israele, il medesimo principio della separazione dei poteri verrebbe salvaguardato dal fatto che «l’art. 11 della Costituzione si rivolge allo Stato (l’Italia) dovendosene quindi escludere la diretta azionabilità», sicché la “materia” delle relazioni internazionali non sarebbe giustiziabile persino allorquando uno Stato, occupante e aggressore come Israele a Gaza, offende libertà altrui.
Non è difficile rintracciare gli elementi sintomatici della costante omissione e delle due ricorrenti contraddizioni, poc’anzi osservate.
Davvero l’art. 11 Cost., rivolgendosi allo Stato, esclude, solo per questo, l’accesso alla giustizia? E allora come si concilia, tale postulato, con l’art. 15 CEDU, per il quale, al contrario, l’accesso alla giustizia è sempre ammesso, a meno che non ci si trovi «in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» e non certo nella “materia” delle relazioni internazionali e l’Italia non sia coinvolta in alcuna guerra o altro pericolo dichiarato? E con gli artt. 2 Cost e 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo?
Se veramente è da escludere «che gli atti politici costituiscano un numero chiuso e predeterminato dal diritto positivo», allora sono i giudici i detentori del potere creativo (rectius, moltiplicativo) di tali atti?
Da dove si deduce che il potere di fornitura di materiali d’armamento appartenga alla “materia” delle relazioni internazionali tra Stati, quando la Costituzione individua una specifica “materia” – quella della «risoluzione delle controversie internazionali» ex art. 11 Cost. – limitata nei fini e nei mezzi, mentre una legge, come si vedrà la già citata n. 185/1990, declina la fornitura di armamenti come autonomia contrattuale[25]? Si tratta, forse, di un ulteriore (l’ennesimo) potere “implicito” d’invenzione giurisprudenziale? Ma come conciliarlo con il limite del far «salvo il solo rispetto delle norme e dei principi costituzionali», che evidentemente lo escluderebbe?
Non poca confusione emerge dagli interrogativi insorti; confusione semiotica, verrebbe da dire nella prospettiva della semiotica giuridica, ossia manifesta sovrapposizione di segni[26] fra quelli dell’esperienza (esistenza di Stati aggrediti e di Stati aggressori; di fatti illeciti subiti da uno Stato e fatti illeciti prodotti da uno Stato; di contratti internazionali di compravendita accanto a trattati e convenzioni internazionali, della “materia” delle controversie internazionali distinta dalla “materia” delle relazioni internazionali ecc…) e quelli degli enunciati performativi riferiti a tali esperienze (regole giuridiche differenti per chi subisce un’aggressione o un fatto illecito da quelle per chi li provoca; regole giuridiche apposite per i contratti internazionali di compravendita non assimilabili a quelle sui trattati e le convenzioni fra Stati; differenza tra fornitura di materiali d’armamento e spedizione di contingenti di militari ecc…).
4. La tesi giurisprudenziale dell’atto politico nella fornitura di materiali d’armamento e i suoi effetti “creativi” di un potere costituzionalmente escluso
La confusione non viene meno neppure se ci si appiglia all’art. 7, comma 1, del Codice del processo amministrativo, lì dove si prevede che siano sottratti alla giurisdizione gli «atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico»[27].
Invero questa disposizione, che è e resta sub-costituzionale (in quanto banalmente legislativa), viene erta, dai giudici promotori dell’ atto politico nella “materia” delle relazioni internazionali, a fonte “super-costituzionale”, in quanto abilitativa di poteri “liberi nei fini” al di là persino degli stessi fini costituzionali della solidarietà verso qualsiasi persona umana (art. 2 Cost.) e del ripudio della guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11 Cost).
Ancorché la stigmatizzazione costituzionale dello «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli» impedisca di legittimare condotte di aggressione, la giurisprudenza sul potere “libero nel fine” nella “materia” delle relazioni internazionali, indipendentemente se con Stati aggrediti o aggressori, legittima – giacché insindacabili – condotte di aggressione.
Nonostante il ripudio costituzionale della guerra, «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», impedisca forniture di materiali d’armamento per alimentare soluzioni belliche delle controversie, indipendentemente dal coinvolgimento o meno dell’Italia, la giurisprudenza sull’art. 11 Cost., quale fonte che «si rivolge allo Stato (l’Italia) dovendosene quindi escludere la diretta azionabilità», le consente.
In definitiva, per la giurisprudenza sull’atto politico nella fornitura di materiali d’armamento, la “libertà dei fini” consisterebbe in una totale “indifferenza” italiana dei “fini”: tanto di difesa quanto di offesa, tanto di pace quanto di guerra.
Eppure, sono state proprio le Sezioni Unite della Corte di cassazione ad aver avvertito che «non può essere esclusa in casi estremi [come la commissione di gravi crimini] la garanzia della giustiziabilità e dell’intervento del giudice comune [...] per sanzionare le conseguenze di un fatto illecito, perché offensivo di quel comune sentimento di giustizia rappresentato dal tessuto di principi attraverso i quali si esprimono, secondo la Costituzione, le condizioni della convivenza» (ordinanza n. 15601/2023).
Non diversamente si è espressa anche la Corte europea dei diritti umani, tra l’altro nei riguardi dell’Italia, in occasione della decisione sul caso “Nasr e Ghali c. Italia” (Quarta Sez., 23 maggio 2016, ricorso n. 44883/09), anche in tale circostanza per la presenza di fatti illeciti offensivi del comune sentimento di giustizia e della libertà.
In una parola, non c’è atto politico o “libertà nei fini” che possa tradursi in ostacolo all’accesso al giudice nazionale, allorquando si verta in tali situazioni di fatto “offensive” della libertà e della giustizia.
Appare, dunque, singolare che questa conclusione venga negata nell’applicazione giudiziale dell’art. 11 Cost., che proprio sul rifiuto dell’offesa alla libertà degli altri popoli fonda la ratio sull’abilitazione dei poteri di pace e non di guerra.
Su questo fronte, la giurisprudenza legittimante l’insindacabilità della fornitura di materiali d’armamento consuma una manifesta incostituzionalità: apparentemente essa si ritrae dalla giurisdizione; in concreto, con le riscontrate confusioni semiotiche fra aggrediti e aggressori, relazioni internazionali e contratti di compravendita, fornitura di materiali d’armamento e spedizioni militari essa estende gli effetti dei propri pronunciamenti oltre i confini della stessa Costituzione, inventando, per via giudiziale, il potere “libero nel fine” di “offendere” la libertà degli altri popoli anche non direttamente – ossia con i propri armamenti, con buona pace del far «salvo il solo rispetto delle norme e dei principi costituzionali» (come retoricamente evocato dal citata decisione del T.A.R. Lazio).
Nella teoria costituzionale comparata, un esito così assurdo, di creazione giurisprudenziale di un potere espressamente escluso dalla Costituzione, verrebbe rubricato come “mutamento costituzionale tacito”[28]. L’art. 11 Cost., in quanto principio costituzionale, è sottratto al potere politico di revisione costituzionale (come inequivocabilmente noto, dopo le sentenze della Corte costituzionale nn. 1146/1988 e 238/2014). Detto altrimenti, il suo contenuto non può essere modificato da nessuno. Ciononostante, la giurisprudenza sull’insindacabilità del potere di fornitura di materiali d’armamento sentenzia ben altro: ciò che non è ammesso per revisione costituzionale, lo sarebbe per atto politico “inventato” dal giudice.
Gli stessi “poteri necessari” del Governo sullo stato di guerra, che l’art. 78 Cost. subordina alla previa deliberazione parlamentare proprio per derogare all’esclusione delle condotte di offesa, imposta dall’art. 11 Cost.[29], diventerebbero a questo punto “superflui”, grazie alla creazione giurisprudenziale dell’insindacabile atto politico sulla fornitura di materiali d’armamento anche per offendere libertà di altri popoli.
Eppure quell’art. 78 è stato elaborato proprio per scongiurare queste degenerazioni ermeneutiche e di prassi. La disposizione, infatti, espungendo dal lessico costituzionale la formula “pieni poteri” – tipica del regime statutario prerepubblicano degli atti “liberi nei fini”, illimitati e insindacabili da parte non solo del giudice ma addirittura dello stesso Parlamento[30] – ha voluto collegare possibili condotte di offesa alla libertà di altri popoli a espliciti presupposti fattuali e formali di loro limitazione[31]:
- la pre-esistenza della situazione di guerra, dato che la disposizione non contempla la “dichiarazione” di guerra, bensì lo “stato” di guerra ovvero una situazione di fatto da altri prodotta, rispetto all’Italia che la guerra “ripudia”;
- la conseguente funzione accertativa della deliberazione parlamentare;
- l’ulteriore conseguente natura temporanea dei “poteri necessari” del Governo, dipendenti appunto dallo “stato” di fatto accertato ma non voluto dall’Italia.
Nulla a che vedere, in sostanza, con quanto predicato dai giudici sull’atto politico: in base all’art. 78 Cost., l’unico atto politico ammissibile per legittimare condotte di offesa è la deliberazione parlamentare a seguito di uno “stato” di guerra altrui. Nient’altro.
D’altro canto, ulteriore conferma, ove ce ne fosse ancora bisogno, si deduce pure dalla vicenda della l. n. 25/1997, originariamente finalizzata a disciplinare i poteri del Ministero della Difesa, in funzione di qualsiasi deliberazione del Governo previamente approvata dal Parlamento, senza alcuna distinzione fra condotte di difesa od offesa conseguenti a tali atti parlamentari. La legge è stata successivamente abrogata dal d.lgs. n. 66/2010, presupponendo quella distinzione, non solo perché i poteri ministeriali non si raccordano più con l’art. 78 Cost., restando così nella normalità dello “stato di pace” e dei fini non offensivi ammessi in Costituzione, ma soprattutto perché quei poteri vengono separati dalle funzioni riguardanti la fornitura di materiali d’armamento, come si evince dall’art. 11 del nuovo testo normativo, che devono concretizzare solo condotte materiali di pace.
5. L’unicità costituzionale che sfugge alla giurisprudenza sull’atto politico
In ultima analisi, quello che sfugge clamorosamente alle pronunce richiamate è l’inquadramento del sistema delle fonti in tema di fornitura di materiali d’armamento.
Un sistema complesso, nel quale si intrecciano Costituzione e leggi, poteri amministrativi e autonomia contrattuale, diritto internazionale pubblico e privato, diritti umani e libertà dei popoli.
Tutt’altro che una “lacuna strutturale” di interessi e diritti, giustificativa del difetto assoluto di giurisdizione.
Un sistema di fonti unico nel panorama comparato, orientato esclusivamente al perseguimento della pace e al rifiuto dell’aggressione armata e dell’offesa alla libertà dei popoli.
Ben altro, in buona sostanza, rispetto al potere “libero nei fini”, fondativo dell’atto politico.
L’unicità, infatti, si radica nei seguenti pilastri costituzionali, fra loro integrati.
i. La Costituzione italiana è l’unica al mondo a includere, tra i suoi principi fondamentali inemendabili in quanto controlimiti a qualsiasi altra fonte, il ripudio della guerra (art. 11 Cost.), inteso come imperativo assiologico e teleologico, rivolto a tutti i poteri pubblici e privati senza ulteriori riserve di normazione, a differenza, per esempio, dell’art. 26, n. 2, della Legge fondamentale tedesca, dove invece si ammette la possibilità di fornire «armi destinate alla condotta di una guerra»[32].
L’integrazione di questi pilastri, poi, è dettagliata dalla l. n. 185/1990, proprio per la disciplina del potere di fornitura di materiali d’armamento.
Prima di questa legge, non esisteva una normativa di riferimento e di raccordo con l’art. 11 Cost. e la tutela dei diritti, tant’è che, su questa lacuna, si impiantò un giudizio davanti alla Commissione europea dei diritti umani (caso “Tugar c. Italia”, ricorso n. 22896/93), dichiarato inammissibile ma dopo aver precisato che il potere di fornitura di materiali d’armamento (in quel caso, si trattava di mine) deve comunque rispettare i diritti CEDU[33].
Adesso, la nuova fonte regolamenta in modo organico e vincolante le operazioni di esportazione, importazione e transito di qualsiasi componente d’armamento, sottraendole alle relazioni internazionali, per rubricarle invece come contratti soggiacenti, al pari di qualsiasi altro contratto italiano, pubblico o privato, alla Costituzione, ai suoi fini di ripudio della guerra e dell’offesa della libertà altrui: in pratica, l’esatto contrario del costrutto “creato” dalla giurisprudenza sull’atto politico.
Nello specifico, la legge, già a partire dall’art. 1:
Sostanzialmente, il sistema delle fonti italiane orbita in un campo diametralmente opposto alle false rappresentazioni della realtà, offerte dalle citate pronunce giurisprudenziali, arroccate sull’insindacabilità del potere “libero nel fine”.
La fornitura di materiale d’armamento non appartiene alla “materia” delle relazioni internazionali[34]. Costituisce oggetto di relazioni contrattuali dentro fini e mezzi pacifisti nella «risoluzione delle controversie internazionali».
I titolari di queste relazioni non vengono riconosciuti dall’ordinamento come autorità “politiche”, bensì semplicemente come “contraenti” (inclusi gli Stati).
I loro atti non sono mai individuati come “politici”, perché sempre amministrativi (autorizzazione, vigilanza, sospensione, revoca) o privati (trattative, contratti, obbligazioni, adempimenti), tutti costantemente limitati dalla Costituzione.
Uso e destinazione degli armamenti non sono affatto “liberi”, in quanto sottoposti a divieti, vincoli e limiti di fondamento legale, e neppure insindacabili nei loro “fini”, perché comunque proiettati sul fine del “ripudio” della guerra e dell’offesa alla libertà degli altri popoli.
In questa cornice di diritto positivo, la tesi, di “creazione” giurisprudenziale, che «l’art. 11 della Costituzione si rivolge allo Stato (l’Italia) dovendosene quindi escludere la diretta azionabilità», si palesa totalmente arbitraria. Avrebbe mantenuto qualche margine di plausibilità, ove effettivamente la fornitura di materiali d’armamento fosse stata assegnata, da una qualche fonte del diritto italiano, alla “materia” delle relazioni internazionali.
Però, così non è stato. La l. n. 185/1990 riconduce le operazioni di fornitura alle obbligazioni contrattuali internazionali di attuazione di fini costituzionali. A seguito di questa opzione contrattuale, l’art. 11 Cost., da “oggetto” nella disponibilità della politica “libera nei fini” (come vorrebbero le pronunce citate), assurge a “parametro” dei poteri pubblici e privati di contrattazione, al pari della «norma di applicazione necessaria» sui contratti internazionali comuni, ammessa dal diritto internazionale privato con l’art. 17 della l. n. 218/1995 («È fatta salva la prevalenza … delle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera»)[35].
6. L’espunzione, dal panorama cognitivo del giudice italiano, dell’art 15 CEDU
Del resto, che l’art. 11 Cost. risulti pacificamente giustiziabile, per sindacare i poteri di fornitura di materiale d’armamento affinché non siano di offesa alla libertà di altri popoli, è deducibile anche dal citato art. 15 CEDU, totalmente espunto dalla cognizione giudiziale sull’atto politico.
Come l’art. 78 Cost., per legittimare la deroga all’art. 11 Cost., richiede un’esplicita deliberazione parlamentare di accertamento dello stato di guerra, così l’art. 15 CEDU, per legittimare la deroga ai diritti e alla giustiziabilità, presuppone accertamenti di “stato”.
Detto in altri termini, in base a questa disposizione interposta alle leggi italiane, in forza dell’art. 117, primo comma, Cost., solo la guerra e la minaccia alla vita della nazione possono indurre a derogare al sindacato giudiziale sui poteri, esercitati al suo interno. La “materia” delle relazioni internazionali è totalmente estromessa. Non solo: se c’è un principio affermato con chiarezza dalla giurisprudenza CEDU sull’art. 15, è quello secondo cui la deroga non può estendersi al di fuori del territorio interessato[36]: l’opposto del costrutto dei giudici italiani. Per questi ultimi, la “materia” delle relazioni internazionali consentirebbe qualsiasi condotta materiale di offesa della libertà dei popoli al di fuori dei confini nazionali. Per la Corte di Strasburgo, una siffatta spropositata estensione risulta inconcepibile persino nel previo ricorso all’art. 15 CEDU.
Del resto, la stessa deroga, invece di abilitare atti liberi nel fine e non giustiziabili, impone comunque che le «misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale».
Il che implica che anche i poteri in deroga rimangono pur sempre limitati. Lo stesso atto politico del derogare, lasciato al margine di apprezzamento di ciascuno Stato, soggiace a vincoli procedurali di informazione e al sindacato giurisdizionale di proporzionalità e di “necessarietà”, ossia di valutazione del “fine” perseguito, evidentemente tutt’altro che “libero” ancorché “politico”[37]: fine che resta comunque di “protezione” dei diritti nella convivenza pacifica, non certo, invece, di giustificata “violazione” nell’offesa coperta dalla deroga (cfr. casi “Kavala c. Turchia”, ricorso n. 28749/18, e “Mehmet Hasan Altan c. Turchia”, ricorso n. 13237/17).
7. Dall’atto amministrativo sindacabile alle nullità dei contratti
Concludendo, la rappresentazione del potere di fornitura di materiali d’armamento, come derivato delle relazioni internazionali “libere nel fine”, non rintraccia alcun fondamento costituzionale. All’opposto, quel potere proprio in Costituzione individua tre vincoli ineludibili: il primo di tipo assiologico (il ripudio della guerra), il secondo di contenuto materiale (non assumere condotte di offesa della libertà di altri popoli), il terzo di natura procedimentale (soggiacere ai procedimenti amministrativi della l. n. 185/1990 e non debordare nei poteri, se non alle condizioni poste dall’ artt. 78 Cost. e, per il tramite dell’art. 117, primo comma Cost., dall’art. 15 CEDU).
Il potere pubblico di fornitura di materiali d’armamento consiste nell’autorizzazione, vigilanza, sospensione e revoca sulle condotte materiali conseguenti, mai offensive della libertà altrui. Si tratta, pertanto, di un normalissimo potere amministrativo, definito nei dettagli dalla legge ed espressamente sottratto alla “libertà dei fini” del potere politico e ancor meno devoluto alla “materia” delle relazioni internazionali.
Il potere privato di fornitura di materiali d’armamento si manifesta in un’autonomia contrattuale internazionale condizionata dal potere pubblico, vincolata nel procedimento e limitata nei contenuti di disponibilità negoziale.
Ne deriva che, se l’atto del potere pubblico risulta pacificamente sindacabile dal giudice, in base ai vizi tracciabili secondo la l n. 241/1990, il contratto privato internazionale è denunciabile persino per nullità, ai sensi degli artt. 1418 e 1421 Cod. civ., ove in diretto contrasto con la Costituzione e con l’esclusione di qualsiasi condotta materiale di offesa alla libertà di altri popoli, in quanto «norme di applicazione necessaria» ex art. 17 l. n. 218/1995.
Per l’uno e per l’altro, non si verserebbe mai in una “lacuna strutturale”, priva di interessi o diritti meritevoli di tutela (a partire dal diritto alla pace ovvero a non essere offesi nelle proprie libertà, individuali e di popolo).
In particolare, poi, l’ipotesi di nullità dei contratti di fornitura di materiali d’armamento non si radicherebbe sulla semplice constatazione che qualsiasi espressione dell’autonomia privata soggiace a Costituzione, in particolare in virtù dell’art. 41 Cost. Per quanto pacifica, giacché ampiamente avallata dalla stessa giurisprudenza costituzionale (cfr., ex plurimis, sentenze nn. 85/2020, 302/2016, 56/ 2015, 247 e 152/2010, 167/2009), tale premessa non identifica, di per sé, la norma di “applicazione necessaria” ai contratti in questione.
Per questi ultimi, i parametri di “applicazione necessaria” sono richiamati dall’art. 1 della l. n. 185/1990 e coincidono primariamente con l’art. 11 Cost. e contemporaneamente con l’intero testo costituzionale ossia con un’acquisizione di sistema della Costituzione, non soggetta alla disponibilità contrattuale delle parti.
La conclusione è importante in ordine specialmente all’elezione della “lex fori” del contratto, su cui la l. n. 185/1990 tace. Questo significa che, nelle forniture di materiali d’armamento, la scelta della legge applicabile al contratto viene rimessa all’insindacabile libertà dei contraenti?
L’interrogativo è determinante, dato che una “lex fori” non italiana annacquerebbe la forza imperativa degli enunciati dell’art. 11 Cost. ancorché rubricabili tra le norme ad “applicazione necessaria”[38].
Una prima risposta, in senso contrario alla libera scelta, potrebbe arrivare dall’art. 4 della l. n. 218/1995, lì dove, al secondo comma, si ammette la deroga solo allorquando «la causa verte su diritti disponibili», per poi escluderla, al terzo comma, se il giudice non può «conoscere la causa», sicché si potrebbe sostenere che un giudice straniero non può certo conoscere dell’art. 11 Cost. come fonte di validità dei contratti e delle loro condotte, sottratte alla piena disponibilità delle parti ai sensi della l. n. 185/1990.
Un appiglio più consistente, però, è dato dall’art. 25, primo comma, Cost., sul giudice naturale precostituito per legge: qual è il giudice naturale delle condotte materiali italiane di offesa o meno alla libertà di altri popoli?
La disposizione costituzionale, nel prevedere che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, sancisce un principio identificativo dello Stato di diritto italiano che sovrasta qualsiasi autonomia privata.
Il nucleo essenziale della garanzia accordata risiede, come affermato dalla giurisprudenza costituzionale da sempre (Corte cost., sentt. nn. 29/1958, 1/1965, 274/1974, 508/1989, 42/1996, 272/1998, da ultimo n. 38/2025), in cinque requisiti di “precostituzione generale e astratta” del giudice, ovvero che
In sintesi, con l’art. 25, primo comma, Cost., si è in presenza, da un lato, di una chiara riserva di legge generale e astratta, e, dall’altro, di una norma di carattere organizzativo, non dipendente dalla discrezionalità (né – a maggior ragione – dall’autonomia privata), riflessa sul diritto fondamentale della persona a non essere distolto dal proprio giudice naturale e di poterlo conoscere preventivamente.
Non è detto che, nei contratti di fornitura di materiali d’armamento, i cinque requisiti di generalità e astrattezza risultino sempre pienamente soddisfatti.
Basti pensare, per tutti, alla segretezza che quasi sempre accompagna questi negozi giuridici, ostacolando, prima di tutto, la conoscenza pubblica della “lex fori”.
Ma prioritariamente è da dubitare che la libera scelta della legge straniera sia funzionale ad «assicurare il rispetto di altri principi costituzionali».
Né, a superamento di siffatto ostacolo, varrebbe l’evocazione della natura “internazionale” del contratto, giacché tale natura – anche ad equipararla addirittura a un trattato internazionale (per il fatto di avere come parte contraente o lo Stato straniero o comunque imprese dallo Stato straniero autorizzate) – permarrebbe subordinata alla Costituzione (nello specifico al primato gerarchico dell’art. 25, primo comma, della Cost.), in ragione di quanto previsto dall’art. 117, prima comma, Cost.
Dunque, il giudice naturale delle condotte materiali italiane di offesa o meno alla libertà di altri popoli e, di conseguenza, della validità dei contratti internazionali di fornitura di materiali d’armamento, che quelle condotte concretizzano, è sempre e unicamente quello italiano: clausole private di libera disposizione della “lex fori” si rivelerebbero nulle, per violazione della Costituzione e, nello specifico, degli artt. 25, primo comma, in combinato disposto con gli artt. 11 e 24 Cost.
8. L’incostituzionalità del Memorandum d’intesa e dell’Accordo di sicurezza fra Italia e Israele
Di fronte a questo quadro, le stesse leggi di disciplina di specifiche relazioni internazionali, come quelle tra Italia e Israele, non ostano alla giustiziabilità.
Invero, sia il Memorandum d’intesa che l’Accordo di sicurezza, precedentemente richiamati, sembrano finalizzati a istituire una sorta di stato di sospensione permanente della Costituzione italiana nei riguardi di qualsiasi rapporto giuridico, pubblico o privato, con Israele.
In particolare, l’Accordo di sicurezza presenta una struttura nomologica volta a tradurre in “informazione classificata” qualsivoglia fattispecie giuridica riconducibile ai due Stati. Così recita l’art. 1: «Il termine “Informazioni Classificate” indica qualsiasi tipo di informazione, documento, attrezzatura o materiale di qualsiasi natura che, nell’interesse di una o entrambe le Parti, è soggetto a classificazione di sicurezza, a prescindere dal mezzo di trasmissione (orale, elettronico, scritto o materiale)». L’enunciato imprime una volontà di massima inclusività semantica, rimessa al potere stesso delle parti: una semantica sfacciatamente autoreferenziale.
Come se non bastasse, inoltre, l’art. 4, n.1, provvede a definire la categoria giuridica della “classificazione”, procedendo all’elencazione di suoi contenuti: segretissimo, segreto, riservatissimo, riservato.
Infine, la “classificazione” è attivabile indipendentemente dalla convergenza di interessi dei due Stati, in modo da poter insorgere a favore di Israele.
In conclusione, nei rapporti pubblici e privati italo-israeliani, tutto – dalle fonti alle situazioni soggettive – diventa “classificabile” ovvero segreto o riservato: anche i contratti di fornitura di materiale d’armamento, come si evince, del resto, dagli artt. 2 e 7 dell’Accordo medesimo.
C’è allora da chiedersi come questo tipo di normazione, esclusiva ed escludente, possa plausibilmente assurgere a “materia” di relazioni internazionali insindacabili e come possa legittimare l’insindacabilità dei poteri di fornitura di materiali d’armamento, nell’effettivo «rispetto delle norme e dei principi costituzionali», come vorrebbe la creativa giurisprudenza sul difetto assoluto di giurisdizione.
In realtà, quei due accordi (il Memorandum e l’Accordo di sicurezza), prima ancora che in conflitto con i principi costituzionali, che i segreti a semantica autoreferenziale non ammettono (come scandito dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 86/1977[39]), contravvengono all’art. 80 Cost.
La disposizione costituzionale, infatti, impone categoricamente la legge di ratifica per qualsiasi accordo che comporti, tra gli altri effetti, modificazioni di leggi[40]. L’onnicomprensiva “classificazione”, abilitata dall’Accordo di sicurezza, di per sé legittima modifiche tacite (rectius, segrete) di applicazioni legislative. Addirittura potrebbe farlo in (apparente) conformità con l’art. 117, primo comma, Cost., trattandosi comunque di accordo internazionale interposto rispetto alla legge ordinaria. Si pensi, per tutte, alla “classificazione” applicabile ai contratti. Essa potrebbe derogare all’art. 4 della l. n. 218/1995 sull’ostensione pubblica della lex fori; potrebbe derogare persino ai metodi e ai contenuti, richiesti dalla l. n. 185/1990.
La “classificazione” si ergerebbe a una sorta di fonte extra Constitutionem, con tutta evidenza pro Israele, non certo pro Italia, grazie a un Accordo non ratificato con legge.
Il tutto, poi, nell’indifferenza giurisprudenziale, ostinatamente ferma all’inquadramento dei poteri di fornitura di materiali d’armamento come “materia” delle relazioni internazionali, sottratta al sindacato giudiziale e alla tutela dei diritti.
Un bel controsenso, che è auspicabile faccia riflettere.
Nella revisione comune del testo, i primi tre paragrafi e l’ultimo sono stati scritti da Michele Carducci, gli altri da Anna Silvia Bruno.
[1] I primi richiami al tema si trovano nella monografia di L. Chieffi, Il valore costituzionale della pace tra decisioni dell’apparato e partecipazione popolare, Napoli, Liguori, 1990, ma non hanno poi costituito oggetto di indagine specifica tra i costituzionalisti.
[2] Gli interrogativi costituzionali sulla fornitura di armamenti all’Ucraina sono stati oggetto di numerosi interventi dottrinali all’interno della testata www.sidiblog.org, nella sezione “Conflitto Russia e Ucraina”. Si v. anche G. Pistorio, La cessione di armamenti alle Forze armate ucraine, tra interpretazioni costituzionalmente e internazionalmente conformi e (ir)regolarità costituzionali, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, La lettera n. 4/2022, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, e A. Morelli, La guerra in Ucraina: le questioni costituzionali in campo, in Ordine internazionale e diritti umani, 2023, 917-929. Altrettanto utili A. Mazzola, Il ripudio alla guerra sospeso tra crisi della democrazia interna e mutamento delle regole internazionali, A. Carminati, M. Frau, L’emersione del principio costituzionale di autorizzazione parlamentare degli interventi armati nei sistemi parlamentari e la sua elusione nel contesto italiano, e A. Latino, L’invio di armi all’Ucraina fra Costituzione e diritto internazionale, tutti e tre in DPCE online, Sp.-1/2024, rispettivamente 197-212, 639-658, e 693-710.
[3] Cfr. G. de Vergottini, Ripudio della guerra e neutralità alla luce dell’articolo. 11 Cost., in www.federalismi.it, 13 marzo 2024, e, più in generale, P. Bonetti, Difesa dello Stato e potere, in Enciclopedia del diritto, I tematici, Potere e Costituzione, Milano, Giuffrè, 2023, 56.
[4] Per un’analisi del parere, si v. N. Pedrazzi, Il parere della Corte internazionale di giustizia del 19 luglio 2024 sulle conseguenze giuridiche delle politiche e pratiche di Israele nel Territorio palestinese occupato, inclusa Gerusalemme est, in NAD. Nuovi Autoritarismi e Democrazie, 1, 2025, 341-353.
[5] I riscontri provengono da diverse fonti: i dati ISTAT sulla categoria merceologica “armi e munizioni”, importate ed esportate, ai sensi della classificazione Ateco 2007; le informazioni del Governo italiano, (cfr. Ministero della Difesa, L’Aeronautica Militare protagonista all’esercitazione multinazionale “Iniochos 25” - Aeronautica Militare, 11 aprile 2025); le informazioni israeliane (Iron Waves: Israel’s Missile Boat Flotilla in Action, in https://www.israeldefense.co.il/; The Israel Defense Forces (IDF) Official Website | IDF); le diverse testate giornalistiche come D. Facchini, Export di armi da guerra italiane a Israele dopo il 7 ottobre. La conferma delle Dogane; E. Brunelli, Armi e munizioni italiane in mano ai coloni nei Territori occupati; E. Brunelli, L’Italia ha inviato a Israele materiali chiave per esplosivi e armi nucleari, in Altreconomia, 22.05.2024, 01.01.2025, 01.07.2025, e Guardian: European missiles sold to Israel linked to Gaza strikes that killed children, in https://www.eunews.it/en/2025/07/17/.
[6] La Camera dei Deputati, com’è noto, ha respinto le mozioni di denuncia dei due accordi, nella seduta n. 513 del 17 luglio 2025.
[7] Come si evince da diversi atti parlamentari, in particolare: la risposta del Viceministro degli Affari esteri, Edmondo Cirielli, all’interrogazione n. 4-02518, presso la Camera dei Deputati, XIX Legislatura, Allegato B ai Resoconti della seduta del 1° luglio 2024, e soprattutto la risposta del Governo a interrogazione parlamentare immediata (5-03933), resa il 7 maggio 2025 alla Camera dei Deputati – Commissione Affari esteri e comunitari (Atto 491, pag. 129), dove testualmente si legge che «dal 7 ottobre 2023, il Governo italiano ha sospeso nuove autorizzazioni all’esportazione» – dunque non quelle esistenti – e ha «bloccato le nuove autorizzazioni di materiale bellico e le vendite di armi», oltre che la Relazione annuale al Parlamento, in tema di fornitura di materiali d’armamento.
[8] Oltre alla già cit. di L. Chieffi, si v. almeno le monografie di G. de Vergottini, Guerra e Costituzione. Nuovi conflitti e sfide della democrazia, Bologna, il Mulino, 2002, C. De Fiores, «L’Italia ripudia la guerra»?, Roma, Ediesse, 2002, A. Vedaschi, À la guerre comme à la guerre? La disciplina della guerra nel diritto costituzionale comparato, Torino, Giappichelli, 2007, M. Fiorilli, Guerra e diritto, Roma-Bari, Laterza, 2009, M. Benvenuti, Il principio del ripudio della guerra nell’ordinamento costituzionale italiano, Napoli, Jovene, 2010.
[9] Ricorda A. Algostino (Il senso forte della pace e gli effetti collaterali della guerra sulla democrazia, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, La lettera n. 4/2022, in www.associazionedeicostituzionalisti.it) che «il termine “ripudia” fu scelto dai costituenti, rispetto a “condanna” e “rinunzia”, perché più “energico”».
[10] Cfr. D. Girotto, Art. 78, in S. Bartole, R. Bin (dir.), Commentario breve alla Costituzione, seconda ed., Padova, Cedam, 2008, 716-722.
[11] Sul profilo richiamato, si v. G. Ferrari, Guerra (stato di), in Enciclopedia del Diritto, vol. XIX, Milano, Giuffrè, 1970, spec. 831-832, il quale testualmente così puntualizzava: «mentre negli artt. 78 e 87 si parla esattamente (…) di ‘stato di guerra’, in questo art.11, viceversa, è adoperata, altrettanto esattamente, l’espressione ‘guerra’. Il riferimento alla guerra-fatto, che va ben oltre la guerra-diritto, ci dice che il ripudio, da parte del popolo italiano, della guerra non ha confini, perché è il ripudio, non già di una concezione, di uno schema, di un istituto, di una definizione, ma di una realtà, di un ‘fatto’, in tutte le sue manifestazioni, dirette e indirette, formali e informali, nominate e innominate, scoperte e coperte», con l’effetto di considerare l’art. 11 Cost. rivolto tanto allo Stato-apparato quanto allo Stato-comunità.
[12] Cfr. G. Bascherini, Il dovere di difesa nell’esperienza costituzionale italiana, Napoli, Jovene, 2017.
[13] Quello che Antonio Papisca, con lungimirante acume, denominò “diritto umano alla pace”: cfr. A. Papisca, La pace come diritto umano fondamentale, in Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, 1, 1987, 37-43.
[14] La requisitoria può essere letta sul sito https://www.procuracassazione.it/ nonché in https://www.dirittointernazionaleagaza.org/.
[15] A partire dalle SS.UU. Corte cass. civ. sent. n. 19700/2010 in poi.
[16] Sul dibattito intorno ai diritti umani coinvolgenti beni universali di sopravvivenza, si v. A. Lupo, Il diritto alla sostenibilità climatica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2025.
[17] Sulla ricorrenza dei postulati nei ragionamenti giudiziali, cfr. E. Fittipaldi, Conoscenza giuridica ed errore. Saggio sullo statuto epistemologico degli asserti prodotti dalla dogmatica giuridica, Roma, Aracne, 2013.
[18] Sul tema dell’analogia, si v., come sintesi, le indicazioni di SS.UU. Corte cass. civ. n. 38596/2021.
[19] Cfr. A. Pace, Dai diritti del cittadino ai diritti fondamentali dell’uomo, in Rivista AIC, 2 luglio 2010.
[20] Sulla categoria della “lacuna strutturale”, si veda, in sintesi, L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti. Un dialogo tra filosofi e giuristi, in Diritto e questioni pubbliche, 14, 2014, spec. 133. Sul tema delle lacune e della tutela dei diritti nella clausola aperta dell’art. 2 Cost., cfr. A. Ruggeri, Lacune costituzionali, in Rivista AIC, 2, 2016, e A. Morelli, I diritti senza legge, in Consulta online, 1, 2015.
[21] Ci si riferisce al caso “Walęsa c. Polonia.”, ricorso n. 50849/21, su cui cfr. L. Acconciamessa, Nessuna “eccezione costituzionalmente giustificata” alla CEDU, in SIDI Blog, 8 marzo 2024.
[22] Sugli interrogativi costituzionali intorno al dogma dell’atto politico, si v. le tre monografie di A. Lollo, Atto politico e Costituzione, Napoli, Jovene, 2020, V. Giomi, L’atto politico e il suo giudice. Tra qualificazioni sostanziali e prospettive di tutela, Milano, Franco Angeli, 2023, L. Diotallevi, Atto politico e sindacato giurisdizionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2024, nonché, in prospettiva comparata, F.E. Grisostolo, L. Restuccia, L’insindacabilità degli atti del potere politico: quando “separazione dei poteri” e “tutela dei diritti” entrano in tensione, in DPCE online, Sp.-1/2025, 853-881.
[23] Sul tema, cfr. M. Nisticò, L'interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato. Contributo al dibattito sui confini della giurisdizione, Torino, Giappichelli, 2015.
[24] Sul fenomeno dei poteri impliciti rispetto alla Costituzione, si v. Q. Camerlengo, Costituzione e poteri impliciti. Spunti di riflessione, in Rivista AIC, 1, 2025.
[25] Sull’inquadramento del commercio internazionale di armi come campo fenomenico al confine tra diritto pubblico e privato, internazionale e contrattuale, ma nella chiara opzione italiana per la dimensione contrattuale, si v. L. Zuccari, Il commercio di armi convenzionali nel diritto internazionale, Napoli, ESI, 2024, nonché i tre lavori di L. Sammartino, Strategic Litigation on International Arms Transfer: Assessing the Role of Domestic Courts, in DPCE on line, 2, 2025, 483-505 (dove l’art. 11 Cost. è qualificato “norma di riconsocimento”), I contratti di vendita internazionale di armamenti: questioni di diritto applicabile, in Diritto del Commercio Internazionale, 1 2023, 109-148, e La ricerca di regole applicabili al “commercio” internazionale di armi convenzionali, Roma, Aracne, 2021. Cfr. anche R. Palladino, Il controllo sulle esportazioni di armi in zone di conflitto, in Ordine internazionale e diritti umani, 2015, 1170-1187.
[26] Su questa impostazione della semiotica giuridica, cfr. R. Kevelson, Comparative Legal Cultures and Semiotics: An Introduction, in American Journal of Semiotics, 1(4), 1982, 63-84.
[27] Per una ricognizione critica dell’enunciato dell’art. 7, si v. G. De Giorgi Cezzi, Aboliamo l’art. 7 comma 1 del Codice del processo amministrativo?, in www.federalismi.it, 11, 2018.
[28] Su questo fenomeno, si rinvia a M. Carducci (a cura di), I mutamenti costituzionali informali come oggetto di comparazione, in Rivista DPCE, 4, 2009, 1643-1921.
[29] Cfr. A. Patroni Griffi, Art. 78, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Torino, Utet, 2006, 1531-1544.
[30] Sull’insindacabilità dei “pieni poteri” nel periodo statutario, si v. M. Carducci, Controllo parlamentare e teorie costituzionali, Padova, Cedam, 1996, spec. 122.
[31] Cfr. P. Pinna, Guerra (stato di), in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. VIII, Torino, Utet, 1993, spec. 55.
[32] Sulle differenze tra Costituzione italiana e tedesca con riferimento alla pace e alla guerra, cfr. M.G. Losano, Le tre Costituzioni pacifiste, Frankfurt a. M., Max Planck Institute for European Legal History, 2020.
[33] Cfr. E. Corcione, La tutela dei diritti umani nelle catene globali del valore, Torino, Giappichelli, 2024, 130.
[34] Sulle relazioni internazionali come “materia” non estensibile (e non confondibile con i contratti), oltre che separata dall’art. 11 Cost., cfr. il dibattito in V. Lippolis (a cura di), Costituzione e relazioni internazionali, in Quaderno 2022 de Il Filangieri, 2022.
[35] Sull’art. 11 Cost. come norma prescrittiva e imperativa, si v., in particolare, F. Sorrentino, Riflessioni su guerra e pace tra diritto internazionale e diritto interno, in Rivista di Diritto Costituzionale, 2004, 153-168, e M. Dogliani, M. Sicardi (cur.), Diritti umani e uso della forza. Profili di diritto costituzionale interno e internazionale, Torino, Giappichelli, 1999.
[36] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Guida sull’articolo 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Deroga in caso di stato d’urgenza, trad. it., Strasburgo, 2019.
[37] Cfr. la c.d. “causa greca”, affrontata dalla Commissione europea dei diritti umani con il suo Rapporto del 1969.
[38] Si pensi, tra l’altro, alla pronuncia delle SS.UU. Corte cass. civ. n. 3841/2007, ripresa successivamente (ord. n. 19490/2023), in base alla quale «in tema di diritto internazionale privato, l’eventuale presenza, in una determinata fattispecie, di norme di applicazione necessaria – ossia di norme della “lex fori” operanti come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto – non incide sul diverso problema dell’individuazione dei criteri dai quali dipende la competenza giurisdizionale, giacché la determinazione della giurisdizione precede sul piano logico quella della legge applicabile, non potendosi del resto presumere che la futura pronuncia del giudice straniero si porrà in concreto contrasto con la norma italiana di ordine pubblico».
[39] Nella sent. n. 86/1977, la Consulta ebbe modo di chiarire che gli interessi che giustificano il segreto «devono attenere allo Stato-comunità e, di conseguenza, rimangono nettamente distinti da quelli del Governo e dei partiti che lo sorreggono».
[40] In sintesi, cfr. F. Ghera, Art. 80, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Torino, Utet, 2006, 1559-1578.
Immagine: Dietmar Rabich / Wikimedia Commons / “Dülmen, Kirchspiel, ehem. Sondermunitionslager Visbeck, Beobachtungsturm der US Army -- 2022 -- 4452” / CC BY-SA 4.0.
Con l'introduzione nel sistema penale dell'art. 415-bis c.p. e del co. 7.1 dell'art. 14 T.U. Immigrazione, il legislatore si confronta per la prima volta con un nuovo concetto criminogeno, e quindi un nuovo tipo delittuoso: quello della "rivolta" (nelle carceri e nei centri di trattenimento per gli stranieri). La configurazione di questi reati sollecita una riflessione sulla proporzionalità dell'intervento penale, in relazione agli scopi perseguiti e ai particolari contesti di riferimento; una sollecitazione che può ben giungere al Giudice delle Leggi, chiamato a valutare, alla luce dei parametri costituzionali, il diritto penale in "rivolta".
Sommario: 1. Alla ricerca dei paradigmi originari della "rivolta" - 2. Costruire e de-costruire la "rivolta" - 3. Una "rivolta" concretamente offensiva - 4. Una "rivolta" incompatibile con i principi costituzionali. - 5. La "rivolta" condotta alle estreme conseguenze - 6. La "rivolta" degli stranieri - 7. Un diritto penale in "rivolta".
1. Alla ricerca dei paradigmi originari della "rivolta"
Con l'introduzione nel sistema penale - per mezzo del decreto c.d. "Sicurezza"[1] - dell'art. 415-bis c.p. e del co. 7.1 dell'art. 14 T.U. Immigrazione, il legislatore si confronta per la prima volta con un nuovo concetto criminogeno, e quindi un nuovo tipo delittuoso: quello della "rivolta". L'inedita adozione di tale categoria implica un aggiornamento di paradigmi normativi e valoriali consolidati: va quindi in prima battuta registrato un cambio d'approccio del legislatore al cospetto della categoria dell'ordine pubblico e della sua prospettiva di tutela, resa evidente, in particolare, nella formulazione del reato di cui all'art. 415-bis (rubricato "Rivolta all'interno di un istituto penitenziario").
A ben leggere la condotta, essa sembra rifarsi al reato di resistenza a pubblico ufficiale, poiché la "rivolta" - terminologicamente mutuata dalle rappresentazioni mediatiche delle violenze e dei tumulti che possono registrarsi nelle carceri[2] - deve commettersi «mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza». Il legislatore intende anzi allargare l'area della punibilità rispetto a questo ipotetico delitto-madre, contemplando espressamente anche ipotesi di resistenza passiva al pubblico ufficiale - che la giurisprudenza, almeno in relazione all'art. 337, tende ad escludere[3] - sulla scorta di un dettato autentico-interpretativo molto chiaro, contenuto sempre nel corpo del primo comma: «costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell'ufficio o del servizio necessari alla gestione dell'ordine e della sicurezza». Al netto di questa sostanziale divergenza casistica, su cui si tornerà, tra l'art. 337 e l'art. 415-bis v'è una identica cornice edittale massima (cinque anni); al punto da non giustificarsi la collocazione della nuova figura nel titolo V, tra i gravi delitti contro l'ordine pubblico.
L'aggancio all'ordine pubblico si svela, piuttosto, nel frammento tipico che impone il concorso necessario di «tre o più persone riunite» nella commissione degli atti di violenza o minaccia o di resistenza. È a questo punto evidente una vicinanza strutturale al finitimo reato associativo, da cui viene mutuata, quasi identicamente, la formula aggravante per coloro che, nella vicenda criminosa, assumono un ruolo di primo piano: al co. 2 è infatti prevista una circostanza aggravante ad effetto speciale per «coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta».
Con questi impliciti rimandi ad altre norme, che possono ritenersi (almeno sotto il profilo strutturale) i paradigmi originari della "rivolta", e che nel loro complesso spiegano la collocazione del reato nel titolo V, andrebbe aggiornata la tradizionale definizione di ordine pubblico, da intendersi - secondo questa nuova impostazione adottata dal legislatore - non più solo come corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, che consente alla collettività di esplicare le proprie libertà e l'esercizio dei propri diritti[4], ma anche come ferrea disciplina dentro spazi per loro stessa natura "chiusi"[5]; spazi, anzi, istituzionalmente destinati proprio al contenimento di condotte antisociali, che con un inedito ribaltamento di prospettiva possono diventare luogo di turbamento dell'ordine pubblico ("esterno"); potendosi immaginare - ma non è facile, di questi tempi, entrare nella testa del legislatore - che siano piuttosto le "notizie" che provengono dai penitenziari in cui scoppiano le "rivolte" - e quindi, più che il fatto in sé, la sua narrazione[6] - a turbare l'ordinato andamento democratico del Paese.
In definitiva, la minaccia all'ordine pubblico sarebbe da considerarsi, tra le righe di questo nuovo tipo delittuoso, in una duplice prospettiva: guardandosi ai riflessi "esterni" della "rivolta", senza però dimenticare i riflessi "interni". In una prospettiva di sistema infatti non può tacersi che il decreto "Sicurezza" abbia tra i suoi principali target l'incolumità di agenti e operatori di polizia nell'esercizio delle loro funzioni[7]: un bene giuridico sovraindividuale e trasversale a mezza via tra regolare andamento della macchina pubblica e dell'amministrazione della giustizia, e appunto l'ordine pubblico.
Questa considerazione, ove ritenuta valida, avrebbe un preciso risvolto interpretativo, dacché la "rivolta", per essere considerata ai sensi della norma penale, dovrebbe importare anche il concreto rischio per l'incolumità fisica di agenti e operatori della struttura penitenziaria. È un elemento del fatto non esplicitato nella norma[8]; nondimeno, può essere questo, a ben vedere, uno dei possibili correttivi di una fattispecie che presenta, come si dirà meglio innanzi, molteplici profili di incongruenza con i principi di garanzia.
2. Costruire e de-costruire la "rivolta"
Il concetto di "rivolta" è, dal punto di vista penalistico, del tutto inedito, sebbene venga costruito sulla scorta di categorie normative ampiamente consolidate: violenza, minaccia, resistenza, poste in essere simultaneamente da almeno tre persone riunite. La prima difficoltà interpretativa potrebbe celarsi proprio in quest'ultimo lemma, utilizzato per arricchire il fatto tipico di molte fattispecie (es. art. 609-octies) ovvero per aggravarle (es. art. 339), che indubitabilmente evoca il concorso di persone, perdipiù "rafforzato"[9]. La norma dunque richiama l'integrazione di un tipo plurisoggettivo: una fattispecie da inquadrare come reato proprio poiché le condotte sono realizzate da chi si trova all'interno di un istituto penitenziario.
Le difficoltà interpretative potrebbero sorgere proprio in relazione al particolarissimo contesto in cui la norma deve trasfondersi. Dal punto di vista empirico può dirsi che le "rivolte" carcerarie non hanno quasi mai un centro d'azione, né una premeditazione: è, come noto, attraverso il "passaparola" (anche da un braccio all'altro, da un piano all'altro dell'istituto) che i detenuti arrivano ad inscenare le più varie forme di protesta: che possono essere inscenate (quasi) simultaneamente, ma in punti distinti dell'area penitenziaria (quel che di solito accade). A dispetto infatti del nome che è stato attribuito dal legislatore, esse hanno lo scopo di segnalare un disagio collettivo, una criticità della struttura o dell'organizzazione penitenziaria, una violazione di diritti (tra i tanti che, ripetutamente, se ne registrano tra la platea dei detenuti).
Non si tratta di veri e propri "ammutinamenti", realizzati con lo scopo di evadere: non a caso, il tentativo di evasione, che era stato inizialmente inserito dal legislatore nel novero delle condotte che possono dare vita alla "rivolta"[10], è stato accortamente espunto nella versione finale del decreto "Sicurezza", forse anche tenendo conto che lo scopo della fuga fonda una oggettiva diversità nel contegno e nel proposito criminoso, rispetto a condotte finalisticamente orientate ai disordini di una "rivolta"[11]. Violenza, minaccia e resistenza, anche passiva, sono infatti condotte attive, oggettivamente apprezzabili, mentre dall'altro lato l'evasione è caratterizzata dal suo evento, anch'esso oggettivamente apprezzabile: il tentativo di evasione, che è al contrario una condotta teleologicamente caratterizzata, avrebbe invero generato non poche difficoltà di coordinamento con la norma di cui all'art. 385 e il suo tentativo.
Sicché, anche al netto del problema - tutto probatorio - dell'accertamento di un coordinamento tra i vari detenuti, di una consapevole sincronicità delle loro azioni, ci si chiede, sotto il profilo sostanziale: quei "rivoltosi" - da distinti punti, o anche in diversi momenti - possono dirsi riuniti? È chiaro che in questo caso l'istituto concorsuale dovrà essere via via raffrontato ad una realtà empirica estremamente variegata e poco conosciuta.
Tale raffronto vede alla base la distinzione tra l'evento del reato e la condotta partecipativa che, allo stesso, accede[12]: la "rivolta" necessita la simultanea convergenza delle summenzionate condotte, mentre la partecipazione ad essa, da parte del singolo, può anche essere successiva.
Il legislatore sembra quindi da un lato avere costruito la "rivolta", e dall'altro de-costruito la partecipazione ad essa, frammentandola. A considerare il modello tipico, infatti, in cui il requisito delle tre o più persone riunite si riferisce all'evento e non alla partecipazione in quanto tale, il legislatore avrebbe preso in considerazione l'ipotesi che taluno possa "partecipare" ad una rivolta già in atto (recte: accedere all'evento del reato, concorrendovi), e quindi iniziata prima, innescata evidentemente da altri: le condotte dei rivoltosi potrebbero dunque non essere sincroniche, dovendosi - o potendosi, almeno empiricamente - distinguere tra quelle che, convergendo, innescano l'evento e quelle che vi accedono, sebbene - ben lo si comprende - tale distinzione può risultare di non agevole verifica, nel disordine che fa da sfondo fattuale alla norma. Questa distinzione è tuttavia cruciale per una corretta esegesi della norma, come si dirà a breve.
In definitiva, è cruciale che l'evento "rivolta" non sia stato in alcun modo tipizzato: il suo contenuto lo si deduce, a contrario, dalla condotta di chi vi partecipa «mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all'esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza», e dal fatto che tali violenze, minacce, resistenze debbano essere commesse da tre o più persone riunite. Il legislatore sembra quindi avere scelto di configurare l'evento de-costruendolo: a partire da chi vi partecipa.
3. Una "rivolta" concretamente offensiva
Come si è detto, l'elemento esegetico da privilegiarsi deve essere quello della proiezione concretamente offensiva delle condotte, supportate da un'adeguata volontà del soggetto attivo. E a questo riguardo, e per tale ragione, non sembra configurabile il tentativo del reato di "rivolta".
È d'altronde la peculiare struttura del reato a suggerire l'inammissibilità della rilevanza per gli atti idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare una "rivolta" che, in quanto tale, non è tipizzata; il tentativo non potrebbe che attestarsi sugli atti di violenza, minaccia e resistenza (gli unici elementi definiti nel tipo), ma arretrare in tal modo la punibilità vorrebbe dire soffermarsi su condotte prive di qualsivoglia offensività; e lo stesso può dirsi per chi tenta di accedere ad una rivolta mediante atti di resistenza (tramite quindi violenza o minaccia), anche passiva. L'unico spiraglio applicativo per la configurazione del tentativo potrebbe, a ben vedere, essere dato dal numero dei rivoltosi: se è vero infatti che una volta perpetrati gli atti tipizzati (violenza, minaccia e resistenza) da tre o più persone riunite la "rivolta" si presume già in essere, potrebbe immaginarsi che il concorso di due sole persone nel compimento di questi atti dentro l'istituto penitenziario, idonei e finalizzati all'evento indicato, possa dare vita ad una ipotesi di tentativo. Anche in questo caso, però, occorre traguardare le condotte al criterio-guida dell'offensività[13]: e già in base ad una valutazione astratta potrebbe dirsi che se è fissato in tre il numero minimo di persone che, riunite nel proposito delittuoso de quo, può offendere incisivamente il bene giuridico tutelato, ogni ulteriore soluzione al ribasso - rispetto a quella predefinita dal legislatore - dovrebbe essere considerata irrilevante sul piano penale.
È ancora, come ben si vede, il bene giuridico a costituire imprescindibile parametro di valutazione: se è l'ordine pubblico il principale[14] valore tutelato, se è alla concezione più rigorosa di tale concetto che si deve aderire - per cui vanno selezionate come penalmente rilevanti solo quelle condotte che si risolvano in una concreta minaccia per la vita collettiva, dentro e fuori il carcere - è allora evidente che l'evento del reato può essere il risultato di condotte convergenti concretamente offensive, tali da determinare un turbamento della vita carceraria che non abbia solo valenza "interna" ma che, ridondando all'esterno, percepito all'esterno come vera e propria minaccia al regolare andamento della vita pubblica, vada ad intaccare l'immagine di uno Stato che ha, quali propri compiti istituzionali, quello di gestire - in un quadro dignitoso e attento ai diritti - la popolazione detenuta.
Anche al di fuori dei confini testuali, milita a favore di una esegesi restrittiva e rigorosa, che consideri soltanto le condotte concretamente offensive, il fatto che il legislatore abbia voluto specificare quali siano le modalità di resistenza passiva, ponendo l'accento sul «numero delle persone coinvolte e al contesto»: ciò evidenzia lo sforzo - in quanto tale apprezzabile - di tenere fuori dal recinto della punibilità condotte asfittiche e scarsamente pregnanti - tra le quali però permane il dubbio che il legislatore non abbia voluto trattenere quelle di mera resistenza passiva; infuse invece nella tipicità.
4. Una "rivolta" incompatibile con i principi costituzionali
Invero, solo escludendo dall'area della punibilità condotte di mera disobbedienza, solo considerando comportamenti attivi, violenti e coercitivi, la cui sommatoria vada ad incidere sul sotteso valore pubblico tutelato, come sopra specificato, potrebbero superarsi i profili di illegittimità costituzionale; che sono diversi.
Una più evidente questione di incompatibilità con l'assetto dei valori costituzionali in materia penale si pone, come si è detto, con il principio di offensività. Una volta ricostruito nei termini indicati - e aggiornata la relativa categoria - il bene giuridico dell'ordine pubblico tutelato dalla norma non può arrecarne una significativa lesione la condotta della mera disobbedienza ad un ordine impartito: non raggiungendosi, per tale via, quel minimo di offensività richiesto per l'incriminazione penale.
Un problema di ragionevolezza e proporzione della norma penale, in relazione all'art. 3 Cost., si pone poi rispetto alla differenza di cornice edittale, nella misura minima, che si registra tra la resistenza "passiva" ex art. 415-bis (1 anno) e la resistenza "attiva" ex art. 337 (6 mesi)[15]: la prima, pur potendo risultare una ipotesi astrattamente meno grave (la resistenza "passiva" è indubbiamente meno carica di disvalore della resistenza "attiva"), è punita più severamente con una pena edittale minima (che è quella presa in maggiore considerazione in sede di "calcolo" della pena) più alta. Per una interpretazione costituzionalmente orientata si dovrebbe postulare che tale surplus sanzionatorio è dettato dalla specificità del luogo, dalla convergenza delle azioni e sopratutto dalla pericolosità di chi realizza le condotte, compensandosi così un tale evidente squilibrio; quindi, per essere più chiari, dalla "specialità" della norma rispetto all'art. 337.
Eppure, percorrendo la via della specialità si avvalorerebbe ancor di più l'assunto che il legislatore abbia voluto individuare un nuovo, temibile, tipo d'autore, cui dedicare una norma ad hoc: con evidente violazione del principio di uguaglianza[16].
E ancora, fuoriuscendo dal perimetro dei principi di rilevanza strettamente penalistica, vanno segnalati anche profili di criticità rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero in quanto, come detto, alcune delle condotte astrattamente riconducibili alla fattispecie di resistenza passiva costituiscono l'unico strumento per i detenuti di esercitare la propria, seppur limitata, libertà di espressione[17], o comunque il proprio disagio rispetto a problematiche organizzative e di disciplina interna.
Ma la Costituzione viene toccata sopratutto in uno dei suoi punti più nevralgici, in uno dei principi più sensibili: quello della funzione rieducativa della pena, ai sensi dell'art. 27 co. 3, poiché associare la condizione di detenuto a specifiche condotte di reato, da perpetrarsi esclusivamente nelle carceri, vuol dire infrangere quel tabù sociale che - nonostante tutto - le considera luogo di espiazione: in cui si realizza il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena.
Oggi è quindi sdoganata per tabulas - e con previsioni di reato di particolare gravità - l'idea che le carceri siano luoghi potenzialmente criminogeni: e per converso ogni accenno di "rivolta" deve essere non solo sanzionato come già accadeva fino a ieri, e cioè attraverso le "ordinarie" ipotesi di reato e la privazione dei benefici penitenziari (d'altronde, la legge "Gozzini" del 1986, ancora oggi perno dell'ordinamento penitenziario, mira a disincentivare le condotte antisociali in carcere attraverso il meccanismo della "buona condotta", che si traduce in una riduzione del periodo detentivo), ma represso con la minaccia di (ulteriori) sanzioni detentive, da aggiungersi a quelle che il detenuto già sta scontando.
5. La "rivolta" condotta alle estreme conseguenze
Oltre ad una pena base che va da uno a cinque anni, su cui già ci si è soffermati in relazione al delitto-madre ex art. 337, si prevede da un lato un aumento - da due a otto anni - per chi promuove, organizza e dirige la "rivolta", dall'altro aggravamenti per i fatti di lesione personale grave o gravissima, ovvero di morte, quali conseguenze non volute: aumenti particolarmente elevati che stridono con il principio di colpevolezza. E non solo perché il fatto criminoso aggravato[18] da un evento non voluto risulta, da sempre, poco compatibile con i principi di garanzia[19].
La dinamica del reato de quo è, come detto, peculiare: le "rivolte" carcerarie non hanno quasi mai un centro d'azione; tanto che si è potuto distinguere tra le condotte convergenti che generano la rivolta da quella, successiva, che può accedervi.
C'è poi da aggiungere che, sempre nel peculiare contesto empirico che si sta approfondendo, l'ipotesi che sia cagionata una lesione grave, nel caos generato dalla "rivolta", quale conseguenza non voluta, non è peregrina[20]. E questo, va detto, ha un risvolto rispetto alla (astratta) prevedibilità del fatto non voluto: sulla distinzione tra profilo astratto e concreto della prevedibilità[21].
Si tratta di una conseguenza non voluta dai detenuti rivoltosi (da tutti i detenuti rivoltosi, ovunque si trovino nella struttura penitenziaria), posto che risulti chiaro il coordinamento tra di loro; una conseguenza accidentale, che tuttavia determina un notevole aggravio di pena (da due a sei anni, da quattro a dodici per i "capi" della rivolta, sempre che risulti chiaro il ruolo apicale di costoro). Laddove la "rivolta" sia fatalmente condotta alle estreme conseguenze, se a valle si registra un problema di prova (il concorso tra i detenuti, il ruolo svolto da ciascuno: proprio come se fosse un'associazione a delinquere, più o meno improvvisata[22]), a monte pesa la questione assiologica della colpevolezza del reo.
L'art. 415-bis definisce, come detto, un reato a concorso necessario, che per questo guarda alla disciplina di cui all'art. 110 ss.; eppure, quanto previsto al co. 4 è svicolato dal dettato di cui all'art. 116, che pure presenta qualche (forse blanda) garanzia di penale responsabilità per i concorrenti: il nesso di causa e il coefficiente minimo di rimproverabilità.
Perché il reato di "rivolta" è lo stesso voluto da tutti i concorrenti rivoltosi (in tal senso, come si è detto, dovrebbe leggersi il coefficiente psichico della norma), mentre il fatto non voluto - lo afferma a chiare lettere l'art. 116, che è norma di disciplina posta a completamento di tutte le ipotesi tipizzate di concorso[23] - deve comunque essere «conseguenza della sua azione od omissione»[24].
In altri termini, con la previsione del reato "diverso" e non voluto, imputato a tutti i concorrenti dentro un contesto concorsuale così ampio (l'evento "rivolta" può risultare in concreto talmente diffuso da impedire qualsivoglia convergenza di contributi causali o agevolatori), si corre il rischio di congedarsi (persino) dal rapporto di causalità; vorrebbe dire configurare una ipotesi di responsabilità oggettiva pura, da mera condotta, a prescindere dal luogo e tempo in cui è stata perpetrata, e in alcun modo temperata (come sono state temperate, nel tempo, siffatte ipotesi presenti nel codice), se è vero che la clausola di salvaguardia contemplata all'art. 116 - «ne risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione od omissione» - non è stata replicata nel corpo del co. 4 dell'art. 415-bis.
Un evento (una pena) senza colpa, né causa diretta. Si stinge così anche l'ultimo elemento che garantisce il legame - pur in termini meramente obiettivi - tra la condotta e l'evento di secondo grado: non quello che integra la norma, ma quello che la aggrava, conseguenza di condotte che possono essere d'altri, e inconoscibili.
Anche su questo punto, sopratutto su questo punto, l'unica possibile interpretazione (costituzionalmente orientata) è quella che va nel senso del recupero dell'elemento eziologico in uno con quello psichico, secondo l'impostazione fornita dalla Consulta già sessant'anni fa, allorquando veniva chiamata a "leggere" l'art. 116, richiedendovi «la sussistenza non soltanto del rapporto di causalità materiale, ma anche di un rapporto di causalità psichica»[25]: ovverosia che l'evento-conseguenza non voluta (il reato "diverso") si rappresenti nell'agente - tenendo conto delle concrete circostanze di fatto in cui egli versa - come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto[26].
6. La "rivolta" degli stranieri
Le argomentazioni spese a sostegno dell'irragionevolezza dell'ipotesi incriminatrice di "rivolta" di cui all'art. 415-bis trovano nuova consistenza laddove l'analisi si sposti sul nuovo co. 7.1. di cui all'art. 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico dell'Immigrazione): si tratta dello speculare reato di "rivolta", che si rivolge agli stranieri "trattenuti" «in uno dei centri di cui al presente articolo o in una delle strutture di cui all'art. 10-ter».
Con l'introduzione di questo nuovo reato il legislatore ha inequivocabilmente mostrato di considerare i centri di trattenimento come vere e proprie carceri[27]. Difatti, anche qui è repressa con pene altissime ogni forma di dissenso: e considerata l'esatta specularità strutturale tra l'art. 415-bis e il co. 7.1 dell'art. 14 T.U. Immigrazione, può dirsi che anche nei centri di trattenimento alcune delle condotte astrattamente riconducibili alla fattispecie di resistenza "passiva" (si pensi allo sciopero della fame, o ad altre forme di protesta non violente) costituiscono l'unico strumento per i migranti di esprimere il disagio rispetto alla propria condizione - una condizione, di fatto, detentiva, definita con l'incongrua formula della "detenzione amministrativa".
È vero: un centro di trattenimento non presenta, come ovvio, delle celle o dei bracci chiusi (ovvero dei compartimenti stagni che impediscano la piena libertà di movimento all'interno della struttura stessa): ma considerata l'ampia capienza di questi centri, anche qui è ipotizzabile la stessa dinamica empirica già descritta in ambito carcerario. È possibile, anche qui, ipotizzare che si inneschi la rivolta (per mezzo della convergenza di condotte di tre o più persone riunite, rivolte a pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio - agenti di polizia, si immagina) e che, in altri punti del centro, qualcuno vi partecipi: accedendo all'evento del reato attraverso proprie condotte.
Devono essere ripresi, dunque, tutti i ragionamenti svolti sulla (problematica) imputazione dell'evento, e degli eventi-conseguenze non volute: anche qui si può registrare una "diffusività" nella rivolta tale da non consentire una chiara affermazione della responsabilità personale del reo. Anche questo reato rischia di mettere in ombra il principio di responsabilità per fatto proprio: una responsabilità personale e non d'autore.
Molto dipenderà dall'interpretazione che andrà affermandosi - nel reato di cui all'art. 415-bis, e sopratutto in questo reato, nel cui ambito spaziale (il centro di trattenimento per migranti) si ravvisa una libertà "interna" ben più ampia di quella dell'istituto penitenziario - dell'inciso per cui «coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta sono puniti con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni», e dall'elaborazione di quali indici probatori, in un tale peculiare contesto, potranno essere utilizzati in funzione di imputazione; dipenderà anche da quanto il criterio della promozione, organizzazione e direzione riuscirà ad incidere sulle contestazioni: perché il rischio è, anche qui, che nel momento in cui si accerti un collegamento tra le proteste questo possa essere inteso come una organizzazione delle stesse: con "automatica" aggravante estesa a tutti i "rivoltosi", in questo caso stranieri.
7. Un diritto penale in "rivolta"
Le condotte trasferite nel nucleo del reato di cui all'art. 415-bis sono state mutuate dal campo disciplinare dell'ordinamento penitenziario, sulla scorta di una pericolosa eterogenesi dei fini.
Invero, alquanto singolare l'impostazione adottata dal legislatore, per cui, come si afferma nei lavori preparatori del decreto, «la descrizione delle modalità della condotta tipizza azioni già previste dall'art. 41 dell'ordinamento penitenziario»[28]: si fa riferimento a quelle condotte costituenti in «atti di violenza», «tentativi di evasione», «resistenza, anche passiva, agli ordini impartiti» (così l'art. 41 ord. pen.), rispetto ai quali è giustificabile l'impiego della forza fisica e l'uso dei mezzi di coercizione da parte del personale degli istituti penitenziari. Le - generiche - condotte di cui all'art. 41 (non riferite, si badi, a persone riunite) sono volte ad assumere una mera rilevanza interna, e regolamentare, per gli operatori di polizia penitenziaria, ed un profilo disciplinare per i detenuti; mentre oggi le si valorizza (e le si amplia con l'ulteriore elemento della minaccia, che ai sensi dell'art. 41 non giustifica l'utilizzo della forza da parte degli operatori) al fine di allargare lo spettro della penalità. La norma settoriale, regolamentare e disciplinare se si confronta con una condotta concorsuale (di più persone riunite) viene quindi elevata a nucleo di un reato di evento, a dispetto dell'ampio scarto di disvalore tra l'uno e l'altro ambito e della scarsa precisione (nell'uno e l'altro ambito) delle condotte descritte[29].
Al lume di queste considerazioni, la scelta del legislatore di introdurre una identica fattispecie di "rivolta" nei centri di trattenimento, con il minimale accorgimento di tenere più bassa la soglia massima di pena (il reato è punito con la reclusione da uno a quattro anni) risulta ancora più incomprensibile, sotto il profilo strettamente penalistico.
Sembra di poter dire che qui il legislatore abbia supplito all'assenza di un parametro disciplinare direttamente attraverso la sanzione penale. Si pensi al ruolo che, in caso di disordini scoppiati in questi centri, possono svolgere le misure cautelari. Non a caso, forse, coloro che dirigono o organizzano la "rivolta" - e già si è detto quanto potrebbe estendersi questa clausola aggravante - sono puniti con la reclusione fino a cinque anni: termine minimo che rende applicabile la misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell'art. 380 c.p.p. D'altronde, un migrante trattenuto che, organizzatore di una "rivolta", venga arrestato (anche in differita e in base all'accertamento "agevolato" di cui al co. 7-bis), sembra avere un destino, dal punto di vista procedurale, "segnato": considerando le esigenze cautelari (ed in particolare il pericolo di fuga e la reiterazione del reato), l'unica misura che potrà essere comminata è quella della custodia cautelare in carcere. Si fuoriesce così dal circuito del trattenimento amministrativo per entrare in quello propriamente carcerario.
Saltata dunque la norma "intermedia", quella cioè disciplinare attenta all'aspetto correzionale, si è approdati alla norma che reca con sé le massime conseguenze sanzionatorie, una volta ancora in tema di libertà personale. In virtù di una presunta azione deterrente, si sventola la minaccia del circuito carcerario in funzione disciplinare; e davvero può dirsi, al termine della rapida - e parimenti allarmante - ricostruzione anatomica di un nuovo tipo delittuoso, che questo diritto penale "in rivolta" si rivolge contro i suoi stessi principi fondamentali.
D'altronde, vedersi imputata la morte di qualcuno, quale conseguenza non voluta dell'azione di un altro soggetto, a fronte di una condotta anche solo di minaccia, o di resistenza passiva, realizzata altrove e in un diverso frangente temporale - con tutti i problemi di cognizione che il rapporto tra le condotte dei diversi soggetti può generare - esula abbondantemente dai confini segnati dalle garanzie legate alla materia penale, e pone al giudice un problema di sproporzione della pena, reimmettendo proprio nel circuito penitenziario il virus dell'impossibile finalità rieducativa della pena[30]; ovvero spianando la strada del carcere agli stranieri trattenuti.
Rimane quindi l'argine della riflessione sulla proporzionalità dell'intervento penale, in relazione agli scopi perseguiti e al contesto di riferimento, che dovrà essere svolta dalla magistratura chiamata ad applicare questa norma, sulla scorta del parametro costituzionale dell'offensività. Fino a quando non intervenga il Giudice delle Leggi a sanare un vulnus di costituzionalità che, nei suoi vari aspetti e profili, pare affliggere il diritto penale in "rivolta".
[1] Si tratta del d.l. 11 aprile 2025, n. 58, convertito in l. 9 giugno 2025, n. 80.
[2] Ad una ricerca speditiva, anche su web, l'uso del termine "rivolta" è sui media alquanto frequente, sempre associato ai tumulti in carcere: che pure, in molti altri paesi, viene definito "ammutinamento" - così nel Prison Security Act 1992, chapter 25, section 1 (Offence of prison mutiny) del Regno Unito. Al contrario, nella fattispecie domestica la "rivolta" potrebbe consistere nel semplice fatto di non obbedire agli ordini impartiti: «non c'è nulla di più distante tra l'etimologia del termine rivolta e la tipizzazione di cui sono stati capaci i redattori del disegno di legge» (M. Pelissero, La pervicace volontà di non affrontare i nodi dell'emergenza carceraria, in Sistema penale, 18 luglio 2024).
[3] Si guardi, da ultimo, Cass., 31 marzo 2022, n. 29614: «Integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale lo strattonare o il divincolarsi posti in essere da un soggetto onde impedire il proprio arresto, ogni qualvolta quest'ultimo non si limiti a una mera opposizione passiva al compimento dell'atto del pubblico ufficiale, ma impieghi la forza per neutralizzarne l'azione e sottrarsi alla presa, nel tentativo di guadagnare la fuga».
[4] In questi termini, A. Sessa, Tutela penale dell’ordine pubblico e teleologismo dei valori costituzionali: ambito e prospettive di un riformismo razionale, in Reati contro l’ordine pubblico, a cura di Moccia, Napoli, 2007, 7 ss.; da ultimo F. Curi, Delitti contro l’ordine pubblico, in Diritto penale. Percorsi di parte speciale, a cura di Canestrari, Torino, 2023, 263 ss.; sulle diverse sfumature che il concetto può assumere, vd. anche M. Pelissero, Le nozioni di ordine pubblico, in Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, in Trattato teorico pratico di diritto penale, a cura di Pelissero-Riverditi, Torino, 2010, vol. IV, 225 ss.
[5] Lo si afferma senza mezzi termini nei lavori preparatori del provvedimento legislativo: «viene prevista la punibilità di specifiche condotte che minano il mantenimento dell'ordine pubblico all'interno delle strutture detentive» (Relazione tecnica e illustrativa del d.l. n. 48/2025, pubblicata in Sistema penale, 16, aprile 2025).
[6] «I media sono autentici fabbricatori di realtà, o meglio produttori di una realtà parallela elaborata attraverso un second code» (V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Bologna, 2022, 20).
[7] Ne è riprova il fatto che il capo III, sotto cui è riportato l'articolo 26 del d.l. "Sicurezza" relativo al reato de quo, è rubricato significativamente "Misure in materia di tutela del personale delle forze di polizia, delle forze armate e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124".
[8] Nella norma, però, si indicano quali siano le modalità di resistenza passiva, ponendo l'accento sul contesto e quindi sul «numero delle persone coinvolte»; come infatti insegna la dottrina, la struttura del pericolo concreto passa per la descrizione della dinamica del fatto (F. Angioni, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La struttura oggettiva, Milano, 1994, 88): dinamica che poi diviene un "problema" probatorio, avendo - anche qui - la dottrina messo in guardia da «inammissibili semplificazioni probatorie» (A. Gargani, Delitti di pericolo personale e individuale. Osservazioni in prospettiva di riforma, in Legislazione penale, 9 settembre 2020, 2).
[9] Secondo il concorde avviso di dottrina e giurisprudenza, e prendendo spunto dalle altre norme che la contengono, tale locuzione evoca situazioni e concetti parzialmente differenti da quelli propri del mero concorso eventuale ed individua un reato necessariamente plurisoggettivo proprio il cui quid pluris rispetto alla mera compartecipazione criminosa ex art. 110 c.p. è costituito dal fatto che al momento e nel luogo della sua commissione i partecipanti siano "riuniti" (Cfr. G. Amarelli, Le sezioni unite si pronunciano sulla aggravante delle "più persone riunite" prevista per il delitto di estorsione, in Dir. pen. cont., 7 giugno 2012); quanto alla peculiare dinamica concorsuale, si richiede la simultanea e consapevole presenza di tutte le persone sul luogo del reato anche se non è necessario il previo concerto, bastando un accordo subitaneo o un'implicita intesa.
[10] Ne fa cenno, ripercorrendo l'iter parlamentare, C. Pasini, Il disegno di legge sicurezza e il nuovo reato di rivolta in carcere e in strutture di accoglienza e trattenimento per i migranti, in Sistema penale, 29 maggio 2024.
[11] Violenza, minaccia e resistenza, anche passiva, sono infatti condotte attive, oggettivamente apprezzabili, mentre dall'altro lato l'evasione è caratterizzata dal suo evento, anch'esso oggettivamente apprezzabile: il tentativo di evasione, che è al contrario una condotta teleologicamente caratterizzata, avrebbe invero generato non poche difficoltà di coordinamento con la norma di cui all'art. 385 e il suo tentativo.
[12] Ci si riferisce alla teoria della accessorietà, che, come noto, riesce a spiegare dal punto di vista dogmatico i casi in cui una condotta ab origine priva di tipicità si leghi indissolubilmente a quella dell’esecutore principale, mutuandone necessariamente la qualificazione giuridica; per un approfondimento di tale teoria, v., per tutti, C. Pedrazzi, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1957, passim (ora anche in Id., Diritto penale. Scritti di parte generale, vol. I, Milano, 2003, 28 ss.).
[13] Su cui, diffusamente, V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, passim; più di recente, D. Pulitanò, (voce), Offensività del reato (principio di), in Enc. dir., Annali VIII, 2015, 665 ss.; M. Donini, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in Riv. trim. dir. pen. cont., 2013, 4 ss.
[14] Indubbiamente "affiancato" da altri beni giuridici, quali ad esempio il buon andamento della Pubblica Amministrazione, che necessariamente dipende dall'incolumità fisica dei suoi pubblici ufficiali: come si è detto, l'accento su questo profilo lo si ricava in via sistematica, ma anche testualmente, come dimostrano le ipotesi aggravanti che fanno riferimento a lesioni o morte quali conseguenze non volute dai rivoltosi; ed è un profilo che preserva la necessaria rilevanza costituzionale del bene giuridico (ulteriormente) protetto, sulla scorta della nota definizione dell'illecito penale come fatto lesivo di un bene avente rango costituzionale (ci si riferisce, ovviamente, a F. Bricola, Teoria generale del reato, in Nov. dig. it., XIX, Torino, 1973, ora in Id. Scritti di diritto penale (a cura di A. Canestrari e A. Melchionda), I, Milano, 1997, 590 ss.).
[15] Va tuttavia specificato che il decreto "Sicurezza" aggiunge all'art. 337 il seguente comma: «Se la violenza o minaccia è posta in essere per opporsi a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza mentre compie un atto di ufficio, la pena è aumentata fino alla metà».
[16] È vero: il sistema riguadagnerebbe coerenza interna ove l'art. 415-bis fosse costruito in termini di specialità rispetto all'art. 337: l'approfondimento dell'offesa in luoghi "sensibili" potrebbe financo giustificare l'aumento delle pene ed una struttura sanzionatoria complessiva particolarmente rigoristica. Così, però, non è. Anzitutto, il reato di "rivolta", almeno sul piano formale, non ha quali soggetti passivi pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio: in linea teorica, la violenza o la minaccia possono essere rivolti a chiunque, mentre solo la resistenza è esercitata contro un pubblico agente che esegue «degli ordini impartiti per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza»; a riprova di ciò, la norma, mentre spiega il significato di resistenza "passiva", parla di «contesto in cui operano i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio». Il locus penitenziario, poi, non può valere quale elemento specializzante, perché pone dei limiti di carattere empirico-criminologico ma non restringe l'ambito di applicazione delle condotte incidendo sulla struttura del reato: mentre il principio di specialità, come insegnato dalla Cassazione, si fonda sul confronto tra i tipi in astratto (Cfr. Cass. Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1235, con massima rinvenibile in Dir. pen. proc., 2011, 567 ss.; Cass. Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1963, con massima rinvenibile in Dir. pen. proc., 2011, 848 ss.; orientamento da ultimo ribadito in Sez. un., 29 febbraio 2024, n. 19357).
[17] Trova a questo punto ulteriore avallo la ricognizione effettuata sul bene giuridico, dal momento che l’ordine pubblico è stato storicamente ricostruito come limite implicito alla libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelata (P. Barile, Libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1975, 16 ss.; S. Fois, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, 1957, 167 ss.; G. Zuccalà, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della libertà di pensiero, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1966, 1154 ss.).
[18] Sul piano specifico della qualificazione dogmatica degli istituti, si deve ricordare che v'è una tendenza giurisprudenziale che qualifica, in alcuni casi, come titoli circostanziati i reati aggravati all'evento, anche laddove l’evento non deve essere voluto (sebbene, nel caso di specie, considerando le diverse cornici edittali tale operazione ermeneutica appare poco praticabile); questo assetto esegetico, secondo la dottrina più attenta, avrebbe il pregio di poter emendare la sproporzione sanzionatoria attraverso il meccanismo del "bilanciamento": in questi termini F. Basile, Colpa in attività illecita, in Enc. Dir. - I tematici: Reato colposo (diretto da M. Donini), II, 2021, 142; per la qualificazione dei reati aggravati dall’evento come titolo autonomo v. G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale – Parte generale, Milano, 2021, 638.
[19] Perché variamente intriso di responsabilità oggettiva - rischiando di risultare molto intriso nel fatto come tipizzato nel reato de quo, posto al cospetto della realtà concreta: va ricordato che M. Gallo, Il concetto unitario di colpevolezza, Milano, 1951, 132 ss., giungeva financo ad escludere che la norma possa funzionare come imperativo, sia pure impersonale, nei casi di responsabilità oggettiva, mancando qui ogni riferimento essenziale della norma alla volontà dell'agente, anche solo potenziale, ai fini dell'imputazione del fatto.
[20] Si pensi al caso che potrebbe apparire più frequente: ad una "rivolta" che si realizza mediante "barricate" in prossimità delle celle, in punti diversi dell'istituto penitenziario, situazione che pertanto necessita delle risposta degli agenti penitenziari per il ripristino dell'ordine; si ipotizzi che nel rimuovere questi ostacoli l'agente, contrastato in questa operazione di rimozione dagli stessi detenuti, si produca una lesione personale grave (una lesione che determina una prognosi oltre i 40 giorni, ai sensi dell'art. 583).
[21] Cfr., per tutti, G. Forti, La descrizione dell'"evento prevedibile" nei delitti colposi: un problema insolubile?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 1559 ss.
[22] Non a caso L. Risicato, Il nuovo reato di rivolta carceraria, cit., 947, si chiede - prospettando un assetto certamente più attento al criterio della imputazione personale del fatto - se le aggravanti previste - l'avere commesso il fatto con uso di armi e avere cagionato una lesione personale o la morte - siano applicabili ai soggetti di cui al secondo comma (promotori, organizzatori o direttori) o a tutti coloro che abbiano partecipato alla rivolta.
[23] P. Pagliaro, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966, 126; D. Pulitanò, Diritto penale, parte generale, V ed., Torino, 2013, 439; F. Palazzo, Corso di diritto penale, parte generale, V ed., Torino, 2013, 510.
[24] Prendendo l'esempio classico: il soggetto che fa da palo per una rapina, con la sua condotta, ha - comunque - causalmente determinato, o perlomeno agevolato, il fatto da cui scaturisce (e poteva prevedibilmente scaturire) l'altro, più grave (es., la morte del soggetto rapinato). Il primo frammento del fatto tipico è soggettivamente imputato all’agente per dolo, mentre il secondo frammento è imputato in base ad un criterio necessariamente diverso dal dolo (così l'art. 586: morte o lesione come conseguenza di altro delitto), ma che non può che essere la colpa: segnala ancora F. Basile, Colpa in attività illecita, cit., 135, che la giurisprudenza in questi ultimi anni ha abbandonato in questo ambito il criterio, ammorbato dalla logica del versari in re illicita, della prevedibilità in astratto e ha decisamente virato verso un’indagine della prevedibilità in concreto del reato diverso non voluto.
[25] Corte Cost., 31 maggio 1965, n. 42, in Giur. Cost., 1965, 639 ss.
[26] È stato sottolineato che la descrizione dell’evento prevedibile dovrebbe includere tutte le peculiari modalità di sviluppo del nesso causale (come tali rappresentabili dal soggetto agente): la risposta positiva a tale problema appare tutt’altro che scontata, anche in una prospettiva di valorizzazione del principio di colpevolezza: così G. Piffer, Preterintenzione e reati aggravati dall'evento. Proposta di riforma dei reati dolosi e preterintenzionali contro la vita e l'integrità fisica, in Sistema penale, 18 luglio 2022, 12.
[27] Lo afferma a chiare lettere la relazione illustrativa: «l’applicazione della nuova fattispecie di reato ai soli casi di trattenimento previsti dagli articoli 10-ter e 14 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, con esclusione, pertanto, in caso di permanenza dello straniero in strutture di accoglienza, la cui natura è, peraltro, del tutto incompatibile con l’assetto ordinamentale proprio non solo degli istituti penitenziari ma altresì dei centri di trattenimento» (Relazione tecnica e illustrativa del d.l. n. 48/2025, cit.).
[28] Relazione tecnica e illustrativa del d.l. n. 48/2025, cit.
[29] «Un conto è prevedere la rilevanza della resistenza passiva in sede disciplinare, come fa appunto l'art. 41 ord. pen., un altro è stabilire in sede penale la punibilità di condotte di generica disobbedienza agli ordini impartiti: un'operazione di dubbia compatibilità con il principio di sufficiente determinatezza»: L. Risicato, Il nuovo reato di rivolta carceraria e nei centri di trattenimento per migranti - speciale Il carcere oggi: tra emergenza sistemica e prospettive necessarie, a cura di L. Risicato e F. Palazzo, in Giur. it., 2025, 950; di «pericoloso messaggio disciplinare» parla M. Pelissero, La pervicace volontà, cit.
[30] La stessa Corte Costituzionale (sent. n. 68/2012) ha affermato che «una pena palesemente sproporzionata - e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato - vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa»; questione ben illustrata in V. Manes, Introduzione ai principi costituzionali in materia penale, Torino, 2023, 206.
Il destino del pubblico ministero nel progetto di riforma costituzionale della giustizia
Sommario: 1. Introduzione – 2. Le diverse “prospettive” di pubblico ministero - 3. Obiettivi della riforma, conseguenze sistematiche e politiche - 4. Snaturamento della funzione requirente e indebolimento delle sue garanzie - 5. L’indebolimento del sistema di check and balances interno all’ordine giudiziario - 6. Scenari futuri.
1. Introduzione
Cominciamo dall’inizio. Il 10 gennaio 1947, nel corso della seduta antimeridiana della Commissione per la Costituzione - riunita in seno all'Assemblea Costituente – l’onorevole Calamandrei dichiarava di considerare il pubblico ministero come un magistrato, che deve agire secondo il principio di legalità e deve godere, al pari dei giudici, dei requisiti dell'indipendenza e della inamovibilità[1]. A questa tesi rispondeva l’onorevole Leone, affermando di ritenere che la funzione del pubblico ministero rientri nell’ambito del potere esecutivo, aggiungendo però di essere «profondamente turbato dalle difficoltà che sorgerebbero dall'accettazione della sua proposta. Facendo del pubblico ministero un organo spiccatamente dipendente dal potere esecutivo, occorrerà predisporre nella Carta costituzionale gli strumenti atti a impedire il paventato [da Calamandrei, N.d.A.] pericolo, che il principio della legalità possa essere violato». La soluzione prospettata da Leone al fine di garantire la legalità dell’azione penale, a fronte di un pubblico ministero funzionario ministeriale, consisteva nel rendere possibile, in caso di inerzia del suddetto, l’esercizio dell'azione penale da parte del giudice: soluzione evidentemente impraticabile nell'ordinamento attuale, se non a prezzo di rinunciare a quella figura di giudice terzo e imparziale, sulla quale si attaglia il sistema penale moderno; e tuttavia, rimedio pensato per prevenire ciò che anche il sostenitore della tesi che vedeva il pubblico ministero organo dell'esecutivo percepiva come un pericolo, vale a dire «che il principio della legalità possa essere violato».
Il tema della collocazione del pubblico ministero nel nostro ordinamento, ampiamente discusso dai Costituenti, si ripropone oggi nel dibattito sulla riforma proposta con d.d.l. n. 1917, attualmente in fase di discussione in Parlamento: dove deve stare, il pubblico ministero? Cosa deve rappresentare? Deve essere un funzionario di Governo, gerarchicamente dipendente dal ministro della Giustizia e dunque soggetto non soltanto alla legge, amovibile e privo (nella peggiore delle prospettive che si stanno qui delineando) delle altre garanzie che presidiano i giudici; oppure un magistrato, appartenente al pari dei giudici all’ordine giudiziario, afferente alla giurisdizione e dotato delle garanzie di autonomia e indipendenza – che, quanto alla sua funzione, massimamente si incarnano nel principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost.?
2. Le diverse “prospettive” di pubblico ministero
Ognuno dei due modelli ha conseguenze logico-sistematiche che devono essere contestualizzate nella realtà della Repubblica, senza che appaiano anche solo probabili dei modelli “misti” della funzione del pubblico ministero. Il riferimento è, in primo luogo, al grande tema obbligatorietà/discrezionalità dell’esercizio dell’azione penale: come si è detto, l’obbligatorietà stabilita dall’art. 112 Cost. costituisce garanzia di indipendenza del pubblico ministero, rispetto ai suoi organi di vertice (indipendenza interna) e rispetto agli altri poteri dello Stato (indipendenza esterna, che concerne in particolare il rapporto con il potere esecutivo); ebbene, se il pubblico ministero viene “staccato” dalla giurisdizione – e la separazione “delle carriere” realizzata mediante riforma costituzionale concretizza esattamente questo obiettivo: se così non fosse, sarebbe stato sufficiente un intervento sulla legge (ordinaria) che regola l’ordinamento giudiziario – la scelta è evidentemente quella di rompere l’unità della giurisdizione stessa. A quel punto, non v’è più ragione di ritenere che le garanzie, che tipicamente presidiano l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, si estendano anche alla magistratura requirente. E se non è più necessario che il pubblico ministero goda delle garanzie dei giudici, non si vede per quale ragione logico-sistematica dovrebbe continuare a essere obbligato all’esercizio dell’azione penale ai sensi dell’art. 112 Cost. (tanto è vero, che l’eliminazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale faceva parte della proposta di riforma costituzionale presentata dall’Unione delle Camere Penali[2]). Di lì alla sottoposizione del p.m. all’esecutivo il passo è assai breve e direi anche naturale.
3. Obiettivi della riforma, conseguenze sistematiche e politiche
A ben guardare, non v’è alcuna altra ragione che questa, alla base della riforma costituzionale in commento: se così non fosse, se la trasformazione del pubblico ministero da magistrato a funzionario amministrativo non fosse l’orizzonte (più o meno lontano) di questa proposta, che motivo ci sarebbe di separare le carriere di giudicanti e inquirenti con legge costituzionale? Quale ragione, se non quella citata, per modificare i delicati equilibri che reggono l’attuale assetto costituzionale della funzione requirente? Lo stravolgimento del modello vigente di pubblico ministero è l’elefante nella stanza che molti sostenitori della riforma non vedono o si sforzano di non vedere, forse per non essere costretti ad affrontarne le conseguenze politiche non meno che logico-giuridiche.
Veniamo dunque ad analizzare queste conseguenze: del naturale allontanamento dal principio di obbligatorietà dell’azione penale si è già detto, e mi pare che sia la prima e più importante delle conseguenze giuridiche, peraltro di matrice costituzionale (ciò anche prima e a prescindere dall’ulteriore riforma costituzionale, che sarebbe formalmente necessaria per superare la disposizione di cui all’art. 112 Cost.). Ma sono le conseguenze politiche – per intenderci: quelle che attengono all’equilibrio e alle relazioni tra i poteri e gli apparati dello Stato – che devono preoccupare maggiormente chi abbia a cuore il modello democratico disegnato dalla nostra Carta fondamentale. La riforma della giustizia (che, attenzione alle etichette, è in realtà riforma soltanto della magistratura, a funzionamento e risorse dell’apparato-giustizia invariati) non può infatti essere letta e interpretata per se stessa, ma deve necessariamente leggersi nel più ampio panorama di riforme costituzionali in programma, con particolare riferimento a quella c.d. del “premierato”: in un contesto riformatore in cui l’attuale maggioranza governativa propone di accentrare il potere esecutivo nella persona di un presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo, ancor più non sembra peregrino immaginare concreto il pericolo dell’attrazione delle Procure nella sfera di controllo del Governo, in piena espansione rispetto agli altri poteri dello Stato. E ciò, con l’ulteriore conseguenza – assai probabile perché coerente con il trend politico di cui sopra – dell’allontanamento della magistratura requirente, titolare delle indagini preliminari e dell’esercizio dell’azione penale, dal modello di ispirazione accusatoria che permea il nostro processo penale; e ancora, di un arretramento – complice la vicinanza, più o meno stretta, all’apparato governativo – verso un modello inquisitorio tipico degli Stati autoritari[3], in contrasto persino con uno dei motivi ispiratori dichiarati della riforma (l’evoluzione verso il sistema accusatorio del sistema processuale penale italiano), così come enunciato dalla relazione illustrativa il disegno di legge costituzionale. Non si tratterebbe, certo, di un ritorno al modello inquisitorio “classico”, nel quale il giudice svolgeva funzioni investigative che il nostro ordinamento attuale affida in via esclusiva al pubblico ministero, bensì dell’emergere di un modello nuovo, in cui il magistrato inquirente agisce come strumento del potere politico, secondo finalità proprie di quest’ultimo ed estranee a quelle che invece permeano il nostro attuale sistema penale: in tale contesto, il processo risulterebbe solo formalmente di stampo accusatorio, ma nella sostanza profondamente sbilanciato a favore di un organo d’accusa non più indipendente né imparziale (tenuto, cioè, a sviluppare le indagini acquisendo anche elementi a favore dell’indagato, e il cui obiettivo non è la condanna ma la ricostruzione della verità processuale). Sul punto, giova comunque evidenziare come non esista in realtà un modello accusatorio ideale, cui il nostro sistema processuale dovrebbe tendere e che la riforma in commento dovrebbe finalmente realizzare[4]: l’unico sistema cui far riferimento è quello vigente nel nostro ordinamento, vale a dire un sistema “misto”, nel quale il pubblico ministero e il giudice sono molto ben distinti sul piano funzionale; in un sistema siffatto, non si vede la necessità – giuridica - di distinguere le due figure anche dal punto di vista ordinamentale[5].
4. Snaturamento della funzione requirente e indebolimento delle sue garanzie
L’obiezione che più frequentemente viene opposta alle sopra esposte considerazioni è rappresentata dall’assenza, nel testo della riforma, di qualsiasi riferimento a una possibile transizione del pubblico ministero sotto l’egida dell’esecutivo; e lo stesso ministro proponente si cura di evidenziare più volte (forse troppe?), nella relazione illustrativa, che il disegno di legge lascia immutata la indipendenza della magistratura requirente, fino a dichiarare – in una sorta di excusatio non petita – che “la separazione delle carriere non intende in alcun modo attrarre la magistratura requirente nella sfera di controllo o anche solo di influenza di altri poteri dello Stato, perché anche la magistratura requirente rimane parte dell’ordine autonomo e indipendente, com’è oggi, al pari della magistratura giudicante”[6]. Che il rappresentante del Governo si sia sentito in dovere di tranquillizzare gli interpreti circa il destino del pubblico ministero, non basta certo a sedare le preoccupazioni fin qui espresse; ma al di là di questo, e al di là delle intenzioni dichiarate dai proponenti, deve osservarsi come lo snaturamento della funzione requirente stia proprio nella logica di questa riforma, che come abbiamo detto distrugge il modello unitario di giurisdizione – e lo fa perché è legge di modifica dell’assetto costituzionale della magistratura, e non di mera separazione delle carriere come il titolo vorrebbe far pensare – aprendo la via agli scenari sopra evocati.
Del resto, la preoccupazione circa le conseguenze dell’indebolimento costituzionale delle garanzie del pubblico ministero apparteneva già alle discussioni svolte in seno all’Assemblea Costituente: nella seduta citata all’inizio del presente scritto, alla dichiarazione dell’on. Leone secondo cui sarebbe stato sufficiente dire che il pubblico ministero fa parte della magistratura (senza, quindi, che ne venissero definite le garanzie di autonomia e indipendenza), il Presidente Conti replicava che il problema “sarebbe risolto solo in parte, perché un codice di procedura penale potrà sempre dare delle norme per le quali il pubblico ministero sia agganciato in qualche modo al potere esecutivo”, ricordando altresì che “molti artifici sono stati adoperati per valersi del pubblico ministero secondo il capriccio dei ministri”.
5. L’indebolimento del sistema di check and balances interno all’ordine giudiziario
La lettura del progetto che si sta delineando, viene, a mio avviso, rafforzata dall’introduzione a opera del d.d.l. di un doppio Consiglio Superiore della Magistratura, uno per la magistratura giudicante e uno per la requirente. Con lo sdoppiamento dell’organo costituzionale di autogoverno, accompagnato dall’introduzione del sorteggio come metodo di selezione dei membri togati[7], si otterrebbe, da un lato, un generale indebolimento dell’ordine giudiziario (il che, come già rappresentato, pare essere uno degli obiettivi nemmeno troppo nascosti della riforma), e dall’altro un rafforzamento di quello che è stato autorevolmente definito «un corpo separato e autoreferenziale di accusatori, sempre più astretti a un vincolo di risultato, la condanna, lontani dall’idea dell’imparziale applicazione della legge, che si addice invece a un organo di giustizia immerso totalmente nella cultura della giurisdizione»[8] . L’allontanamento del pubblico ministero dalla giurisdizione porterebbe insomma la magistratura requirente, che a quel punto sarebbe svincolata dal contrappeso di quella giudicante anche sul piano dell’autogoverno, a espandere in modo incontrollato il proprio potere d’accusa, in tal modo facendo sorgere la necessità di ricondurla nell’alveo di una responsabilità politica, il che può realizzarsi attraverso due strade: l’elezione dei rappresentanti la pubblica accusa da parte dei cittadini (modalità del tutto estranea al nostro sistema ordinamentale, e di improbabile realizzazione), o la riconduzione del “corpo” requirente sotto il controllo del ministro della Giustizia, quindi sotto l’egida del potere esecutivo.
6. Scenari futuri
Le prospettive qui tratteggiate sono certamente a lungo termine, e quelli descritti non saranno effetti immediati della riforma; e tuttavia, quando si mette mano ai cardini dell’impianto costituzionale, modificando l’assetto di uno dei tre poteri dello Stato, occorre ragionare tenendo lo sguardo sugli orizzonti lontani – lontani, ma già perfettamente visibili - non limitandosi alla visione miope dei dettagli vicini. E guardando lontano, appare chiaro all’interprete che, se la riforma costituzionale entrasse in vigore, il destino del pubblico ministero sarebbe di divenire organo dell’esecutivo, con un inaccettabile ritorno al passato: è, infatti, sufficiente qui ricordare che la figura vigente di pubblico ministero è stata scelta dai Costituenti per evitare che le funzioni requirenti potessero essere piegate alle volontà dei futuri governi, come era sistematicamente accaduto con il governo allora appena passato[9]. Da pubblico ministero, e da cittadina della Repubblica, l’orizzonte mi appare insomma denso di nubi.
[1]Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Seconda Sottocommissione, Resoconto sommario della seduta antimeridiana di venerdì 10 gennaio 1947, in Atti dell’Assemblea Costituente, www.camera.it.
[2] Il riferimento è alla proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare n. 4723, presentata il 31 ottobre 2017 dall’Unione delle Camere Penali, e ripresentata nel corso della XVIII Legislatura (Atto Camera n. 14), www.camera.it.
[3]S. Bartole, La separazione delle carriere, Lettera AIC, in Rivista AIC, 10/2024.
[4]M. Gialuz, Otto proposizioni critiche sulle proposte di separazione delle magistrature requirente e giudicante, in Sistema Penale, 9/2024.
[5]Il modello a cui guardano i fautori della riforma è, in realtà, quello statunitense, nel quale tuttavia il pubblico ministero ha un potere tale, che la giustizia penale si presenta come antiprocedura : un sistema in cui il processo è del tutto residuale rispetto al plea bargaining, la giustizia negoziata tra le parti, in cui evidentemente l’avvocato dell’accusa (che rappresenta l’interesse pubblico all’azione penale) ha un peso “contrattuale” di gran lunga maggiore rispetto alla sua controparte privata. La riforma costituzionale in commento non risolve (e sembra, anzi, favorire) questo trend dell’aumento di potere dell’accusa. Cfr., sul sistema penale statunitense, V. Fanchiotti, La giustizia penale statunitense. Procedure v. Antiprocedure, Giappichelli, Torino, 2022.
[6] Relazione illustrativa al disegno di legge costituzionale n. 1917, presentato il 13 giugno 2024 alla Camera dei Deputati, www.camera.it.
[7] Sul punto, cfr. M. Romanelli, La separazione delle carriere, tra ragioni apparenti e ragioni reali. I perché di un no, in Sistema Penale, 20 febbraio 2025, secondo il quale «il sorteggio esprime valori diversi da quelli propri della democrazia costituzionale e il CSM diventa a maggior ragione mero organo di amministrazione/gestione in senso stretto, non più l’organo costituzionale preposto alla tutela dell’autonomia e indipendenza della magistratura, come è fatto proprio dall’art. 104 Cost.».
[8] G. Silvestri, Memoria relativa all’audizione informale dinanzi all’Ufficio di Presidenza della Commissione Affari Costituzionali del Senato, avente a oggetto i d.d.l. nn. 1353 e 504 (Ordinamento Giudiziario e Corte Costituzionale), 25 febbraio 2025, www.senato.it.
[9]V. anche M. Barcellona, La riforma della magistratura, il potere e la democrazia, in Questione Giustizia, 18 marzo 2025, per quanto riguarda lo scontro ideologico tra i diversi modi di concepire la giurisdizione «come esercizio di un potere indipendente e alternativo o […] una giurisdizione qual è definita dall’art. 101 Cost., ossia una funzione esercitata nel nome del popolo e per il popolo, per garantire i diritti e le libertà a esso conferiti dalle leggi contro gli abusi e le sopraffazioni del potere, pubblico o privato che esso sia».
Immagine: Giovan Francesco Barbieri detto Guercino e bottega, Allegorie della Giustizia e della Pace, Prima metà del XVII sec., olio su tela, Padova, Museo d’Arte Medievale e Moderna (Musei Civici agli Eremitani).
Ci ha improvvisamente lasciati Vladimiro Zagrebelsky, magistrato fin dagli anni ’70, componente del CSM nel 1981-85, Presidente della prima Commissione e quale componente della Sezione disciplinare estensore della sentenza sui magistrati iscritti alla P2, Direttore dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia, Giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, autore di opere giuridiche fondamentali e pubblicista che fino a pochissimi giorni fa ha orientato con parola chiara l’opinione del Paese sui temi attuali e controversi della giustizia.
Lo ricordiamo per il contributo che ha dato al Movimento per la Giustizia fin dal suo esordio. Nei momenti cruciali della vita del Movimento la voce di Vladimiro è stata insostituibile per la capacità di indicare quella linea della ragione che giunge a conclusioni nitide e taglienti attraverso la conoscenza serena ed equilibrata dei fatti.
In tutta la vita Vladimiro è stato un grandissimo punto di riferimento per la Magistratura italiana testimoniando che la rettitudine e la coerenza dei comportamenti è il fondamento dell’essere giudice.
Tra i più autorevoli autori di Giustizia Insieme Lo vogliamo ricordare richiamando all'attenzione dei nostri lettori alcuni dei Suoi articoli:
La libertà di espressione e l’imparzialità.
Giudici che dispiacciono. Come liberarsene.
L’Unione Europea e lo Stato di diritto. Fondamento, problemi, crisi.
La resa dei conti e la reazione della magistratura.
Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte.
Il ricordo di Marcello Basilico: Ciao Vladimiro, uomo del diritto e dell'istituzione
Un giurista a tutto tondo, una persona e un magistrato con una sola immagine ovunque lo si guardasse, qualunque ruolo rivestisse. Lo ricordiamo attraverso i passaggi di una memorabile sentenza, che diede onore al Consiglio Superiore della Magistratura in uno dei momenti più drammatici della nostra storia repubblicana.
Vladimiro Zagrebelsky è stato uomo del diritto, diritto vissuto a trecentosessanta gradi. È stato giudice e pubblico ministero, procuratore della Repubblica, giudice della Corte EDU per nove anni, protagonista dell’associazionismo giudiziario e animatore dagli albori del Movimento per la giustizia, autore di commentari e opinionista editoriale, docente memorabile per studenti universitari e formatore appassionato di giovani magistrati.
Ognuno di questi aspetti compone la figura di una persona di spessore umano e culturale ineguagliabile e, pur tuttavia, semplice. In ogni suo ruolo, Vladimiro mostrava tratti unici e riconoscibilissimi: l’essenzialità della parola, il rigore logico, l’autonomia morale, la disponibilità a un dialogo che fosse impostato sulla serenità della relazione interpersonale, la lucidità nell’individuazione della soluzione più chiara e onesta. Dei molti modi in cui lo si potrebbe ricordare, dunque, non ne vedo alcuno che potrebbe oscurare una parte della sua poliedricità.
D’accordo con una persona amica, che ha condiviso con lui le ultime giornate e le ultime ore della sua vita, ho scelto quindi un momento specifico tra i moltissimi: quello in cui si trovò, quarantaduenne, a redigere la sentenza di condanna di alcuni colleghi per l’iscrizione alla Loggia P2, quale componente della sezione disciplinare del CSM.
La sentenza porta la data del 9 febbraio 1983. Si era nella consiliatura 1981-1985. Vladimiro sarebbe stato poi rieletto al CSM nel quadriennio compreso tra il 1994 e il 1998.
Della vicenda P2 il Consiglio si occupa inizialmente per la procedura di trasferimento d’ufficio dei magistrati che erano nelle liste. L’8 marzo 1982 inizia il procedimento disciplinare; la sezione si avvale della richiesta di rinvio a giudizio pervenuta dal procuratore generale della Cassazione, degli atti dell’ufficio istruzione di Roma e del fascicolo giunto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta.
Quattordici sono i magistrati incolpati di avere “fatto parte dell’ associazione segreta, compromettendo così il prestigio dell’Ordine Giudiziario e rendendosi immeritevoli della fiducia e della considerazione di cui deve godere il magistrato”. Due di loro, Domenico Pone ed Elio Siggia, saranno rimossi; altri otto saranno condannati a sanzioni conservative comprese tra la perdita di anzianità con trasferimento d’ufficio e l’ammonimento; tre saranno prosciolti, mentre nei confronti dell’ultimo l’azione disciplinare sarà dichiarata non proseguibile per avere egli lasciato nel frattempo l’ordine giudiziario. Altri ne erano usciti già in precedenza.
La sentenza, lunga 161 pagine, viene pronunciata il 9 febbraio 1983 e depositata il 16 marzo successivo, meno di quaranta giorni dopo. Occorreva dare un segnale di efficacia e il Consiglio riuscì a darlo tanto nella gestione del dibattimento quanto nella stesura della motivazione.
Il caso volle che il suo deposito sia avvenuto il giorno prima della sentenza di proscioglimento del consigliere istruttore di Roma Ernesto Cudillo, pronunciata su conforme richiesta del procuratore della Repubblica, Achille Gallucci [1].
La decisione traccia un quadro della P2 e dei suoi legami con la magistratura ben più allarmato di quello delineato dai giudici romani. Essa si segnala in particolare per l’affermata esistenza di un divieto generale – per tutti i magistrati così come per ogni pubblico dipendente – di adesione a una società segreta (pur in difetto allora di una norma espressa [2]), per l’attendibilità delle liste sequestrate a Castiglion Fibocchi (di cui aveva invece dubitato il procuratore Gallucci), per l’esame analitico delle singole posizioni in relazione all’iscrizione effettiva, per la ricostruzione del programma a breve e medio termine della Loggia [3].
Per il perseguimento degli obiettivi in materia ordinamentale il programma fa affidamento espresso sulla presenza di una forza interna “(la corrente di magistratura indipendente dell’ANM) che raggruppa oltre il 40% dei magistrati italiani su posizioni moderate” [4]). Sebbene alcuni degli incolpati siano effettivamente iscritti a quella corrente e uno, Pone, ne sia il segretario generale, la sentenza fornisce una ricostruzione equilibrata sullo specifico legame accertato, sia perché esso era rimasto a livello di vertice, stante la sua improponibilità al gruppo di magistrati nel suo complesso, sia perché nella P2 erano stati reclutati anche magistrati aderenti ad altre correnti.
La Relazione parlamentare Anselmi, approvata a larga maggioranza dalla commissione il 10 luglio 1984, si schiera dalla parte del CSM. Mentre rivolge critiche severe alle decisioni della magistratura ordinaria, mutua diverse argomentazioni esposte nella sentenza disciplinare.
A Vladimiro Zagrebelsky si deve dunque anche questa pagina eminente di rigore istituzionale. La vicenda P2 aveva acceso scontri istituzionali senza precedenti. Si temeva anche lo scioglimento del CSM, dato il numero e l’autorevolezza dei magistrati che erano stati investiti dal ciclone. La sentenza della sezione disciplinare pose invece le basi per una rinnovata fiducia nei confronti della giurisdizione.
Alla pagina 65 della motivazione si legge che “il Procuratore Generale, concludendo la sua requisitoria, ha ricordato come la vicenda della P2 presso altre amministrazioni, di non minore rilievo della magistratura, sia stata «cloroformizzata». Si tratta di osservazione che non voleva avere e non ha efficacia esemplare, nel momento in cui la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura è chiamata ad esprimere, anche con la irrogazione di sanzioni disciplinari, i valori propri dell’Ordine giudiziario e deve, nei limiti della propria responsabilità, dare applicazione alle norme deontologiche che, per i magistrati, sono stabilite dalle leggi della Repubblica e, in primo luogo, dalla Costituzione”. Gli altri, insomma, agiscano secondo i valori che meglio ritengono. I magistrati non possono deflettere dai propri, a cominciare da quelli costituzionali.
Nel leggere quelle parole inequivocabili sembra di sentire ancora la sua voce, di vedere i suoi occhi cerulei che ti guardano, riflettendo l’evidenza della rettitudine. Chi di noi ha avuto a fianco Vladimiro è stato un privilegiato.
Il testo che alleghiamo rappresenta un documento storico, poiché riporta il dattiloscritto originale della sentenza del 9 febbraio 1983 della sezione disciplinare del CSM, con i doverosi omissis. La versione integrale si trova comunque pubblicata [5].
[1] L’annotazione è di E. Bruti Liberati, in Magistrati e società nell’Italia Repubblicana, 2018, Laterza, 178.
[2] Solo con la risoluzione del 22 marzo 1990, il Consiglio superiore della magistratura determinerà a esprimersi in termini generali sull’incompatibilità tra l’iscrizione o l’appartenenza dei magistrati alla massoneria o ad associazioni che pongano vincoli di condotta agli aderenti. Verrà poi la riforma dell’ordinamento giudiziario, con l’art. 3, co. 1, lett. g, d. lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, a qualificare espressamente come illecito disciplinare la partecipazione del magistrato “ad associazioni segrete o i cui vincoli sono oggettivamente incompatibili con l'esercizio delle funzioni giudiziarie”.
[3] Per la P2, le modifiche più urgenti, in materia di ordinamento giudiziario, “investono:
- la responsabilità civile (per colpa) dei magistrati;
- il divieto di nomina sulla stampa i magistrati comunque investiti di procedimenti giudiziari;
- la normativa per l’accesso in carriera (esami psicoattitudinali preliminari);
- la modifica delle norme in tema di facoltà libertà provvisoria in presenza dei reati di eversione – anche tentata – nei confronti dello Stato e della Costituzione, nonché di violazione delle norme sull’ordine pubblico, di rapina a mano armata, di sequestro di persona e di violenza in generale”.
Sono ritenuti invece “obiettivi di medio o lungo termine:
– unità del Pubblico Ministero (a norma della Costituzione – articoli 107 e 112 ove il P.M. è distinto dai giudici);
– responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull’operato del P.M. (modifica costituzionale);
– istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti, con abolizione di ogni segreto istruttorio con i relativi e connessi pericoli ed eliminando le attuali due fasi di istruzione;
– riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento (modifica costituzionale);
– riforma dell’ordinamento giudiziario per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati, imporre limiti di età per le funzioni di accusa, separare le carriere requirente e giudicante, ridurre a giudicante la funzione pretorile;
– esperimento di elezione di magistrati (Costit. art. 106) fra avvocati con 25 anni di funzioni in possesso di particolari requisiti morali”.
[4] Sarebbe quindi “sufficiente stabilire un accordo sul piano morale e programmatico ed elaborare una intesa diretta a concreti aiuti materiali per poter contare su un prezioso strumento, già operativo nell’interno del corpo anche al fine di taluni rapidi aggiustamenti legislativi che riconducano la giustizia alla sua tradizionale funzione di elementi di equilibrio della società e non già di eversione”.
[5] In Cass. Pen. Mass., 1983, 750 segg.
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